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Saturday, June 21, 2025

GRICE ITALO A-Z S SA

 

Luigi Speranza -- Grice e Sacheli: all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- implicatura axio-fenomenista dei parnasesi – la scuola di Canicatti -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Canicattì). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Canicatti, Girgenti, Sicilia. Studia a Caltanissetta. Iniziato in massoneria nella loggia Cavallotti di Girgenti. Si laurea a Palermo sotto Colozza e Guastella. Insegna a Bologna, Girgenti, Caltanissetta, Bressanone, Genova, Cagliari e Messina. Con i suoi saggi da un apporto all'approfondimento all'interpretazione della filosofia di AQUINO. "La carità del natio loco" lo spinge a scrivere sulle tradizioni, i miti e le leggende di Canicattì, collaborando con Sicania e pubblicando i risultati delle sue ricerche nelle Linee di folklore canicattinese, Acireale, Popolare. Altri saggi: Indagini etiche: i criteri, il problema dell'etica, Milano, Sandron; Atto e valore, Firenze, Sansoni – cf. H. P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE, ACTIONS AND EVENTS --; Ragion pratica: preliminari critici, Firenze, Sansoni; Crisi della pedagogia, Roma, Perrella; Concetto di didattica, Messina, Anna; Ottaviano, Sophia: rassegna critica di filosofia e storia della filosofia, MILANI,  Gnocchini, “L'Italia dei Liberi Muratori”. Erasmo, Ferrante. . (in famiglia Lilli) nacque a Canicatti (in provincia di Girgenti) da Vincenzo S. ' e da Calogera Luzzina Rinaldi in Via Massimo D'Azeglio -- non ricordo il numero civico, ma si tratta della seconda casa a sinistra, venendo da li putieddri. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Diega, maestra elementare, che sposa il collega Ferrante (i genitori della biografa), Graziella, anch'essa maestra, nubile, Calogero Antonio, o Lilli e, ultimo della nidiata, Agostino, professore di filosofia come il fratello, che sposa la professoressa Anita Grifoni. Rimasto orfano del padre a 13 anni, dopo le elementari frequentate a Canicatti, compi gli studi ginnasiali e liceali a Caltanissetta, ospite di uno zio matemo ivi residente, e quelli universitari a Palermo, nel cui ateneo consegue a pieni voti la laurea in  filosofia. Ha insigni maestri come GUASTELLA (vedasi), Colozza (vedasi), Gentile (vedasi), ricordati con profonda commozione nella prolusione ‘L’alterità,’pronunziata a Genova quando inizia la carriera accademica come libero docente succedendo nella cattedra a Benzoni.  Sua prima sede d'insegnamento fu Bologna. probabilmente alle Normali (odierne Magistrali), non so presso quale Istituto. Viene trasferito a Girgenti, svolgendo la a sua attività alle Normali e al Liceo  "Empedocle".  Gli anni agrigentini furono molto proficui. Pubblicò, fra l'altro, Fenomenismo – il saggio con cui esordisce come filosofo --, legato alla libera docenza. È pure del periodo agrigentino la profonda amicizia che lo lega a Ficarra, Arciprete di Canicatti, divenuto subito dopo la seconda guerra mondiale vescovo "scomodo" di Patti. Dovevano pubblicare in collaborazione l'Agostino, che non fu mai dato alle stampe per ostilità politiche. S. e un autodidatta: uomo di grande cultura, caritatevole, con la sua probità e il suo ingegno divenne direttore delle regie Sscuole Toniche del paese. Lascia la famiglia disperata, ma la vedova continua con grande coraggio l'opera  educativa iniziata dal manto e da al roli una sidemazione adocuata e stable. E anche poeta. m. possiedo poco dei suoi scritti. A lui si deve Fior di passione, poemetto dedicato alla prima moglie Emetina Gamberi, e una nocsia Charitas, letta nel Trattenimento letterario" svoltosi presso la Regis  Scuola Tecnica di Canicatti per raccogliere offerte a beneficio dell'Ospedale del luogo. C'è ancora una poesia dedicata alla Madonna che trovasi nella Chiesa della Badia Risale al 1925-26 il suo trasferimento al Liceo di Caltanissetta, dove, in  conformità alla riforma Gentile, insegna filosofia, storia ed economia politica.  Dopo un riposo forzato, dovuto ad una grave malattia, riprende la sua attività educativa al Liceo della salubre Bressanone. Qui conosce la collega Emma (Mima) Gatti, genovese, sua futura sposa. Il matrimonio ha luogo dopo il loro passaggio di sede a Genova, dove esercitano la loro brillante carriera al Liceo "Doria" (lei insegna matematica e fisica, lui filosofia, storia ed economia.  Il periodo vissuto a Genova e intenso e ricco di soddisfazioni. Il grande maestro inizia qui l'attività accademica come libero docente. Più tardi, raggiunge da titolare la cattedra al Magistero di Cagliari e nello stesso anno è insignito del premio dei Lincei. Lo troviamo a Messina alla Facoltà di Magistero, di cui fu Preside  (solo a titolo di curiosità, si ricorda che  Sciascia e suo allievo). Dopo lunghi anni di separazione, viene a Genova con la moglie e la cognata per riabbracciarei, ma al suo ritomo a Taormina, dove con i familiari aveva preso residenza per sfuggire ai bombardamenti di Messina, muore.  Non partecipa alla prima guerra mondiale perché affetto da forte miopia, ma ne segui gli eventi: infatti, in occasione dello scoprimento di una lapide commemorativa dedicata agli studenti del Liceo "Empedocle" periti per la patria, pronuncia un vibrante discorso dal titolo Vitai lampada.  Nell'estate passa buona parte delle vacanze a Canicatti accanto alla mamma paralitica. Nello stesso tempo s'intrattene con gli amici Foto Tropia, lAvv.  Sammartino, il farmacista Diego Cigna, Carmelo Pellegrino - per nominame solo alcuni  - che avevano costituito il Parnaso Canicattinese.  Nell’anniversario della sua prematura scomparsa si tenne a Palermo una serie di conferenze dei filosofi CARAMELLA (vedasi), Albeggiani, Attisani e Bianchi sulla sua filosofia pensiero, seguite da un dibattito e da una bibliografia. Nella stessa occasione e consegnato, da parte di una delegazione dell'Amministrazione comunale di Canicatti, al  Sindaco di Palermo un ritratto - olio su tela - del grande filosofo, da collocare nel Famedio, la galleria dei siciliani illustri che adoma la Biblioteca Comunale di Palermo. Infaticabile studioso e affascinante educatore, e un uomo trasparente, saggio e, nella vita familiare, allegro ed anche... arguto. Al suo vasto sapere uni il culto dei genitori e dei familiari. Prova ne sia che, per suo espresso desiderio, riposa nel Cimitero di Canicatti accanto al padre e alla madre. L'epitaflio del monumento che raccoglie le loro spoglie - dettato dall'insigne filosofo Carabellese, al quale Sacheli era legato da amicizia fraterna sin da quando si trovava a  Bressanone - compendia il suo credo.  Da alle stampe molte saggi e un gran numero di articoli pubblicati su varie riviste. Della sua filosofia è ancora da segnalare che se ne sono occupati molti eminenti scrittori. Vanno ricordati a proposito due articoli apparsi pochi anni fa: uno di  Rocchi, “Valore ed alterità,” in "Labor", e l'altro di Podestà, “Axio-fenomenismo e giudizio morale,” presentato dal Consiglio Direttivo nella riunione plenaria sugli  Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere. Podestà era stata sua allieva nel primo anno di insegnamento accademico. Giuseppina Ferrante  derad vacca of vanzcase  ? L'etemo  senti  norsa dell'umano costume.  lo indagò fervido, lo insegnò deciso trepido lo visse amando in dedizione assoluta. .  1939-1989: fa esattamente mezzo secolo da quando Calogero Angelo Sacheli prestava il suo insegnamento di filosofia morale presso la facoltà di lettere, a conclusione del suo periodo universitario genovese.  Egli fisso proprio allora a Genova un punto culminante del suo pensiero che pertanto merita di essere rievocato negli Atti dell'Accademia  Ligure di Scienze e Lettere nella ricorrenza del cinquantenario del corso.  Sacheli, come filosofo e pedagogista aveva esordito nella nativa Si-cilia: dallo studio universitario a Palermo, sino al primo insegnamento a Girgenti, dove conto tra gli amici l'inconvenzionale Parroco Angelo Fi-carra che sarebbe poi divenuto lo scomodo Vescovo di cui parla Sciascia in «Dalla parte degli infedeli». Sviluppò quindi il suo itinerario filosofico durante gli anni della prima guerra mondíale, nell'ansia della ri-cerca, sino al trasferimento (conseguente alla malattia) nel salubre clima di Bressanone (*), dove lo confortò l'amicizia dell'avvocato Carabel-lese e del di lui fratello filosofo, nonchè la gioia dell'amore e delle nozzecon Mina, la docente di matematica del locale liceo, quando egli vi insegnava filosofia, fino allo spostamento sul Tirreno a Genova, città natale della moglie. A Genova Sacheli portò all'acme la sua riflessione sullo axiofenomenismo, incentrandolo nell'eticità.  La sua concezione della conoscenza propone un fenomenismo dove la gnoseologia è empiristica e l'ontologia problematica, ossia critica, in profondità di pensiero e concretezza d'esperienza.  Per fondare il suo empirismo assiologico, da una parte Sacheli risale a Hume a all'associazionismo delle sensazioni, dall'altra a Berkeley e al suo «esse est percipi». Senonchè la percezione viene sottolineata dal Nostro come fatto soggettivo attivo, in sintesi con l'oggetto nell'atto im-mediato. Nello sviluppo della valutazione critica ogni giudizio ha un valore che pretende all'universalità per le connessioni su cui si fonda e che instaura a tre successivi livelli: empirico immediato, epistematico, morale.  Della filosofia sacheliana trattarono ampiamente il Congresso di Messina del 1948 e quello celebrativo del decennale della morte, del 1957 che in Sicilia approfondirono l'interpretazione del pensiero sacheliano. Là Caramella (), Albeggiani, Attisani misero in luce l'autenticità del pensiero sacheliano orientato nelle dimensioni della filosofia e della pedagogia, che aveva preso le mosse dalla scuola del Collotta e del Guastella ().  Per ragioni contingenti, meno generoso nella rievocazione di questo autore, venuto a mancare a Messina nell'immediato dopoguerra, (1946), fu l'ambiente genovese: di qui l'opporunità della presente rievocazione.  Ispirato da istanze assieme positivistiche e moralistiche, egli rifiuta l'etica aristotelica aggiogata al carro della logica deduttiva da lui considerata ormai «defunto scheletro nell'armadio». Per contro risponde all'appello morale ed educativo, avvertito come istanza primaria, da lui considerato nel rigore giansenistico (già presente nell'Agrigentino dei secoli XVII e XVIII (*)) e accostato al romanticismo spontaneistico dell'ottocento risorgimentale che della Sicilia aveva segnato il risveglio.  E di conserva considera come irrinunciabile l'epistemologia empiristica: da quella inglese a quella del suo Maestro Guastella.  Linea parallela in questo sviluppo di pensiero è segnata dalle istanze socialiste. Come giustamente sottolinea Santino Caramella, già nel periodo siculo Sacheli aveva avvertito il passaggio dalla cultura contadina a quella industriale, al momento dell'imporsi dei nuovi strumenti acquisiti alla vita quotidiana dal progresso della tecnica nonchè al prospettarsi del nuovo rapporto sociale. Di qui la necessità di un nuovo incontro tra gli uomini e la realtàProprio per questo il filosofo si impone il proprio compito sulla via della più rigorosa epistemologia, sino all'emergere della preminenza della vita morale, e sviluppa il massimo interesse per l'eticità del singolo, perchè ogni individuo si possa trasformare in persona e l'insieme delle persone possa costituire un tessuto sociale di gente responsabile, capace di scelte e di creatività. Lo studio della religione, il problema dell'edu-cazione, la critica del giudizio, la ragion pratica, sono pietre miliari che contrassegnano i momenti succedentisi del pensiero sacheliano: a ciascuno di tali momenti corrisponde la pubblicazione di un'opera sino al conferimento dell'incarico all'Università di Genova della Cattedra di Filosofia Morale.  Già al momento iniziale per via di riflessione Sacheli sottolinea come la soggettività empirica precritica implichi per se stessa una oggettività intima, proprio quando gnoseologia ed ontologia a livello empirico si manifestano nello sforzo delle plebi di prendere coscienza della realtà. Nella conoscenza dell'esperienza esse presuppongono  la verità  Per esse la connessione temporale oggettiva si realizza nel ragiona-  mento induttivo che si fonda sulla certezza di tipo empirico.  Nell'apogeo del positivismo, procedendo per sviluppi successivi, le sintesi delle scienze positive costituiscono serie di sintassi empiriche, fondate sulle leggi con connessioni costanti, mentre quelle matematiche  risultano essere sintesi logiche.  Per contro, sviluppando il rapporto idealistico tra soggetto ed og-getto. la sintesi dialettica tra essere e non essere falsamente riduce all'identità l'essere e il non essere; dove il non essere è solo concetto fittizio e quell'identificazione un inganno.  Per queste vie Sacheli riprende le ragioni della fenomenologia del  Guastella, suo maestro a Palermo, con l'asserzione che irrinunciabile è l'empirismo solo se il fenomeno risulta un atto, un valore, ossia un dover essere: (axiofenomenismo) in una fenomenologia del valore. In questo passaggio dall'empirismo acritico alla fenomenologia del valore si evidenzia innanzitutto la modalità del procedimento logico per vie in-  duttive. Nello sviluppo critico solo a questo punto per via di analisi la causalità emerge come dover essere accanto all'idea di essere che sta a fondamento della presa di coscienza nel ripetersi dell'esperienza.  Sacheli già nella riflessione degli anni giovanili appunta la sua attenzione non solo sull'axiofenomenologia di Guastella ma anche sui singoli aspetti del dover essere rivelantisi nelle diverse faccie dell'anima.La promozione da carattere a persona, lo svolgimento dell'essere al dover essere nelle scienze, l'accostamento all'etica, alla religione, alla metafisica; dell'esperienza empirica, al valore, alla morale, al regno dei fini, alla fede: tutto si svolge su una linea induttivo-conoscitiva, dove esperienza e conoscenza già costituiscono un continuum nell'axiofeno-menismo, via via fino alla metafisica. Cosi per le vie della pedagogia come per quelle della filosofia critica. Tutto cio costituisce la premessa del corso di filosofia morale tenuto da Sacheli a Genova nel 1938-39, in una visione universale.  lo intendo qui in effetti soffermarmi sul momento genovese di C. A.  Sacheli e in particolare sul suo corso di filosofia morale del 1938-39, mai licenziato alle stampe nella precisa forma in cui venne tenuto dato che gli anni del conflitto bellico frustrarono l'intenzione dell'Autore di pubblicarlo.  Gli scritti anteriori di lui, le note da me prese allora e alcuni saggi posteriori consentono a me, fedele allieva di quel corso, di ricostruire il nodo di quel momento cosi essenziale nello svolgimento del pensiero  etico sacheliano.  Questa puntualizzazione mi pare importante, perchè essa contrassegna un momento di ricerca particolarmente sofferta e approfondita, in mezzo all'imperversare dell'attualismo gentiliano imperante) nel punto chiave dove il sistema dell'axiofenomenismo individua gli strumenti conoscitivi e la portata del valore etico nella loro connessione.  ..*  La terminologia del linguaggio filosofico a questo punto dello svolgimento del pensiero sacheliano riscontra la massima ricorrenza nel br-nomio axiologia ed epistematicità, perchè queste due dimensioni indicano il convergere dei due motivi irrinunciabili su cui il discorso etico di sacheli si muove: il rigore conoscitivo e l'essenzialità del valore.  Nell'ambiente filosofico dell'Università di Genova, dopo lo scetticismo di Rensi, occupava la posizione privilegiata in campo teoretico l'empirismo critico di Adelchi Baratono con insistito accento sul momento estetico-critico (°).  Sacheli, negli anni genovesi, ripercorrendo in modo nuovo il passaggio dall'istanza conoscitiva alle tendenze del dover essere, intende puntualizzare nuovamente la precisa definizione della sua axiofenome-nologia, portandola a un nuovo innesto in campo etico.La prima sua caratterizzazione avviene nella determinazione a livello epistematico. Prese le mosse critiche dai Prolegomeni Kantiani, ed esclusa la logica puramente formale, alla sintesi a priori kantiana Sacheli sostituisce come punto di partenza il primum nell'incontro fenomenolo-gico tra soggetto e oggetto, che trova il suo punto iniziale nell'atto.  L'atto è sintesi indivisibile e originaria nella sua concretezza; impre-  vedibile, quindi incausale in quanto immediata.  In campo conoscitivo risulta come frutto di induzione, dove solo a  posteriori si evince il carattere formale delle categorie  Il sapere epistematico si fonda sulla metodologia: il primum esisten-ziale, sintesi induttiva, acquista via via coscienza dell'oggetto, del me, e, attraverso questo, del soggetto. La successiva tematica in cui si snoda il discorso, muove discettando sui termini di essere, di identità, di diveni-  re, di dialettica, di dover essere (°).  Siamo ancora a livello conoscitivo scientifico: nell'epistematicità iniziale, nella conseguente analisi emergono fenomeno e valore, oggetto e soggetto, come componenti dell'iniziale sintesi in nome di un principio di causalità. Pertanto è importante detto principio: la causa si impone per la sua evidenza intrinseca, a livello fenomenico, assieme come per-cetto e come possibilità di ulteriore atto percettivo. Procedendo per questa via a sua volta il soggetto come «me» e come «io» risulta valore nella presa di coscienza, in opposizione all'essere, (A. p. 155), divenire contro staticità, o contro passività.  Il percetto nel suo darsi, come determinatezza particolare si pone condizione formale dell'atto, dove la sintesi è orientata sempre verso il nuovo e l'ignoto.  Dall'empiria alla percezione; dalla presenza alla rappresentazione:  se nella sua posizione assoluta di originale spontaneità l'atto è già valore nell'empiricità, l'atto percettivo è categoria vera e propria, condizione di intelligibilità, mentre le nuove generalizzazioni induttive presuppongono via via la sinteticità dall'atto (A. p. 163). Il duplice aspetto soggettivo e oggettivo evidenzia cosi il carattere assiologico e sintetico del processo induttivo, con inferenza dal particolare al particolare, ma dove la sintesi stabilisce un rapporto di connessione nella graduale estensione del possibile, e del deontologico, a livello dell'oggetto prima e del sog  getto poi.  Nello sviluppo dello studio delle condizioni formali dell'atto Angelo Calogero Sacheli si sofferma sui caratteri di identità, determinatezza, univocità e non contradditorietà, presenzialita o rappresentabilità, modianalitici di presentare la sintesi (citata). Tutti caratteri che, rispetto alla concretezza in cui si pongono, risultano esigenze e valori, mai completamente esaustitivi; ed evidenziati grazie a procedimenti di sosta e di ri-flessione.  Tanto più vero qaunto più nel processo induttivo si avanza dalla  mera empiria ai gradi più alti del dover essere.  Ma nota inequivocabile dei valori è sempre la spontaneità, fresca, viva immediatezza (A. p. 164) originale dell'attualità spirituale che «si manifesta ponendosi per altro», «se la nota differenziale di essa è non l'essere (uguale a se stesso), ma il dover essere, bisogna riconoscere che solo nella spontaneità sintetica del fenomeno si ritrova il vero e proprio carattere del valore. Nel fenomeno, appunto, apparente, che in sè si circoscrive, ma che significa e cerca inesaustamente un'integrazione alla propria incompiutezza».  Per questa via si passa dalla conoscenza alla necessità al dover essere, dove la nozione di forma pura è una meta scientifica e dove nello stesso tempo il mondo dell'esperienza risulta quello del valore, appunto del dover essere. «Abbiamo troppo poca fede nella spiritualità essenziale della nostra pur frale umanità» (A. p. 164), egli esclama, e nel momento della sintesi induttiva coglie il percipere assieme col percipi ().  Sacheli approfondisce questa posizione dello spiritualismo proveniente (R.P. p. 8) dalla sua iniziale impostazione positivista e segue con attenzione puntuale il passaggio dalla necessita nell'immediato della co-scienza, alla nota della necessità in tutte le valutazioni, al carattere axio-logico della sintesi di forma e contenuto, di atto e percetto, a livello morale di cui ci sfugge la connotazione del valore proprio per la millenaria abitudine realistica che diventa istintiva attitudine ontologica a vedere nel reale solo «res extensas» o «res cogitantes».  Qui per Sacheli il rapporto oppositivo tra necessario e contingente,  è di una illegittima dialetticità.  Egli sostiene, (A. p. 197) «La contingenza è una veduta astrattiva dell'analisi» che si appalesa nel percetto, ma che tende a divenire rappresentazione e, quindi, possibrita  In effetti, come la negazione di essa porta via l'atto stesso, essa è ne-cessità; è axiologica se vi si interviene per induzione connessa alle condizioni formali dell'atto.  Tutta la coscienza si muove a questo livello sul piano del dover es-  sere. La via è ascendente.Sviluppato in questa direzione, a livello axiologico, in ultima istanza «l'io è altro dei suoi contenuti» (A. p. 277), anche Sacheli riconosce coi formalisti puri. «L'io e le sue condizioni epistematiche arrivano a costituire il contenuto; in quanto sintesi il soggetto è assieme valutazione e valore»..., «ma la concretezza di esso ci vieta di distinguere appositiva-mente i suoi elementi; dove l'oggetto ha valore di certezza, il soggetto è posizione epistematica». Quindi il filosofo passa dalla continuità del me all'unità sintetica dell'io; dal porsi dell'io come soggetto, al porsi predicativo del giudizio; dalla presentazione alla rappresentazione della rela-zione. Anche nel legame tra soggetto e predicato la caratteristica è l'unità sintetica: tutta la filosofia trascorre così dalla continuità all'unità sin-tetica, nella concretezza per processo induttivo.  L'io individuale, unità sintetica del me, è la coscienza formale: di qui, con l'assenso di fronte alla certezza, si afferma la spiritualità dell'io, attraverso l'autocoscienza: il passaggio dal quod est al quid est è passaggio da esistenza ad essenza; con carattere axiofenomenico e non trascendentale (A. p. 253). L'io è adaequatio rei et intellectus, come verità nella misura in cui il soggetto non è io puro, ma complesso di termini re-lazionali.  Esso si realizza in circolarità, attraverso l'atto con giudizio predica-tivo, per induzione, e analisi derivate (causalità, identità, etc.), nella successione temporale (A. p. 259). In altre parole: nel dispiegarsi concreto e reale si attualizza l'io, nella mera sinteticità dell'atto.  Piuttosto che accettare l'idealismo dialettico non evidente e non ve-rificabile, Sacheli preferisce l'atteggiamento nominalista, cosi ricco di creatività e di invenzione, ma non si sofferma su altre posizioni: procede rigoroso per le vie di epistematicità di tipo scientifico.  Sulla linea dello sviluppo epistematico della coscienza egli approfondisce la ricerca nelle sfere della moralità, per lui sempre essenziale, del vivere umano e oggetto particolare del suo corso universitario genovese (1938-39).  Le implicanze della conoscenza scientifica dell'oggetto già a livello di epistematicità axiologica oggettiva danno una responsabilità ben più complessa e vasta, chè coinvolgono il mondo della natura e dell'univer so con gli strumenti di conoscenza del soggetto morale. Pertanto nei confronti dell'oggetto di cui l'uomo scopre le leggi, per l'uomo stesso emerge un imperativo morale. A distanza di 50 anni oggi gli ecologisti nel relativismo scientifico mettono in evidenza la validità di questa impostazione che comporta per luomo la verifica delle conseguenze diogni suo atto anche nei confronti della natura, con inquadramento di sintesi nel complesso reticolo delle cause e degli effetti a catena, con piena apertura, al di là delle impostazioni singole e parziali, in una visione universale.  Sempre su quella linea, nello studio della semplicità dell'atto, Sa-cheli indaga circa la ragione pratica pura nel campo dell'azione e del sentimento umano abbinati.  Nel dovere etico trasferisce per una piena e comprensiva intelligen-za, il dover essere della vita, dell'esistenza e dell'esperienza che supera l'ordine cosmico nell'ordine morale. (Si veda il commento di Santino  Caramella: nota n. 2).  L'atto è la causa dell'essere, che unisce il soggetto e l'oggetto in relazione sintetica, con un principio causativo di sè come dover essere. Così alla normativa tradizionale Sacheli sostituisce l'epistematicità deontologica nel campo morale, introducendo gli accenti particolari con cui vuol mettere in risalto e caratterizzare il respiro del suo pensiero etico. Egli non ammette un formalismo universalizzante che appiattisca tutta la drammaticità della vita morale. L'atto comporta una sintesi tra soggetto e oggetto, a priori in quanto posto come primum iniziale, che si svolge per via induttiva nell'atto di conoscenza del mondo fenomenico, ma che si sviluppa attraverso lo scontro con gli ostacoli della vita; atto morale, dotato di epistematicità analoga a quella dell'atto conoscitivo, e assieme  di drammaticità.  La vita è qindi un divenire, dove pensiero e azione si risolvono attraverso la sintesi in una funzionalità sperimentale che dà valore all'essere nella dialettica e faticosa drammaticità del vivere. Solo con questa concretezza si può cogliere l'identità del soggetto morale alla cui azione i contenuti danno di volta in volta valore (ciò che sfugge all'etica kantiana per il cui formalismo i contenuti sono indifferenti).  Il valore dell'azione morale, secondo Sacheli, emerge solo nella sintesi tra soggetto e oggetto che si realizza nella concretezza: solo il contesto fenomenico concreto dà all'atto la portata axiologica che gli compete, conferendo al soggetto etico la responsabilità individuale e inalienabile.  Così nel campo etico la vita risulta un generoso porsi del soggetto in solidarietà con l'universo. Se il positivismo attribuisce i caratteri di comune e generale al fatto, l'eticità attribuisce i caratteri di comune e generale all'atto. Il filosofo riprende lo sviluppo seguendo le linee convergenti dell'epistemologia e dell'assiologia.A livello iniziale la certezza ha carattere empirico. Nella conoscenza scientifica l'elemento subiettivo e obiettivo sono due termini opposti.  Quando la scienza giunge alla certezza induttiva con esplicazione causa le per via epistematica, l'oggetto risulta presente come atuale, come an-tecedente, come possibile. L'universo cosi si risolve nelle nostre percezioni (A. p. 308) in una attrezzatura di idee umane, mediante le sintesi dove il fenomenismo risulta assieme gnoseologia e ontologia. In questo ulteriore approfondimento sulla linea epistematica Sacheli sposta il passaggio dalla necessità della scientificità al dover essere della morale.  Egli pone come «discutibile che il criterio di universalità scientifica sia il discriminante necessario e sufficiente per distinguere il giudizio etico da ogni altro giudizio di valore» (A. p. 308).  Per Sacheli è legittimo si il generalizzare e considerare l'universa-le axiologico in quanto universale come fondamento dell'oggettività  (A. p. 185); ma a questo punto del processo induttivo e generalizzante egli valuta come motivo epistematico il criterio che spinge il soggetto a fruire del valore logico di certezza (A. p. 277), in direzione aperta, sulla linea della causalità efficiente, a livello di concretezza.  Già il Guastella dimostra la derivazione necessaria della nozione di libero arbitrio da quella di necessità efficiente in base al principio di evidenza, essendo: «l'evidenza che ci impone l'affermazione del libero arbitrio» (A. p. 278).  Per questa via Sacheli va oltre, passando dall'imperativo logico del  fenomeno all'analogo imperativo etico del dover essere.  Analizzando la ragion pratica sul versante epistemologico, con le sue dimensioni assieme epistematiche ed axiologiche, Sacheli definisce il tipo di giudizio sintetico (a priori) che è proprio di questa sede. La sintesi (R.P. p. 234) non è solo «attualità determinata, unità di determinazioni e di sensi, bensì - percettivamente - unità in atto, determinazione immediatamente colta, senza possibilità di ulteriore discriminazione, forma pura di coscienza di cui i percetti appaiono i contenuti»... E anco-ra: «l'esperienza ci appare qui connessione unitaria di valutazione e va-lori, delle posizioni ponentisi e del porre una molteplicità di percetti».  In altre parole: nella sintesi etica i vari livelli e le varie componenti confluiscono, i fini ed i mezzi hanno ugualmente valore, rientrano nell'universo axiologico che appare tutto sotto il crisma dell'epistemati-cità, dove i termini di conoscenza e coscienza si identificano.  Nell'esperienza degli atti che rinnova lo sforzo dell'impostazione critica, ad ogni acquisizione di valore l'uomo realizza la propria dignitànella misura in cui si pone l'universo, lo percepisce, lo conosce e si dispone col libero atto morale a formarlo e a trasformarlo, o a formare e a  realizzare sè stesso.  Dal fenomenismo axiologico l'autore vede emergere un idealismo empirico che deve riuscire a fondare in termini epistematici il problema dell'etica, si da stabilirne le possibilità costruttive. Il problema del dover essere razionale risulta al centro di tale ricerca speculativa.  Nella piena apertura della disponibilita etica Sacheli pone l'accento sugli atteggiamenti morali di creatività e spontaneità: la virtù non si insegna più che non si insegni il genio. Ma proprio per la personale vocazione morale e filosofica Sacheli si dedica con passione ad indagare nel mondo della coscienza per stabilirne le condizioni e studiarne la funzione imperativa.  La morale moderna vuole essere indipendente e l'etica non norma-tiva, dove molti dei punti di vista antichi appaiono come pedanteria superata e inaccettabile, dice Sacheli (R.P. pag. 21): «il dovere uscito dai sacri templi della meditazione personale, dal misterioso balenare in momenti eccezionali di vita, diviene fatto quotidiano... Il punto fermo della nostra attività è e rimane un senso vivo dell'obbligo... Ma la scienza è in ritardo sul tempo, solo essa non si adagia ai bisogni dell'età nostra e la moralità nostra procede incerta per difetto della dottrina... I sistemi morali chiamati a render conto e a sorreggere la nostra esistenza, non individuano la saggezza... Per sete di sapere, sete diabolica di adeguarsi all'essere, per una sempre maggiore "libertà", amore solo di "conoscen-za", ci è impossibile credere alla saggezza»: e passa in rassegna gli idoli che traducono i principi morali in volontà di adeguamento alla realtà in fieri, con spirito di asservimento.  Cosi la libertà diviene pseudolibertà e la coscienza pseudoco-scienza. Perchè le mete si adeguano sul potere e sull'essere anzichè sul dover essere. Per risalire alle fonti della morale, spontaneistica e creativa, con spinte di apertura in campo educativo e sociale Sacheli si rifa ai pensatori romantici, nel corso 1938-39, specialmente a Schiller e ancor più a J. M. Guyau, poetici assertori della spontaneità e della bellezza emergente dal regno dei valori (Schiller parlava appunto di anima bella).  Per spiegare le ragioni della anomia nella morale moderna il Sacheli analizza in particolare le ragioni di J. M. Guyau, di questo poeta pensato-re, che egli predilige per simpatia personale, perchè non egotistico di-  scettatore, bensì filosofo generoso che tutto si espande e dona.Per l'autore francese la vera autonomia significa mancanza di legge, in quanto non vi è dualismo tra senso e ragione, tra norma e bisogni dell'anima Già Schiller - ricorda Sacheli - aveva trovato nell'amore la pienezza della ragione e la sintesi di questa con la sensibilità. L'amato non è opposto a noi, è tutt'uno con noi. Con l'amore è superata la legge: esso è complemento della legge... Secondo il Guyau è l'amore a compiere la funzione di eliminare l'imperatività, in un universo che è tutto mo-  ralità. Quando la norma nella realizzazione va al di là dell'umano le anime cercano ansiose la spontaneità viva e calda. (R.P. p. 16). «Anche l'arte non basta - dice Guyau - l'arte è troppo vana e solitaria... in questo mondo, io ho da far meglio che sentir battere il mio cuore. Che l'amore mi leghi agli altri! Nel cuore degli altri io mi perdo. La fecondità morale. la vita che prende coscienza della sua intensità, sono la giustificazione dell'amore. Ed è la vita che lo esprime come sorgente comune dell'in-conscio e della coscienza, il teorema fondamentale di ogni etica». Per la sua forza intima tende ad espandersi ed è un dovere in questa direzione, perchè il potere urge come dovere. Il Guyau giunge a fondare la teoria degli equivalenti del dovere; come: poter fare, l'idea dell'azione superiore che diventa esigenza della vita, l'identità tra pensiero e azione come unità dell'essere, la fusione crescente della sensibilità e il suo carattere socievole. È la spontaneità che crea la ricchezza morale. Di qui l'audacia del rischio metafisico che affronta le mete più impossibili ivi compresa la morte. E tutto questo itinerario a livello di coscienza.  Infatti secondo il Guyau per il filosofo non ci deve essere un solo elemento di cui il pensiero non cerchi di rendersi conto (R.P. p. 30).  Su questa base egli critica i tipi di morale esistente. La metafisica realista impone un obbligo assoluto che deve dedursi da fuori; ciò che sfocia nel dogmatismo. E se la morale della certezza pratica nella variabilità del dovere denuncia l'errore di ogni morale intuitiva, perchè troppo arbitraria, la morale formalistica kantiana non può produrre che una soddisfazione logica, nella variabilità e nell'incertezza dei contenuti; d'altra parte la morale della fede metafisica si fonda per conto suo su postulati.  L'etica del dubbio proposta da Foulle, maestro di Guyau, ha il merito di ridurre la morale a un'interrogazione che presuppone una scelta da parte del soggetto. Ma Guyau nel suo tentativo non riesce a dimostrare la possibilità di una fondazione razionale dell'imperatività che è di momento in momento sempre nuova a sè stessa.  Dando per scontato che l'unico procedimento scientifico sia quello della deducibilità a priori egli è costretto a rinunciare alla fondazione di una morale scientificamente coerente e criticamente autosufficiente.Il punto debole della critica di Guyau, secondo Sacheli, sta nel residuo dogmatismo della deduzione a priori. Pertanto il pensiero del  Guyau, pur cosi avvincente rimane in sospeso.  Sulla stessa linea guyautiana il filosofo siciliano perviene ad attuare la sintesi nella connessione tra esigenza affettiva e volontà. Sacheli svilupperà le premesse implicite nella ricerca guyotiana riportandole col suo rigore epistematico a un'istanza d'imperatività e di obbligatorietà atta ad inserirsi nel quadro della morale formale, ma osservando l'afflato di libertà costruttiva così aperta sulle elfettive dimensioni del mondo at-tuale. Mosso da un suo senso vivo di responsabilità speculativa, Sacheli affronta il problema della razionale imperatività individuale, ponendola  al centro dell'eticità.  Con coerenza e rigore epistemologico, portati ben più oltre di quelli del Guyau e degli intuizionisti francesi (da Renouvier a Bergson), Sa-cheli sviluppa il significato del rapporto atto-valore. Si tratta di definire e qualificare le ragioni dell'etica e della spiritualita nel concreto contesto.  Egli mette l'accento sulla realtà della coscienza, tutta integralmente valutazione e valore, di fronte al dover essere. Nell'axiofenomenicità, secondo Sacheli, la coscienza ritrova le concrete detrminazioni del dover essere universale e imprescindibile: (A. p. 180). Ciò per la costituzione di un idealismo empirico, criticamente non dedotto dall'essere ma costruito interamente sul dover essere. Sì che il dover essere, nella sua axiofenomenicità, esaurisce in sè l'essere, figlio del pensiero precritico.  Nel passaggio dall'essere al dover essere, a livello morale, l'impera-tivo, il comando non si può imporre dall'esterno alla singola coscienza: il filosofo non va in cerca della legge formalmente obbligatoria, bensì mette in risalto il carattere della sintesi reale, valida proprio per la presenza abbinata del soggetto e del contenuto oggettivo, nella portata axiologica.  Questa Lebensanschauung del reale trasferisce sul fondo di un sereno umanismo tutte le possibili costruzioni e le relative ambascie metafisiche del mondo (A. p. 10l) nel piano del pensiero, e perciò stesso ne garantisce la nobiltà e anche la risolvibilità.  Sacheli non si lascia allettare dal fascino del buio, come in quell'epoca B. Varisco, o dal male e dal nulla vanificante: lo rifiuta come tenebra, come negatività, come non essere, che non può venir posto in termini di bipolarità, equivalente con l'essere. Egli pone la sintesi iniziale confrontandosi con la positività di essa: vede lo sviluppo nella dram-maticità, nello sforzo del divenire, nell'impegno della scelta e del supera-mento, tra il bene e il meno bene. Prese le mosse da un punto precosciente si sposta dal dato sintetico all'atto nel rapporto col mondo e con l'altro.  L'acquisizione di coscienza per gradi si dilata nella direzione del sociale.  Di fronte al dato nel momento della conoscenza, nell'atto etico comporta una scelta radicale: il riconoscimento dell'essere si sposta a quello del dover essere; si svolge dalla conoscenza epistematica a livello scien-tilico, a quella più avanzata a livello etico deontologico: nel passaggio non c'è differenza di qualità, ma di grado, sì che tutto il dramma della vita, superando gli ostacoli che si oppongono, muove verso un'unica armonia.  Il problema generale dell'axiologia umana non è quello di dare le basi dei valori, bensì quello di assicurare l'esercizio, nel superamento etico verso il regno del dover essere, dove la certezza dà la misura della necessità. In effetti l'atto conoscitivo dove l'induzione è strumento del sapere, a livello morale porta dall'attuale al possibile, dal contingente e condizionale all'assoluto e incondizionale. Se l'effetto può avere rapporti di identità con la causa, a livello morale è sempre un dover essere che comporta continuo accrescimento spirituale.  Nella complessità del suo vivere axiologico il soggetto morale sco-  pre il significato dell'alterità.  I soggetti al plurale, tra di loro sono in relazioni interdipendenti, e realizzano un sistema oggettivo, universalizzante, che li sospinge verso un'unità axiologica incondizionata.  Anche il riconoscimento dell'alterità per la via epistematica è una funzione analitica, dove la relazionalità è scrittura del mondo fenomenico.  Nel contesto della fenomenicità il soggetto, promosso a persona, riconosciuti anche gli altri soggetti ne aiuta l'ulteriore promozione. Per tali vie le persone diventano società attraverso atti di coscienza individuali,  soggettivi, personali.  Cosi cinquant'anni orsono Angelo Calogero Sacheli nella sua filosofia morale procede per le vie della percezione, dell'induzione e dell'analisi in momenti di mediazione, dal fenomenismo alla axiologia più costruttiva attraverso una rigorosa epistemologia razionale e individuale.  Soggetto e oggetto, percezione e percetto, atto e sostanza, si pongono nella sinteticità dei termini dove la differenza tra me e io non è nè gnoseologica nè ontologica, ma è indicata da diversi gradi di riflessione.  Sacheli sviluppa la sua linea studiando nell'effetto il nesso che spiega il perchè oltre al come (*), nel fenomeno che è presente ed assieme possibile «nella sfera del pensiero» dove «l'infinito non può che esserepotenziale». (Sacheli «Fenomenismo», Genova, 1926, pag. 17). Con ciò apre una finestra sulla metafisica, per la ricerca di un assoluto.  Ma in questa sede dell'eticità epistematica egli non sviluppa la ricerca nella direzione metafisica, lo farà più tardi. Egli qui si limita ad esemplificare sino a confrontarsi con il modello incarnato dell'Uomo-Dio  (A. p. 181) «Il Cristo lega con l'immanenza sperimentale dei valori la nostra caducità al soprannaturale, sopravveniente regno di Dio, Egli Figlio di Dio Padre, travagliando al farsi della sua volontà, chiamandoci a quest'opera inesausta, unica grandiosa e terribile, pregando Egli stesso, operosamente e solidalmente con noi, per la realizzazione di tutte le nostre autentiche necessità di vita. Egli assume - vale a dire - decisamente e coraggiosamente come valori le nostre più marcate determinazioni empiriche...› chè solo nella sua concretezza tutta la nostra vita è valuta-  zione; tutta si dispiega in valori.  «La nostra giornata è piena di questa esaltazione spirituale senza interstizi o vuoti e senza che un istante solo riafliori il non valore o il nulla, se non ci associamo alla monotonia dell'abituale concettualizzan-dolo... Non c'è posto per il nulla nella realtà fenomenica della coscienza».  Non la ricerca metafisica, ma il carattere epistematico e personale  stanno a cuore nella ricerca axiologica sacheliana del 1938-39.  Il momento dell'induzione diviene una seria operazione dello spiri-to, che fa presa sul reale, ed è «esperienza... di un soggetto, un rappresentare mio, tuo e nostro» (pag. 147, «Fenomenismo»).  «Un accrescimento spirituale» che il soggetto, particolare persona empirica, attua con una promozione di valore. Si afferma qui «la natura axiologica» del dover essere che si realizza in spirito di libertà.  Nella vita associata considera l'interferenza fra i soggetti sul piano della sinteticità come «anapodittica necessità», come già affermava Vari-sco, assimilati per un processo d'induzione «senza neanche la necessità di riduzione all'uno» (A. p. 319). La consistenza dell'io affermante e dell'io affermato, l'equivalenza dell'io e del prossimo appare meravigliosa a Sacheli; sistema oggettivo per l'idealismo empirico dove ogni soggetto è contenuto nella coscienza dell'altro. con tensione verso l'unita, ma in autonomia, quasi vera e propria rivelazione metafisica: il fondo del reale (A. p. 326).  Tale verità resta problematica, mentre il soggetto nel trascendimen-to di sè riconosce l'alterità dell'altro soggetto. Il reale come molteplici-  ta di unità sintetiche attraverso la percezione tende all'unità axiologi-ca nell'insieme dei soggetti. Ma per il pensiero critico (A. p. 330) diceSacheli ‹il reale rimane un acosmismo di spiriti fraterni per il quale sono state poste tutte le condizioni di superamento, dove le condizioni dell'atto (causalità, universalizzazione) sono connesse con l'unicità del dover essere». «Nel reciproco riconoscersi essi realizzano un sistema di relazioni interdipendenti e cioè un sistema oggettivo universalizzante che li sospinge verso un'unità axiologica».... «ordine morale, universalità etica, che si adempie nell'universalizzazione induttiva» (A. pag. 300).  Il riconoscimento da parte del soggetto degli altri soggetti rappresenta una crescita e «garanzia del dover essere, nel mondo» (N. Rocchi) (*) «dell'axiofenomenicità».  Cosi si accentua il valore della concretezza della vita associata, fondata sul rigoroso procedimento epistemologico assieme positivista per la sua concretezza e spiritualista per la sua finalità, che rispetta in ogni soggetto l'altro per aiutarne la crescita nella spontaneità, sino a trasformarsi da soggetto in persona, nella tensione verso l'assoluto.  Nel 1938-39, memore dei drammatici anni della prima guerra mondiale e presago della bufera imminente, forte delle teorie associazioniste del Wundt (R.P. p. 284), Sacheli insiste nel sottolineare che il sapere positivo e la coscienza dei singoli nella pluralità dei popoli porta a un cosciente umanesimo dove il senso di responsabilità dell'uomo colora di sè la vita del mondo.  L'iniziale positivismo irrinunciabile nell'impostazione originaria del dato fenomenico si svolge in un clima di certezza, di epistematicità e di scelta, si da ridare all'uomo la dignità del suo essere e al mondo il destino del presente e del futuro, posto sotto il segno della conoscenza, della verifica e della bontà dell'uomo.  Soggetto tra soggetti, dove la totalità di ciascuno, con integra l'indi-vidualità singolare di ciascuno, garantisce della concretezza, ma dove nei singoli si trovano le condizioni epistematiche dell'atto che, come va-lore, tende verso l'universale concreto.  Dove la soggettività etica è insostituibile, il regno dei fini si instaura con la nostra tremenda responsabilità nella nostra singolarità mortale (R.P. p. 253 e passim) nella nostra empiricità individuale, nella tensione verso l'infinito.  Quivi la stessa preghiera, comune ispirazione ed esigenza, è l'uni-versale della coscienza, dover essere proprio a ciascuno; come in ogni opera d'arte, in ogni sapere scientifico.  C. A. Sacheli, se insegnava a pregare alla nipotina bambina, Giusep-pina: «Padre Nostro che sei nei cieli; sia fatta la Tua Volontà in cielo e interra; dacci il pane quotidiano; perdonaci come noi perdoniamo; liberaci dal male...», agli studenti universitari insegna a pensare, in un momento in cui si è dimenticato il significato della parola «coscienza», indicando l'identità di coscienza e di esperienza e nel trapasso dall'atto al valore affermando la preminenza assoluta della spiritualità.  Tutto il corso del 1938-39, senza sosta, è una testimonianza del filosofo che crede nel sapere e annuncia sapienza e verità attraverso l'uma-no itinerario della coscienza: dall'empiricità alla conoscenza scientifica, all'epistematicità morale, in gradi successivi.  Atto, induzione, sintesi, immediatezza, certezza, evidenza, necessità; analisi e derivate secondarie, identità, essere, causalità, causa efficiente; valore, liberta, scelta; e di nuovo sintesi del prima e del poi, del fatto, dell'atto e del valore, nella continuità del vivere, in ogni attimo che ricade nel dominio dell-homo sapiens»  L'uomo questo individuo concreto e finito in un mondo di relazio-  nalità sa pensare, giudicare e volere, ponendosi un fine.  Emerge cosi l'epopea della società degli uomini, cimento inimitabile e creativo per ogni esistenza, dove ogni singola persona è responsabile di momento in momento; razionale soggetto di pensiero e di azione, unitamente agli altri soggetti di responsabilità: tutti nell'impegno epistema-tico, di fronte al mondo in costruzione, sapienti operatori di valori in una cospirazione verso il destino finale; con un'apertura metafisica, non fittizia finestra dipinta sul muro, ma effettivo spiraglio aperto sull'infini-to, nell'universalizzazione induttiva, verso l'unicità del dover essere.  Il discorso filosofico di Sacheli si muove attraverso continue valutazioni a livello gnoseologico, con rigorosa e intricata critica analitica, in genere basandosi su giudizi di tipo riflettente, spesso riferendosi, per esemplificare o chiarire, alle singole impostazioni di contemporanei, come a quelle di Levy Bruhl, di De Sarlo, di Scheler, di Orestano, di Calo, di Martinetti, di Carabellese pur diversi nel loro sistema filosofico d'in-sieme, ma d'interesse esemplare per il convergere di problematiche non solo di quell'epoca, ma della logica in assoluto, in tutti i possibili risvolti.  (A questo riguardo è interessante la presentazione della problematica da parte di A. Poliseno, ma nei confronti di Sacheli riduttiva e defor-mante). Vero è che Sacheli fu mosso da un'autentica passione per la filosofia morale, in una lotta per la dignità dell'esistenza umana nel momento del naufragio del formalismo dell'etica pura, come della vaporosità del sogno idealistico, volendo ridare all'esistenza umana la sicurabussola della ragione nel tessuto del concreto. Aperto all'istanza di dilatazione del reale conoscibile, nell'era nuova del conoscere e del sapere, Sacheli propone all'uomo l'imperatività morale, come garanzia di dominio di sè e del suo destino. Al di là della moderna istanza metafisica che si sforza di assorbire i cieli sulla terra con paralogismi surrettizi, Sacheli tende a restituire a Dio i Cieli e la terra metafisici, per riconquistare all'uomo l'ineludibile regno della sua responsabilità.  Il messaggio di C. A. Sacheli, penetrando fino alla radice dell'esiste-re umano, in spirito di umiltà e di verità, addita il vigoroso impegno del soggetto nella varietà dei mondi reali e possibili emergenti come dato at-tuale, per un rinnovato regno della persona, dove pluralismo dei popoli e democrazia si riconducano alla sovranità della coscienza singola e insostituibile d'ogni uomo, cittadino nel mondo che egli sa porre.  N.B. - Faccio presente che le citazioni delle opere del Sacheli edite nel 1938 •Atto e Valore»  (= A.) e «Ragion Pratica» (= R.P.) sono riportate nel corso del testo, perchè in realtà stanno al posto delle espressioni che il Professore usava nel contesto del corso universitario genovese 1938-39, di cui qui ho rispettato fedelmente lo sviluppo. In altra sede presenterò l'atteggiamento filosofico di Sacheli di fronte al problema metafisico.  NOTE  (*) Mi corre obbligo esprimere la mia gratitudine alla Dott. Giuseppina Ferrante, nipote del filosofo Sacheli, per le notizie biografiche che mi forni e per le opere dello Zio che mise a mia disposizione, grazie alle quali potei ricostruire il corso accademico 1938-39, di cui è oggetto questa memoria.  (4) S. CARAMBLLA, «La Figura e l'opera di C. A. Sacheli», pp. 7-17, in «Conferenze sul pensiero di C. A. Sacheli», Palermo, 1959.  (3) G. A. CoLOzzA, tra l'altro v. «Potere d'educazione», Napoli, 1882. C. GUASTELLA, v. «sag-  gio primo sui limiti e l'oggetto della conoscenza a priori, Palermo, 1898. «Le ragioni del feno-menismo», tre volumi, Palermo, 1921-23.  (*) «I nuovi metodi di Portoreale», in « Rivista pedagogica», v. 1, 1915, gli studi su Pierre  (°) Nello stesso anno 1938-39 Adelchi Baratono teneva a Genova il corso di filosofia  coretica sull'empirisme  e valore, parte i discete andato ne les edither, Copera la, i nato in Atl  pagina.  ) Negli elementi della sintesi induttiva coglie il percipi e il percipere. (R.P. p. 329  (v. Ragion Pratica. Firenze, Sandron, 1938(8) Le soluzioni alla Blondel dove il principio di causalità si inserisce come categoria essenziale a priori vengono rifiutate dai metodo sacheliano dove il criterio di causalità è risvolto di giudizio rifiettente nelle vie principi dell'induzione.  (*) A. M. Rocchi ha recentemente studiato il tema dell'alterità in Sacheli. Per il nostro assunto è particolarmente importante sottolineare l'irriducibilità dei soggetti tra di loro, sì che la responsabilità è sempre fondamentalmente legata al soggetto nella sua singolarità. Fondamentale tema di riflessione oggi, proprio per la responsabilità del singolo nei confronti di tutti gli altri soggetti. Ma l'accento resta sempre collocato sul carattere irrinunciabile della conoscenza da parte della coscienza personale.  BIBLIOGRAFIA  Note personali di Giuditta Podestà sul corso di filosofia morale di C. A. Sacheli, tenuto  nel 1938-39 presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Genova.  C. A. SAcHELI, «Indagini Etiche», Palermo, Sandron, 1923.  C. A. SACHELI, «Atto e Valore», C. C. Sansoni, Firenze, 1938.  C. A. SACHELI, «Ragion Pratica», C. C. Sansoni, Firenze, 1938.  C. A. SAcHELI, «Preliminari per una metafisica del valore» Ed. Ferrara; dispense univ., Messi-  na, corso 1943-44.  C. A. SACHELI, »De magistro• Testi latini, introduzione di C. A. Sacheli, Lezioni di pedagogia anno 1945-46 - Università di Messina, Edizioni V. Ferrara, Messina, 1946.  CARAMELLA, ALBEGGIANI, ATTISANI, BIANCA, «Conferenze sul pensiero di Calogero Angelo  Sacheli», seguite da dibattito e bibliografia: Centro di studi per la cultura siciliana. Quaderno n. 1, Tip. Italmondo, Palermo, 1959.  GISEPPINA FERRANTE, «In ricordo dello zio C. A. Sacheli», manoscritto, Genova, 1989.  A. PoLISENo, «Dall'etica formale alla morale teorica» in: Spazioscula, 1989.  SCIASCIA, «Dalla parte degli infedeli», Sellerio ed. Palermo, 1979. ANNA RoccHi, «Valore e alterità di Calogero Angelo Sacheli, Labor, Rivista trimestrale di cultura e attualità. Luglio-Settembre 1989, Via Tunisi, 4 - 90145 Palermo.. Calogero Angelo Sacheli. Sacheli. Keywords: membro dei parnasensi, parnaso di canicatti, massoneria, liberi muratori, folklore canicattinese, filosofia siciliana, loggia felice cavallotti di Girgenti, implicatura fenomenista, fenomenismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sacheli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Saitta: FILOSOFO SICILIANO, NON ITALIANO -- all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- l’animo – filosofia fascista – la romanitas di Tertuliano -- il ventennio fascista – la scuola di Castelferrato -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelferrato). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Castelferrato, Enna, Sicilia. Allievo di GENTILE, seguace e interprete del suo idealismo attuale. Studia a Nicosia, Monreale, e Palermo. Frequentando le lezioni di GENTILE, si accosta al suo idealismo. Si laurea in filosofia. Insegna a Terranova, Lucera, Cagliari, Sassari, Fano, Faenza, Bologna, Firenze, e Pisa. Dirigge “Vita Nuova” a Bologna, cura la rubrica Noi e gl’altri Spunto polemico, firmando i suoi interventi con lo pseudonimo di "Rustico", distinguendosi per i toni accesi e le posizioni anti-clericali e anti-concordatarie, che lo portarono a scontrarsi con cattolici. Adere infatti a una concezione movimentistica e rivoluzionaria del regime fascista, che interpreta come il compimento del valore romantico del risorgimento, intendendo la nazione italiana in senso hegeliano quale sintesi tra cittadino italiano individuale e l’universale della romanita. Col suo attivismo riusce a esercitare una forte capacità d’attrazione. Così si sviluppa quella tendenza a preferire la sua scuola di storia della filosofia dove la preparazione di tipo scolastico e le esigenze tecniche sono minori, ma dove si sente un calore ideale, una passione filosofica, un fervore per la italianita, e una forza di convinzione spesso dura, e più che dura, ma più vicina a quei sentimenti e a quelle esigenze fasciste, una decisione innovatrice suggestiva e che sembra offrire un orientamento vitale per la soluzione di quei problemi. Accogliendo la concezione gentiliana dell'atto come perenne auto-creazione dello spirito italiano che tutto comprende, sviluppa una visione attualistica dell'idealismo non riducibile a una teoria statica, bensì intesa come azione e continuo dinamismo. Questo lo porta a esaltare la libertà creativa della ragione umana contro ogni forma di oggettività e di dogmatismo. Da qui la sua accentuazione della polemica anti-religiosa, e la riscoperta, nel solco delle tesi formulate da SPAVENTA e dallo stesso GENTILE, della corrente immanentistica della filosofia rinascimentale italiana che egli pone a fondamento della genesi dell'idealismo moderno. Questo immanentismo, per il quale il divino si esprime nell'attività dello spirito umano, è un reale umanismo che rende possibile la libertà dell'individuo, nella quale consiste la coscienza illuministica, da lui contrapposta a quella tradizionale, oppressiva e decadente, della trascendenza.  Per difendere la libertà del soggetto da ogni autoritarismo e sopraffazione, si è schierato tuttavia non solo contro il dualismo dell’accademia, la teologia di impianto aquinistico e la neo-scolastica, ma in parte anche contro lo stesso idealismo di Hegel che finisce per oggettivare la ragione facendone un sistema assoluto da lui ritenuto all'origine dello schiavismo. Persino nell'attualismo di GENTILE e rimasto un retaggio del trascendente, quando esso attribuisce lo spirito ad un io assoluto anziché ai singoli individui. Sono costoro i veri creatori di valori spirituali, coloro cioè in cui va identificato il soggetto trascendentale. In tal modo intende preservare la portata stessa dell'atto creativo dello spirito dell'idealismo gentiliano, rivestendolo di significati empirici, positivistici, contigenti. Altre saggi: Lo spirito come eticità, (Bologna, Zanichelli; La coscienza illuministica, Genova, Orfini; Libertà ed esistenza, Firenze, Sansoni; L’immanenza, Bologna, Zuffi; La scolastica e la politica dei gesuiti, Torino, Bocca; Le origini dell’aquinismo, Bari, Laterza; Gioberti, Messina, Principato); Ficino (Messina, Principato); “L'educazione dell'umanesimo in Italia (Venezia, La Nuova Italia); “Filosofia italiana ed umanesimo (Venezia, La Nuova Italia); “AQUINO” (Firenze, Sansoni); “La teoria dell'amore e l'educazione del Rinascimento (Bologna, U.P.E.B.); “L'illuminismo della sofistica” (Milano, Bocca) Il pensiero italiano nell'Umanesimo e nel Rinascimento (Bologna, Zuffi); “L’Umanesimo italiano” (Bologna, Tamari). Centineo, Ricordo, Giornale critico della filosofia italiana, Firenze, Sansoni,  Sorbelli, L'Archi-ginnasio: bollettino della Biblioteca comunale di Bologna,  direzione di F. Bergonzoni, Regia tipografia dei fratelli Merlani, Università degli studi di Firenze, S. Salustri, L'Università fascista di Bologna: un modello di Accademia per il regime?, in Accademie e scuole: istituzioni, luoghi, personaggi, immagini della cultura e del potere” (Milano, Giuffrè); Pisani, Paideia, Casa Paideia, Pertici, Storia della storiografia,  Jaca, Mangoni, “L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo” (Bari, Laterza). Cantimori ricorda con commozione l'irrequietezza spirituale della sua scuola e la sua attenzione volta ad argomenti quasi ignorati dalla cultura Italiana – Bandini, Storia e storiografia: studi su Cantimori. Atti del convegno tenuto a Russi, Riuniti).  Cit. in Pertici, Storia della storiografia, “Forse meglio di ogni altro, intese dell'attualismo l'istanza realmente umanistica, e di un "reale umanismo” “E questa appunto volle sotto-lineare e difendere contro ogni mistificazione. Così lo vediamo ridurre tutta la dialettica gentiliana a lotta sempre risorgente fra ragione umana liberatrice e costruttrice di una società di uomini liberi, e la coscienza tradizionale cristallizzata nelle oppressioni di strutture portatrici di una filosofia di morte. Ricordo.  La filosofia come celebrazione della soggettività è quasi tutta sbozzata con Ficino. Con lui, anziché col Campanella, come da altri è stato frequentemente ripetuto, s'inizia la conoscenza illuministica, Centineo, Ricordo, Giornale critico della filosofia italiana», Firenze, Sansoni, Morra, L'immanentismo assoluto, Giornale critico della filosofia italiana», Garin, “Cronache di filosofia italiana” (Bari, Laterza); Melchiorre, Storiografi italiani (Villalba di Guidonia, Aletti). Attualismo, Filosofia rinascimentale, Idealismo italiano, Cantimori, Gentile  Ricordo.  Giuseppe Saitta. Saitta. Keywords: romanitas -- filosofia fascista, l’universita fascista di Bologna, le reviste filosofiche fasciste, Vita Nuova, immanenza e non trascendenza, lo spirito italiano, l’universale dell’italianita, l’universale della romanita, l’amore di Ficino, Campanella, Cantimori, contro la scolastica, animo, l’animo, vita nuova, contratto sociale, Rousseau, Firenze. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Saitta” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Saliceto: la ragione conversazionale del diritto bellico – la guerra è la guerra – scuola milanese – la scuola di Milano -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Balsamo). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Balsamo, Cinisello Calsamo, Milano, Lombardia. Grice: “Since Sua Eccellenza Verri-Visconti calls himself a hyphenated philosopher, I who amn’t, shall list him under Visconti!” Esential Italian philosopher. Like Grice, he wrote on ‘happiness.’ Like Grice, he writes on ‘pleasure.’ Like Grice, he was a very clubbable man. Ritratto tagliato Barone di Rho. Consorte Marietta Castiglioni Vincenza Melzi d'Eril. Figli Teresa, Alessandro (da Marietta Castiglioni). Filosofo. Considerato tra i massimi esponenti dell'illuminismo, è altresì ritenuto il fondatore della scuola illuministica milanese. Nasce dal conte Gabriele Verri-Visconti, magistrato e politico conservatore, della nobiltà milanese. Avviati gli studi nel collegio dei gesuiti di Brera, e uno dei trasformati. Si arruola nell'esercito e prende parte alla Guerra dei VII Anni. Fermatosi a Vienna, intraprende la redazione delle Considerazioni sul commercio nello Stato di Milano, che gli varranno il primo incarico di funzionario. Pubblica le Meditazioni sulla felicità. Devienne a Milano uno dei pugni, nucleo redazionale del caffè, destinato a diventare il punto di riferimento del riformismo illuministico. Tra i suoi saggi più importanti per Il Caffè si  ricordano Elementi del commercio; Commedia; “Medicina”; “I parolai”. Ha rapporto epistolari anche con gl’enciclopedisti. d'Alembert visita i pugni. Parallelamente all'impresa editoriale, intraprende la scalata del governo d’Austria allo scopo di mettere in prattica le riforme propugnate nel “Caffe”.Membro della Giunta per la revisione della "ferma" (appalto delle imposte ai privati) del Supremo Consiglio dell'Economia. Fonda la Società patriottica. “Meditazioni sull'economia politica”. Il discorso sull'indole del piacere -- e del dolore”; “i Ricordi” e le “Osservazioni sulla tortura”. Il suo è uno stile asciutto e libero, pieno di trattenuto vigore. Con Giuseppe II al trono d'Austria, gli spazi per i riformisti milanesi si riducono, e lascia ogni incarico pubblico, assumendo un atteggiamento sempre più critico. Pubblica la “Storia di Milano.” All'arrivo di Napoleone, prende parte alla fondazione della Repubblica Cisalpina, culla del tricolore italiano. Muore durante una seduta notturna della municipalità. Grazie a lui Milano divenne il più importante centro degl’illuministi. L'ipotesi di civiltà che scature da lui e forse troppo avanzata per poter essere adeguatamente raccolta dalla nostra cultura; e comunque lo colloca a pieno titolo tra le espressioni più alte degl’illuministi. Il suo grande merito e aver creato in Lombardia un centro di aggregazione illuminista: Il Caffè dei pugni, Ciò che desta curiosità rimane il titolo con cui lui scelse di intitolare la sua testata, dovuta al rilevante fenomeno della diffusione di caffè (bar), come luoghi dove poter intraprendere un libero e attuale dibattito culturale, politico e sociale. Con i suoi articoli sul dolore e il piacere, sottoscrive la dottrina di Helvétius, nonché il sensismo di Condillac, fondando sulla ricerca della felicità e del piacere l'attività degl’uomini. Gl’uomini tendeno a sé stessi al piacere e sono pervasi dal dolore. I suoi piaceri non sono altro che momentanee interruzioni del dolore. La felicità degl’uomini non è quella personale o soggetiva, ma quella a cui partecipa il “collettivo,” quasi eutimia o atarassia. Per quanto riguarda la politica e l'economia, lui è controverso. Per quanto riguarda l'ambito economico, negli Elementi del Commercio e nella sua più grande opera economica Meditazioni sull'economia politica, enuncia (anche, per primo, in forma matematica) la legge di domanda e offerta, spiega il ruolo della moneta come merce universale, appoggia il libero scambio e sostenne che l'equilibrio nella bilancia dei pagamenti è assicurato da aggiustamenti del prodotto interno lordo (quantità) e non del tasso di cambio (prezzo). Di conseguenza, può essere visto come un marginalista. Si nota, però, come assuma atteggiamenti di difesa del concetto di proprietà privata e del mercantilismo. S. ritiene che solo la libera concorrenza tra eguali possa distribuire la proprietà private. Tuttavia pare favorevole principalmente alla piccola proprietà, per evitare il risorgere delle disuguaglianze. S. con le Osservazioni sulla tortura esprime la sua contrarietà all'uso della tortura. Define ingiusto e antistorico un modello così efferato di giurisprudenza e auspicando l'abolizione di questi metodi. Non pubblica l’opuscolo per non inimicarsi, con le pesanti critiche alla magistratura in esso contenute, il senato di Milano (tribunale) presso cui si sta decidendo dell'eredità del padre. “Dei delitti e delle pene” di Beccaria prende in gran parte le mosse proprio dalle bozze delle osservazioni sulla tortura, oltre che dagli articoli de Il Caffè. E proprio a causa di questo furto di idee che i due pugni arrivano al più acceso scontro. Nella versione definitiva e aggiornata dell’Osservazioni, che sono in conclusione un invito ai magistrati a seguire la dottrina illuminista invece di irrigidirsi sulle posizioni conservatrici, la sua dialettica è cruda e basilare. La tortura è una crudeltà. Se la vittima è innocente, subisce sofferenze non necessarie. Se la vittima e colpisce un colpevole presumibile rischia di martoriare il corpo di un possibile innocente. L’accusato rinuncia nella tortura alla sua difesa naturale istintiva. Viola la legge di natura. Apre il suo saggio con la ricostruzione del processo agl’untori, presentandolo sia come documento dell'ignoranza di un secolo non guidato dai lumi, sia come emblema del modo in cui una legge sbagliata porta a una evidente ingiustizia. Questa ricostruzione forne la base per la Storia della colonna infame di Manzoni, che però la presenta come testimonianza di ciò che accade quando uomini ingiusti detenneno un grande potere, come all'epoca era quello del senato milanese. Il saggio non arrivea mai ad avere il successo che invece ebbe Dei delitti e delle pene, vuoi perché la maggior parte delle osservazioni in essa sviluppate erano già contenute nell'opera di Beccaria, vuoi per via del  suo stile, dotto e di difficile comprensione, che rendeva di per sé ardua la diffusione della sua filosofia, che pure conteneva molti ulteriori spunti rispetto all'opera del collega. La Borlanda impasticciata con la concia, e trappola de sorci composta per estro, e dedicata per bizzaria alla nobile curiosita di teste salate dall'incognito d'Eritrea Pedsol riconosciuto, festosamente raccolta, e fatta dare in luce dall'abitatore disabitato accademico bontempista, Adorna di varii poetici encomii, ed accresciuta di opportune annotazioni per opera di varii suoi co-accademici amici; “Il Gran Zoroastro ossia Astrologiche Predizioni”; “Il Mal di Milza, Diario militare,” Elementi del commercio”; “Sul tributo del sale nello Stato di Milano”; “Sulla grandezza e decadenza del commercio di Milano”; “Fronimo e Simplicio; ovvero, sul disordine delle monete nello Stato di Milano”; Considerazioni sul commercio nello Stato di Milano”; “Orazione panegirica sula giurisprudenza Milanese”; “Meditazioni sulla felicità colletiva” – cfr. Grice, Notes on happiness –; “Bilancio del commercio dello stato di Milano, Il Caffè, Sull’innesto del vajuolo, Memorie storiche sulla economia pubblica dello stato di Milano, Riflessioni sulle leggi vincolanti il commercio dei grani, Meditazioni sulla economia politica con annotazioni, Consulta su la riforma delle monete dello Stato di Milano, Osservazioni sulla tortura, Ricordi a mia figlia, Considerazioni sul commercio nello Stato di Milano – “Sull'indole del piacere e del dolore” -- Manoscritto da leggersi dalla mia cara figlia Teresa Verri per cui sola lo scrissi, Storia di Milano, Piano di organizzazione del Consiglio governativo ed istruzioni per il medesimo, “Precetti di Caligola e Claudio”; “Memoria cronologica dei cambiamenti pubblici dello stato di Milano”; “Delle nozioni tendenti alla pubblica felicità” – felicita pubblica – felicita private --; “Pensieri di un buon vecchio che non è letterato, Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri;  L'Edizione Nazionale delle Opere, Ministero per i beni e le attività culturali ha deciso di avallare un'Edizione nazionale delle sui saggi. Il comitato, finanziato pubblicamente, dalla Fondazione Cariplo e da Banca Intesa Sanpaolo, è presieduto da C. Capra e composto da una ventina di studiosi e si basa sull'Archivio donato da S. alla Fondazione Per La Storia Del Pensiero Economico. Bartolo, Gli Scritti di argomento familiare e autobiografico; Rivista di storia della filosofia. (Firenze: Nuova Italia). Carteggio di Pietro e Alessandro Verri  Cfr. Ricuperati, Il genere della biografia, Società e storia. (Milano: F. Angeli,  "Il Caffè", Introduzione. Giordanetti, Piero, a cura di, “Sul piacere e sul dolore”. Kant discute Visconti (Milano, Unicopli); “Giordanetti, “Le arti belle. Sulla fortuna di Visconti, Visconti e il suo tempo, Capra, Bologna, Cisalpino); Renzo Villata, Gigliola, Il processo agli untori di manzioniana memoria e la testimonianza (ovvero... due volti dell'umana giustizia), Acta Histriae Storia di Milano, Cronologia della vita di S., su storiadimilano. S., Enciclopedia Treccani, su treccani. Ricordi a mia figlia, su classicitaliani. Catalogo Sellerio, su Sellerio. Salerno editrice. Scheda del libro: Delle nozioni tendenti alla pubblica felicita, su salerno editrice. Pensieri di un buon vecchio che non è letterato, su classic italiani. Capra, Risultati e prospettive, in Rivista di storia della filosofia, Scritti di economia, finanza e amministrazione, I Discorsi e altri scritti degli, Storia di Milano, Scritti di argomento familiare e autobiografico, Scritti politici, Carteggio di Pietro e Alessandro. Caffè. In Venezia, Pizzolato); “Mediazioni sulla economia politica con annotazioni, Venezia, Giovanni Battista Pasquali); “Meditazioni sulla economia politica” (Livorno, Stamperia dell'Enciclopedia Livorno); “Sull'indole del piacere e del dolore” (Milano, Marelli); “Storia di Milano” (Milano, Società tipografica de' classici italiani); “Carteggio di  Novati, Giulini, Greppi, Seregni, Milano, Cogliati, Milesi e figli, Giuffrè); “Viaggio a Parigi e Londra. Carteggio di Pietro ed Alessandro Verri, Gianmarco Gaspari, Milano, Adelphi); “Appunti di diritto bellico” (Benvenuti, Roma, Benedetto, “Visconti repubblicano: gl’articoli, Poesia, letteratura e politica, Alessandria, Edizioni dell'Orso, A. Cavanna, Da Maria Teresa a Bonaparte: il lungo viaggio, Capra, I progressi della ragione” (Bologna, Il Mulino); “Meditazioni sulla felicità, Pavia-Como, Ibis); “Discorso sull'indole del piacere e del dolore, Spada, Londra, Traettiana, Diario Militar, Milano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Filosofico. Storia di Milano. MEDITAZIONI SULLA FELICITA Pietro Verri Digilized b^Coogk: Digitized by Google -. [ MEDITAZIONI ! SULLA FELICITA 1 Ficirix fortuna fapientia ]uv. Saty. XIII. IN LONDRA. Digitized by -Google Digitized by Google L* eccetto de'dc'iderj fopra il potere  la mifura della infelicit : Le operazioni dunque da fard per accollarci allo flato di un efferc felice fono o diminuire i defiderj , o ac- crefcere il potere, o l'uno e l'altro iuficnie . La fomma de'defdcrj dipende dalla primi- tiva fenfibilt , e dall'ordine delle idee ; la Comma del potere dipende dalle Leggi fisiche , e dalla volont degli eflri penfanti. I defiderj hanno per fine d'evitare i mali, e d procurarci i beni : la immaginazione di ogni uomo  fempre difpofra ad ingrandire s gli uni che gli altri ; ci fi vede poich reali- zandofi etti agifeono full' uomo con minore ef- ficacia di quello, che s'afpettava : Un elmie imparziale della natura de' defiderj nolri tende dunque a formarci un nuovo ordine d'idee, per cui l diminuifee la fomma de' delderj me- defimi . II potere dpendenre dall'azione filca de* corpi eflerni talvolta fi dilata coli' induftria ; e quello che dipende dalla organizzazione del noftro corpo , con uri determinato regime . I fuffragi poi degli eflri penfanti o fi compra- no, o fi conquidano, o fi rendono indifferenti con una vita ofeura, ma conforme alle Leggi. Da quelli clementi dipende l'accrefcimento del potere. * a Efi- Digitized by Google Eliminiamo quelli principj, c comincia* ino dai defiderj. Le ricchezze fono io Icopo d'uno de' pi comuni defiderj , e certamente effendo elleno un pegno delle azioni, che gli uomini hanno falle cole , chi ie poflde fem* bra dilatare la propria ellten^a , ed intereflre una pi gran parte delia Natura ne'fuoi pia- ceri . 1! dclderio di effe non pu efiere dimi- nuito dalla ragione (in tanto che fi circoferive all'adempimento de' bifogni filici, e civili; l'arte di godere delle ricchezze  molto pi rara dell' arte d'acquilarle: chiunque fia giunco a pofidere un moderato patrimonio moltiplica i fuoi defiderj, fia che per una mancanza di prvidenza preferifea i capricci prefenti ai bi- fogni a venire , fia che con mal ragionata di- firibuzione pofponga i bifogni prefenti ai futuri capricci; l'errore de! calcolo s del prodigo, cie dell'avaro confitte nel preferire i bifogni chimerici ai reali. L'attento efama filila natura delle ricchezze, e la fperienza ci convincono che qualora eccedno i confini del bUbgno , portano feco la fete di accrefcerle , l folleci- tudine di cuftodfrle, il fofpetto, l'inquietudine, la vifta degli Eredi , un fafco in forama di fenzazioni fventurace , che moltiplicano la fora- ma de'noltri defiderj pi afii di quello cha non moltiplichino H potere. L'ambizione  forf la paffione pi fune- fta infieme, e benemerita di tutte; a lei dob- biamo Digitized by Google 5 biafflo tutte le grandi imprefe; e v' quefro di nobile ncll' ambizione , ch'ella tende a ven- dicare il merito opprefl dai Bolidi Potenti , ed a provare che la diflanza porta dalla for- tuna fra un uomo e l'altra non  tempre uno fpazio infuperabile . La mancanza d'ambizione, e l'eccedo allontanano egualmente dal rico care gli onori ; nel primo caio non l cercane per indolerKa , nel feconda arni fi cer-can perch quella che gli uomini credon grande  un piccolo oggetto per noi. :v. ;. - . Chiamo ambinoli quel che ricercano gii onori come mezzi di accrefcere il loro potere; chiamo vani coloro che ricercano negli onori quel teitimonio del proprio inerito che Boa trovano nella loro colcienza: camminano en- trambi alla loro felicit qualora vincano I gra- di  le intelligenze fovra- umane nella noftra azione , ovvero manifefian- do una decil fuperiorica di coraggio , virt, che fola, in ogni fecolo. e pred ogni nazio- ne ha Caputo colbntemente- ottenere gli omag- gi degli uomini. Il pericolo di quella conqui- da crefcc a mifura. della, violenza con cui fi tenta, ma infieme col pericolo cteice la forza della impreffione. Si conquidano mediatamen- te i furTragj' della moltitudine laddove il, detti- no della moltitudine dipenda da pochi , otte- nendo da elfi una carica , per cui gli uomini afpetcino bene o male dalie noftre azioni . Per imcrelr quelli pochi a darci l'impiego con- viene conofcere il loro carattere ; in molti pu 11 danaro, in molti pu la fiducia di dila- tare il proprio potere riponendo in carica- de' meri ftromenti de' loro fini; alcuni pochi ce- dono all'opinione dell' abilita ; pochiflmi fono KGi clic, non remino la fuperiorit de' lumi o. Digitized by Google di forza d'animo : quelle qualit vedute, pro- ducono l' avverfione , fentite producono il ti- more , efercitate producono  l' elerminio di chi. le poflde o 1' ubbidienza degli uo- mini . Finalmente fi toglie agli uomini Tocca- tone di riftringe^ il nolr.ro potere forrraen- ~>ci a'ioro Iguardi con una vita ofcura, e ri- gorofmente conforme alle leggi : quella ri- gorofa conformit colle leggi  indifpenfabi- le per contraporre al fentimento di fuperiori- t che gli uomini focievoli hanno per i foli- tarj , quello dell' aperta ingiullizia, fe ne fanno ufo. Quello  il partito meno pericolofo di ogni altro, e meno foggetto ai capricci altrui; ed  quello appunto che  flato ordioariamen- ne prescelto dai faggi. Colia applicaziqne di quelli elementi, e con un intimo efame giunger potrebbon gli uomini a migliorare la loro condizione dimi- nuendo l'eccedo de' defderj fui potere ; ma poche fono le anime privilegiate , che refilti- no ad un tranquillo efame di lor medeiime. Sono per la maggior parte gli uomini co- me deboli ammalati che temono la vifta del- le proprie ulceri . I felvaggi foddisfatti che abbino i bifogni filici rientrano nello flato di perfetta tranquillit; ma a mifura che gli uo- mini s'allontanano da quello liuto acquiftano una folla d'idee civili dal dlfordine delle quali . . nafce Digitized by Google t II nafce quel mordace fentimetito della propria battezza , che fi chiama noja ; quindi cercano , gli uomini d slanciarli a vivere lontani da loro medefmi , quindi l* aborrimento della folitudi- ne e il bifogno perenne d'una converfazione qualunque o del fonno. Cosi la vita dei pili fi rifolve in ima collante obbedienza alle fcQ- lzioni degli oggetti attuali, alle quali rariffime volte la rireffione contrapone l' immagine degl.i Oggetti lontani; onde mutandoli pel moto no- veriate della natura o la dillanza, o l'apparen- za degli oggetti , gallegiano le umane menti fu quello fluttuante appoggio, e padano dall'odio all'amore, dal difprezzo alla (lima con una che ferobra contraddizione a primo afpetto , ma che poi conofciuta fi rifolve in una legge collan- te d'un eflere meramente paffivo, Con quelle cognizioni fofltuiamo al pe- nofo fentmento dell' odio il pi giudo e pi umano che  la compatitone degli errori delia moltitudine : Da quelle cognizioni nafce di pi una vera e ragionata compiacenza di noi medeimi , poich fentiamo la reale diftanza , che pafi fra noi ed i volgari , e la non fattizia fuperiorira noltra in ci, che noi potiamo ef- fer con noi medefimi, e fentire in una forte  d' amicizia con noi ftelfi il bene d' eldere , laddove eil portano fempre il loro nemico ovunque vadino,cioi ri m orli , la diultima, e il tedio della propria eftlenza. * * 3 P* - Digitized by Google I* . Per confervarci quelli mattimi vantaggi con- viene far molto ufo della ri fleflone in tutti gli atti importanti della vita , per il che o non com- metteremo azioni delle quali abbiamo pofda a pentirci, ovvero quando ci accada non fare- mo a noi feffi il rimprovero d'avere fcelto male per propria imbecillit -, e riflettendo ai confini , che ha Tempre il potere e lo fpirito umano guarderemo come un inevitabile tributo i noflri errori. La buona cofeienza e dunque il premio della riflefltone. 'Conviene colla lineinone formarci una chia- ra idea della giuiHzia, voce fpefl ripetuta e 'rare volte imefa. La buona cofeienza  un fenthrtento della conformit delle azioni noftre Colla gktftizia . La giuftizia  la conformit delle azioni  noftre coHe leggi' . Le leggi fifiate neh" univerfo fifico dall' autore del. la natura fono per quanto ne fappamo -, femplici, e invariabili ; ma nell' univerfo mo- rale tanta parte hanno avuto gli uomini nello ftabilimento delle leggi , le debolezze , gli er- rori , le' private mire vi hanno s fattamente contribuito , che ad ogni pano s' incontrano 1 dubbj , e f bifogno d'aver la mente illumina- ta per diilricarfene . -  : '  ;  L'unica legge univerfale, e fempre ob- bedita dagli efTeri fenfibili  l'amor de! piace- re. Gli uomini che meno fanno ufo della ri- fleffione fono molli dalle mere fenfzion degli ' " oggec- Digitized by Google 'oggetti prefenti , e comprano bene rpef un piacer attuale a prezzo d' un difpiacere molto maggiore a venire: pi la mente  illuminata, e pi e* accolta all' cfattezza del calcolo di pre- ferire la fomma de'beni maggiore alla minore. Una beatitudine eterna e infinita  mag- giore di qualunque bene attuale finito: una infe- licita eterna e infinita  maggiore di qualunque male attuale finita : fe l'uomo dunque, fofie perfettamente illuminato non cercherebbe mai i piaceri che fono vietati dalla legge divina ; ed a mifura che s' accoller a quefta perfezio- ne di lumi far nella ftrada della giuftizia re Bgofa, ed in confeguenza lontano da'rimorfi delta propria cofciehza. Bench l'onefta fia la bafe umana della religione , colicene chi offende le leggi dell' una offenda altres quelle dell'altra; pure an- che da fe fola deve oftervarfi dall'uomo illu- minato . Qualunque piacere  minore dell* fomma de' difpiaceri che fi ricevono dagli uo- mini qualora l ha il concetto et' efiere mal- onerto: il difpreezo, la fuga, g' intuiti, l'infen- Abilit ai nofiri bifogni fono gli effetti che ve- de feruti in feccia degli uomini chi fi allonta- na dalla virt, ed  pi facile eflrc onefto che il portarne continuamente' la mafehera. Di pi; offendendo le leggi dell' onelta nafee in noi m fentimento di difprezzo di noi ftefli che  3 pi .crudele di tutti, ed una vile timidezza, Digitized by Google per cui fi (cerna il noftro poteri ; quindi fredda- mente concludo che l'amor del piaceremi. porta ad obbedire alle leggi dell'ondili j mi mantiene nella ftrada della giuftizia morale, e mi preferva dai rimorfi della cofcienza . Felici quelle anime che nell'amore della virt rica- lano un freddo ragionamento, e che trafora- te da una vincitrice fiamma per il bello e il grande Io onorano , e lo praticano per una volutt viviffima , che trovano immediatamente nell' onorarlo , e nel feguirlo ! Quando la . traigreflone delle leggi ci- vili imponi la violazione delle divine o delle morali,  gi provato che l'uomo rifcbiarato non la commette; ma quando la legge civi- le comandi di pi di quello che le accennate due legislazioni prefcrivono, la privazione del- la libert, 1* efiglio, e i fupplicj fono mali di tal natura che cercando ragionevolmente il pia- cer nollro none poubile, che vi andiamo in- contro . Il bollore delle paflon impedifce all' uo- mo di ragionare per alcuni brevi periodi , a allora  in pericolo di divergere dal cammino delia giuffizia ; ma ogni uomo che a fangue freddo vi travvia , d la pi evidente di tutte le dimoftrazioni d'avere un vizio nella facolt ra- gionatrice, poich le due voci intereffb , e do- vere fi diftinguono in ci folranto che la pri- ma rapprcfena il genere , l'altra la fpecie ; cio Digilized by cio che il dovere  un Interefl molto con- forme alia legge, ma non ogn' interefl  do- vere , poich vi fono delle azioni che la legge ha lafciate in liberta: intereG poi contrario alla legge non  poffibile che fi dia , poich  una contraddizione il dire the fin noltro in- tereli comperare un piacer minore con un male maggiore . Un'altra legge prefiede al mondo ed  quell'opinione univerlle degli uomini che ehiamafi onore: efl per una parte  molto efficace per fofpngere gli uomini alle azioni utili alla patria," ma talvolta s'oppone alla legge della religione , talvolta alla legge ci- vife ; talvolta la legge civile s'oppone alla religione ed alla onefta : come fceglieremo fra quefe contraddizioni? Ho ricevuto un' offefa , la religione mi ordina di perdonare. La legge civile mi pre- fcrive come debba far punire l' avvertano dal giudice; l'onore ordina ch'io me ne vendi- chi col mio braccio : fono fra l' infamia , la prigionia , e il peccato ! La legge civile mi offre una ricompen- fa, e m'invita con pubblico editto a tradire o ad uccidere un tale : la religione , e la onefl gridano non tradire , non uccidere . Come eondurommi in quell'orribile labirinto? L' ufo delia ragione mi fa conofcere che la prima fra tutte le leggi  la divina , e che  mio Digitized by Google i6  mio, dovere facrficar tutto alla obbedienza, d* un EfFere maggiore di tutti . Devo in fe- guto formarmi idee chiare e precife della vir- r, non parl di quella che ha la fila forgen- te nella teologia, ma foltanro di quella che  comune a tutte le fodera d'uomini, a tutti j fccoli , e a tutte le fette. Un atto utile in generale agli uomini fi chiama virt, e l'ani- mo virtuofo  quello che ha defiderio di far cofe utili in generale agli uomini. _ Non Co fe la religione prometta di ob- bedire ai proclami del Principe quando invita- no a tradire o ad uccidere uri malfattore , ma fe la religione lo permettefle convien calco- lare fe ia pi il bene che l ra agli uoniini li- berandoli da uno che  giudicato perniciofo  alla quiete prrbWica , ovvero : fe fili maggiore il : male di autorizzare cel proprio efempio un : freddo- tradimento ed un legittimo aflflinio . - A mifura che avremo pi lumi , a mifura che combineremo le idee con miglior metodo fa- remo' pi (Scuri della noflra virt.. Per avere una limpida nozione de' rap- prti- che abbiamo cogli- uomini convien ri- montare- all'origine delle cofe, e portarci coi penftero a quella rimota infanzia de! genere umano , in cui ogni uomo occupato dalle fempliet fenfazioni degli oggetti , lnza l'ere- dit delle ide compiette , che per una lunga tradizione- accumulate pofldiamo noi prefente- men- Digitized by Google mente , eccitava la legge primigenia dell' amor del piacere foltanto lugli oggetti che at- tualmente ferivano ! fuoi feai. Erano gli uo- mini allora indipendenti, .n l conofceva altro rapporto d'un uomo. all'altro, che quello del- la robuftezza dverfa , n altro vincolo era co- nofciuto. che quello della forza. Sia la brama di fottrarfi da un male, (ia il defiderio di pro- vare un bene, egli  certo che l'amore del piacere ha fatto ufcire gli uomini dal primitivo flato d'indipendenza, e gli ha radunati in fo- ciet. Il patto fociale abol il feroce mufco- lare difpotifmo, e colla induftriofa riunione di molte forze cofpranti fi venne a ftabiiire l'equi- librio fra gli uomini. Per far quello era indi- fpenfabile ci rcon feri vere l'ufo della naturale li- bert d'ogni uomo con cene leggi fattizie, le quali fono uno fpropro di parte delia liber- t per Scurezza del refto. Il fine dunque del patto fociale  il ben- euere di ciafeuno che concorre a formare la ibeiet , il che fi rifolve nella felicit pubbli- ca o fia la maggiore felicit poflbile divifa colia maggiore uguaglianza poflbile. Tutte le leggi fattizie devono dunque avere per ifeopo la pubblica felicita, ed eilndo interefl di ogni membro di mantenere s fatta unione ,  interefl pure di ogni membro che fi oilrvino le Jeg;j;  per le quali fluitile , giacch violan- dole ecciterebbe gli altri a rimettere contro lui Digilized by unitamente in vigore la primigenia legge delta La legislazione pi perfetta di tutte 4 quella in cui 1 doveri, e i diritti d'ogni uomo fieno chiar , e ficuri , e dove fia diftribuita la felicit colla pi eguale mifura poflbile fu tut- ti i membri . La legislazione peggiore di tut- te  quella dove i doveri , e i diritti di ogni uomo fono incerti e confali , e la felicit con- denfatain pochi , lafci and nella miferia i molti. Quanto pi fi accolla uno flato ad uno di quelli due eftremi , tanto la legislazione  pi o meno conforme al patto fociale. Non fo fe indipendentemente dal giudi- ce inevitabile poffa darfi fra gli uomini obbli- gazione morale: fo che in una nazione dove il parto fociale non fia lacerato , llntereue d cafcuno fa l' officio della obbligazione morale io quanto lo porta all' ofrvanza del patto; e nella nazione dove fia offef h natura del pat- to il medefimo interefl fa l'officio della ob- bligazione morale in quanto che porta l' uomo a dilliimilare un male, quando opponendovi fi vede incontro un mal maggiore. Le leggi poltive d' una focieta fedele al patto fociale non poflbno mai efire in con- traddizione colle leggi dell' onefi , perch dove le leggi hanno per ileopo la maggiore felicit potbile divifa colla maggiore egua- glimiza poffihile non potrebbero effe eoman- Digitized by dare un' azione oppofta alla felicit comune, il che lignifica maloneft . Quella contraddizione adunque non pub ritrovarti che in una focieta traviata dal pri- mitivo patto fociale; in una focieta viziofa, di cui in tanto non vedefi lo fcioglitnento in quanto che per un artificiofo fcilma vengono Jparati i d lei membri, n pollno riunirG a diimggerla ; in una focieta in fomma, in cui Ja maggior parte di chi la compone non ha ntereife a mantenerla, ma foltanto a non et fere autore della difioluzone . Ci porto ;  interetl noiro pofitivo la confervazione della pubblica opinione della no- llra onefta; non  intercfl noftro pofitivo la confervazione della focieta traviata dal parco fociale; -vuol dunque l'amor del piacere che preferiamo l'obbedienza alla onefta, ed ali* .onore-, pofponendo le leggi civili fin tanto che il male d'aver tralgredfta la legge civile non fa maggior del male d'aver trasgredite le Leggi dell' onefta e dell' onore . Tali fono i veri principi del diritto  e 'l faggio colla fcorta di elfi ha il metodo per rifolvere qualunque problema nelle contraddi- zioni che incontra ftalle diverfe leggi. Taii fono i rapporti di convenzione, che trovanti Ira un uomo e l'altro. Ma altri rapporti vi fono fra un uomo e l'altro indipendenti da con- venzione veruna, e fondati fulla fenfibilit nt> Digirized by Google 20 Ara , cio fu quella dolorofa reiezione che na- fte in noi qualora vediamo foffrire un eflre fenfibi'e , e fiTattratriva di quella deliziof fen- ftzione che proviamo vedendoci fuperiori agii uomini : fono quelle le forgenti pi copiofe dell'umana beneficenza. 'Qualunque volta a un uomo cui fia noto che ila dolore, fi prefenti la villa d'un efire fenibile addolorato , per quella fecreta conncf- fione che pafia fra l' azione degli oggetti eiler- ni , e le fenfazioni noftre , fa per un intern fremito delle intime fibre, fia in qualunque altro modo, fatto ih che l'animo noftro fen- te parte di quei dolore, e pi lo rifente, e pi  fpiuto a procurare la cefiazione della miferia in queir oggetto : ed ecco come la be- neficenza puramente umana fia una emanazio- ne dell'amore del piacere. Quello  il fentl- mento morale che nafce non gi da uri fenib a parte, come hanno taluni penfato;ma bent da una affociazione d' idee fefnplici che per analogia chiamerei il moro curvilineo della umana' fenfibilita. : -"pi ' - Quella beneficenza  minore generalmente dove & l'eccefio d'una pailone afTorbirca l'ani- moin lmfolo oggetto, Ovvero dove per difetto di elafii-ir* negli organi redi l'animo intorpidi- to^ Mfgnofo di pafiioni. Di pi , poca bene- ficenza' trovali s in coloro che bando avute ptche 'twcafioni- di foffrire , quanto iti' quegli Digitized by Google 'che forti e frequenti ne ebbero, poich le f* bre fendibili s' inaibrifcono egualmente o nel letargo o nell'abufo delle ripetute fenfoaoni , e s'incallifcono e perdono quella iquifit fenfi- bilit che produce il finitimeli co . Per fiflre fra noi e gli uomini le miglio- ri relazioni poffibili per la nolra felicit con- viene conofeerci , e conofeer gli uomini . Per conofeer noi flefl non cercheremo il voto degli altri, ma il nofiro: le pafloni, e l' imbecillir degli uomini, ora cercano di. deprimerci, ora d'innalzarci. Nettuno meglio di noi & fe in- tendiamo le opere di que' primi genj , che onorano l' ingegno umano, n v'  termometro pi ficuro di quello per decidere del noflro ingegno-. Nefluno meglio di noi fa fe ci Ten- tiamo i fcuotere al racconto d' un' azione g- Vile, e viaiofa 1 , n> v' termometro pi ficuro di quello per decidere della elevazione del n- flro cuore ; le noftre azioni a nefluno fono pi note Che a noi-fteffl: fe la certezza non co- mincia iti noi non  podibile che fiamo xa {errai o fiduri di verona dimdfrazione. :-. -   polazione come mezzi per accrefcere le ricchez- ze relative. Si Vede che la baie di quelle di- vinit  la 'pubblica ficurezza, quindi alcune na- zioni l'adottarono , altre vi 'fi avvicinarono'; perci o fu abolito o diminuirti il difpotifmo e la tirannia. Da quel punto fino al d d'oggi gli avantaggi de' paefi liberi fno andati Tempre crfcendo in europa , e i principi fono nell* 'alternativa 0 d Vederti come tributari na- zioni libere, o di abolire ogni Tchiaviri nella loro nazione. Tale  il mto che in quello fe- colo ~ha F europa , che con fondamento preve- de il %gio che la liberta delle nazioni fia per dilatarli. Quando ci iia fatto ,rinafcer l'anti- co vigore degli animi, l'antica guerra-di na- sone e -riort Si principi , e per quefi* anello hi 'giro -paneranno veritmil mente per fempre le 'nazioni 'europee , 'come l flagtoni dell'anno filila terra.' In 'vifta di ci -potiamo 'giudicare Bel grado drfrnt che meritano le fetenze, e prenderne quella porzione che giovi alla noftra Teticitv  : - : " : ; ' ' 'Da 'strni anni a queth parte s' nfv- gliara iri europa k difpura f 'fiano pi i beni o  m'li di quella vita, cio fe l'uomo indi- pendentemente dalla religione' debba vivere op- pure ucciderti .'- : Ognuno  buon giudice delle 'prprie Tentazioni, c i pochi fiiidj , che fi con- tano, fembra-chc debbono decidere della que- mmti L' errre fta nel computare la fperim'Za <' fra Digitized by Google 3 fra i mali, quand'ella  uno dei principali be- ni ; ie fenfazioni aggradevoli che per efl ci ven- gono non fono perci meno reali, perch il principio rifeda nella immaginazione. Non  poflble definire qual fia il carat- tere d'un uomo che univerflmente riefea in ogni fociet: non v' uomo per intentato che fia , che in qualche ceto non pofl ottenere l fiima;non v' merito perlumino(b,che fia che 1 in qualche ceto non potla edere difprezzato : E' pero vero che v' un carattere che pi co- munemente deve condurre a viver bene in ogni fecolo e pretto qualunque nazione, e credo ch'egli confida in un felice temperamento di forza, e di dolcezza d'animo, cosicch n l'una degeneri in agrezza, n l'altra renda Io fpirito debole e molle : Allora l' uomo refi egualmente dittante dalla inurbanit, come da quella fervile compiacenza che Io difpone ad eflre un mero finimento di chi ardifee di ado- perarlo. Fralle nazioni felvagge tutto  robufto e forte . Fralle nazioni corrotte fi vedono efpref- ( fututt'ivoti ^.compiacenza ed il forrifo. Fralle nazioni illuminate fi legge in fronte agli uomini il fentimento della loro Scurezza , e l'amore per la ofTervanza delle leggi. Il faggio giudica col fuo giudizio ; ha un carattere che  fuo ; Conferma talvolta alla co- mune opinione le fue maniere efterne, non per Digirized by Google per) mai i fuoi fenriment ; ricerca in rateo <fi giungere ai primi elementi delle idee per pre- fervarfi dall'errore, e fra tutte le verit podi* bili ferite che la pi importante , e dimollrata di tutte pei uomo  , che deve cercare la pro- pria FELICITA*. FINE. Digilized by Google 54o. e Oigilized by Google. . )A *&sa OPERE FILOSOFICHE DI PIETRO VERRI Tom JIL (0 PAVIA PRESSO GIOVANNI CAPELLI i8o3. Quosdem ratio ducil : qubutdam nomina dar apponendo sunl f a! auctoritas } quae liberum non re  linguai annum ad speciosa siupentem . Seneca de Consolai Cap. II. PIETRO VERRI A L LETTORE MILANESE e uesf opera fu scritta sono ornai quasi treni anni neU occasione in cui si volava sgombrare C amministrazione pubblica dalle nebbie  dagli errori consacrati dall' anti- chit. Si credeva che i soli mezzi per sal- vare la Provincia dalla carestia fossero i vincoli ; e quindi una legge obbligava a notificare ogni anno tutti  grani raccolti ; altra legge obbligava a introdurre una data porzione nelle Citt: pene severissime erano imposte a chi amassasse Grano senza ima patente : cautele sulla macina de Mu^naj , i moltiplicheranno questi errori , tanto pi diverr la nazione corrotta , simula- ta , inerte , e spopolata : essendo in na- tura umana l'imitazione gradatamente de' pi autorevoli ,  il ricorso all' astuzia a misura che si diffida della sicurezza pro- pria ; e T avvilimento , o la fuga a pro- porzione che si dispera la vita Egiata e tranquilla . Alcuni esempj rappresenteranno con chiari contorni le mie idee . Suppongasi che si voglia accrescere la popolazione dello Stato , dilatare la coltura sui ter- reni abbandonati , perfezionare i frutti II del paese; diao che queste provvide idee rovinerebbero lo Stato se fossero pro- mosse con leggi dirette , e se il legisla~ tore in vece d' invito e di guila si ser- visse della forza e del comando . Le leg- gi dirette sarebbero, per esempio, proi- bire T evasione dallo Stato , ed obbli- gare ogni cittadino giunto a' 20. anni ad ammogliarsi ; comandare alle comu nit di mettere a coltura le terre del loro distretto ; comandare il metodo di preparare la seta , l' olio , il vino rac- colti ne' proprj fondi . Gli effetti di que- ste leggi dirette e vincolanti sarebbero la spopolazione e la desolazione dello Stato . L' evasione crescerebbe , perch r uomo ama meno lo stare dov  co- stretto che dove spontaneamente sog- giorna ; sarebbero ripiene le carceri di infelici cittadini non d' altro rei che di non aver tradita una fanciulla associan- dola alla loro miseria ; sarebbero le co- munit esposte alle esecuzioni militari per non avere, coltivata quella terra per la quale mancavano le braccia ; gli sgher- ri, e la feccia degli uomini rompereb- bero T asilo delle domestiche mura per incfuirire sui metodi prescritti per 1' ap- parecchio de' predoni de' fosidi 3 e si ri- 13 fuggirebbero i sudditi affannati presso i finitimi abbandonando la patria . e cer- candone una nuova, ove tranquillamente passar la vita sicuri di goderla in pace sin tanto cbe le loro mani saranno mon- de da ogni delitto . Che se in vece il legislatore inviter i cittadini alle nozze ; e gli esteri a sta- bilirsi ne' suoi Stati con preferenze date agli ammogliati per gV impieghi , e ono- ri pubblici , non renderli esenti da un tributo, col facilitare le vie all'industria, coir assodare la propriet , preziosissimo bene dell'uomo sociale, col procurare agli abitanti la maggior possibile per- suasione della propria sicurezza nel che solo consiste la libert civile ; se affran- cher da ogni censo i terreni nuova- inente posti a coltura , e i Coloni che li coltiveranno ; e lascier privilegiati da ogni gabella i prodotti di qae' fondi ria- nimati , i quali sono una vera conquista umanissima per lo Stato ; se dispenser dalle comuni gabelle o in tutto , o in parte le materie prime delle terre pre- parate co' metodi migliori ; allora , dico , coti queste leggi indirette si otterranno i benefci fini che si propongono , e s otterranno stabilmente, poich'i la ritrosa vo- i3 volont dell' uomo vuol essere invitata senzi scossa e guidata senza violenza > perch s' ottenga un bene costante , e non compensato da un mal maggiore : Laonde Y arte di scrivere buone leggi si  appunto omelia di far coincidere r in- teressa privato col pubblico , nel che con- siste la somma delle cose . In fatti qualunque legge, l'osser- vanza ' di cui non ridondi in bene della maggior parte ds'sudditi, , e sar sem- pre trascurata , e inutilmente si tenter di proclamarla replicatamente , po.ich non porter essa se non effetti passeg- gieri ed effimeri, cospirando a deluderla la somma degl'interessi privati che vi si oppongono . Dal elie ne viene che do- vunque si veda ineseguita una legge pro- mulgata e ripetuta ; se V antichit , e i fatti intermedj non vi siano che 1- abbia- no fatta tacere ; ragionevolmente se ne concluder essere tal legge inopportuna; e questa generale teora altra eccezione non softYe che nel tributo odioso sem- pre , sebben necessario ; perch V uomo comune sente pi i bisogni suoi che i pubblici ; e perci appunto la migliore ripartizione  sji pochi che ammassano l'alimento de' moki , e sai quali insea-. Cammei-:' o de grani b *4 , sibilmente se a risarciscono ; e cos rendesi minore la somma degli opposi- tori alla legge, escludendosi in tal modo da questa classe i consumatori , ultime termine del tributo , il quale , rispetto alle terre , ed all' agricoltura  sempre eguale D sterilit . Questi principj sviluppati nella piena luce de nostri tempi erano perfettamente sconosciuti ne' secoli passati. L'arte di reggere una nazione era l'arte di tenere gli uoii.ini obbedienti al Governo: le te- nebre del mistero coprivano tutti gli af- fari pubblici : la popolazione , l' indole del commercio , le Finanze d' uno Stato erano oggetti o sconosciuti a chi regge- va, o ricoperti da un velo impenetrabile per modo che la strada de' pubblici im- pieghi non era battuta se non colla ta- citurnit, colla diffidenza:, e colla dissi- mulazione a' fianchi . L' arte di reggere una nazione ora  1' arte di spingere la nazione alla prosperit; ie verit annun- ziate da alcuni uomini privilegiati si sono generalmente sparse in Europa ; sono queste salite sino al trono de' benefici Sovrani , si sono scossi g ingegni ; e Goirailritto reciproco si va moltiplicando queste elettricismo die rischiara gli 0- w getti relatiri alla pubblica felicit degna delle meditazioni nostre non meno di quello che lo sono le verit, astratto , i fenomeni della natura , ed i latti deF antichit , stretti confini che per lo pas- sato si fissarono all'impero delle scienze. Dibattendosi in un libero , ma ur- bano conflitto le opinioni appartenenti alla legislazione , facilmente se ne schiu- dono utilissime idee , le quali poi esa* minate dalla penetrazione de' ministri fan- no emanar dal Trono felici provvedi- menti, e questi aucbe naturalmente nati da' lumi de' Monarchi giungendo al pub- blico lo trovano pi. illuminato, conse~ guentetaeate pi docile e grato alla so^ rana beneficenza . Sotto il nome di le- gislazione cadono tutte le materie di Economa. La grand' arte della legista zione prende nomi diversi a misura cha si mutano gli oggetti a' quali si Volge : quando verte sulle relazioni che la na- zione ha colle altre , chiamasi Diritto delle genti ; quando si volge a rissare la propriet de beni e delle persone chia- masi Diritto ch'ile ; quando ha di mira i costumi , la decenza , e V ordine intero delle citt chiamasi Polizia ; quando ha per oggetto il tributo , 1' annua ripvodu- b a iQ zi on e , ed il commercio dicesi Economia pubblica. La grand' arie del legislatore si  di promuovere la felicit pubblica; dun- que 1' oggetto della pubblica Economia si  promuovere l'industria conducente alla felicit pubblica . Le leggi proibitive o vincolanti il commercio sono appunto nel caso di percuotere immediatamente 1' oggetto ; fion sono un invito , ma un comando ; sono una porzione di libert tolta ai sudditi ; si ripetono pi volte , e bene spesso rimangono deluse . L' oggetto di sua namra interessa tanto la societ, eh' io spero non sia per esspre discaro l'esame ch'io ne i-ctiaprendo . Esporr adunque prirnu rameme ' indole delle leggi vincolanti per rapporto all'Econo- mia pubblica generalmente ; poi passer particolarmente ad esaminare come sieno esse nate a togliere la libert del com- mercio de' Grani , e come in varj Stati d'Europa vadano abolendosi a'tempi no- stri ; finalmente adatter i principi allo Stato di Milano . Entro in un'analisi piena d'aridit; ma forza  sviluppare i primi principi , definire . intendere me stesso per acco- starmi alla dimostrazione guscio sia pog 11 $t-fbi!e; l'importanza del soggetto; la iolla delle opinioni volgari contrarie ; Y appa- renza di paradosso che hanno le verit che sono per dire ; la preferenza che merita la gloria di persuadere sopra l'al- tra di dilettare mi costringono a diventar minuto , e non mettere le idee inter- medie almeno per poche pagine . Perch un commercio si l'accia , non basta che sia libero', bisogna che sia utile il farlo . L' utilit d' un trasporto nasce dalla differenza del prezzo : conosciamo i primi elementi che formano il prezzo , ed avremo conosciuto il principio mo- vente, la cagione di ogni trasporto , con- seguentemente la cagione d'ogni com- mercio; conseguentemente il primo prin- cipio da cui scaturiranno tutte le teorie dell'Economia politica. Per entrare in questo esame preli- minarmente stabiliamo alcune definizio- ni. Cosa  denaro ? L'indole del denaro non si  ben conosciuta da chi lo defin misura del valore ; poich ha valore egli medesimo nell'opinione degli uomini, e e come si misurerebbe la misura ? Ne l'ha ben definito chi ha detto il denaro essere un pegno: poich questa propriet  cerarne a qualunque cosa contr^ua- b 3 bile che pure e pegno della cosa eoa cui pu combiarsi E stato detto' che i denaro e la rappresentazione del valore delle cose', anche questa definizione  poco precisa; poich i metalli pure sono cosa come le altre merci, le quali vicen- devolmente sono rappresentazione del valore del denaro. Cosa  dunque il denaro ?  la merce universale . Questa definizione compete al denaro solo e comprende tutti gli e fretti e l'indole sua - 11 commercio  il cambio che si fa  omette inutilmente la legge tul- ruiuo. i monopolisti : potr rovinarne alenai; ma saranno immediatamente suc- ceduti da altri; troppo grande  l'utile in questa frode, e troppo mezzi vi sa- ranno sempre perch il ricco addormenti i bordinati custodi della legge. Sem- pre che vi saranno vincoli , vi -saranno monopolisti , e fin che essi vi sono , .  _ :iolo saia il numero de' venditori nei corso ordinario deli' anno a lroute de' com retori ; perci saia alio il prezzo : di che i' esempio d'Inghilterra ci som- ministra una piova di fatto , poich ac- r libert a quello commercio e ren- ribass -:ti i prezzi interni In lo stesso. fa meraviglia oomo in mezzo a tutta . 3^ la. rete de' vincoli tessuta ne secoli pas- sati non sia mai caduto in monte di vin- colare anche la custodia del grano de- stinato per semente . In fatti , seguendo i principj coattivi , che non suppongono inerente alla natura delle cose medesime il mot al bene , ma vogliono impri- mervi questo moto, che non poteva fi,' ;r\ per intimorire gli animi volgari , e far riguardare sautarissimo e provvidissimo il vincolo sui grano da seminare l Que- sti  una psrte sensibilissima del rac- colto ; sar almeno la quarta parte .- e che diverr lo Staio ( potevasi dire ) se i:z spensieratezza o l ingordigia caver da Gra- nai qmsto germe delia ventura raccolta e. lo maciner t L' incent'vo dell' utile h Sem - pre urgente; V uomo sacrifica i Insogni dell' anno venturo agli attuali . Dunque si ob- blighi ogni possessore a depositare una pro- porzionata quantit di grano sotto la tv-trio, pubblica per seminare il suo campo. Ep- pure questo non si  l'atto mai ;  inimi- cato mai per questo il grano bastante a seminare ? Non mai . Perch V iuteresse privato d' ognuno quando coincide coi pubblico interesse  smpre il pi sicuro garante della sicurezza pubblica ; e il bene o il mala in ogni costituzione ni d a 4o fa sempre dalla pluralit de'sufira:; ti solo diversi nella Democraza dagli altri governi ; che ivi sono palesi , e ne- gli altri taciti ed occulti ; ma non perci meno attivi in effetto , e decidenti ogni stabile sistema . Ma si dir: una nazione agrcola ciar un ordonnance que le Tappar: d' un  dix est eg  etti d' un d vinai . 48 un ottavo d'oncia d'argento puro si chia- mer lira . Patto ci : la proporzione dell'argento coli' oro e col rame; la tas- sazione di ogni moneta non deb-b essere altro che una semplice operazione arit- metica appoggiata al valore che 1' opi- nione universale d a' metalli , e allon- tanandosi da questa legge inerente alla natura delle cose scapiter il Soviano , e la nazione di tanto quanto sar l' ar- bitrario adoperato , allontanandosi della realita . Una superficiale politica altro non sa suggerire che leggi vincolanti. Per fondare una nuova manifattura si ricorre al privilegio esclusivo , e si toghe in fa- vore d' un forestie"1 talvolti mal cono- sciuto , a tutt' i Cittadini la libert di adoperare l'industria in quella classe. Cos si crea un monopolista ciie seriv.a concorrenti non ha sprone all'industria ; e un vincolo universale rarissime volte produrr che vada prosperamente una manifattura , come f esperienza univer- salmente dimostra . Altri vi sono, i quali vedendo che V uomo ha bisogno dell' alimento , del v ;rito , del fuoco ec. vorrebbero che una nazione procurasse nel suo interno la produzione pi varia e pvop orzi nata possibile a' bisogni : quasi che dove gli ostacoli politici non vincolino la natura , sia possibile che non si dividano da se, e si bilancino le colture a' bisogni dello Stato . L'oggetto dellEccnomia pubblica si  di procurare* come si  detto , la massima riproduzione annua possibile , ad ottener questo fine ogni vincolo  un ostacolo. Tagli chiunque vuole il bosco, e sopra un terreno disabitato vi pianti le case per nuove famiglie che lo colti- vino e lo coltivino a lor talento. Se l'ec- cedente il consumo di qae' nuovi abita- tori valga tanto da ricondurci nello Sta- to pi legna di quella che produceva il I)osco , l'annua riproduzione sar accre- sciuta ; conseguentemente sarassi fatta una mutazione salutare . 11 prezzo che colla libera concorrenza livella ogni cosa, determinando l' interesse privato , deter- mina il pubblico , quando i vincoli non vi pongano ostacolo . Quando la legna scarseggia il di lei prezzo s' innalza , e s' innalza a segno che non torna pi il mettere a nuova coltura i boschi ; e sin che si cerca di coltivarli  una dimo- strazione , che dedotte le spese della coltura , 1' eccedente basta a far entrare Commercio de ^rani P. I, e 5o nello Stato pi legna di quello che ne dava il bosco . Ogni legge che freni la coltivazione tende a diminuire 1' annua possibile riproduzione . D' una nazione volerne lare un piccol mondo  un idea di simetra mal intesa: procuri il legisla- tore che si crei il maggior possibile va- lore , cerchi , lo ripeto , di proteggere 1' annua riproduzione maggiore possibi- le, rimuovendo gli ostacoli, e si riposi sulla natura delle cose la quale da se far che si dividano ie colture a misura dell' utile di dilatarne pi una che V al- tra ; utile sempre proporzionato al prez- zo nato dal bisogno , come dissopra si  detto . Il Mondo va da se ,  detto antico che singolarmente si verifica in queste materie . Ogni vincolo , ogni legge che si tenti di portare direttamente suli* industria , o sull' abbondanza pubblica produce un effetto diametralmente op- posto : impegna una guerra sorda , e fa- tale fra il legislatore , e i privati inte- ressi ; cadono alcune vittime di tempo in tempo; manca la pubblica abbondan- za ; 1' avvilimento e lo squallore si spar- gono sugli Stati , e danno un colpo ai gran principio motore dell' industria li libert -, r Quai saranno adunque gli oggetti che occuperanno un Ministro di Ecoao- mia pubblica, se tutto il bene, e la pro- sperit d'una nazione sono l'opere della natura , e ricusano la mano dell' uomo i Rimuovere gli ostacoli, abolire i vincoli, spianar le strade alla concorrenza ani- matrice della riproduzione, accrescere la libert civile , lasciar un campo spazioso all' industria , proteggere la classe de' ri- produttori singolarmente con buone leggi sicch l' agricoltore , o 1' artigiano non temano la prepotenza del ricco , assicu- rare un corso facile . pronto , e disinte- ressato alla ragione de' contratti , dila- tare la buona fede del commercio col non lasciar mai impunita la frode , sem- plificare la forma , e 1' esaz'one de' tri- buti , ripartirli nel modo pi innocuo lion mai direttamente sull'industria, com- battere con tranquillila , e fermezza in favore della causa pubblica ben intesa, di quella causa che  sempre la c-.msa del Sovrano; non disperare mai del bene, ma accelerarne l'avvento, diffondendo nella nazione i germi delle pi utili verit ; questi e non altri sono gli oggetti che debbono occupare un abile Ministro di Economa pubblica : il restante foiz'  abbandonarlo alla natnra . Era Ma corae nella niente degli uomini sono universalmente nate , cresciute , e radicate colla tradizione de' secoli idee tanto fallaci , e deluse costantemente da- gli effetti quanto quelle de1 vincoli ? Co- me mai  accaduto che la parte pi colta dell' Europa sino a un secolo fa , abbia potuto conservare questi vincoli e risguardarli come i garanti della abbon- danza pubblica? Per conoscerlo bisogna ch'io brevemente esponga come pensas- sero gli antichi in questa parte della le- gislazione , qua} tradizione siane venuta a noi, come alcuni Scrittori abbiano co- minciato a combattere il pregiudizio , e quali riforme gradatamente siansi vedute in Europa sin ora lo mi atterr sem- plicemente al commercio de' Grani . Molti popoli antichi ebbero per l'a- gricoltura non solamente amore , e ri guardo , ma rispetto e riverenza singo- lare . L' invenzione di coltivar la terra fn da essi attribuita alla Divinit. Alcuni 3Ionarchi dell' Asia si gloriarono di col- tivar la terra colle loro mani (a) , come fai Scnofont de Oezonom. C/c de Sentct Plm. l.b. 18. ap 4. 53 aticlie al d d' oggi s costuma nell' im- pero Chinesc . I Ptomani sino dalla fon- dazione loro destinarono eli* agricoltura i primi onori , e gli ArVali , cos detti ab Anis , furono Sacerdoti distinti , e privilegiati sugli altri (a) . Sono bastan- temente noti i fatti della Romana Storia, e di Cincinnato, e d'altri illustri Roma- ni che dall aratro passarono a! trionfo , e dal trionfo all' aratro (b) . In Roma fu tenuta sempre in onore l'agricoltura sin che in onore vi fu la virt ; ed ogni mezzo per promoverla , e favorirla , fu sempre risguardato come uh oggetto pre- zioso a segno , che mentre tutti i libri rappresagliati nel sacco di Cartagine si distribuirono dal Senato Romano a'Prin- cipi alleati , il medesimo Senato volle ritenere per f i vent' otto libri sull' agricoltura di Magone Capitano Carta- ginese, e ne commise la versione a De- cio Silano , e gelosamente furono cu- stodii dappoi ; del che reggasi Plinio , e 3 (a) PJhi -.'ero de A^ric et Macro Su tur lib 3- fhi Pin Iti 4. cap 3. Livio Iti 3. Jlor i7iis. JiUar Uh. e. de de mta, Ul. I* cap 42 (e, Crcer Tlsc cuaeti 1:6 5 5? . e nel Codice (a) de naturahbus liberi* &i confondono indistintamente la donna quae mcrciinoniis publice pracfuit, e la Schiava, 1' istriona , e la scostumata ; vcggansi Considerati ons sur la grandeur et la deca- denze des Roma in s (b) , e l'Esprit des Lo ix (e) . Nel corpo delle Leggi Romane tro- viamo che parlasi degrani singolarmente nelle Pandette ; e non sar inutile il qui riferire quanto vi si legge. Al titolo dun- que (d) de extraord. Crini, vedesi Anno- nam adtemptare et vexare vel maxime Uar- danarii solent . Quorum araritiae obviam ilum est tam mandatis , c/uam Constitulio- nibus. jtfandatis denique ita (.aostur . Prae- terea debetis custodire ne Dardanarii ullius mercis sint , ne aut ab his , qui coemptas merces sappi munt aut a locupletionibus , qui Jructus suos aequis prctiis vendere nollent , duin minus uberes proventus oxpectant. . no Annona oneretur . Poena aulem in ho$ va- rie statui tur . JS^am plerwnque si negetian fa' Idem Uh 5 (beinpro- nia prooosta da Caio Sempronio Gracco per togliere dalla radice questa funesta generosit de' privati, venne stabilito che  pubbliche spese si distribuisse ogn* anno una quantit di Grano al popolo. Qualunque sia stato il fine di questa legislazione, il fatto fita che poche Storie del Mondo raccontano s frequenti care- stie quanto la Romana. Per testimonian- za d' Alicarnasso (a), e di Plutarco () vi fu carestia in Roma nell'anno di su* fondazione 244- Troviamo in Livio (e) al- tra carestia nel 262. Nello stesso Auto- re (d) carestia nel 3oo. Parimenti da Li- vio (e) vedesi la carestia nel 3 e 5. 11 me- desimo Storico (f) ei riferisce la care- stia del 363., ed ecco come ne' primi  '. 'J ^.Jli. _ J>JliJR?..JAiL.lJL. mie. fa) Lio x. (h) In Corcai. (C) 2 34. (d) 3 33. f) 4 12, (0 4. 5a. 6o tempi di Roma circa quattro volte ogni cent' anni fosse quella nazione esposta al pericolo di morir di fame . Ne' tempi di minor virt , e maggior fortuna . cio al principio dell'Impero leggiamo in Sue- tonio (a) una ferocissima carestia sotto Augusto per cui dovettersi bandire da Roma gli Schiavi , i Gladiatori , e i Fo- restieri . Troviamo pure in Suetonio il medesimo disastro accaduto pi d' una volta sotto il Regno di Claudio (b); cosi sotto V Impero \ Adriano per testimo- nianza d' Elio Spartiano ; e cos molte altre volte , il che formerebbe un cata- logo lugubre e vasto per chi volesse im- piegare il tempo a compilarlo esatta- mente . A fronte di questi fatti sarebbe stato giusto il ragionare cos: se in Roma , malgrado le leggi coercitive del com- mercio de' grani , malgrado una severa legislazione contro i monopolisti , e gli incaritori del grano , il popolo  stato frequentissimamente soggetto alla care- sta : (a^ In Aitgvst cap 41. (bj li Claud x8 cap 20. Or stia ; dunque i vincoli immaginali dalle lor leggi sono insufficienti ad assicurare la pubblica abbondanza. Forse nel tem- po della Repubblica vollero i Romani comprarsi la libert anche colla fame ; e si temettero pi le pubbliche larghezze colle quali si seduceva la plebe di quello che si temesse la stessa fame: fors anche quella nazione guerriera t e non com- merciante, conquistatrice, e non curante degli oggetti di pubblica Economia cre- dette di potersi salvare dagli effetti sen- za ascendere alle cagioni delle cose. Ma cos non s ragion; la cieca venerazio- se prevalse, e quel sentimento di rispet- to td entusiasmo che ispirano gli avanzi istessi della Romana grandezza non lasci luogo a ragionare, ma forz l'imitazio- ne de' successori persuasi di andar bene quando seguivano le tracce lasciate da' Romani Pure nella situazione de' paesi d'Europa facile sarebbe stato il conosce- re la differenza ; poich Pv.oma sin da* primi suoi tempi dovette vivere col gra- no degli esteri, e invece d'essere uno Stato attivo nel commercio de' Grani fu anzi sempre tributaria, e passiva Le ti e Isole Corsica, Sardegna, e Sicilia son quel- le che Cicerone chiama.--/ a benign issino $ Ito- Commercio de grani Jr,% i 6 mae nutriaes et trio, frumentaria subsiila Rei* puhUcaa . Accresciutosi poi f Imperio , e e con esso la popolazione di Roma , vi si portavano i grani anche d' Affrica , d' Egitto , Iella Beozia, della Macedonia, del Chersmeso, dell'Asia, della Siria, e talvolta delle Gallie , e della Spagna , come comunemente vedesi ne' Scrittori (a). 1 gran; dunque in Rocna furono sem- pre considerati un mero oggetto d ab- bondanza , non mai un prodotto delle terre proprie da conservarsi ; ivi cgni commercio di grani si fece quasi sempre a spese del pubblico erario, dal che com- provasi quanto indebitamente siasi voluto far servire lo spirito delle leggi Romane di norma allo spirito delle legislazioni posteriori dell'Annona massimamente ne* paesi coltivatori , e abbondanti di pro- prio grano . Le leggi Romane , cio la raccolta delle leggi Triboniane cadde come sap- piamo coli' Imperio ; indi collo scopri- r'! Plutarc in Coes. Sex Aurei Vct. in Ociav Liv li 33 Cic in Verr. et pr Leg et ad Attic Epist g f^aro de re Rustica. . Pi . Ib 18 et iq Joseph, ex Vrtfion Agripae ai Jmko Ciiiudian l i. 63 mento delle Pandette riprese credito, e vigore . Allora fu che verso i tempi di Lotario fecondo , lrnerio apr in Bolo- gna la Scuola di Giurisprudenza , e a tal venerazione ascese quella professione che da un consesso di Giurisperiti si rego- larono gli affari di Stato sinch giunsero Martino e Bulgaro Lettori di Bologna a disputare la gran causa della libert e della servit del Globo Terracqueo co- me diffusamente leggesi in Ottone Mu- rena nella Storia di Lodi . Tale lu l'a- scendente che prese allora quella pro- fessione che f Ircperador Ccradino fu dal Re di Francia giudicato in un Consi- glio di Giurisperiti divenuti gli Aruspici di quel secolo, e de' consecutivi . Lo spirito de' Prammatici , general- mente parlando,  quello di operar sem- pre con leggi dirette , e comandare la prosperit a una nazione , anzi she diri- getela ; cos se una nazione sia perden- te nel commercio , ed abbia la bilancia in proprio discapito , per il che sia for- zata necessariamente a trasmettere il de- naro a' forestieri , vedo lo spirito de" Pram- matici rivolersi , non gi a svincolare l'industria nazionale, ed a togliere la ca- mion del male; ma bens a proibire 1' u- f 2' scita del denaro medesimo con inutili tentativi : giacch non possono proibirsi gli effetti sinch sussistono le cagioni. Cos se per cattivo regolamento da uno Stato cercano d'espatriare i sudditi, e singolarmente i pi industriosi tarai sono i ma affatturi eri , osservo che i Pramma- tici in vece di ricorrere al solo mezzo di conservare la popolazione . voglio dire a procurare agli uomini nello Stato la ti* curezza , la libert , la protezione, eguale per Io meno a quella che possono tro- vare altrove , ricorrono a leggi penali proibitive dell' evasione , inutili sempre per lo meno . Se un Banco pubblico non trova la confidenza della nazione , invece di tarla nascere con una chiara e semplice amministrazione tuttricc della tede pubblica ; ordinano con un Editto che la conti. lenza nasca obbligando ne' contraiti a ricevere le Cedole del Bmco, mezzo puntualissimo per alienare sciupio pi la pubblica conldenzn . Lo stesso dico delle tante prammatiche che dallo .spirito de' Giurisperiti sono state propo- ste dal Secolo terzo sino al presente , c.oc smo dal tempo in cui Giulia Mara* :nea assistila da un consiglio di Gi- . riti rognaya per Alessandro sue ! 65 volendo ridurre gli nomini sudditi del vasto Impero Romano alla regolarit Claustrale (a) ; le quali prammatiche ten- dono ad estinguere in gran parte la va- nit , e r emulazione animatrici dell' in- dustria facile ad assopirsi cessando que- sti stimoli , tolti i quali cade ogni na- zione nella inerzia, nel letargo, nella povert , e nel' avvilimento . Lo stesso spirito de' Commentatori del testo delle leggi , spirito diretto e vincolante , spirito che comanda e non guida  stato quello che ha suggerito d comandare al popolo che credesse che un'onGia d'oro valesse pi d' un'oncia d' oro , un' oncia d' argento pi d' un' on- cia d' argento , o meno di quello che generalmente viene valutato in Europa , come facilmente pu vedersi .presso la maggior parte de' Prammatici . Questo spirito , che non considera la felicit pubblica come il risultato della felicit della maggior parte degli uomini , ma bens cerne un essere immaginario, e di- viso da ogni uomo ; questo spirito che f 3 (a) Aehui LampT.d. in iA!aa apenc anzi uri umo cospicuo di coi.nnicrv.ir attivo, trasportando agli e;teri 1' e.:cc- .djue il proprio bisogno (a) e il i'ortu- ^iuio effetto di questa lege !e' due i.) C rali( r IN ok . ''  . Lais tres n/itians '' in 1 U - fa fomiti" ; roycnu ,?r j. J oh i a u ' s projcts qu pouf s tu ^.drantir ; nous cvons trojui' pai  /u primu . }ssa:re  la ri'x : plus /laurei tx qur. nus  te$ i:c- li s voint ces ex- clssi^ et subites dijjcrenccs dans le piix dts (a Lo stalo di e->p->rta~ione de' Grani- pre- sentato ntl '75 alla Damer de' Comuni dimo- 8 .'ie sono usciti dall' Inghilterra dal 1^46 al I^o Ouarter 1200000 circa , 1 qunli .si STTO ve-duti lira Sterline 74c5d , cio rivea sedici 1ml1_.n1. e da gerito Novanta mila Zecrbini sor.o fcut:.t: per qpes ' ail.c ilo neli' Inghilterra , e ramo 'ti ut;!s Comixieicio p--r nderui; to pstdaira. a quel Regno 1' anntfr-~guadag--di /- cliuii ^2 oco '> "-Iternarjues sur ?g$ hvAnUrgS ci ! f dftran- tJges de la Franca et de la Grande Bn/t^-.c ,  l>.ea e 1734 pag fi- 93 des blds toujours causes plutt par la crainte que par In realif de la diseite , erainte qui souvent en avance et en aug- mente Ics hrrears . En pluce de vastes et iQinbreux greniefs de ressource et de pr- voyance nous avons de vastes plaines ense- mencs dont leproduit se renowelle et s ac- ero it tous les ans . No tre culture , et nos rcoltes soni devnaes sans ornes des que r.os Laboureurs ont t srs d'une censom- matton cerfaine au deors , et au dedans . I due esempj fecero rivolgere alcuni politici del continente a pensare su di questo argomento. 11 Maresciallo di Vau- ban nel suo Testamento Politico stam- pato nel l'yoS. (a) iu di opinione che le pauvre perii par /' avilissement du prix des Bleds , et V extrme sterilite ou ehert est inevitable de temps en temps sii ny a une continuelle permission 4 enlvement hors le Royaume , except les temps de c/ier  ex- traordinaire qui portent mme leur de/'ense avec eux . Molti Scrittori dappoi si an- darono accrescendo , e a misura che l'Economia pubhliaa fece progressi si Commercio de grani IP. I. g (?j Pagina 189. moltiplicarono le grida in favore della jihert del Commercio . la fatti nelle tauuzioni che il Re delle Spagne Filippo V. in data del 4- Luglio 1*718. consegn agi' Intendenti delle Provincie leggiamo rlcnne massime in questa materia lontane dalla antica pratica , e che gi comin- ri;:no ad acco3tarsi ai progressi del Se- colo. Now sar discaro il vederle. PSelle istruzioni adunque aH'Articolo LKf. cos legge&i (a) : che il principale oggetto del Ministro degl'Intendenti si  cf eneenra- ;r;- et de mantenir l" abondance des pr- ductions de leurs Provinces , sur toni celle des 'jrains ; (/'/e puseurs se Irompent sur les moxens , pretendane  iction dans le Bled , elle doit 4fre dans toute son etendue pour les autres denres , et marchandises . Poi parlando specialmente Hel grano (/?) dice Soit dans la disette , soit dans V abondancs la libert C?es transports d' une Province  V autre est le Jondement d'une borine Regie E' vero die questo Autore non aveva idee decise e chiare per la libert del com- mercio de' grani ; ma per si conosce che nemmeno era persuaso che i vincoli fossero un bene. Ne' tempi a noi pi vicini vennero poi l'Autore della Theorie de l Impot , il quale disse che ceux qui ne voyent que le pain dans T agricolture , jettoient T Etat dans une dsettc vnversclle , si on li tir confinit la direction de V Agri- euture et da Commerce des pi'oduciioiS de la terre . La terre est la source de toute s les richesses aV une Nntion Agricole ; mais en n ottieni ces richesses que par les d~ penses de la culture , et par la libert du fa) Pag 55. (b} Pagina 3af. w Commerce das proiictions gii elle fai' n . tre (a) . Dello stesso de:iso $ntfna&nt si mostr X Amore degli Elemens du ( merce in cui lesesi: les peiiples qui n'o'if cnvisag la culture des terres que da coli; de la subsisfancc ont toujours vcu dans l cralnie des disettes , et les ont souvent eprou- j-V:?s . Ceux qui V ont envisage corame ufi oljet de Commerce ont joui d une abon- dancc assez io&tenlie pnur se trouver tou- jours en tttt de suppltr aux besoins dea ctrangers . V Angleterre nous Jfnt font  la /bis r un et, V autre exemple . Ette avoit suivi , camme presqus tous les autres peuples , /' esprit dei loix Romaines sur la polics des grains . Loix genantes , et con  traires a leur ohjet et. {/;) . Il Traduttore del The BritLsk fll-irchant parlando dei hi Legislazione Inglese sui grani dice . De- puis que cette police y est iiblie elle n a point essuj de Jamine . Le pam s'y sou-* fa) Thcorie de l' linpot -par V Auteur de Fami des lommes: h. Amsterdam cuez Arkte et Mer- kus 1761 pag 76. (b) Elemens du Commerce :  Leyde et s^ frouve a Pam chea Itis>rij eie, 1704, Tom- 1... pag. 105. "8. , iient a la vcrit  un eertain prix : mais ce ri psl pis tant le boa marche de cet'e den'e quii imporle de procurer au peuple , que Ics moyeus de t acheter ; le salai re des ouvriprs est toujours en raison du prix des denrces'. Ics grandes P^illes en sont la preu- i> e (a) . Cos sulla circolazione interna de' grani s' esprime 1' Autore delle Conside- rat'on sur le Finances d" Espagne (/>), La libane de la venie, e du transport dans 1' intrieur sans aucune restriction , ac- acroit la concurrence des vendeurs et des acheteurs ; e' est- dire quelle fa- ?ilite la subsistance du peuple, en me me tems qu elle encourage la culture. P ri memi , e con termini pi illimitati si dichiara 1' Autore delle Rcmarques sur plusieurs />ranc/ics de Commerce et de TVa- vigation (e) che V uni que rnoyen d' cu- courager X Agricultnre c'est de permet- tre l'extractioB des grains pour les pays eiranarers. Elles ont constamment mar- )> , e in altro luogo ritornando a quest'argomento ragiona cos _- L' in- tcrt regne galement chez toutes les ions : raais nous avons un prejug plus que Ics autres ; une police diffe- rente , et des Rglcment particuliers fa.)  sfai sur la potice generale des G-rans sur l(u.s pfix et sur les ejftts de V Agr'Hulturt ; ;\ Ber- lin i ,j . pag s5 (aj _. ' 3; {malmeni** irv altro luogo legge-i presso lo stesso Au- tore si la vile t du prix est u ob*tacle  la fecondile ; si no-? terres peuvent fournir au de l du ncessaire, et nous 'pi vsentent une mine plus abondante (me ceies du Peroa ; si la linerie ab solve peut ncus parer de tous iueon- veniens , et nous procurer de grand avantages; mettrons-nous encore ds bor- nes an\. bien-.its d& la nature .' Et no- tre Police timi le , et variable serat eic toujours allarmtte par une crainle po- apnlaire? (b) . Non mi diffonder pi ol- tre a citare i numerosissimi suffragi de- gl auto-ri che tutti concordemente disap- provino i vincoli vigenti fra! commercio de' gr^'.r ; dir soltanto che in questo secolo sempre si andarono moltiplicando le autorit de' Scrittori (e) , e per grani si andarono mutando le idee de' Ministri. (i) Pag r33i (b! Ibidem paT =63. f) Per il che veggans Observations sur te de* Orain Amsterdam i-"q. J.ci'rc sur l' imputa tion jtiite Colbert d' cuoir Inter. Ut la UberlJ du Commerce das Grains Paris 1763 Lc/.'r.' d' . - :nt sur l  j.vts iiux fiomietes gens qui rculcnt b;cn Jaire par M. .Abbi Bandeau "aris 768  Lettre de- M de * * Conseiiler au Parlement de Rouven  M de JI* * * Premier President, i~68  Tres humbles 3 et tres respectueuses supplications des clais de Lajiguedoc au Roi sur le Commerce des Grains 17(8. I logij pub- blici sono pieni di suppliche , e rimostranze de' Paramecti alcune pei- i vincoli } altre uer ia Iiben . . 9l sostengono la buono causa ; la prima si  del 12. Luglio 17G8 : l'altra del 26. Aprile 1769. Leggasi nella prima quali effetti abbia prodotto nel Delfinato la libert dei Commercio s scordata coli' Editto del i^(34 Luglio;  il Parlamento della Provincia che cos scrive al Re ; non  un privato Scrittore . La terre fri'rappe de sterilite pendant trois ans ccnseuufs presentoit au Dauphin" la uperspective la plus efifravinte ; cepen- dact tous Ics man hs de cette Provin-  :e ont toujours t abondammcnt pour- vs de Grains ani se scnt soutenus a un prix. inferieur a celui o on les avoit ovus sous le Regne des prohibiiions , et des permissions particulieres dans des annes o les recoltes n' avoient pas rte' si mauvaise et pendant les queles T des l'use pr- voyance trop timide . - ok Il risultato di questa prima supplica s  d' implorare dal Re che abolisca le restrizioni portate all'Articolo VI. dell' Editto di Luglio i}64, le quali limitano la libert sin che il grano per tre con- secutivi mercati non sia giunto al prezzo di dodici franchi e mezzo il Quintal per- ch dice il Parlamento che qnesto limi- te, e queste cautele ravorisent le mo- nopole jnterieur; que la necessit de recoufir  des ordres du Conseil p tir dever la proliibition , lui picfe un nou- vel appui, parce qu'il prolonge le tems *pour continuer les mneuvies particu- lieres , afin de faire lermer les Pcrts , 6. Aprile t^Go assai pi difi'usanaente viene discussa la materia . E' bella as- sai la pittura che ivi si legge degl' im- barazzi che cagionano le leggi vincolanti che sempre si moltiplicano a t'ormare un vero labirinto , un vero c^os d'inciampi. Que l' exereice du droit de propnet csoit restreint par des loix prohibitives ,  rer.zt che doveva nascere colla liberti noe nacque perci appunto che la li- bert pa'-ve precaria e incerta . In fatti la Poiice di INcmes li 4- ^ cernere 1360. ; malgrado la libert teccidata dall'Editto di Luglio 1764.: cor^rii x..i negoziante di creili per nome Gaifiicr, e gli proib e' i: O) ..'-'*- o WiJ  N Ci - ut ut N>  " -J J--  M u- 0 - -N  B o * o C/i A 3   E. o 2- 3 E.  ^5 5 2 2.3  P- 2aS p  era i ut 2^ O 2. fi  B  a -. O  e- "' a. o fri 4^ 10 * **  2.2.   3 1 0 13 mei elle e eh -J enee - !" 3 M M 03 , O) tn (0 fri M O 3  ^ fi s U5 . Or  *n tTt C 4^. O OJ +^ CO 4s> X !v J5? f** CTS  W W O  fe- r 2 8- s e ero 00 2i Da ci vedes come in quindici an- ni sono accrescine officine 124 Vacche i684o-, e il raccolto de' Caci di annue Forme 2276- Per alimentare una Vacca da latte per verosimile vi vogliono '3. Pertiche di prato . Dunque nelle sole tre Provincie, Ducato, Pavese, e Lodi- giono in questi ultimi quindici anui si pu calcolare che si siano messe a prato Pertiche 218920. le quali in buona parte sono una diminuzione della coltura a' grani e qnste Pertiche 218920. se tut- tora fossero coltivate a grano computan- do otto Perriche per il vitto d' un uomo alimenterebbero la popolazione di 27 365. anime . Si computano dalle notificazioni fatte dai Cancellieri del Censo in quest'ana 1769 attualmente esistenti nello Stalo Vacche Se Ducato .... Num. 633^5. ISfel Pavese  847 2- j^el Cremonese ....  19054. Kel Lodigiano  21288. ?iel Comasco  11820. 5um. 115009. la 25 In queste notificazioni universali non g pu mai pretendere l'esattezza aritme- tica, ma sibbene una approssimazione. Dal confronto di questi dati ve desi che la maggior parte delle Vacelie non ist unita in mandre , ina bens il numero rnnggiore si  di quelle che stanno di- vise ne' tugurj do' poveri Contadini ; e se dieci per esempio vivono re 11 e mandre destinate a fabbricare i Caci, venti sono disperse nelle stalle de' paesi coltivati a Grano destinate a somministrare il Bur- ro-, e a bonificare col latte l'alimento dogli Agricoltori . Ci singolarmente ve- dosi in tutta la parte alta del Ducato , nel Comasco , e nel Cremonese dove la raccolta totale deiormaggi appena ascen- de a l'orine 3659- annue, a formar le quali vi si contano destinate Vacche non pi di 1723. E. da osservarsi che in questi ultimi anni sono cresciute le ricerche degli esteri per i nostri Caci conosciuti netl Europa col nome di Parmigiani . e le Forme si vanno puro facendo di mole maggiore cosicch laddove per l' addietro ciascuna era del peso di circa rubbi 4  al giorno d'oggi sul Lodigiano partico- larmente si fanno del peso di rubbi 5 Commercio de grani P. 11. e 26 i/a e pi, e questa  la cagione per cui vedesi che laddove nella notifica- zione del 1753. ogni Vacca corrisponde a cinque annua forme di Cacio, nell' ul- tima notificazione corrisponde a sole 4 forme circa . Per adequato calcoleremo ogni forma di Formaggio del peso di rubbi 5 ; e computando quello che si raccoglie nel Cremonese unitamente alla notifieszione del 1968. sar l'annua rac- colta de1 Caci forme isSyy^., ossia rub- bi 644970. L'arte di livellare, e d'irrigare i fondi s' andata sempre pi raffinando ia questo secolo , ed una sensibile parte di quelle terre che al tempo delle stime del Censimento sono state registrate per aratorie nei quarantasei anni che sono trascorsi hanno mutata natura , e servo- no alla coltura de Formaggi. Un terreno qualora possa irrigarsi , e coltivarsi a mandre frutta assai pi che non fareb- be coltivandosi a Grano ; s perch i Caci nostri sono un frutto che non sof- fre concorrenza con altra Nazione , s anche perch i Caci godendo duna li- bera esportazione in ogni tempo , pro- ducono al coltivatore un'entrata pi si- cura ,  meno soggetta alle vicende p- 2f litiche. Quei,.' accrescimento de'Prati con. Il diminuzione dell' aratorio  dunque utile a' particolari possessori, e perci viene promosso . Ma diminuendosi la coltura de' Gra- ni , con essa deve dimirKiirsi la popcla- 1 zione delle Campagne, avendo i Prati bisogno di molto minor numero de' Co- j Ioni . Sopra un estensione di terra di j trenta Pertiche vivono pi di tre persone ss si coltiva a Grano , e appena una ! sola ne  alimentata coltivandosi a pra I to . La coltura a prato tende adunque a scemare la popolazione , cio la forza fisica e reale dello Stato, essendo il nu- mero degli abitanti la vera e sola misura | della potenza d'uno Stato . In questo proposito non deve dimen- ticarsi una riflessione ; ed  che il pos- sessore de' Fondi non cerca altro ogget- to se non d' accrescere il prodotto della pcrzion Dominicale ; mentre l' illuminato Legislatore deve ricercare l'accrescimento del prodotto totale e fisico di tutte le terre dello Stato . Il Proprietario non tanto ricerca, e studia i mezzi d1 accise- scere la fertilit fisica del suo fondo , quanto la diminuzione delle spese della coltura. Un esempio render' pi chiara a 2 28 , quest'idea. Suppongasi eli? il manteni- mento d'ogni Contadino coati dieci Scu- di all' anno ; suppongasi che un posses- sore possa coltivare il suo podere o a Grani coli' opara di dodici Contadini, ovvero a prato coli' opera di soli tre Con- tadini ; egli  evidente che se coltivan- dolo a prato il possessore ne ricava cento cinquanta Scudi annui , e colti- vandolo a Grano solamente cento Scudi,  evidente , dico , che il possessore pro- ferir la coltura a prato consultando da- saggio padre di famiglia i principi della domestica economia. Ma chiaro  pure che la fertilit del fondo risguardandosi colle viste dell' ecouomia pubblica  di- minuita; poich coltivandosi a Grani quel iondo ha prodotto il valore di cento .Scu- di al proprietario, ed ^1 tri cento per il mantenimento di dieci Contadini il che fa la somma di Scudi dugento , e colti- vandosi a prato ha prodotto al proprie- tario Scudi cento cinquanta, e trenta altri Scudi p3r il mantenimento di tre soli Contadini, cio nella totalit. Scudi cento ottanta il che importa la perdita della vera fertilit fisica del dieci per cento . Dallo spoglio de' libri della Mercati- 2" i.ia dell'anno 172. appare 1' uscita de' nostri Formaggi in rubbi '2i/Lof\Z , i quali a lire (>. i4- producono Y utile di lir. i434o8t. 8 Dallo stesso foglio appajono usciti di Butirro ruLbi iSoog , i quali a lire 9. 2 1. importano lire i36644 8 9. Da ci appare come la coltura de' prati nella sua totalit abbk prodotto allo Sta- to T utile di lire 1-570725. 16. 9 , ossia Gigliati (a) 104715. Nell'anno medesimo dallo speglio de' libri della Dogana , e dalla Scainatura per la Provincia di Cre- mona appajono entrate nello Stato Vac- che 8o84- , le quali a lire i5o. l' una importano a uscita dello Stato lire 1 2 1 2600. per il che 1' utile reale dello Stato per la coltura de' prati si residuerebbe a sole lire 358 ts5. 16. 9 : l'uscita dei Vitelli in, quell'anno  stata in numero di 326. t quali a lir. 3o. danno la tenue impor- c 3 fa) L 'ira Milanese  variabile assai : se- condo h legge lir 14 r/ fanno un cigliato ; ma nella contrattazione s; consi -iera la lira ora la decima quinta prie d'un Gigliato, ora la decima sesta pane In questo calcolo la consi- dero la de :i(r.a quinta parte del Gigliato; e cosi fai in seguir . 3o lanza di l'ir, 9780. S: aggiunga ii fieno di cui constano usciti in detto anno Carri 202 ^A i quali a lira 60. impor- tano lire 12174, cosicch per ricapito- lare T utile risico che ricava lo Sialo dalla coltura de prati che semhra tanto vantaggiosa al primo aspetto prendendo per norma Tanno 1762. rester come segue : Formaggi . . li Butirro .... Vitelli .... Fieno . . . . Somma di utile allo Stato lir. 1592679 16. 9. Si detraggano Vacche comprate !!' irrigazione non saprei dove sieno ; di queste felici operazioni non ne ab- biamo alcuna notizia ; dove sar dunque il brnefcio che fa allo Stalo la irriga- ticene ? Si dice che 1' irrigazione non crea una nuova acqua nello Stato, per- ci 1 on pu rendere l'aria pi umida col dilatarsi . Siffatte ragioni bisogna pu- re discendere a pesarle poich si spar- gono: le evaporazioni dell'acqua non so- no gi proporzionate all' assoluta quanti- t d: essa . ma bens alla superfcie che V acqua presenta. Un corpo d'acqua che ncatalato trascorre non cagiona 1' eva- p M-n?.ione che farebbe se si distendesse a lambire lentamente molte miglia di cnmoi , e a formarvi una vasta palude , fon fa bisogno di molti lumi d' Idraulica o i tablit i l il et.j.t pfut considtraile dans  Terra i iciua >ote - .1 e w'-hae - 7' V dnglois ds M. R. e S M R et mmore de U  /-.,-" [ da loncourt Professeur ds L   . .: .- m .: Paris*  A' Londres 1704 gag- * ^9 par pura forza della organizzazione y on- de non e sempre un nitrito delia poli- tica dove ci accada ; la seconda si  che dove ci non accada , o dove ac~ ctcscasi meno di quelio che naturalmen- te dovrebbe , quando non vi siano ca- gioni fisiche apparenti , si debb impu- tare quel mene accresciuto a vizio deiia politica . E' facile il provare in qualunque paese che la popolazione cresce, ovvero che scema quando si scelgono arbitra- riamente i dati per fora- are il calcolo . In due maniere si possono scegliere i dati arbitrariamente , o scegliendo un anno pi che un altro de' passai per paragonarlo all'attuale popolazione, ov- vero prendendo un anno da un registro, e l'altro da un diverso registro . Mi spie gher;  quasi impossibile che in alcune delle epo , Y tliro quello degli tsiasfici. 1! Registro ari Censo debb' essere certamente meno esatto ; perch i C -..  sparsi nello Stato non han- n ne n  presse  h : a tale : que- sta ricerca  un tedio per essi, e nool- isioni lascian correre per ab- iure la fatica . Cosi ne accade che i l 'gistri dpi Censo sono mancanti e minori del vero Se paragoneremo adun- ane lo stato delle anime che ci viene al r. registro ecclesiastico stato delle anime degli anni pas- sali oli" i sne dal Cto totale ilclla popolazione del Milanese appare dunque dal Censo che nel 196* era di Cittadini numero j[epolazione che scaturisce dal Regi- stro Ecclesiastico in quest'anno 17^9 sia sensibilmente maggiore di questo cai nolo ; non perci sar provato che cresca la popolazione . Una cosa sar da osservarsi se dalle Tavole Ecclesia- stiche compariranno pi i nati, ovve- ro i morti ; se i morti sono in maggior numero , qualunque accrescimento ap- jraja dai confwfht de' registri censuarj cosrli ecclesiastici , dovremo sospettare che la popolazione realmente diminui- sca. Questo sospetto risulta giustificato dalle visite in questi ultimi anni , e si manifesta sensiblracnte in Pavia , e nella Provincia superiore Cremonese, e in Codogno, e in Castel Leone, e in altre: parti dello Stato . Da ci concludesi che non  ben provto che la popolazione dello Stato si accresca ; e quando poi anche ci fosse non verrebbe per questo provato nulla centro lo scapito che cagiona alla popolazione medesima 1' accrescimento de' prati adacquatorj . Il consenso unanime e universale di tutti i pi accreditati Scrittori di pnb- - 44 Llica Economia, la consecutrice riforma che da Regno a Regno s'  andata dila- tando in Europa hanno indi tlo molti a stab'lire la massima favorevole alla li berta de' grani ; ma nel secreto del loro onore , quando poi si tratta di porla in pratica , si svi'uppa il timore realmente non distrutto ne dalla ragione , ne dall' autorit, n dall'esempio. Dalla con- vinzione alla persuasione v' una distan- za che si manifesta assai frrqiien te mente nella mente umana . Quindi  che sta- bilita la libert di questo commercio f come primo e provato principio , tante modificazioni poi si vorrebbero imporre, e tante cautele , che della pretesa liber- t non ne rimane die il nome ; e in vece di fare una benefica riforma al cattivo sistema , si propone di fare una semplice mutazione . In simili materie sono da temersi anche le persone della pi pura e zelante intenzione ; poich vi vuole una sorta di coraggio , e di spinta Dell' animo per balzare al vero degli inviluppatissimi moltiplicati pregiu- dizi , ne' quali siamo stati allevati , e cresciuti . Giovi adunque vedere quest' oggetto in ogni sua parte, ed esaminare V indole delle modificazioni che natu talmente si affacciano . Alcuni semono g' inconvenienti e l'assurdit che \ d'impedire 1' interna cirt elezione de grani , sicch non pos- sano trasportarsi liberamente da un di- stretto all' altro delio Stato . Se questa  gravosa in un vasto Regno a pi forte ragione riesce tale in una provincia ri- stretta come la nostra . Quasi unanime  il desiderio di vedsre sciolta e libera l'interna circolazione. Ma l'uscita agli esteri fa temere, e non s vede ben chia- ro da ognuno questo assioma clic , co- me dicono gli Scolastici , dalla potenza all' atto non vale la conseguenza ; onde libert di trasportare tutto il grano non significa lo stesse come il dire si tra- sporter tutto il grano . Quindi vorrebbesi- da moUi libera la circolazione interna, e vincolata 1' uscita . Ecco immediata- mente nata una difficolti , ed  : la cir- colazione sar ella libera sino alla linea de confini ? Se ci  , non si potr pi impedire l'uscita; poich . in un istante succeder il contrabbando , e bisogne- rebbe avere trenta e pi mille uomini in vigilia a' confini . Dunque bisogna nel circondario de' confini per una fascia di tre miglia proibire la circolazione . Ecco che la Provincia Cremonese la quale  r.na striscia lunga d terreno ," non pro- fitter della circolazione libera ; poco ne potr godere il Pavese e il Comasco; parte sensibile dei Ducato e del L di- giano sar esclusa dal beneficio. La cir- conferenza d' uno Stato tanto propor- zionatamente s'accresce, quanto lo $  iii piccolo Diminuendosi uno Stato' e riducendosi alla sola met, i confini saranwo diminuiti in molto minore ra- gione. Adunque questa libert cos mo- dificata si riduce ad ur.a pi tane ser- vit . Va progetto naturalmente viene nell* animo di molti, che esaminano la ma- teria dell' Annona ; ed,  quello di lare nella gran famiglia dello Stato ci ctie da un buon Fa .re li famiglia suol arsi nella domestica economa ; e come in questa provvidamente si conserva e cu- stodisce il grano per il pr. rio bisogno d'na anno, cos' ne' granaj pubblici, o il Sovrano, o i pubblici R 'ppreseatauti custodiscano la quantit che corrisponde ai bisogno del popolo , provveduto al quale resti poi libera la contrattazione , tb T esportazione de' gfani L esempio di alcuni Stati , e T opinione del sig. di Bielfeld vi concorrono . Cos pare a pri-, ino aspetto che resti saggiamente prov- veduto a'due oggetti, cio alia sicurezza dell' abbondanza pubblica , ed al favore dell'agricoltura. Questa idea merita as- sai riflessione. La costruzione de' pubblici Magaz- zeni in un pyesa che gi non gli abbia  un articolo di qualche peso . Suppongo che questi Magazzeni vo- gliansi fabbricare nelle sole Citt dello Stat , e per il solo consumo de' Citta- dini . Da noi si tratta del vitto di un aoooco anime circa. Pongasi il grano a sole lire 19 il moggio , e pongasi la consuasazione di sole due moggia per ogni abitante vi vorr in contante effet- tivo tutto in un colpo la somma di sette milioni , e seicento mila lire : ossia pi di un mezzo milione di gigliati . La compra de' grani a conto del Sovrano, o del pubblico: o facciasi im- mediatamente dai Commessi destinati a tal elletto , ovvero da persene alle quali sia stato affittato questo carico  sempre soggetta a rovinosi inconvenienti : poi- ch , o si lascia la libert nel prezzo, e mille frodi ne nascono in pregiudizio de! Principe , e dello Stato ; trovandosi i grani raccolti nei Magazzeni , di un 4* prezzo sicuramente maggiore del comu- ne; o si costringono i possessori a som- ministrarne una data porzione a un de- terminato prezzo ; e con ci s' impone un aggravio intollerabile a questo genere di Agricoltura, pi funesto fors' anche di quelle Leggi che dirigono tuttora F Annona . A ci s' aggiungano le frodi che fa- cilmente possono commettersi nella cu- stodia de1 pubblici Magazzeni ; la dimi- nuzione del gri.no per V imperizia , o trascuraggine de' Custodi facilissima a ritrovarsi in ogni pubblico istituto . A ci s' aggiunga la necessit di costringere i Forni pubblici a non pre- valersi d'altro grano che del raccolto nei Magazzeni , e chiaramente vedrassi una folla d'inconvenienti, che debbon nascere da si fatti regolamenti. Noi vediamo] disfatti che le Citta. nelle quali si  voluto discendere a que- ste minute  timide provvidenze sono sempre state le pi soggette ai pericoli della f me . Si osservi finalmente che quando i grani per il consumo d' una Citt si debbono raccogliere in Magazzeni pub* blici , tosto che se ne debbano far* dell fi* delle grandiose provvisioni, forzi  che il prezzo de' grani scnsib luieme s'ac- cresca; e questa provvidenza, bench dettata dalle mite le pi benefiche del ben pubblico , realmente degenera in un odioso monopolio , utile ad alcuni pochi che vi partecipano, e rovinoso per l'in- tera societ . Quando i grani agli occhi del Le- gislatore diventano uu oggetto di com- mercio , molti particolari ,  Possessori di terre , o Mercanti di quel genere di- ventano naturalmente i M g zzinien dello Stato; poich molli di questi conservano sempre una porzioni di grani, e ci par- ticolarmente i pi denarosi , colla spe- ranza di lame miglior mercato occor- rendo che se ne accresca il bisogno ; e questa mercanzia per se voluminosa non pu mai celarsi per modo che non sap- piasi in ogni terra dove siano riposti i grani , e non si possa dalla pubblica auiorit in un caso estremo stendervi la mano per ritrovare il soccorso per la pubblica indigenza. In questi privati Magazzini viene custodito con assai pi. cura che non farebbesi uc' pubblici, per la ragione che l'uomo a nessun auro interesse bada pi da vicino comune-: Commercio de grani P. IL e .10 mente elio al proprio, la questi Magaz- zeni si contiene il grano comprato da ciascheduno col maggiore vantaggio , e conseguentemente si pu rivendere a prezzo minore . Questi Magazzeni final- mente essendo molto liberi, e ripartiti nello Stato sono in una vicendevole con- correnza , e conseguentemente ne e prova. Do- vunque v'  libert v' concorrenza; do- vunque ve concorrenza non pu esservi monopolio . La libert dunque del com- mercio de' greni  il rimedio pi sicuro e stabile di ogni ahro contro i monopo- listi , e 3 54 Ogni Legge die vincolasse i Mer- canti , o incettatori de' grani sarebbe direttamente opposta ai veri principj di- rettori dell'Annona che abbiam di sopra veduti . A tal proposito io osservo che po- chissimo sarebbe il Commercio di ogni merce o derrata, se i contratti dovesse- ro fars- sempre fra il primo possessore di essa, e l'uomo che la consuma . 11 possessore per lo pi  sollecito di ave- re lo smercio totale del suo genere , il consumatore aspetta la necessit ordina- riamente di provvedersene, e ne ricerca piccole partite proporzionate all' attuale suo bisogno ; perci sonovi nella societ i Mercanti i quali servono di un punto di meizo fra il primo possessore , ed il consumatore . il Mercante propriamente non  che nu mediatore dei contratti, ed un veicolo del commercio ; egli an- ticipa il denaro al possessore , e da lui compera tutto il di Ini prodotto ; egli ofire in ogni tempo al consumatore il comodo di acquisitive quella porzione che gli abbisogna , e della qualit che pi gli piace Un utile considerevole portano di pi allo Stato i Mercanti, ed  : che essi le provvisioni loro cercano 55 di fonie ne' tempi, ne' quali i prezzisene ribassati; per il che s'impedisce cli8 non cadano nell'avvilimento totale i prez- zi de' generi . Per favorire ed accrescere il Com- mercio d' esportazione convien favorire l'esportazione medesima: non v' Com- mercio che possa fiorire se non vi sono mediatori fra il primo possessore della merce , e 1' ultimo che la consuma , e questi sono i Mercanti . La fecondit della terra cresce colla fatica del colti- vatore , e la di lui fatica cresce colla fiducia di trovare buon prezzo della der- rata , e la derrata finalmente acquista valore* colla facilit dell'estrazione. Da questi semplici e universali prin- cipe deriva che non solamente il porre ostacoli al trasporto de' grani ; ma il li- mitare il numero e la libert de' Mer- canti , e il proibire la libert d"gli am- massi , tende immediatamente a dimi- nuire il prodotto delle terre ; e creare i monopolisti; e ad accostarci precisamen- te a quello stato di caresta che sem- brasi appunto voler evitare con siffatte Leggi . Quando  a molti libero il far com- mercio de' grani , e che chiunque pu 56 a stia voglia farne ammasso non mai si avvilisce il prezzo di essi grani , malgra- do 1' abbondante raccolta ; perch allora appunto a gara concorrono i Mercanti medesimi a riempierne i proprj Magaz- zeni . In essi Magazzeni frattanto si cu- stodisce il gn;no con maggior cura che non fessi dal pi dei Possessori di ter- ra , s percL il frutto di essi  il capi- tale del Mercante, s anche per la mag- giore esperienza , e attenzione del Mer- cante medesimo , d1 onde minor perdita di grano per lo Stato : che se poi la penuria succede ; allora s' aprono i Ma- gazzeni , e a gara i Mercanti cercano di rivenderlo alla INtzione a preferenza de' forestieri , avendo sempre i IVezionali in loro vantaggio la gabella che i forestieri pagano all' uscita , e la maggiore spesa di essi pel trasporto. Da questi principi ne scaturisce che cgni Legge che voglia imporsi su Mercanti , o Ammassato di grano sar contraria al Commercio di essi , conseguentemente al saggio regor lamento dell'Annona. Vi sono taluni i quali sentendo la difficoli e gl'inconvenienti de' Magaz- zeni pubblici vogliono la libert della esportazione bens , ma temono semf re- *7 la carestia, onde vorrebbero conservare il vincolo clic obbligasse alla introdu- zione de' grati; nella Citt. . Si  detto essere antichissima pratica fra di noi di comandare per Legge V annua iulro- duziono per le Citi^ dello Stato (f una determinata porzione de' grani raccolti^). T>on v'  memoria che siasi mai dat^i multa, o pena alcuna per mancanza di (al In Pavia , ed in Como si ordina ti' in- trodurvi tutta la {-arte dominicale d\ frumeiito; i Illa io , e in Lodi la met ii essa parte dominicale ; e in Cremona la terza parte . La parte dominicale  la meta del totale raccolto ; con questa Legge adunque pare  cio P vi i , ed in Cero.o i cittadini siano di numero eguale agli abitatori del Contado ; ehs in Metano i cittadini seno la quarta parte degli abita'on della Campagna del Ducato ; e cne la popolazione di Cremona , sia la sesta parte del Cremonese : Di pi si suppone che non siavi nel raccolto 1' eccedente oltre il bisogno nazio- nale. Eppure in Favia sono anime ijoo e nel Principato ili Pavia anime 47619 In Como so- no aiiii'i I25i4 , e nel Comasco anime 4)656, tanto sono lontane dall' essere conguagliate . Cos Cremona fa 585 anime, le quali non so; 0 la sesta parte di anime 96440 , che tro- vatisi nel Cremonese . 58 qmste introduzioni. Non ve memoria che siasi pure intentato un processo contro alcun possessore per mancanza d' introduzione nelle Cina . Di p u in molti anni nemmeno sono stati posti dal Magistrato Camerale alle Porte cella Citt i Registratori i quali in gilassere sulle intrctii zioni . Da questi latti evi- dentemente ne concludo che Je Cside periodicamente pubblicate a tal oggetto siano piuttosto una solennii ^ he s; ri- nova ogni anno , a-nxi cht Leggi che influiscano sulla pubblica abbondanza ; giacch btegje non pu chiamarsi qu#lla a cui si j impunemente c Osservisi , come volendo obbligare l'introduzione nelle Citt ne viene in conseguenza che debb obbligare il pos?es;ore y t!a notificazione del grano raccolto; poi deb beai sospendere la li- ber de' Commercio estero sin tanto cher commer- ciarli in questa incertezza ? Nessuno cer- tamente , trattine que' pochi che attual- mente lo fanno , perche protetti e pri- vilegiati personalmente , o perch pi scaltri e pratici nell' addormentare i cu- stodi . Ecco adunque che questa sola formalit che voglia ritenersi boster per impedire la concorren/.a : lascier sussi- stere il monopolio : sparger universal- mente la diffidenza , ed esporr lo stato al pericolo di mancare di sussistenza lasciando nelle mani di pochi questo commercio , e sciogliendo nel tempo medesimo que' pochi da ogni vincolo con usa mal intesa libert , che si ri- duce ad un privilegio . Il secondo male si  , che se vo- gliamo essere conseguenti , non si pu permettere la libert del commercio f meno poi dell' uscita nello spazio di tempo che trascorre dal raccolto al te*"- 65 mine del conteggio delle notificazioni : altrimenti se in questo frattempo vi  libert , prima che siano compilate le tabelle rappresentanti 1' annuo raccolto , pu essere spogliato il paese e giungere inutilmente la notizia di questi fatti . La ragione si  , perch quando i mercanti de' grani , e gli incettatori prevederanno che la somma del notificato sar per riuscire tenue si affretteranno , se loro si d la libert , di far uscire frattanto e riporre in luogo sicuro la mercanzia sul timore d'una imminente sospensione . Dunque bisogna , se si vuole ritenere in vigore la notificazione, bisogna, dico, sospendere la liberti, sin tanto che la notificazione sia compiuta . Per com- pierla bisogna raccogliere in mi so! punto di vista la notificazione di mille e quattrocento comunit ; bisogna dal- le estremit dello Stato , dai confini de' Grigioni , e del Bozzolese che sia- no state trasmesse le notificazioni; bi- sogna che i Cancellieri del Censo le abbiano eonseguentemente prese sul luogo ; abbiano costrutta la tabella del- le loro comunit; l'abbiano trasmessa a Milano, e da queste sia formato il prospetto in un solo colpo a occhio . f 3 &6 Ognuno facilmente intender che vi vo- gliono pi mesi per eiettuare questo conteggio . Ej4(> Grano Turco ....  S9S0OQ Moggia i6~~ 3 5 2 ET l- ?; w 5 45 w o r  O e a a- G o ^ a e & r B -- r ^ * c o ".. -w a 5 o> **  !"* ti * x- = B3 fe  & S ?5, Non abbiamo veruna descrizione del lo Stato posteriore a questa , bench fatta sino dal 1721. Calcolando su que- sto dato che pure  l'unico, appare che i terreni incolti erano allora a fronte de' coltivati pi di sette per cento ; e notisi che le suddette pertiche 8*ti^5 sono di terreno incolto, non gi di cep- pi e sassi audi ; poich di questi se ne contano in quella misura, parte nel Du- cato , e parte nel Gomasco pertiche 465077 tavole ifi ; cos ia tutto sopra il totale perticato del Milanese , che  di pertiche ii385iai , si trovarono d' in- fruttifere pertiche 1286452 ; il che ben lontano dal formare l'uno e duo terzi per cento forma quasi il 12 per cento di suolo sterile nello Stato . Siccome , gi lo dissi , non vi  misura o stima dello Stato posteriormente fatta ; cosi nemmeno  possibile il citare un docu- mento su cui si appoggi quella pretesa riduzione dell'uno e due terzi per cen- to . Si dir che dal tempo della stima del censo a questa parte moki terreni allora incolti si sone resi coltivi . Que- sto  vero, ma due cose bisogna osser- vare ; la prima si  che non essendo Rot* , u potendo essere ad alcuno 1 g a 7 quantit die d' allora a questa parte si  re>'i coltiva^ nessune pon ora tas- sare quanto p^r cento s; b.a accresciuta la coltura; 1' altra si  che forse si sono moltiplicati i prati in maggior propor- zione a scapito dell" aratorio a giano, di quello che non si siano posti a coltura terreni nuovi. Dico torse; perch quan- do si tratta di semplici opinioni non  lecito mai parlare con altro linguaggio. In questa materia par altro pu servire di norma il risultato della visita latta in questi ultimi tempi , cio nel 1767 , dalla quale risulta che in otto sole Co- munit s sono ritrovate esistenti di ter- reno incolto come segue : J^ ri o SI* o 5 2 B - o n a co * ^ o 5' , *t 9 O 0 c ? c cr? e o 3 2-  *""  o M ^ n "*- c a PS* a. 2 P IL  **> s g- " " 2 e 3  n  m.-> stiate visitate Si vedr pure che di tutte il Pavese, di tutto il Cre- monese, e Casal Maggiore, e di tutto il Lodigianp , bench sieno compresi nella visita , pure non vi  marcata una sola pertica di terreno incolto ; perch altri oggetti non ne hanno lasciato il tempo . Cos pure an>.he nel Ducato nelle Pievi di Bollate, di Mezzate ,' d Somma , e nel Comasco le Pievi Me- naggio .Nesso , Gravedona, Isola, Don- go , BeDano ec. sebbene visitate per i filatoj , manlfetture ec non rimase tem- po pr raccogliere le notizie sui terreni incoiti , onde nella relazione medesima si legge che a perjfezjonare queir opera* 79 V abbisognano altn anni ed al ire visite^ ed ecco come si sia errato in massima considerando come totale quantit quel- la che unicamente era parziale . Manca tra le altre ia questo calcolo la ster- minata brughiera di Somma, la quale s' estende a pi miglia di paese tutto -incolto . L' antico pregiudizio si era che que' terreni non fossero coltivabili ; ma i pro- gressi della ragione hanno persuaso al- cuni a tentare ; e i tentativi riescono tanto felicemente che ornai nessuno vi n che dubiti non potersi utilmente col- tivare . Il Sig- Giuseppe Pezzoli ha messe a coltura molte terre ^Cassano, le qu alb- erano incette , e ne ricava un frutto conveniente. 11 Sig Giambattista Tosi che abita in Busto Arsizio ha messo a coltura circa 4 pertiche della Brughie- ra di Somma , ed  prodigioso il frutto che ne ricava; vi sono gelsi, viti; vi  frumento, e tutto riesce assai bene ; il grano turco singolarmente vi si coltiva con felice successo , poich a quanto lo stesso proprietario mi assicur , laddove nelle terre contigue gi. coltivate questo grano produce &l pi otto staja circa per ogni pertica, su la Brughiera in lo 'vece ne fi-urta sino a floclici staja per pertica . Osservisi che tutte le lrughie- re restano lontane dalle abitazioni ; ed  verisimile che anticamente quelle pia- nure fossero coltivate al paro delle al- tre ; ma ne' disastri de' secoli passati ^ scematasi la popolazione , gli abitanti si accontentarono di coltivare i terreni pi vicini alle case, e mancarono le braccia per estendersi , onde rimasero incolta quelle che ora sono Brughiere. Dopo avere esaminata questa ma- teria da diversi aspetti io oser avanzare (ma proposizione , ed  che circa la de- cima parte dello Stato di Milano giace infruttifera , parte per l'infecondit na- turale de' monti sassosi, parte per gli errori nostri e per i pregiudizi che ci hanno oppressi. La porzione poi che potr col tempo , e con savj regolamenti essere rianimata , e fecondarsi , io la valuto a un di presso la decima quinta parte dello Stato ; tanto siamo lontani dal poterci lusingare di avere ridotta la coltura de' terreni a quel punto d per- fezione a cui taluni la decantano. Non ci addormentiamo alla voce di questa adulazione la quale ron pu produrre fisssun buono cretto . Non attribuiamo 51 all' industria nostra quello clie dipencl dalla intrinseca feracit del nostro suolo non ci attribuiamo una superiorit c?u non ci si debbe . Chiunque avr trascor so nel Piemonte e nella Terra ferina de Veneziani avr vedute delle terre' tante ben coltivate; quanto le nostre; chiauV que poi avr veduta la Toscana, e pa' ra^on^io con o.csa il Milanese , mi acl corder che la natura pi che Tind'istri4 fanno la nostra ricchezza , e che se l'agri' coltura fosse spinta da noi a quei gradc" a cui si trova nella Toscana, assai pii* sarebbe l'annua riproduzione, ed assa' p' perfezionati i frutti del terreno .  i contadini di Toscana avessero da col- tivare un terreno quale si  il nostro 7 ne caverebbero forse un terzo di pi di frutto , e questo frutto sarebbe assai pivi perfezionato di quello che sieno i nostri I vini per esempio del Monferrato e della Toscana sono di molto superior ai Milanesi ; forse questo dipende no? solo dalla diversit del clima , ma prin eipalmente dalla cura di coltivar la vite della scelta della vite dal tempo di rae cogliere, dal modo di far fermentare dal modo di premere, custodire, tra- sportare il vino , e da simili attenzioni . 82 ^L* seta nostra e inferiore di molto alla Bolognese, alia Bergamasca, ed alla Pie* jinontese singolarmente; la cura de' Gel- fisi , de' vermi da seta , la maniera di fa- Tre , filare, torcere la seta forse da noi tsono assai imperfette. Von pretendo n sdi scrivere un trattato di agricoltura , n adi defraudare dal merito loro i miei Con- v^ittadini i quali massimamente nelle parti pj^cno feconde dello Stato mostrano as- ciai industria ; ma nemmeno posso io acciecare me stesso e addormentare con t,nna lusinga mal fondata gii altri ; ne tipotr dire giammai che l'agricoltura sia cda noi g unta alla perfezine , sin tanto ;che vi saranno Brughiere nello Stato, te sin tanto che non avremo ridotte le esete , i lini,  vini nostri alla perfezione hai cui sono suscettibili . q La fantasia di taluno e giunto al sd- egno di fare encomj alle Brughiere , tro- v.-vandole opportunissime e chiamandole la pDofc delle Terre colti j ate , perch questa dfcWe somministra qualche tenue quantit cidi concime , colla quale buonifiear le ftterre ; il beneficio che fanno le Brughif- c re  simile a quello della guerra; poich a anche co' cadaveri umani si rende pi l ferace un fondo. Io desidero, e enec# 83 10 desidera o bene sia utilissima per altri paesi post in diverse circostanze. Primieramente  falso che il Milanese sia circondato d| vicini penuriosi 'di grano: un' occhiai che diasi alla Carta del paese disiug^u nera chiunque. Noi confiniamo coli O.5 trep, col Vigevenasco, e co! Ncvarcs dalla parte del Re di Sardegna, e guest- Xre Provincie sono non solamente rdt vedute di gran per il bisogno loro , m anzi ne sono fertilissime, e ne esportane , u V verso Genova , e verso gli Svizzeri . I Voi confiniamo col Bresciano , e col *Cremasco paesi abbondantissimi di gra- rio, e che ne l'anno esportazione. Il Pia- centino, die pure confina con noi, pro- duce grani per il suo bisogno; e di se- cale singolarmente ne- abbonda . Questo ^en calcolato torma due terze parti de' v*ostri confini , onde  cosa di Litio che F, vicini nostri per la maggior parte non fanno bisogno de' grani nostri. Gii Sviz- :ri e i Grigioni , e il Bergamasco sono 1 soli confinanti nostri penuriosi di gra- "o . Non  dunque vero il dire Siam dir* * iridati da vicini penuriosi di grano . Ma 1 -lottiamo qnesto tatto , e suppongasi ' e realmente la terra alla linea de'no- 1 vi confini diventi sterile , e che la fe- ,c dita della Lombardia sia ristretta al I lo Milanese. Domando ancora: quando e*io Stato  circondato da vicini pcnu- vosi di grano qv.ale sar il regolamento Fa abbracciarsi? Quello sicuramente the "eviene pi provvidamente la carestia. c_ quale  questo regolamento ? La li- ";rt. la natura, lo svincolato dibatti- c ento degl'interessi privati di ognuno, *.iico mezzo per ottenere che n grano sii divise in mola concorremi e non si R5 s coacervi in pochi monopolisti . Quale sar il regolamento da evitarsi pi di ogni altro in un paese circondato da vicini penuriosi ? Quello ohe fa uscire dallo Stato p  grano ; chef lo espone a mancare del necessario ; che spinge ar- tificialmente l'uscita al di l del limile, al quale sarebbe andata abbandonata alla concorrenza ; che mantenendo una stabile diversit di prezzo fra l' interno e V esterno alletta con utile sempre vi- gente l'esportazione; quello che rende alcuni pochi arbiiri della comune sussi- stenza, i vincoli in una sol* parola sono da evitarsi appunto ne' paesi pi esposti al pericolo , e circondati da vicini pe- mm'osi . Di che pare che si  detto ab- bastanza per dilucidare la materia sino dal principio. Dunque non , n pu essere mai una eccezione della regola il dire : il nostro paese  contornato da vicini penuriosi di grano . Ma in un paese piccolo sar egi: da temersi quel sistema che limita l'uscita al solo superfluo ed assicura all' ii-.terno il necessario ? Tale  I-effetto della con- correnza , e della Libert come abbiana veduto . Qual obbiezione sar dunque il dire il nostro paese  piccolo: Anzi Commercio de grani P. 11. h 86 pare a me che appunto in uno Stato piccolo essendo pi grande a propor- zione la linea de' confini, e pi corto il viaggio del trasporto sia pi che al- trove pericoloso ogni vincolo; poich se  provato, come Io credo, che le leggi vincolanti ristringon di loro natura la merce in poche mani , che i monopoli, sii abbiano empre mezzi pronti e saga* cissimi per deludere , o sedurre i cu- stodi ; sar pure provato che il loro giuoco funesto saiA sempre pi esegui- bile in uno Stato piccolo che in u grande ; essendoch il pericolo della scoperta  sempre tanto maggiore quan- to  pi lunga la tratta del viaggio di una merce di contrabbando . Dunque la piccolezza dello Stato  un moivo di pi per mostrare necessaria la libera concorrenza . Aggiungasi che in uno Sta- to piccolo la minore differenza del prez- zo co'fiuitimi basta per cagionare l'utile del trasporto ; poich minore si  la spe- sa intrinseca di esso trasporto. Per esem- pio , i grani dal centro della Francia non si trasporteranno mai nella Savoja sebbene i prezzi fossero pi alti nella Savoja d'un Gigliato al moggio di quello ch non lo sono ael centro delta t'raa\ . 87 eia . In vece dal centro del Milanese baster che siavi la differenza d'un mez- zo Scudo al moggio co' finitimi , che i ' grani vi si trasporteranno. Bisogna adun- que pi uno Stato  piccolo , pi inter- porre i mezzi pcrcli i prezzi de' gran stiano equilibrati ira noi e i vicini pi ohe si pu colla minore uscita possibile dallo stato ; si  provato che a questo fine non si giunge se non colla libert. Dunque appunto la piccolezza d' una Provincia 1 una ragione di pi che deve far temere ogni vincolo , e rende ne- cessaria la libert , e se i vincoli non hanno per lo passato cagionata la care- stia frequentemente da noi dehbesi at- tribuire , lo ripeto , al torpore e all'ina- zione, colla qusle si trascurano le leggi;  per poco che si volessero porre in vigore e attivila rigidamente, i funesti effetti non mancherebbero di provare la verit di questo ragionamento . Ma per dilucidare ancora di pi questa obbiezione sulla picciolezza del nostro Stato, facciasi una supposizione. Figuriamoci l'Italia formare un solo Sta- to soggetto al medesimo Sovrano. Que- sto Stato potrebb' egli avere 1' interna circolazione de' Grani libera senza in- h ^ 83 convenienti ? Ciascuno dir di s, e die anzi questa libera circolazione sarabbe provvidissima. Il Milanese  una piccola provincia di questo Regno ; dunque po- tranno (in questa supposizione) uscire i grimi dal Milanese e trasportarsi in al- tre pani d'Italia. Usciti che siano dal Milanese saranno essi necessarj all' ali- mento della Provincia dove sono siati trasportati? Dico in questo cas che n il Sovrano vorr obbligare la provincia che gli ha ricevuti a perir di fame per restituirceli, u ritorneranno mai Non, saranno essi necessarj alla provincia che gli ha ricevuti ? Dico che naturalmente ritorneranno nel Milanese tanto se siavi in Itala un solo Sevrano, quanto se sia divisa in varj Stati; peroh l'incentivo del prezzo  tale , e la sperienza lo di- mostra che la proibizione de' finitimi nn impedir mai che quando essi ab- biano Grani si trasportino di contrab- bando da noi , tosto che vi sia lo sti- molo del maggior prezzo . La industriosa necessit delude sempre la legge mal- grado ogni vigilanza , e la vigilanza e il re possono bens trovare delle vitti- me , ma non mai 1' osservanza di leggi , contro -le quali urta incessantemente l'in- *9 tres3e conspirante dei pi . Gii elfet del commercio , di sua natura libero e indipendente, sono presso poco gli stessi fra due provincie sicno esse sotto lo stesso governo o non lo Steno ; poich le leggi vincolanti altro effetto non pos- sono produrre che condensare in mano di pochi la merce , ma non mai impe- dirne fisicamente il trasporto come si  Veduto . Ogni difficolt adunque ohe si appoggia sulla picciolezza dello Stato o non \ix senso , ovvero se lo ha porta in. conseguenza di trovar dannosa la libert deli' interna circolazione accordata ne' vasti regni ; essendoch un vasto regno altro non  che un aggregato di tante picciole provincie da ciascuna delle quali pu uscire il grano tosto che sia libera la circolazione ; n vi si potr restituire se non tostoch vi sia 1' utile del prezzo eccedente la spesa del trasporto . Siamo una picciola provincia , con- finante con vicini penuriosi di Grano , e siamo lontani dal mare ; dunque non ci conviene la libert del commercio de* grani; questa  la pretesa ragione, colla quale si crede di annullare l'evidenza della dimostrazione per la libert . Per foco che ognuno vi rifletta trover che h 3 90 . non vi  connessione alcuna ira l'ante- cedente e la conseguenza. Se  prosato (come pure lo , con quella precisione colla quale lo pu essere una verit po- litica ) se  provato a priori che dovun- que in ogni clima , in ogni Siato , la li- bert  il migliore sistema per mante- nere l'abbondanza ; se l'esempio di tanti Stati d' Europa conferma praticamente queste verii ; se la vece de' Scrittori maestri di Economia pubblica si unisce concordemente a proscrivere i ceppi , e le catene ; se questa teoria  pesta in s chiara luce, couie certamente lo  su di questa materia , che vorr dunque dirsi col ricordare che.* siamo un piscio- Io Stato ( ed  vero ) , che siamo cir- condati da ogni parte da vicini penuriosi di Grano (e non  vero) , che siamo lontani dal mare? E' vero che abbiamo novanta miglia di strada per vedere il mare di Genova ; ma  pur vero altres' che noi a mezzod confiniamo col pi gran fiume d'Italia col P, nel quale cadono 1' Adda e il Tesino die costeg- giano il Milanese da Levante e da Po- nente , e che per queste acque il Mila- nese ha comunicazione col mare . Pare che molta stDiig'i-uiza corra fra la p- 9T sizione del Milanese e quella del 1 nato ; la estensione  presso poeo la stessa , il Delfinato  discosto d;l mare quanto lo siamo noi , ed ha il Rodano che lo rende comunicante col Mediter- raneo . come noi il P coli' Adriatico  Il Delfinato confina colle sterili monta- gne drlla Savoja , coaie.noi con quelle de' Grigioni e Svizzeri. Sia grande o piccolo lo Stato , sia lontano o sia vicino al mare bisogna fare in tsodo che non esca dal nostro paese fuori che il superfluo dei grr.ni, e che vi rimanga sempre il necessario . Dunque bisogna interporre quei mezzi , i quali impediscano 1' uscita del Grano al di l del superfluo . Quai seno que- sti mezzi ? La libert , ovvero i vincoli ? L'unanime consenso degli autori classici dice che e la libert . L' esempio dele pi illuminate nazioni lo conferma . L* ragione ci fa vedere che dai vincoli na- sce la s- nubile e costante differenza fra il prezzo interno ed esterno, dalla q;ule incentivo perenne al trasporto. Dai vin- coli T esperienza e la ragione ci fan ve- - dere che nascono' i monopolisti , e di- strutti i vincoli svaniscono . La ragione dunque e insegna che coi vincoli segue s1 pi uscita di grano che colla libert. A queste ragioni mal si risponde colla ge- nerale proposizione , che la massima  buona , ma non conviene al nostro paese . Conviene al nostro paese quel siste- ma che allontani maggiormente il peri- colo della carestia; il sistema che allon- tana maggiormente il pericolo della ca- restia  la libert della contraffazione od estrazione ; dunque il sistema che con- viene al nostro paese  il sistema della libert della centrai fazione , ed estrazione . Dove  libert della contrattazione ed estrazione ivi non manca mai il neces- sario . Regola generale . Dove  perfetta libert della contrattazione ed estrazione non vi  mai pericolo di carestia , e i pericoli vergono dove vi sono vincoli , e pi sono rigidi e in vigore , maggiore  la frequenza dei pericoli. Il necessario non esce mai da uno Stato qualunque ove vi sia liber' della contrattazione ed estrazione ; prova ne siano tntti i paesi liberi . Dunque il sistema che allontana maggiormente il pericolo della carestia  la libert della contrattazione , ed estra-. zione . A questi ragionamenti o bisogna cre- dere , ovvero bisogna internarvis'i, e tro- 9J varne l:i fallacia e porla in. utl giorno chiaro ; n meato concorrerebbe tanto zucchero do- ve il prezzo  pi aito . quanto abbiso- gna per il conguaglio. Dove il commer- io  svincolato ivi sono tanti tubi co- municanti, ne' quali i fluidi si livellano da se. Quello che ho detto dello zuc- chero lo dico de' Graui con tanto mag- gior fondamento , quanto 1 Grani sono una merce pi comune. Dunque data la libert , si conguaglieranno i prezzi ; dunque chi supponesse che posta la li- bert dell' interna ed esterna contratta- zione vi sar la disparit dei prezzi fra l'interno, e l'esterno che ora vie, pec- cherebbe in Logica , supponendo che sussista un effetto senza cagione , e tra- sportando la idea de disordiui presenti a quel sistema che radicalmente li toglie. Per convinursi della insussistenza delle obbiezioni che si f; nno basti ri- flettere a questo ragionamento L Grani non escono, ne si trasportano fuori del- lo Stato se non a misura che il prezzo esterno  maggiore dell'interno; e tanto pi si trasportano , quanto  maggiore questa differenza , e quanto pi costan- temente  durevole . Dove il commercio sia vincolato ivi la differenza del prezzo dell' jnterno all' esterno  pi sensibile e pi costante . Dunque dovunque sia vincolato il commercio deve trasportarsi al di fuori pi Grano di quello che vi 95 i trasporterebbe se vi fosss i universale libert . Non  sperabile il custodir mai i confini per modo che un monopolista non corrompa i custodi , e non trasporti quanto, e come vuole. L'esperienza ce ne conviene , e la ragione egualmente ce lo persuade . Poich il monopolista che trasportando , per esempio , due mille ajoggia di grano vi guadagner due mille scudi , pu spendere trecento  quattrocento e pi scudi per corrom- pere i custodi ; in vece che il posses- sore per cento e dugento moggia noa potrebbe tare spese paragonabili. Radunato il commercio nelle mani de' pochi , come succede dovunque vi sono vincoli, i compratori esteri debbon ricevere la legge; del prezzo dai nostri monopolisti; cos i venditori interni sono costretti a ricever da essi la legge in gran parte ; ed ecco come sussiste co- stantemente la diversit del prezzo fra i mercati interni e i mercati esteri ; ed ecco come si verifica quel  Grans (ri). Ivi an- no per anno, leggousi i prezzi del grano Inglese d; 43 anni che han preceduto atto di gratificazione , e il prezzo co- mune era due lire , dieci soldi , otto danari sterlmi . Nei 43 anni consecutivi all' atto di gratificazione il prezzo comu- ne fu due lire , cinque saldi , otto da- nari sterlini ; per il che fu diminuito il prezzo di cinque soldi sterlini, cio circa un Filippo al Quarter . Nei 24 anni po- steriori i quali terminano col 1754 il (a) BtrVsn I;> /  '9 * e > a tetto cottuae fu una lira , quindici soldi, Otto danari sterlini ; appare dun- que come la libert, e la gratificazione inglese hanno fatto ribassare quei prezzi di circa a lire Milanesi, quasi quattro Scudi al Quarter. Tali sono gli effetti della libert . La ragione, d'un fenomeno politico tanto inaspettato , e lontano dalla co- mune maniera di prevedere deve attri- buirsi a due ragioni. L' una si  l'inco- raggiamento e vigore dell' agricoltura, per cui si moltiplica il grano in mag- gio* ragione di quel che ne esca ; V al- tra si  che moltiplicandosi i venditori , cio comparendo per venditori di graui i veri possessori , i quali nel $jsi presente cedeuo la lor parte ai pochi monopolisti ( tutto il restante essendo eguale ) si deve ribassare il prezzo ; poich esattamente esaminandolo il prez- zo d'ogni cosa, siccome si  dimostrato,  iu ragione diretta dei compratori , e inversa de' venditori . N colla libert si moltiplicherebbero i compratori esteri, i quali anche attualmente tutti lo rice- vono dagl'interni nostri monopolisti. La libert altro effetto non farebbe adun* o nulla di quanto si  detto ; per altro la sola lettura di trattati ne mostrer a chiunque la insussistenza . E' libero al Sovrano , e interamente li- bero lo stabilire quel sistema interno che trova pi confacente alla prosperit dell'agricoltura, ed all' abbondanza dello Stato; n a questa tanto naturale e tanto dilicata libert si  rinunziato mai con verun trattato . Taluno In pure suggerito ci  tire l'uscita dallo Stato, e di acc7 in Milano , alla porta riceva il ricapito con cui potr fare uscire dallo Stato altre cento moggia . Questo sistema che presenta un fallace aspetto d'industriosa speculazione porta con se la supposi- zione che la libert assoluta sia soggetta a rischio , e alle conseguenze di tutti gli altri vincoli , e ristringe 1' attenzione alle sole citt , dimenticando la pi im- portante popolazione della campagna , ed apre la strada a tutte le corruzioni verso i molti che dovrebbero aver d- ritto di spedire i ricapiti d' intrcduzio* ne , ed altro non fa che favorire i pos- sessori delle tene pi vicine alle citt , e aggravare d'una maggiore condotta le terre pi lontane , e condensare il gra- no nelle sole citt e piantare un nuovo labirinto oU cautele che si moltipliche- rebbero col progresso degli anni a mi- sura che la frode industriosa tentasse nuove vie per deludere. Con tal pro- getto sarebbe adunque mutato il sistema bens , ma non migliorato , Mi si perdoni se dir la stessa cosa pi volte : scrivo affine di mettere la verit nella sua miglior luce, non per organizzare un buon libro . Questo mio scritto io ucsiino al ben pubblico, non to3 alla mia glori*  Mi si perdoni adunane se ripelo parte o.i quello oha gi lio detto. Si tratta i p: t jjiur.z! radio mi e attive r sali ; si tratta di errori che taluni hanno interesse a difendere ed inviluppare; la stessa ragione tona u aspetto colpisce uu lettore,  botto uu aspetto contornato altrimenti  colpo ad un Uro lettore. Ilo riferite le difficolt, e tutte le modificazioni iil'uenti cagioni possono por- tar la carestia in uno Stato coltivatore . La prima si  perch le sue ieri non producono grano bastante a' suoi biso- gni. La seconda si  perch il- grano raccol'o esca da quella nazione oltre il saperfluo anche porzione del neeessano al di lei mantenimento . Facilmente s'inteade d ognuno co- me 1' agricoltura possa essere per cattive leggi scoraggiate e diminuita; ma noti si pu intendere come da una nazione possa uscire la parte di grani necessaria ti proprio consumo , se non quando il commercio de' grani sia ristretto aele mani d'alcuni pochi monopolisti Poi- ch essendo i prezzi di ogni cosa la misura del bisogno che se ne ha cre- scendo i bisogni interni d' uno Stat per un genere, cresce a proporzione Conitfitrc'to de grani P. IL no prezzo d; esso : e dolendo il forestiere re oltre il prezzo primitivo anche il tributo all' uscita .\ per fM!)'!' lie tempo rotabile essere diverso da un luogo all' feltro se non iSsolut-. che si po'Sf le . r,  dal vero e reale bisrgao che ne ha la na- zione} mz bens conviene ripeterlo, dai te compratori parcigonato al ni* de. vendite i . Se an uomo solo possedesse stor- ruiuati aakgazz ni di grani, e ti* tip un. on dovesse prenderli da lui, egli  nte t;he il prezzo di quei graj difenderebbe interamente dai volere di ; solo monopolista, e che gl'istes' 'i divisi in dieci possessori di- penderebbe il prezzo de' grani dal valo- re che volassero fissarvi essi dieci pos- sessori , e cos crescendo il numero in- definitamente . Faci! cosa  il compren- dere come quell'accordo e congiura clt e Ira u pircol numero di posses- sori con dilueo't maggiore si va.ia tando a misura che il numero de' sessori cresce: poich uri solo de' pos- sessori che cerchi di guadagnare pi presto de^ii altri compagni rompe im- mediatamente la congiura non avendo egli verun ostacolo a diminuire il prezzo della derrata che vende , e cos invi- tando tutti i compratori a contrattare con esso , anzi che cogli altri ; e da ci no nasce la necessit , e la gara degli al- tri a lar miglior mercato per avere pia pronto e copiosa smercio de' loro gene-. ri ; nei che tossiste il gran principi k i *4 deU.i concorrenza sola , legittima . e L.'- neh" a livellatrice del prezzo delle cose in ogni nazione . Da ci ne deriva die i grani clan- destinamente o privileg atau.ente tras- messi dn pochi nazionali a pochi fore- stieri finitimi, non tarmando quella con- correnza tra compratori, e venditori che nasce da molte piccole partito libera- mente dedotte in commercio, e mer- canteggiate apertamente , ne nasce dico che uscendo dallo Stato quanto Grano basterebbe a livellare il prezzo se fosse ripartito su molti possessori , con tutto io la divergila del prezzo rimane ; e cos rimane l'incentivo di esportarne 1 di pi di quanto esigerebbe la natura del commercio Cos questa legge , la qu.de setrbra diretta a conservare i gra- ni nelio Srato termina a farne uscire pi di quello che ne uscirebbe natu- ralmente; b togliere al pubblico l'utilit che ritrarrebbe eia questo commercio , condensandola nelle mani de' pi po- tenti , e sagaci ; e a diminuire la col- tura di un genere, i possessori del quale non son sicuri di ricavare nel prezzo tanto utile , quanto ne possono sperare m altri prodotti dell' ?gricaUura ; un i5 genere per (ine sul quale pende la scure del Legislatore minacciando sino 1' ulti- mo supplizio al possessore se voglia li- beramente contrattarlo . Che se la legge proibitiva del tras- porto de' grani fuori dello Swto deve produrre questi effetti perniciosi, dia- metralmente opposti al fine stesso della legge , che doVrassi poi dire di quelle leggi che persino vietano la circolazio- ne interna del grano da provincia a pro- vincia dello Stato medesimo , e lo as- soggettano a cautele e formalit , mi- nacciando chiunque osi dimenticarle ? Pare che questa parte di regolamento sia diretta a far s che mentre una pro- vincia abbonda di grani V altra u scar- seggi ; clie sia sensibilmente diverso il prezzo de' grani neile diverse terre dello Stato ; che sia sempre aperto 1' adito ai monopolisti e privilegiati di approfittare soli dtd trasporto anche interne de' gra- ni ; e di porre in somma e stabilire un perpetuo scisma fra i sudditi dello stesso Sovrano , che contribuiscono allo stesso tributo che vivono sotto le stesse leggi, e che fermano la stessa civile societ . L'impedimento posto da queste leggi venuteci da secoli, poco illuminati  cer-  pare agli cechi di enunci; n io dm v!ei a j io are il danno clic ci deve recare, poich ognuno facilmente ili vedere su >' artico io una riforma . Da queste ri ti ne nascono le conseguauze seguenti: Prime. La proibizione dell'uscita de' grani da huo Stato conduce alla care- stia , perch fa uscire dallo Stato pi io che uon uscirebbe se ne fosse libero il cooiru.. rei > - Seconda . La legge che vieta la li- beri circolazione de' grani nello Stato, tenue a scoraggiar i' agricoltura , conse- guentemente si oppone alle provvide viste della pubblica abbondanza . 1 Terza. 1 vincoli, le cautele eolie quali si circonscrivono la custodia , e la propriet de' gru ni producono un ef- fetto oppos.o al line 5^o il valore del fru- mento fu di sessanta lire il moggio (a) come ci attesta xm autore conte ipora- neo ; e assai pi enorme si fu il prezzo a cui per testimonianza dei (Jorio isc?se ii grano da noi l'anno i45o, cio venti ducati il moggio (b) per il che rag g'iando la lira di quo' tempi alla nostra e quella moneta colla corrente -ppare veramente enorme quel prezzo . Ma que- ste straordinarie carezze nascevano ap- punto allora perche pochissima corri- si, on- fa Aggiunta dell'universale Hstoria , e de le cose di M.lar-.o del P Pra Gasparo 8u- gatti Pointnicano dal l566 al i58l 1 Milano per Francesco ed eredi di bimon l'iai ijfc? pagina 76 (b Cor:p vqt r fine : Ila part ". e iva. in fbgl p ig .o^. 1 2T spondenza vi era fra Sialo e Stato , ge- losissime le reciproche leggi vincolonti , e poco animata la navie^oie la quale con poca spesa nnisc le pi rimote re- gioni , e conguaglia l' abbondanza e i prezzi non solamente fra i Regni oV Eu- ropa, ma oll'Affrica iste&sa e coli' Ame- rica . Due anni sf no lo farine nate.nelL* America trovavansi ne' magazzeni di Ge- nova . Le Poste  la Stampa , i Fogli pubblici , la bussola magnetica hanno data una nuova torma al genere umano, ed hanno organizzata una vasta societ sola , di tante piccole societ esclusive , gelose , e solcane che vivevano in que* tempi Perci dico che gli esempi de' passati secoli non possono pi farci te- mere simili disastri . Un paese che raccoglie abitualmen- te pi grani di quel che consuma ha due porzioni di grani ; la porzione ne- cessarla e la porzione superflua. Lo stato della questione s riduce a vedere se colla libert naturale del commercio pos- sa uscire della porzione necessaria . bu questo articolo  bene primieramente il riflettere che nel sistema situale non si impedir l'uscita del necessario, perch i custodi delle Leggi vincolanti non san- Commcrcio de' crani F 21.  1 22 no, n possono sapere qual porzione di grano superfluo siavi nodo Stato , at- tesa la fallacia delie notificazioni Es- sendo questo 1" unico Ilio che ora vi  minorare il bisogno e 1' abbondan- te viene che ogni tratta d'estrazione che si concede redmerne  un rischio. A ci si aggiunga che le clandestine estrazioni non si sono mai potute esat- tile impedire: ernie se il necessario pu uscire dallo Stato, singolarmente lo pu nei sistema odierno , per cui si ensano i Grani in poche mani . Secondariamente conviene dirci , sicco- me da principio accennai , per quale occulto misteiioso principio la merce giano nelle vicende della libera con- trattazione debba provare effetti che nes- suna altea merce prova mai . Un tatto costante prover ad evidenza credo io a cbiur.ji i si e no gli eliciti de'la li- bert , qi ; effetti dei vincoli . Que- sto latto 1' abbiamo celi' interno del no- stro paese, ed  alia portata di ognuno. il nostro Stato manca di vino e manca  o 18 soldi nell'Estate si vendeva. Perch questo fenomeno.' Non si pu dire che sieno scemate le man- dre ; anzi sono , come si  veduto , ac- cresciute Non si pu dire che siasi per- messa maggiore estrazione dallo Stato ; anzi mai non si  usata maggiore ditti* eoli a permetterla . Si sono raddop- piale le diligenze e le inquisizioni , s sono accresciute le custodie in quest' auno , e in quest' anno  nata la mag- giore scarsezza . Perch ? 'perch pi fischia il {Ugello della legge sopra una merce , e pi il primo possesore cerca di disiarsene , nasce il monopolista e lo ammassatore ; e questo padrone del prez- zo , malgrado la custodia deluda , o cor- rompe sempre . Nel i y 5i per favorire le fabbriche del Filugello si proib V esportazione di questo naturale frutto delle nostre terre: Si credette che in tal guisa rimanendo nello Stato la materia prima sarebbe stata a miglior mercato e pi abbon- 1  (a; Questa libbra  di ventoU'' onci.'; T26 dante , onde alimentare i tessitori di Stoffe di filugello Si proibirono gli am- massi . se ne viucol il commercio La raccolta annua dello Stato appare dai notificati di Rubi circa quattrocento mila di bozzoli , dei queli per verosimile se ne cavano trentamila Rubi di filogello . Dopo questa operazione sono nati im- mediatamente i monopolisti di filogello, i quali malgrado Y ottimo fine che si era proposte la legge si rendono arbitri di questo genere, defraudando il coltiva- tore del gmsto prezzo , e spogliano lo Srato con un privativo lucro . La sni- versn de' flugellai  in rovina; pi di quaranta tessitori di quest' arte andava- no mendicando due anni sono ne mai la manifattura del filugello  stata deso- lata al segno al quale si trova presente- mente . Nel medesimo snno i^52 s'impose un nuovo tributo sull' uscita della seta greggia ; ognuao la pu esportare pa- gando il tributo , ed il commercio ne  libero 11 raccolto delle sete va prospe- rando ogni giorno ; s calcola la seta come il prinoipal ramo del nostro utile commercio, per il quale pi di dieci milioni delle nostre lire , ossia seicento  . "S 1 sessanta e pi mila gigliati' entrano ogni auuo nello Slato . Nell'anno passato 1^68 si  proi- bita l'uscita delle uova dal Lodigiaud ppr manienervele a buon mercato . Que- sto  un capo di commercio utile che facciamo con Genova . Nel in62. ne uscirono rubi 82^4 > * quali calcolati a lir. 6" soldi 5 per ogni rubo , danno l'utile di lire 61712 io, ossia gigliati tremila quattrocento cinquanta . L' effet- to che ne accadde si fu di vedere , ap- pena dopo seguita la legge vincolante , accresciuto il prezzo delle uova e si mantenne a un livello superiore al so- lito per tutto 1' inverno . Questi fatti ognuno pu agevolmen- te verificarli , ognuno pu esserne giu- dice , sono attuali e vigenti. Q iresti fatti sono una prova talmente pratica in fa- vore della libert che non  possibile , credo io ricusare di conoscerne la evi- denza . Due anni sono si vollero porre in esatta osservanza le nostre leggi vinco - lanti su i grani ; ne venne in conse- guenza che realmente fummo ridotti a mali passi e a strette inquietudini per nodo che se il raccolto tardava accora t>8 |>er qualche settimana , e ia stagione non fosse stata propizia eravamo sul punto di provar u lame ; unico effetto di c^nei principi , i quali si vorrebbero pure sostenere come 1 cardini dell' abbon- danza . Il vigore che si  voluto dare alle nostre leggi ci ha esposti , oltre alle inquptusiini interne , a un pericolo prossimo di mali i pi ser) Giovi os- servare die negli Siati Pontifici , nel Napoletano, e nella Toscana erano in questi ultimi anni rigorosissime le leggi vincolanti il commercio de'grani. Su di che  da vedersi una bella analisi del II; golamento di Napoli del Sig Abate Morellet stampata in Parigi 17^4 col titolo: Fragmp.nt d'une lettre sur la pohce dts grains . Per il che le carestie sof- ferte da quegli Stali provano che ap- punto le leggi vincolanti non preservano uno Stato cibila carestia. Questo  tanto vero , e questo  s'.ato con tanta evi- denza conosciuto sul luogo nella Tosca- na, che ammaestrato quel Governo dai mali proprj , ed illuminato dall' esempio delle altre nazioni , e dalla comune opi- nione de' pi accreditati autori di que- sta materia coli' Editto 18 Settembre 176*7 quel Sovrano po finalmente rom- 1 : ;. pere i ceppi , e dare alla sua nazione la libert della circolazione , ed espor- tazione de' suoi naturali prodotti sin che il Grano non oltrepassi il prezzo comu- ne le lire i.| il sacco senza obbligare ad alcuna notificazione i possessori , o ad alcuna introduzione nelle Cina serr/.i proibire gli ammassi, senza in somma conservare alcuna di quelle cautele die pur si vorrebbero iar riguardare nella piena luce di questi tempi come il Pal- ladio della pubblica abbondanza , quan- tunque sieuo veri avanzi dell' antica bar- barie dei secoli d'ignoranza che ci hanno preceduto . 3Non si  ommessa arte alcuna per disseminar delle voci in discredito della libert. Al principio dell'anno scorso si sparse rumore ira di noi , che nella Toscana , e particolarmente in Siena fosse quel popolo ridotto nelle pi cri- tiche strettezze in conseguenza della li- bei l ohe il Gran Duca aveva accordilo coli' Editto 18 Settembre 1767 Questa voce sparia pr tutta la Citt nostra , assicurata, e- creduta universalmente mi stimol a fame ricercare una sincera notizia , ed ecco cosa vtune in risposta da 5ieua ai Febbrajo 1768. E' Jais* i3o quanto cost zi  sparso sul proposito di una carestia in Siena Presentemente tutto lo Sta'o gp le d' una cgunl i , e sui fine di Ottobre , e seguente ?ioi>ernb~re dell anno scorso , allorch in Firenzi; -a fare cruest' uso di lettere private serza il previo sser-so 'li chi Je scrisse, e questo uog '.' !:o . l* elio , eli lamenti del poy.nlo Fiorellino i il q'iale  maissimo contento di questa li!) era estrazione di Grani . eri Olio nccor~ data . V.i /i'.i sta al acquietarlo un libretto pu!'h!i3a>o ultimamente m Firenze, e che si dice tra licione del Francese risana irla ite i vantaceli originati falla libera sortita da DO O G nini , nel (/itale si dice , che il Grano tende a livellarsi come l acqua , e gli al" tri fluidi , onda mancali lo in una Provin- cia, mme Untamente le altre circonvicine trasmettono il Gratto che hanno di pi , e cosi si supplisce alla mancanza , e s induce n gli Stati una perenne cireobizione di Grano, e di danaro. La provvida cura del Sovrano appaga pi ri/ pi dell cnunziata ragione , e di qualunque altra ce Lo spi t i r v> utmno e le passioni de- gli uomini s'assomigliano sempre, ben- ch si esercitino sopra oggetti diversi, quando essenzialmente siano simili le cagioni motrici; e se vorr farsi un esa- me attento di quello elio  accaduto ai promotori della inoculazione del vajuo- o : uomini benemeriti della umanit di cui cercavano di salvarne la decima par- te , arr^verso ai pregiudizj ed interef' de' Medici ostatati ad impugnarla, tro- veremo cjie molta analogia vi  con i 3 5 mia rito accade presentemente si pr. no- tori della libert dei commercio de' giri- ni . 1 primi furono chiamati avvelenatovi del pubblico , noi siamo qiu.buoati op- pressori della pi infelice plebe . Cento l'avole smentite una dopo 1' altra si sorx promulgate per discreditare i innes'o , asserendone un gran numero di periti per questi op-'r.-izione . e un gran nu- mero d'altri, ai (piali non  suta V ino- culazione mi bastante preservativo con- tro il vajuolo naturale:, dai' quale in se- guito sono stati sorpresi. Fat'i tutti suc- cessivamente sventati con prove giuridi- che , ed asseriti gratuitamente . Contro la libert del commercio de' Grani s' in- ventano con eguale facilit 1 latti per discreditarla, e bench non possano aver vita che poche settimane i rumori che si spargono nel popolo , pure non si cessa di mettergli nel cuore la diffiden- za, la qui.le non manca mai neh impor- tante materia del pane di lasciar lulla molli ladine nna Impressione difficilissima a cancellarsi . perch eoa forme alle leg- gi , alle opinioni succhiate col latte, e a tutte le superficiali apparenze degli oggetti, oltre la qna'e non si Spinge mai la maggior p. conseguenza , e una contraddizione al sistema . Se poi non  possibile cir colla libert resti lo Stato sprowsdnto del necessario; allora di slancio bisogna atterrare la libert , la semplicit , e T ottimo ; ogni modificazione del quale  un male , di cui non possiamo preve- dere le conseguenze . Tra la luce di questo secolo sotto di un governo vigilante non era possi- bile che pi a lungo regnassero i fune- sti pregiudizj che su 1* importante le- gislazione dell'Annona da secoli ha spar- so una mal pensata timidit. Partono^da esso i ra?gi che ci additano il buon sentiero. INTel i rfSg con Sovrano Rescritto ai Agosto dichiarasi la massima di do- versi proteggere , e favorir quanto il comporta V esigenza dello Stato , e il reale servigio, la contrattazione ed esira~ zio ne de' naturali prodotti , brattando che celi' applicazione e coli' industria sia- no migliorati, ed accresciuti, per sem- pie pi dilatare il commercio. Pi chia- ramente poi nelT Articolo XIII. della Istruzioni unite al Dispaccio dei 20. No- vembre 1765 vedesi che nel progetto sull'Annona ordinato da farsi il Jne prin- cipale dovr essere che senza discapit dfl Regio Er ario possa ottenersi la libert del" la contrattazione ed estrazione de naturali prodotti . La proposizione di cui si tratta noti, si  di esaminare se convenga al nostro Stato adottare la libert del Commercio de grani . Questa proposizione resta gi dal Sovrano Rescritto decisa , poich il fine principale del progetto dovr esser non gi comporre la libert ciV abbon- danza pubblica , ma unicamente com- porre la libert coli interesse del Regio Erario . Troppo illuminata  la mente Sovrana , e socio degni di lei i Ministri perch si tema da essi che la libert lei commercio sia mai in contraddizione colla pubblica abbondanza. Altro a. qne bop resta da effettuarsi f non di j >rre un piano, per mezzo di cui r libero il commercio d^ Grani , e ne. discapiti ii 'Itgio Erano tti quel i o che da questo laudo ritrae , e o sar l' oggetto di quanta mi re- sta ri dire * Distribuire sull'uscita dcgrt.ru' dallp Staio in somma totale del tributo die al di d' oggi p^ga il con. mercio de' grani : questo  il progetto ch'io propongo, e lo cred.o il pi semplice di tutu  il solo  j tubile . Con questa seuipl e* operazione non sar aggravata certamente d' un sover- chio ueso la contrai tazicne de' gr*ni , poicli presa tuua in nome portwr il imedesimo tributo he ha. portelo sin ora. e nel tempo afiadesi-mq ->ara svin- colata da tutti gli ostacoli, ne quali sinor: estate inv luppata . H .. detto por- tava il rry.. iesirm tubulo e doveva torse dir' ne perle  uo minore asai; poi- ch s l -imitala - solo tr>buto legittimo. Il Krgio Eiui'ic saia indennizzato ccl ' diurna sni'.ioia che gii frutta 1' An- r jii.i ; onde al medesimo non ne verr discapito alcuno. Gli ufficiali che sino I4J al prsente hanno consultata la lor vi- ta, e i servigi loro negli impieghi subor- dinati dell' Annona verrebbero in questo progetto trattali ton quella discrezione , e amanita che merita ogni fedele e ono- ralo ufficiale , poicli da! fondo raedesi- se gli conserverebbero g!i annui Jore disperidj ; e siocome molti di essi son forniti i abilit e zelo ; cos po- trebbero impiegarsi parte a tenero i re- gistri separati ed a refereudare le boi- lette de libri di questo tributo , altri in fcu-i u file] s-enza aggravio della Regia Camera . Resta a vedersi adunque qu-jl sia la quantit de' Gran ebe verosimilmente escono dallo Stato ; quale la quantit dui tributo , che attualmente pagasi dal commercio de Grani ; chi dovrebbe ave- re la cura della percezione di questo tributo ; ed in qual proporzione dovreb- be distribuirai su i diversi Grani. (Que- sti oggetti dilucidiamoli , e ci fatto , s-ir esaurito quanto vesta da dire su di guest' argomento . 1/ opinione volgare fa ascendere la esportazione annua de' nostri Grani a moggia n.ioit)- . Abbiamo unito al Ma- gistrata Carnevale i Regio Ufficio delie i4^ tratte de" grani , ove si registrano le li- cenze per ou'ni esport!.: le' Grani . L'uscita de" Grani i questo Stato dell' X^ltituo decennio, appare eia i registri dell' Uffi tratte p lo di some ijitr,. st. io, ossia moggia . Moggia iJiyoOy sono a moggia ioif' come i $ a io t circa . Dunque apposta l'opinione volgare sopra ogni iredi Uero uscire di t lo ;n frode della U-gge , e uela regalia ino:. i' re al brd principio che se una cos prodigiosa libert di ' . le leg- gi., e le reglie stabilite sin Grani fosse realmente in uso in questa Provincia , vi sarebbe di che maravigliarsi, die al- cuni tuttora rtcorrino al Magistrato per le trane , e si sottoponghino e pagare il tributo . L esperienaa , e la comune o| re sono d'accordo in ci ctie si asse- gnano per verosimile con su irte in ogni nazioue due moggia e ruezao di grano all'anno per testa (a). Se 1 tsoortazion e fa) Disopra Lo assegnato por gli a')itat>)i dello Citt Uue moggia prr tesra , perch nelle i43 de' grani del Milanese ascendesse dova l'opinion volgare la porla, converrebbe dire, pi di 400oo uomini vivessero inori dello Stato di Milano col Graiio dello Stato di 3iilao, e (jnesta somma altres pare troppo esagerata L'inverosimiglianza di questo gran- dioso trasporto va sempre pi crescendo, se paragonisi col commercio de giani dei Regni pi fertili d' Europa , ci* della Polonia , e dell' Inghilterra . 'Citt s nutriscono gli uomini con minor grano per {' se che fanno (felle carni iN'ella Gii i'Jilano appaje^o per adequalo vemule a i approssimi :i pi alia verM sar facile il retti- ficare i! calcolo ; numi' altro cerco se non la V'in.'i, e sar il prim a mutare d'opinione 3 dell* errore . Se dovessimo stare a qusnto ei af- fossa it Coi, roti? nl suo sh tii Lettere eopra la Russia alla lettera v,> i'. i Pelaceli! : il gn no lo reirlo! o ai JJanzieani, tendo permesso ai t}.>- erlo ai , -r la so'o spazio ili oinque giorni durante li  7u-ra ci stima che /'  /00000  come uno a quattro crescente . Dunque sarebbe il commercio de' nostri grani pi che la qv.inta parte dell'insigne coruraercio del- la Polonia per Danzia ' Commercio de grani P. TI. n fa Tonneau* (b) Vic/ionaire Geograpbitjue artcolo Damerei, te Samry Cotnifterce page 464 , ed Essai tur fa Poliva Gncr. Jet Grains pag 1\(. (3) Sararj Commerce pag 179. La forza di questo paragone cresce assai riflettendo che le coprannominate l 'fi \iucie della Polonia eo inimicanti culla ala (ormano lo spazio d'una jiianuiM ili miglia quadrate italiane 4-5ooo. La iitiej superficie dello Stato di Milano si calcola circa miglia quadrate italiane a5oo (a) . Dunque lo Stato di Milano  la di- ciottesima parte delle accennate Profitta ce delia Polonia , ossia lo Stato di Mi- ano si comprendffiebbe io volte nelle fa) Questa estensione  cavala dalle carie stampate P converrebbe rettificarla Dalla misura (Ille Terre appare che I* estensione del censi- Mie si  Pertiche 1137*121. 12,. 5. 6 12 Ag- giungasi le strade , i Fiumi , i Laghi ec per 10 meno 1' estensione sar Pertiche r'.oooooo . Kon so se il Miglio che serve al Magistrato Camerale sia la sessantesima parte d' ut giado. 11 Miglio Camerale  bracca a568 , os>ia Tra- bucchi 585. I. io Dunque Pertiche 3566 1. sono un Miglio quadrato del Magistrato . Dun- que 12. milioni di Pertiche sarebbero Miglia udiate 3365. crescenti . Dubito che la misura del Migiio de} Magistrato sia pi corta del Mi- glio Italiano . In ogni caso io lascer che que- sti fatti si esaminano, e si verifichino, contento d-tlla mia parte di non avere occultate le ob- ;iit?;oni che li possono fare . suddette pianure della Polonia . Da du- ne segue die preudendo in massa il Milanese, e paragonandolo alle accennate pianure della Poion:a , se 1' opinion vol- gare sussistesse, dovrebbe dirsi la fecon- dit tei Milanese esser quadrupla , ri- spetto a' grani, eiella fecondila del suolo di quella parte di Polonia , per mo- do che due porzioni eguali di terra , una nel Milanese, l'altra nella Polonia qulla del Milanese dando lue moggia , quella della Polonia dovrebbe darne solo mezzo moggio. Giacch le. miglia qua- drate italiane 45ooo della Polonia pro- ducono moggia Milanesi quattro india- ni , e novecento mila , verr a risul- tarne per ogni miglio quadrato ioo erica ; e nel Milanese spazio di miglia italiane quadrate a5oo distribuendosi 1 moggia un milione e diecimila cento novautasette , verrebbe ad essere il pro- dotto d' ogni miglio quadrato di moggia 44 crescenti , il che appunto corri- sponde al qudruplo circa . Che se paragonisi il commercio de nostri grani, giusta la volgare opinione, col commercio dell'Inghilterra, crescer ancora ohremodo l'inverosimiglianza. Il commercio de'.Gvani dell' Inghil-, n a i43 terra  un ramo dei principali del com- mercio attivo di quell'itola Ognuno sa quanto si . l'ertile in grano tntti quei Re- gno , e particolarmente 18t)87 il che forma p&r sdegnato l'uscita annua di quartr o^>^ij6^ cre- scenti 'a . fa' Rsmar.jups sur Iti avantages et !et iexavan- tagts de la Franse f et de la Grand* Bt+fagn* pos- ti , et Essai- sur la Po/tee generale des Grami /''?. 2. 1 v  paese al M do ci 1 non deb- bano -uscire  gran c'aii'l ti aiicle questo debi^'.s^er-* certamente il R^sjno d'Inghilterra dove per la gratilcazione che ricevevi dal pub- i\ quarter iuglese pesa libbre 5x2 di once 12 per libbra (a). i moggio Milanese pesa libbre di once ri Sari circa . Dunque un quarter corrisponder a moggia Milanesi 1 st. 4 quart. 2 . Dunque l' uscita annua di quorlef ioj-;)')'9 corrisponder a moggia Mila- nesi 1653076 crescenti . Ma le moggia 1010197 sono a mog- gia 16.0076 come 5 a 8. Dunque il to- tal commercio d esportazione de' Grani del Milanese sarebbe pi della met del totale commercio de' grani che fa l'Iso- la d Inghilterra . L'intera Isola d'Inghilterra ha di estensione 65ooo miglia quadrate italiane;, Lo Stato di Milano  la ventesima Sesta parte dell'Isola d'Inghilterra. Da n 3 Hliso Er.irio all' uscita de' Grani il non regi- strarli sarebbe lo 6tesso che perdere una sen- sibile parte di guadagno di 5- soldi sterlini per quarter, come fra gli altri il Negociant uLnglois 'Ioni 2. pag- 82 (a) Storia del Commercio . della gran Breta- gna ( che  appena la deGioi citava parie (ti quella porzione d Polonia . che  pi: fertile di grano, trasponi pi della qnin- ta parte del grano che trasporta la Po- > ti -i . La terza che la esportatone de grani del Milanese sia pi dtlla piet  lei' esportazione de' grani che fa l'Iso- la d' Inghilterra , la quelle per estensio- ne contiene pi di -iG volte lo Stato di Milano . Queste tre conseguenze sono tal- menta iuv^risi raili che evidentemente di- mostrano non esservi che 1 ignoranza per base, sulla quale viene appoggiata l opinion volgare . Tre sono gli argomenti su i quali si appoggia l'opinione che fa ascendere il commercio di questa Provincia ne' grani a moggia 1010197 . Il primo  supponendo che il rac- colto d' un anno de' grani del Milanese hasti per 18 mesi . Il seconde  che il totale del pro- dotto annuo delle terre del Milanese sia li lir. 72900000 . Il terzo  appoggiato su la quantit dell'aratorio che risulta dall' Ufficio del Censimento . Il primo argomento , cio La rac- i53 colta de' nostri grani basti per i3 mesi, rsru che la raccolta de' uos ri grani sia la met di pi de' nostri bisogni , .-.Uro ron  elio nna gratuita petizioni di principio, col^a quale supponesi pfr fon- damento rinfilo clie  oggetto della ri- cerca. Quindi tutto il ragionamento ivi appogsj 'io non pu dirsi appoggiato a verun fondamento . il secondo argomento  il prodotto annuo di lire 73900000 , a cui si fauno ascendere le terre dello Stato. Questa somma  veramente romanzesca , e tas- sata da chi non aveva notizie d' altri paesi per IVrne il confronto . Dando un' occhiata all' opera del Marchese Mirabeau , che porta il titolo ; Theorle de /' Import pag 1 4- trovasi the ji totale prodotto delle tftrie di tutta la Frnnria , considerata sotto tre diversi aspetti,  di franchi 4f'8"8ii6o, cio di lire Milanesi * 1 3 1 7 1 ^4 circa Se il prodotto delle nostro terre fosse di ~3 milioni , sarebbe V ottava parte dl valor totale del prodotto dtlle terre di Francia , poich 70 milioni sono a 61 3 171740, come 1 a 8 crescenti. A chi vorrassi mai far credere che il valor delle terre Milanesi sia 1' ottava i ;>4 parte del valore di tutte le terre di Fran- cia , la quale  uno spazio di miglia quadrate italiane 172800; mentre lo Sta- to di Milano  lo spazio soltanto di mi- glia quadrate italiane uSno , cio la ses- santesima nona parte del liegnodi Francia.' Che se vorrassi nheriormente con- frontare questa valutazone ridicola data alle terre Milanesi , colle notizie che ri- caviamo dai pi illuminati Scrittori delle materie economiche , troveremo che in questa supposizione il prodotto annuo delle terra di questa Provincia verrebbe a riuscire pi della met di quanto pro- ducono alia Corona di Spagna le M:- niere del Potos, e le Colonie dell'Ame- rica Meridionale . Di ci se ne vedono le prove in D Gerolamo Ustariz infor- mato e zelante Ministro della Spagna, il quale nella Teorica, e Pratica del Com- mercio a yng. 26 ci insegna , che %o milioni di piastre all' anno  il totale che il Re di Sp;.gna riceve dalle sue copiosissime Miniere dell'America. Venti milioni di piastre corrispon- dono a centoquaranta milioni di lire Milanesi . Settantatre milioni soao a ente quaranta milioni Milanesi , come 1 a a r 55 crescenti : dunque il prodotto annuo dille nostre terre verrebbe ad essere pi della mela di quel che producono alfa Corona di Spagna tutti i suoi te- sori dell' America . Da qualunque parte si paragoni que- sta grandiosa valutazione delle terre , sempre ne scaturisce qualche risultato che dimostra T^ssurdit dll'esagerazione. Se  vero qnanto il sig. D.ivid fiu- me asserisce nel suo disborso politico sul denaro , cio che la massa totale che entra neli' Europa ogn1 anno per il commrcio d'America, ed Africa non oltrepassi la somma di sette milioni di lire sterline , ne avverrebbe che il pro- dotto annuo assegnato alle nostre terre fosse eguale alia terza parte di quello che fruttano alla Spagna, al Portogallo, alla Francia, all' Inghilterra , ed ali' O- Lnia riunite tutie le Miniere , le Co- louie, ed il Commercio d'Airica, e cibile In -iic Occidentali; poich sette milioni di lire srerlme corrispondono a lue Mi- lanesi 23ioooooo, e settantatre milioni seno a duecento trentuno milioni come 'j. a 3 circa Da questi paragoni nasce l'evidenza che i! secondo fondamento non sia ap- poggiato che all'ignoranza, ed alla cUb- bennaggino Per far ascendere il prodotto an- nuo delle tetra di questa Provincia alle lire quasi setiantatre milioni si sibabi- 1 sce u principio , il quii e  opposto dia universale espprien/.a , cio die la porzione Dominicale sia soltanto la ter- za parte del prodotto , quando elLi  realmente la met essendo una gr;in psr- te delle terre di questa Provincia colfi- vate colla divisione per un^ del pro- dotto fra il padrone ed il coltivatori', ai quale stanno incaricate le spese della coltivazione (a) . Giova il r flettere come nel valor capitale dello Stato di IVIil no satinato dui Censimento di scudi j^G^bSi v' 8' comprendano le ctje, e tutti i.btjni disa- mati fa) Questo fatto non solamentp  noto a qualunque niii nel Stila esc , ma si tova ati- che nrgli Au ori Oitrnimntatii ctit i>r ano d'Ha nostra Agri altura : d>xn.t Ir iWfaii&i U Frm/'er danne au Proprie/aire Li tre:/.  du j/rouit Ji Li terre au leu du ters "Basai mr /j nature du Commerci eri general t raduti de l Jtngta* ,  Lo-  i ri i.5 per ogni scudo d'estimo, dun- que pag.-si il '>y per cento. Il ch s'ac- costi alla terza parte o\ prodotto . Il frutto annuo adunque che si vor- rebbe calcolare delle nostre terre  mol- to esagerato, come ognuno vede, e non li a fondamento alcuno . Notisi che que- sto Iruttto delle terre comprende la se- ta , il lino , il cacio , e il burro non il grano solo. La seta  un ramo d'an- nua riproduzione , che risulta pr ade- quato -j 00000 libbre di seta II lino delle terre singolarmente nel Cremonese si calcola che per il solo commercio estero se ne trasportano circa i4oooo rubi. L'articolo della seta  il massimo per il Milanese , ed  un errore ben grande quello che alcuni asseriscono che il principale ramo del nostro commer- cio utile sieno i grani (a) . Finalmente convien dare un'occhiata al terzo fondamento , il quale presenta fa) Questi falli nascono da uno spaglio esattamente l'ilio sui libri de' daziati e dalla bo- ti'iicaziofie della seta raccolH un aspetto di maggiore solidit degli al- tri, e par conseguenza pu conciliarsi qualche particolar attenzione . Yieno esso Appoggiato su d'un fat- tp , al quale per dassi u' arbitraria va- lutazione . 11 latto  che vi. siano neUo Stato di Milano attualmente di terreni coltivati : Aratorio stabile . . . Pert. 4^7988 Aratorio a vicenda ... 22,j2aS Risar .  .  86 1 1 99 Sommano Pert- 55664 * 5 La valutazione arbitraria  il tassare r aratorio stabile a quattro st*ja di pri- mo grano dedotta la semente; l'aratorio a vicenda a stara sei ; la risar a stara sei . Per cominciare dal fatto ;  cosa degna d' osservazione , come ie stime e misure del Censimento , d' onde tai no- tizie sono tratte , diano la descrizione esatta dello stato della coltivazione delle terre del 17*0, e 721. 11 voler calco- lare Io stato odierno su d' una descri- zione , dopo di cui sono trascorsi pi di 4 anni , espone a p,ericolo di erro- o 2 2 SO re Tanto pi questo pericolo 'accre- sce, quanto l' industria degli agricoltori  pi attenta a preinovere la coltiva* rione di que1 generi , che giusta le mu- tazioni delle circostanza debbono ren- dere pi sicura ed ampia ricompensa della lor fatica . Da ci ne segue , che la vera qaan* tit dell'aratorio valutabile al d d . ggi per il commercio de' grani debb* essere realmente minore delle pertiche 55664  Fare suppongasi ad abbondai za , verificato quest' assunto , resta da verifi- carsi la tassazione che ad esso  stata fatta . Le varie osservazioni che sin qui si sono esposte . facendo r-gionevol- mente nascere della differenza sui con- teggi fatti in favore della volgare opi- nione relativamente ai grani, non trovai mezzo pi classico, e meno turbolento per indagare la verit . che quello di ricorrere all'istesso Ufficio de] Censi- mento per osservare da un punto medio delle stime di esso Ufficio qual fosse la tassazione verisimile da stabilirsi Presa per in prospetto la Crta generale dello Stato di Milano Mietente in esso (Jilcio , feci assegnare dagli Ut- i6t noili medesimi del Censimento diversi punti sparsi su tutta quella estensione , con avvertenza che quanto fosse possi- bile in o^ni diversa parte della Provin- cia s ne scegliesse qualche pezzo , e cosi fecesi la scelto di trcntunove Co- nni ni , i quali debbono verisimilinente per la loro posizione essere e nelle parti pi fertili , e nelle pi sterili dello Stato , per modo che dall' adequato di essi ne risulti un verisimile adequato della tassazione universale da farsi ai nostri terreni (a) . o 3 fa.) Se avessi ricercato lo spaglio di tutte le Comunit fieli Stato le quali sono pi di I^oo l'operazione sarebbe stata lvmghissma e fa;icosi6 per il terzo aggiuntevi de' terreni a vi cenda a st. 5 per pertica moggia . . , . . IV. 42^>49 9 3 Totale moggia N. aGjiiaaa  7 Si deducono per ve- rosimile consumo interno 1 c^ie C1 dimostra la uscita di some 543^ pi di quello che  rr ai- strato rittll' UlTicio dello tratte , che ap- punta importa il contrabbando tatto ali* Ufficio del ai per cento: aggiungasi il contrabbando che sar ulteriormente Stato tatto all'impresa della mercanzia, e non sar in verisimile il fissare la somma de'due coutrabbaadi al 2 per cento . Le conseguenze di questo prospetta sono le seguenti : Prima: il contrabbando che tassi de* grani all' Ufficio delle tratte  il a5 per cento . Seconda : il commercio de' nostri grani viene ad essere circa la d^cinf ottava parte del commercio de1 Grani della Polonia comunicante con Diinzica , la qnal parie della Polonia contiene ap- punto 18 volte lo Suto di Milano. Terza : il commercio de' nostri grac- ili risulta circa la nona parte del com- mercio de" grani dell' Inghilterra . Queste tre conseguenze come assai pi naturali e verisituii di quelle che emanane dai priacipj su i quali s'ap-. xGC* poggia la opinion volgare , determinano bastantemente la ragione in favore di quella som -ita , a stabilir la quale coli- mano i registri del Magistrato ; il para- gone fra essi registri , e i libri della Mercanzia; l'adequato delie stime del Censimento , e tutte le regole di pro- porzione cogli Stali pi fertili d grano d' Europa . Fondatamente adunque asse- risco che T uscita annua de1 nostri gruni si  di moggia 1 75^2 \euiiamo quanta sia la quantit del tributo che attnal- inente pagasi dal commercio de' grani t il che  il secondo dato necessario ad aversi per bilanciare il nuovo sistema , e assicurare la rendita del Regio Erario. Riceve la Tesoreria generale ogn' anno .... lir. ^>3o$ Riceve la C incelleria Segreta  8 1 40 Riceve la Cassa del Magi strato Camerale . .  29539 Riceve la Cancelleria delle Biade . . . .  ii4o Ricevono gli Ufficiali spar- si nello Steto ....  585o8 lir. 1690.55 i6'j La soifcma totale adunque da ripar- tirsi sopra le moggia 1^222 d' uscita si  di lire .096.^3 , le quali col tempo potrebbero alleggerirsi in benefizio del pubblico; poich a misura che verranuo a mancare gli Ufficiali di Annona po- trebbe l'arsi il risparmio sino alia som- ma di 5c)ooo lire, cio circa quatt:o mila Gigliati , che si potrebbero iar ca- dere a sollevamento di questo ramo di commercio colla diminuzione del tri- buto . Ritengasi fermo il prezzo delle li- mitazioni ; cio ai Gngioni some 49^J adequato d' un novennio , le quali pa- gano soldi io per ogni diritto della Te- soreria e Cassa d'emolumenti e un soldo per la spunta, in tutto soldi n la so- ma . Agli Svizzeri some per adequato j.\-]G\. a soldi 18 la soma. Agli 2?taUi Sardi some i^coo a soldi i3 d. 7 1/2 tome importa il trattato del f]bi all' articolo 4 saranno : n 5 rjr. 2 * - ,63  e g c  ' a n - 2.  i  s 5 ? - ere w 5 - 2 5*"  a- 3 21  3 p , OB O a N  a   PS f3 - " * c 1- 3 Bj *"  r a a o &. e- 1 W " (^tr!) 2. Ci. o w a- c -  n  Ora CO V -e C/3 2. 2.* S I o 8 O E- o o a. 1^ Li M 1  e Ci CC w> Crt 05 K> Gg torna che esterna da tutti gl'intoppi che presentemente aggravano il coltivatore. ]N credo io clic il tributo di lir. t. 5 3 per moggio d'uscita possa dirsi ec- cessivo. Il valore de'grani per adequato presi in ruotate si  di lir. 19 il moggio: s.rehbe adunque questo tributo circa il ti ijh per cento del valore del grano e non pi . Che diremo poi rispetto ai pre'zzi correnti ? ISe' due anni scorsi fu il frumento sito a lir. 38, e pi il mog- gio ; presentemente corre a lir 24 , ed a quest' ultimo prezzo sarebbe il tributo poco pi del 5 1/4 per cento. Osservisi che nel Ti aitalo fra l'Imperatrice Regi- na, e S. M. ii He di Sardegna all'Arti- colo 4 $ 7 si stabilisce il pagamento al riso che esca dalle Provincie smembra- te , a lir. 1 e scl Miglio . : . . al mog.  11 iq Cremo Turco . . al mog.  i3 9 Commercio le grani P IL p tali sono i prezzi del Mercato del Bro- | letto di Milano . Se convenga tener promiscuo paga- mento , indistintamente ad ogni grano, ovvero proporzionarlo in rrfgione . V  .). Economia pubblica . Com or i-a lihe~a . Unico freno del. mo- nopolio P. 11. pag. 5.f e seg. 1) "Dicerie sparse nel nostro Paese per in- timorire, e allontanare gli animi della libava del Commercio de grani P. II. pag. 129 e seg, l19 E Economia pubblica . Suo iine , promuo- vere r industria conducente alla feli- cit P. 1. pag. 16 Suo principio mo- tore P. 1. pag 17 e seg Come si di- riga P. 1 pag 3a e seg. Deve cercare la massima riproduzione col minimo travaglio P. 1 paj. i\v e seg, Divide gli uomini in tre classi , riproduttori , mediatori , e consumatori P. I. pag. 42 Oggetti che debbono occupare un buon Ministro relativi all' economia pubblica P. I pag. ^9 Lo slogo del superfluo  il solo garante del ne- cessario P. I. pag. 5x. Felicit pubblica mal conosciuta da' Giu- risperiti P i. pag 65 e seg. Filugello . Quanto se ne raccolga nello Stato di Milano P. II. pag. 125 e seg. Penuria lo Stato daach se n'  proi- bita 1' esportazione pag. ivi . Formaggi . Dilatazione del raccolto de' formaggi nel Milanese P. II pag 2 e seg. Calcolo dell' utile che porta lu coltivazione de formaggi nel Milanese i8p P. II. pag. 25 e aeg Qualsia il totale \ prodotto de nostri formaci P. II pag 12V Francia . Com* sotto Enrico IV. avesse adottata la libert del commercio He' Grani pag. 39. Nel i-j6~$ si rese libera Y interna circolazione de' grani , e nel 1764 si rese libera anche l'esporta- zione P. I pag 83. Dispareri che vi furono fra i Parlamenti intorno alla libert del commercio de' grani P. I. psg. 88. Autori che hanno scritto sul commercio de' grani in questi ni timi ;:nni P. I. paflf. (ji e seg. Rappresen- tanza del Parlamento del Delfmato al He del 12 Luglio njfiBpag. ivi e seg. Rappresentanza del Parlamento sud- detto del 26 Aprile 17% P. I. pag. p4 e 8eS k' editto del Ile per la li- bert fu contrariato nella esecuzione P. I. pag. 96 e seg. Annua riprodu- zione di quel Pegno P. II. pag. i44- Sua esieusioue pag. ivi . Giurisperiti qua! sia il loro spirito, d'on- de nato nelle materie pubbliche P. I pag. 62 e seg. Gra- i8i ranl sono soggetti alle leggi universali di tutte le altre merci, e siccoma deile altre merci la libert del commercio non produco carestia , cos'i meno da grani P. 1. pag. 26 II problema sulla libert dei grani si riduce a conser- va? il necessario, esitare il superfluo, incoraggiar la riproduzione P. 1. j 38. Erano in Roma non solamente nn oggetto d' abbondanza , ma di sedu- zione P. I. pag. 58. Se ne rese libero il commercio nella Francia nel secolo passato P. I. pag. 60. Cos nell'In- ghilterra P. I. pag. 69. L'antica tradi- zione del Milanese faceva ascendere 1' annuo raccolto al triplo del bisogno P. II. pag. 20. La coltura si va sce- mando nel Milanese P. II. pag. 21. Qua! sia il mezzo per conoscere l'an- nua riproduzione di grani in uno Staio P. II. i pag. 69. Come taluni hanno esagerato il raccolto de' nostri grani P. II pag, 142. Qual ne sia 1' esporr tazione che per adequato ne risulta dall' Ufficio delle Tratte pag ivi. Quan- to ne consumi all' anno una popola- zione ivi e seg. Quanto taluni a tort0 risguardino i grani come la prineipa| ricchezza del Milanese P. II. pag, i\&, Commercio de grani P. IL p Con quale cautela si debba i% ogni pscse procedere a una riforma sulla leggo annonaria P. IL pag. i5i e seg- Inghiherra . Vedi Atto di Gratifica zio ne ; Cagione delle inquietudini negli ulti- mi anni passati per la temuta care- stia , la quale mai a proposito si vuol attribu.re alla libert P. 1 pag- 58, Suo commercio de' grani P. 11. pag. t48 e seg. Introduzione nelle Citt . La legge cke obbliga i Possessori ad introdurre parte del lor grano in Citt  inutile arbitraria, e perniciosa P. 1. pag. 56 e seg. L >eggi. Quando non sono osservate e una prova che non sono opportune P. I. pag 12 e seg Le leggi vincolanti non impediscono Y uscita dallo Stato P. I. pag. 27. Producono l' effetto di far nascere i monopolisti P. I. pag. 28. Tendono ad isterilire P. I. pag. 2$. Fanno nascere l'arbitrio P. 1 pag. 3o. Bevono lasciare all'arbitrio meno ehe i83 I si puu pag. ivi . Romane sai commer- j ci de'Grani pag 55. e seg. Inoppor- tunamente adattate alle odierne Na- I zioni P. I. pag. 60 e seg. Sontuarie funeste all' industria P. I pag. ^5 e seg. Soverchianente rigide non sono rimediate che da un disordine P. II. pag 9 Leggi annonarie del Milanese unicamente non producono carestia perch non sono mantenute in vigore P li. pag- ?.o e seg. Legislatore . Va indirettamente al suo fine P. IL. pag. 8. e seg. Modifica le ca- gioni , *on comanda gli effetti P I. pag. io Invita e guida , non foiza , o prescrive P. 11. pag. 1. Sua grand* arte si  di far coincidere 1' interesse privato col pubblico P. 1. pag. 1 2. In quante parti si divida la di lui scieii? P. I. pag. 16. Non pensi m?i a for- mare un piccol Mondo della sua Na- zione P. 5o. Non deve aspettare i mali per rattopparli f per bens orga- nizzar un sistema , per allontanarli pi che si pu P. II. pag. 108. Libert . E' interesse del Sovrano di la- sciarla quanto pi si pu a' sudditi P. I. pag. io. Nel parlare e scrivere sugli oggetti pubblici utilissima 1*. I. P 2 3b4 p^g. 16. Pstl commercio congusglia i prezzi e li riduce a nv'glior mercato pag. 2D e seg. Divide l'utile sul r gior numeri:,, e limila 'tueitc': alneio superflap P. I. pg. 3a Utile auoba ai paesi sterili tf. 1. pag 3i , 35 e 122. l\?.l commercio de' giani quali abbia effetti prodotto in Francia sotto Enrico IV. P. I. pag 67 e seg. Quali nell'Inghilterra P. 1. pag. 69 e seg. Quali effetti produca P 11. pag 11$. Esampj domestici nell'olio, e nel vino a fiorite del burro P. 11. pag i-*2 e t.'g. La libert produce 1' abbondanza P. 1. pag 49 Chi la difende incontra la sorte di quei che sostennero 1' ino- culazione P. II. pag. i3t e seg. Li- bert comandala nel Dispaccio deli* Irnyerauice Pdaria Teresa P. 11 pag. i3b' e seg Su guai fondamenti sia da taluni asserito ebe le leggi attuali del Milanese lasciano la liber  del com- mercio de' grani P II. pag. i4 e seg. La libert di trasportare non signiiii a la possibili; di trasportare P li pag. a(>. INon si pu accordare nel Mila- nese la libi ita del commercio interno tie' grani senza accordare anche quella del commercio estero pag. ivi . La li- i85 berta del commercio conviene anche ai paesi piccoli P li. pag 83 e seg. Conguaglia i prezzi al giusto livella P 11. pag x 54 e se 'Amite del prezzo alla libert dell'uscita, pregiudica all' Inghilterra P. 1 pag 89, e lo pregiudicher dovunque P. II. p. 61 e seg. Posto in Francia coli' ditto di Luglio 1764 P. 1. p- 89. Limitazioni cosa siano , e a che soggette P 1. p. 32. Quante se ne dia dal Mi* lanese ai Grigini , agli Svizzeri, e agli Stati Sardi P. II. p. 590. ino Qual sia 1' annua esportazione che se ne fa dal Milanese P. II. p. i4 M Magazzeni. Sarebbe un oggetto pernicio- so quello di formarli nello Stato per assicurare l'interna abbondanza P. II. p. 4j e seg. Mercanti di grano . Non si pu limitarne il numero , anzi deve procurarsene la moltiplicazione P. II. p. 54- Milano. Quali siano le attuali leggi dell' Annosa P. II. p 5. e seg Dispendio he cagiona al pubblico l'attuale si- stema P. II. 11 e seg. In quanti di- p stretti si consideri diviso in quanto ali' Annona P. II. p 12 e i5 listensioise del Milanese P il. p. 74 e .bt> Tirreni incolti die vi si contano P 11 p j5. e si-g. Indebitamente si asserisce che lo Stato di Milano sia circondato da vicini penurii si di grano P. 11. p 83 e seg. IJa qut-lche analogia coi Deifinato P. il p. q Cesa pesi un moggio di gra- ng P. II. p. 1 ;). Essgerazione dtlT an- iq prodotto dille terre P. Il p. 141 e seg. Con quale contratto il propr e- tatio delle terre le consegui ai colti- vatore P, li. p. i4 e Etg. e fr Calcolo del prc dotto in grani delle terre reti- iicato P 11. p l\(j e seg Annua espor- tazione de' grani dal Milanese P. ii. p. at e seg. Quanto pagbi di tributo nelF odierno sistema il commercio de' grani P li. p. i56. Prezzi adequati distinti dei grsni del Milanese P. II p.  5y. e seg. Mistero de tempi passati copriva tutte le atu ministrano ni pubbliche P. 1. p i3. Moneta mai definita fin era . sua vera de- finizione P I. p. 4 ki livella come ogni altra merce fra gli Stati commercianti P. 1. p. 33. e seg. fton pu proibirsene l'uscita dallo Sisto P. 1 p. 41;- ^on pu ku arbitrariamente tassarsi p. ivi e seg. ,8' Monopolisti eonae nascono dai vincoli V. II. p. 3o e i34 e set. ftum possono esservi ne' paesi Lben P 11 p. 3* i'3y e setj. lnn: !ziso il prezzo nelle merci P. I p. 35. ltun'mente si proscr'vo- no mentre sussistono le leggi vinco- lami P. t. p. 39 Come nascano P. II. j>. ut e seg. Il JSTotifcuzione de* grani sempre perniciose, e da abolirsi P il p. 64 e seg Qua! sia il raccolto de' grani del Milanese , che appare dada notificazione P. II. p. 68. O Olio quanto ne riceve il Milanese da' paesi esteri P II p. la. Opinione . Per quai gradi ceda alla ve* rit P. 1. p. 85. Paralogismo cae si fa da molti peren superficialmente hanno esaminato il problema della libert del commerci V. 11. p. ii4 e seg. i*8 Polonia ebbe sempre libera la contrat- tazione de1 graai P. I. p. 67. Qual sia il suo commercio de' {rasi P. II. p. i44 e seg. Pop/azione con leggi dirette pn si pr* xtaove , e si promuove colle indirette P. I. p. 11 e seg Cerne naturalmente il genere umano tenda a moltiplicare P. 11 p. $j. Fallacia d'alcuni metodi , de5 craali si vuol servire taluno di calcolar la popolazione P. Il p. ^9 e seg. Popo- lazione he risulta dalle notificazioni del Censo per la campagna del Mila- nese P il. p 4- Popolazione delle cit- t del Milanese notificata al Censo nel J797. P li. p 4"* e seg. Divisione vero- simile degli abitanti del Milanese fra gli agiati e i poveri P. IL. p 96 e seg. Popolo. Sempre pi falso quanto meno  libero P 1 p. 10 Sempre pi docile e grato , quanto pi illuminato P. I p. 14 Quanto indebitamente si pretenda di far la causa del minuto popolb , difendendo i vincoli sul commercio de' grani P. II. p. q5 e seg drammatica . V Leggi sontuarie . Prati irrigatorj danme che fanno al terri- torio Milanese P. 1. p. in. e seg. Quante indebitamemte taluni gli abbino qua-. . l89 liticati per u beneficio dell agricoltura p. 35. e sag. Cosa siano p. 36 e sei,'. Si pu temere che sempre pi si di- latino p 36 Prezza d. Ile cose Come si miseri p. iB. e Si g. Quando vanno sa!fu':ii;;3:(*nte i prezzi  un efi  Ielle leggi vincolanti p. 25 I vincoli accrscono i prezzi p. 3-. Kon si pu tassarlo rnsi ad alcuna merce senza inconveniente p. /p e se^. La libert ribass  prezzi dell' Inghilterra p. 70. e seg. e p 02 De' grani nei Mercato ci. Milano negli an- ni passai' p. 104 Siraotdindrj che si sn tatti in Mi la*o del trumen<o in occasione delle penurie ne' secoli pas- sati p. (20. Privativi . ossia Privilegi esclusivi sempre funesti all'industria p 49- Pp vetta di accordare la i berta delle ir- '.te , per una porzine li quel che ciascuno introdurr r-elle cita p .00*. Che credesi  ottimo per la nuova legislazione -'Annona p '4 Progressi che In fatti in questo secolo F arte di governare p. i^j. I<)0 R Ricchezza d' una nazione s  V eccesso della riproduzione annua sull' annuo onsumo p. 4r- Riso guanto ne esc dal Milanese p. i5. Seta qual sia 1' annua riproduzione clie se ne fa nel Milanese p. . 4 Spagna sino nel .7.8. conosceva l'utile delia Lberf del commercio de' grani p. 74 e stg. Si rese Jibera la con- trattazione del grano <.ol solo lisnte del prezzo nel .^60. p. ^5. Suo trat- tano di commercio colf Imperadore di M^rccco lia pregiudicato alla colnira de'grni Inglesi p. 87. e seg. CtKsa annualmente producano le Miniere d' America p. i4#. Toscana si rese 1 bera la ce-ntrattazione del grano nel -767. p. 117. Sin tanto che il prezzo comune non oltrepassi In- 1 \ il sacco p. . -j'. Trasporto . Le spese del trasporto irope- discono die le merci voluminose , co- me il grano si commercino al di l d'una cena distanza p 119. Trattati. Nessun trattato vi  che impe- disca nello Stato i Milano di stabilir U libert del commercio de' grani p. 107. Tratte de grani . Nel sistema attuale ogui concessione  un rischio p. i2D. Tributo . Esenzione del tributo , mezzo da promuovere 1' agricoltura , e la po- polazione p. 12. e i3. Quai siano le massime per ben distribuirlo p. i3. e e seg. Quali efletti produca nel com- mercio p. a6. U Ufficiali dell' Annona non dovrebbero avere discapito nel nuovo piano p. i/^t. Vincoli insteriliscono , e conducono alla carestia p. 3 5. Loro effetto si  di alzare il prezzo p. 'j. e seg., e 123. e seg. Sono la scuola sofstica dell' Economia pubblica pag- 37. Come siati nati ne' passati tempi pag. 35. Effetti che producono di procurar la carestia pag 52. e seg p. 108. e seg. pag. pag 28. e seg. psg. i36. fino . 11 Milanese ne manca per il suo *y2 consumo , e lo ricve dagli esteri p. ii6. Universit delle Aiti e Mestieri pregiudi- cano all' abbondar za p. 24 Uova capo di commercio utile del Mi- lanese diminuito daccL se a  proi- bita 1' esportazione , e se n' e accre- sciuto contemporaneamente il prezzo interno p. 12;. Fine d&W Ti" J University of Toronto Library DO NOT REMOVE THE CARD FROM THIS POCKET Acme Library Card Pocket Under Pat. "Ref. Index File" Made by LIBRARY BUREAU. Sua Eccellenza il conte Pietro Verri Visconti di Saliceto. Keywords: diritto bellico. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Saliceto – “Grice e Visconti: il piacere” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #visconti. Saliceto.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sallustio: la ragione conversazionale EMPEDOCLEA – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He assembles a collection of materials by and about Empedocle di Girgenti. Empedoclea.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sallustio: la ragione conversazionale a Roma – la storia della filosofia romana come fonte d’essempli morali – chè cosa fa un saggio ‘romano’? -- filosofia italiana – Luigi Speranza. (Amiterno). Filosofo italiano. Amiterno, L’Aquila, Abruzzo. Storico. Può anche darsi che adere la setta dei crotonesi. Tribuno della plebe e senatore, espulso dal senato per motivi morali, e probabilmente perchè fautore di GIULIO Cesare, che lo nomina questore, pretore nella guerra africana e pro-console della Numidia. Dopo la morte di GIULIO Cesare abbandona la vita pubblica per dedicarsi completamente agli studi -- La congiura di Catilina, La guerra giugurtina, Le Storie. A lui venne rivolta l’accusa di essere stato complice dei sacrilegi di NIGIDIO (si veda) Figulo. Certamente lui spesso insiste nei suoi saggi sulla opposizione di anima e corpo. Parla di un nume divino che veglia sulla condotta dei mortali e accenna a sanzioni nell’oltretomba. È quindi probabile che allo storico debba essere identificato quel Sallustio che scrive un "Empedoclea" per esporre le dottrine del filosofo da Girgenti, tutte colorate di Pitagorismo. Cicero's letter to his brother Quintus is best known for containing the sole explicit contemporary reference to Lucretius's “De rerum natura.” But it is also notable as the source of the only extant reference of any kind to another presumably philosophical didactic poem, Sallustius's “Empedoclea” (Q. fr. 2.10(9).3= SB 14): “Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis. sed, cum ueneris. uirum te putabo, si Sallusti “Empedoclea” legeris; hominem non putabo.” “Lucretius' poems are just as you write: they show many flashes of inspiration, but many of skill too. But more of that when you come. I shall think you a man, if you read Sallustius' Empedoclea; I shan't think you a human being.” In addition to the vexed but separate question as to whether the Sallustius in question is to be identified with the historian, with Cicero's friend Cn. Sallustius, or some other figure bearing that nomen, the meaning of the barbed comment on his poem has been almost as fiercely debated.The antithesis between “uir” and “homo” has been thought problematic, a difficulty formulated with characteristic brusqueness by Housman. “If one is not a human being, one cannot be a stout-hearted man nor a man of any sort; one is either above or below humanity, a god or a beast; and “uir” is not Latin for a stout-hearted god nor for a stout-hearted beast.” Housman's proposal of a lacuna following “uirum te putabo”, where a different protasis corresponding to that apodosis has dropped out, earned a place in Bailey's apparatus and a 'fort. rect.' in Watt's, but has otherwise found little favour. Most critics have been more or less satisfied that the strict illogicality should not stand in the way of the joke, though several share Housman's related feeling that “homo” would stand in more natural antithesis with god or beast. It is worth stressing that Housman is, on the question of Latinity at least, quite right that one cannot be a “uir” if one is not a “homo” (though the reverse is of course quite possible). Even the vast resources provided by concordances, the TLL, and now searchable electronic databases such as the PHI CD-Rom or the Bibliotheca Teubneriana Latina merely corroborate the accuracy of his Latinity. The juxtaposition of “uir” and “homo” is indeed a common one, and particularly so in Cicero. In many instances, the same person is (usually) praised using both nouns, each qualified with an adjective which in some cases may partially reflect the distinction between qualities appropriate to a Roman male and the more humane attributes of a Mensch (e.g. hominem honestissimum, uirum fortissimum, Font. 41; forti uiro et sapienti homini, Leg. Man.), but in others (the majority) the contrast is often so hard to draw that the words feel almost like synonymous doublets (e.g. consulari homini clarissimo uiro, Verr.). When the two words are set in antithesis, it is always clear, and indeed the point of the antithesis or a fortiori argument generally depends on the fact, that to be a “homo” is a lesser attainment than to be a “uir.” Thus the gold ring which Verres gave to a scriba proved not that the latter was a brave man, but merely that he was a rich fellow (“neque ... uirum fortem, sed hominem locupletem esse declarat, Verr.), the diminution of a proconsul's province should be guarded against not only in the case of a man of the highest standing, but even in that of a middling fellow (“neque solum summo in uiro, sed etiam mediocri in homine <ne> accidat prouidendum, Prov. cons.), and Lucius' and Patron's proto-Hobbesian philosophy describes not a good man but a cunning fellow (“se de callido homine loqui, non de bono uiro -- Att. 7.2.4 = SB 125). Taking the opposite trajectory, from mere “homo” up to “uir,” Cicero often self-consciously corrects himself, promoting his subject from the former to the latter category, as with Cato at Brut. 293 (magnum mercule hominem uel potius summum et singularem uirum) or Epicurus at Tusc.  (homo minime malus uel potius uir opti-mus). From this it is at least implicit that to be a homo is a necessary but not sufficient condition for being a uir, but that uiri are a subset of homines is absolutely clear when Cicero writes of injustices which would seem intolerable not only to a good man but more broadly to a free human being (ut non modo uiro bono, uerum omnino homini lib-ero ideatur non fuisse toleranda. Inv. rhet. 2.84).? Perhaps the closest Cicero comes to a clear distinction is in his consolatio to the exiled Sittius, where he urges him to remember that he is both things (et hominem te et uirum esse, Fam. 5.17.3 = SB 23), a homo because he is subject to the vicissitudes of all humanity, a uir because he ought to bear those vicissitudes with fortitude. Here there is no fusion or explicit overlapping of the categories; each has its specific and discrete associations. However, neither is there anything here to contradict the evidence of all the other instances or to suggest that even Sittius could be a uir but not a homo. Even with the benefit of searchable databases, it can be seen that Housman's judgement on Latinity and logic is sound. It may be, however, that the confounding of logic (and perhaps of Latinity) is the essence of humour, and so we must ask ourselves whether Cicero's transmitted judgement on Sallustius, since it isn't quite Latin, is actually funny. Even those who defend the paradosis seem vaguely apologetic about the joke which they are determined to preserve. Shackleton Bailey, in refuting Housman, writes that 'Cicero says these two things in the same breath ... because he thought it mildly amusing', and in his shorter commentary remarks, almost shame-facedly, that 'the juxtaposition is mildly funny' Of course, whether the reason lies in cultural contingency or in transhistorical unfunniness, no one who has read any quantity of Ciceronian 'jokes' would consider a failure to provoke uproarious laughter as grounds for emendation. Yet the problem with this joke is not so much that it is at best 'mildly amusing', but rather that it seems oddly arbitrary and lacking the pointedness or relevance to its context which we might expect in even the feeblest witticism. '° It is certainly possible for humour to be generated from the antithesis of uir and homo. At Terence, Hecyra 523-4, Phidippus calls to his wife Myrrina, and when she responds with an interrogative mihine, mi uir? ('Is it me you're talking to, my husband?'), he replies in turn uir ego tuos sim? tu uirum me aut hominem deputas adeo esse? ('Is it your husband I am? Do you consider me to be a husband/man or even a human being?') This is, if anything, an even clearer proof that uiri are a subset of homines, as the adeo shows, and it is on this normative relationship of the two words (in contrast to the anomalous one at Q. fr. 2.10(9).3) that the joke partly depends: if Myrrina does not consider Phidippus a homo, then a fortiori she cannot consider him a uir. However, the reference to this standard notion that one must be a homo to be a uir would have no particular point were it not wittily combined with the context-specific wordplay on uir as 'husband' (as Myrrina uses it) and 'man' ('Man? I'm not even treated like a human being!')"' To turn from the humorous potential of the uir/homo antithesis to Cicero's comedic practice elsewhere in his correspondence, it can be seen that he does make literary jokes which, however amusing or otherwise we might subjectively find them, are unquestionably pointed and tailored to the specifics of their context and subject-matter. One example is his witty and context-specific use of the poeta auctor conceit to depict Tigellius as being actually 'sold at auction' (addictum) by Calvus' mimetic lampoon, in the act of doing which he picks up and even elaborates Calvus' own conceit 'of writing a poem in the form of an auction announcement ... in which he himself took the part of the auctioneer and offered Tigellius for sale'. 2 Equally witty and pointed, and with an added touch of doctrina, is his play on the double status of Quintus' Erigona as bothtragedy and woman, mock-lamenting that she was lost on the road through Gaul despite owning a fine dog, a learned allusion to the faithful Mera who led her mistress to Icarius' body, as well as a jibe at the ineffectual Oppius. 3 The letters are also full of witty and pointed philosophical jokes and allusions, as Miriam Griffin has shown. 14 To cite but one example, Griffin argues that Cicero's ironic concern to come to see Trebatius 'before [he] flows completely from [his] mind' (antequam plane ex animo tuo effluo) subtly alludes to the Epicurean doctrine of sense-perception by means of eisha. 5 In our passage, on the other hand, we might wonder why the (dubious) antithesis of “uir” and “homo” even arises when discussing Sallustius' “Empedoclea.” There is no obvious reason why such a poem, whether as a poem or as an instantiation of Empedoclean philosophy, would suggest a play on the antithesis of 'man' and "human', let alone one which is unparalleled in extant Latin, where, as has been shown, one cannot be a “uir” without also being a “homo.” If an emendation could provide an antithesis which preserved and perhaps even enhanced the humour, but removed Housman's illogicality, and had a clear connection with the topic under discussion, it would have a good deal to recommend it. We have already noted how one of the more obvious antitheses of homo is 'god'. Among the most famous, or notorious, aspects of Empedocles's doctrine was his claim to be a god and no longer a mortal. The claim is most clearly preserved in the proem to the Katharmoi (DK B112.4-6): ¿ya et juv BEos duBpoTos, ouKéTI OUnTóS MOREQUAL MET TOOI TETILÉVOS, GTEP ¿OLKA, TOIVIOIS TE TEPIOTETTOS OTÉPEGiV TE DaREiOIS. “I come to you as an immortal god, no longer a mortal, honoured among all, as is fitting, garlanded with fillets and festive garlands”. That this doctrine was familiar in Rome is clear from Horace's explicit comment and partial translation at the climax of the “Ars Poetica” -- while Empedocles wanted to be considered an immortal god', deus immortalis haberi dum cupit Empedocles) and Lucretius's all-but-explicit reference to the poems of Empedocles "divine breast' (diuini pectoris) so that he 'seemed created from scarcely human stock' (“uix humana ideatur stirpe creates”). Noting this connection, Murley suggests 'a jest at the expense of Empedocles as well as Sallust and unpacks the implications of “homo” as ""But if, in the few days before your return, you shall have read Sallust's “Empedoclea”, I shall regard you as a hero – but, like Empedocles, *not* a human being.” Murley's interpretation is attractive, but the secondary, implicit antithesis between 'human' and 'god' sits uneasily with the explicit and problematic antithesis between 'human' and 'man'. The most economical solution would be to remove the latter antithesis and the make the former explicit. One solution which would satisfy all the requirements which we have set so far would be to emend the paradosis irum to a word meaning god, most probably either “deum” or “dium.” The juxtaposition of forms of “deus” and “homo” is extremely common in Latin, and occurs eighteen times in Cicero, albeit more frequently in the plural. Of course, for a double entendre to work, there must be a primary as well as a secondary meaning. The playful allusion to Empedocleian doctrine would be clear. But there must still be an independently comprehensible way in which Marcus can call Quintus a 'god', even if the allusion grants him a degree of licence to stretch common usage a little. Curiously, “dius” does not seem to have been used metaphorically of mortals with superhuman qualities, despite, or perhaps because of, its specific connotations of a deified mortal or an intermediate being between god and mortal, and of course its later use as the designation par excellence of apotheosised principes. There is far more evidence for the use of “deus” in this way, 'de homine ... virtute aliqua praedito', including numerous examples in Cicero's speeches, letters, rhetorical and philosophical works. Of particular relevance to our passage is the assertion by Cicero's Crassus that the godlike orator is one who does not merely use correct Latin but speaks ornate (De or.). “Si est aliter, irrident, neque eum oratorem tantummodo sed hominem non putant; quem deum, ut ita dicam, inter homines putant?” -- But if it is otherwise [than that he speaks correct Latin], they laugh at him and think him not only not an orator but not even a human being; who do they think, so to speak, a god among mortals?') Even with the qualifying ut ita dicam, it is clear from this passage (and others where there is no such qualification) that Cicero could use deus to designate a human who excels in some field or other, and did so on occasion in antithesis with homo.? As suggested above, the allusion to Empedocles (and to Sallustius) and the humorous context would help to justify a slight extension of the usage whereby the act of reading a poem ironically reflects superhuman qualities, whether of endurance or discernment. It might even be possible that a rare use of “diuus” in this metaphorical sense could be justified by a verbal echo of S., but Ciceronian and other Republican usage would tend to point towards “deus”. As for how such a corruption could have come about, a misreading of “dium” as “uirum” might seem easier than that of “deum”, but forms of “d” and “u” are not normally alike, and the cause here is far more likely to be psychological. The form could have been assimilated to the nearby “hominem”, or we might see the metamorphosis of god into man as an instance of polar error, where a scribe writes the opposite of the word he is copying. This type of corruption is not uncommon in Ciceronian manuscripts. Cicero's plea at Rosc. Am. 12 that the presiding praetor Fannius 'avenge the misdeeds with all zeal' (ut quam acerrime maleficia indecetis) became, in Naples IV B 17, a paradoxical desire that no good deed should go unpunished., as the scribe wrote beneficia for maleficia. Likewise at Mur. 73, according to the copyist of Venice, Marc. lat., the public attributes Sulpicius laying of charges against Murena for having escorts and giving voters meals and spectacles, not to his excessive zeal (in tuam nimiam diligentiam) but to his lack thereof (neglegentiam). That a copyist could likewise write “uirum” for “deum” is entirely feasible. Alternatively, with either “deus” or “dius”, a devout Christian scribe might - consciously or unconsciously - have baulked at Cicero's apotheosis of his brother in such a context and - again consciously or unconsciously - emended the offence away. There remains the question of whether Cicero is alluding to Empedocles alone or to Sallustius poetic depiction of him. As noted above, Murley sees the joke as being 'at the expense of Empedocles as well as Sallust'. It is certainly possible that the play on god and man is an allusion directly back to the “Katharmoi”. Sedley has convincingly argued that the proem of Lucretius's De rerum natura not only imitates Empedocles's proem but is meant to be recognised as so doing, and thus assumes familiarity with the latter among late Republican litterati. Even Sedley, however (incidentally using the letter as his principal evidence), allows that such familiarity could come either through direct acquaintance or through Latin translations and imitations’s -- including S.. None of Cicero's allusions to Empedocles in the philosophical works are noticeably oblique or seem to assume much prior knowledge, though the reference of his Laelius to “a certain learned man of Agrigentum” (“Agrigentinum doctum quendam uirum”) could conceivably be taken as allusive as well as faux naif. In considering Cicero's allusive practice in the letters, we might compare the witty allusion to Quintus's Erigona which cannot possibly have referred directly to the text of a tragedy which Marcus never had the chance to read, and hence must look to the original myth (and possibly the wrong myth at that), perhaps as narrated in Eratosthenes' epyllion. However, in the case of the letter, where we are dealing not with a lost text but one with which both correspondents have some familiarity, it is surely more likely that Cicero is alluding not - or not only - to Empedocles directly, but to S.’s poetic rendering of his doctrines and perhaps even his poetry. If S.’s “Empedoclea” included a Latin version of DK B1 12.4-6, it is not improbable that it might have occurred as early in the poem as those lines are in the “Katharmoi,” and hence be recognizable even by those who had not read it in its entirety. It is also quite likely that “evntos” would have been translated as “homo” (though “mortalis” is an obvious alternative possibility) and theós by either deus or dius. In favour of diuus, we might note its strict distinction from deus as referring to a minor deity (equivalent to the Soiucv which Empedocles elsewhere claimed to be) or even more specifically to a deified mortal. On the other hand, the phrase deus immortalis is not only an obvious way to render “0eos außpotos,” and far easier to fit into hexameters than diuus immortalis, with its initial cretic in the nominative and tendency to elision or hiatus in other cases, but nicely corresponds to the existing common Latin unctura, “di immortalis”, of which incidentally Cicero is particularly fond. “deus immortalis” is also the phrase used at Ars P. to render “0eos äußpotos” and it is tempting to speculate that Horace too is alluding not only to Empedocles, but to S.’s Empedocleian poem. This, of course, can only be speculation in the absence of any other trace of the poem. But it is far from improbable. Corte arguez for the influence of S.’s “Empedoclea” on the speech of Pythagoras in Metamorphoses. If OVIDIO could integrate such allusions into his depiction of a different philosopher, albeit one with some doctrines in common, it is hardly less likely that ORAZIO could allude to S. when referring to Empedocles himself. If Horace is indeed alluding to S., this might constitute one further argument in favour of Cicero's writing deum when also alluding to the Empedoclea. However, the argument does not stand or fall on the issue of Horatian allusion. To sum up, one may suggest that Cicero wrote to Quintus deum (or possibly diuum) te putabo, si Sallusti Empedoclea legeris; hominem non putabo. In doing so, he would certainly have alluded – via implicature -- wittily to Empedocles's claim to be a god and no longer a mortal at DK B112.4-6, and probably to S.'s own Latin rendering of that claim. Emended thus, the antithesis does not require the special pleading which has been made for uir/ homo and it has specific and pointed relevance to the poem under discussion. It is a matter of taste, of course, but it might also be a little more than mildly amusing. The dominant quality of S.'s moral philosophy as articulated in the preface to the Bellum Catilinae is gloria: this preoccupies much of S.’s discussion, particularly in the opening two chapters of the monograph. The text begins with an emphatic statement of the goal of life, which according to S.  is to avoid passing through life without leaving a record of one's existence: omnis homines qui sese student praestare ceteris animalibus summa ope niti decet ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit: "for all men who set themselves to exceed the other animals, it is right to struggle with the highest effort, lest they pass through life in silence like beasts, whom nature has made supine and subject to their appetites. To this end, S. continues, man is comprised of a dual nature, body (held in common with the beasts) and mind (in common with the gods); we should make use of the resources of the mind (animus) to seek gloria. For", S. continues "the gloria of riches and beauty is variable and fragile; virtus is held to be splendid and lasting", nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeterna habetur. The separation between mind and body, according to S., is not absolute: each requires the assistance of the other, because the mind is required to plan actions, and the body to carry them out. Gaio Sallustio Crispo, Empedoclea. Sallustio.

 

Luigi Speranza --Grice e Salustio: la ragione conversazionale del divino e dei divini – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The author, according to some, of Salutio’s ‘On the gods and the world order,’ dedicated to Giuliano. Accademia. Flavio Salustio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Salustio: la ragione conversazionale del pitagorico che corresponde con Giuliano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Ricerca (latino: Saturninus Secundus Salustius o Salutius. Politico e filosofo romano di età imperiale appartenente ai neoplatonici. Epigrafe in latino trovata ad Amorgos e riproducente una lettera (CIL III, 459) dell'imperatore romano Giuliano a S. (Museo epigrafico di Atene) Amico dell'imperatore romano Giuliano, ne condivise il programma di restaurazione della religione romana, ma fu così equilibrato che fu prefetto del pretoriod'Oriente sotto quattro imperatori. Di una famiglia della Gallia, forse dell'Aquitania, è probabilmente un homo novus, in quanto i suoi due primi incarichi furono non senatoriali; S. è infatti, probabilmente sotto l'imperatore Costante, praeses provinciae Aquitanicae, magister memoriae, comes ordinis primi, proconsole d'Africa e comes ordinis primi intra consistorium et quaestor, come attesta l'iscrizione posta sotta la sua statua d'oro eretta nel Foro di Traiano. È inviato dall'imperatore Costanzo II, fratello del defunto Costante, al cugino e cesare d'Occidente Giuliano, come consigliere, quando era ormai già avanti con gli anni. Costanzo si insospettì dei successi di Giuliano e, attribuendoli a S., lo richiama, separandolo dal cesare di cui era divenuto amico.  Giuliano venne acclamato imperatore e l'anno successivo Costanzo II morì. Giuliano, giunto a Costantinopoli, nominò S.  prefetto del pretoriod'Oriente e presidente del tribunale che a Calcedonia processò i funzionari di Costanzo. Lascia Costantinopoli per raggiungere Giuliano ad Antiochia, da dove l'imperatore aveva intenzione di far partire la sua campagna sasanide. Qui Salustio sconsigliò a Giuliano di perseguitare i cristiani: per dargli un esempio, torturò un certo Teodoro per tutto un giorno, dimostrandogli che ne avrebbe fatto un martire. Da rifugio al vescovo di Aretusa, Marco, che aveva suscitato la rabbia di Giuliano e, pare, torturò dei pagani per vedere se la loro resistenza era comparabile a quella dei cristiani. Fu poi incaricato di preparare le forniture per l'esercito e la flotta; quando un ufficiale non riuscì a portare gli approvvigionamenti dovuti a Circesium lo fece giustiziare. Giuliano morì durante la campagna, in uno scontro con i Sasanidi (363), durante il quale anche Salustio rischiò la vita. In seguito fu scelto dai generali romani come successore del suo amico, ma declinò l'offerta, adducendo la cattiva salute e l'età avanzata, e al suo posto venne eletto il cristiano Gioviano. Sotto Gioviano rimase in carica come prefetto: il nuovo imperatore lo inviò a trattare con i Sasanidi.  Dopo la morte di Gioviano sostenne l'elezione di Valentiniano I. Quando Valentiniano cadde ammalato, S. nega che la malattia fosse stata provocata da un maleficio preparato dai sostenitori di Giuliano. Venne deposto dall'imperatore, che invitò chiunque a presentargli accuse contro Salustio, ma fu poi rimesso al suo posto dopo poco tempo.  Continua al suo posto sotto l'imperatore Valente, che il fratello Valentiniano associò all'impero; ha Callisto come assessor (assistente), e Eanzio. Venne sostituito da Nebridio, principalmente a causa dell'azione del patricius e suocero dell'imperatore Petronio, ma quando, sempre quell'anno, Nebridio venne catturato dall'usurpatore Procopio, S. venne re-integrato. Venne definitivamente congedato comunque a causa degli intrighi di Clearco. Riceve il titolo di patricius dopo il congedo. Giuliano e amico di S., cui dedica la Consolazione a sé stesso, scritta dopo la forzata separazione in Gallia da S., e il suo inno al Re Helios. S. legge e approva anche un'altra opera dell'imperatore, I Cesari. Libanio lo loda come funzionario incorruttibile, Imerio gli indirizza un'orazione in cui lo definiva vero reggitore dello stato, mentre persino i galilei ne lodavano l'equilibrio. S. è uno studioso di letteratura e FILOSOFIA, che addirittura trascura talvolta i propri uffici per coltivare i propri studi. A S. è attribuita il saggio “Περὶ θεῶν καὶ κόσμου”, una sorta di manuale di religione romana voluta dal Giuliano. La maggior parte delle idee esposte nel saggio non sono originali ma sono derivate da altri filosofi dell’accademia, come pure dalle orazioni di Giuliano, anche se S. sembra avere meno dimestichezza con Giamblico, considerando la sua demonologia meno sviluppata. In alcuni punti, tuttavia, l'autore sostiene alcune tesi inconsuete. Per esempio riguardo all'origine del male, S. afferma che nulla è male per sua natura, ma diviene male per le azioni degl’ uomini, o meglio, di alcuni uomini. Inoltre, il male non è commesso dagl’uomini per sé, ma perché si presenta falsamente sotto l'apparenza di un BENE – cf. H. P. GRICE, INCONTINENZA --, come ha già esposto in certa misura Socrate. Il male – ill-will, H. P. GRICE -- nasce sempre e solo a causa di una falsa valutazione del bene, in quanto, alla fine, è mancanza di esso. Ma come si spiega il male nel mondo se il divino e buono e compi ogni cosa? In primo luogo bisogna precisare che, se il divino e buono e compi ogni cosa, il male non ha una esistenza effettiva ma nasce per assenza di bene, come l'ombra non ha esistenza ma ha origine dall'assenza di luce. -- S. Gli dei e il mondo. Il suo nome è riportato come Saturnino Secondo nelle iscrizioni, Secondus Salutius in Ammiano Marcellino, Secondo in Libanio (Lettere), Filostorgio e Sozomeno, e infine Salutius, Salustius o Sallustius altrove. Sivan, Hagith, Ausonius of Bordeaux: Genesis of a Gallic Aristocracy, Routledge, Costanzo dubita della lealtà di Giuliano, in quanto ne uccide il padre Giulio Costanzo e il fratellastro Costanzo Gallo. Ammiano Marcellino. Lungo la strada, ad Ancira (moderna Ankara) fa incidere l'iscrizione CIL. Socrate Scolastico; Sozomeno, Ammiano Marcellino, che però lo chiama semplicemente "prefetto". Socrate Scolastico. Passio SS. Bonosii et Maximiliani, Libanio, Orazioni Ammiano Marcellino Ammiano Marcellino. Zosimo. Ammiano Marcellino; Zosimo riporta anche l'offerta della porpora al figlio di S., respinta sulla base della sua giovane età. Libanio, Orazioni, Imerio, Orazioni, Gregorio Nazianzeno, Orazioni, Azize, The Phoenician Solar Theology, Smith, Rowland, Julian's Gods: Religion and Philosophy in the Thought and Action of Julian the Apostate, Routledge, Ammiano Marcellino, Res gestae Filostorgio, Storia ecclesiastica Libanio, Lettere e Orazioni Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica Sozomeno, Storia ecclesiastica Zosimo, Storia nuova Fonti secondarie modifica Jones, Arnold Hugh Martin, John Robert Martindale, John Morris, The Prosopography of the Later Roman Empire, Cambridge University Press, Edizioni delle sue opere; Salustio, Sugli dèi e il mondo, cur. Giuseppe, Adelphi, Salustio, Gli Dei e il Mondo, cur. Vacanti, Il Leone Verde, S. neoplatonico, su Treccani, Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, S. neoplatonico, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Portale Antica Roma  Portale Biografie  Portale Filosofia Arinteo generale romano Nebridio generale romano Eusebio (praepositus sacri cubiculi) alto funzionario dell'Impero roman. Saturnino Secondo Salustio. Saluzio. Secondo Sallustio. Salustio. Keywords: il divino, i divini, l’ordine del mondo. Salustio.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Salutati: la ragione conversazionale d’Ercole al bivio – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Stignano). Filosofo italiano. Stignano, Reggio Calabria, Calabria. Vedo che ignori quanto sia dolce l'amor di patria. Se ciò fosse utile alla difesa e all'ampliamento della patria, non ti sembrerebbe un crimine penoso, nè un delitto scellerato, il fracassare con la scure il capo del proprio padre, o ammazzare i fratelli, o cavare con la spada dal grembo della moglie il figlio prematuro. Ad Andrea di Conte. Cancelliere di Firenze, figura culturale di riferimento dell'umanesimo a Firenze, in qualità di discepolo del BOCCACCIO e precettore di BRACCIOLINI  e BRUNI.  Considerato uno dei più importanti uomini di governo, S. come cancelliere della repubblica di Firenze, svolge un importantissimo ruolo diplomatico nel frenare le ambizioni del duca di Milano VISCONTI, intenzionato a creare uno stato comprendente l'Italia centro-settentrionale. Nel contesto di questa lotta elabora la sua dottrina della “libertas fiorentina”. Oltre all'impegno politico, svolge un importante ruolo nella diffusione dell'umanesimo petrarchesco (PETRARCA – si veda) e boccacciano, divenendone l'esponente più importante e il praeceptor della prima generazione degl’umanisti. Il suo lascito più importante presso i posteri è la codificazione civile dell'umanesimo, cioè l'uso dello spirito e dei valori dell'antichità classica all'interno dell'agone politico internazionale. Grazie a S. -- autore tra l'altro di un vastissimo epistolario e di trattati politici, filosofici e letterari -- difatti, il mito della florentina libertas, cioè di quel complesso di valori ispirati alla libertà promosso dall'ordinamento politico fiorentino, si rafforza enormemente sotto il suo cancellierato, ed e utilizzato quale strumento diplomatico per accrescere il prestigio di Firenze presso gl’altri stati d’Italia. Costretto, a pochi mesi dalla sua nascita, ad abbandonare il luogo natìo per raggiungere il padre Piero (detto dal Villani di buoni costumi e di prudenzia laudabile) a Bologna, ove il genitore serve il signore della città Pepoli, che a sua volta garantiva protezione alla famiglia. Nella città felsinea compe per volontà paterna -- ma più probabilmente di Pepoli che, morto Piero, prende sotto la sua protezione la famiglia e il giovane Coluccio in particolare --, studi, benché fosse maggiormente interessato alle discipline letterarie, e segue le lezioni di logica e di grammatica di Moglio. Lascia Bologna a causa anche della caduta di Pepoli e ritorna a Stignano, dove un rogito testimonia la sua presenza. Gl’anni successivi all'allontanamento da Bologna,  gli videro esercitare il mestiere di notaio in vari centri toscani -- specialmente in Valdinievole – coltivando lo studio dei classici, come dimostra la lettera a Gianfigliazzi, colto politico fiorentino col quale discute su Valerio Massimo e altri autori antichi. Nel frattempo, la sua carriera amministrativa lo spinse ad intraprendere anche la carriera politica: cancelliere del Comune di Todi prima, della Repubblica di Lucca poi, ed infine, dopo essere giunto a Firenze ed avervi esercitato per breve periodo l'incarico di scriba omnium scrutinorum, Cancelliere di quella città, tenne, pertanto, nelle sue mani la carica più importante della diplomazia della repubblica fiorentina, divenendo un personaggio di spicco della politica italiana. Costantemente rieletto e confermato con le stesse ingerenze, lo stesso stipendio e i soliti privilegi, lascia nell'ufficio un numero grande di minutari e registri, di lettere e istruzioni, per lo più di sua mano, e solo in parte de' suoi coadiutori, che non sembrano molti. Da questi libri e da altri della cancelleria, apparisce com'egli fosse costantemente in palazzo, presente a innumerevoli atti del comune, dei consigli, degli uffici più svariati. La frattura in seno alla chiesa cattolica spinse Urbano VI a firmare la pace coi fiorentini. Le relazioni tra santa sede all'epoca ad Avignone e la repubblica fiorentina degenerarono rapidamente a causa della volontà di Gregorio XI di ritornare a Roma e ripristinarvi l'autorità della chiesa. La paura che si formasse, nel centro Italia, un forte stato ecclesiastico allarma sia Firenze (intimorita di essere inglobata nel nuovo stato) che le città degli Stati Pontifici, che a causa della lontananza del Papato avevano acquisito una grande forza ed indipendenza. La guerra finì frettolosamente a causa della scissione interna alla Chiesa stessa tra cardinali, fatto che porta alla nascita del gravoso Scisma d'Occidente. Urbano VI assolve Firenze dalla scomunica per avere alleati contro Clemente VII.  Tra gli scomunicati, c'e anche lui, in quanto figura chiave della politica dell'epoca. Coluccium Pieri de Florentia, excellentissimum cancellarium comuni Florentie, riceve l'assoluzione da parte del Papa tramite i legati S. Pagani, vescovo di Volterra, e F. d'Orvieto, frate appartenente all'ordine degli Eremitani. Firenze, mentre stava stipulando la pace con Urbano VI, fu sconvolta dalla rivolta del popolo minuto che, già soggiogato e perseguitato dalla prepotenza politico-economica del popolo grasso, fu sobillato dagli operai salariati (i ciompi) a rivoltarsi. Si ebbero i primi scontri e i ciompi, risultati vincitori, imposero Lando quale gonfaloniere di Giustizia e riformatore della Signoria in senso democratico. L'animosità degli sconfitti si fece sentire molto presto: dopo aver chiuso gli opifici riducendo alla fame gli operai, la grande borghesia e l'aristocrazia riuscirono a trarre dalla loro parte Lando che, dopo aver disperso i capi dei ciompi, si dimise dalla carica di gonfaloniere e ridando il potere ai magnati, tra i quali primeggiarono gli Albizi che instaureranno un regime oligarchico durato fino alla venuta di Cosimo de' Medici. Dall'epistolario di Coluccio, sappiamo che egli informò D. Bandini di Arezzo dei tumulti avvenuti in città e stimando gli uomini assurti al potere quali degni e pieni di considerazione. L'atteggiamento emerso in quest'epistola, datata il mese d'agosto, si rivelerà contrario a quanto Coluccio in realtà pensasse del nuovo governo. Cirillo ci descrive lo stato d'animo del Cancelliere e la sua scelta di rimanere in tale carica nonostante l'avversione per i Ciompi. Dalle lettere di S. si evince come il cancelliere non fosse soddisfatto del governo instaurato dal Popolo Minuto, ed è probabile che il cancelliere conoscesse anche i “piani politici” di chi voleva ritornare al potere. Questo ci permette di ipotizzare che, la decisione di ritornare al proprio ufficio si legava sia alle necessità familiari dell'umanista, sia all'amore che egli nutriva per il proprio lavoro ma anche, alla conoscenza dell'imminente ritorno del Popolo Grasso al potere, unito alla convinzione della mancanza di conoscenze politiche adeguate per governare una città come Firenze da parte dei Ciompi stessi (Cirillo)  Ha un ruolo decisamente più attivo ed importante nell'animare Firenze perché si difendesse dalle ambizioni di conquista di Visconti, duca di Milano, desideroso di sottomettere l'intera Penisola al suo controllo schiacciando le resistenze delle Signorie dell'Italia Settentrionale. Visconti sposta infatti le sue attenzioni sulla Repubblica di Firenze, e S. giocò un ruolo importante in questa situazione spronando il popolo fiorentino a difendere la sua tradizionale libertà (la florentina libertas) e rispondendo egli stesso dalle accuse dei nemici attraverso l'opera Invectiva in Antonium Loscum. La situazione per i fiorentini, all'inizio del conflitto, era alquanto drammatica, in quanto si ritrovarono praticamente circondati dai domini di Visconti e solo l'ausilio di bande mercenarie, guidate da Acuto, riuscirono a frenare i piani di dominio del Visconti. La guerra, che riprese dopo una momentanea tregua, vide la formazione di una vasta coalizione antiviscontea di cui fecero parte tutti gli stati italiani del centro-nord, tenuti assieme dalla politica estera fiorentina e da quella veneziana. Nonostante gli alleati fossero stati gravemente surclassati dalle forze milanesi, i fiorentini riuscirono a salvare la loro indipendenza resistendo a dodici anni di guerra, cioè fino alla morte improvvisa di Visconti a causa della peste, lasciando Firenze in una posizione di potenza nell'Italia centro-settentrionale.  S. trascorse gli ultimi anni della sua vita terrena celebrato sia per la sua posizione di guida dell'umanesimo, sia per l'abilità politica dimostrata contro il Visconti, ma anche in grandi amarezze a causa dei lutti (morte della seconda moglie e la morte di alcuni dei suoi figli in occasione della pestilenza). Quando poi morì, la Signoria, il giorno successive, gli fece celebrare funerali solenni in Santa Maria del Fiore, ponendo sulla sua bara una ghirlanda d'alloro per le sue virtù poetiche. I suoi discepoli Bruni suo successore, Bracciolini, futuro cancelliere e Vergerio lo piansero amaramente, ricordandolo come un padre e come il più grande decoro di Firenze. Coluccio umanista La guida dell'umanesimo italiano e per trent'anni, dopo la morte del Petrarca e del Boccaccio, il più autorevole umanista italiano, unico erede di quei grandi (Dionisotti)  Miniatura che ritrae proveniente da un codice della Biblioteca Laurenziana a Firenze. Alla morte del Boccaccio, sia per ragioni anagrafiche (era di una generazione sita tra quella di Petrarca e Boccaccio e la successiva degli umanisti), sia per la propria grandezza letteraria e filosofica, fu il principale esponente dell'umanesimo italiano, come ricorda infatti Dionisotti e altri studiosi, quel «trait d'union tra la generazione che aveva vissuto in prima linea il rinnovamento petrarchesco e quella dei nuovi umanisti già pienamente quattrocenteschi» Salutati ebbe, sia per il ruolo istituzionale sia per quello culturale, rapporti anche con i Paesi europei: tenne corrispondenza con un colto cortigiano di Carlo VI di Francia, Montreuil, e con l'arcivescovo di Canterbury Arundel, conosciuto mentre il presule inglese si trovava a Firenze. Fecondo scrittore, apologeta "diplomatico" della classicità contro gli attacchi degli aristotelici e di alcuni ecclesiastici ostili all'antropologia umanista, S. alterna il suo magistero culturale con quello politico, difendendo la libertà repubblicana di Firenze adottando lo stile e il genere degli antichi trattatisti.  Nonostante Lino avesse preso definitivamente l'attività notarile, come testimonia il suo primo rogito effettuato nella nativa Stignano, l'amore per la cultura e la letteratura non venne meno. Anzi, a partire dalla fine degli anni sessanta, S. divenne il segretario di Bruni, amico a sua volta di Petrarca; inizia, come esposto dalla Senile un rapporto epistolare a distanza, che permise a S. di avvicinarsi alle proposte umanistiche di Aretino. Nel periodo che intercorse tra questa prima epistola e la morte del Petrarca, S. entra sempre più nella mentalità classicista del maestro, grazie anche ai contatti che egli ha con l'altro grande umanista e allievo del Petrarca stesso, Boccaccio, quest'ultimo animatore del circolo umanista di Santo Spirito a Firenze. Seguendo la scia del maestro Boccaccio, sinceramente pianto da S. al momento del trapasso, il Cancelliere della Repubblica continua il suo magistero a Santo Spirito, tenendovi lezioni cui partecipavano umanisti non solo fiorentini -- si ricordano, tra i più importanti, Niccoli, Bruni e Bracciolini -- ma anche di altre regioni italiane -- quali il vicentino Loschi e Vergerio. Nel convento degli agostiniani S., aiutato nel suo magistero culturale dal coltissimo frate Marsili, non si fa soltanto portavoce degli ideali dell'umanesimo classicista petrarchesco, ma continua a tenere in alta considerazione ALIGHIERI (si veda), deprecato da una cerchia dei umanisti in quanto filosofo volgare e pessimo latinista. Oltre al suo compito di formazione dei umanisti che andranno a diffondere la filosofia presso gli altri centri italiani, S. ha il merito non solo di affidare le cattedre tradizionali dello studium fiorentino ad umanisti discepoli di Petrarca, quali Malpaghini, ma soprattutto quello di far rifiorire in Italia il greco. Grazie all'incontro avvenuto a Venezia tra i umanisti Rossi e Scarperia e i due colti bizantini Crisolora e Cidone, inizia, usufruendo dei poteri di Cancelliere, ad intessere rapporti con Crisolora per invitarlo ufficialmente a Firenze quale docente di greco nello studio. Questi, giunto nell'Europa Occidentale per conto dell'imperatore Manuele II Paleologo per cercare alleanze contro i turchi ottomani, cerca di instaurare rapporti di amicizia con gli stati che visita trasmettendo la conoscenza del greco ai circoli umanistici, edotti di latino ma non della lingua di Omero. Crisolora accetta l'offerta di S., rimanendo nella città toscana e lasciando in eredità ai suoi discepoli e amici fiorentini gl’Erotematà, compendi linguistici di greco caratterizzati da una sinossi COLLA GRAMMATICA LATINA. L'umanesimo incontra durante la sua diffusione, il sospetto e l'ostilità di alcuni ambienti a causa della libertà e responsabilità etica del singolo uomo che S. anda insegnando, e del suo progetto di conciliare la natura della cultura classica colle dottrine dei galilei.. I principali antagonisti dell'umanesimo fiorentino, il camaldolese Giovanni di San Miniato e il domenicano Giovanni Dominici -- quest'ultimo poi cardinale -- intendevano sostanzialmente mantenere l'istruzione e la morale rigidamente nelle mani della gerarchia, rifiutando la ventilata autonomia spirituale dei pagani e riaffermando la loro interpretazione allegorica. Le humanae litterae – litterae humaniores -- non sono anti-tetiche agli studia divinitatis (littera divinae), S., davanti a questi attacchi, sostenne la necessità, anche da parte dei laici, di avere coscienza di ciò che dicono e professano nella vita attiva, ribadendo il valore positivo di questo modello di vita e combattendo il vuoto nominalismo tomista che la cultura ecclesiastica ufficiale difende strenuamente quest'ultimo visto come nocivo perché, avendo ormai intriso la stessa Bibbia di sillogismi filosofici, allontana dalla verità gl’uomini. Senza la capacità di intendere in fondo i termini, la lingua, non si dà conoscenza della scrittura, della parola del divino. Ogni conoscenza seria è comunicazione. In tal modo, gli studia humanitatis come mezzo per ritrovare nella lettera l'inseparabile spirto, nel corpo l'anima indisgiungibile, sono strettamente connessi con gli studia divinitatis. La disputa sulla verità teologica della poesia, genere privilegiato nella conoscenza del divino, è quello che gli impegna maggiormente. Seguendo il tracciato delle Genealogie deorum gentilium del maestro Boccaccio, risponde alle accuse dell'immoralità della poesia a G. di San Miniato, in una lettera affermando non solo che ogni verità proviene da Dio stesso, ma anche che Dio ha usufruito della poesia attraverso i salmisti, Giobbe e Geremia: per cui la poesia è il genere letterario più vicino a Dio. Tale tesi verrà poi ulteriormente rinforzata nell'incompiuto De laboribus Herculis, in cui si arriva a sostenere una vera e propria poesia teologica, per cui anche gl’antichi poeti pagani, con le loro opere, si avvicinavano al divino. Il poema epico di Petrarca, per la sua incompletezza e il latino ancora un po' rozzo, suscita delusione nei simpatizzanti dell'umanesimo. Forma, impiegando gran parte delle sue retribuzioni, una biblioteca di più di 100 volumi, collezione molto grande per l'epoca e simbolo del suo fervore culturale. Possedetun manoscritto delle tragedie di Seneca ricopiato ottimamente di suo pugno con l'aggiunta dell'Ecerinide del pre-umanista padovano Mussato, ma anche esemplari di autori quali Tibullo e Catullo ed una rarissima copia delle Ad familiares di CICERONE, coperta dall'amico e cancelliere milanese Capelli a Vercelli. A questa scoperta in terra di Lombardia, si aggiunse anche le Epistole ad Atticum, rendendolo il primo dopo secoli a possedere entrambe le raccolte di lettere di Cicerone. Sabbadini riporta che, nella sua biblioteca, e il primo a possedere il “De agricultura di CATONE, il Centimeter di SERVIO, il commento di POMPEO all'Ars maior di DONATO, le Elegie di Massimiano e le DIFFERENTIAE pseudo-ciceroniane, mentre Tateo continua elencando i Dialoghi di Gregorio Magno e l'esame dei vari manoscritti di Cicerone, di Lattanzio, di Agostino, di Seneca, di OVIDIO e di STAZIO in suo possesso. Nonostante questa passione da bibliofilo, che rese la sua biblioteca la più significativa dopo quella di Petrarca, non sfoggia mai eccellenti doti filologiche, al contrario di Petrarca stesso o del suo discepolo Bruni. Cerca, inoltre, di avere da parte di Lombardo della Seta, fedele discepolo di Petrarca, una copia dell'Africa perché fosse poi pubblicata. I suoi sforzi e dei umanisti risultarono sempre più insistenti. Lombardo ha timore a pubblicare un'opera rimasta in un testo incompiuto ed incerto, rischiando così di oscurare la gloria di Petrarca. Quando poi giunge a Firenze il sospirato poema epico d’Aretino, è afflitto dalle sospensioni, dalle lacune e certamente anche dalla pesantezza d'ala del poema tanto vantato e sognato. La delusione, trasmessa in una lettera a Brossano, spinselo a non farsi più editore e commentatore dell'opera. Intervenne anche nel campo della paleografia. Nel vivo studio dei classici, fa un'introduzione fondamentale: dopo aver adottato, per gran parte della sua vita, una scrittura cancelleresca e una libraria semi-gotica, legge e trascrive un codice delle Lettere di PLINIO MINORE contenente nessi e legature che si erano persi. L’uso di -s diritta in fine di parola, i nessi e le legature ae, ę e &, di cui si e persa memoria. Con questo esperimento inizia la storia della scrittura umanistica. L’epistolario di S., documento fondamentale di questa lunga ed efficace opera di rinnovamento culturale, tratta dei temi più disparati. Organicamente, la raccolta si divide in due filoni: le lettere private, indirizzate ad amici e conoscenti, e quelle pubbliche, scritte a nome della Repubblica di Firenze. Stilisticamente, l'epistolario di S. spicca per l'uso di uno stile che si allontana da quello delle lettere medioevali, fitte della retorica della ars dictandi, per lasciare il posto ad una serenità cordiale e del Portico che si richiama alle Familiares di CICERONE e al repertorio lessicale degl’altri autori classici, determinando così quello che è stato definito latino misto. Nella prima categoria, le lettere scritte a nome dell'umanista S. mettono in mostra le tendenze socio-culturali dell’umanesimo. Da un lato, la percezione del divario cronologico tra i contemporanei e gl’antichi, eredità diretta della sensibilità petrarchesca; dall'altro, l'esposizione in più punti del suo pensiero, dalla rivendicazione del valore della vita attiva contro i monaci e quegli ecclesiastici che sottolineano invece l'eccellenza della vita claustrale al valore della poesia. Immancabile è la tematica politica, esposta nella lunga lettera a Durazzo e ritenuta essere il sunto del pensiero politico dell’umanesimo. Le lettere dell’Epistoloario pubblico, scritte in qualità di cancelliere della Repubblica, sono di carattere puramente politico, in quanto rivolte a contrastare l'azione egemonica di Visconti. Riprendendo i modelli dei classici latini -- Seneca, SALLUSTIO, CICERONE --, S. addita Visconti quale tiranno in contrasto con la florentina libertas. Il tono di queste lettere dove essere così grave e tagliente che, secondo la tradizione, il duca di Milano risponde che un'epistola di S. e più deleteria di una sconfitta militare di Milano in campo aperto. Dal punto di vista più tecnico, il saggio  svolto presso la cancelleria di Firenze ha reso S. uno dei più noti cancellieri. Tale notorietà si deve al metodo di lavoro che egli adotta nel tempo in cui ha ricoperto tale carica. Effettivamente, i cambiamenti che S. apporta, soprattutto nel campo dell'epistolografia politica, pur non essendo certo radicali, ha una notevole influenza su molte corti. La letteratura sull'argomento è unanime nell'affermare che, S., pur utilizzando la formula prevista dall'epistolografia cancelleresca, che prevede: la “Salutatio”, il Proverbium, la Narratio, la Petitio e la Conclusio; ha modo di personalizzare ogni fase dell'epistola in base alle proprie esigenze narrative. È frequente perciò trovare nelle sue lettere una “salutatio” piuttosto breve ed un Proverbium soprattutto quando egli esprime teorie politiche piuttosto lungo. Epistola a Zabarella, filosofo padovano, il “De Tyranno” basato sull'omonimo trattato di Bartolo da Sassoferrato e sul “Polycraticus” di Giovanni di Salisbury, riflette sulla nascita della tirannide e sulla liceità dell'assassinio del tiranno stesso. Indotto a fare questa riflessione su spunto di A. dell'Aquila, che gli chiede la liceità dell'assassinio di GIULIO CESARE e dalla volontà di difendere la scelta dantesca di porre Bruto e Cassio nelle fauci di Lucifero, ammette la liceità di un tale gesto nei confronti di un despota, ma negandola però al generale romano, in quanto e un benemerito capo di stato, che e tradito dagli stessi uomini che sono stati da lui beneficiate. L’Invectiva contro Loschi, cancelliere dell'ormai defunto Visconti e autore di una “Invectiva in florentinos”, ha un tono più concreto rispetto al teorico “De Tyranno”. Nell'”Invectiva”, mostra la partigianeria repubblicana sostenitrice della “florentina libertas”, emula dell'Atene di Pericle fautrice della concordia partium tra lei e i suoi alleati. Gli ricorda come Firenze sia nel giusto perché è sottoposta alle leggi, che non possono essere violate, MENTRE A MILANO IL DIRITTO E STRUMENTO ARBITRARIO NELLE MANI DI UN VERO E PROPRIO TIRANNO, CHE STA AL DI SOPRA DELLA LEGGE. “De seculo et religione”, epistola all’amico Lapo si articola in due parti. Gl’invia una lettera d'accompagnamento insieme al testo da lui realizzato. Tratta di una esortazione assai fervida alla vita claustrale. Rivendica anche la validità della vita quale laico, in quanto strada valida nell'ambito gerarchico delle occupazioni umane, a cui egli rimane ancora legato. L'opera, esaltante la vita ritirata prendendo spunto anche da CICERONE, LIVIO, MACROBIO, e Omero, tratta anche della condanna morale di cui è afflitta Roma, dai papi fino ai predicatori. Nell’epistola “De fato et fortuna” espone l'argomento del libero arbitrio e del rapporto che esiste tra quest'ultimo e gli avvenimenti che possono ostacolarne i progetti. La tematica, assai complessa ed erede di una lunga tradizione filosofica -- i modelli sono Alberto Magno, AQUINO e il “De bona fortuna” di Aristotele -- si sviluppa nel tentativo di dimostrare come l'esistenza umana si inquadri in una causa prima, il divino la quale opera in comunione, talvolta incontrandosi, talvolta scontrandosi, con la volontà dell'uomo. In “De Nobilitate legum et medicine” propone una gerarchia del sapere, proponendo la legge come valore supremo sulla medicina, intesa come mera tecnica. Come l'anima è superiore al corpo, così la legge (che si rifanno al campo della volonta dello spirito) e superiori alla medicina, che fa parte della meccanica. La legge, infatti, regola la vita sociale, determina il con-vivere civile, stabilisce l'ordine e deve essere ottima perché puo produrre uomini migliori. Continua affermando che la legge, dal momento che appartengono alla sfera dello spiritualo e quindi celeste, e legate direttamente al divino. Gl’uomini, perciò, possono collaborare con Dio nella costruzione perfetta della società grazie al fatto che ogni uomo e ispirato dalla divinità medesima. Il “De Laboribus Herculis,” opera di grande impegno intellettuale, e un vasto saggio di poesia. Intende continuare il progetto culturale di Boccaccio della genealogia, vale a dire una difesa della poesia a livello universale basata sulle vicende terrene dell'eroe mitologico Ercole, re-interpretate in senso allegorico e indirizzate verso la via della virtù. Si basa su Ercole per la radice etimologica del nome greco, risalente ad “ερος κλερος”, cioè uomo forte e glorioso. Come già scrive a Giovanni di San Miniato, infatti, la poesia ha un valore universale in quanto il senso interpretativo supera la dimensione culturale in cui è stato scritto. Per cui la opera di un pagano, se piene di valori positivi, non devono essere rigettate, ma accolte in quanto provenienti dal divino stesso. “Carmen de morte Francisci Petrarce” e un carme commemorativo del Petrarca e accennato in varie epistole al conte di Battifolle, a Imola e a Brossano, del quale è quasi dubbio il completamento. “De verecundia” e un trattarello in forma epistolare indirizzato a Baruffaldi sulla natura positiva o negativa della verecundia, cioè il rispetto. Grazie agli studi genealogici di Novati, si puo ricostruire l'ascendenza e la discendenza del cancelliere fiorentino. Coluccio Ignota, figlia di un tal Lino Piero Lino Coluccio; Piera di Simone Riccomi, A.Corrado, Giovanni Sorella ignota, sposata a uno dei Giovannini di Stignano sposata ad uno dei Dreucci di Pistoia  Piero morto di peste, Andrea morto di peste, Bonifazio - Monna Checca de' Baldovinetti Arrigo  Margherita d'Andrea de' Medici Antonio, Duccia di Guernieri de' Rossi; Filippo, Lionardo, chierico Salutato, chierico Lorenzo. A lungo si è ritenuta corretta la data, Campana  Martelli, Nuzzo, e altri studiosi dimostrano che la data corretta è Villani, S. XXVII racconta l'ascesa politica ad una delle più prestigiose cariche politiche fiorentine. Nominato segretario grazie all'influenza del Gonfaloniere Serragli, e eletto Cancelliere in sostituzione di N. Monaci, uomo politico con cui il Serragli fu in disputa.  Si veda Epistolario per le addolorate missive inviate dal Bruni e da Poggio all'amico in comune N. Niccoli, ‘tali parente’ nell'epistola di Bruni; ‘patris nostri’ in quella di Poggio). In Ivi,  l'istriano P. Vergerio, in una lettera a F. Zabarella, lo descrive come il primo e straordinario decoro di Firenze -- urbis illius primum atque precipuum decus, Linum Colucium Salutatum -- Della stessa opinione anche: Cappelli, in cui si ricorda, al momento dei funerali, il commosso addio dell'allievo Vergerio, che lo chiama  communis omnium magister -- maestro comune di tutti noi. Luogo significativo per continuare le riunioni dei nuovi umanisti, in quanto vi viveva quel fra' Martino da Signa erede universale degli scritti del Boccaccio. Boccaccio dispose per testamento di lasciare la sua biblioteca all'agostiniano Signa con l'indicazione che alla morte del frate i volumi fossero negli armaria del convento fiorentino di Santo Spirito. Così avvenne. La grandezza di Alighieri, ma anche di Petrarca e dello stesso Boccaccio, sono messi in discussione dal più acceso degl’umanisti classicisti, Niccoli, all'interno dei Dialogi ad Petrum Histrum di Bruni. L'accusa principale consiste nella barbaria del loro latino e nel, caso di Alighieri, nel FRA-INTENDIMENTO DEL SENSO di alcuni passi di VIRGILIO. Solamente il suo intervento riesce a capovolgere la situazione, salvando Alighieri dalle accuse feroci del Niccoli. Come anche risulta da un dialogo del Bruni, che di quella polemica anti-dantesca è il documento principe, il suo intervento riusce ad assicurare la continuità, proporzionata all'età nuova, della tradizione dantesca a Firenze. I contatti tra Costantinopoli e Firenze sono facilitati dalla presenza, nella capitale bizantina, di G. da Scarperia, che decide di riaccompagnare Crisolora in patria per apprendere greco da lui stesso. La visione laica dell'umanesimo non si deve confondere con la proposta laicista, dal punto di vista etico e antropologico. Mantenendo sempre un'attenzione ossequiosa verso la Roma e una sincera devozione verso le verità romana, intende nel contempo esaltare e rivendicare la responsabilità umana al di fuori di qualsiasi determinismo meccanicista e ponendo in valore la libertà personale del singolo (Cappelli). Abbagnano sintetizza in modo più stringente il rapporto tra libero arbitrio e volontà divina, affermando che il primo e conciliabile con l'infallibile ordine del mondo stabilito dal divino.  Si è condensato, in questi due punti, l'attacco generale del mondo contro l'umanesimo. La questione sul valore della poesia riguarda la disputa con Giovanni di San Miniato (cfr. Epistolario, Fratri Johanni de Angelis; quella con Dominici riguarda il valore positivo dell'umanesimo (cfr. Epistolario, Il codice fa parte della sua biblioteca entra nelle mani del cancelliere fiorentino igrazie alle pressioni che esercita su G. de Broaspini. Della stessa opinione anche Francesco Novati che, in Epistolario, giunge alla stessa conclusione del Sabbadini in quanto vi trova delle suoi postille autografe del Salutati. L'epistola è importante perché, dopo l'elogio di Carlo per la fortunata impresa militare della conquista del Regno di Napoli e il paragone con gl’eroi antichi, enumera i doveri di un buon sovrano: cercare l'unità sacra; gestire con moderazione il potere e imparare a gestire le proprie emozioni -- incipe prius tibi quam aliis imperare; rege te ipsum, noli regendorum subditorum studium tuimet derelinquere moderamen -- per evitare di cadere nei vizi e di essere classificato come un tiranno. Esaltandolo alla virtù, alla temperanza e alla giustizia, insomma tratteggia il modello del sovrano ideale, cavalleresco, formato sull'esempio dei classici -- continua è la comparazione con gli antichi statisti e sovrani) e timorato del divino. Le informazioni, ricavate attraverso una minuziosissima ricerca d'archivio da parte del Novati, sono prese in ordine sparso da; Epistolario, Tavole genealogiche ove vengono fornite indicazioni biografiche sui nonni, genitori e figli. Per consultare le informazioni sui fratelli del cancelliere, si consulti sempre Epistolario, Riferimenti  Dionisotti. Villani. E avviato agli studî giuridici, inameni a lui che era pierius -- così foggia il suo patronimico: figlio di Pietro, e devoto alle pieridi, le muse. Eloquentissimo legum doctori domino Loygio de Gianfigliaziis. Reverendo patri et domino domino Bruni de Florentia summi pontificis secretario, domino suo, si lamenta della sua mansione di cancelliere nella cittadina umbra. Vero è che invalse l'uso di chiamare Cancelleria Fiorentina l'ufficio del quale era capo il Dettatore, che aveva la particolare ingerenza di scrivere le lettere e di trattare le faccende della politica esterna.  Unum dicam, quod emerserunt et ad tante sunt reipublice gubernacula sublimati, quos oportuit pro salute cunctorum. Dirò una cosa, cioè che al governo di una così grande repubblica emersero e vi sono uomini, i quali bisognò vi sono per la salvezza di tutti. E così favorevole al governo in quanto fu uno dei pochissimi a non essere proscritto dalle cariche istituzionali.  Siena si sottomise a Visconti in funzione anti-fiorentina, mentre il signore di Milano, duca per investitura imperiale, si allea con Lucca e altre città umbro-marchigiane. La prima epistola riportata dal Novati in cui S. risponde ad una missiva del Certaldese cfr. Epistolario Facundissimo domino Iohanni Boccacci de Certaldo ma i toni sono troppo famigliari per essere la prima epistola scambiata tra i due. Inclyte cur vates, humili sermone locutus, de te pertransis? te vulgo mille labores percelebrem faciunt: etas te nulla silebit. Perché, o celebre poeta, che hai cantato nel volgare idioma, avanzi nel corso del tempo? Mille fatiche ti rendono celebre presso il volgo: nessuna epoca tacerà sul tuo conto. Egrigio viro Franciscolo de Brossano domini Francisci Petrarce genero, Ep. ove piange sia la scomparsa del Petrarca, ma annuncia anche quella del Boccaccio. Fallebar enim, et dum Franciscum fleo, dum suis laudibus intentus decantantes, novo commento, veterum pene dimissa sententia, depingo Camenas, ecce nove lacrime nobis merore novi funeris occurrerunt, incepti cursum operis reprimentes. Vigesima quidem prima die decembris Boccaccius noster interiit. Infatti ero ingannato, e mentre piango Francesco e mentre, attento alle sue lodi, adorno le Camene con un nuovo commento, quasi tralasciata la sentenza degl’antichi, ecco che nuove lacrime si aggiunsero a noi con il dolore di una nuova morte, frenando il corso di un'opera che inizia. Il nostro Boccaccio spira. Tateo. Cappelli,  ricorda anche che e solito mettere a disposizione dei suoi allievi la sua stessa biblioteca personale. Pertanto, i luoghi di incontro erano due: Santo Spirito e l'abitazione del Cancelliere. Gl’animatori di questi incontri, il Salutati e il Marsili, l'uno nella propria casa, l'altro nella sua cella di Santo Spirito, ricevano i nobili fiorentini, e li iniziavano al gusto delle lettere antiche. Sabbadini riporta che l'erudito greco era già a Firenze. Garin sintetizza, prendendo spunto dal De saeculo et religione e dall'Epistolario, l'ideale di vita attiva propria dell'essere umano inteso come cittadino del mondo. Terrestre è la vocazione umana. L'impegno nostro è nella costruzione della città terrena, nella società. Insiste sul valore della educazione. Essa insegna a ritrovare sub corticem il valore intenzionale dei termini, smarrito nella consuetudo, penetrando l'espressione nel suo significato intimo come direzione spirituale. Parola e cosa non possono disgiungersi. Noli, venerabilis in Christo frater, sic austere me ab honestis studiis revocare. Noli putare quod, cum vel in poetis vel aliis Gentilium libris veritas queritur, in vias Domini non eatur. Omnis enim veritas a Deo est, imo, quo rectius loquar, aliquid est Dei. Non volere, o venerabile fratello in Cristo, allontanarmi in modo così austero da studi degni di ammirazione. Non voler ritenere che, quando si cerca la verità o nei poeti o in altri libri degli scrittori pagani, non si cammini lungo le vie del Signore. Ogni verità, infatti, proviene da Dio e, per parlare fino in fondo rettamente, alcuna cosa è propria di Dio. Nullum enim dicendi genus maius habet cum divinis eloquiis et ipsa divinitate commertium quam eloquium poetarum. Nessun genere letterario, infatti, ha un maggior legame con le parole divine e con la stessa divinità quanto la parola dei poeti. Il manoscritto di Vercelli fu alla fine portato a Firenze, ove rimane, unica copia carolingia esistente delle Epistole di CICERONE. Gargan ritiene che la sua filologia non fu di altissima classe. Billanovica. Fitta la corrispondenza con Seta, come testimonia la prima lettera inviata dal cancelliere fiorentino. Insigni viri Lombardo...optimo civi patavino, Cappelli Cesareo. Epistola Coluci Salutati florentina ad Carolum regem Neapolitanum. Villani riporta la veemenza con cui fulmina Gian Galeazzo con le sue lettere, riportando tra l'altro la testimonianza di E.  Piccolomini cui quest'aneddoto è attribuita la paternità. Sia la citazione che il contesto in cui fu scritto il De Tyranno sono esposti in Canfora. In altri termini, se Cesare, pur giunto al potere in modo tirannico o violento, seppe poi legittimare tale potere attraverso un esercizio virtuoso di esso (ex parte exercitii) in grado di suscitare l'approvazione popolare, la sua uccisione non fu legittima. Lo e quella di un tiranno che esercita come tale. Per la figura di Loschi, si rimanda alla voce biografica Viti.  Canfora ipotizza l'aiuto di Bruni nello sviluppare il paragone Firenze-Atene, in quanto non e  molto esperto di quella lingua e di quella cultura. Così rivolgendosi al cancelliere milanese A. Loschi, nella Invectiva in Antonium Luschum, dopo aver contrapposto i guasti del regime tirannico milanese ai vantaggi di quello libero e repubblicano di Firenze, glorifica la sua città come "fiore d'Italia" e come esempio di vita serena e armoniosa. Si riporta interamente il breve messaggio d'accompagnamento. Mitto tibi munusculum istis paucis noctibus correctionis studio lucubratum. In quo si quid proficies tu vel alii, laus sit omnium conditori Deo, cui placeat me in tuis sanctis orationibus commendare. Vale felix et diu. S. tuus. Ti mando un piccolo pensiero composto in queste poche notti dopo un'opera di revisione. Attraverso questo trattato, se tu o altri ne trarrete giovamento, la lode di tutti voi sia per lodare Dio, al quale è piaciuto che io mi affidi alle tue sante orazioni. Sta felice a lungo. Il tuo Coluccio. Nel De Nobilitate ribade, attraverso un discorso più ampio e articolato, la distinzione della medicina, designate come arte meccanica, ossia tecnica, dalla giurisprudenza, considerata scienza della vita spirituale e quindi superiore all'altra. La legge e veramente un sigillo divino, con cui dopo il primo peccato Dio ha offerto alle comunità degl’uomini la vita per riconquistare il bene. Ispirate dal divino agli uomini, inscritte nell'anima umana, la legge ha un'altra superiorità, rispetto alla legge meccanica naturale. La legge inter-soggetiva puo essere conosciuta nella sua pienezza integrale, con una certezza che non si trova mai nella scienze della natura. Si riporta, come testimonianza, quanto scritto nell'epistolario in cui annuncia a B. Imola il suo Progetto. Sed ut ad Franciscum nostrum redeam, opusculum metricum de ipsius funere iam incepi. Ma per ritornare al nostro Francesco, inizio a stendere un opuscolo metrico sulla cerimonia funeraria dello stesso. Antiche Filippo Villani, Le vite d'uomini illustri fiorentini, Mazzuchelli, Venezia, Pasquali, Moderne; Abbagnano, “La filosofia del Rinascimento” in Abbagnano, Storia della filosofia, Milano, TEA); Billanovich, Gl’inizi della fortuna di Petrarca” (Roma, Storia e Letteratura); Bischoff, “Paleografia latina. Antichità e Medioevo, Stefano Zamponi, Padova, Antenore, Bosisio, Il Basso Medioevo, in Curato, Storia Universale,  Novara, Istituto geografico De Agostini, Branca, Boccaccio: profilo biografico, Firenze, Sansoni, Campana, Lettera del cardinale padovano (Bartolomeo Uliari). Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma, Laterza, Cappelli, “L'Umanesimo italiano da Petrarca a Valla” (Roma, Carocci); Cesareo, “L'Epistolario ed il carteggio con Francesco Petrarca come esempio di latino umanistico: una ricerca filologico-letteraria, G. Contini, Letteratura italiana delle origini” (Firenze, Sansoni); Carrara, Lino Coluccio di Piero, in Enciclopedia Italiana,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rosa, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell' Enciclopedia Italiana, Chines, Forni, G. Ledda, Dalle Origini al Cinquecento, in Ezio Raimondi, La letteratura italiana” (Milano, Mondadori); Dionisotti, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell' Enciclopedia Italiana, Luciano Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, in Guglielmo Cavallo, Le biblioteche, Bari, Laterza, Eugenio Garin, L'umanesimo italiano, Roma-Bari, Laterza,Martelli, Schede per S. in Interpres, Demetrio Marzi, La cancelleria della repubblica fiorentina, Rocca San Casciano, Cappelli,  Nuzzo, Coluccio Salutati. Epistole di Stato. Primo contributo all’edizione: Epistole in Letteratura Italiana Antica, Manlio Pastore Stocchi, Pagine di storia dell'Umanesimo, Milano, Angeli; Petoletti, “Boccaccio e i classici latini” in Teresa De Robertis, C. Monti, Marco Petoletti et alii, Boccaccio autore e copista, Firenze, Mandragora, Petrarca, Lettere Senili, Fracassetti,  Firenze, Le Monnier, S., Epistolario, Novati, Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, Si sono consultati: Epistolario,. Epistolario,  Epistolario,  Epistolario, Epistolario, Sabbadini, “Le scoperte dei codici latini”, Firenze, G.C. Sansoni, Achille Tartaro e Francesco Tateo, Il Quattrocento. L'età dell'umanesimo, in Muscetta, La letteratura italiana, Bari, Laterza, Si sono presi in considerazione: Tateo, La cultura umanistica e i suoi centri, Wilkins, Vita di Petrarca, Rossi e Ceserani, Milano, Feltrinelli,  Life of Petrarch, Chicago; Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Pissavino, Milano, Mondadori, Viti, Loschi, Antonio, in Dizionario Biografico degl’italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Palazzo Salutati Petrarca Boccaccio Umanesimo Repubblica di Bruni. Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Cirillo,  “Il tiranno in S., umanista,” Biblioteca dei Classici italiani di Bonghi. Lino Coluccio Salutati. Coluccio Salutati. Salutati. Keywords: i duodici fatiche d’Ercole, gl’antichi, la legge non-naturale, la legge naturale, della buona fortuna, libero arbitrio, la vita sociale, la con-vivenza, Bruto e Cassio nell’inferno, la morte di Cesare, l’assassinio di Cesare, tirano, la libertas fiorentina, stato fiorentino, la repubblica fiorentina, la fiore d’Italia, Boccaccio, Petrarca, Aligheri, I primi umanisti, l’umanesimo laico, basato contro il determinismo ecclesiastico, la biblioteca di Salutati, Livio, Cicerone, autori latini, la lingua Latina, difesa della lingua Latina, l’interpretazione di Virgilio da Aligheri, difesa della filosofia pagana, il valore permanente della filosofia degl’antichi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Salutati” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Salutio: la ragione conversazionale del divino e dei divini – l’ordine el mondo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A close fiend of Giuliano. He is offered the emperorship on Giuliano’s death, but he declines on account of his ‘rather poor health.’ He leads an active political life and is regarded as morally incorruptible. Known to have been well-versed in philosophy, he is the author of ‘On the gods and the world order’ – which some however attribute to Salustio. The treatise is, unsurprisingly, dedicated to Giuliano. Those who argue that it us not written by Salutio claim it is the work of one contemporary of Giuliano, a Flavio Salustio. Accademia. Saturnino Secondo Salutio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Salviano: la ragione conversazionale al portico – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He moves from Rome to what is now known as The Galliae – and writes a ‘saggio’ in which he tries to explain why there is so much suffering in that area of the world. He takes an approach that is not only philosophical – along the lines of the Porch – but historical as well.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sanctis: la grammatica ragionata e  la ragione conversazionale dello stile filosofico – scuola napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo Italiano. Napoli, Campania. Essential philosopher. He considers philosophy as a branch of the belles lettres and his field of expertise is when stylists stop using an artificial Roman, and turned to ‘Italian.’ Grice: “I really do not like de Sanctis; when an author becomes philosophical, he says that he has been infested of the philosophical pest!” – Disambiguazione – Se stai cercando l'omonimo architetto, vedi Francesco De Sanctis (architetto). Francesco de Sanctis  Ministro della pubblica istruzione del Regno d'Italia MonarcaVittorio Emanuele II di Savoia Capo del governoCamillo Benso di Cavour PredecessoreTerenzio Mamiani, Regno di Sardegna Capo del governoBettino Ricasoli SuccessorePasquale Stanislao Mancini Durata mandato24 marzo 1878 – 19 dicembre 1878 MonarcaUmberto I di Savoia Capo del governoBenedetto Cairoli PredecessoreMichele Coppino SuccessoreMichele Coppino Capo del governo Benedetto Cairoli PredecessoreFrancesco Paolo Perez SuccessoreGuido Baccelli Governatore della Provincia di Avellino SuccessoreNicola De Luca Deputato del Regno d'Italia Legislatura Gruppo parlamentare Sinistra Coalizioneconnubio, opposizione, governo della Sinistra storica Incarichi parlamentari Ministro dell'Istruzione del Regno d'Italia Sito istituzionale Dati generali Partito politicoDestra storica (1861-1862) Sinistra storica (1862-1883) Titolo di studiolaurea ProfessioneDocente universitario FirmaFirma di Francesco de Sanctis Francesco Saverio de Sanctis (Morra Irpina, 28 marzo 1817 – Napoli, 29 dicembre 1883) è stato un critico letterario, saggista e politico italiano, tra i maggiori critici e storici della letteratura italiana nel XIX secolo e più volte ministro della pubblica istruzione. Francesco Saverio de Sanctis nacque nel 1817[1] a Morra Irpina (Avellino) da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, figlio di Alessandro De Sanctis  e Maria Agnese Manzi (1785-1847).  Il padre era dottore in diritto e due zii paterni, Giuseppe e Carlo, uno sacerdote e l'altro medico, vennero esiliati per aver preso parte ai moti carbonari.  Celebre è la sua frase: "Se Morra è il mio paese, Sant'Angelo è la mia città" (Sant'Angelo dei Lombardi, che si trova vicino a Morra e che, al tempo di S., era il punto di riferimento per i paesi vicini).  I critici pedanti si contentano d'una semplice esposizione e si ostinano sulle frasi, sui concetti, sulle allegorie, su questo e su quel particolare come uccelli di rapina su un cadavere… Essi si accostano ad una poesia con idee preconcette: chi di essi pensa ad Aristotele e chi ad Hegel.  Prima di contemplare il mondo poetico lo hanno giudicato: gl'impongono le loro leggi in luogo di studiar quelle che il poeta gli ha date. […] Critica perfetta è quella in cui i diversi momenti (per i quali è passata l'anima del poeta) si conciliano in una sintesi di armonia.  Il critico deve presentare il mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena coscienza, di modo che la scienza vi presti, sì, la sua forma dottrinale, ma sia però come l'occhio che vede gli oggetti senza però vedere se stesso. La scienza, come scienza, è, forse, filosofia, ma non è critica.»  (Francesco De Sanctis, Saggi critici, Morano, Napoli)  Formazione scolastica Nel 1826 lasciò la provincia per recarsi a Napoli, dove frequentò il ginnasio privato di uno zio paterno, Carlo Maria de Sanctis.  Nel 1831 passò ai corsi liceali, dapprima presso la scuola dell'abate Lorenzo Fazzini, dove compì le prime letture filosofiche, e nel 1833 presso quella dell'abate Garzia.  Completati gli studi liceali, intraprese gli studi giuridici, presto però trascurati per seguire, già dal 1836, la scuola del purista Basilio Puoti sul Trecento e sul Cinquecento, lezioni che il marchese teneva gratuitamente presso il suo palazzo, dove il De Sanctis avrà modo di conoscere il Leopardi e dove avvenne la sua vera formazione.  Insegnamento Trascorso un breve soggiorno a Morra, ritornò a Napoli dove iniziò ad insegnare nella scuola dello zio Carlo che si era ammalato, per interessamento dello stesso Puoti, venne nominato professore alla scuola militare preparatoria di San Giovanni a Carbonara (1839-1841) e in seguito al Collegio militare della Nunziatella (1841-1848), dove ebbe come allievo tra gli altri Nicola Marselli.  Contemporaneamente egli teneva in una sala del Vico Bisi, per gli allievi del Puoti, corsi privati di grammatica e letteratura, avendo tra i suoi allievi alcuni di quelli che sarebbero poi diventati tra i principali nomi della cultura italiana: i meridionalisti Giustino Fortunato e Pasquale Villari, il filosofo Angelo Camillo De Meis, il giurista Diomede Marvasi, il pittore Giacomo Di Chirico, il letterato Francesco Torraca e il poeta Luigi La Vista, suo allievo prediletto, che avrebbe trovato la morte durante l'insurrezione del 1848.  Le lezioni di quella che fu chiamata la "prima scuola napoletana" (1838/39-1848) furono raccolte ed edite solamente nel 1926 da Benedetto Croce con il titolo Teoria e storia della letteratura.  Distanze dal purismo Alla Nunziatella il De Sanctis iniziò a trattare problematiche di carattere letterario, estetico, stilistico, linguistico, storico e di filosofia della storia, prendendo le distanze dal purismo di Puoti dopo aver scoperto alcuni testi dell'Illuminismo francese (d'Alembert, Diderot, Hélvetius, Montesquieu, Rousseau e Voltaire) e di quello italiano (Beccaria, Cesarotti, Filangieri, Genovesi, Pagano).  De Sanctis passò così da una prima fase intrisa di sensibilità romantica e leopardiana, di forte polemica anti-illuministica e di convinta adesione a un programma cattolico-liberale, giobertiano, di restaurazione civile e morale, ad una seconda fase, nel costituire la quale ebbero grande parte la lettura di Hegel e le esperienze drammatiche del 1848.  Partecipazione ai moti del 1848 «Napoletani, siamo fieri di questo nome che abbiamo fatto risonare dovunque alto e rispettato. Vogliamo l'unità, ma non l'unità arida e meccanica che esclude le differenze ed è immobile uniformità. Diventando italiani non abbiamo cessato d'essere napoletani.[2]»  ([senza fonte] Francesco De Sanctis)  Nel maggio del 1848, come membro dell'associazione "Unità Italiana[3]" diretta dal Settembrini, partecipò con alcuni dei suoi allievi ai moti insurrezionali e, in seguito a questa sua iniziativa, nel novembre del 1848 venne sospeso dall'insegnamento.  Prigionia Nel novembre del 1848 egli preferì allontanarsi da Napoli, recandosi nell'entroterra calabrese, ospite prima nella città del Guiscardo di San Marco Argentano (CS) presso il seminario vescovile, poi nel vicino borgo di Cervicati (CS) dove aveva accettato un incarico di precettore propostogli dal barone Francesco Guzolini. Qui scrisse i suoi primi "Saggi critici", cioè le prefazioni all'Epistolario leopardiano e alle "Opere drammatiche" di Schiller, ma nel 1850 venne arrestato e recluso a Napoli nelle prigioni di Castel dell'Ovo, dove rimase fino al 1853 quando, espulso dal Regno dalle autorità borboniche e fatto imbarcare per l'America, riuscì a fermarsi a Malta e quindi a rifugiarsi a Torino.  Durante il periodo di prigionia il De Sanctis si diede allo studio approfondito di Hegel, facendo lo sforzo di apprendere il tedesco e compiere così la traduzione del "Manuale di una storia generale della poesia e della logica" di Hegel, oltre a cercare di approfondire i motivi mazziniani della propria ideologia, come testimonia il carme in endecasillabi con auto-commento intitolato "La prigione".  Dal carcere uscì indubbiamente un De Sanctis diverso, al quale la realtà aveva distrutto le illusioni e al pessimismo e misticismo giovanile era subentrata una moralità più eroica e alfieriana e che, grazie alla lettura di Hegel, aveva maturato una diversa concezione del divenire della storia e della struttura dialettica della realtà.  Attività letteraria a Torino A Torino la cultura moderata gli negò una cattedra, ma De Sanctis riuscì comunque a svolgere un'intensa attività letteraria. Trovò un incarico di insegnante presso una scuola privata femminile dove insegnò lingua italiana, diede lezioni private, collaborò a vari giornali dell'epoca come "Il Cimento", divenuto in seguito "Rivista Contemporanea", "Lo Spettatore", "Il Piemonte", "Il Diritto" e iniziò a tenere conferenze e lezioni, tra le quali quelle famose su Dante che, per la loro originale impostazione e per l'analisi storica e poetica, gli fecero ottenere, nel 1856, una cattedra di letteratura italiana presso il Politecnico federale di Zurigo.  Anni di Zurigo  Francesco De Sanctis nel periodo zurighese (1856-1859) A Zurigo, dove insegnò dal 1856 al 1860, il De Sanctis tenne lezioni su Dante, sui poemi cavallereschi italiani e su Petrarca. Zurigo, che in quegli anni era sede di grande confronto intellettuale, diede a De Sanctis l'occasione di elaborare meglio il proprio metodo critico, di approfondire le proprie meditazioni filosofiche e di raccogliere il materiale documentario, tra il quale assai importante risultano essere le conferenze petrarchesche del 1858-1859 che saranno la base del saggio pubblicato nel 1869 a Napoli dall'editore Morano. Ebbe anche l’occasione di diventare membro attivo del Circolo degli Scacchi della Città: “Ieri sono stato eletto membro della società degli scacchi, pagando il diploma quattro franchi. È la prima società tedesca di cui faccio parte. Qui tutto si risolve in società” [4]  Ritorno in patria Intanto, con l'unione nel 1860 del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna per la costituzione del Regno d'Italia, il De Sanctis poté tornare in patria, dove portò avanti, contemporaneamente alla sempre fervida attività letteraria, anche l'attività politica.  Nel 1860 conobbe Giuseppe Mazzini e, dopo aver interrotto il ciclo di lezioni sulla poesia cavalleresca, sottoscrisse il manifesto del Partito d'Azione per caldeggiare l'unificazione e per combattere le idee estremiste dei repubblicani.  Da quel momento egli si immerse di slancio nella nuova realtà politica italiana, ritrovando nell'azione la possibilità di rendere concreto l'ideale appreso da Machiavelli, Hegel e Manzoni e cioè quello dell'uomo totalmente impegnato nella realtà.  Attività letteraria e attività politica Si dedicò pertanto ininterrottamente, ora all'attività di politico e ministro, ora a quella di giornalista, ora a quella di critico e storico della letteratura e infine a quella di professore.  Cariche politiche In seguito alla conquista di Garibaldi, il De Sanctis venne nominato governatore della provincia di Avellino e per un brevissimo periodo fu ministro nel governo Pallavicino, collaborando per il rinnovamento del corpo accademico napoletano.  Nel 1861 venne eletto deputato al parlamento nazionale, aderendo alla prospettiva di una collaborazione liberal-democratica, e accettò il ministero della pubblica istruzione nei gabinetti Cavour e Ricasoli per cercare di attuare la difficile opera di fusione tra le amministrazioni scolastiche degli antichi stati.  Nel 1862 passò però all'opposizione e, in collaborazione con il Settembrini, promosse una "Associazione unitaria costituzionale" di sinistra moderata, che ebbe come voce il quotidiano "Italia", diretto dallo stesso De Sanctis dal 1863 al 1865. In questo ambito espose la sua visione politica nello scritto Un viaggio elettorale.  Intenso impegno di studi «Come critico e storico della letteratura, [De Sanctis] non ha pari.»  (Benedetto Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, II, 15[6])  Il fallimento nelle elezioni del 1865 coincise con il ritorno del De Sanctis a un grande impegno di studi concentrato sulla struttura di una storiografia letteraria che fosse di respiro nazionale, questione che affronterà nei saggi sulle Storie letterarie del Cantù in Rendiconti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli del 1865, e sul Settembrini, Settembrini e i suoi critici, in Nuova Antologia (marzo 1869).  Nel frattempo De Sanctis stava già lavorando a una Storia della letteratura italiana che, nata come testo scolastico, si sviluppò assai presto in un'opera di ampia e complessa portata.  Dal 1872 De Sanctis insegnò letteratura comparata presso l'Università di Napoli e quell'anno accademico iniziò con il discorso su "La scienza e la vita". I corsi da lui tenuti in quegli anni si intitolano a Manzoni (1872), la scuola cattolico-liberale (1872-'74), la scuola democratica (1873-'74), Leopardi (1875-1876). Questi scritti, che svolgono tutti quei temi di letteratura contemporanea che nella storia della letteratura non ebbero spazio per esigenze editoriali, furono raccolti da Francesco Torraca e solo in parte rivisti dal De Sanctis.  Ultima fase della vita Nel 1876, prevalendo la Sinistra, De Sanctis si dimise da professore e accettò da Benedetto Cairoli un nuovo incarico ministeriale (1878-1880), mentre il suo interesse critico si rivolgeva al naturalismo francese, come testimonia lo Studio sopra Emilio Zola che apparve a puntate sul "Roma" nel 1878 e lo scritto "Zola e l'assommoir" pubblicato nel 1879 a Milano.  Intervenne in Parlamento dopo il tentativo di attentato al re Umberto I da parte dell'anarchico Giovanni Passannante, manifestando la sua contrarietà di sincero democratico ad ogni tipo di repressione:  «Io, signori, non credo alla reazione; ma badiamo che le reazioni non si presentano con la loro faccia; e quando la prima volta la reazione ci viene a far visita, non dice: io sono la reazione. Consultatemi un poco le storie; tutte le reazioni sono venute con questo linguaggio: che è necessaria la vera libertà, che bisogna ricostituir l'ordine morale, che bisogna difendere la monarchia dalle minoranze. Sono questi i luoghi comuni, ormai la storia la sappiamo tutti, sono questi i luoghi comuni, coi quali si affaccia la reazione.  Ritornato a Napoli, si dedicò alla rielaborazione del materiale leopardiano, che fu pubblicato postumo nel 1885 con il titolo Studio su G. Leopardi, e alla dettatura di ricordi autobiografici che arrivano fino al 1844, pubblicati da Villari con il titolo La giovinezza: frammento autobiografico.  Colpito da una grave malattia agli occhi, De Sanctis morì a Napoli nel 1883. In suo onore la città natale, Morra Irpina, è stata ribattezzata Morra De Sanctis.  De Sanctis fu membro della Massoneria[8][9].  Post mortem Nel 2007, in suo nome, viene istituita la Fondazione De Sanctis, ente che dal 2009 organizza annualmente il Premio De Sanctis per la saggistica ed altri eventi di carattere culturale. Opere S. enunciò i suoi principi critici in diversi scritti di carattere non esclusivamente teorico e il suo pensiero non è esposto in opere autonome e organiche di poetica e di estetica. Il problema dell'arte non divenne mai per De Sanctis oggetto di un discorso rigorosamente filosofico, tuttavia le sue sparse meditazioni su di esso contengono i principi fondamentali dell'estetica moderna e rivelano quanto fossero solide le fondamenta del suo pensiero critico.  Storia della letteratura italiana  Storia della letteratura italiana, volume I, riedizione del 1912 (testo completo)  Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura italiana (Francesco De Sanctis). La Storia della letteratura italiana deve considerarsi il capolavoro critico del De Sanctis. In essa l'autore ricostruisce in modo mirabile lo sfondo storico critico-civile dal quale nacquero i capolavori della letteratura italiana. In quest'opera compare la frase "il fine giustifica i mezzi" che De Sanctis usa come esempio errato di come riassumere il pensiero di Niccolò Machiavelli, e che è stata successivamente attribuita erroneamente proprio al pensatore fiorentino.  Altre opere Tra gli studi del de Sanctis spicca il Saggio critico sul Petrarca mentre tra i lavori inclusi nei Saggi critici e nei Nuovi Saggi critici meritano di essere menzionati quelli su episodi della Divina Commedia, su L'uomo del Guicciardini, su Schopenhauer e Leopardi oltre Il darwinismo nell'arte e quelli su Emilio Zola.  Da ricordare ancora è il discorso La scienza e la vita del 1872 nel quale egli, sostenendo la necessità di non separare la scienza dalla vita, prese posizione nei riguardi dell'allora dilagante positivismo.  Scrittore vivace e singolare in una "prosa parlata che ha la spontaneità del discorso vivo", il De Sanctis si rivela un piacevole narratore nel frammento autobiografico La giovinezza  e nelle quindici lettere che costituiscono il resoconto di Un viaggio elettorale scritto nel 1876.  Pensiero In un periodo in cui l'entusiasmo per lo storicismo idealistico era scomparso e la critica, sia europea che italiana si era spenta e si orientava verso la ricerca filologico-erudita, si trovano ancora nel pensiero di De Sanctis i motivi più significativi e vitali della cultura romantica.  De Sanctis stabilì nella sua Storia della letteratura italiana il legame tra il contenuto e la forma con lo scopo di ricostruire quel mondo culturale e morale dal quale sarebbero nate in seguito le grandi opere.  Egli considera l'arte come il "vivente", cioè la "forma", ritenendo che tra forma e contenuto non esista dissociazione perché esse sono l'una nell'altra.  Nelle pagine di De Sanctis vi è una felice vena di scrittore. Egli infatti scrive con una prosa antiletteraria, fervida e mirabile per l'immediatezza del pensiero.  Il pensiero del De Sanctis venne contrastato dal positivismo della scuola storica. Sarà solamente con Croce che avrà inizio la rivalutazione del pensiero desanctisiano che troverà, attraverso Gramsci, importanti sviluppi nella critica di ispirazione marxista. Galasso ha scritto, citando tra gli altri Delio Cantimori, che De Sanctis, esprimendo un giudizio negativo sul Cinquecento in relazione al Rinascimento, vede un rapporto di continuità tra il Quattrocento e il Cinquecento. Nel Quattrocento è compiuta la separazione tra borghesia e popolo rispetto al «blocco compatto dell’intuizione, delle concezioni, della fede, della moralità proprie del Medioevo», ma, mentre il Quattrocento è un secolo vivo, creativo, aperto, dove c’è «ancora un magistero reale rispetto all’Europa», nel Cinquecento non si può che constatare, parole di De Sanctis, «la separazione da tutti i grandi interessi morali, politici e sociali che allora commuovevano e ringiovanivano molta parte dell’Europa».[11]  Metodo Il metodo della critica desanctisiana nasce, oltre che da una geniale elaborazione intellettuale, da una forte esigenza di intraprendere una battaglia culturale.  La critica di De Sanctis fu quindi una critica militante, il tentativo di superare per sempre il distacco tra l'artista e l'uomo, tra la cultura e la vita nazionale, tra la scienza e la vita.  Lo scrittore non è mai per De Sanctis un uomo isolato e chiuso in sé stesso, ma inquadrato nel contesto che lo circonda, cioè la sua civiltà e la sua cultura.  Estetica Discepolo del Puoti, De Sanctis inizia fin dalla sua prima scuola  la critica del formalismo puristico e retorico e si pone sia contro la poetica del Cinquecento sia contro quella del Settecento, accademica e neoclassica.  In quegli anni a Napoli iniziò a penetrare la filosofia di Hegel e il De Sanctis agli inizi studiò e aderì all'estetica del grande filosofo tedesco anche se era in lui già latente la ribellione che divenne esplicita in occasione della pubblicazione del suo "Saggio sul Petrarca".  Hegel sosteneva infatti che l'arte fosse "l'apparenza sensibile dell'Idea" e quindi che l'opera d'arte fosse simbolo del concetto filosofico e quasi una forma provvisoria di esso. Una simile dottrina conferiva carattere teoretico all'arte, ma ne comprometteva l'autonomia, tant'è vero che Hegel prevedeva alla fine dell'epoca romantica la morte dell'arte. S. contrappose all'estetica hegeliana, l'estetica della forma intesa come un'attività originaria e autonoma dello spirito, per mezzo della quale la materia sentimentale si realizza in figurazione artistica. In questo modo essa non è un'elaborazione di un contenuto astratto, ma unità di contenuto e forma.  Su questi fondamenti si basa la critica del De Sanctis che fu una vera rivoluzione nella tradizione letteraria italiana.  Specchietto cronologico  - Nasce a Morra Irpina. Frequenta la scuola privata dello zio Carlo. Passa nel liceo dell'abate Fazzini, poi nello "Studio" del Garzini.  - Nella scuola superiore di Basilio Puoti. 1839 - Fonda la scuola privata superiore al vico Bisi, mentre sostituisce lo zio Carlo nella sua. Viene nominato insegnante nel Collegio militare della Nunziatella. Combatte alle barricate. Viene sospeso dal Collegio della Nunziatella. Si ritira in Calabria, a Cosenza. È arrestato e incarcerato in Castel dell'Ovo. Viene liberato ma deve andare in esilio: in Piemonte, a Torino. È a Zurigo, insegnante di letteratura italiana al politecnico. Ritorna a Napoli. Eletto Governatore della provincia di Avellino. Nel settembre è nominato da Garibaldi Direttore dell'Istruzione pubblica. Provvedimenti per rinnovare l'Università. Deputato del Regno d'Italia e ministro dell'Istruzione. Torna agli studi: è il periodo della sua più intensa attività letteraria.  - Ministro dell'Istruzione.  - Di nuovo Ministro dell'Istruzione  - Muore a Napoli. L'atto di nascita è disponibile sul Portale Antenati  Da notare che all'epoca con "napoletani" (o "napolitani") sovente non si intendevano solo gli abitanti della città di Napoli e dintorni, ma più ampiamente gli abitanti dell'intero Regno di Napoli, consistente nell'attuale Sud Italia continentale. ^ Unita italiana, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. . ^ Francesco Saverio De Sanctis, lettera inviata all’amico Camillo De Meis, Zurigo .Barra, Aspettando De Sanctis: le origini del Viaggio elettorale e il collegio di Lacedonia nel 1874-75, in "Le Carte e la Storia, Rivista di storia delle istituzioni" Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, a cura di Audisio, Napoli, Bibliopolis E, come critico e storico della letteratura, egli non ha pari» ^ Francesco De Sanctis, Scritti politici - raccolta di discorsi e scritti, su books.google.it. ^ Scrittori, poeti e letterati massoni  in Internet Archive. sul sito della Gran Loggia d'Italia degli Alam. ^ Paolo Mariani - Massoneria e letteratura italiana (PDF), su centroculturaleilfaro.it. ^ Premio De Sanctis per la saggistica, su beniculturali.it. ^ Giuseppe Galasso, De Sanctis e i problemi della storia d'Italia, sta in Archivio di storia della cultura, a. 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Gallo, introduzione di N. Sapegno, Einaudi, Torino. Verso il realismo, prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica e saggi di metodo critico, a cura di N. Borsellino, Einaudi, Torino . Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introd. di N. Sapegno, Einaudi, Torino 1958. Manzoni, a c. di C. Muscetta e D. Puccini, Einaudi, Torino 1955. La scuola cattolica-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, Einaudi, Torino 1953. Mazzini e la scuola democratica, a cura degli stessi, Einaudi, Torino . Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Einaudi, Torino 1961. L'arte, la scienza e la vita, nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari, a c. di M. T. Lanza, Einaudi, Torino 1972. Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, scritti e discorsi politici, a c. di F. Ferri, Einaudi, Torino 1960. I partiti e l'educazione della nuova Italia, a c. di N. Cortese, Einaudi, Torino . 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Voci correlate Storia della letteratura italiana (Francesco De Sanctis) Schopenhauer e Leopardi, dialogo composto da De Sanctis Francesco Muscogiuri, letterato minore che fu allievo di De Sanctis Giovanni Lanzalone, letterato minore che fu allievo di De Sanctis Antonio Fogazzaro Attilio Marinari Fondazione De Sanctis Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Francesco de Sanctis Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Francesco de Sanctis Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Francesco de Sanctis Collegamenti esterni De Sànctis, Francesco, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Walter Maturi e Francesco Formigari -, DE SANCTIS, Francesco, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana S., Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. 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Modifica su Wikidata Francesco De Sanctis, su storia.camera.it, Camera dei deputati. Modifica su Wikidata Mario Fubini, De Sanctis, Francesco, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. URL consultato il 14 novembre 2018. Andrea Battistini, De Sanctis, Francesco, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. URL consultato il 14 novembre 2018. Critica:De Sanctis, su spazioinwind.libero.it. Concordanze della Storia della letteratura italiana, su valeriodistefano.com. URL consultato il 14 aprile 2007 (archiviato dall'url originale l'8 ottobre 2007). Opere di Francesco De Sanctis PDF - TXT - RTF V · D · M Idealismo V · D · M Romanticismo V · D · M Dante Alighieri V · D · M Alessandro Manzoni Controllo di autorità       VIAF (EN) 29550332 · ISNI (EN) 0000 0001 2125 8789 · SBN MILV041882 · BAV 495/85309 · CERL cnp00397977 · LCCN (EN) n80040587 · GND (DE) 11867790X · BNE (ES) XX1041520 (data) · BNF (FR) cb12035617n (data) · J9U (EN, HE) 987007271889705171 · NSK (HR) 000033336 · NDL (EN, JA) 00746422 · CONOR.SI (SL) 9781859   Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Letteratura   Portale Politica   Portale Storia   Portale Storia d'Italia Categorie: Deputati dell'VIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della IX legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della X legislatura del Regno d'ItaliaDeputati dell'XI legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XIV legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XV legislatura del Regno d'ItaliaCritici letterari italiani del XIX secoloSaggisti italiani del XIX secoloPolitici italiani del XIX secoloNati nel 1817Morti nel 1883Nati il 28 marzoMorti il 29 dicembreNati a Morra De SanctisMorti a NapoliPolitici del Partito d'AzioneMinistri della pubblica istruzione del Regno d'ItaliaInsegnanti della NunziatellaGoverno Cavour IVGoverno Ricasoli IGoverno Cairoli IGoverno Cairoli IIIIdealismo italianoMassoniProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II Professori del Politecnico federale di Zurigo[altre] La crisi della GRAMMATICA RAGIONATA IN ITALIA non puo mancare : ed è veramente risolutiva. Di GRAMMATICA RAGIONATA si finisce, dopo una colluvie d’aride o elementari produzioni di epigoni ritardatari, col non parlarne più, e d’essa non restano tracce che nell’esercitazioni scolastiche di analisi logiche e grammaticali ancora in uso nelle nostre scuole e sulle quali talvolta rispunta come fungo qualche compendio di grammatica logica rivestito di pompa scientifica. La crisi è determinata da un duplice ordine di fatti, tra i quali non so se veramente corra un'intima relazione. L’uno che riguarda direttamente il corpo, dirò così, della GRAMMATICA RAGIONATA, ed è il non difficile né tardivo avvertire in esso un vuoto sostanziale e perciò tutta la sua infecondità sotto ogni rispetto, scientifico e didattico. L’altro che si riferisce allo stato in che venne a trovarsi la lingua italiana sotto la bufera dell'enciclopedismo, ed è la naturale quanto però anti-filosofica reazione al gallicismo, che doveva richia- [Borsa, nella Dissertazione del decadimento della lingua in Italia, Mantova, l'anno in cui è pubbl. il Saggio di Cesarotti) già incolpa appunto di quel decadimento il neologismo gallico e il FILOSOFISMO enciclopedico.] mare, come facile conseguenza di una premessa sbagliata, alla religiosa osservanza, alla maniaca adorazione degl’antichi i puristi inorriditi al novissimo strazio d'Italia. Le vicende di questa crisi si possono molto chiaramente osservare, da una parte, in quel che accadde a SANCTIS (si veda) scolaro e co-operatore di Puoti, e che egli narra non senza il lume d'una critica sempre nuova e originale e acuta, anche se, come in questo caso, non definitivamente superatrice. Dall'altra, nella critica e nella pratica di Manzoni, che con stringenti argomenti colpi a morte LA GRAMMATICA RAGIONATA, sebbene non muove da un punto di vista estetico. SANCTIS (si veda), quando accorse alla scuola di Puoti, ha già compiuto gli studi di grammatica, rettorica e FILOSOFIA, che oggi corrispondono al ginnasio e al liceo, i primi (ginnasio) sotto suo zio Carlo, i secondi (liceo) sotto Fazzini, non avendolo voluto ricevere i Gesuiti per la sua impreparazione. Un grand 'esercizio di memoria era in quella scuola dello zio, dovendo ficcarci in mente i versetti del Portoreale che s'impara in certi suoi manoscritti, come le antichità e la cronologia, la grammatica di Soave, la rettorica di Falconieri, le storie di Goldsmith, la Gerusalemme di Tasso, le ariette di Metastasio. Alla fine del corso scrive l'italiano con uno stile pomposo e rettorico, un italiano corrente, mezzo gallico, a modo di Beccaria e di Cesarotti, ch'erano i suoi favoriti. La scuola di Fazzini è quello che oggi si dice un liceo. Vi s' insegna FILOSOFIA, fisica e matematica. Il corso si puo fare in due anni. Quell'è l'età dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina comincia la sua carriera aprendo una scuola. La scuola di Puoti, su cui è stata scritta recentemente una degna monografia da un discepolo di Salvadori (Caraffa, Puoti e la sua scuola, Girgenti), si svolge in tre periodi, l’ultimo dopo due anni d'interruzione causata dalla pestilenza scoppiata a Napoli. SANCTIS (si veda) - Frammento autobio- grafico pubblicato «fo Villari ; Napoli. I seminari sono scuole di LATINO e di FILOSOFIA, le scuole del governo erano affidate a frati, la forma dell' insegnamento era ancora scolastica. Rettorica e FILOSOFIA sono scritte in quel LATINO convenzionale ch’è proprio degli scolastici. Le scienze vi erano trascurate, e anche LA LINGUA NAZIONALE. Nondimeno un po’di secolo decimottavo è pur penetrato fra quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a braccetto il sensismo e lo scolasticismo. Nelle scuole della capitale v'è maggior progresso negli studi. IL LATINO PASSA DI MODA. Si scrive di cose scolastiche in un italiano scorretto, ma chiaro e facile. Gl’autori erano quasi tutti abati, come l'abate GENOVESI (si veda), il padre SOAVE (si veda), l'abate TROISE (si veda). Allora è in molta voga l'abate FAZZINI (si veda). Questo prete elegante, che ha smesso sottana e collare, veste in abito e cravatta nera, è un sensista; ma pretende conciliare quelle dottrine coi principii religiosi. Accanto alla scuola, per chi ha voglia d' imparare, c’è naturalmente la biblioteca. Corsi alla biblioteca e mi ci seppellii. Passano dinanzi a me come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, La Mettrie... Mi ricordo ancora quella STATUA di Bonnet, che a poco a poco, per mezzo dei sensi acquista tutte le conoscenze. Il professore dice che il sensismo è una cosa buona sino a Condillac, ma non bisogna andare sino a La Mettrie e ad Elvezio. Ragione per cui ci anda SANCTIS (si veda) con l'amara voluttà della cosa proibita. Compiuti così gli studi filosofici, avvezzo a una vita interiore, avevo pochissimo gusto per i fatti materiali, e badavo più alle relazioni tra le cose, che alla conoscenza delle cose. La scuola ci ha non piccola parte, perchè è scuola di forme e non di cose, e si attende più ad imparare le parole e le argomentazioni, che le cose a cui si riferivano. Ma si avvicina il [Ha già conosciuti altri filosofi, naturalmente. «Il professore fa una brillante lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E questo Leibnizio divenne il mio filosofo E come l'una cosa tira l'altra, Leibnizio mi fu occasione a leggere Cartesio, Spinoza, Malebranche, Pascal, libri divorati tutti e poco digeriti. Questo è il mio corredo d’erudizione filosofica verso la fine dell'anno scolastico, quando zio ci dice. Ora bisogna cercarvi un maestro di legge. Si batte già alle porte dell'Università.] tempo in cui il sensismo, male accordato col movimento religioso, doveva cedere il passo a nuova filosofia. Si annunziava al mio spirito un nuovo orizzonte filosofico; mi bollivano in capo nuovi libri e nuovi studi. Si apparecchiavano i tempi di Galluppi e dall'abate Colecchi, de' quali l'uno volgarizzava Hume e Smith, e l'altro, ch'era per giunta un gran matematico, volgarizza Kant. Fazzini è caduto di moda. Per questi insegnamenti e in queste condizioni intellettuali il De Sanctis, invano iniziati gli studi di legge, passava alla scuola del marchese. È proprio di questi tempi che la grammatica del sensismo condillachiano, che vedemmo trionfare concentrata in estratti per gli stomachi degli scolaretti italiani, si vienne a trovare a fronte di due ben forti e agguerriti avversari, il kantismo e il purismo. Questo, dalla restaurazione linguistica di Cesari, iniziata con la famosa dissertazione coronata dall'Accademia livornese, era venuto sempre più guadagnando terreno nelle forme in cui l'aveva circoscritto Cesari, nonostante gli attacchi della Proposta monti-perticariana e dell’anti-purismo tortiano, e nonostante l'esempio pratico del romanzo manzoniano in cui fin dalla prima sua edizione s' era voluta incarnare tut- t'un'altra dottrina linguistica. La reazione al gallicismo è tanto più vasta e tenace della tesi temperata del classicista Monti e del modernismo del romantico Manzoni, quanto più compromessa sembrava la gloria d'Italia nella dilagante corruzione dell'aurea favella un dì sì onorata. Ne furono rocche meno facilmente espugnabili la Romagna e Napoli e organi di gran voce alcuni giornali, come la Biblioteca di Milano, il Giornale Arcadico di Roma e la Rivista enciclopedica di Napoli. Ma tra i puristi, non per sola virtù di dottrina, sì bene anche per le qualità della persona e i modi dell'insegnamento, il più autorevole, quegli che veramente esercitò una più vasta e duratura efficacia sulle menti, sulle scuole, sui metodi, sui (') Op. cit., pp. 51-2. ("} V. Tkahai.za, Della vita e delle opere di /•'. Torti cit., p. 79 sgg. L'ha dimostrato Morandi ne' suoi noti saggi sull'unità della liaeua.] libri, è il marchese Puoti, maestro, autore di grammatiche e di arti del dire, annotatore di testi di lingua, pedagogista. Alla scuola del Puoti, dice SANCTIS (si veda), « lasciai studi di FILOSOFIA e di legge, e letture di commedie, di tragedie e di romanzi e di poesie, e mi gittai perdutamente tra gli scrittori dell' aureo Trecento»^). M'era venuta la frenesia degli studi grammaticali. Avevo spesso tra mano Corticelli, Buonmattei, Cinonio, Salviati, Bartoli, Salvini, Sanzio, e non so quanti altri dei più ignorati. M'ero gittato anche sui Cinquecentisti, sempre avendo l'occhio alla lingua. Si trova in quel tempo a dover sostener sulle proprie spalle il peso della scuola dello zio. La sera anda sempre alla scuola di Puoti. Ma tutta la giornata è spesa a spiegar grammatiche e rettoriche e autori latini, a dettar temi, a correggere errori. Ma quei cari studi mi riuscivano acerbi, non solo per la fatica, ma perche non sono più d'accordo con la mia coscienza. Quel Soave, quel Falconieri li fanno pietà. Nelle classi superiori puo elevarsi un po' più. Cominciai a fare osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico delle idee, sulla espressione del sentimento, sulle INTENZIONI e sulle malizie dello scrittore. Momenti più deliziosi passa alla scuola del marchese, dove egli ben presto si distinse specie nelle cose della grammatica, tanto da meritarsi l'appellativo di grammatico, ed è sollevato all'onore di coadiuvare il maestro nell'insegnamento, quando, dopo l'interruzione cagionata dal colera, Puoti, cominciatosi a stancare dei novizi, ne lascia tutta la cura a SANCTIS (si veda). Il marchese che lavora a una grammatica, attende pure alla pubblicazione di alcuni testi di lingua più a lui cari, come i Fatti d' Enea, i Fioretti di S. Fra?icesco, le Vite dei Santi Padri. Questi studi [Sulla scuola del De Sanctis, v. le belle pagine del Cenno biografico di Nicola Gaetani-Tamburini in De-Sanctis, Scritti vari, li, ed. Croce, già cit. nell' Introduz. Di quella che è stata chiamata la seconda scuola di SANCTIS (si veda) si sono occupati degnamente, come è noto, Torraca e Mandalari.] di lingua si sono già divulgati nelle scuole, e si sente il bisogno di grammatica e di libri di lettura pei giovanetti. Anche in questi lavori l'allievo aiuta il maestro. Di questo tempo fa intima amicizia con Amante, che è un infatuato di VICO (si veda). In una visita onde Leopardi onora la scuola del Puoti, — che cita spesso con lodi l'abate Greco, autore di una grammatica, il marchese di Montrone, Gargallo, Cesari e sopra tutti essi Giordani, si sentì dire dal Poeta che aveva molta disposizione alla critica. In quell'occasione Leopardi, cui non poteva sfuggire la rigidezza di Puoti, dice che nelle cose della lingua si vuole andare molto a rilento, e cita in prova Torto e Diritto di Bartoli. Leopardi dice anche che l'onde coli' infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o scandalo di tutti noi. Il Marchese era affermativo, imperatorio, non pativa contraddizioni. Se alcuno di noi si è arrischiato a dir cosa simile, anda in tempesta; ma il conte parla così dolce e modesto, ch'egli non dice verbo. Gli è anche che ormai quel rigido, implacabile purismo comincia a dover piegare o almeno ad ammollirsi . Alla ripresa della scuola dopo il colera il marchese se n'era venuto d’Arienzo, con certi grossi quaderni scritti di suo pugno. È una specie di nuova rettorica immaginata da lui, e che egli battezza Arte dello scrivere. C'è una divisione dei generi dello scrivere, accompagnata da regole e da precetti. Aristotile, CICERONE (si veda), Quintiliano, Seneca sono la decorazione. O mi metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un capolavoro, così dice, narrando per quali vie era giunto alla grande scoperta. A quel tempo sono in gran voga gli STUDI FILOSOFICI, e il marchese, seguendo la moda, vuole filosofare anche lui, e da alle sue ricerche un aspetto e un rigore di logica, ch'è veste e non sostanza. E non gli è mancata la berlina. Ma lo salva un certo suo naturai buon senso. Ma chi dai bassi fondi [deep berths – Grice] della grammatica prende il volo filosofico, è SANCTIS (si veda), specie quando, trovandosi al sicuro dallo sguardo del marchese nella scuola preparatoria, puo lasciarsi trascinar dal suo genio a quell'onda di ribellione, che fa naufragare il senno del Maestro. Ed è nella scuola preparatoria, che nelle lezioni private o nell'insegnamento del Collegio militare, al quale è assunto per la stima che godeva presso Puoti, che n'è ispettore, il Maestro intede soprattutto a rinnovare l'insegnamento grammaticale. Ne uscirono, con la liquidazione della GRAMMATICA RAGIONATA, un abbozzo di GRAMMATICA FILOSOFICA e storica e un saggio di una storia dei grammatici. Quelle maledette regole grammaticali io le ridussi in poche, moltiplicando le applicazioni e gl’esempi, e sempre lì sulla lavagna. Mi persuasi che quello resta chiaro e saldo nella memoria, che è ordinato sotto categorie e schemi, logicamente. Così nasceno i suoi quadri grammaticali. Si sbriga della grammatica, e capii che lo studio della grammatica così come si suol fare, per regole, per eccezioni e per casi singoli, è una bestialità piena di fastidio Posi da banda le analisi grammaticali e l'analisi logica, noiosissime, e fa l'analisi delle cose, a loro gustosissime. Questo al Collegio. Nella scola al Vico Bisi, il lunedì e il venerdì, quand'è solo, l'insegnamento grammaticale si eleva ancora di più. Parecchi anni è a leggicchiar grammatiche, lavorando intorno a quella di Puoti. Così si mette in corpo i Dialoghi della volgar lingua di BEMPO (si veda)... m'inghiottii VARCHI (si veda), FORTUNIO (si veda) e i sottili avvertimenti di SALVIATI (si veda) e la prosa dottorale di CASTELVETRO (si veda) e BARTOLI (si veda) e CINONIO (si veda) ed AMENTA (si veda) e SANZIO (si veda) e non so quanti altri autori, con approvazione del marchese Puoti, il quale mi vanta sopra tutti gli altri Corticelli e Buonmattei. Seccatosi presto della parte riguardante le origini della lingua e delle forme grammaticali, perchè non ha, fondamento sodo, infastidito di quel pullular perpetuo di regole e d’eccezioni, stordito da tutte quelle DISSERTAZIONE SOTTILI E CAVILLOSE SULLE PARTI DEL DISCORSO e sulle forme grammaticali, ritorna ai suoi antichi studi di FILOSOFIA. Quei Salviati e quei Castelvetri le pareno addirittura pigmei dirimpetto a quei grandi, mia delizia un giorno e mio amore. Perciò si getta con avidità sopra i retori e i grammatici con un segreto che li cresce l'appetito, vedendosi sempre addosso gli occhi del marchese. Lessi tutto il corso che Condillac compila a uso di non sa qual principe ereditario. Studia molto Tracy e Du Marsais. Il Marchese, sapido dei miei studi MI perdona, a patto che non valica i confini della grammatica, e m'indica un tale, che SANCTIS (si veda) non ricorda, come un buon scrittore di grammatica generale. Il buon Marchese fa anche di più: rivide le prolusioni del professore mettendoci quello stampo tutto suo di classicità ideale. Le prime lezioni sono una storia della grammatica. In quei discorsi prende 1’aria di un novatore, e trova che tutto va male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come mi venne in quei giorni sotto la penna. Niuna pratica dell'arte dello scrivere; niuna cognizione de' nobili scrittori; malvagio gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo purità, correzione; esempli contrari di barbarismi ed errori. Così la grammatica moderna ricca di stranieri trovati splendidi in astratto, ma nella pratica o falsi o di poco profitto, per difetto della parte storica molto è discapitata di quella perfezione in che è al cinquecento. In malvagio stato trovasi LA SINTASSI: squallida e incerta è l'ortografia; le regole del ben pronunziare dubbiose e mal ferme. Niente di certo. Niente di determinato intorno alla dipendenza de’tempi, al reggimento delle congiunzioni. Principii opposti. Opinioni contrarie. Nelle lezioni vuole fare una storia delle forme grammaticali – cf. Grice, ‘or’, ‘other, ‘not, ‘ne aught’. Ma al pensiero gigantesco mal risponde la cultura, attesa la sua scarsa grecità e l'ignoranza delle cose orientali. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali, dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce nei modesti confini di una storia dei grammatici da se letti. Parla dei grammatici che TUTTO DERIVANO DAL LATINO. Poi venni a quelli che sono studiosi della [Alcuni brani di essi furono pubblicati ne' Nuovi saggi critici, col titolo Frammenti discuoia, dell'ed. di Napoli. Il periodo tra parentesi quadre, che qui è sostituito dai puntini, l'ho tratto da un brano integro de' Nuovi saggi critici.] lingua, copiosi di regole e d’esempli, che moltiplicano in infinito. Molto s’intrattenni su Corticelli, Buonmattei, Salviati e Bartoli. Censura quel moltiplicare infinito di casi -- cf. Grice, the search for principle of generality -- e di regole che si riduceno in pochi principii. Quella tanta varietà di forme e di significati (massime nel Cinonio), che era facile ricondurre ad unità. Facevo ridere, pigliando ad esempio Va, il per-, il da, irti di sensi e che pur non avevano che un senso solo. La mia attenzione andava dalle forme al contenuto, dalle parole alle idee; sicché, sotto a quelle apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, io vedeva una logica animata, e tutto metteva a posto, in tutto discerneva il regolare e il ragionevole, non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con questa tendenza filosofica, corroborata da studi vecchi e nuovi, io conciavo pel di delle feste i Cinquecentisti, e facevo lucere innanzi alla gioventù uno schema di grammatica filosofica e metodica, quale appariva negli scrittori francesi. Dicevo che costoro erano eccellenti nell'analisi delle forme grammaticali, risalendo alle forme semplici e primitive : così amo vuol dire io sono amante. La ellissi era posta da loro come base di tutte le forme di una grammatica generale. Questo non mi contentava che a mezzo. Io sosteneva che quella decomposizione di amo in sono amante m'incadaveriva la parola, le sottraeva tutto quel moto che veniva dalla volontà in atto. I giovani sentivano quei giudizi acuti con raccoglimento, e mi credevano in tutta buona fede quell'uno che doveva oscurare i francesi e irradiare l' Italia di una scienza nuova. E in verità io sosteneva che la grammatica non era solo un'arte, ma ch'era principalmente una scienza: era e doveva essere. Questa scienza della grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, era per me ancora un di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche era una protesta contro la pedanteria passata, e voleva dire che non bastava dare le regole ma che di ciascuna regola bisognava dare i motivi e le ragioni. Paragonavo i grammatici o accozzatori di regole agli articolisti, che credevano di sapere il Codice, perchè si ficcavano in capo gli articoli, parola per parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non era ancora la scienza. Così il De Sanctis, erudito primamente sul Soave in un'atmosfera filosofica, passato poi per il purismo del Puoti, ritornato con maggior maturità alla scienza, veniva a una generale liquidazione di tutti i grajnmatici antichi e moderni, cioè della grammatica ragionata in ispecie, e della grammatica precettiva in genere, ma non della grammatica come scienza. Che nella sua critica negativa superasse la grammatica ragionata e creasse veramente la scienza non si può dire: interamente, come s'è visto, non si appagò dei migliori grammatici filosofici di Francia, come il Du Marsais ; ma egli, almeno nel periodo del suo primo insegnamento, secondo quanto narra lui stesso, rimase sempre sotto la loro influenza. Anche nella parte pratica, nel metodo, egli arieggia molto davvicino il Du Marsais ('), superandolo nella abilità di trasformar la grammatica in critica concreta dell'opera d'arte. La sua concezione della grammatica, o meglio del linguaggio, pur avendo egli concepito una grammatica scientifica o estetica, è la medesima. Va però subito detto a lode del De Sanctis, che egli stesso ebbe coscienza, negli anni maturi, della manchevolezza del sistema. Racconta infatti : « così trovavo nella logica il fondamento scientifico della grammatica ; e finché mi tenevo nei termini generalissimi di una grammatica unica, come la concepiva Leibnitz, il mio favorito, la mia corsa andava bene. Ma mi cascava l'asino, quando veniva alle differenze tra le grammatiche, spesso in urto con la logica, e originate da una storia naturale o sociale, piena di varietà e poco riducibile a principi fissi. Per trovare in quella storia la scienza, si richiedeva altra cultura e altra preparazione. Nella mia ricerca dell'assoluto, avrei voluto ridurre tutto a fil di logica, e concordare insieme derivazioni, scrittori e popolo; ma, non potendo sopprimere le differenze e guastare la storia, ponevo 1'ingegno a dimostrare la conformità del fatto grammaticale colla logica, della storia colla scienza. Quell'avvertita irrudicibilità delle differenze tra le varie grammatiche e principi fissi dimostra chiaramente che SANCTIS (si veda) intuiva dov'era la soluzione del problema : e a lui non filosofo di professione ciò non è scarso titolo d'onore; il dissidio egli lo compose, e in grado eccellente, insuperato, nella critica, nella quale la parola viva, la grammatica parlata dall'arte, fu da lui illustrata in tutta la sua forza espressiva : scientificamente toccò, in quegli stessi anni, il risolverlo a Guglielmo di Humboldt, col quale e col suo seguace e correttore Steinthal si può veramente affermare che la grammatica sia esclusa dall'orbita della filosofìa, sebbene non avvenisse ancora l' identificazione della linguistica generale con l'estetica, che è stata fatta solo recentemente. Nelle difficoltà in cui si dibattè il De Sanctis di conciliare la grammatica generale con le grammatiche particolari, si trovarono impigliati quanti, anche per impulso della Critica della ragioyi ptira del Kant, intesero « alla ricerca delle relazioni fra pensiero e parola, fra V unicità logica e la molteplicità dei linguaggi » (l)j ricerca che, per altro, non era nuova, ma che aveva già dato origine in Francia alla grammatica generale. Il primo tentativo « di applicare le categorie kantiane, dell' intuizione (spazio e tempo) e dell'intelletto» al linguaggio (") (riassumo, non potendolo qui integralmente riferire, dal paragrafo XII della parte storica de\V Estetica di Croce), fu compiuto dal Roth, mentre sullo stesso argomento, verso il primo decennio del secolo, avevano speculato il Vater, il Bernhardi, il Reinbeck, il Koch : pensiero dominante de' quali era la differenza « tra lingua e lingue, tra la lingua universale, corrispondente alla logica, e le lingue storiche ed effettive, che son turbate dal sentimento, dalla fantasia, o come altro si chiami l'elemento psicologico della differenziazione ». Si distingueva una linguistica generale da una linguistica comparata (Vater) ; la lingua, allegoria dell'intelletto, •si considerava organo della poesia o organo della scienza (Bernhardi) ; si ammetteva una. grammatica estetica e una grammatica logica (Reinbeck) ; si proclamò persino che l' indole della lingua si deve desumere dalla psicologia, non dalla logica (Koch). Residui intellettualistici s'avvertono ancora nell'Humboldt pel quale logica e linguaggio sembrerebbero identificarsi sostanzialmente e diversificare solo storicamente, e il linguaggio stesso (') Croce, Estetica. Recentemente G. Piazza ha tentato dimostrare che La teoria kantiana del giudizio era stata già intuita e fissata nella sintassi de' Greci (Roma. 1907); ma è stato confutato da CROCE (vedasi), in La Critica. parrebbe un qualcosa fuori dell'uomo che l'uomo fa rivivere con l'uso. Ma il grande filosofo trovò il vero concetto del linguaggio. La lingua — egli pensò — nella sua realtà è un prodursi e un divenire, non un prodotto ; è un'attività (èvegyeia), non un'opera (ègyov). « La lingua propria consiste nell'atto stesso del produrla nel discorso legato: questo soltanto bisogna pensare come primo e vero nelle ricerche che vogliono penetrare l'essenza vivente della lingua. Lo spezzettamento in parole e regole è il morto artificio dell'analisi scientifica»^). Il linguaggio nasce spontaneo da un bisogno interno. Esiste perciò — ed ecco la vera scoperta dell'Humboldt di fronte ai grammatici logici universali, una forma interna del linguaggio (innere Sprachform), che non è il concetto logico, né il suono fisico, ma la veduta soggettiva che l'ìiomo si fa delle cose. Questa forma interna « è il principio di diversità proprio del linguaggio, oltre il suono fisico: è l'opera della fantasia e del sentimento, è l'individualizzazione del concetto. Congiunger la forma interna del linguaggio col suono fisico, è l'opera di una sintesi interna : e qui, più che in altro, la lingua ricorda, nelle più profonde ed inesplicabili parti del suo procedere, l'arte. Anche lo scultore e il pittore sposano l'idea alla materia, e anche la loro opera si giudica secondo che quest'unione, quest' intima compenetrazione sia opera del genio vero, o che l' idea separata sia stata penosamente e stentamente trascritta nella materia con lo scalpello e col pennello. Ma linguaggio ed arte nell'Humboldt non s' identificano : e questo è il difetto della sua dottrina, che tirò seco non tenui contraddizioni, come quella circa il carattere differenziale della poesia e della prosa. L'Humboldt non vide esattamente « che il linguaggio è sempre poesia, e che la prosa (scienza) non è distinzione di forma estetica, ma di contenuto, sebbene intorno a questi due concetti, compresi in senso filosofico, abbia manifestato profonde vedute. La teoria linguistica dell'Humboldt fu integrata dal suo maggior seguace, lo Steinthal il quale, nella polemica sostenuta (M Ueb. d. Verschiendenheit d. menschl. Sprachbaucs, opera postuma (2M ed. a cura di A. F. Pott, Berlino), in Croce. Croce. Croce. coll'hegeliano Becker, «autore degli Organismi del linguaggio, uno degli ultimi logici della grammatica », dimostrò, pur tra affermazioni talvolta eccessive, « che concetto e parola, giudizio logico e proposizione sono incomparabili. La proposizione non è il giudizio; ma è la rappresentazione ( Darstellung) di un giudizio: e non tutte le proposizioni rappresentano giudizi logici. Parecchi giudizi possono esprimersi in una proposizione unica. Le divisioni logiche dei giudizi (i rapporti dai concetti 1 non hanno corrispondenza nella divisione grammaticale delle proposizioni. " Parlar di una forma logica della proposizione è una contraddizione non minore che se si parlasse àttW angolo di un cerchio o della periferìa di un tria?igolo ". Chi parla, in quanto parla, non ha pensieri, ma lingua. Senza entrar ora nel merito degli altri problemi trattati dallo Steinthal, come quello circa l'identità deWorigine e della natura del linguaggio che esattamente risolvette, e l'altro delle relazioni tra poetica, rettorica e linguistica, cioè tra linguaggio e arte che interessa propriamente l'estetica, e che purtroppo Steinthal lascia insoluto, perchè non arriva mai ad affermare che parlare è parlar bene e bellamente, o non è punto parlare, a noi basta l'osservar, qui, conchiudendo, il nostro discorso che con Humboldt e Steinthal, in quanto l'uno integra l'altro e lo rende coerente nella parte linguistica, si ha un primo notevole superamento della grammatica, non essendo questa soluzione pregiudicata dalla mancata identificazione di arte e linguaggio: la liberazione del linguaggio dalla logica, la riconosciuta completa autonomia del linguaggio da categorie di qualsiasi altra specie che non siano la sua forma interna essenziale, rappresentano la prima vera vittoria della critica negativa della grammatica. La dissoluzione della quale viene così a coincidere perfettamente con l'avvento della scienza. La ribellione e la reazione alla GRAMMATICA RAGIONATA quale si è venuta sistemando in Italia, se non assunsero dovunque quel grado e quel tono che ebbero in S., seguirono, [Croce] però, su per giù, il medesimo sviluppo e i medesimi motivi: da una parte riusce difficile specie a letterati di più largo ingegno, come vedremo accadere, p. es., a Giordani (Puoti stesso abbiamo visto concedere a Sanctis uno studio discreto di quella grammatica), il chiuder gl’occhi a quelle ELEVATE E SCINTILLANTI (alla Grice) INVESTIGAZIONI logiche che sulle lingue avevan condotto i galli, incomparabilmente più geniali e profondi dei loro epigoni italiani. L’aria è impregnata di logicismo, tutto suona FILOSOFIA, il secolo era chiamato dei lumi: chi può sottrarsi alla forza delle cose e del tempo? dall'altra, la vacuità di quel nuovo formalismo, pel fine pedagogico che ora s'impone, non richiede tanto un troppo ELEVATO SPIRITO FILOSOFICO per essere avvertita, quanto il fatto stesso dell'esperienza dello studio linguistico. Si puo credere, ancora, nella grammatica generale, raccomandarne l'utilità (e come si potesse fare anco per ispirito d' imitazione e per servilismo verso la moda corrente, non occorre dire); ma, già, anche a tacer d'altro, con la grammatica generale eravamo già fuori del campo de’bisogni pratici. La grammatica generale è come un'estetica logica della lingua, quindi FILOSOFIA, e noi sappiamo che la scienza non è espediente didattico, mentre il motivo principale dell'interesse linguistico è ora in Italia più pratico che teorico. L'assoluta inefficacia inoltre della GRAMMATICA logica a dirigere l'apprendimento della lingua e l'esercizio dello scrivere dove essere tanto più fortemente sentita, quanto più dilaga il gallicismo nella lingua e nello stile: il ritorno alla vecchia pratica grammaticale e all' osservazione dei lodati scrittori, dove apparire come una urgente necessità; e vi si ritorna infatti con fede rinnovellata e sotto la bandiera del più rigoroso purismo inalberata dal Bembo dell'Ottocento, Cesari, coronato alfiere dall'Accademia livornese, qual s'è mostrato degno d'essere con la nota Dissertazione sopra lo stato della lingua}; e, in ogni modo, con o contro Cesari per gli scrittori o pel popolo, la pratica dove prevalere sulla teoria astratta; perfin nella grammatica em- [In Opuscoli linguistici e letterari di Cesari, raccolti, ordinati e illustra/i ora la prima rolla da Guidetti, Reggio d'Emilia, Collezione storico-letteraria presso il compilatore.] pirica, normativa, tradizionale, presso non gli scapigliati ma i pedanti, la vecchia fede se non scossa, certo fu illanguidita. La tradizione puristica, peraltro, non era stata interrotta nella seconda metà del Settecento, neppur quando più imperversò la bufera del filosofismo francese. Già prima che il rappresentante più autorevole di esso in Italia, il Cesarotti, fosse stato, appunto in nome della vecchia grammatica, contraddetto — ricordammo già, tra gli altri, l'ab. Velo — « con uno stile forbito e piccante », come dicono i suoi editori, si sforza Rosasco « di rivendicare ai Fiorentini il tanto contrastato primato intorno all'origine ed al governo della favella », introducendo nei suoi Dialoghi sette della Lingua toscana a pontificare il Corticelli su lesecolari questioni, sull'autorità dei grammatici, sulla necessità imprescindibile dello studio della grammatica, di contrastare al nuovo sistema de' letterati propugnanti l'uso d'un'altra lingua diversa dalla fiorentina, con tutto il bagaglio de' vecchi argomenti grammaticali e rettorici in favore della purità, della armonia e dolcezza della pronunzia fiorentina, dell'elegante stile, e con le vecchissime distinzioni di discorso impensato e di discorso pensato. « Eh via, la legge che ne obbliga a studiare la grammatica, è giustissima, e chiunque brama riportar gloria dal materiale della scrittura, dovrà o bere o affogare, siesi chi egli si vuole ». E cita in sostegno il Salviati, Quintiliano e altri. Va notato peraltro che il Rosasco non solo propugna la necessità di uniformarsi anche all'uso moderno, ma giudica ancora, sebbene coi soliti argomenti estrinseci, che « non dobbiamo per conto alcuno desiderare la perfezione delle grammatiche, si perchè non si può questo desiderio avere, senza desiderare insieme la estinzione della lingua ; sì perchè quando siamo obbligati a scriver solo secondo le regole e' precetti dell'arte prescritti, non è mai possibile rendere le nostre scritture eccellenti »(') : residui, come ognun vede, delle dottrine estetiche prevalenti nel senso che volevano conciliare il rigore grammaticale col criterio della libertà individuale : temperato purismo, che, mentre per un lato moveva dall'antica tra Ed. della Bibl. scelta, Milano, Silvestri] dizione grammaticale del classicismo, per l'altro era reso possibile dal non essersi ancora la lingua italiana inoltrata pel declivio della cosiddetta corruzione francesistica. Quando questa si accentuò maggiormente, era naturale che l'iniziativa del riparo partisse dalla Crusca custode gelosa del patrimonio linguistico: e già il ricordato Borsa nel 1785 prote- stava contro il decadimento della lingua, e nel 1798 da Losanna un suo Accademico, Federico Haupt, scriveva la Lettera dun tedesco stili' infranciosamento dello stile, com'è naturale che la rifioritura linguistica fosse più di vocabolario che di gramma- tica ; lo stesso lavorìo grammaticale, il più notevole dei primordi del secolo XIX, s'aggirò, come vedemmo, intorno a quella parte della grammatica che è più intimamente connessa col vo- cabolario, i verbi, di cui sorsero parecchi prospetti e teoriche. E a studi di lingua, ossia di vocabolario, si era volto nel 1806 l'Istituto lombardo, fondato dal Bonaparte e convocato a Bologna, di cui era segretario quel Muzzi che già incontrammo quale autore del curioso libro sulle Permutazioni dell' italiana orazione, e che, dopo essersi divertito e gingillato intorno a problemi filosofici secondo la moda d'allora pe' quali non era affatto portato, si immerse talmente negli studi gram- maticali e lessicali e con si vero spirito di devozione alla Crusca, che il Monti doveva titolarlo più tardi « il più fatuo pedantuzzo che mai facesse imbratti d'inchiostro » (l). Partecipò nel 1809 al concorso dell'Accademia livornese con un lavoro Dello siato e del bisogno di nostra lingua, ma il manoscritto, per ragioni regolamentari, non fu accettato. Come sappiamo, di quel concorso il trionfatore fu Antonio Cesari, odiatore quanto il Giordani, delle dottrine del Cesarotti, che, se avevano ancora seguaci dal Romani al Nardo, andavano però perdendo terreno sempre più : quegli stessi che le propu- gnavano — si avverta inoltre — erano assai più temperati del maestro e si guardarono meglio di lui dall'esser accusati di gal- lofilia : verso l' italianità era un desiderio e un moto generale, cui favoriva la ridesta coscienza nazionale: cesariani e pertica- riani o mondani, neopuristi della prima maniera (cioè anteriore) e della seconda, tutti concordavano non solamente nel- In Mazzoni, L'Otl.] l'avversare i criteri troppo licenziosi de' cesarottiani, ma ne! volere — auspice la Crusca per la quinta volta rimessosi nel 1813 alla ricompilazione del Vocabolario — che alle sottili fantasti- cherie sulle ragioni delle lingue si sostituisse il lavoro concreto e modesto del raccogliere e del vagliare voci e locuzioni del buon uso e a riprendere l'osservazione grammaticale secondo le migliori tradizioni del Cinquecento. Balbo scrive al Vidua una lettera sulla lingua italiana per muover lamenti intorno le tante esagerazioni e confusioni pratiche e teoriche del filosofismo che non giovavano punto alla causa della lingua: e Vidua raccomandava a un compatriotta che, an- dando a Firenze come avevan fatto già l'Alfieri e il Goldoni, e avrebbe fatto il Manzoni e avrebbero consigliato al Cavour, non trascurasse di recarsi la mattina in Mercato Vecchio ad ascoltar il pizzicagnolo e le contadine. E alla Crusca stendeva la mano l'Istituto lombardo per proseguire concordi all'opera d'amplia- mento del Vocabolario: né le ripulse dell'Accademia orgogliosa e gelosa delle sue secolari tradizioni né i risentimenti e le irri- tazioni, causa di tante guerre anche personali, che esse provo- carono nel Monti, poterono mai dividere gli animi concordi nella comune avversione al logicismo, alle metafisicherie di provenienza franco-cesarottiana, nonostante che, per quanto riguarda i criteri particolari dell'uso linguistico italiano (pratica, dunque, non scienza), facilmente potessero incontrarsi col Cesarotti in un vivo desiderio di libertà, e spesso inconsciamente (come sarà av- venuto al Leopardi) (' ), non soltanto gli antipuristi come il ce- sarottiano Torti di Bevagna, ma letterati meno bollenti nella se- colare battaglia. N'è prova l'atteggiamento assunto dal capo riconosciuto de' classicisti, il Giordani, nelle contese tra il Cesari, Monti e Perticari : « richiesto del vero valore di alcune voci tolte dal greco, rispose [al Monti] e colse quell'occasione per lodare l'opera e il suocero e il genero, ma anche per addimostrare al- cune sviste di essi due correttori degli altri, e per augurare che gli avversari si riconoscessero invece compagni, come quelli che insomma avevan un fine medesimo e uno stesso desiderio. Cfr. F. Colagrosso, La teoria leopardiana della lingua, Na- poli, 1905 (Estr. d. Rend. Accad. Arch. Lett. e B. A. in Napoli. Mazzoni. Pure, il Giordani è appunto uno di quei puristi che racco- mandavano ai giovanetti il Du Marsais e il Beauzée. « I volumi della Enciclopedia Metodica ne' quali è trattata la grammatica e l' eloquenza ti possono essere utili. Gli articoli rettorici di Marmontel non mi paiono più che mediocri ; quelli di Jancourt assai meno che mediocri. Ma bellissimi i grammatici di Du Marsais, e di La-Beauzée. E il conoscere e adoperare filosofi- camente la lingua è gran virtù di eccellente scrittore. E pron- tamente si applica alla nostra quel che è notato della francese. Ma che cosa significa adoperare filosoficamente mia lingua ? specie quando la si consideri, come fa il Giordani, cosa diversa dallo stile? Interrompi, consiglia, con la lettura di quegli arti- coli, « lo studio che devi far della lingua, e preparati a quello che poi farai dello stile. Perchè io giudico che quello della lingua debba precedere. Non si dee prima sapere qual sia la materia de' colori ; poi imparare ad impastarli e mescolarli ; poi esercitarsi a collocarli, e accordarli ? » (io). Tutto lo scrivere sta nella lingua e nello stile; due cose diversissime egualmente necessarie.... I vocaboli e le frasi sono i colori di questa pittura; lo stile è il colorito. — Ora persuaditi, caro Eugenio, che l'ac- quisto de' colori sia fatica della memoria : l'uso del colorito sia esercizio d'ingegno, disciplina di buoni esempi, di pochi pre- cetti, di moltissima osservazione, di molta pratica. Ho letto molti antichi e moderni che vollero esser maestri : ho perduto tempo e acquistato noia, senza profitto. Veri maestri ho trovato gli esempi de' grandi scrittori. Tra i mo- derni consiglia, tuttavia « il breve trattato del Condillac, Art d'écrire. Di tutto quel libro abbastanza buono, m' è rimasto in mente questo solo principio, molto raccomandato da lui = de la plus grande liaison des idées .... Vero è che quel legame delle idee non deve esser sempre logico ; ma secondo la materia che si tratta, dev'esser pittorico o affettuoso; di che i moderni intendon pochissimo : gli antichi vi furono meravigliosi » (pa- gine 153-4). In questo guazzabuglio di vedute, d'idee e di prin- cipi, c'è tutto, meno lo spirito filosofico : dal che si vede quanto (') A un giovane italiano - Istruzione per l'arte di scrivere, in Scritti di Giordani, ed. Chiarini, in Firenze.] poco fosse compresa e con quanto poca convinzione raccoman- data la grammatica generale del Du Marsais e del Beauzée. Il nume che agitava interiormente il Giordani e i degni suoi com- pagni d'arme non era la filosofia, ma lo spirito italiano che si rinnovava, rinnovamento che alla coscienza di molti si presen- tava come un problema di lingua : donde il calore con cui si davano a questi studi. Il Giordani, mosso dall'invito dell' Acca- demia italiana, « non per rispondere » ad essa, per ciò che « questa materia non sia d'ozio letterario .... ma importi non poco all'onore d'Italia », si dà ad abbozzare una Storia dello spirito pubblico d' Italia per 600 considerato nelle vicende della lingua e alcuni anni più tardi, discorrendo in una lunga lettera al Capponi di una raccolta in trenta volumi che intendeva fare delle migliori e men note prose della nostra letteratura, allargando e colorendo le linee di quel primitivo ab- bozzo, esprimeva l'opinione che l'ordine escogitato lo menerebbe « quasi per una storia della nazione e della lingua, e che dalla somma dei particolari discorsi introduttivi ne sarebbe de- rivato « quasi un ritratto filosofico delle menti italiane per quat- tro secoli ». « Perciocché io considerando la lingua come uno specchio, nel quale cadano tutti i concetti da tutti i pensanti della nazione, e dal quale nella mente di ciascuno si riflettano i pensieri di tutti ; volli con diligenza di storico e sagacità di filosofo esaminare il vario corso del pensare italiano per le ve- stigia che di mano in mano lasciò impresse nel variare delle lingua; della quale i vocaboli e le frasi, o nuovamente intro- dotte, o dall'antico mutate, fanno certissimo testimonio (a chi '1 sa interrogare) d'ogni mutamento nella vita intellettiva del po- polo. Così il Giordani si riallaccia al Napione. Tra il Napione e il Giordani spicca anche per questo ri- guardo il Foscolo, che nella celebre orazione, recitata a Pavia Opere, t. IX: « Scritti editi e postumi pubbl. da Antonio Gus- salli », Milano. f;) Scritti, ed. Chiarini. Per l'eccellente posizione che occupa il Foscolo nella storia della critica, oltre che le note pagine del De Sanctis, vedi Croce, Per la storia della critica ecc., già cit., p. 9 e 27, Trabalza, Studi sul Boccaccio, e Borgese, Storia della critica romantica, libro — è superfluo avvertirlo — per l'inaugurazione degli studi, Dell' origine e dell'uf- ficio della letteratura e nelle Lezioni di eloquenza che le tennero dietro, e particolarmente in quella del 3 febbraio 1809 su la Lingua italiana considerata storicamente e letterariamente, e ne' sei Discorsi sulla lingua italiana parlava della nostra lingua coi medesimi spiriti e intendimenti d'italianità, in modo vera- mente vivace. « Nella sua Prolusione », ripeteremo col De San- ctis, « tenta una storia della parola sulle orme del Vico, censu- rata da parecchi in questo o quel particolare, ma da' più am- mirata, come nuova e profonda speculazione. Il suo valore, anzi che nelle sue idee, è nel suo spirito, perchè non è infine che una calda requisitoria contro quella letteratura arcadica e acca- demica, combattuta da tutte le parti e resistente ancora, contro quella prosa vuota e parolaia, e contro quella poesia che suona e che non crea. Nessuno ha considerato, » scriveva il Fo- scolo, « filosoficamente le origini, le epoche e la formazione di essa [lingua italiana], affine di conoscere per via d'analogia i principi, i progressi oscurissimi delle formazioni e trasformazioni di tante altre lingue. La storia d'una lingua, ecco il suo preciso punto di vista, non può tracciarsi se non nella storia letteraria della nazione ; né la storia può somministrare fatti certi e fondamentali a trovare in materie intricatissime il vero, se non per mezzo di epoche distinte, in guisa che le cause non diventino effetti, e gli effetti non sieno pigliati per cause »('). che dev'esser tenuto sempre presente per tutto questo periodo, perchè, se le idee sulla lingua de' vari critici che vi sono criticati poca luce diffondono sulle loro teorie poetiche, utilissimo è invece conoscere la portata critica di esse per chi fa la storia della lingua. In Opere edite e postume di Ugo Foscolo, Firenze, Le Monnier. In T.. È evidente l'affinità tra il metodo del Foscolo e quello del Napione; ma com'è più profonda la visione del Fo- scolo, così essa in certo senso precorre ancor meglio il principio moderno onde si vorrebbe indagata la storia della cultura nella lingua, special- mente in quanto si serve del metodo monografico per periodi di af- finità spirituali. Notevolissima sotto questo rispetto è una pagina della Lez. II di Eoa. (è la 82 del voi. II) dove illustra il principio: La let- teratura è annessa alla lingua. Capitolo quindicesimo 485 Nel fatto, il Foscolo intravvede così in confuso l'identità di lingua e pensiero, e nell'evoluzione linguistica uno svolgimento spirituale, mostra cioè una vaga coscienza del problema lingui- stico, e il suo sforzo di risolverlo, anche se non felice, è già un progresso. Particolarmente notevoli, anche per la ragione pedagogica, in cui però, come sappiamo, ben si riflette la scienza teorica, son le pagine che scrive sulla dottrina dantesca del Volgare illustre. Ne riferiamo volentieri un brano che ci tocca davvicino. « Su ciò che Dante previde con occhio sicuro egli fondava pochi principi generali intorno alla legislazione gram- maticale. Erano inerenti alla condizione e alla natura della lingua, onde operarono sempre e quando vennero applicati da parecchi scrittori, e quando vennero trascurati da altri, o negati ostinatamente da molti ; ed operarono fin anche negli scritti di chi li negava ed oggimai l'esperienza ha convinto la più gran parte degl'Italiani, che la loro lingua letteraria non può pro- sperare senza l'applicazione dei principj di Dante»: principi metafisici, dice Foscolo, annunziati in tempi ne' quali la filosofia, l'arte dialettica, e la teologia erano tutt' uno, e tali da intricarsi a vicenda, e perciò un po' oscuri forse allo stesso ALIGHIERI (si veda). Al qual punto il pensiero di Foscolo corre a Locke che facilita lo studio delle analisi delle idee, e quindi della natura delle lingue – Grice: way of things, way of ideas, way of words -- e a Condillac che illustrò questa difficilissima parte della metafisica. Francesco Saverio de Sanctis. De Sanctis. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e de Sanctis," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Sanctis. Keywords: storia della filosofia, il saggio filosofico, il poema filosofico, il tema filosofico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sanctis” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sanseverino: la ragione conversazionale del segno naturale -- la logica scolastica --  filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Considerato uno fra i massimi precursori del neo-tomismo (AQUINO, si veda). Si trasfere a Nola per frequentare la scuola dove suo zio è rettore. Studia filosofia con l'intento di confrontare i vari sistemi filosofici, fra cui gode particolare credito in Italia, all'epoca, quello razionalista. Lo studio comparato dei vari sistemi gli permite una conoscenza più approfondita della scolastica, soprattutto d’AQUINO, e del legame intimo tra la scolastica e la [atristica. Restaura la filosofia scolastica. Insegna a Napoli. Venne incaricato da Ferdinando II di preparare un manuale ufficiale per le scuole del regno delle due Sicilie. Scrive allo scopo il manuale "I principali sistemi della filosofia del criterio”. Profondo conoscitore di AQUINO da alle stampe interessanti saggi sui filosofi moderni. Inizia ad occuparsi più specificamente di AQUINO con “L’origine del potere e il diritto di resistenza, cui fa seguito “In difesa dell'angeologia contro i sofismi”. Esce il ponderoso “I principali sistemi della filosofia del criterio” un'ampia e dottissima disquisizione sulla filosofia illuminista e su quella a lui contemporanea -- fra cui quella dello stesso GIOBERTI -- confutata sulla base della logica. Il suo capolavoro. Si tratta del celebre saggio, “Philosophia antiqua” che ha per oggetto la storia della logica. “In compendium redacta ad usum scholarum clericalium. Venne pubblicata a Napoli “Elementa”, “Antropologia”, “Teologia. Altre saggi: “Sopra alcune questioni le più importanti della filosofia” (Napoli); “Il razionalismo” (Napoli); “I razionalisti” (Napoli); “L'origine del potere e il diritto di resistenza, (Napoli, Giannini); “In difesa dell'angeologia contro i sofismi” (Napoli, Manfredi); “Elementa philosophiae theoreticae” (Napoli, Manfredi); “Philosophia antiqua” (Napoli, Manfredi); “Institutiones seu Elementa philosophiae antiquae” (Napoli, Manfredi); “In compendium redacta ad usum scholarum” (Napoli, Manfredi); “Le dottrine de' filosofi antichi” (Napoli); Dovere, Tentativo di ricostruzione, in Doctor communis, P. Naddeo, Le origini del aquinismo” (Società italiana, Torino); Orlando, Aquino a Napoli e S., in Asprenas, Orlando, Vita e opere di S. secondo i documenti, in Aquinas, Orlando, L'Accademia d’Aquino a Napoli, storia e filosofia, in Saggi sulla rinascita d’Aquino, Roma, Ed. Pontificia Accademia teologica romana, Matarazzo, Per una rivoluzione del cuore. La visione dell'umano in Leopardi nella lettura critica di S. tra antropologia e istanze pastorali (Polidoro, Napoli). Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. PHILOSOPHIÆ COMPENDIVM OPERA ET STVDIO NVNTII CAN. SIGNORIELLO LVCVBRATVM ad usum scholarum clericalium Consentaneum est, ut ancillæ quætlam Reginæ serviant. Hanc igitur assumere doctrinam non pigeat, quæ veritati famulatur. S. Ioann. Damasc. Dialect. c.LOCVPLETIOR ATQVE EMENDATIOR NEAPOLI APVD OFFICINAM BIBLIOTHECÆ CATHOLICÆ SCRIPTORVM in Via TuIgO SAH-GlOTA.NNI-MAGGIORE-Pttl"ATEt.I.I ædibus Fibrenianis 1 Huius Operis ius proprietatis in Leguni tutela est NEAPOLI TTPIS FRATR. MANFREDI in Yia yulgo Sannicandro PHILOSOPHIÆ ALVMNIS EDITORES Christianæ philosophiæ compendium hisce duobus voluminibus inclusum idem est, quod, episcopis et quamplurimis doctis viris suasoribus, S. principis ecclesiæ neapolitanæ canonicus, perficiendum susceperat. Sane, postquam is edidit priora volumina percelebris illius operis, cui titulus: Philosophia christiana cum amtiqua et nova comparata, ac in studiosorum adolescentium utilitatem, in quam revera omne suum otium contulit, elementa seu institutiones philosophiæ condere aggressus est, omnes ferme Neapolis atque Siciliæ sacrorum Antistites hortatores habuit, ut quamprimum, et, qua pollebat, diligentia, philosophicas institutiones tam docte ac eleganter exarari susceptas in compendium redigeret. Elementa quidem ampla et erudita forma, qua nunc gaudent, haud illi brevitati consulunt, quæ necessaria est, ut unius anni curriculo adolescentibus tradantur. At iuvenes in sortem domini vocati, nisi e fontibus sanctorum patrum et scholasticorum doctorum prima philosophiæ rudimenta hauriant, impares prorsus sunt, qui naviter studeant dogmaticæ theologiæ ceterisque sacris disciplinis, tali amico foedere philosophicis consociatis, ut philosophia theologiæ ancilla iure meritoque appelletur et sit. Accedit, quod iis, qui ecclesiasticæ militiæ nomen dederunt, opus est philosophandi norma latine exarata, præambula ad sacras scientias, hac præsertim tempestate, qua protestantium placita, per studiorum universitates, lycea, scholas pervadentia, latinum sermonem ab omni, etiam sacræ, disciplinæ institutione cogunt exsulare. Hæc omnia animo reputans amantissimus ille studiosæ iuventutis S., Nuntio Signoriello, tunc in archiepiscopali neapolitano lyceo logicæ et metaphysicæ antecessori suorumque studiorum ac elucubrationum constantissimo conlegæ, ac postea Ganonicatu in eadem metropolitana ecclesia adaucto, provinciam demandavit eiusmodi compendium exscribendi ex his, quæ fusius in inchoatis voluminibus ab iis pertractabantur. Utinam potuisset opus suum, tam bene inceptum, absolutum conspicere! Verum, ex quo tempore deus solertem sui administrum e terra sustulit, fidissimus eius adiutor, Nuntius Signoriello, nec labori, nec industriæ parcens, philosophiæ institutionis compendium eo perfectionisj adducere nisus est, ut non modo famæ consuleret primi sui auctoris, verum etiam esset philosophiæ alumnis perquam accommodatum. Totum igitur opus in duo volumina dispescitur, quorum unum subiectivas philosophiæ theoreticæ partes, alterum obiectivas refert. Quæ secundum scholasticorum, in primisque AQUINO argumentationes e rolvuntur, ita tamen ut hæ ex iis, quæ a patribus disputata fuere, obfirmentur, atque inde recentium philosophorum errores refellantur. Iam in scholæ doctrina pertractanda, consulto nulla ilicuius momenti theoria tacita præteritur, tum quia disciplinas, maxime philosophicas, ea tantum lege in compendium colligere licet, ut in levem non desinant sermonem, tum quia, si philosophiæ scholasticæ insrtauratio idcirco hac nostra ætate maximopere comnendatur, ut contra insolentem, lubricamque philosophandi rationem veluti aggerem struat, integra pro ecto, et absoluta perspiciatur oportet. Neque inde in difllcultatum laqueos iuvenes inducuntur, immo vero atior eis ad scientiæ adeptionem via sternitur; siquilem ea est philosophiæ scholasticæ indoles, ut unum ius pronuntiatum alterius explicationi inserviat, et vere nullum existat, quod metaphysicis, et theologicis dogmatibus explanandis magno usui non sit. Porro philosophiæ compendium hac digestum ratione iuvenibus edocendis apprime idoneum lestimatum fuisse illud minime obscurum indicium est, luod in plerisque non solum Italiæ, sed etiam Gernaniæ, Galliæ, et Belgii Schois adhibitum iam fuerit, adeo ut eius sex, brevi temporis intervallo interiecto, satis copiosæ editiones exlaustæ sint. At vero compendium istud, philosophiæ tantum theoreticæ partes complectens, tractationem philosophiæ moralis, quæ hac præsertim ætate maximi motienti est, adhuc desiderandam relinquebat. Hinc ut institutiones, quæ philosophicam scientiam ex toto exhiberent, proderemus, scholarum clericalium præceptores nobis institerunt. Ad iuvenum igitur commodum, atque religionis et scientiæ augmentum contendentes, bac septima editione, quæ tum ob varias emendationes, tum ob quædam additamenta, tum ob clariorem, qua nonnulli articuli explicantur, methodum superioribus præstat, compendium nitidis typis excudendum iterum curavimus. Quod procul dubio, ob ethicæ elementa ei adnexa, ab eodem peritissimo antecessore Nuntio Signoriello elaborata ac tomis duobus comprehensa, quæque tertia iam editione gaudent, et eamdem, ac in illo, disciplinæ rationem præseferunt, nostrique AQUINO doctrinam adversus veteres, recentioresque errores evol\unty Philosophiæ lnstitutiones ad fastigium perducere nobis videtur, et communi expectationi satisfacere. Neapoli die Sancto Hieronymo Doctori dicato M0NITVM Utatim ac, quæ diu ab omnibus concupita, et exortata fuere, tum philosophia cum antiqua et nova comparata, tum elementa seu institutiones, et compendium eiusdem philosophiæ S. ac Nuntii Signoriello nominibus inscripta, in publicum prodiere, omnes qui scientiarum periti habentur et sunt, et auctorum in illis conficiendis diligentiam, et summum iuvenes veras disciplinas docendi studium mirari coepere. Exinde gratulationes factæ, laudes tributæ; quarum quanta ad ipsum S., cum adhuc in vivis ageret, nec non Signoriello conlegæ, copia pervenerit, vel ex una ephemeride neapolitana La Scienza e la Fede abunde colligi potest. At licet hæc magni facienda sint, laus enim fuit quæ ab iis proficiscitur, qui in magna laude vixerunt; maximi tamen ducenda illa, quæ nulli unquam fuitsecunda, utpote a prima Sede tributa, quaque revera summa immortalis PIUS IX P. M., literis losepho S. datis, volumina Philosophiæ Sanctitati Suæ offerenti, Caietani S., quem S. S. magno aureo numismate iam donaverat, atque Nuntii Signoriello memoriam cumulabat. Ambigere itaque haud fas est lectores hanc non esse commendationem vulgarem, si literas a Pontifice Maximo datas hic, post nuncupatoriam epistolam, exscribimus: SANCTISSIMO DOMINO NOSTRO PIO PAPÆ IX BEATISSIME PATER Homam Vuæ ad sanctos Pedes Tuos sisto volumina, multis abhinc annis Tibiperquam humillime offerre cupiebat Caietanus Sanseverino, Metropolitanac Neapolitanæ Ecclesiæ Canonicus, ac mei amatissimus patruus. Ille scilicet sacerdotio vix initiatus, cum philosophicas disciphnas ad suos puriores fontes revocandas esse intelligeret, nec labori nec industriæ pepercit, ut qua voce, qua scriptis iuvenes præsertim in sortem Domini vocatos christianæ philosophiæ placitis imbueret. Hinc neapolitani Archiepiscopalis Lycei antesessor renuntiatus in cathedra Logicæ et Metaphysicæ, et postea Ethices professor suffectus in regia studiorum Universitate Neapoli constitutus, ac regalis Bibliothecæ Borbonicæ Scriptor adscitus, totus in eo fuit, ut experimento probaret Sanctorum Ecclesiæ Patrum, et Scholæ Doctorum, præcipue autem Divi Thomæ Aquinatis, philosophiam omni veteri novoque philosophorum systemati longe præstare. Mitto labores ab eo exantlatos ad opus conscribendum, cui nomen Philosophia Christiana, quod prodiit nondum absolutum, ceterosque libros ad rectam huius scientiæ instaurationem, quos ipse composuit. Unum ipsi in votis erat, totis viribus doctrinam propugnare, quam Apostolica Sedes semper tradidit, hominis rationem in philosophicis disquisitionibus ancillam fidei esse; necnon seipsum suaque omnia scripta Tibi, BEATISSIME PATEB, Tuoque irreformabili iudicio prompte libenterque subiicere. Verum quod patruus morte inopinata præventus absolvere nequivit, eius fratris filius, minimus inter Neapolitani Cleri Presbyteros, audet implere, Tua summa benignitate confisus. Quæ autem in opere Philosophia Christiana inscripto desiderabantur, magna ex parte præstitit Nuntius Signoriello, presbyter, et Gaietani Sanseverino in cathedra Logicæ ac Metaphysicæ Neapolitani Archiepiscopalis Lycei successor, eiusque fidissimus interpres. Qui vestigia magistri premens, ipsam Philosophiam Christianam in compendium redegit, omnium huius scientiæ cultorum, cum intra, tum extra Italiam, suf fragio probatum. Munusculum, qualecumque demum sit, Tu, BEATISSIME PATEB, dignanter excipe, atque Apostolicam Tuam Benedictionem quam in suffragium animæ mei Patrui etiam atque etiam imploro, ipsi Nuntio Signoriello, mihi ac toti meæ familiæ paterna Tua charitate largire, dum ad Tuos sanctos Pedes provolutus, eos omni cordis affectu deo SCUl0r BEATITVDINIS TVÆ Neapoli in Festo Immaculatæ Conceptionis B. M. V. Humilhmus m Christo filius losepn S. Presb. Neap. Cui studiose admodum et animo paterno SANCTITASSVA rescripsit: Dilecto Filio Presbytero Iosepho S. Neapolim PIVS PP. IX. Dilecte Fili, salutem et Apostolicam Benedictionem . Quan tum adlaboraverit doclissimus patruus tuus veræ philosophiæ restituendæ, quantasque curas impenderit iuveni Clero fingendo ad sanæ religiosæque scientiæ principia, sicuti ceteris, sic Nobis adeo exploratum erat, ut eum plurimi faceremus, et doleamus adhuc, ipsum Nobis et severiorum disciplinarum incrementis fuisse subreptum. Eo tamen solatio recreamur, quod, cum solidæ doctrinæ accuratoque iuventutis excolendæ studio iungeret eam mentis aciem et prudentiam, qua variam ingeniorum indolem facile discerneret; non huius tantum aut illius peculiaris partis, sed universæ philosophicæ ac theologicæ scientiæ provectui per alumnos suos prospicere potuerit, uti patet ex illorum lucubrationibus, qui ab ipso instituti, Neapolitanum Clerum in præsentiarum exornant. Qua de re, etsi ille, dum in humanis agebat, pleraque sua scripta Nobis obtulerit, acceptissimam habuimus omnium collectioncm a tc Nobis nuper cxhibitam; eo vel magis, quod amplissima de christiana philosophia tractatio ab auctoris obitu intercepta nunc absoluta profcratur, opera discipidi olim cius, hodic vero meritissimi de scientia profcssoris sacerdotis Nuntii Signoriello. De quo sanc obscquii ct amoris officio crgapracstantissimitm pracccptorem dum illi gratulamur, pergratum tibi profitemur animum ob munus, cum pretio suo, tum præclari auctoris memoria Nobis carissimum. Omnia vero tibi fausta adprecantes, cælestium donorum auspicem, et paternæ benevolentiæ Nostræ pignus Apostolicam Benedictionem tibi peramanter impertimus. Datum Romæ apud S. Petrum. Pontificalus Nostri Anno XXI V PIVS PP. IX. Verum non minori laude dignatus est loqui de operibus hisce, PU IX Successor, LEO XIII, feliciter regnans. Ipse enim pro summa sollicitudine, ex qua extimulatur, ut Clerus Catholicus ad studia philosophica et theologica recte informetur, quo facilius contra hodiernos Fidei Christianæ hostes possit depugnare, nullam dimittit occasionem Episcopis insinuandi et commendandi AQUINO doctrinam. In suis vero familiaribus sermonibus Institutiones philosophicas nostri Canonici pluries laudibus cohonestavit; Episcopo Lyciensi aliisque viris ecclesiasticis illius Dioecesis aiebat: Bramo che sieno introdotte ne' Seminari le Istitu zioni filosofiche del Canonico Sanseverino. L' e questa una gloria del Clero Napolitano che cercd efficacemente di ridurre e richiama re le scienze filosofiche alla vera e sicura norma, alla loro forma e satta ch' e appunto la Tomistica. Ci compiacciamo che nel Semina rio di Lecce se ne sieno introdotte le Istituzioni, come e Nostro de siderio, che in tutt' i Seminari si segua il metodo stesso e la stessa dottrina dell' Angelico. Fu certo una sventura che il Sanseverino morisse cosi presto, ma egli lasci6 buoni e zelanti discepoli che seguiron 1' opera sua. Quæ verba satis superque sunt, ut Compendium Philosophiæ Christianæ, ac Ethicæ elementa ei adnexa, magno laudum præconio digna per omnes habeantur. Philosophiæ elementa scribere aggredientes tria in primis investigemus necesse est quænam sit huius scientiæ natura, et qua in re a reliquis scientiis differat; quot in partes dividatur; quænam sit eius præstantia et utilitas. Quod attinet ad primum, naturam philosophiæ perspicere idem est, ac eius definilionem tradere. Philosophia ex vi nominis studium vel AMOREM SAPIENTIÆ SIGNIFICAT – H. P. Grice: “Not to Heidegger. To Heidegger, it means the wisom (sophia) of love (philos) -- , id enim innuunt illa verha yiXog, et o-ccp/a ex quibus constat. Iam antiqui definiebant philosophiam, scientiam rerum divinarum, atque humanarum, causarumque, quibus hæ res continentur. Ipsi enim nomine philosophiæ omnium scientiarum complexionem designabant, sive universam humanam sapientiam, et philosophos appellabant eos qui omnium rerum rationes reddere callebant. At vero apud recentiores philosophiæ nomine non universa cognitio humana, sed peculiare quoddam genus cognitionis denotatur. Etenim ipsi philosophiam pro prima scientia habent, sive, quod idem est, pro scientia, quæ finem sibi præstiluit tradendi ea, quæ scitu necessaria sunt, ut mens humana cognitionem perfectam rorum in diversis scientiis assequalur. Hæc autem sunt ultimæ rationes quæ ad explicandum valent lum ipsam cognitionem, qua mens verum in scientiis speculatur, tum obiectorum, circa quæ scientiæ versantur. Iam ultimæ rationes sunt suprema principia, seu causæ, siquidem causæ, quatenus a nobis cognoscuntur, rationes appellantur, et causæ supremæ, quippc quac poslremo a nobis 1 Hoc nomen a Pythagora, qni D cireitcr ante Christam nafnni obiit, invectum fuit. Antc illum philosophia appeliabatur sophia, et philosophi dicebantur sophi. cognoscuntur, rationes ultimæ vocantur. Quæ cura ita sint, philosophia prout hodie accipitur, definiri potest hoc modo: Scientia, quæ agit de supremis principiis tum cogniiionis humanæ, tum rerum, quæ humana ratione co gnosci possunt f. 111 a verba, agit de supremis principiis cognitionis humanæ, significant philosophiam de iis omni bus tractare, quæ ad cognitionem humanam, prout hæc in cæteris scientiis assequendis evolvitur, pertinent. Hu iusmodi sunt leges, quibus mens humana actiones cogno scendi exercet, facultates, quibus ipsas peragit, vis, quæ ipsis ad certitudinem in nobis gignendam inest, et notio nes universales, quibus celeræ scientiæ innituntur. Illa autem verba, quæ sequuntur, nempe agit de supremis principiis rerum, denotant philosophiam tractare de Deo, de mundo universe spectato, et de homine ; nam hæc sunt suprema obiecta, ad quæ reliquarum scientiarum obiecta referuntur, et ideo eiusmodi sunt, ut sine ipso rum notitia nullius rei perfecta scientia existere possit. Reliqua verba, quibus definitio clauditur, nempe, quæ humana ratione cognosci possunt, eo consilio in definitione posuimus, ut philosophia a scientiis theologicis, quæ Divinæ revelationi innituntur, distingueretur. Ex his facile intelligitur philosophiam a ceteris scientiis in eo differre, quod in ceteris scientiis aliquod obiectorum genus cognoscendum suscipitur, philosophia autem statuit suprema principia, quibus omnes speciales scientiæ innituntur, quia, ut diximus, inquirit ipsa cognitionis humanæ principia, et supremas causas rerum in omnibus scientiis cognitarum. Quod spectat ad divisionem philosophiæ, monendum Hæc definitio ab etymologia Philosophiæ minime discedit; nam, aiente s. Thoma, ille sapiens dicitur in unoquoque genere, qui considerat causam altissimam illius generis ; I, q. I, a. 6 c: quocirca scientia illa, quæ cognitionem humanam, et res, quæ humana ratione cognosci possunt, secundum suprema principia, investigat, philosophia, sive amor sapientiæ recte appellaturest nos hic agerc de philosophia theoretica, in qua tradunlur ea, quæ in conlemplatione rerura versantur, non vero de philosophia practica, quæ appellari solet ethica, et tractat de iis, quæ ad operalionem pertinent, sive de legibus universalihus morum, ad quas homo actiones suas accommodare dehet,ut finem ultimum sihi a Deo præstitutum assequatur. 6. Iam philosophia theoretica complectitur logicam, dynamilogiam, ontologiam, cosmologiam, anthropologiam, et theologiam naturalcm. Logica exponit naturam aclionum nostræ mentis, leges, quihus ipsæ exercendæ sunt, et ordinem, quo sunt adhibendæ in inquisilione veritatis. Dynamilogia tractat de facultatibus animæ, atque in primis expendit ipsarum naturam, obieclum singulis earurn proprium, et modura, quo suas actiones exercent; deinde ex horum investigalione viam sibi sternit ad duas maximi momenti tractationcs, in quarum prima, quæ dicitur ldealogia, inquirit quomodo facullatum subsidio primas cognitiones rerum nobis comparemus, in altera aulem, quæ dicitur Criteriologia, disputat de vi, quam ipsæ habent ad veritalcm rcrum nobis patefaciendam. Ontologia versatur circa illas universales noliones, quibus ceteræ scientiæ innituntur. Cosmologia de mundo universe spectato disseril. Anthropologia naturam hominis expendit. Thcologia naturahs de Deo, Eiusque attribulis ex naturali lumine rationis disputat, quantum infirmitas ræntis huraanæ sinit. 7. Dcnique præstanlia, et ulililas huius scientiæ ex ipsa, quam explicavimus, eius natura perspicitur. Eniinvero illa scientia ceteris hurnanis scienliis præstat, ct raaximain ulililatem in eas confert, quæ de iis agil, quibus mens noslra opus habet, ut perfectam cognitionem in ceteris scienliis adipiscatur. Atqui huiusmodi, ut diximus, cst philosophia. Ergo inaxima est philosophiæ pracstanlia, ct utililas. Neque scientiæ dumtaxat, scd eliam artes ingenuæ, ut, c. g., rcthorica, poesis, graramalica, subsidio philosopbiæ indigent. Nam regulac, quæ in qualibct arte traduntur, ut quoddara opus rccle pcrficiatur, tutæ, et reclæ csse non possunt, nisi deriventur ex principiis rerum, ad quas referuntur. Atqui huiusmodi principia non nisi philosophus cognoscere potest. Ergo non nisi philosophus ingenuis artibus perfeclissime uti potest. Immo philosophia, etsi longe inferior Theologia revelata sit l, tamen talibus famulatus officiis erga istam fungitur, ut ipsi quodammodo necessaria sit. Has famulatus partes s. Thomas exposuit his paucis: In sacra doctrina philosophia possumus tripliciter uli. Primo ad demonstrandum ea, quæ sunt præambula Fidei, quæ necessaria sunt in Fidei scientia, ut ea, quæ naturalibus rationibus de Deo probantur, ut Deum esse, Deum esse unum, et huiusmodi de Deo, vel de creaturis in philosophia probata, quæ Fides supponit. Secundo ad notificandum per aliquas similitudines ea, quæ sunt Fidei, sicut Augustinus in libris de Trinitate utitur multis siroilitudinibus ex doctnms philosophicis sumtis ad manifestandam Trinitatem. Tertio ad resislendum his, quæ contra Fidem dicuntur, sive ostendendo esse falsa, sive ostendendo non esse necessaria. i Potiora capita, quorum gratia Theologia philosophiæ, ceterisque scientiis humanis antecellit, secundum s. Thomam, hæc sunt. Theo logia humanis scientiis antecellit primo ob præstantiam sui obiecti, quia ipsa est principaliter de his, qua sua altitudine rationem transcendunt. Aliæ vero scientiæ considerant ea taritum, quæ ra tioni subduntur. Secundo, ob effectum, quem in animis discentium producit, quia aliæ scientiæ certitudinem habent ex naturali lu mine rationis humanæ, quæ potest errare, hæc autem certitudinem habet ex lumine Divinæ Scientiæ, quæ decipi non potest. Tertio, ob nobilitatem finis, ad quem homines ducit, prout practica scientia est; nam finis huius doctrinæ, in quantum practica, est beatitudo æterna, ad quam, sicut ad ultimum finem, ordinantur alii fines scientiarum practicarum ; I, q. I, a. 5 c. Hæc adnotavimus, ut in ipso vestibulo adolescentulos ab errore Rationalistarum amove remus, qui putantes dogmata Theologiæ non esse aliud, quam præ cipuas veritates philosophiæ rudium captui accommodatas, philoso phiam ipsi Theologiæ anteferre non dubitant; unde illam cum Cou sinio (Introd. d Vhist. de laphilos.; Oeuvr. t. I, p. 10, Bruxelles) fontem omnis lucis, ac auctoritatem omnium auctoritatum salutant. Super BOEZIO (vedasi) de Trinitate, Prooem. Logica definiri potest cum AQUINO (vedasi). Scientia, quæ cst directiva ipsius actus rationis, per quam scilicet homo in ipso actu rationis ordinate, et faciliter, e( sine errore procedat . Hæc definitio in logicam adquisitam quadrat, quæ prohe distinguenda est a Jogica, quarn mturalem vocant. Est autem logica naluralis quædam dispositio animis insita, pcr quam facullatihus ad cognoscendum destinatis recte utimur. Circa hanc scientiac logicæ definitionem explicare oportet quinam sit ille actus rationis, in quo eius obiectum consistit. Porro mens nostra per tres diversas actioncs ad rerum cognitionem pervenit. Hæ sunt notio, qua mens res simpliciter apprchendit; iudicium, quo mens aliquam notionem de alia aflirmat, vel negat; ratiocinium, (juo cx duohus iudiciis alterum eruit, atque ita ex notis ad ignotorum notitiam progreditur. Huiusmodi actiones ita inler se comparantur, ut prior posteriori contineatur, eique inserviat; nam iudicium ex notionihus, et ratiocinium ex iudiciis conflatur. 3. lamvero cx his nostræ mentis actionihus tcrtia cst proprium ohiectum logicæ. Re quidem vera, fiuis logicæ est mentem dirigere, ut ipsa in scienliis assequatur verum sine errore, facilc, et certo ordine. Atqui mens noslra in scientiis assequitur verum ope ratiociuationis. Ergo linis logicæ est mentcm in ratiocinando dirigere, ac proinde ratiocinatio est proprium ohicclum logicæ2. Quod si in logica eliam dc notionihus, et iudiciis tractatur, hæc ad examen revocanlur, non prout per se, scd prout elemenla ratiocinationis sunt. Etenim ratiocinatio, ut diximus, ex notionihus, et iudiciis constat; quapropter logicus 1 ln lib. l Poster., Jcct. I. Hanc ob rationem logica a nonnullis definitur scientia ratiocinaaonts; ctabipsoD.Thoma, rationalis scicnUa; In lib.l Anal., lcct. I. perfectam notitiam ratiocinationis acquirere non potest, nisi seorsum intelligat hæc elementa, ex quibus ipsa conflatur. Diximus autem logicam esse scientiam, non vero artem, quemadmodum visum est Auctori Artis cogitandi , aliisque. Et sane, scientiæ, ut suo loco dicemus, proprium est colligere naturam, et affectiones rei ex principiis internis eiusdem. Atqui logica ex principiis, quæ ratiocinationem constituunt, colligit, quomodo ratiocinationes componendæ sint, ut liceat progredi ex noto ad ignotum. Ergo Logica est scientia2. 5. Sunt alii philosophi, qui logicam non esse specialem scientiam, sed cum aliis scientiis confundendam esse docent. Nimirum ipsi considerant logicam velut instrumentum scientiarum, quia tractat de ratiocinatione, quæ est instrumenlum, per quod scientiæ acquiruntur. At isti philosophi a vero aberrant. Et sane, scientiæ, ut suo loco explicabimus, inter se distinguuntur ratione obiectorum, circa quæ versantur. Atqui obiectum logicæ ab obiectis reliquarum scientiarum distinguitur; nam logica modum conficiendi ratiocinationes generatim tradit, non vero conficit syllogismos, seu ratiocinationes, quarum ope quælibet scientia circa propriam materiam assequitur verum. Ergo logica a reliquis scientiis distinguenda est. Ex his perspicitur logicam, etsi agat de ratiocinalione, qua ceteræ scientiæ utuntur, tamen ipsam potius scientiam instrumenti scientiarumj, quam instrumenlum scientiarum dicendam esse. 6. Cum hæc sit logicæ natura, ipsa immane quantum utilitatis in reliquas scientias confert Etenim, quemadmodum artifex eo perfectiora opera concinnare valet, quo i Ars cogitandi, p. 1, Lugduni 1703. ^ Hlud vero tacendum non est, logicam, quemadmodum s. Thomas monuit {Super Boet. De Trin., lect.), ad artem quodammodo accedere, quippe quod, cum ipsa modos conficiendi enunciationem, syllogismum, aliasque, quæ ab his oriuntur, et pendent, cogitationis formas, secus ac ceteræ scientiæ, tradat, quodammodo circa opus versatur. Etiam in ipsis speculabilibus, alibi ait, est aliquid per modum cuiusdam operis; puta constructio syllogismi, aut orationis congruæ, aut opus numerandi, vel mensurandi. Et ideo quicumque ad huiusmodi opera rationis habitus speculatrvi ordinantur, dicuntur per quamdam similitudinem artes ; la 2, q, LVII, a. 3 ad 3. molius instrumenla artis suæ novit; ita quisque eo faciJius, et rectius scientias assequitur, quo penitiorem habet notitiam instrumentorum, quibus illæ utuntur. Atqui logica suppeditat perfectam notitiam huiusmodi instrumentorum. Ergo Logica ad scientiarum perfectionem magno adiumento est '. Tractationem huius scientiæ trcs in partes dividemus. In prima de iis, quæ ad formamt seu structuram ratiocinationis pertinent, agemus ; quare primum exponemus elementa, quæ syllogismum efticiunt, nempe notiones, et iudicia, sive enunciaiiones ; deinde investigabimus leges, secundum quas ratiocinatio conficienda est, ut per illam ignotum ex noto inferri queat. In altera parte explicabimus quidquid spectat ad diversas species syllogismi ex divcrsitate materiæt sive enuncialionum, ex quibus conclusio eruitur. Denique in tertia partc, quæ Melhodologia dicitur, inquiremus, a quibusnam principiis studioso cuiusque scientiac proficiscendum sit, et quonam ordine in suis argumcntationibus progrediendum, ut obiectum suæ scienliæ consequi possit. 1 Hanc ob rationem Logica diseiplina disciplinarum a s. Augu stino appellatur; De Ord.t rrior Logicæ pars, ut innuimus, tres investigaliones complectitur, quarum una circa notiones, altera circa enunciationem, et tertia circa ratiocinationem formaliter sumtam versatur. Quapropter ipsam tribus capitibus comprehendemus. De notionum speciebus, quæ ad Logicam spectant NOTIO – cf. NOTA (Grice) -- est mentis actus, quo ipsa aliquid simpliciter apprehendit, quin de eo ullam proprietatem affirmet, aut neget1. Variis modis ipsa accipi potest2, sed in præsentiarum explicandum dumtaxat nobis est, quid sit notio universalis, quidque a particulari, atque a singulari differant. 2. Notio universalis ea esl, quæ exhibet aliquid unum, quod mullis attribui potest; e. g., notio animalis, homi i Apud recehtes nomen ideæ, aut conceptus etiam habet. At non satis accurate. Nam idea significat vel exemplar in mente existens, cuius instar artifex opus conficit {Qq. dispp,, De Ver., q. III, a. 1 c); vel forma seu species aut imago rei apprehensæ in mente existens, ex qua mens ad rem cognoscendam determinatur (I, q. XV, a. 1 c). Conceptus autem est ipsum obiectum apprehensum, prout a mente et in mente exprimitur. Quæ tamen magis perspicua fient ex dicendis in Dynamilog. Præcipue maior, vel minor perfectio consideratur, qua mens nostra res sibi obiectas apprehendit. Secundum hanc rationem notio esse potest clara, vel obscura, prout mens rem percipit vel ita, ut illam ab aliis quibuslibet distinguat, vel non. Rursus notio clara in distinctam et confusam dividitur. Confuse aliquid cognoscitur, cum omnium proprietatum, quæ eius essentiam constituunt, propria notitia non habetur: e contrario, distincta est notio, quæ proprietates eius essentiam constituentes singillatim exhibet. Denique notio distincta, qua naturam ipsarum proprietatum rei cognoscimus, cum totam rem omnimocle exhibeat, dicitur adæguata, secus, inadæquata. Vid. s. Thom., In lib. 1 Post., lect. nis ctc. Cum notione universali confundenda non est notio collecliva. Notio collectiva illa vocatur, quæ exhibet plures res singulares aliquo ordine comprehensas. Huiusmodi est notio exercitus, quæ pluribus hominibus belli socns convenit. Iam notio collectiva ab universali differt 1 quia universalis atlribuitur omnibus rebus sin^ulanbus, quac ad aliquod genus, vel ad aliquam speciem pertinent ; collectiva autem pluribus, sed non omnibus; l quia illa unicuique rei singulari seorsum sumtæ convenit ; hæc vero nonnisi omnibus simul sumlis tribui potest. E. g., de unoquoque homine dici potest esse hominern, sed non item de unoquoque milite esse exercitum. d. Nolio autem smgularis est ea, quæ repræsentat aliquod individuum. Jam individuum est id, quod ex proprielatibus ita determinatis constat, ut hæ omnes eædem alu convenire non possint , puta Socrates. 4. Noho universalis dicitur abstracta, quia mens apprelicndit ahquid commune multis rebus ex co quod illud cons.dcrat seiunctim a proprielalibus, ex quibus in ipsis rebus deteraunatur. E. g., nolio hominis repræsentat humanitatem absquc proprielatibus, quibus hacc in Socrate, naione elc. determmatur. E contrario, notio singularis Ucitur concreta, quia ipsa exhihct rem, prout in se deterV,l>i existit; pata notio Socralis denotat humnnitatem 'omunctam cum omnibus proprietatibus, quihus hæc deerminatur m Sucrate., -> Denique particularis aliqua notio dicitur, prout reertur ad universale, cui subiieitur, quia notio consideala, prout alicui universali subiicitur, deootat ipsum uniersale non universe, sed ex parte. Ouocirca particularis st lum notio, e. g., aliquorum hominum relata ad nol0?em homxms, tum notio hominis relata ad notionem ntmalis. j). Ex nolionihus universalibus aliæ ad aliqua genera ei ahquas species rerum referuntur, puta uotiones ontWxtatis, et humanitatis, aliæ, quæ dicunlur supremæ, ei generahssimæ, referuntur ad illud, quod diversis irenemis rerum est commune, cuiusmodi est nolio substan di V.e/uit individuum ' '• in plura talia, qaale ipsmn est, ditiæ. Iara dumtaxat notiones universales supremæ ad Logicam spectant. Etenim Logica non est sc.cntia huius, vel illius generis rerum, sed est scientia, quæ tradit modum generalem, quo scientia cuiuslibet gener.s rerura acqu.ri potest; quanropter ipsa exphcare non debet not.ones, quæ Swersaruni scientiarum obiecta sunt, sed dumtaxat notiones, ad quas diversæ notiones d.versorum obiectorum scientiarum revocanlur. Atqui humsmodi notiones, aa nnas notiones pertinentes a"d diversas scienUas revocanSr, illæ sunt, quæ supremæ dicuntur. Ergo dumtaxat notiones supremæ ad Logicam spectant. •j^.-j 7. Advertendum aulem%st in Log.ca non cons.derar. notiones supremas, prout repræsentant has, aut illas res, sed prout habent ordinem cum alus nof.on.bus, hoc est, nrout attribui possunt aliis notiombus, quas s.bi sub.ectTs habent. E.Pg., Logicus tractat de not.one J non ut consideret res, ad quas hæc referlur, sed ut co gnoscat modura, quo illa notio alns noUorabus attrlbu Ltest . Exinde fit, ut notiones supremæ, prout consuleLntur in Logica, appellentur categoriæ, teH nam attribulre aliquid ahcui in Schohs dicitur prædi CCLTB • 8.' Sed advertendum præterea est log.cum ; non posse cognoscere, quomodo notiones supremæ de aliis ^Wn bu"s prædicentur, nisi iam cognoscat coramunes modos quibus aliquid de aliquo præd.car. potest. N .tiones, qua. exhibent communes prædicand. modos, "™ca?™^ f tegoremata, seu prædicabiha. Quarc tractation. de præ dicamentis tractatio de præd.cab.l.bus præm.ttatur ne cesse est. Itaque notiones, circa quas Log.ca præp.pu versatur, sunt prædicabilia, et prædicamenta. t Hanc ob rationem notiones, prout considerantur in Logica a, pellantur secundæ. Ad quam rem scicndumcstnot.onesd.nd.inpr mas, elsecundæ. Notio prima est not.o rei specUMe n se e. g notio homims, prout hæc ipsum esse hom.n. repra es ta t. Not .o s cunda cst notio rei non spectatæ m se, sed relate d ™od ab intelleeto cognoscitur, puta notio hormms, prout horno cog.tat velut quædam species, ad quam Plato, Socrates et ah. reIerunW Vocantur secundæ, quia notiones primas lam formatas expostula. Definiuntur notiones, quæ prædicabilia dicuntur 9. Prædicabilia, ut diximus, sunt illac notiones universales, quæ exhibcnt communes modos, quibus aliquid de aliquo enunciari potest. Hæ notiones sunt quinque, nempe genus, differentia specifica, species, proprium et accidens. 10. Species est notio universalis, quæ de pluribus individuis secundum essentiam completam prædicalur. E. g., homo de Socrale, de Piatone, aliisque singulis hominibus prædicatur, ct denotat eorum essentiam non inchoatam, et imperfectam, scd determinatam. et perfectam. 11. Gcnus est notio universalis, quæ de pluribus speciebus sccundum cssentiam incomplctam prædicatur. E. g., animal de hominc, de equo, aliisque animalium speciebus prædicatur, et eorum essentiam non quidem determinatam, et perfectam, sed inchoatam, atque imperfectam denotat. DIFFERENTIA SPECIFICA est illa notio universalis, quæ repræsentat qualis sit essentia rei ; nempe per differentiam essentia rei non indeterminatc, uti per gcnus, exhibetur, sed qualis ipsa sit, dcterminatur. Huiusmodi est esse ratione præditum. Ita interroganli, quid sit homo, primo rcspondetur esse animal, dcinde pergenti interrogare, quale animal sit, respondetur esse ratione præditum. Dicitur autem dilTcrcntia specifica, quia pcr ipsam u na spccics ab altera differt. Q13. Iamvero proprietatcs diflerentiæ specificæ hæ sunt: 1 Ipsa dividit genus in plures spccies, seu istud aptum reddit ad plurcs species efliciendas. E. g., sine illa differentia, quac dicilur ratio, animal, in rationale ct irrationale dividi non possct. 2° Differentia actu addita generi ipsum dcterminat. E. g., animal, quatenus genus est, hominem, atque belluam indeterminate significat ; at cum antmah ratio adiicitur, inde nalura hominis dumtaxat significatur. 3 Differentia cx hoc ipso, quod dclcrminat genus, ahquam dctcrminatam specicm constituit. E. • species homo constituitur ex ratione addita generi animalis'. Uuapropter spccics cx gcnere, et diffci;entia constare EssenHa ut suo Ioco dicemus, significat id, quo res est, atque a cetcns rebus distinguitur. dicitur, seu essentia uniuscuiusque speciei est ipsa essentia generis curn detenninatione, quara habet per differentiam. 14. Proprium est notio universalis, quæ de pluribus rebus singularibus prædicatur, et denotat illam qualitatem > quæ est extra essentiam rei, sed tamen necessario illi advenil. Huiusmodi est esse risibile in homine '. 15. Denique accidens est notio universalis,' quæ de pluribus rebus singularibus prædicatur, et denotat illam qualitatem, quæ non solum extra essentiam rei est, sed etiam contingenter ab ea fluit, ita ut sive de re affirmetur, sive negetur, essentia rei non destruatur. Huiusmodi est esse philosophum in homine2. 16. Itaque notiones universales, per quas, veluti per quasdam notas, cognoscimus quomodo aliquid de aliquo prædicari potest, repræsenlant vel proprietates, quæ essentiam rei constituunt, et sunt genus, species, et differentia; vel proprietates, quæ essentiam rei non ingrediuntur, sed ab ea promanant, et sunt proprium, et accidens. Inter genus, speciem, et differentiam hoc extat discrimen, quod species lotam essentiam complectitur, genus autem, et differentia partem eius tanlum exprimunt, et quidem genus exprimit partem communiorem, et universaliorem, qua res ipsa cum aliis convenit; differentia autem partem minus communem, per quam res ab aliis omnibus distinguitur. Inter proprium autem, et accidens discrimen est, quod illud cura essentia necessario coniungitur, hoc vero essentiæ contingenter advenit 3. Hoc proprium, cum necessario consequatur essentiam rei, dicitur convenire omni speciei, hoc est omnibus individuis, quæ ad illam speciem pertinent, soli, et semper. Quocirca distinguitur tum a proprio, quod soli speciei inest, sed non omni, ut in homine Geometram esse, tum ab illo, quod omni quidem speciei inest, sed non soli, ut bipedem esse, tum denique ab illo, quod omni et soli inest, sed non semper, ut canescere. 2 Sunt aliquæ qualitates, quæ, etsi actu a subiecto separari nequeant, tamen inter accidentia numerantur. Huiusmodi est nigredo in corvo. Cum enim hæ qualitates ab essentia rei contingenter promanent, intellectus potest illas qualitates negare, quin essentia rei destruatur. Hinc hæ qualitates actu quidem inseparabiles, sed cogitatione separabiles a subiecto sunt. ;} Adnotandum est nomen accidentis etiam proprio attribui posse. De gcnerum et specierum distinctione. Differenliæ, ut diximus, determinant genus. Hinc, prout plures, vel pauciores differentiæ adduntur generi' ipsum magis, ve! minus determinatur. Pula, si generi' substantia, quod indifferens est ad substanliam sive corpoream, sive incorpoream signiftcandam, differentia corporis addatur, ipsum coarctatur ad genus substantiæ corporeæ. Præterea genus substantiæ corporeæ amplectitur lum corpora viventia, tum corpora non viventia ; at si diffcrentia viventis ipsi addatur, cfficitur genus substantiæ viventis. Item substantia vivens, quæ ampleclitur tum viventia sensu prædila, nempe animalia, tum sensu carentia, ncmpe vcgetabilia, per differentiam sensus ad genus animal dctcrminatur. Denique genus animal, in quo species hominis, et belluæ continentur, per differenliam rationis spcciem hominis dumtaxat repræsentat. Exinde orilur distinctio gencrum, et specierum in suprema, media, atque infima. Gcnus supremum est illud, quod omnibus pracest, et nulli alii generi subiicitur. Genera mcdia sunt illa, quæ subiiciuntur superiori, et simul præsunt inferioribus. Denique genus infimum est illud, quod nullt generi, sed solis speciebus præcst. Ita in allato excmplo subslantiu est genus supremum; animal vero est genus mlimum; (I(mikjuc corpus, ct vivcns sunt genera intermedia. quia mtcr supremum, et inlimum intercedunt. 18. Genus supremum numquam efficitur species, quia nul h subiicitur; sed genus medium, ct infimum sunt simul genus, si comparentur cum speciebus sibi subiectis, et species, si ad genus superius rcferantur. E. g.,corpus respectu substantiæ est species, et respectu viventis est genus, (jiua corpus potest esse vivens, aut non vivens. Item ammal relatum ad vivens est species; rclatum autem ao uctluam et honuncm est genus. 19. Ad bæc genus dicitur proximum, si refertur ad species, quæ sub eo immediate ponuntur, et rcmotum, si reiertur ad species mediate, hoc est, per alias species. qnatenus proprium significat aliquid, quod advcnit essentiæ rci. (Juia vero propnum necessario advenil csscntiac rei ita dicitur æcidens speciei, et hoc modo distingnitnr ab accidente, qaod cst quintum pracdicabilc, quodque accidcns individm appellatur. Ita genus proximum hominis, et belluæ est animal, quia homo, et bellua animali immediate subiiciuntur: remotum vero vivens, quia homo, et bellua vivenli mediate subn ciuntur. 20. Quod attinet ad species, suprema est, quæ supra se aliam speciem non habet, ut corpus ; media aulem, quæ tam supra se, quam infra se habet aliam speciem, ut animal; infima denique, quæ sub se non habet ullam speciem, scd tantummodo res singulares, Quocirca species infima eiusmodi est, ut numquam sit genus. Art# iv. De nolionuua coraplexione, et arabilu 21 In qualibet notione invenitur quidam complexus, et nuidam ambitus. Complexus consistit in iis elementis, ex quibus notio efficitur. E. g., in notione homims complexus consislit in eo, quod homo est substantia vita, sensu et ratione prædita. Ambitus est numerus subiectorum, ad'quæ notio porrigitur1. Iam complexus, et ambitus sunt in ratione inversa, nempe, quo maior est alicuius notionis complexus, eo minor est ambitus; et quo maior est ambitus, eo minor est complexus. E. g., complexus hominis maior est, quam animalis, qu.a ln ammah non continetur ratio, sed minor est ambitus, quia homo dumtaxat ad animalia ratione prædita, animal vero ad homines, et ad belluas porrigitur. 2 2. Ex quibus facile est hæc colligere: 1 In sene universalium genus supremum habet maximum ambitum, sed minimum complexum; e contrario, species infinia minimum ambitum, et maximum complexum continet. 2 Uuidquid in notione superiori continetur, m notione intenon etiam invenitur, sed non vicissim, quia m notione superiori minor, et in notione inferiori maior est complexus. E i? quidquid in genere animalis contmetur, mvenitur etiam' in homine, et quidquid invenitur in homme, cuilibet individuo homini etiam inest; sed non omnia, quæ sunt in homine, sunt etiam in animali, neque quidquid est in bo-. crate, est etiam in homine. Quocirca a gencre ad speciem, atque a specie ad individua, sed non item ab mdividuo ad speciem, atque a specie ad genus concludi potest. i Cartesiani, et Woltiani pro complexu comprehensionem, et pro ambitu extensionem dixerunt. Quinara sint terraini univoci, æquivoci, et analogi, explicatur 23. Mos in Scholis est ante tractationem prædicamentorum quædam explicandi, quorum cognilio ad illorum cognitionem valde conferl,quæque idcirco Ante-prædicamenta vocanlur. Ex his ea, quæ ad terminos univocos, æquivocos, et analogos spectant, præsertim nola esse volumus. 24. Univocum dicitur illud nomen, quod plurihus communiter altrihuitur, secundum eamdem suam significationem. Huinsmodi est nomen animal, quod homini, et hruto convcnit. Æquivocum est illud nomen, quod de plurihus secundum diversam significationem cnunciatur; e. g., canis, quo et canis terrestris, et canis marinus denolantur. Iam nomina æquivoca in duo genera distinguuntur, nempe vel sunt pure æquivoca, vel analoga. Nomen pure æquivocum dicilur illud, quod plurihus atlrihuitur, quin sit in eis aliquod fundamentum, per quod illud nomen commune sortiuntur. Huiusmodi est nomen canis, cum animali, et sideri trihuitur. Analogum autem appellatur illud nomcn, quod datur plurihus, quia in eis est aliqua ratio, ex qua illud communc nomen accipiunt. Huiusmodi est nomen sanitas, quod cum corpori, tum medicinac, tum pulsui trihuitur oh ordincm, quem ad sanitalem hahent; corpus enim dicitur sanum, quia sanitas ei, tamquam suhiecto, inhæret, medicina dicitur sana, quia in causa est, cur corpus sit sanum, et pulsus vocatur sanus, quia corpus esse sanum patefacit. 25. Ratio, oh quam horum terminorum explicatio hic redditur, ea est, ut inlelligatur 1° quamlihet caleroriæ specicm prædieari univoce de iis, quæ sihi suhiiciuntur; e. g., suhstomtia tum suhslantiæ incorporeæ, lum corporeæ eadem ratione allrihuilur, utraque enim, quatenus suhstanlia esl, aliquid significat, quod hahet csse non in aho ; 2° cns dc singulis categoriis prædicari analoge; siquidem unaquælihet earum, ut infra dicemus, peeuliarem modum entis significat •: Ita nomine suhstantiæ exprimitur quidam spccialis modus esscndi, scilicet per se ens 2'; ^ Ua de aliis generihus ; 3° ens ipsum comparatum ad J Cf S. Thom., In Ub. I Sent., Dist. XXII, q. I, a. 3 ad 2. b rationem quantitas continua dicitur dimensiva. lam, ctsi hæ tres dimensiones simul iunclæ in corpore semper existant, tamen licot nobis cogitare longitudinem sine hitituaine, et profunditate, atque longitudinem ct latitudinem smc protunditate. Longitudo sinc latitudine, et profunditate est ea guantitas, uuæ dicitur linea; longitudo autem, et latitudo sme prolundilatc efficiunt illam quantitatem, quæ Nocatur superfictesi quanlitas vero, quæ longitudinem, lantudinem et profunditalem habet, rrancupatur corpus . '''"'ft nomi,u> M intelligitur non corpus physicum, oempe prai est substant.a composita ei materia ei forma, æ proinde qaod ">n soiam quantitate, sed etiam qualitatibus sensUibas esl præditam seacorpus mathematicum, quod est guantum præcise samtam, hoc Quantitas ob tres dimensiones, quas in ea esse vidimus, non nisi subsiantiæ corporeæ, quæ ex partibus contlatur,propria est.At sensu translato tribui potest etiam substantiis spiritualibus, quæ sunt expertes partium; et prout ipsis tribuitur,non dicitur dimensiva, sed virtuahs, quia denotat aliquam illarum perfectionum, quæ ad earum vel naturam, vel esse, vel durationem, vel vim agendi pertinent. RELATIO in universum sumta illud proprie denotat, per quod unum ad aliud quemdam ordinem habet. Quare in relatione tria distinguuntur, scilicet subiectum, nempe illud, quod habet ordinem ad aliud; termxnus, seu lllud, ad quod subiectum habet ordinem, et fundamentum, seu princinium, cuius ratione subiectum ad terminum comparatur. Ita si cycnus similis columbæ propter albedinem dicatur, cycnus erit subiectum, columba terminus, albedo autem fundamentum huius relationis. Subiectum, et terminus vocantur etiam extrema. . 36. Relatio autem esse potest ve\propne, et strxcte realis, vel loqica, vel mixta. Relatio realis est ea, quam intellectus deprehendit inter res vere existentes, quæ naturalem ordinem habent ad invicem. Huiusmodi, e. g., est re atio, quæ inter patrem, et filium intercedit. Hæc relatio vocatur mutua, quia eius fundamentum m ambobus extremis realiter existit. Puta, mutua est relatio, quæ inter patrem, et filium intercedit, quia pater ad nlium, et tilius ad patrem ordinem naturalem habet. 37. Relatio autem logica exurgit ex eo, quod intellectus ordinem ponit inter suos conceptus, atque ita unum ad alterum refert. Quocirca est ea, qua aliquid ad aliud refertur, non secundum rationem existendi, sed secundum rationem intelligendi 4. E. g., intellectus, si comparat conceptum lapidis, quem actu in se considerat, cum conceptu lapidis, quem antea sibi confecit, et unum esse eumdem cum alio advertit, relationem identitatis inter utrumque ponit. 38 Denique relatio dicitur mixta, quoties ordo mter eiusextremahuiusmodi est, ut in uno eorum fundamen est, quantum, in quo dimensiones quantitatis a natura et essentil cor'poris, atque a qualitatibus sensilibus seiunctæ mtelliguntur. i S. Bonav., /n lib. I Sent., Dist. XXVIII, dub. tum sit naturale, in altcro autem ab intellectu ponatur Hæc relationis species dicitur etiam non mutua, quia iii ea unum extremorum dumtaxat ordinem ad aliud reipsa habet. Id genus est relatio creationis, quæ intercedit inter Deum, et res ab Eo creatas; nam relatio crealionis in rebus creat.s realiter invenitur, quia ipsæ, quidquid sunt a Deo per actum creationis accipiunt; in Deo autem invenitur tantum secundum rationem, quia Deus a rebus creatis nullo modo perficitur. 39. Termini, seu extrema relationis mutuæ sunt simul nalura; siquidem non potest eorum unus poni, quin et alter ponatur, ncc unus tolli, quin et alter tollatur! E g est qui dicitur pater, oportet etiam esse, qui dicatur fiIius; et s. esl, qui dicitur filius, necesse est patrem aliquem esse; pariterque, si pater non est, non erit filius, et si non est filius, nec erit patcr. Hoc autem intelliffendum est de esse ipsarum relationum, quæ in subiectis sunt, non vero de esse subiectorum, in quibus sunt relationes E. g., esse patris, et esse filii, prout homines sunt, non sunl simul natura. 40. Rursus termini relationis mutuæ, si spectentur prout sunt relati, sunt simul cognitione, quippe quod conceptus unius conccptum alterius, et vicissim, expostulat fc. g., pater jntelligi non potest, quatenus est pater, nisi et falius simul mtelligatur. Quod si spectentur non prout sunt quædam res rclatæ, sed prout simpliciter sunt quæaam ros, cognitio unius non expostulat cognitionem alterius. l g., s. Petrus, pater Pauli, specletur non prout pater est, sed prout bomo est, potest intelligi, qu n simul mtelligatur Paulus. 6 H 41. In relatione autem non mutua termini non sunt simul naura nam illud extremum, in quo fundamenlum Donitnr k • f i1. n?quit ?ine Ill in fIU() ^ndamentum pon.lin ab mtellectu, sed non vicissim. E. g., existentia S^Snto^nU™.hab?S ne quæinmundosunt, mentem nostram V ]n),U'qn,,,n Dei; Sed conceP^ Dei nos baud Ki s s L ?oncePtum rerum, quæ in mundo sunt, quia I ionis o,S. °X,S,,MT P°te,st At ™r°> >j terminiV 10" mutue> Pwut relali sunt, spectentur, simul '"" sil poni scientiam, tamen non po^u.d JHffarK1 eM cXrfef sqec m SK^ '? : "erum^creatarum, tLen Deus -teih^uou potest, tamquam creator, msi ad res extra se reie.atur. IX. De qualitate 42. (Mto est accidens quod per se induc in^substantiam, spec.aleu, moduu essenj' e. ^ ^, tiam ?W W^^^IXa.V indcerein ahus modi subsidio moalc^ ", reddunt non per ^SnonK^ ex eo quod partes, quas minatur, ut bene yel ™le ^ ^ DoperanduID. E. g., sa ant SgL-t. ^ocatur habitus s. e.usmod. e t „t d .ffi sksekw sa e., bPS0SrnifqnSSrspecieS afficit ^J^Jg" qna substantia pollet, atque cons.stit in P™cl,v ale/ J Xecilli.ate, quæ ipsi inest ad æ"d™ VliuTee1 obiectnm snnt, et ad res.ste ndum ., quæ II, us ex tationem impedire possunt. • Proclw.ta, vocatur po imbecillitas autem impotenlia. E. g., N>cr al es P" V mTm potenliæ naturaliter comparatus erat ad ph.losoph.a morum addiscendam. Tertia qualitatis species est illud accidens, quod in substantia transmutationera sensibilem producit, vel a transmutatione sensibili producitur. Huiusmodi est metus, qui statum hominis perturbat, vel pallor, qui ex metu efficitur in vultu hominis. Hæc tertia qualilatis species vocalur passio, si est levis, et fugax, e. g., pallor, qui ex metu ^ignitur; vocatur nutem passibilis qualitas, si est constans, E?t diuturna, e. g., pallor ex longa ægritudine ortus. 46. Denique quarta qualitatis species dicitur illud acciJens, quod rcsultat ex dispositione partium quantitatis. Hacc postrema species qualitatis vocatur figura, prout deaotal id, quod claudit quanlitatem, vel forma, prout denotat id, quo una quantitas ab alia discriminatur. X. Dc definitione, et divisione 47. Definitio est oratio, quæ quasi involutum evolvit id, ie quo quæritur1. Duplicis autcm cst generis, nominis lempe, et rei. Definitio nominis ea est, quæ explicat, quid icr aliquod nomen significetur; puta, cura aliqua vox ex)lanatur per dictiones, a quibus oritur, seu per eius etynologiam ; vel cum disputantes patefaciunt, quo sensu oces usurpare velint 3. Definitio aulem rei ea est, quæ issentiam rei per aliquam vocem significatæ delerminat; [uare ipsa conficitur, cum proprietates, quæ essentiam ei exhibent, recensentur, e. g., cum homo definitur, aumal ratione præditum; vcl cum assignantur causæ inernæ, scilicet maierialis, et formalis, quæ rem constiuunt, e. g., cum homo definitur, substantia constans ex orporc, et anima rationali 4. 1 De his hoc loco agimns, quatenus ad notionum perfectionem iol>is comparandam ipsæ inserviunt. Cic, Topie., c. 2. Dc dcfinitione cf Alb. M., Topic, lib. VI, r. 1, c. 1, et passiin. 3 Qq> dispp., De Per., q. II, a. 1 ad 9. 4 Definitiones a descriptionibus distinguendæ sunt. Etenini in his on solum proprietates recensentnr, quæ essentiam rei constituunt, ''ii etiam illæ, quæ ab essentia necessario, vcl contingenter fluunt. • J., descriptio lit hominis, cum dicitur esse animal providum, sa"r, multiplex, acutum, plenum rationis ct consilii. Item, non defiitur, sed potius describitur res aliqua, cum eius causæ eiternat, empe efficiens, exemplaris, el finalis, assignantur; puta si dicatur: romo cst a Deo in sui similitudinem creatus propter beatitudinem. LOGICÆ 48. Ut definitiones rite conficiantur, hæc observanda sunt : 1° Definitio debet neque pauciores, neque plures notas enumerare, quam quæ necessariæ sunt ad rem definitam ab omnibus aliis discernendam. Perperam faceret, e. g., qui hominem animal bipes, vel, animal bipes ratione præditum definiret . 2° In definitione genus proximum, et differentia specifica adhibeantur oportet: hoc enim pacto tota rei natura quam brevissime exhibetur, atque a ceteris omnibus secernitur. Ideo autem genus proximum, non vero remotum adhibendum est, quia genus remotum non complectitur omnia, quæ generis inferioris notione continentur 2; ac proinde si definilio fiat per genus superius, aliqua, quæ spectant ad genus proximum, differentiam ingrediuntur. Ita, si triangulum rectiangulum definiatur per figuram planam tribus lineis circumscriptam, cuius unus angulus est rectus, non apparet, utrum ternarius numerus laterum spectet ad genus, an ad differentiam. At si definiatur per triangulum, cuius unus angulus est rectus, luculenter cognoscitur ternarium numerum laterum esse omnibus triangulorum speciebus communem, et differentiam trianguh rectianguli in eo positam esse, quod angulorum unum rectum habeat. 3° Oportet ut definilio sit clara, nempe fiat per notiora, quam res definita, siquidem ignotum per ignotum manifestari nequit. Atque ob eamdem rationem docent Logici, cavendum esse a definitione in orbem, quam circulum vitiosum appellant, scilicet quando in definienda ahqua re adhibetur vocabulum, in cuius definilione occurnl illud ipsum, quod priori definitione explicandum erat. Hoc vitium peccaret, si quis diceret, horam esse vicesi; mam quartam partem diei, diem autem tempus vigmti qualuor horarum 3. i Id s. Thomas docuit, cum inquit oportere, ut definitio denote aliquam formam de re, quæ per omnia ipsi respondet. Hinc lntelli gis cur Logici doceant, definitionem, si recta sit, cum re defimta re ciprocari. Revera æque dici potest: Quisquis est homo, est ammc ratione præditum, et, Quidquid est animal ratione præditum, ei homo. Vid. s. Aug., De quantitate animæ, c. 25. 2 Cf p. 13. s Hæc autem regula in relatis locum non habet, siquidem natui cuiusque relati a natura termini, ad quem refertur, efficitur. Deiinitio verbis neganlibus fieri nequit, quippe quod ipsa non (am quid res non sil, quam quid res sit, cxplicare dcbet '. 49. Divisio autem est totius in partes distribulio. Totum, quod in partcs dividitur, divisum audit, et partes, in quas tolum dividitur, membra dividentia dicuntur. Si qua divisionis pars complexa sit, suasquc in partcs et ipsa solvalur, subdivisio existil. Denique plures divisiones eiusdcm rei, quæ diversis modis consideratur, condivisiones a logicis dici solent. 50. Totum, quod dividitur, triplicis generis csl, nempc intcgrale, universale, et potcntiale 2. Tolum intcgrak iilud est, quod ex partibus coalescit, quac re ipsa ab se invicem abscindi possunt, cuiusmodi est domus, quac ex fundamcnto, pariele, tecto exurgit 3. Totum vero universale illud audit, cui partes, lamquam species, subiiciuntur, veluti animal, quod in hominem, et belluam dividitur. Denique totum potentialc nominatur illud, cui plures potentiæ, seu facullates inter sc distinclæ insunt, vcluti anima humana, quæ, ctsi una el simplex sit, tamen in intellectivam, sensitivam et vegetativam dividi solet. 51. Regulac reclæ divisionis sunt præcipuac tres. Prima vetat, quin divisio fiat in partcs pauciorcs, aut plurcs, quam oporlcl, quia partes tolum æquare debent. Contr.i hanc rcgulam pcccaret lam qui angulum in reclilineum, ct curvilincum, quam qui lincam in rectam, curvam, et mixtam divideret. Secunda præcipit, ut pars una allam non includal; sccus enim eadcm pars bis sumeretur. E. m quo ipsa proprietas significatur. E. g., idcm esl cere, convalescit, ac est convalescens. Unde verbum esse mncupan solet primitivum. 1 I, l UI, a. 4 ad 2. Iam verbum in enunciatione modi indicativi, et temporis præsentis sit oportet. Et primo, verbum modi indicativi esse oportere probalur hoc brevi argumento : Enunciatio est oratio indicativa, quia verum, aut ialsum significat. Atqui enunciatio sumit ex verbo vim sigmncandi verum, aut falsum. Ergo verbum in enunciatione non nisi modi indicativi esse potest. Secundo, verbum esse oportere temporis præsentis evincitur hoc aho argumento: Verbum in enunciatione significat actum intellectus, quo aliquam proprietatem cum subieclo coniungit, aut ab illo separat. Atqui huiusmodi actus m tempore præsenti efficitur. Ergo verbum in enunciatione tempons præsentis esse debet. Quod si multæ enunciationes occurrunt, in quibus præteritum, vel futurum tempus adnibetur, præteritum, et futurum non referuntur ad verbum, sive ad copulam, sed ad statum, in quo subiectum repræsentatur fuisse, vel futurum. E. g., si dicatur, lapis \uxt, vel erit calidus, perinde est, ac si diceremus: lapis, quem nunc cogitamus, is est, qui fuit, vel erit cahdus. II. De nominis, et verbi natura 58. Duo, ut diximus, sunt elemenla enuncialionis logice spectalæ, scilicet nomen, et verbum. Horum natura hic exp plicanda nobis est. . Grammatici definiunt nomen, icl quocl substantiam, aut qualilatem rei significat. Secundum Logicos autem nomen est vox simplex, ad aliquid sine varietate lempons sigmjicandum instituta. Quarum definitionum differentia ex eo oritur, quod grammaticus considerat voces, non prout denotant conceptiones intellectus, sed prout denotant ipsas res; logicus autem considerat voces, prout signihcant non ipsas res, sed conceptiones intellectus. 59. lam nomen logice spectatum dicitur vox ad aliquid significandum instituta, sive adhibita ad aliquem conceptum intellectus denotandum ; nam nomen est una ex præcipuis partibus orationis, quæ ad conceptiones mtellectus patefaciendas spectat . Præterea nomen dicitur vo5 simplex, quia destinatur ad significandum conceptun i Oratio, secundum Aristotelem (De Interpr., c. 4, § 1), aliqui significat ex consensu. unius rei, illius nempe, de qua aliquid enuntiatur. Denique dicitur nomine aliquid significari sive varietate temporis. Re quidem vera lempus, ut suo loco explicabimus, sine mutatione prioris et posterioris inlelligi nequit, ac promde illud, quod cum tempore significatur, tamquam ahquid fixum et permanens significari non potest. Atqui nomen, cum significet subiectum, aliquid tamquam fixum, et permanens significat. Ergo nomen est vox, quæ aliquid sine lempore significat 2. 60. Nomen ex eo, quod significat aliquid sine tempore, a verbo differt. Etenim verbum non solum rem, sed etiam tempus, m quo res existit, significat. Quocirca verbum definitur: vox simplex, quæ id, quod significat, cum aliqua differentia temporis significat. E. g., vox valetudo est nomen, quia quidquam aliud, præter valetudinem, non significat; contra, vox valet est verbum, quia non modo valetudinem, sed etiam tempus, quo valetudo alicui mest, significat. 61. Nonnulli Philosophi, inter quos Galluppius 3, contendunt, essentiam verbi in eo positam esse, quod aliquid affirmat. Ast hæc sententia falsa esse ex eo perspicitur, quod affirmatio, cum significet aliquid alicui inesse, non ex solo verbo, sed cx verbo, et nomine efficitur; siquidem lpsa expostulat illud, quod affirmatur, ncmpe verbum, alque lllud, de quo aliquid affirmatur, nempe nomen. Alii autem opinantur verbum a nomine discriminari ex eo quod actionem, et passionem significat. At hæc etiam sententia reiicienda est. Etenim est quidem proprium verbi, quatenus ad subiectum refertur, significare aliquid pcr modum actionis et passionis, siquidem verbo significatur proprietalem aliquam subiecto inesse, vol quia ipsum subiectum illam in se producit, vel quia ab aliqua causa in subiecto producitur; e. g., in hac enuncialione tetrus amat Paulum, amor de Petro pracdicatur, quia, VOX. stimPlex distinguitnp a voce complexa, quæ plures conceptus mter se colligatos significat, e. g., homo iustus. Advertito lllis etiam nominihus, quæ nomina temporis dicun X^ l>ora, (ies, mensis, aliquid sine tempore significaH; si pnuu Vt ten^ms tCmPUS' Pr°Ut CSt qUaCdam rCS' non ™ 5 Lezz., lez. XLH, t. I, p. 222, Napoli in ipso producitur per principium sibi naturaliter insitum, in hac altera enunciatione, paries est albus, albedo de pariete enunciatur, quia ab aliqua causa extenori in pariete producitur . At vero non est propr.um verbi siJrnificare ipsam actionem, aut passionem, actio enim, et passio per se, seu, ut s. Thomas inquil, in abstracto sicut quædam res\ significantur per nomina, ut cum dicitur, actio, passio, cursus, amor etc. ^RT UI. De diversis speciebus enanciationum ex parle forraæ 63 Enunciationis divisio ex duplici capite repetenda est scilicet a materia, sive ah elementis, ex quibus jpsa constat, atque a forma, sive a modo, quo hæc elementa concurrunt ad efficiendam enunciationem . 64 Si forraæ ratio habeatur, spectan m prirais potest ipsa convenientia, vel discrepantia attributi cum sub.ecto, atque inde oritur divisio enuncialionis m affirmantem, atque neqantem 4. Enunciatio affirmans ea est, quæ ahquid alicui inesse significat, e. g., homo est raiione præditus, negans autem, quæ significat aliquid alicui non inesse, e z, bellua non est ralione prædita. 6d Ab enunciationibus tum affirmantibus, tum negantibus distineuendæ sunt illæ, quæ infinitæ appellantur. Huiusmodi enunciationes illæ sunt, in quibus quodcumque aliud subiecto tribuitur, quam quod significatur præcticato E. g., brutum est non homo. Vocanlur intinitæ, quia in eis aliquid indeterminatum subiecto tribuitur. "T^oc secus ac sensit Arnaldus (Grammaire gentrale, et raison \ n6e, parl 2, c. 8), locura quoque habet in ^ y^"U^. ' a grammaticis dicuntur. E. g., in hac en7unc^at,0°e;rft7^u^. mit, in qua verbum neutrum invemtur, dormire Socrati per quam dam actionem inhærere intelligitur, quia ex aliquo pnncipio, quod est in Socrate, efficitur, ut ipse dormiat. 2 In lib. I Perhierm., lect. IV. 5 De enunciationis veritale et falsitate, quippe quæ non : speeta ad ea, e quibus enunciatio constituttur, sed po us cogmno nem, quæ per ipsam eihibetur, prout nempe illa eonsentaneo est naturæ rei eognitæ, aut ab hæ dissentit, opportun.or. loeo m Criteriologia sermonem habebunus. •„„:_ „„rtinet Hæc divisio ad qualitatem essent.alem enunc.at .onis Pe^nrt, quia essentia enunciationis in coniunctione præd.cat. cum subie cto, aut separatione unius ab altero consist.t. Iamvcro enunciatio infinita differt aJb affirmante, quia affirmans denotat aliquid determinatum inesse subiecto, sed infinita significat aliquid indeterminatum subiecto inesse. Præterea, diffcrt a negante, quia negans significal aliquid determinatum non inesse subiecto, infinita autem dum significat aliquid determinatum in subiecto non inesse, simul significat ei aliquid indeterminatum inesse, atque ideo in ea negatio e copula verbaii, nempe ex verbo est, transfertur ad vocem, quæ rem prædicatam significat. At si enunciatio infinita proprie non est aiens, aut negans, ipsa utriusque est particeps. ld cx dictis facile intelligitur; nam enunciatio infinita est quodammodo asserens ex ea parte, quatenus aliquid indeterminatum de subiecto prædicat; et est quodammodo negans ex ea parte, quatenus aliquid detcrminatum a subiecto removet. E. g., si quis dicat brutum est non homo, negat quidem brutum esse hominem, sed simul asserit aliquid aliud bruto convenire. 67. Circa enunciationes afiirmantes et negantes hæc notatu digna sunt: 1° In enunciatione aflirmante prædicatum accipitur secundum totum suum complexum, nequit enim aliquid cum subiecto coniungi, nisi omncs eius proprietates subiecto conveniant. E. g., dici non posset triangulum esse figuram, nisi omnes liguræ proprietates triangulo convenirent. 2° In eadem enunciatione aflirmante prædicatum non accipitur secundum totum suum ambitum, qnia prædicatum magis universale, quam subiectum, plerumque est ', ac proinde non solum illi subiecto, sed etiam aliis convenire potest. 3° In enunciatione negante prædicalum accipitur secundum totum suum ambilum. E. g., in hac enunciatione, trtangulum non est quadratum, denotatur nullum possc esse quadratum, quod sit triangulum, alioquin triangulum non^essc quadratum absolule dici nequit. 4 In eadem enunciatione negante prædicatum non ac 1 Divimus plerumque, quia aliquando prædicatum æque universale s(, ac subiectum, ncmpe quando dcclarat notionem subiecti, Vel est aliquid ita ei proprium, ut cetera excludat. E. g., Tlomo est anunal ratione præditum, aut homo est animal capax ridendi . 30 LOGICÆ cipitur secundum totum suum complexum. E. g., illa enunciatio, triangulum non est quadratum, haud signincat omnes proprietates quadrati triangu lo repugnare; nam ad removendum aliquod prædicatum a subiecto satis est, ut unum eorum, quæ prædicatum constituunt, subiecto non conveniat. In forma enunciationis spectan etiam potest Hle snecialis modus, quo convenientia, vel discrepantia inter attributum, et subiectum determinatur Ex hoc capite enunciationes constituuntur, quæ modales appeliari solent. 69 Itaque enunciationes modales sunt lllæ, m quinus modus quidem specialis significatur, quo prædicatum ad subiectum refertur. Harum enunciationum quatuor species recensentur, nempe, possibilis, contingens, necessana, %mvossibilis. Enunciatio possibilis ea dicitur, m qua sigmlcatur prædicatum actu in subiecto non esse, sed esse uosse e alis accepta universe, hoc est secundum totum suum ambitum, c. g., Omnes homines sunt ratione præditi. Deni^ue dicitur particularis, si cius subiectum est notio uni^ersalis accepta ex parte, nempe ita ut non complectatur minia, quæ eius ambitum constituunt, e. g., AUqui homines sunt philosophi. 73. Ut patescat utrum subiectum universe, an ex partc iccipiatur, ac proinde utrum enunciationes sint univcrsæs, au parliculares, aliquæ notæ subiecto adiiciuntur. 9æ sunt pro cnunciatione universali omnis, nullus ; pro larticulari autem aliquis, vel quidam. Cum huiusmodi lota nun proferlur, enunciatio indeterminata vocatur, quip)e quod ipsa, prout exprimitur, non commonstrat utrum imverse, an ex parle accipienda sit, sed ut hoc cognoscatur, expendendum est, utrum atlributum ad subiectum Jssentiahler, an contjngenter referatur. Si primum, enuniiatio est univcrsalis, e. g., homo est ratione præditus; an alterum, est parlicularis, e. g., homo est sapiens. 74. Ratione autem illius, quod termini enunciationis Mgnifacant, ipsa dividiturin unam, et multiplicem. Enunciauo multxpUx ea est, quæ ex narte subiecti, aut præOicati, aut utrmsque plura signifieat, quæ nullum ordiMW inter se habent, ita ut ad unicum conceptum subieBU, aut prædicali reduci nequeant. E. g., Socrates, ct Plato ambulant, vel, Socrates ambulat, et philosophatur, vel, Socrates et Plato ambulant, et philosophantur . Hinc videshuiusmodi enunciationem multiplicem appellari, quia non est unica enunciatio, quæ ex pluribus, quasi ex partibus suis, conflatur, sed est enunciatio, quæ diversas enunciationes exhibet. 75. Enunciatio autem una duplicis generis esse potesl; nempe vel est una simpliciter, vel est una per coniunctionem. Una simpliciter dicitur ea, quæ unum de uno absolute significat, e. g., homo est ratione præditus. Una autem per coniunctionem vel est ea, quæ ex parte subiecti, aut prædicati, aut utriusque plura significat, quæ ad unicum conceptum subiecti, aul prædicati reducuntur, e. g., Animal rationale mortale currit; vel est ea, qua significatur coniunctio plurium enuncialionum, quæ ita inter se referuntur, ut unam enunciationem constituant; e. g., Si dies est, lux est. Enunciationes, quæ sunt unæ hoc altero modo, nempe per connexionem plurium enunciationum, dicunlur hypotheticæ, atque hoc nomine a ceteris omnibus, quæ vocantur categoricæ, distinguuntur. Præstat earum naturam clarius exponere, variasque species numerare. 76. Itaque enunciatio hypothetica differt a categorica, quod huius partes sunt nomen, et verbum, iliius autem sunt enunciationes categoricæ, quarum secunda per aliquam coniuuctionem ad primam refertur. E. g., hypothetica est illa enunciatio, Si dies est, lux est, quia cius partes sunt duæ enunciationes, dies est, lux est, atque hæ coniunguntur per narticulam n, quæ officio copulæ fungitur. Hinc perspicitur enunciationem hypotheticam re ipsa esse unam, quia non significat ea, quæ enunciationes categoricæ ipsam componentes denotant, sed dependentiam, quæ inter categoricas intercedit; hæcautem dependentia non nisi tamquam unum intelligitur. E. g., illa enunciatio, Si dies est, lux est, non significat diem esse, et lucem esse, sed lantum connexionem harum dua-. rum enunciationum. Tres autem sunt species enunciationis hypotheticæ, scilicet connexa, coniuncta, et disiuncta. Enunciatio connexa ea est, in qua enunciationes categoricæ coniunguntur per particulam si, e. g., Si dies est, lux est. Ex duabus partibus, ex quibus enunciatio connexa constat, ea, quæ collocatur post coniunctionem si, antecedens; ea vero, quæ sine coniunctione est, consequens dicitur, quia illa rationem huius complectilur. Ex ipsa huius enunciationis natura patet eius veritatem non pendere a veritate partium, sed ex ipsarum connexione. Hinc enunciatio connexa potest esse vera etiamsi enunciationes, ex quibus constat, sint falsæ, et esse falsa, etiamsi enunciationes sint veræ. E. g., vera est hæc enunciatio connexa, Si cerebrum tuum cogitat, aliqua materia cogitat, eliamsi et cerebrum cogitare, et matenam cogitare sit falsum ; e contrario, quamvis verum sit hominem esse tum animal, tum ratione præditum, tamen falsa est hæc enunciatio connexa, Si homo est animal, ratione pollet. Ratio est, quia in priori enunciatione adest connexio inter antecedens, et consequens, in altera autem hæc connexio deest. Porro ut cognoscatur utrum extet conncxio consequentis cum antecedenti, inspiciendum est, utrum contrarium consequentis repugnet antecedenti, necne. Si primum, connexio inter utrumque existit; e. g., in illa enunciatione, Si dies est, lux est, adest conncxio, quia tenebræ, quæ luci opponuntur, diei etiam adversantur. Sin alterum, connexio deest, uti in hoc exemplo, Si dies est, Socrates ambulat, quia oppositum consequcntis, ncmpe Socratem non ambulare, antccedenti, nem\mjsscdiem, non adversatur. 79. Enuncialio coniuncta illa cst, in qua enunciationes catcgoncac connectuntur per particulam Non, atque ita unam enunciationem efliciunt; c. g., non dies est, et nox est vel, Nonest mortuus Plato, et vivit Plato. Ut vera sit hacc enunciatio, oportet ut enunciationes, ex quibus constat, sibi invicem opponantur, ita ut simul exislere nequeant. Hinc falsa est hæc enuncialio, Non kgit Plato, et ambulat Plato, quia, cum legere, et ambularc sibi invicem non opponantur, nihil prohibet, quin Plato simul legat, et ambulet. 80. Deni(|ue enunciatio disiuncta cst illa, in qua enunciationes calcgoricæ efficiunt unam cnunciationem per particiilam aul; c. g., Aut dies est, aut nox cst. Ad verilatem huios cnunciationis duo cxposlulantur; nempe 1° oppositio inter partcs, quia hacc enunciatio innuit ut, posila una parte, aliac excludendæ sint, quod profecto non msi in ns, quæ sibi inviccm adversantur, locum habere Philos. Curist. Compend. L0 GICÆ potest; 2° integra partium enumeratio, alioquin statui non posset, ut una præter alias admittenda sit. Hinc falsa est hæc enunciatio, Triangulum est aut rectangulum, aul acutangulum, nam potest etiam esse obtusangulum !. Ex iis, quæ diximus circa enunciationem unam, et multiplicem, perspicitur quid re vera sint illæ enunciationes, quas recentes Philosophi complexas vocant. Enunciationes complexæ, eorum sententia, sunt eæ, in quibus vel subiecto, vel prædicato, vel utrique alia enunciatio adnectitur ; e. g., Homo, qui est iustus, laude dignus est ; vel, Homo est animal, quod rationem habet; vei, Animal, quod rationem habet, actiones exerit quæ præmium xel poenam merentur. Enunciatio, cuius vel subiecto, vel prædicato, vei utrique alia assuitur, principalis ab eis dicitur; enunciationes vero, quæ eius terminis adiunguntur, incidentes appellantur. Hæ enunciationes incidenles in explicativas, et restrictivas, seu determinativas dividuntur. E. g., in illa complexa, Homo est animal, quod rationem habet, incidens esl restrictiva, quia delerminat subiectum enunciationis principalis. In hac autem complexa, Socrates, qui est philosophus, disputat, incidens est explicativa, quia hæc tantummodo declarat, sive explicat subiectum. Iamvero ex dictis facile perspicitur 1° enunciationem complexam, in qua incidentes sunt restriclivæ, esse unam ; e. g., unaj est hæc enunciatio, Homo est animal, quod capax scientiæ est, incidens enim, quæ adnectitur attributo, cum determinet essentiam ipsius attributi, illud multiplex non efficit; 2° omnem enunciationem complexam, in qua incidentes sunt explicativæ, 1 Plerique recentes Logici unam enunciationem, quam vocavimus connexam, appellant hypotheticam. At perperam, nam enunciationes coniuncta, et disiuncta sunt, non secus ac connexa, hypotheticæ. Etenim ipsæ nihil affirmant, aut negant, sed tantum quamdam hy| pothesim, seu suppositionem statuunt. Ita non solum cum inquimus, Si dies est, non est nox, sed etiam cum inquimus, Non dies est, et nox est, atque, Aut dies est, aut nox est, nec asserimus, nec negamus esse diem, vel noctem, sed dumtaxat alterutrum esse statuimus. Inde fit, ut enunciationes coniuncta, et disiuncta ad formam enunciationis connexæ, quæ secundum recentes hypothetica est, nullo negotio revocentur. Revera hæ enunciationes, Non dies, est, et nox est, et, Aut dies est, aut nox est, efferri possunt hunc in modum. Si dies non est, nox est, et, Si nox est, dies non est. csse multiplicem; e. g., multiplex est illa enunciatio, Socrates, qux est philosophus, disputat, quia incidens, quæ addilur subieclo, non pertinet ad essentiam subiecti, ac proinde lpsum multiplex efficit. V. De opposilione, et conversione enunciationum 82. Oppositio consistit in affirmatione, et negatione eiusdem prædicati de eodem subiecto secundum eamdem rationem. Hinc oppositæ sunt duæ enunciationes, quæ habent ldem subiectum, et idem prædicatum, et qualitate inter se diflerunt, ita ut una sit affirmans, altera negans. 83. Iam enunciationes oppositæ dicuntur contradictoriæ, si una earum est universalis, altera particulnris, e. g., Umnis homo est iustus, Aliquis homo non est iustus, vel contrariæ, si ambæ sint universales, e. g., Omnis homo est tustus, Nullus homo est iustus. Quod si enunciationes quarum una est affirmans, altera negans, sint ambæ particulares, ipsæ dicuntur subcontrariæ; e. g., Aliquis homo est tustus, Ahquis homo non est iustus. At eiusmodi enunciationes, quemadmodum monuit s. Thomas \ si proprie, et stricte considerenlur, non sunt oppositæ, quia subiectum cum m ambabus ex parte sumatur, non estidem, sed divcrsum 2. 84. lam quod spectat ad enunciationes contradictorias, Dihil medii mter ipsas est, sed si una ipsarum est vera, ailera ialsa esse debet. E. g., harum duarum enunciationum, Omnis homo est animal, Aliquis homo non est animal, 'um prmia sit vera, altera falsa esse debet. E eontrario, tiarum duarum, Nullus homo est iustus, aliquis homo est >ustus, quoniam sccunda est vera, prima pro falsa habenda 1 In lib. I Perhierm., lect. XI. JL?,0" PaUd rccentes inter enunciationes oppositas enumerant etiam ™"™as, eas nempe, quæ qualitate secum conveniunt, et diffeZ !!|lv?li[ftC' e' 8.,Omni8 homo est iustus. Aliquis homo est minri.Vi, l h°moest iust> Ali(mh homo non cst iustus. At d nn w! subaltcrnæ ^uILa ratione oppositæ dici possunt. Nam •enth Zl\ ZTn cnunciationnn constituendam expostulatur diffeir e f.,r .,,1M! (]ua,ltatcin> l nt in na ipsarum de subiecto af atnriSii m q,l°d dC e0dem Subiect0 in a,tera cnunciatione man ;.,.' I1 ™nnationcs subalternæ qualitate secum haud pu>nant, crgo ipsæ sibi oppositæ minime dicendæ sunt. LOGICÆ est. Ratio est, quia si quoddam attributum vere de toto universe affirmatur, non potest negari de parte, quæ in toto continetur; et, si quoddam attribntum vere de parte affirmatur, non potest in universum de toto negari, alioquin idem de eodem simul affirmaretur, et negaretur. 85. Enunciationes contrariæ simul veræ esse non possunt ; nam, cum in una illarum attributum de subiecto universe affirmetur, in altera universe negetur, non nisi alterutra potest esse vera, quia idem de eodcm aut affirmetur, aut negetur oportet. Eæ autem vel sunt ambæ falsæ, si nempe attributum sit contingens, uti in hoc exemplo, Omnis homo est iustus, Nullas homo est iustus; vel, si attributum sit essentiale, una illarum est vera, altera falsa, uti in hoc alio exemplo, Omnis homo est ratione præditus, Nullus homo est ralione præditus. 86. Denique, quod ad snbcontrarias attinet, hæ simul falsæ esse non possunt, nam vel sunt ambæ veræ, idque evenit, si attributum est contingens, e. g., Ahqui homines sunt sapientes, Aliqui homines non sunt sapientes;\e\ una earum est vera, et altera falsa, idque evenit, si prædicatum est necessarium, e. g., Aliquis homo est ratione præditus, Aliquis homo non est ratione præditus. 87. Conversio autem enunciationis est eius mutaiio effecta per transpositionem terminorum, nempe subiecti m locum prædicati, et prædicati in locum subiecti. E. g., hæc enunciatio, Nullus homo est lapis, convertitur ln hanc, Nullus lapis est homo. Perspicuum autem est m conversione enunciationis qualitatem mutandam non esse, alioquin non conversio, sed oppositiohaberetur. Ahquando autem, ut enunciationis veritas maneat, quantitas mutanda est, idque evenit, cum prædicatum latius patet, quam subiectum. Inde oritur duplex species conversionis, nempe simplex, et per accidens. Conversio simplex ea est, m qua eadem quanlitas relinetur, e. g., Nullus circulus est quadratum, Nullum quadratum est circulus, vel Ahqua votuptas est bonum, aliquod bonum est voluptas. E contrano, conversio per accidens illa est, in qua quantitas mutatur e. g., Omnis homo est animal, Aliquod ammal est homo RATIOCINATIO, sive græca voce ‘syllogismus,’ est illa actio nostræ mentis, qua ex duobus iudiciis tertium elicit. Ipsa motus, et discursus, sive progressio quoque nominatur, quia in ea mens nostra a notis ad ignota progredilur. 89. Discrimen inler iudicium, cl ratiocinationem hoc est: In iudicio mens nostra perspicit convenientiam, aut discrepantiam alicuius prædicati cum aliquo subiecto immcdiale, nempe ex sola comparatione terminorum. In ratiocinatione autem illam perspicit mediate, nempe per aliquam tertiam notionem. Id autem fit hunc in modum: Inlellectus adnilens cognoscere convenientiam, aut discrepantiam duarum notionum, sumit aliquam tertiam notionem; deinde cum hac comparat duas priores. Si comperit has cum illa tertia convenirc, concludit eas inler se etiam convenire. E. g., cognoscit convenientiam notionis esse immortale, cum nolione, anima humana, per lertiam nolionem, esse immateriale, cuius ope ita ratiocinalur : Substantia immatcrialis est immortalis ; atqui anima humana cst substantia immaterialis ; ergo anima humana est immortalis. Huiusmodi ratiocinalio vocalur aiens. Sin COmperit unam duarum notionum cum tertia convenire, alleram ab ea dissentire, inde concludit ipsas secum non [•onvcnire. E. g., cognoscit discrepantiam inter has duas noliones, substantia materialis, ct anima humana, per terLiam nolionem, substantia cogitans, cuius opc ita ratiocinaLur: Substantia cogitans non cst materialis', alqui anima humana est substantia cogitans; ergo anitna humana non est materialis l. Ratiocinatio, quæ fit hoc modo, vocalur negans. 90. Ex iis, quæ circa naturam ratiocinalionis diximus, Facile intelligitur quodnam sit fundamentum, quo ipsa 1 Pieri potest ut intellectus confercns duas notioncs cuin tertia, >erspiciat neutram eum illa tcrtia convcnire. Iam, si hoc cvcnit, ntellectus nihil inde colligit, quia intclligit tcrtiam notionon non ^ssc communem mensuram duarum priorum. quocirca nullam ra;iocinationcm conficit. superstruitur, et quænam elementa, ex quibus compo nitur. Sane, fundamentum ratiocinationis aientis est il lud axioma : Quæ conveniunt uni tertio, ea sibi quoque conveniunt; negantis vero illud: Quorum unum cum tertio convenity alterum ab eo discrepat, ea inter se etiam discrepant. Quod autem spectat ad elementa raliocinationis, com pertum est nullam ratiocinationem sine tribus notionibus fieri posse. Hæ sunt notio alicuius subiecti, notio præ dicali, de quo quæritur, utrum illi subiecto insit, an non; et tertia, cum qua notiones subiecti, et prædicati com parantur. Terminus, qui tertiam notionem significat, di citur medius ; terminus, qui exhibet notionem subiecti, minor, atque ille, qui notionem prædicati, maior dicitur, quia nolio prædicati plerumque latior est notione subie cti '. Perspicuum aulem est, terminum maiorem, et mi norem cum medio ita connecti oportere, ut inde tria iu dicia existant, duo nempe, in quibus notiones attributi, et subiecti cum medio conferuntur, et tertium, in quo earum convenientia, aut repugnanlia colligitur. Quapropter, si ratiocinatio verbis exprimatur, tres in ea enunciationes inveniuntur. Harum illa, in qua terminus maior cum me dio confertur, vocatur propositio, vel propositio maior; alj tera, in qua terminus minor cum medio comparatur, di citur assumptio, vel propositio minor; tertia autem enun ciatio, in qua staluitur relatio inter terminum maiorem, i et terminum minorem, complexio, vel connexio, vel con clusio nuncupatur. Ita in hoc exemplo : Omne metallum j est ductile; atqui aurum est metallum; ergo aurum est du~ ctile, prima enunciatio est propositio, quia continet pro nunciatum universale, omne metallum esse ductile; secunda est assumptio, quia pronunciatum universale assumit, sive ad se trahit, et declarat aurum sub metallo contineri; tertia est conclusio, quia in ea concluditur: Si ductile omni me tallo convenit, etiam auro convenit. Duæ priores enuncia tiones præmissæ, vel antecedens etiam vocitantur, quia conclusioni præmittuntur, et conclusio 2 designatur etiam 1 Cf p. 29. Terminus maior et minor vocantur etiam extrema. 2 Monendum est conclusionem, antequam ex præmissis eliciatur, vocari quæstionem; nos enim primum quærimus, an aliquod prædicatum insit alicui subiecto; deinde, postquam novimus in præmissis relationem illius prædicati, et subiecti cum quodam tertio, unum alteri inesse, aut non inesse concludimus. nomine consequentis, quia consequitur ex præmissis. Antecedens, et consequens, hoc est tres enunciationes seorsum consideratæ, constituunt materiam ratiocinationis. Nexus, qui inter antecedens, et consequens existit, et cuius graliahoc ab illo infertur, consequentiæ nomen habel, et efficit formam ratiocinationis, quæ, si desit, ratiocinatio prorsus evanescit, etiamsi enunciationes sintveræ. Duæ sunt ratiocinationis species, syllogismus et inductio. Quod si vox ratiocinatio secundum vim nominis græci adhibeatur, prior syllogismus deductivus, posterior sylloqismus inductivus dici potest. Syllogismus est illa ratiocinatio, qua mens nostra a toto ad partes, sive a genere ad speciem, vel a specie ad individua progr^ditur. E. o\, Omne animal præditum est sensibus; atqui equus est animai; ergo equus præditus est sensibus. Inductio autem est illa ratiocinatio, in qua mens progreditur a partibus ad totum, nempe ab mdividuis ad specicm, aut a speciebus ad genus. E. g.,Bos, equus, canis, leo, ceteraque bruta prædita sunt sensibus; atqui bos, equus, canis, /eo, cetcraque bruta sunt omne animans brutum ; ergo omne animans brutum præditum est sensibus. 93. Porro inductio, acque ac syllogismus, constat ex tribus terminis, et ex tribus enunciationibus; ast illa ab isto ex utroque capite discriminatur, ita ut harum argumentationum forma sit diversa. Enimvero, quod ad terminos attinet, ille, qui est terminus medius in inductione, ut in allato exemplo, bos; equus, etc, est terminus minor, sive subieetum in syllogismo; etcontra, terminus, qui est minor in llla, ut in eodem exemplo, omne animal, est medius in syllogismo. Ratio est, quia inductio a particularibus ad umversale progreditur, idest in eius consequenti enunciatur de toto, nempe de genere, vel de specie, illud.quod m antecedenti smgulis cius partibus, idest speciebas, vel individuis, convenire compertum esl; ac proinde singulæ partes sunt terminus medius, et totum est subiectum, sive terminus m.nor. E contrario, syllogismus ab universali aa particulare descendit, hoc est, in eius consequenti de auqua specie, vel de aiiquo individuo enunciatur a!i(|iod a i ri bn inn ex eo, quod compertum est in anleeedenti istud aitriDutum convenire generi, vel speciei, cui subiectum refertur; ac proinde in syllogismo terminus medius consistit in toto, idest in genere, vel specie, et terminus minor, sive subiectum, in parte, idest in specie, vel mindividuo. Præterea, terminus medius in syllogismo a termino minori luculenter distinguitur, quia genus a specie, et species reipsa distinguitur ab individuo. In inductione autem terminus medius, etsi diverso modo concipiatur, ac terminus minor, tamen reipsa ab eo non distinguitur, quia partes unum idemque sunt, ac totum, quod ex iis conflatur. Quod autem pertinet ad enunciationes, harum ordo quodammodo immutatur; nam, ut ex allatis exemplis constat, ea, quæ est conclusio in inductione, fit maior in syllogismo. Præterea minor, etsi in utraque specie ratiocinationis iisdem vocabulis exprimatur, tamen diversam vim habel; nam in inductione significat terminum medium efficere terminum minorem, e. g., homo, canis, leo etc. efficiunt omne animal; sed in syllogismo significat lerminum minorem contineri in medio, e. g.,homo, canis, leo etc. continentur in animali. 95. Cum syllogismus, et inductio sint diversæ formæ ratiocinationis, sequitur ipsas, præter principium commune, quo, ut diximus , ratiocinatio universe spectata innititur, habere proprium principium, ex quo veritas formæ unicuique propriæ enascitur. Hoc principiurn in syllogismo est: ld, quod subiecto universe sumto, seu toti convenit, aut repugnat, cunctis partibus notione eius comprehensis convenit, aut repugnat. In inductione autem: ld, quod cunctis notione subiecti comprehensis convenit, aut repugnat, toti, sive subiecto universe sumto convenit, aut repugnat. III. De regulis in syllogismo servandis 96. Ad syllogismum rite condendum oclo traduntur regulæ, quæ omnes illuc speclant, ut inter conclusionem, et præmissas ea servetur connexio, sine qua syllogismus existere non potest 2. 97. Prima regula prohibet, quin plures tribus terminis in syllogismo sint. Nam omnis ratiocinalio in eo sita est, Hæc connexio in eo consistit, quod una præmissarum conclusionem contineat, altera conclusionem in ea contineri declaret. quod duæ notiones subiecti, et prædicali cum una quadam terlia m præmissis comparentur, ut earum convenienlia, aut discrepantia in conclusione coJligalur. Atqui si qualuor termini essent in syllogismo notiones subiecti' et prædicali non compararentur in præmissis cum eadem notione. Lrgo in syllogismo non plures, quam tres termini sint oportet \ 98. Secunda vetat, quominus quidam terminus in con;Jusione Jalius sumatur, quam in præmissis. Nam id quod 3St magis umversale, in eo, quod est minus universale xmtinen nequ.t; quapropter, si terminus in conclusione nagis universahter, quam in præmissis, acciperetur illa n lstis non contineretur, ac proinde illa ab istis coIlice acci • • Huiusmodi cst Ule syllogismus: Mus est syllaL; atqui stjl\oa non rodit caseum; crgo mus caseum non rodit ™™™ rela™ Peccat ille syllogismus: Quod ego,m, tunon es atqm ego sum homo; ergo tu non es homo; nam homo mmdo accpitur particulariter, quia esf ttributum enundattonls -""^ir„;^n[;ronc amcm lati,,s pMet' quu mus'efi flzLw Sy,,0Ssmo: Aliauod ratione poUet; atqui n s uSL"mTl; er9°.eauu> raHo sunt qiatuor, " n,0!1,l,s tcrminos, animal, in propositione maiori ♦ In I ; ';,;,,,0tl CSt h°TK m minoH an,'ma1' nod esl bi u.um. 'uui t ; LJZ v V0Vt"'U hlC Alexander fuit dux; /' Alexandei fuU parvus; ergo Ahxander fuit parvus dux ctum, neque prædicatum cum termino medio convenire, | et, quoties hoc evenit, nihil inde, ut iam adnotavimus, de convenientia, aut discrepantia subiecti et prædicati colligi potest1. 102. Sexta prohibet, quominus ex duabus aientibus conclusio negans colligatur. Nam præmissæ sunt aientes, si tam subiectum, quam prædicatum cum termino medio consentiunt. Atqui, quoties subiectum, et prædicatum cum termino medio consentiunt, conclusio enunciare debet convenientiam subiecti, et prædicati inter se. Ergo ex duabus aientibus conclusio non negans, sed aiens elicienda est. 103. Septima ita se habet: Conclusio partem debiliorem semper sequitur, hoc est, si præmissarum altera fuerit vel negans, vel particularis, conclusionem negantem, aut particularem esse oportet. Et sane, 1° si una præmissarum est negans, et altera affirmans, id argumento est unum extremum convenire cum medio, alterum minime; ergo, secundum principium iam statutum2, in conclusione deducendum est extrema inter se non consentire. 2° Si una præmissa est particularis, id argumento est unum extremorum ex parte convenire cum medio termino; ergo, secundum illam regulam, qua statuitur conclusionem magis universalem, quam præmissæ, esse non posse, extrema in conclusione non universe, sed ex parte secum coniungenda sunt. 104. Octava regula prohibet, quominus ex duabus particularibus aliquid concludatur. Et sane, illæ præmissæ particulares vel sunt aientes, vel illarum una est aiens, altera negans. In prima hypothesi ipsæ nullum terminum universalem exhibent, quia, cum enunciationes sint particulares, subiecta nequeunt esse termini universaliter sumti s, et, cum sint enunciationes aientes, prædicata ex parte suæ extensionis sumuntur. Inde fit ut medius terminus in illis præmissis, sive subiecti, sive prædicati munere fungatur s, numquam universaliter accipi possit; 1 Hinc perperam quis ratiocinaretur hoc modo : Homo non es æternus; atqui animal non est æternum\ ergo homo non est animal 2 P. 37-38. 3 Cf p. 31-32. Cf p. 28-29. s Terminus medius in præmissis diversimode cum extremis ro ligari potest. Scilicet, vel est subiectum in propositione maiori, cnm SS sarum allera sit affirmans, altera negans, conclusio n regula scpHma negans sit oportet, et proinde a Ur hutum m ea universaliter est accipicndum. At vero lerS™ particuhns"- T mSS!S TT™ ^^ deno™ °e t „,' "r,mn dUal,Uf Præmiis particularihus, quarum una cst aflirmans, altera negans, unus lerminus auifs^hic ZTT'' SCi'iCCt arihugtu præm sæ ne\T!ULZrZlermm^ "0n e? ttributun. conclusiorcffuhterih tCr,Tl'nuS. me,dlus1uia terminus medius, ex debet C rTi '" allCrUtr-a enun'ione uniyersalis .ffirminle aK Jl ^ Prænnssis Prticularibus, allera uiirmante, altera neganle, conclus o e iceretur hær lilinr præmissis foret. r' næc lauor IV.De sjllogismo hypothetico •£?."• Q°e]na.d1m°duni cnunciationes in calecoricas ef bv SS tl'dlTl !ta syll0^ismus ettegSsM fc 'e catejtoricam ^Tk q", tC"US Primam e™ncialionem IUO. Uuoniam enunciationis hvpolhcticac tros,nf;„c t, nempe eonnexa, coniuneta, l\ disiSa, s^Fsmus nbiectum n utroone ['" t''1>es; "9° "u""s cete™e sunt falsæ, et Akt. V. De arguræntationibus, quæ ad syllogismum accedunt 10. Sunt quædam argumentaliones, quæ ad syllo$; ergo est nox. n i „„"," ""' r1"80 /" conclnsion0 non nisi „„ '; r.o Ml est ZZl, ', "' er90 quodlibet corpus est mobih1 Xismor SrTatZ ^ ess7'uamdam ^adSneni /omfcctUur Sos Vres L?sm™ •' 7S'1, aUulimuS> mest esse in alio spafio, fotest mutZspali^Tatali iod tstZZJTs^z t iz^r°ri&^ nobilc ataui SS" ( P^e5' mw'are ^, es iX8. Ut sontes nte concludat, illud sedulo cavere onnr æc °Z„r:Cla,i0 amb!&ua' a,,,! ™r,„i . ""ecl", ttributodi ' 0"'"' ia 0 P o„°,' n0"Se:,taneU,n CSl '1Uid illi, "''•. rorpori °io, ° essc LZ? ""? Sna"U'"' idc0'lc e 2 Plutarch.,„ mZS ln°b,,e C°nVen,re dcoc!ltsmns, seu apparens syllogismus, quia, ut alibi adnotamnus , forma essentiam ratiocinationis constituit, adeo nt, si ipsa dcsit, nulla existat ratiocinatio. 5. Possunt autem sophismala extrui vel a vocibus, quæ ffl argumentatione adhibcntur, vel a rebus significalis per 'occs; unde dislinguuntur in sophismata, sive fallacias in lichone, et extra dictionem. Illa fundamenlum habent in ipparenti identitate vocis, aut orationis, nempe in eo, |Uod vox, aut plures voces, quæ diversas res denotant, rtHnbentur, quasi unam rem significent; ista in apparenti 1 Acad., lib. II, c. 32. 2 Quare sophista omne confert studium, ad hoc quod videatur sci^ quamvis neseiat\ S. Thom., In lib. IV Met., lect. IV. 3 Hanc ol) rationem argumentatio sophistica dicitur elenchus, sive eaargutto, quia thcsim ab adversario defensam redarguit. Vid. A.ag., Contra Crescon., lib. I, c. XV, n. 19. Cf p. 39-40. 52 L 0 G I C A E identitate rerum, nempe in eo, quod res significata ab aliqua voce eadem ratione accipitur, dum diversa ratione accipienda est. 6. Cum sophisma spectet ad falsum sub specie veri insinuandum, duo ad eius effectionem concurrant oportet, quæ causæ sophismatum dicuntur, nempe causa apparentiæ, et causa non existentiæ. Causa apparentiæ est aliquid, ex quo id, quod falsum est, quamdam speciem veri mutuatur. Causa autem non existentiæ est aliquid, quo id. quod speciem veri præ se fert, re ipsa falsum est. Patet autem diversas species sophismatum constitui ex diversitatc causarum apparentiæ, non vero ex diversitate causaruw non existentiæ, quia sophisma non eo spectat, ut ostendaJ falsum esse id, quod speciem veri habet, sed ut sub spe cie veri exhibeat id, quod est falsum l. II.— De sophismatis in dictione 7. Sophismata, quæ in dictione versantur, hæc sunt Figura dictionis, homonymia, sive æquivocatio, accentus amphibolia, compositio, et divisio. 8. Sophisma figuræ dictionis existit, quoties duæ di ctiones, quæ diversam significationem habent, propter si militudinem desinentiæ sumuntur, quasi idem significent E. g., ex eo, quod operari, et amari similiter desinunt hoc sophisma construi potest: Amari est pati; ergo etian operari est pati; vel, Vapulare est pati; ergo amari est patt 9. Sophisma æquivocationis committitur, cum una, ea demque vox, quæ sine ulla variatione plura significat tamquam univoca in argumentatione adhibetur. E. g., sc phista eum, qui nullum sidus lalrare asserit, redarguer potest hac fallacia : Quoddam sidus est canis; sed canis Iti trat; ergo quoddam sidus latrat. 10. Fallacia accentus habetur, cum aliqua vox, quæ o variationem accentuum plura significat, tamquam unur significans in argumentatione accipitur. Hoc genus sophii matum præsertim apud Græcos obtinuit, usus enim are hoc sophisma: Duo, et tria sunt paria et imparia: qui quinque sunt duo, et tria ; ergo quinquc sunt paria, imparia. AriyIH. De sopliismatis oxtia dictionem 14. Sophismata in re, sive extra dictioncm, sunt: Fallacia eidentisy transitus a dicto secundum quid ad dictum sim | Blenchorum libri duo, lib. I, tract. I, c. 3. Hoc genere constructionis Apollo, ut fertur, Pyrrhuni uVlusit 9eitantem, num bellum Romanis ioferre deberet; sic enini ei reind.it: Aio te, Æacida, Romanos vincere posse. LOGICÆ pliciter, ignorationis elenchi, petitionis principii, consequeni tis, non causæ pro causa, plurium interrogationum. 15. Fallacia accidentis existit, quoties ex eo solum, quod individuum alicui speciei subiicitur, deducitur ipsum præditum esse aliqua proprietate, quæ ad speciem per accidens perlinet. E. g., Homo currit; atqui Socrates est homo; ergo Socrates currit. 16. Fallacia transitus a dicto secundum quid ad dictum simpliciter committitur, cum ex eo, quod aliquid convenit alicui secundum aliquam rationem, ipsum ei secundum omnem rationem convenire colligitur; e. g., Anabaptistæ ex eo quod Paulus vetus Testamentum abrogatum fuisse scripsit, conficiebant ipsum omnino non valere. Quo modo a dicto secundum aliquam rationem ad dictum simpliciter progrediebantur; Paulus enim non sibi voluit vetus Testamentum abrogatum fuisse omnino, sed aiiqua ex parte, sive non in iis, quæ ad substantiam, sed in iis, quæ ad accidentia spectant. 17. Fallacia ignorationis elenchi, seu redargutionis, ex eo originem habet, quod sophista obiicit adyersario aliquam contradictionem, quæ reipsa non existit1; unde sophista adversarium redarguere videtur, sed reyera non redarguit. E. g., hoc sophisma commiltunt hæretici, cum ita argumentantur : Christus est æternus ; atqui Christus natus est in tempore; ergo Christus est æternus, et non æternus. Hæc contradictio, quam ipsi obtrudunt, non existit, nam esse æternum, et esse natum in tempore non pertinent ad Christum secundum eamdem, sed secundum diversam naturam. 18. Petitio principii habetur, quoties idem assumitui ad probationem sui ipsius sub alio vocabulo 2 . In ho( sophisma incurreret quisquis probaturus animam huma nam esse immortalem argumentaretur hoc modo: Anim humana est superstes corpori; ergo est immortalis. Fallacia consequentis duos modos habere potest. Pri mus est, cum, posito consequenti alicuius enunciationi connexæ, ponitur et antecedens. E. g., Si homo est, ani i Inde intelligis hoc sophisma ignorationem elenchi, seu redai gutionis vocari, quia sophista, qui illo utitur, patefacit se ignoran quomodo adversarius redarguendus sit. 2 S. Thom., Opusc. XXXIX, De Fallaciis, c. 12. se Ba, quam sophista uppomt ncmpe animas in suo esse a corporibus pendere. iterroYa tionlt ^T Merro9a'ionum cxistit, cuni plures ™7 fuJ componuntur, ut sive responsio sit ens sue negans, respondens semper falsilatis redareua el .rnm 'T J° PJSta' "' aPu,1Gellium est, te inter m '.ipnT' ^1^"'0 wore prtiiutt, habeas, sive negando, iTe : aiendo responder.s,„ captionem incides. tfam si M modnn^ereSa0d no" ?•, ipse te redarguet "ft verd^. qmd ^, Perd%di>ti' non haoes> "tquiocllos uod nnn, VaT0™/os™ ; n dixeris te habere m Z/ 7 a 'f'' l° r,HlarSuet hoc alio modo: Qmdquid 7a hab ' atqm COrnua non Perdidis'i\ ergocor VI. De sophismaluin solulionibus 22Modi, quibus sophismata verc solvuntur 3, sunt vel ' Cf quæ diiimus p. 44. 2 jy generales, vel speciales. Quod ad modos generales spectat, memoria revocandum nobis esl syllogismum posse esse falsum vel quod in materiam, vel quod in formam peccat. Si peccat in maleriam, utraque, vel alterutra præmissarum neganda est, siquidem syllogismus nequit falsus esse quoad materiam, nisi utraque, vel alterutra præmissarum sit falsa. Si peccat in formam, distinctione, aut divisione opus est. Etenim syllogismus in formam peccat, vel quia aliqua propositio æquivocam, ac proinde multiplicem significationem habet, vel quia præmissæ debitum ordinem cum conclusione non habent. Iam, si primo vitio formæ laborat, distinguenda est illa propositio æquivoca ; ^sin altero, dividendæ sunt præmissæ a conclusione, sive ostendendum est conclusionem cum præmissis non con necti. 23. Quoad autem modos speciales, quibus sophismata vere solvi possunt, eos singulos exponere ratio huius operis haud sinit. Quare unum, aut alterum, exempli instar, dumtaxat innuemus. Fallacia compositionis, et divisionis, quæ est in dictione, solvitur, si ea, quæ sophista sensu composito accipit, a nobis sensu diviso, et quæ ille sensu divis o, a nobis sensu composito explicentur Ita si quis cavilletur hoc modo : Apostoli sunt duodecim atqui Petrus, et Ioannes sunt Apostoli ; ergo Petrus, e, loannes sunt duodecim, neganda est conclusio, quia ess( duodecim, quod de Apostolis simul coniunctis dumtaxa verum est, de iis etiam separatis prædicatur. Si sophisfc fallaciam ignorationis elenchi adhibens, ita arguit : Dut sunt duplum unius; atqui non sunt duplum trium; ergo sun duplum, et non duplum; respondendum est conclusionen a præmissis haud fluere, quia in præmissis non dicitu idem esse duplum, et non duplum, prout ad idem, sesæntia, in qua quæstio, quid sit, consistit, complectitur principia, ex quibus res constituitur, sive causas, propter juas ipsa ad hanc, et non ad aliam spcciem pertincl: quapropter qui novit causas rei, nempe propter quid, is es>entiam rei, nempc quid res sit, simul discit; et vicissim. E. g., si quis cognoscit causam, per quam luna dcficit, sse interpositionem terrac inter lunam, et solem, simul pognoscit defectionem lunæ esse privalionem luminis ex interpositione terrac inter lunam, et solem effectam; quocirca essentiam cclipsis una cum causa eius cognoscit. 3 Quacstiones, an res sit, et quaJis res sit, cum rcspicitnt existentiam rei, cognitionem vulgarcm; quæstionrs, juid res sit, et propter quid sit, cum inquirant causam. et essentiam rei, cognilionem scientificam in nobis progignunt; siquidem cognitio vulgaris a scientifica in eo differt, quod illa tantum rem esse, hæc autem, cur ita esse debeat, exhibet. At vero, quæstio, an res sit, ad scientificam cognitionem rei efficiendam plurimum confert, quia mens nostra, cum apprehendit existentiam rei, cuius causam ignorat, naturaliter trahitur ad ipsam causam investigandam, ut quid res sit, cognoscat. Idem dicatur de quæstione, qualis res sit, nam, perspectis affectionibus, quæ rei msunt, haud difficulter cognoscitur, qua ex causa ipsæ rei insint. Aax. II. Quænam sint quæstiones dialecticæ, exponitur 27. Quæstionum theoria in universum explicata, exponere e re est, quænam sint quæstiones dialecticæ. In primis manifestum est quæstiones quid res sit, et curA et unde sit, ad dialecticam non pertinere, quia illæ, ut diximus, certam, et scientificam cognitionem rei pariunt, dum e contrario dialectica probabilem cognitionem dumtaxat sectatur. Hinc, quando rem esse innotescit, quæstio dialectica alia esse non potest, quam quæstio, qualis res sit, nempe, num aliquid rei insit. 28. lam circa quæstionem, num aliquid rei insit, dialectice institutam non pertinet quidem ad Logicam tradere, num hæc, vel illa proprietas huic vel illi rerum speciei msit, sed tantum modum, quo insit, argumentis probabilibus1 investigare. Hic autem modus quadruplex esse potest, nempe investigari potest, utrum aliquid insit rei uti genus\ e. g., num hominis genus sit esse animal, vel uti proprium, e. g., utrum proprium hominis sit esse rir sibile', yel uti definitio, e. g., utrum hominis definitio sit esse animal rationale ; vel uti accidens e. g., utrum accidens hominis sit esse album. Hanc ob rationem quatuor numerantur quæstiones dialecticæ, nempe de genere, de proprio, de definitione, ct de accidente"1. 1 Syllogisrni, qui in dialectica adhibentur, sunt enthymema, et epichirema; nam hi syllogismi, ut in prima parte diximus, cum ex probabilibus præmissis proficiscantur, probabiles conclusiones habent, ac proinde ad solvendas quæstiones dialecticas, quæ circa probabilia versantur, pertinent. 2 Quæstiones, num aliquid alicui insit uti differentia, e. g., num Ex his conficitur etsi genus, et definitio, quid res sit, empe definitio essentiarn totam, et genus ex parte deno21U, tamen quæstiones dialecticas de genere, et de definilone ad quæstionem, qualis res sit, spectare; in iis enim ayestigatur argumentis probabilibus, num aliquid, quod ei inesse constat, insit ipsi uti genus, vel uti definitio. 30. Jllud autem animadverlendum est, quæstiones non sse instituendas, quæ vel impiæ vel manifestæ sensui, el nimis faciles, aut nimis dijjiciles sunt. Impiæ, e. g., um Deus sit colendus, quia qui huiusmodi quæstiones intituunt, potius sunt poena coercendi, quam argumentis efutandi. Tum manifestæ sensui, c. g., sitne nix alba, an on, nam quisquis de his dubitat, sensu carere dicendus st. Demuin nimis faciles, aut nimis difficiles, quia nimia acilitas omnern locum dubitationi eripit, et nimia diftiultas exercitationcm, quæ assecutioni scientiæ valde tilis est, insuavem, ac infructuosam reddit. Aut. III. — De usu dubitdtionis, et historiæ ad investigationem veri Dialectica, uti diximus, viam ad verum inveniendum adicare debet. lam investigatio veri a dubitatione, eiusque olutione initium suinere debet. Sane, qui aliquam quætionem instituit, de eo, quod quacrit, dubitat. Etenim [uacstio circa aliquam rem institui non potest, nisi ab o, qui illam ita sc haberc, vel ita se non habere certo on cognoscit, sed inter utramque partem contradictionis acillat. Atqui slalus menlis inter utramque contradictiois partem vacillantis dubitatio vocatur. Ergo qui aliquam [uæstionem instituit, de eo, quod quærit, dubitat. 32. [am ista dubitatio oritur ex eo, quod contrariæ philosophorum opiniones circa rem, quam quærimus, e istunt, vcl ex eo, quod præiudicatas opiniones circa psam temere imbibimus. Quapropter quæstionem solvenlam suscipimus, ut certam inter contrarias sententias co[noscamus, vel ut animum nostrum præiudicatis opinionbus expohemus. Quod cum ita sit, manifestum est ei, omo ratione polleat, vel uti species, e. g., utrum bucephalm sit Mua, inter quæstiones dialecticas non numerantur, quia ipsæ naiectice consideratæ aliquid, quod de pluribus prædicatur, delotant, ac proindc ad quæstionem de genere revocantur. qui rite, utiliterque quæstionem dirimere vult, a solutione dubilalionis initium sumendum esse. Enimvero quænam inter contrarias sententias cerla sit, statuere non possumus, nisi illas hinc inde excutiamus, et quid de his admittendum, quidve reiiciendum sit, perspiciamus; item animum nostrum præiudicatis opinionibus expoliare non possumus, nisi, harum examine instituto, veras a falsis discriminemus. Atqui in his solutio dubitationis consistit. Ergo quæstio rite solvi nequit, nisi dubitatio in primis solvatur. Td s. Thomas sequenti exemplo declaravit. Quemadmodum ligatus non potest ambulare, nisi vinculum solvat, quo constringitur, ita, cum homo, rem ignotam quærens, a dubitatione, yeluti quodam vinculo mentis detineatur, in cognitione rei progredi non potest, nisi dubitalionem solvat '. 33. At vero hæc non ita accipienda sunt, ut de omnibus dubitetur. Etenim, si de omnibus dubitetur, nulla dubitatio exsolvi potest, quia dubitatio nonnisi per ea, ! quæ omnino certa sunt, ac proinde nulli dubitationi obnoxia, excluditur. Hinc sapienter Aristoteles monuit 2, dubilationem instituendam esse vel de iis, quæ a sapientibus nondum investigata sunt, vel de iis, circa quæ plures, ab seque discrepantes sapientum opiniones extant 3. 34. Hæc, quam commendavimus, dubitatio, appellatur methodica, atque a dubitatione sceptica maxime differt, 1 quia is, qui dubitationem, methodi gralia, inslituit, eo usque dubitat, donec ad dubitationis solutionem perveniat, dum scepticus ea mente dubitat, ut in dubitatione maneat; 2 quia sceptica dubitatio circa omnia versatur, nihilque esse ex se perspicuum statuit, dum in dubitatione methodica multa ex se perspicua admittuntur, de quibus ne possibile quidem est dubitare, et quorum ope dubitationes exsolvere licet. 35. Quæstionem dirimere aggredienti valde etiam utile est illius historiam, seu sapientum, qui præcesserunt, opiniones nosse. Namque ea, quæ circa rem a nobis quæsitam maiores nostri invenerunt, vel vera esse a nobis perspiciuntur, vel falsa. Si primum, mens nostra nova In lib. III Met., Iect. I. 2 Met., lib. II, c. I, § 1. 5 Inde patet Gartesium hanc dubitationem longius, quam par, æquumque est, provexisse, siquidem ipse de omnibus, præter existentiam sui ipsius, dubitare instituit; De methodo, cognitione veritatum locupletatur, quin in iis ex se ipsa nquirendis tempus frustra terat. Sin alterum, efllcitur ut rrores, in quos alii ante nos inciderunt, vitemus, alias|ue vias ad verum inveniendum ingrediamur f. IV. De locis, ex quibus argumenta dialectica hauriuntur 36. Locus a Teophrasto, discipulo Aristotelis, ita definiur: Propositio omnium maxime universalis, quæ per diwrsa genera rerum determinata solutioni quæstionum dia~ ecticarum inservire potest3. E. g., si quæratur, utrum anitas melior potione sit, solutio peti potest ab hac pro>ositione: Finis est melior iis, quæ ad finem destinantur; lam ex vi huius pronunciati licet ita argumentari: Finis st melior iis, quæ ad finem destinantur; atqui sanilas esl inis, ob quem potio desideratur ; ergo sanitas melior poione est. 37. Quoniam quæstionos dialecticæ sunt, ut diximus el generis, vel defmitionis, vel proprii, vel accidentis, fuadripartita est divisio locorum, quia alii eorum a generef ln a definitione, alii a proprio, alii denique ab accidente urnuntur. Ex plurimis locis, qui ab his singulis sumi K)8Sunt, unum, et alterum, exempli instar, exponemus. 38. Ad loca, quæ ab accidente sumuntur, pertinent hæ )ropositiones : 1° Contrariorum contraria sunt attributa, i cmns Ha arguitur: lustus est laudandus; ergo iniustus st vituperandus. 2° Eidem subiecto contraria attributa ines non demonstrentur in ea scientia, cuius sunt principiH possunt tamen demonstrari in alia scientia superiori. I xemplo sit illud principium, a puncto ad punctum lineai rectam ducere; hoc enim principium, ut AQUINO (vedasi) inquii supponit Geometra, et probat Naturalis, ostendens quo inter quælibet duo puncta sit linea recta media s . II. De termino medio syllogismi demonstrativi 50. Terminus medius syllogismi demonstrativi est caus rei, quæ demonstranda suscipitur. Et sane, syllogismu i demonstrativus gignit in nobis scientiam rei. Atqui sciei tia, uti mox dicemus, est cognitio rei per causam 6. Erg causa rei est medius terminus in syllogismo demonstratix 51. Iam quælibet causa, nempe sive efficiens, sive m; terialis, sive formalis, sive finalis % medii termini munei fungi potest. E. g., quandocumque, ut ait s. Thoina aliquid demonstratur de toto per partes, videtur esse d monstratio per causam materialem; partes enim se habei ad totum secundum rationem materiæ 8 . Si demonstr Vulgo axiomata, sive dignitates nuncupantur. 2 Ad hæc principia propria revocantur prænotiones circa subi ctum, quæ, ut paulo ante diximus, sunt definitio nominalis, suppositio. s Cf s. Thom., In lib. I Poster., lect. XIX. lbid. 5 Op. cit., lect. V. 6 Cf interim p. 57. 1 De his causarum speciebus in Ontologia disseremus. 3 In lib. II Poster. Anal., lect. ^eris hominem esse capacem scientiæ ex eo, quod est •ationalis, causam formalem pro argumento sumes Ex :ausa efficienle in mundo esse ordinem demonstratur mia Deus, qui mundum condidit, non potuit, quin orlinem inter omnes eius partes adhiberet. Denique ex :ausa iina i Anstoteles demonstravit post coenam utile sse ambulare, quia deambulatio, cum ciborum diffestioni nservial, valetudini prodest. 52. Duo autem de hac re monere par est: I.° Causa, quæ amquam medium adhibetur in syllogismo demonslrativo, iebet esse 1 per se, et necessaria, 2° propria, non vero ommunis, 6 proxima sive immediata. Enimvero in sylloismo demonstralivo conclusio cognitionem gignit necesariam, ita ut oppositum eius haud sit possibile; omnino erlam, et adæquatam, nempe eiusmodi, ut nulla alia atione ad iliam cognoscendam opus sit. Elenim si quid orum deesset, scientiam rei pcr syllogismum demontrativum non assequeremur. lam si conclusio probatur er causam, a qua illa non per se, sive necessario, vel aturaliter, sed per accidens promanat, ipsa non esset ecessana, quia id, quod per accidens oritur a causa on semper orilur ab ea, ac proinde oppositum eius' uod probatur, non erit impossibile. E. g., aliquem pro' um csse ex eo, quod cum probis frequenlissime affit JUd necessano demonstralur. Jnsuper causa communis jn solum ad rem, cuius scientia quæritur, sed etiam i al.as spectat; ac proinde si conclusio probaretur non .r causam propriam, quæ rem constituit, sed per caum communem, ipsa probabilis, non vero omnino certa se Hinc eruditionem aliquid honum esse ex eo, quod ao.lis est, apodictice non demonstratur. Denique com.o adæquata rei non obtineretur, si eius probatio mn Peri CaUSam remot.am i non proximam ; nam causa mota adæquatam rationem rei haud exprimit E ff minem respirare adæquate non cognoscitur, si ex causa niota, nempe exeo, quod est animal, non vero ex causa ox.ma, nempe ex eo, quod habet pulmones, colligitur; int i.nini ammaha, quæ non respirant, sicut pisces. Ex L2™T-h8 PersP,cllur. (luam recte syllogismus demonraiivus illc dicatur, cu.us præmissæ sunt necessariæ, In Ub. I Poster., lect. XXIV. Philos. Christ. Compend. 1.3 66 LOGICÆ ce rtæ, atque evidentes, sive syllogismus mcessitalem in ducens, in quo non est possibile esse veritatis defectum. II.0 Medius terminus in syllogismo scientifico ad defini tionem rei reducitur. Porro definitio rei, sicuti adnotavi mus1, est illa brevis oratio, quæ essentiam alicuius re determinat, seu, ut s. Thomas scribil, quæ denotal aliquan formam de ipsa re, quæ per omnia ipsi respondet 2. E. g. definitur homo, cum dicitur esse animal ratione prædituml Hoc præstituto, quatuor causæ, quas recensuimus, a unicam, nempe ad causam formalem, quæ essentiam re efficit, tandem redeunt. Enimvero munus fini s est causai efficientem ad formam gignendam movere, unde ipse no nisi in forma iam perspecta conspicitur; causa autem et fectrix id agit, ut materia a forma determinetur; materi denique per formam suam habet esse, et actionem; qu(| circa finis, vis effectrix, et materia ad formam referuntui t Ex quibus consequitur causam, sive medium terminui 1 in syllogismo apodictico consistere in eo, quod essentiai rei denotat. Atqui definilio, uti vidimus, est oralio, qu£ essentiam rei significat. Igitur medius terminus in syll rem per eiusrlem causas roprias, necessanas, et proximas evidenter nrobat uuioue enc nlii Z ° demonslrall° cum penes Arislolelem, lum enes alios antiquos, et recentes non solum illo slriclissi lSismoSUaT,,,fUU' SCd ime,;dl,ra au0('Ue " P-i s ncceTs^ ''f f Umq,Ue m°a°">clUsionem cX præmis'" eC4!S s" 10 lnfert> vel pro cuiuscumque generis nrobaone,,ta ut demonstrare idem sil, ac probare. Ex his inlelol U;'JUr/rætCr i,"am dro-ra.?onem, quæ ab ArL ma dieM fmFl!fl a e'US dlscl.Pnlis Principalis, vel potisma dicla luii, aliæ demonstrat.onis species recenseantur. 54 Itaque in pr.m.s demonstratio dislineuitur in de onstrat.onem propter quid, et demonslration°em quia De DfeicCnSins!,n„0Pe/r "TCaUSa' CUr affeCtio ln fPS0 insit> est,7c 0 ni" ionf . qU P'am P°SUum eXlra iPsumIta frustra uui s ca dc.i. itron d J Unæ,CaUSam ?•"' cur luna deflciat, atque rem defl „nrf /c, US 1UUa° C°n,icerc studcrctCUUI eausa, quam 0 1,MV ™' SCd,nteriectns 'erræ inter solen. et lu sam,ui h.hPn, He'n°nS rat,oncm aTectionum, qoæ in subiecto edicn „tCnt' mCdlUm •"•io est delinitio subiccli, aliquando c.usa nroZ CaUSa' qUaC CSt medium syllogismi scientifici, iiecto o, !, ' D°n re'"°ta' prima affecti0> > nnmediate e i c°„,1r!,Percrde',n't,0nem suMccti "etnonstritur, unaquæque s causr„ " " affcct,onum P°r delinilionem illius affeetionis, quæ io subicc P „,,,C,"nmCa ata CStAt ^er.enduro est, cum dcfi r! SUmr'tUr.' ipsam non I,er se' scu q Jer.nitio co aincr,, L CaUSa affcction,'ssumiNam i„ syllogismo scien nect, V,,, ?' PCr qUam affccti0 subiect0 incst. non per quam i n, f „ „CSi '" qU°C,rCa dcr'niti0 Subiccti Pro mcdi0 •'"•'• i,s S^ qp unæadcmquc est simul cssentia subiecti, et emncr ^no int" qU° coll,S,tur eflnitlonem prædicati cssc rea pe paucis i„ " ' ' SJ„llc°"!smo scicutieo, proptcrea quod ctiam in nonaUC S','" Iu bus defin.tio subiecti pro mcdio sumitur, adhibe ioZZs !\t 1,"„° SUb,eCrti' Scd ouia cst causa nffeetionis, uti dinsa Itt CSt '°"nn.,s Jforn,a' ""ibetu, tamqnam ter.n nus Vid T Cl,! r "'S d°°ilitat™, qu'a l.uius causa proxin.a fnl loleuo' Comment. cit.-m co. ril lib. II Post r 291 r-t ftM;r- in 0,°- ad m- n L °--" "tv^ monslratio propter quid est illa, quæ propriam, proxij mam, et adæqualam ralionem rei demonstratæ continet; I uti habere pulmones, quemadmodum paulo ante dictum I est, causa est respirandi ; quocirca hæc demonstratio ad i syllogismum apodicticum reducitur. Demonstratio quia diI citur illa, quæ remotam, et minus adæquatam rei de-1 monstratæ causam, seu rationem affert, scilicet, quæ determinatam radicem, propter quam res est, haud præsefert ; uti esse animal est causa minus adæquata respirandi; vel illa, quæ sumit effectum ad probandam causam; e. g., demonstraiio existenliæ Dei, quæ ex rerum contingentium existentia conficitur, est demonstratio quia. cum ipsa per effectus fial. 55. Ad has duas demonstrationis species illæ facile re vocari possunt, quæ vulgo demonstrationes a priori, atque a posteriori dicuntur ', Demonstratio a priori ea est, quæ fit per causam, et demonstratio a posteriori est ea, quat fit per effectus, et proprietates. Hinc patet demonstratio nem a posteriori esse demonstrationem quia, et demonstrationem a priori, si fiat per causam propriam, proximair et adæquatam, eamdem esse, ac demonslrationem proptei quid; sin per causam remotam, vel inadæquatam, ad de monstrationem quia revocari. 56. Distinguenda etiam est demonstratio directa a de monstratione indirecta, quæ dicitur etiam deductio ad ab surdum. Demonstratio directa ea est, in qua aliquod ve rum deducitur ex alio vero, cum quo connectitur. Indi recta autem demonstratio ea est, in qua aliquid verun esse evincitur, ex eo quod, illo negato, aliquod absurdun oboriretur; vel falsum redarguitur, quia, si esset verum aliquod absurdum existeret. Ita animam esse immortalen demonstralur directe ex eo, quod spiritualis est; indirect ex eo, quod si immorlalis non esset, nulla poena vitium nulloque præmio virtus afficeretur. 1 Origo duplicis huius generis demonstrationis, nempe a priori, e a posteriori, ex eo repetenda est, quod interdum causa effectu, inter dum effectus causa notior est. Cum enim demonstratio a noto ad i gnotum progredi debeat, liquet demonstrationem vel a causa ad ei fectum, vel ab effectu ad causam progredi oportere, prout vel caus notior nobis est, vel effectus notior causa. Si primum fiat, demot stratio dicitur a priori, sin alterum, a posteriori. Cf s. Thom., / lib. I Poster., lect. Magnam vim ad refellendum adversarium habet illa lemonstratio, quæ ex datis, vel ad hominem dicitur. Hæc irincipiis ab adversario concessit nititur, nempe in eo onsistit, quod adversarius, si verum quodpiam faleri reuset, admitterc cogitur alia, quæ ipsemet falsa esse non iffitetur. Exemplo sit argumentum illud, quo Paulus adersarios resurrectionis mortuorum redarguit. Si verum lon esset mortuos resurrecturos, consequeretur 1° Ghrilum non resurrexisse, 2° inanem esse suam prædicatioem, 3° inanem esse illorum fidem; atqui hæc tria ipsiæt falsa esse fatentur ; ergo necesse est, ut fateantur uoque veram esse mortuorum resurrectionem . 58. Denique tacendum non est de demonstratione, quæ egressiva nuncupatur. Ea est, in qua primum per ar^ulentationem a posteriori a cognitione effectus ad co Dist XLV, q. I, a. 3 ad 5. Ille scit, inqmt Aristotcles, proprie, ac sirapliciter, qui causara mr T S fc> Ct/1,i"S CaUSam CSSe' et alitese habfrc n £, S. ii, ?.n?! „;. i98 Poster- m- h c- 7- cf s- opposito dubitare possit. Opinio, AQUINO (vedasi) inquit, significat actum intellectus, qui fertur in unam partem contradictionis cum formidine alterius '. Quapropter scientia j ex demonstratione efiicitur, opinio autem ex syllogismo | dialectico; ex quo fit, ut illa firma, hæc infirma sit. Iam i ex demonstralione ideo res certitudine firma, et absoluta cognoscitur, quia per causam, quæ eius essentiam con stituit, probatur. Ex syllogismo diaiectico infirma rei cognitio obtinetur, quia rationibus extra rei essentiam sumtis probatur 2. Inde exurgit aliud caput differentiæ inter scientiam, et opinionem, nempe, scientia circa necessarium, et immutabile versatur, quia essentiæ rerum, ul suo loco dicemus, sunt necessariæ, et immutabiles; opinio vero circa contingens, et mutabile. 61. Fides autem definitur: Mentis adhæsio alicui rei, quam quis non videt, sed alteri dicenti credit 3. Ex hac definitione patet præcipuum discrimen inter scientiam, et fidem ex eo repetendum esse, quod certitudo scientiæ; ut s. Thomas ait, consistit in duobus, scilicet in evidentia, et firmitate adhæsionis; certitudo autem fidei consi stit in uno tantum, scilicet in firmitate adhæsionis . Etenim in iis, quæ scientia cognovimus, nos ipsi conclusio nem ex principiis fluere perspicimus ; id quod non con tingit in iis, quæ fide tenemus. Fides autem in divinam et humanam distinguitur, quia ad assentiendum rebus quas ex nobis ipsis non cognoscimus, movemur ab au ctoritate divina, vel humana. V. De scientia latiori sensu accepta 62. Scientia, de qua in præcedenti articulo locuti su mus, significat perfectam notitiam alicuius rei, quæ pe eius causam adquiritur. At vero nomine scientiæ vulg 9uæ Proprietates genericas alicuius m ?nvpjJ l'afCle iaS subiectas habn' g"' PersPectiva> i'" qualitatem praioicato signihcatam inesse ; unde ipsæ, si relatc ad naturan,, considerenlur, hypothelicæ dicunlur. E. g hæc enunc.at.o, Omnes radii circuli sunt æauales. minfme de lcs sed ?dUeMn,i,lreUlUm-Cxifere' cuius?radii snnt Tequa esse £nSlif ir Sl.,clrcul"s vere est, omnes eius radios r m !•' 'dcaC an,mac innatæ cum non ab n nositum T™ '" an!m. foducanlur, aliquid in ex it m.n?ff'.~n Ver°. oaUld ' OUod extra animan> tum Pr ncini /. ^T^ H°C Præmiss> ™ argumencmco3 ";.?AmbuSi SCCUndM melhodum idealisti ionis mere ahs,^nt,,fiCa C,duJC'lUr' neraPe P™nuntiata raon s me.e abstracta, vel ideæ innatæ, obiectivam exi cr 3S„? Pnnc'P'a. vim habere nequcunt. Ergo •tivam r 1,1 ?,, qUa° SUnt C0&"itiunes scien ificæ, obie ;am assen rCrUm' secundum methodum idealisti arn, assequi non possumus. Qoænam sit melhodus psychologico-rationalis exponitur 15. Methodus psychologico-rationalis medium Jocum tenef m rhi°ndUm emPirT™> el melhodum ideJSm;ell Aim ea, m qua scentia tum ex faclorum observatione um ex pronuntiatis rationalibus conficitur. Scil cc undum hanc methodum mens nostra co^ni tionem scien ficam a,icuius • adipiscitur hoc ^. ^ ^g hencfit Z9 n qUam ref-^æsita pertinet, sensibu a™ oSne^ ITr,a rCtmet; al(ue ita ^ comparat ^n.t.onem scnsitivam, quæ cxperientiam eonstituit . I Experientia circa facta interna fit per vim reflexivam inteUo "e m^SPcXtdiUstem faCta TrDa °PUS £SJ^ ef.one auæ nnn ?n ' exa,n,nand,sa.ue ^nsistit, atque eaper! int eiaTnin^ Ja u 6° SG cont,net> ut "s, prout sibi occur nt, examinet, sed substantias substantiis subdit easque inter sese. Deinde illud, quod per experientiam cognovit, ope in ductionis reddit universale, atque ita ad propositiones universales progreditur, quas tamquam principia demon strationis adhibet. Denique ex his principiis ila compa ratis conclusionem scientificam ope syllogismi deducit1. Exemplo rem declaremus : Si quis cognitionem scienlifi cam huius veritatis, Homines libertate gaudent, adipisci velit, ita secundum leges methodi psychologico-rationalis progredi debet. Primo Socratem, Plalonem, Aristotelem, aliosque observans, deprehendit eos libere agere, et statuit hanc experientiam: Plures homines libertate gaudent. Quia autem in cunctis hominibus, qui sibi occurrunt, idem constanter perspicit, ex propositione particulari progre ditur ad hanc universalem: Omnes homines libertate gau dent. Eadem ratione sibi comparat hanc alteram proposi tionem universalem: Omnes homines sunt intelligentia præ diti. Deinde expendens, unde in hominibus libertas oria tur, facile perspicit causam, cur homines libertate fruan tur, in eo positam esse, quod intelligentia sunt præditi Hac causa, tamquam medio termino, utitur, ut syllogismurr conficiat, unde cognitionem scientiikam libertatis homi num eruit, ratiocinando hunc in modum : Omnia, qum intelligentia sunt prædita, libertate fruuntur; atqui homine. sunt intelligentia præditi; ergo homines libertate frui debent Aliud exemplum affert s. Thomas his verbis: Puta diu medicus consideravit hanc herbam sanasse Socralen febrientem 4 et Platonem, et multos alios singulares ho mines : cum autem sua consideratio ad hoc ascendit quod talis species herbæ sanat febrientem simpliciter, ho ''" qibus oflicio fungitur 3 Etsi experientia non sit pronrie caiisn rinf;.. ^da scientiam ducit. Etenim scientia ex principiis \ In lib. II Post., loc. cit. ™g. 39 et 48. De regressu. gignitur, principia autem, seu pronuntiata universalia al intellectu per inductionem efformantur, atque inductic i nonnisi ope experientiæ institui potest. Experientia igitu est, quæ materiam præbet, unde scientia efformari potest a Dicitur acquiri per sensum, quantum ad distinctionen j principiorum, non quantum ad lumen, quo principia co i gnoscuntur . Ad scientiam efficiendam secundum hanc metbodur inductione, et syllogismo opus est; siquidem inductio pe experientiam principia parat, syllogismus autem ex prin cipiis inductione comparatis conclusiones scienlificas dc ducit. Nibilominus mens humana scientiam proprie syllc gismo, non inductione assequitur; siquidem scientia no in eo consistit, quod principia cognoscuntur, sed in ec quod ex principiis iam cognitis res quæsita deducitui Quapropter secundum hanc methodum scientiam non adi piscimur, cum ab effectu ad causam, sive a sensilibus a intelligibilia ascendimus, sed cum a causa acl effectun sive ab inlelligibilibus ad sensibilia descendimus. Quo ut accuratius explicetur, advertendum est mentem nostrai in comparanda sibi scientia duplex terere iter, nemp progressus, et regressus, quippe quod ipsa in initio sciei tiæ ab effectu ad causam progreditur ; in complemenl autem scientiæ a causa ad effectum regredilur, ut ipsii effectus cognitionem scientificam acquirat. 5° Exinde consequitur in methodo psychol ogico-ratn nali scientiam per analysim, et synthesim acquin, H quidem ut analysis sit eius inilium, synthesis autem pe fectio. Etenim secundum illam methodum mens nostr ut paulo ante diximus, primum ab effectibus, vel a con positis ad causas, vel ad simplicia ascendit, deinde simplicibus, vel a causis profecta ad composita, et effecti descendit. Quapropter methodus psychologico-rational analitico-synthetica vocari solet. IV. Utrum hæc methodus ad scientiæ adeptionem opportuna sit, investigalur 17. In methodo, uti diximus2, ratio habenda est tu i In lib. III Sent., Dist. XXIII, q. III, a. 2 ad 1. Et /n lib. i Dist. XXIV, q. II, a. 3 c. Qui (habitus intellectus, seu pnn piorum) ad determinationem eorum (principiorum) sensu et n moria indiget. principiorum ex quibus mens proficiscitur, tum modi |uo procedi,n investigatione rerum. lam melhodum psv^hologico-rat.onalem ex utroque capile spectatam un 11 .pportunam esse ad scientiæ adeptionem his duabus nro(OSitiombus a^nobis demonstratur: P 18. Prop. la. Principiu, ex quibus mens in comparanda th sctenUa proficuci debet, nonaliæsse possunl, ITauæ n melhodo psychologico-ralionali adhibentur. ° Probalur. Pr.ncipia, ex quibus mens scientiam rerum £' / JP81"8 men,,s na,ura consentire debenf nam o,SdUnisid„"'en^aC adePliouem PPonuna nonalia es„ otest, n.s quæ cum natura menlis humanæ consenlit . tu ment.s natura, ut suo loco demonstrabilur expoulal, ut sænt.a a sensibus, quemadmodum s. Augustinus ^hoelr, atque ab in.ellectu perficialur '. Ergo prin P"seqdeben(m„C:: n°S-ra ^ ""V™ rerum P°™S mTaranfnr \,auæ J,rlmum cxperientia, deinde ralione 1P,1 } |,V huiusmofl' principia ea sunt, auæ ; me.hodo psychologico-rational! adhil enlur; nam m ea e usdem sancf Doctoris verbis u.amur, mens humana .mmuue 'Sr f"Cta ^ per SenSUS eorPoris peritur inde qaLl "am Pr° •nfi-imilatis suæ modulo capit, et u "i0;™ causas' Ergoprincipia, cx quibu ens I umana in comparanda s.bi scienlia proficisci debel Inlr essePossuut> nisi quæ in methooo psycholoeicolionali adhibeiilur. l=j^uuiogito ™,„/P/°P;'28-. Modus> ?" procedere debet in comranda slb, scientia rerum, ille est, gui adhibetur inme'rfo Psychologico-rationali. rrobatur. Ad scientiæ adeptionem tum analysi, tum ^rixdi diximus' prLdii me'ho°nsS 'i!iii|Psr0lnllrl"i. mai°r qU°ad |)n'mam par,ftmScienlia, uti " us, pcr cogn.lionem causarum, ex quibus res est 'i lsc;rH!,r°P,er ad SCienliæ adcptionem "ccesse esi,noscere et causam esse, et connexionem rei eum illa peTnnVU° ab TSa CnaSci,UrAl'lui ana•, c. 4, „. 2. _ 2 De Gen. ad Htt. tur causam esse ; synthesi autem cognoscitur quomodf ilUus phænomeni causam, quam quæ sumta est. lum, sive a scientiæ natura pelitis inniti debet. Ataui llis moment.s rationum quæ Ontologi ad suæ methodi ationem reddendam a logica hauriunt, nulla vis inest,rgo methodus onto og.ca esse ad scientiæ adeplionem nice opportuna nullo mre dicitur 25. Minorem probamus refellendo argumenta ab Onto>gis obiecta. Ilaque Ontologistæ conflciunt hoc anrumenjm. Si scientia rerum efficitur ex cognitione causarum cr quas ipsæ res fiunt, consequitur illam methodumesse d ipsius adeplionem unice opportunam, quæ a causis cffectus, sive ab intelligibilibus ad sensihV progreditur tqui Deus est pnma Causa, et primum IntelligibFle. Er-o la melhodus est unice opportuna ad scientiæ adeptionem jæ a Deo ad res creatas progreditur. 26. At huiusmodi argumentum nihil præsidii ad Ontogismi tutamen affert, quippe quod eius maior æquivo.tionc laborat. Emmvero ipsa ita dislinguenda esl: I||a ethodus ad scientiæ adeptionem unice opportuna est iæ progred.tur a causis ad effectus in via regressus ^descensus, conc mau ; in via progressus, sive ascen, neg. mai. Psychologislæ concedunt mentem humanam m. 7' sc'e.n!|am assequi, cum a causis ad effectus, sive ' mtelligibilibus ad sensibilia descendit, hac enim via ra Der causam cognoseit . At vero mens nostra, secun" ipsos, immediata cognitione causæ haud potitur, sed cam per effectus ascendit, neque Deum, PrimamCaum omnium rerum, potest aliter, quam per res ipsas, ueuectus suæ Omnipotentiæ, cognoscere. Ex co hntur scienlia est cognitio rei per causam, sequitur scienira a hcuiua > rei confici non posse, nisi huius causa cooscatur; sed quia cognitio causæ per effectus obtinetur, SUnf scient!ac a cognilione effeclus sumendum est. . iistant 1 Onlologislæ: llla melhodus ad scientiæ •und,,mmi.},mCe °PPorluna est' (iua res cognoscuntur du I, -lum ordræm, quem ipsæ inter se habent. ' uinsmodi ordo ex eo constituilur, quod prirao sit (US, et dein res ab Eo creatæ, hoc est, primo Intelli if~ret dGinde Sensibi,ia' Ergo^Lusid emiæ adeptionem opportuna illa est, quæ ab intelli ^Mibus ad sens.biha etiam in m progressus procedU Resp., Dist. mai. ; si cognitio rerum consideretur relata ad ipsas res, quæ cognoscuntur, conc. mai. ; sin consideretur relata ad modum, quo mens in rerum co gnitione progreditur, neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Et sane, si cognitio rerum priori modo spectelur, procul dubio cognitio vera esse non potest, nisi mens rem in eo ordine esse cognoscat, quem in rerum universitate habet, quia cognitio tunc vera est, cum conformitatem habet cum re, prout hæc in se est. E. g., cum causa sit j natura sua prior effectu, cognitio causæ vera non est, nisi tamquam prior effectu cognoscatur. Item Deum, et res ab Eo creatas vere non scimus, nisi intelligamus Deum esse Primam Rem, et Primum Intelligibile. At si cognitio rerum posteriori modo consideretur, maior est falsa. Nam ordo, quo mens in rerum cognitione procedit, consenta neus esse debet naturæ ipsius cognoscentis, non vero naturæ ipsarum rerum cognitarum, quia cognitio non est affectio rerum cognitarum, sed mentis cognoscentis. Atqui mens nostra ita natura sua comparata est, ut non possit cognoscere id, quod est prius natura, nisi ex eo; quod est natura posterius, quia hoc magis notum ipsi est, quam illud. Ergo ordo, quo mens in cognitione rerurr progreditur, contrarius esse debet ordini, quem ipsæ res tenent. Ex quo consequitur mentem nostram primum eo gnoscere effectus, et ex horum cognitione ad cognitioneir causæ pervenire, et proinde ad Dei notitiam non nisi pei res ab Eo creatas assurgere. Neque dici potest hanc in versionem ordinis impedire, quominus mens cognosca verum ordinem, quem res inter sese habent. Namquc mens, postquam ex cognitione effectus ad cognilionen causæ progressa est, potest intelligere causam esse natun sua aliquid prius, quam effeclum, et postquam mens pei creaturas ad Dei cognitionem pervenit, facile intelligi Deum esse Primam Rem, et res reliquas esse Eo poste riores; atque ita verum ordinem, quo res inter sese col ligantur, cognoscere potest. 29. Inst. 2°: Res sunt intelligibiles ex eo, per quo £$&£%& arf" sunl nnn^r 1 Ur rcS 6SSe "lelligibiles ex eo quod auam inMMo ' •" S1&nificat &ms Abt. I. _ Dc methodo cclectica 31. Methodus eclectica, quæ eclelismus quooue dicitur ;" ' m et e.peditam viam ad scienLe^consecu o ^^ '^^?,eUsrw' onæ in SK '''' scientia conBcih r H~BeBM!_ -tqUe I,ldo Perfecta msinium usu,^rl ? °C methodus> noslra ælale, 'ius sta ui 1 LL,, _|,Ul0S pr.°Puatmus pro falso habetur, non quod materiam esse adslruit, ed quod ullos spiritus esse ncgat; et idealismus in errore ^ersatur, non quod spiritus esse asserit, sed quod corpora isse negat. Hinc, si idealismi, et materialismi pronuntiata unxens, non efficietur systema, quod utrumque complectiur, sed quod ipsum sibi repugnat, ncmpe, quidquid exnstit, est spirituale, et materiale. II. De ræthodo auctoritatis 34. Methodus auctoritatis, si in universum spectetur, in ;o posita est, quod scientia confici dicitur non ex notiiis ab ipsa mente comparatis, sed extrinsecus, hoc est a ievelalione acceplis. 35Prop. Methodus auctoritatis absurda est. rrobatur Inter methodi auctoritalivæ defensores non•uili uti liotemus1, contendunt scientiarum principia ex ievelat.one sumenda esse; alii, inter quos Lamennaisius % ocent nos ipsas veritates, de quibus agitur in scientiis, Kcvelatione accipere. Alii dcnique, uti p. Ventura 3, enliunt philosophi munus non esse veritates intellectua-5, et morales invenire, quia hæ ab educatione domestica, a tradilionibus generis humani apprehenduntur, sed Wiam illas demonstrarc, hoc est ab erroribus discernere, oiwmv, ac contra illarum adversarios, aut corruptores æri. Hinc sanciunt veram philosophandi melhodum esse '-monstrativam, non inventivam, sive inquisitivam. De v enseignement de la phil. au XIX siecle. s Zssai sur V indifference en matidre de religion, c. 12. Ve methodo philosophandi, Dissert. prelim. Iam contra illos, qui primam sententiam tenent, hoc adstruimus argumentum: Scientiæ naturam suam sumunt ex principiis, quæ in eis adhibentur. Atqui principia omnium scientiarum secundum eos Philosophos sunt revelata. Ergo omnes scientiæ revelatæ dicendæ sunt; ac proinde, admissa illa sententia, omnis scientia humana destruitur. 37. Illos autem, qui alterum docent, perstringere licet hoc dilemmate: Vel mens nostra cognoscit propriis viribus principia, ex quibus veritates, de quibus in scientiis agitur, promanant, vel non cognoscit. Si hoc alterum admittunt, sese scepticos esse profitentur, seu fa teri coguntur nullam veritatum cognitionem scientificam menti nostræ suppetere, siquidem cognitio, quæ ex rei principiis non deducitur, vulgaris, non autem scientifica est . Sin primum, ipsi sibi contradicunt, nam cum mens nostra principia ex se perspicere possit, et polleat ratione, qua ex principiis conclusiones deducere valet, certe cognitio veritatum est naturalis, proindeque ex Revelatione repetenda non est. 38. Denique contra sententiam p. Venturæ ita arguimus: 1° Mens nostra, ut ipse p. Ventura fatetur, verum a falso discernere valet; quod idem est, ac cognoscere quid verum, quidve falsum sit. Atqui cognoscere quid verum, quidve falsum sit, idem est ac invenire verum. Ergo, secundum eiusdem p. Venturæ principia, mens nostra verum invenire posse dicenda est. 2° Per demonstrationem illud, quod ignotum erat, deprehenditur, vel iliud, quod erat minus notum, notius efficitur. Atqui cum id, quod ignotum erat, deprehenditur, aut id, quod est minus notum, notius efficitur, certe aliquid invenitur. Ergo ipsa natura demonstrationis expostulat, ut per illam verum inquiratur; ac proinde discrimen illud, quod Ventura invexit inter methodum inquisitivam, sive inventivam, et demonstrativam, prorsus absurdum est. IV. Utrum diversæ scientiæ diversis methodis tractandæ sint 39. Jam demonstravimus mentem nostram primas cogniliones scientificas rerum nonnisi methodo analytico-synthegj 'teoacquirere posse. At scientia, utdiximus', potest etiam lation significatione accipi, ita ut denotet quodcumque syste.na cogni .onum, quæ ad certum quemdam ordinem rerum att.nent, atque scientiæ, si hoc sensu accipiantur sunt, ut quoque diximus \ inter se diversæ. prout sont d.versa genera rerum, de quibus ipsæ tractan. Quapropter nquiramus oportet, utrum cunctæ diversæ scientiæ un.ca methodo, an d.versis melhodis tractandæ sint. I. Vera sententia adslruilur 40. Nos s Thomam 3 secuti, scientias omnes eadem me Prnn0n,VCtan MB P°SSG lUemUP" Statuimus hTnc rroposilionem: "^ Scientiæ aliæ aliis methodis tractandæ sunt. Jil '!', Me"S ^versis viis in cognitione rerum proced, prout insæ,n se d.versæ sunt, et diverso modo ad ilhus facullates cognoscentes referuntur. At.iui res in quibus sc.enfæ versantur, sive considerentur n sui na" lura, sivc prout referuntur ad vires cognoscentes animæ l^LtriT ?r°jil? diversis viis mens eog, oscZe: cesse est. Atqui melhodus via est, qua mens in cognitione entatis progrednur. Ergo illas dlversis methodis mens nfre°St.n ^T T ^l1 id a,ifluo emplo confirinarc. In scientns physics alia sane methodus, ',nm,n, .• V,tlca llac">ndæ dicunlur, id non esse de sinulis . r z r;T,r^en"r' cv n,,ib,,s ^ ssfisffl : -,, °„°-' q °,'a SCnCS d>onslrationum incipit, et nrol-rcditur 21 esoe,;u0tC,,1nniCæ' ^ fJ'ntUesi innft™r, >%££ ium rcsolutione non raro analysi utunlur. Eudides, cl vetcres Defensores adversæ sententiæ refutantur. Philosophi, qui unicam methodum in cunctis scientiis adhibendam esse pugnarunt, ex diversis momentis ad doctrinam suam excogitandam permoti sunt. Nonnulli, ut Cartesiani, in cunctis scientiis methodum geometricam commendant, quia arbitrantur certitudinem, quæ scientiarum mathemalicarum propria est, perinde quærendam esse. Alii, ut Lockiani, et Gondillachiani, unicam methodum inductivam probant, quia orar.es scientias nonnisi eodem instrumento, nempe inductione, acquiri putant. Denique alii, inter quos Germaniæ Philosophi Transcendentales præcipue recensentur, unicam methodum in cunctis scientiis tenendam esse docent ex eo, quod unicum esse principium omnium scientiarum sibi persuadent. Hæc omnia falsa esse evincemus sequentibus propositionibus. llla certitudo, quæ propria Mathematicæ est, in omnibus scientiis quærenda non est. Probatur. Gertitudo cognitionis respondeat oportet naturæ rei, circa quam versatur. Ad hominem bene instructum, ait s. Thomas, pertinet, ut tantum certitudinis quærat in unaquaque materia, quantum natura rei patitur. Atqui res, circa quas scientiæ versantur, sunt diversæ. Ergo certitudo diversi generis in diversis scientiis sit oportel; ac proinde eadem cerlitudo, quæ propria mathematicæ est, quærenda non est in omnibus scientiis. Et sane in Mathematicis, ut idem sanctus Doctor inquit, certissima ratio requirenda est, quia versantur in iis, quæ sunt abstracta a materia, et tamen non sunt excedentiaintellectum nostrum. Ast eadem cerlitudo in iis disciplinis quærenda non est, quæ circa materiam sensilem versantur, materia enim sensilis mutationis est obnoxia; neque in illis, quarum obiecta humanas vires cognoscendi prætergrediuntur, cuiusmodi sunt substantiæ mere intellectuales ; illa enim, quæ omnino immaterialia sunt, non sunt certa nobis propter defectum intellectus nostri 2. Geometræ in universum methodo synthetica demonstrationes conficiunt; recentes methodum analyticam syntheticæ anteferre solent. 1 In lib. I Ethic, lect. III. 2 In lib. II Met., lect. 2a. Inductio unicum instrumentum omnium scientiarum esse non poiest. Probalur. In quolibet genere rerum, ut iam ostendimus, ad cognilionem scientificam alicuius rei assequendam induclione, et syllogismo opus est. Atqui, si sola inductio nullam alicmus rei scientificam cognitionem ner se nobis lag.ri potest, multo minus omnium scientiarum unicum mstrumentum esse potest. Ergo. U. Unicum esse nequit principium omnium scientiarum. Probatur . Mens nostra cognilionem veram tunc assequitur, quum hæc cum re, quam repræsentat, adamussim consenlil; quapropter scientiæ, quippe quæ derivantur a cognitione pnncipiorum, ex quibus res existunt, non possunl veram cognitionem rerum nobis præbere, nisi oarum pnncipia cum principiis ipsarum rerum omnino cohæreant. Quæ cum ita se habeant, argumentamur hunc m modum: Pnncipia scientiarum consentanea sint oportet pnncipns obiectivis, et realibus ipsarum rerum. Atqui species rerum, quæ sunt obicctum cognilionis humanæ, d.vorsæ sunl. Ergo diversa sint oportet principia coffniUonis humanæ Non tamen, ait s. Thomas, est possibile, quori ex sohs al.quibus taliter communibus possint omnia svUogizan, quia genera enlium sunl diversa 2 . Ex quo nrgumento colhgitur unitatem principii omnium scientiarum cum pantheismo, in quo unitas entis adslruitur, conærere; siquidcm, cum principia scientiarum rebus, de quibus in scienlns agitur, consentire debeant, necesse est \ Cf p. 78, ct 81-82. /.. / Poster., lect. XLIII. Monere hic præstat ab unico, nnC1p,o contradictionis, nempe, Non potest idem simul esse, et m esse, omnes scientias derivari non posse. Et sane, principium ontrad.ct.on.s procul dubio est supremum principium logicum, inippe quod rationcm reddit, cur principia communia omnium scienlarum vera s.nt; si quis enim invcstigare velit, cur de illis prinipns ne m.nimum quidem dubitari possit, statim deprchendit id x eo (•vcnire, quod, si falsa essent, idem simul affirmaretur, et rorctur. At vcro inde haud fluit illud principium esse huiusmodi •r ncipium suprcmum, ut ex ipso, velut ab unica causa, universa wenua promanet. Etenim principium contradictionis cst principium mmunc; ex pr.ncipio autem communi, utpole quod circa nullam peualcn, matenam versatur, nullius obiecti cognitio erui potest. -i s. Tnom., in cit. lib. I Poster., ibid., et lect. ut, si unicum esset principium omnium scientiarum, unicum ens re ipsa existeret. De methodo docendi Quid sit docere, declaratur Docere, secundum AQUINO (vedasi), non aliud est, quam causare scientiam in alio operatione rationis naturalis illius ' . Sane mentes humanæ sunl in potentia activa ad scientiam, quia ipsæ per lumen naturale intellectus co"noscunt principia, quæ sunt quædam semina scientiarum; proindeque docenlis non aliud munus est, quam mentem discipuli per signa exteriora adiuvare, ut hic ex principiis ei notis conclusiones, quæ principiis continentur, ratione sua eliciat. Ex his vides a magistro, non tamquam causa principali, sed tamquam causa adiutrice, scientiam in discipulo progigni; quia quantavis mediaad discipulum erudiendum magister adhibeat, semper discipulus ratione sua scientiam in se efficit, et tum vere scientiam addiscere dicitur, cum considerat utrum ea, quæ a magistro explicata sunt, vera sint, necne. Exemplo hanc rem idem sanctus Doctor illustrat, et confirmat. Quemadmodum medicus corpus ægrum ad sanitatem revocat, non quod ipse per se ægritudinem a corpore repellit, sed quod cibos, et medicamenta corpori suppeditat, quibus natura corporis ad ægritudinem expellendam adiuvatur; ita magister scientiam in discipulo gignit, non quia eandem scientiam suam ei tradit, sed quia per signa quædam mentem eius revocat ad considerationem principiorum, quæ naturaliter cognoscit, et conclusionum, quæ principiis continentur 2. II. Quacnam sit ræthodus, qua scientiæ tradendæ sunt 46. Non pauci philosophi, inler quos nuperrime A. Garnierius 3, non aliud discriminis inter methodum analyticam, et syntheticam ponunt, quam quod illa inventionem, Qq. dispp., De Ver., q. XI, a. 1 c. Ibid. 3 TraiU des famlUs, lib. VIII, c. 2, § 3. SlausCsec:iPu0enl(iOI,em " PM ^ SCntentiam " traLZZs?atnt{aS meth°d°> 0Ua inventæ . Probatur. Magisler, ut iam diximus, non aliter docet fe U„mmeqnU,aimnq„"0d """• ni])usuam. nempetrl ' niam argumenlalionem, qua ipse verum coffnosci, rW! pulo manifes.at; ct discipulus non sermone?sed ar.im atione, quam, ope illius sermonis, menle sua rS scienliam adquirii. Atqui, si discipuhu acientfam^non ioncma Zgh!ro diSCi'-' q"am 1o eamdem argumcnTalionem, qua hic scientiam invenit, mente sua rcnclii li qncl scentias non alia me.bodo radendas csse^ab illa qua mventæ sunt. Ergo. Id ipsum s. Thomas ' hoc fa Hi Kri °æCO„onPr0,bar^ d™ '-.hoZ invemion u uocinnæ non aliud interest, quam inter naturam m locinnæ autem est artificiosa. Atqui artis nronrinm ^t r clr^metfj0 met^di >^mK •£ .ioccssus, ac melhodi invendonis. cicn,i"m CU18S aUtCm',('U.aC VU'S° "reditur, addiscendi iui scienti lr°° ""enlionis, nu||a est. E(e„im ivereasaue v.pa " P /eJ,C 'nvenit' Pkrumque plures, wram nrinilnS,ngred' • CDCt ' Ut quænam llarum ad lud inieres „„^ )n,etn0d0'(|Ua "'venluni ab co csl, iaorem „, 'i „T ',ntCr v'alorem' ? sine ullo duce, e ' mih^vl' UCCal,qU0 ltCr KRrcdilup. Hic cnim, cum lu pech ne^i, gT'at' .qaat ad me,am oputam ducil, onec viamP ngI ; 'Jle autcm hac illac wcurrere debef igpedia tu ' qUa° ad mCtam Perducit' dtegt. -Ilamque 1 Loc. cit. gg Prænotiones de arte critica 49 Ouoniam ad alicuius scientiæ adeptionem veros !ibrorum auctores cognoscere, eorumque loca obscura m"erpretari plurimum confert, nonnullas de Arte crihca no iones ad calcem huius Logicæ exponere visum nob.s est. Criticæ, nempe iudicatricis nomen habu.t ars de aho rum scriptis iudicandi, eiusque pars, quæ de .nterpreta lione librorum regulas tradit, pecul.are nomen Hermeneu ticæ sive Interpretativæ habet. 50 Atque ut a definitionihus verborum ord.amur, genuinus est liber, qui eum habe. auctorem c.s,ej nræsefert, suppositus vero, s.ve spurius, si alium quam cu.? trihui ur, auctorem habet. Porro xnteger aud.t l.ber, nu non aliud continet, quam quod auctor scr.ps.t; s, quui quam illi additum, aut demtum sit, corruptuseU spec.at.u nlerpolalus, si quidquam add.tum, muHlus, s> demtum 51 Ut genuini a spuriis, atque mtegr. a corrupt.s li bris secernantur, tria' præ oculis taWa ^ 1 styte, nam certe spur.us est liber. si stjlus dij ersu sit a slvlo auctoris, cuius nomen præs efert; 2 eesi aclus essent.æ, agere autem est actualilas potentiæ. go si esse et actio realiter distinguuntur, necesse quoque > ut essentia, et potentia, a quibus, tamquam a princi- Mi actus promanant, inter se realiter distinguantur 3. iiismodiCn0nPOribl!S an.i,nantium dicuntur principium vitæ ; ast msmodi non sunt, nisi per animam. Esspntia animæ illud est, secundum quod per eam et in ea habet nadirZ aUlem s,SmT,cat ipsam essentiam, quatenus habet ordi \ op.t iTbmiiTTnew' cf s Thom'' De ente etessentia> c- S^ sa tonsutuuntur, prius cognoscat. Ms fil^M nabi!USp0teSt alia signincatione dici natudis, scihcet prout v.m facultatis, et modum onerandi 1 naturalem non excedit. Si habitus hac raTione nntu ;;.eie:[urab illa specie babitus • srx± 29. Habitus infitsus ille est, qui vel facultatern humanæ esienCail,CU,USmr,i S,Unt FideS' SPeS' et ^riK i, etsi naturah virtute aliqua rat one aconiri nnscii men ex .mmediata Divina actione sine natura K ' rip0, irare„m' efom" : ^T " Ap°St0'iS " ripiurarum, et omn.um I.nguarum, quam homines ner t Srfecto,8COnSUetudinem cquirere^possunt, licet nl 30. Quod si hahitus considerentur relati ad notentia Mbus insun,, i„ intellectuales et morales dividunlur pro„'t rt.nent vel ad inlellectum, uti scientia, velad volunta . uU temperanlia. Cuius divisionis ral o hæc es° Ilhe eiitiæ ind.gent habitu, quæ diversimodepossUnlor!t njl agendum; quia, cum huiusmodi potentiæ ex sui • ad dotcrm.natam, sive complelam opera ionem or Seta"baA,ri,„rnniSi Per babitUS evadnnt ToZtiL J.'etæ . Alqui potentiæ, quæ diversimode ordinantur $, TlC t^T^" V°CatUr '•"" prinapionan; vid. ^o^ir^ S£s£s^f ^s^^~ ^v^^r A.si.r^,, atque definitur,Ulud principiZ Z .orpus vivens per animam nutritur, augetur, et propaqatur 3uare tres ut diximus \ complectilur facuItfteT tt rum, nutntivam, augmentativam, et gcnerativam. Vegetaivum, inqu.t Doctor noster, habet pro obiecto ipsum corms v,vens per an.mam; ad quod quidem corpus triplex mimæ operatio est necessaria. Una quidem, per ouam sse acqu.rat : ct ad hoc ordinatur potentia genem"™ lVe.r°; P.er. 1uam forpus vivum acquirit debitam quanitatcm; ct ad hoc ordinatur vis augmlntativa. Alia vero r quam corpus viventis salvatur et in esse, et in quanitate debita: et ad hoc ordinalur vis nutritiva 3 ' t; 1?,?,asnutritiva est M"vu,qua vivens alimentum uisi nu iæ duæ desfrviunt generat,° est ul"ma °Peratio, cui ' se comnlecliiur n ..'. ^0'^ 'PSaS °Uodam modo ntimnc P Quare nos a Gregorio Cuvierio dis i" ^ esVprirn/one 7 nUtrit,'°ne defini1 • &™ "U" •inde ; iL™ °Peratl° > qnæ in vivenle annaret \t ni attrhni nmtaSat consequitr, vilam a noTs nulri n am CSSe-'si0niLer0 6X "Utritione notm"em vitæ tra ffimperfeXr m, l|Utr,„,°' CUm sitoPeralio vilalis wneriecuor, nullam harum complectitur. • I. Invetigator otroni opera.iones vi.ales in horoine smt rationa.es, an nalura.es od nI?i'lVjIUti exPloratum. certumque sumentes illud rion de70nstrauimus, nempe prineipium a „, 0 01 usmodi „ a,e°r,UnlUr' esse animam. a q-e n hominc Si r,nC,P,um esse eamdem animam rationalem -st.gamus utrum, nec ne admitli possit Perrahullii', Uectum, imo in ivia intn/,> • ?.em lIIo> Vul est secundum erfecior,i, 5&X£^fZ2Z7 ""^ T o, et ultima perfeetio vitæZLi' qu' |" "o. // /)e ^lntm., Ject VI ' L"Iy,;C V„~' reV8 ""'""'•. pnysique, Des sens exterieurs. DYNAMILOGIA Sthalii , aliorumque sententiam, qui, Scaligeri vesti giis insistentes, animam rationalem per rationem, et vo luntatem cunctas operationes vitales corpons producer opinati sunt. Operationes vitales hominis non sunkanationa les, sed naturales, hoc est, similes operationibus rerum o mnis coqnilionis expertium. Probatur. Etsi, ut suo loco videbimus, amma, quæ irr formatcorpus humanum, sit rationalis, tamen non largi tur corpori esse suum, prout est rationalis 3, sed esse ns turæ vegetaniis, quam in se continet. Atqui operationei quas anima in corpore edit, consentaneæ esse debent m turæ roO esse, quod ipsa anima corpori largitur. Ergo illa operationes debent esse tales, quales sunt operat.ones v modo spectant. i Theor. medica vera, Physiol. Exoticarum exercitationum liber de subtilitate ad Hieron. L danum, Exercit. 307, n. 3. i nn rliinr) a un. De Anim., a. M aa n. O c it ibid. ad 6. Hoc certe sibi voluit s. Basilius, cum it anTmam corpoH vitam impertiri suapte natura, non vero vA te; vid. Constitutiones Monasticæ, c. 2, n. 2. 's i q. LXXVII, a. 1 ad 3. e Gf s. Thom., 2a 2æ, , a. 3 ad 1. De facnltate sentiendi I. Qaædam notiones præslituuntur 42. Facultas sentiendi illa est, per quam anima unita orpori res mater.a Ies, quatenus materiales sunt, percipit læc facultas complect.tur sensus externos, et internos -xlern., quorum actus sensatio nuncupatur, ex eo nomen nmunt, quod versantur circa res exteriores, hoc est circa es quæ ips.s extnnsecus obiiciunlur. Sensus autem in n7lrn°mlne donantur.> 1uia spectant res sensiles, quæ n.mam per sensus exteriores ingressæ sunt. > til"? •enS.US utriusque generis non in anima sola, sed > amma s.mul, et corpore existunt, ac proinde ad actioessuasexerccndas.nd.gent quibusdam partibus corporis cuhar. quadam structura donatis. Hæ^ partes oraam, Zl'nStrUmenta d,c,a suntqia inserviunt animæ ad '' '„ sens '"es exercendas. Organa sensuum internorum r i Z,l °S Cc0r.P0rA,'. et orana externorum in di 2rJ US suPe-fic.ei illius resident. Sensuum autem lCr,°.rUm organum; quod odoratui inservit, nares, quod od heinT0' qU° aud'tU'' aures' quod visioni id> qnd eognoscitur, non „°si rporeun, esse possit. Atqui facuUas°sentiendi non nis s riffn na corP°rea exercetur ; omnes enim experimur n!„T unquam sent.re, n.si ope alicuius organi, ita ut quod organum corpori desit, aut vitio aliquo aboret i.oSZætar'bvUeSr qUaCPer ir'Ud ^™ fiun ^ EitaiU J,,-' P.crPeram aic.atur. Ergo obiectum ^in.iitatis est ahquid corporeum. '."'™ Pfoprie est organum tactus activi, tota autem nellis e Paaos. Christ. Compend. I. ? o 45. 2a. Anima per sensus una cum qualitatibus sensilibus eliam substantiam percipit. Hæc propositio demons tratur contra Reidium, Rosminium, Giobertium, aliosque, qui docuerunt animam per sensus percipere dumtaxat qualitates sensiles, e. g., colorem, saporem, odorem etc, non vero ipsam substantiam corporum. 46. Probatur. Nos per sensus percipimus qualitates non in universum, sed determinatas, et concretas. E. g. nos non percipimus colorem in universum spectatum, sed determinatum, hoc est, aliquid coloratum, e. g., album, aut nigrum. Atqui qualitates non sunt concretæ, et determinatæ, nisi prout huic, vel illi subiecto inhærent. Ergo nos non solum qualitates sensiles, sed etiam subiectum, cui inhærent, hoc ' est, substantiam sentire pro certo habendum est. 47. Illud autem concedendum est, quod substantia, cui qualitates sensiles inhærent, confuse, non vero distincU per sensus percipitur, quia illa ad sensus non nisi per accidens refertur. 48. Ut id facile intelligatur, explicanda nobis sunt diversa sensilium genera. Hæc sunt propria, communia et per accidens. Sensilia propria sunt qualitates, quæ ad sensus referunlur eo quod ipsæ determinant sensum ad sentiendum. Hæc dicuntur sensilia per se, etprimo, quia reducunt sensus ad actus suos. Sensilia per accidens sunt, quæ per se nihil agunt in sensus, sed ab ipso apprehenduntur ex eo quod cum sensilibus propriis coniunguntur. E. g., in lacte albedo est sensibile proprium visus, quia visus ex ipsa albedine ad eius visionem determinatur; dulcedo autem est sensibile per accidens ipsius visus, quia refertur ad visum ex eo quod cum albedine in eodem lacte coniungitur. Item, substantia corporum est sensibile per accidens cuiuscumque sensus, quia refertur ad sensus ex eo quod est subiectum sensilium propriorum. Denique sensilia communia sunt, quæ per se, sed non primo agunt in sensus. Per se, quatenus actiones sensilium propriorum quibusdam modis afficiunt, sive, ut aiunt, modificant. Non autem p rimo, quia nihil in sensus seorsum a sensilihus propriis agunt f. Hæc sensilia sunt qualitates Cf s. Aug., De lib. arb., lib. II, c. 3, et s. Thom., I, q. LXXVIH a. 3 ad 2. U5 quæ ex quantitate exislunl, e. g., magnitudo, figura motus. Sane hu.usmodi qualilates, etsi non agant in senTuS scorsum a sens.li bus propriis, tamen ad "producendam sensat.onem al.quid agunt, quia modificant ip am actionem sens.l.um propnorum. E. g. oculus aliler a ZkmZX. n.vis, al.ter a parva afflci.Sr. [am sensu sens™ Tprop • a et commuma d.sl.ncte cognoscil, sensilia aatem per accl iens confuse, qma j||, per se senlit hæc au7em ex eo solum, quod cum illis coniungunlur. Abt. Iir.— De nnmero sensuum externorum 49. Lockius dubilavit an præter aspeclum, auditum aulum odoratum, et tactum alii sensus in homine laTa/t Jod.ern. fautores magnetismi animalis contendunt ani-' nam .n sommo magnetico sensationes, ac alias a" iones ognoscenles exerere, quæ ad nullas am comnerL fa ultates revocari possunt. Denique BnlmesTuT? a| iaue -n t fien posse, ut homo novul sensum temp'o^ .ect^r,o( po Ha,r!S',qUæ ad se"^bilitatem externam iones aU10 Tr M ' ^0' SUU' SpeCi"Ce diversæ a",.°,nr qj P,llas exercentur, et actiones sentientes •ec.fice diversæ sunt, prout specifice diversa sunt ob e . ad quæ referuntur e int. hnm., lib. H, c. 2, § 3. 'nk°rC„Srle'na n°'nCn mai>^tismi animalis habet, guia pr0 cert0 nes„,,srPr°rC,CSSe cognitio sensitiva efflcilur ^•^SSi.1"' ^^ SenSati0 haberisineorganoproProbalur. 1 Obiecta sensilia sunt coroora Ainni ™ cxcipiendas SSffiSSr ftS^SSL?^!?!^ ST " B C r P/iu™/^"Pecia"1 eCsseqUe ""^ losonhn°'"r COnt,ra Rei dium '• et fere omnes recentes phiosophos. Cogn.lio est actio immanens, sive aclio trm.num habet .n ipso suhieclo cognoscenTe auba' nH t,(0sci° K°tUm' '|U°d cenoscitUrfsed 8ub ieciuu,,^ ofse nUi^hqU,° conse(luitor cognitionem haher '"on •osse, n.s. ob.ectum cognitum cur£ facuKale cognosceTte s.^ismi ^W P^nSrr eMe Senlentiam fantornn> idere non per ocu los sed „ 'n S°mn° ma8ne'ieo animum S f.caltatem laten.em fn ,v, PartCS COrporis> vel d, in. es eo „,„,'' U tates,alentes in anima esse neoueiint . Wal^.TO.r? vi-,lere per aiias partes e": •eclat, si vis viden, i„ T eenferant. Quod autem ad alterum structuraVt it VXK" 2??transfe"e'n'', s,,u,,u mP m „mmTlTi „Crn°,r StætranSfcrri diennt. Pæ" "> Possc fieri „ „ " m, U ! T CV,ncit hanc 'nutationem iorpus hnm„, 1 II" strnct,,ra ad "turam corporis hnm.ni faZt£zmZ TZXlUr 1836; Caro,i ™ echerches sur V entend. hum., c. 2. quodammodo coniungatur l. Atqui obiectum sensibile noB potest coniungi cum sensu, nisi per suam speciem, sive simililudinem. Ergo cognitio sensitiva fit per species rerum sensilium. 56. Minor demonslratur hunc in modum: Obiectum sensibile, ut cum facultate sentiente coniungatur, atque ita notitiam sui in animo gignat, debet in ipsam facullatem sentientem, sive in ipsam animam ingredi. Hoc posito, obiectum vel per seipsum, hoc est, per eadem prineipia, ex quibus constituitur, animam ingredi dicitur, vel per sui speciem, sive similitudinem. Atqui obiectum non potest per seipsum ingredi in animam, alioquin unum, idemque cum hac fieret ; id, quod proprium panlheistarum commentum est. Resiat igitur, ut per speciem, seu similitudinem sui in animam ingrediatur 2. 57. 3a. Species efficiuntur ab ipsis obiectis, non tamen ex eo quod aliquid substantiale, vel accidentale a cor poribus distrahitur, sed ex actione obiectorum sensilium it animam. Probatur. 1° Species ab ipsis obiectis efficiuntur. Ete nim experientia nobis testatur obiectum ipsum, quod sen timus, e. g., solem, esse simul causam cognitionis sensi tivæ. Si ergo cognitio sensitiva non fit nisi per specien obiecti sensilis, hoc ad illius productionem tamquam cau sa concurrere debet 3. 2° Nihil substantiale a corporibus avulsum in animar illabi potest. Et sane, anima est incorporea. Atqui fiei non potest, aiente s. Augustino, ut incorporeus animu I adventu, atque contactu corporearum imaginum cogitet ) Ergo. 3° Neque aliquid accidentale a corponbus distractnr in animam ingredi potest. Revera si id fieret, acciden in actu migrationis sine subiecto, ac proinde per se ex steret. Alqui accidens per se existere nequit. Ergo. i Cognitio contingit secundum quod cognitum est in cognosce; te ; I, q. XII, a. 4 c. Cf s. Aug., Soliloq., lib. I, c. 6. 2 Cf s. Bonav., In lib. IV Sent., Dist. XLIX, p. 2, a. 3, qresol., et De reduct. art. ad Theol. 3 Sensus, ait s. Augustinus, accipit speciem ab eo corpor quod sentitur ; De Trin., lib. XI, c. . Epist. CXVIN, c. 3. 4° Quod ! si species non est aliquid neque substanthlp inTeediatCurdei' T°t , °biec!o -Sffi JffSSi r ucl F l 0b,ectum aclione sua illam in anima producat. fct sane, sensus est intrinsecus indifferens ad pemp.endum hoc aut illud obiectum, ac proinde ali cS inlrin^00' et n0n aliud obiectum. Inm hoc prinecus sensn neCUm, non Potest esse res, quatenus exlrinecti a\Z^ TT Erg° Satis non es P™ducat in eo rTtefarSJl U "^" semitiva a'' rei efficialur, ensum f^Z ' ?"" ° v^To eXUrius Peciem suam ™ s;rsjr:v? mscipiendo in ? a 'specie rtpraZZit' MW ^™ ^™ ctus1enTuslaADarS SuscePtio sPeciei est quidam vitalis ronri,, pc • ^qU' aC,US Vltal,s non nisi earum rerum otes. !. ' q Se'pSaS .movent ad agendum ', et nihil SieJo in .m°Vere' n,S',0Vid cius species similitudo est: •d Tum^T n°U .eS.1 terminns. in quem cognitio fertur, ereipffim PrinCT'Um' CX q-U0 Sensus detcrminatur ad tis non pT, ' ab,pSa specie repræsentatam . Ergo K IibXI> c2 sThoi-> Quodlib.Ym, ii 'odar9;' s' av' /w m' 7 SenL> Distrn. • "! ; Cf B Alb. M., In Eth.f tract. II, c. 18. sThom., I, q. xil, a. 9 c, et q. XIV, a. 5 c. 1 analogiam secundum naturam, conc. ant., non habent analogiam secundum repræsentationem, neg. ant. Neg. cons. Et sane, ut aliquid repræsentet aliud, non requiritur convenientia inter ea secundum naturam, sed sufficit convenientia secundum repræsentationem. E. g., statua Herculis Herculem optime repræsentat, etsi forma Herculii non habeat tale esse in statua, quale esse habet in carnibui et ossibus %. Iam, etsi species immateriales nullam habean convenienliam secundum naluram cum rebus sensilibus, ta men habent cum eis convenientiam secundum repræsenta tionem 2, quia nihil prohibet quominus aliquid incorpo reum contineat in se repræsentative illud ipsum, quod ii re corporea est realiter. Igitur per species incorporea possunt res corporeæ a nobis percipi. 65. Inst. Simile simili cognoscitur. Ergo per species in corporeas res corporeæ percipi non possunt. 66. Resp., Dist. ant., ita ut medium cognitionis simi litudinem naturæ habeat cum subiecto cognoscente, conc ant., cum ipso obiecto cognito, neg. ant. Neg. cons. E sane, cum cognitio sit affeclio subiecti cognoscenlis, no vero obiecti cogniti, medium, quo aliquid cognoscitui simile sit oportet non iam obiecto, quod cognoscitur, se subiecto cognoscenti. Quocirca, cum anima sit immat( rialis, nonnisi per species immaleriales potest res coi poreas cognoscere. Illud igitur effatum, simile simili c ne operaliones suas i°nes '.. cqU enSUS commu's non cognoscit opera;,,'n °Perat'ones sensuum exle°rnorum. Ergo •^quam sensus commun.s exercct, est directa, non ?'i.Hi1rC;V,,;niUS facul,atis ohfactam, nataram, et modum, 1° Sens.aC In SUaS eXC.rCet' hæc adnotanda sunt: Sensus com.nun.s eo,pso, quod scnsaliones sensuum propriorura, sive externorum, earumque differentias sen tit, ipsa obiecta sensilia percipit, quia sensationes ab ob iectis suis seiunclæ esse nequeunt, et ipsæ sunt diversæ prout ad diversa obiecla referuntur; si ergo sensus com munis percipit sensationes, earumque diversitalem, diver sa etiam sensationum obiecta sentire debet. Quapropte duplex obiectum sensus communis distinguitur, unur proprium et directum, nempe sensationes, quæ per sensu externos habentur, et earum differentiæ ; alterum ind\ rectum, et secundarium, nempe obiecta sensuum propric rum 2° Cum sensus communis sit facultas senliens, organur sui proprium in corpore habere debet. Hoc organum vc catur sensorium commune, et est encephalum, sive, u aiunt, systema cerebro-spinale, quod cum organis sensuur propriorum per systema nerveum coniungitur ; unde fil ut sensus communis, qui illi alligatur, affectiones sensuur propriorum excipiat, et cognoscat. 3° Hæc facultas dicitur sensus communis, eiusque or ganum sensorium commune, quia est velut centrum sensuur propriorum 2. Scilicet, sicut centrum est principium, quo proficiscuntur, et terminus, ad quem lineæ deferun tur; ita sensus communis est principium, sive radix, v( fons, a quo vis sentiendi transfunditur in organa sensuui propriorum, et est terminus, ad quem affectiones sensuui propriorum deferuntur 3. Quocirca diversæ sensilium sp..„j ."a&V,ls 'cimere, et sibi repræsenlare 'tcst . Quod si amma per phantasiam percipit Z? rei, non rem ipsam, opus ei non estSenlh ?f ' . na!„u'rag:?etUrI.; qUare PerPhantasiara ?ef um etiam laginamur, cum hæ a sensibus remotæ sunt dnm ZX: VenS'buSPr.°Priis • et sensn communi 'res non prehend.mus, nisi hæ nobis adsint, quh per istls fa llales res ipsas cognoscimus. 4 P l,a~ ^roL^' i"' Phantasia "t ficultas sentiens. fett,".FaCU,ta-8-'('uæci'rca res sensiles versatur £ non est in,X,e?erCetUr' 6tauæ '" bel,uis e'iara si, non est intellectnx, sed sentiens: quh res sensilo t ob.ectum sensus; in statu somnii autem intellec tus 5 TJZSZT be"uæ denia-ue hSfc-KST ari nnr "i enS','.a,raaS'nari, præterea res ima s doninnn cura1v'g'laraas. sed etiam cum dorrni aVin-,nd? nnll. m°d° uh°minC.S ' Sed eliara belluas vi ac°sen "nH;P C ' U,am hæ ' nisi vi Pollerent sibi re cscntandi rcs sensiles a sensibus su.s remotas zl ?Li:qize-' quaita'robatur. Non possumus aliquid imaginari, nisi qua Cf !" ll°°y' ComP^d. theol. vtr.. lib. II c 3fi tenus aliqua figura induitur: quod quidem conslat tum ab experientia, tura ab ipsa significatione vocum phantasma1 tis, ac imaginis. Atqui figura ad quantitatem corporis pertinet. Ergo res sensiles ad phantasiam per quantitatem proprie, et per se referuntur. Diximus autem proprie, et per se, nam qualitates rerum sensilium etiam ad phanlasiam pertinent, ex consequenti tamen, et per accidens. Etenim, cum qualitates sensiles a quantitate seiungi nequeant, sequitur phantasiam eo ipso, quod fertur in quan-, titatem, ferri etiam in qualitates rerum sensilium. 81. 3a. Phantasia sine sensibus propriis, et sensu ' communi exerceri nequit. Probatur. Phantasia versatur circa obiectum, non prout in se est, sed prout in anima existit, quia phantasma, sive obiectum phantasiæ est repræsentatio obiecti sensilis facta in anima. Atqui obiectum sensile existit in anima, prout sensibus apprehensum est. Ergo actio phantasiæ sine actione sensuum existere nequit f. Expenentia idem confirmat; compertum enim est quemquam sensu aliquo carentem nihil posse imaginari de sensilibus, quæ illius sensus propria sunt; e. g., nec cæcus colorum, nec surdus sonorum ullas imagines habent. 82 Quod si cura Garnierio 2 obiiciatur nos multa imaginari quæ nuilo sensu fuerunt a nobis apprehensa, e. ff., montem aureum, in promptu s. Thomæ responsio est: Etsi phantasma rei, quam ante non percepimus, sit novum secundum speciem totius, tamen non est novum secundum partes, ex quibus componitur. Ita species montis aurei est nobis nova, sed non sunt novæ duæ species montis, et auri, ex quibus unica illa montis aurei spe cies existit 3. . k;£ 83. Duo denique circa phantasiam explicanda nobu sunt: 1° Quid sit, quod interdum per phantasiam non imaginem obiecti, sed ipsum obiectum repræsenlare no bis videamur; 2° quomodo fiat, ut phantasia ex imagini bus rerum, quas e sensibus hausit, novas imagines et formet., . . j 84. Quod attinet ad primum, præmonendum est iuar i Cf s. Aug., De vera Relig., c. 10. 2 Op. cit., c. 3, sect. 4, et c. 8, sect. 1. s Qq. dispp., De Malo, q. XVI, a. 11 ad 9. bio intellectus opus esse, ut cognoscamus utrum, necne •es, quas .mag.namur, reales sint. Quare quidquid impe IU, quom.nus intellectus iudicium illud exerceat, in™au a est, quamobrem non imagines rerum, sed res insas >ob,s repræsenlare videamur. lam huiu modi 1mpPedi nentum even.re qu.t lum ex parte animæ, lum ex p^arte orpons. Ex parte animæ evenit, quoties ipsa in nhan asma.e confingendo omnem vim suaTr, intendft; siqufdem" l . alibi d.ximus ', anima, quoties omnem vim suam Tn l.cuius facultatis exercitalionem inlendit, reliquas fecri ftes exercere non potest. Qnapropter, quotiesYnTma "b ehementem al.quam affectionem, totam vim sua.n inf baginem ob.ect, convertit, inlellectus non potest iudicTum Nhibere, ut d.stinguere valeat imaginem al "psa T nam repræsen.at. Ex parle corporis° autem dem evel l, quia vel ob soporem sensuum, uli fit in somniU !| I morbum a liquem corporis, uti'in ægr" et phreneti S ætio inlellectus impeditur 2. S pnreneti &>.Quod ad altcrum spectal, phantasia, ut diximn "umSrSeeduc,U.l-retinet: '^ aUtem' e,si non p"d . mota Z \ , Se"SU TVe,atUr',amen> Postquam ab . mola est, polesl ex se sola aliquid agere, auia in nm a ™™eTr>dZoym ^^.cesLnt^se^uMr se rc.in! „•• Quoc,rca' " Phantasia imagines rerum se ret net, eiusque actio cum aclione sensuum non ces ere^ur a?r'e ""^, •' aUOminns fPsa ""p" imagine s nihi h,°Ue ex. mnl,,s> variisque novas conflet/quls n.h.l hu.usmodi m rerum natura respondet. IX,— De Æslimaliya, seu Cogilativa S6. Æstimativa est,11, facullas, qua in rebus sensili s apprehend.mus aliquas qualitatcs, quæ ner sen s ZTl0^ v" innotescnnt. cg, illasessePnobsuti ^ aUt • X'aSVoCa,.ur au,em Mstimativa, quia per il eTmardS'JeUI,U(IiCamUS ali1ui0 in -2us sPensi ' esse quod sensibus non apprchendimus. tiens P' Æsttmatlm non t faultas intellectiva, sed •,10fbrxH,Cfe.%2AUg' °e THn> IibIX• ^, et De ctThom.,',,,. (,. 4 c. e, q v> ^ ^ ^ ^ Gen. DYNAMILOGIA Probatur. Facultates, quæ homini, atque belluis communes sunt, nonnisi sentientes esse possunt. Atqui æstimativa communis est etiam brutis; certum enim est ipsis inesse facultatem quædam de rebus sensilibus iudicia conficiendi, quibus ad vitæ conservationem opus illis est; e, g., ovis lupum inimicum et canem amicum iudicat, atque inter plures foetus, qui obviam ipsi fiunt, erga proprios tenero matris affectu trahitur; avis paleas ad nidificandum accommodatas a ceteris discriminat '. Ergo æstimativa est facultas sentiens. 88. Ut huius propositionis veritas magis perspiciatur. advertendum est aiiædam iudicia particularia circa re et rccognoscendi I robatur. Proprium obieclum memoriæ esl nræteritnm rout prælerilum est. Hoc posito, præteri um nronr t rac,er„um, est obiectum sensile, non vero intXibil1 p-Vd etlrZZT dPraCteritUm " •^SSftSl,j ' "s ?elerm'natum, dum e contrario intellieibile est "lclcrminatum, ac universale, proindeque ex n om„ ',vl;,mmdnS,dera,,UrAtaui natura faoJtads ex obieX ';' quod yersatur, sumenda est. Erjro memoria enm hifrod r C VerSCt,,r> fæ"^ senTicnse . Acce s cJmunif CU t8S cog"osee"f!i' M"e bomini cum belis communis es, non msi sentiens esse quit. Atqui bel .™™ pollere colligitur ex iis, quæ ipsaTagun . Habent, s. Auguslinus ait, memoriam et pecora et, al oqn.n non cubilia, nidosque repeterenf, non alfa "e "S„;fDCSC""t; neaue enim assuescer; valeW ™fisZ;Zl PCr memorian'2 • Memoria igitur est Si "n^Mi,fn Pr0P\fr°Ul esl 1™tdam specialis faW, nam eliam ad mtellcctum memoria pcrlinet sed craLl0C° eXP',Cabimus' du">. 4 c. • Om/W., lib. X, c. !7. iiLos. Christ. Compend. I. : (| æstimativæ, quæ imaginem rei antea apprehensæ ii phantasmate deprehendit; siquidem anima cognoscere noi potest phantasma, prout imago huius rei, et non alteriu esl, nisi similitudinem eius cum ipsa recognoscat, han autem similitudinem non nisi æstimativæ subsidio co gnoscere potest . Insuper, cum memoria sit facultas sen tiens, ac proinde sine organo corporis exerceri nequeat illud etiam ad eius actum expostulatur, in organo corpo ris, per quod anima vim suam ræmorandi exercet, aliquoi vestigium rei produci, cum res primum percipitur2. 94. Ad explicandum progrediamur ea, quæ ad reraini scentiam spectant. Aliquando rem antea perceptam cognoscere non possu mus; aliquando vero aliquam eius partem agnoscimus, € ex hac integram præteritæ cognitionis recordationem es suscitare nitimur. Si prius fit, oblivisci rei antea perc( ptæ; sin posterius, reminisci dicimur. Hinc s. Thoma reminiscentiam definivit, et explicuit hunc in modun Reminiscentia nil aliud est, quam inquisitio alicuiui quod meraoria excidit. Et ideo reminiscendo venamui idest inquirimus id, quod consequenter est ah aliqu priori, quod in memoria teneraus, puta si quærit mem ac memoria, sed tanim ut s.t quædam dos, quæ memoriara perficit, earaie belluina præstantiorem reddit. Re quidem vera £it.cog. tativa propter virtutem comparativan qna ob a ?en oJ, i ^™ ^1' n°" tamen facu,ta diverab ea cst, ita remimscentia excellit super memoriam fluarum, sed eiusdem naturæ, ac in ipsis, est. CAPVT IV. De facultate intelligendi Aw.I.-Cuiusnam naturæ sit intellectus, et quanam ratione res ad ipsum referanlur 97. Intellectus est illa facultas, cuius est apprehendere h Prout sunt immaleriales. Quaproptcr incoritioM Wlecfva secus accidit, ac in cogoWoe seositiRqai! imm.i! '• r sPec,es.' Per n"1 obiectum percipitur, mmatenalis, tamen ipsum obieclum a specic renr™ 'la>.n cst aliqoid materiale; in illa anjpc albmid,,r ," ,Tes' Prout ad •nlellectum referunlur di Ssa?t.i.br ra,io "' £-4 -W # ' '"'e,lectus esl facultas inorganica. Walur duobus argumentis ex ipsa natura animæ Cf"\^ '"^" i"m-' part2c. „a(ra rfawe, quia, postquam eogaovimn. ua DYNAMILOGIA 1° Anima humana supremum locum inter substantia sensitivas, et infimum inter substantias intellectuales tenet ; quamobrem tum facultates propriæ substanliarun sensitivarum, tum facultates propriæ substantiarum in tellectualium, quæ sunt intellectus, et voluntas, ei iness ?"xls::"one materiali Snecies a S reSete,:utratnh ab, inte"eCtU " Der ^em,.,,: txercet super phantasma, in uuo essenlia rpi ,,.. ciniUS mafef' b^oblegitur.' Hæ'c spec es TteZZ Ts 2Zhb,ntellectu PO^ibili, qui et ea specie ro esentT ' S'Ve 'PSe Sibi elTorulat similituainem1 rei Præsentatæ a specie inlelligibili, et sic rem ipsam in spcciem intelliaihilem J,?„, • \ El8:0 Potest cognoscere "e"'™ sibi propriam Lt^hLtf. pnnc,Pium • 9-0 cognoscit '•. 1. I., C,S,.' i,„? V '•>". ~ P„J ',. "£,",, ct • '-.... q. ii, .. i u ..telligit. Hæc omnia in præsenti, et sequentibus articulis singillatim explicabimus. Atque in primis, sicuti species sensibiles ad sensilivam cognitionem, ita species inlelligibiles ad mtellectionem efficiendam expostulantur. Dicuntur species intelliqibiles, quia repræsentant essentiam rei a qualitatibus materialibus seiunctam, in qua, ut diximus, ob.ectum in tellectus consistit. Intellectus sine speciebus mtelhgibihbus res intelliqere non potest1. . . Probatur. Cognitio, ut ahbi demonstravimus, sine coniunctione obiecti cum facullate cognoscenle effici nequit, atque hæc coniunclio, nisi fieri dicatur secundum simihtudinem obiecti, certe secundum ipsam eius naturam tien deberet2. Atqui prorsus absurdum est obiectum secundum suam naluram coniungi cum intellectu, quia per huiusmodi coniunctionem obiectum fieret unum, idemqu cum intellectu, omnisque realis distinctio inter utrumqu. tolleretur, id quod et per se absurdum est, et pantheismt adfine est. Ergo omnino repugnat intellectum intelliger res sine speciebus inteiligibilibus. 112 Circa naturam harum specierum lntelligibihum næ duo pro certis, exploratisque habenda sn>- .Prl^ " quod species intelligibiles a speciebus sensilibus differnnl nam species intelligibilis est immateriahs non solum proi in intellectu est, sed etiam prout refertur ad obiectum rc præsentatum, quia ipsa repræsentat obiectum condjnou^ bus materiæ exutum; species autem sensibihs est mm J> q. LXVII a 1 r s P' ', 2' q re°' a c' 3 h q. LXXXV, a. 1 ad 4 obiectum non iam in potentia, sed actu intelligibile, nempe essentiam rerum sine conditiombus matenalibus 118. Circa huiusmodi actionem inteliectus agentis hæc tria adnotanda sunt:, 1° Species, quas intellectus agens abstrahit ex phantasmatis rerum, exbibent obiectivas, sive reales essentias rerum. Nam res, quæ eodem genere, aut eadem specie continentur, reipsa consentiunt in essentia omni conditione materiali exuta, ita tamen, ut hæc essentia diversis modis determinala existat in rebus smgularibus. h g., natura humana, abstracta a conditiombus individualibus, ea est, quæ reipsa omnibus hommibus convenit, atque in unoquoque eorum secundum diversas determinationes existit exisiit . •• 2° Distinguenda est duplex abstractionis spec.es, nem pe abstractio per modum simplicitatis, et abstractio per mo Vdum composilioms, et divisionis. Pnma abstractio eadi citur, quæ efficit ut inlelligamus unum sine aho, sive s cob sideremus essentiam seiunctam ab acc.dentibus. Alter. consistit in eo, quod intelligimus aliqmd non esse xn aho vel esse separatum ab eo \ lam vero pr.ma, non vero al tera abslractio est ea, quæ f.t per intellectum agenlem Quæ quidem abstractio per modum simphcitatis, ut e. eius definitione patet, non expostulat, quemadmodum fa so ponit Rosminius', cognilionem, et col laUonem terw norum circa quos ipsa fiat, sed dumtaxat expostulat, u fpsi præcedat^phantasma, in quo intellectus agens essen tiam rei a conditionibus material.bus expoliet. 3 Ex eo quod notiones per abslract.onem .ntellectu agentis' efformatæ exhibent essenliam rerum exutam cot dftionibus materiæ, quibuscum revera coniung.tur,, sæ falsæ dicendæ non sunt. Re sane vera, potesl es. fa sitatt locns in abstractione per modum componU^ et divisionis, e. g., cum intellectus ncga mesM - essenti rei aliquod accidens, quod e. reapse inesl, at non in aD tractione per modum simplicilatis, qua considerajur e sentia ab aliquo, aut ab omnjbus ac cntibæ Miunet nam essentia rei, elsi cum accident.bus re ipsa conun tur, tamen ab his re ipsa quoque dist.ngu.lur, quapr 1 Cf s. Thom., De ente et essentia, c. 4. I, q. LXXXV, a. 1 ad 1.-3 2V. S., sez. X, c. 1, a. l/. J4J pter nihil prohihet, quominus intelleclus ad illam sine his His, quæ circa notioncm intellectus agenlis, eiusoue actionem a Scholast.cis staluuntur, explica.is, duo S denda nobis sunt: "ien 1° hanc facul.alem, quæ nomine intellectus aqenlis desig a.ur, reinsa ex.stere; 2 ipsum intellectum agen.em n„„ esse ahquid extra animam. 6 on 119. la. Admittendus est intellectus aqens Frobalur Essenliæ rerum materialium, quæ sunt ob •eetum mtellectu humano proportiona.um, non ex" tunt exlra animam, n.si in materia concrelæ, et in phanta mæ, a quo, ut diximus, cognitio intellec i a fni him .umit non nisi prout in maleria concretæ sunt kIx^,. ipsias phantasma.is maret, qu.a corporeum in incorporeum converterel. At m absurdum est naluram alicuius rei mulari. Ergo bSmS. ™£ T'; r°nCmin-'^9cons. Etenim Mr,,ctio illa non est realis, seu materialis, sed est inlen JgJ. s.ve logica, scilicet intellectus agens spe em n MeJui, nhf, Phantasmate ^"rmat, non qualenus re li . di J )nantasma eondit.onibus materiæ, sed quatenus ' l.t ad nudam essentiam rei sine conditionibus ma se uonm .im „"f '" Phantasmate obvolvitur. Quocirca wam Zd iffirf f"™? corPoream Pha"tasmatis in incor>ream, sed efficit umversale, et mtelligibile illud ouod phantasmate est singulare, et sensibife ' ° oTreVin^r :,!"letleetus a9ens> sivelumen intelligibile, ^res xntelhgibihs efficit, extra animam esse nonpotest. \ Cf s. Thom., loc. cit. Vid. p. 132. U s. Thom., I, q. LIV) a. 4 c, et q. LXXIX, a. 3 c. Hanc propositionem demonstramus tum contra Neoplatonicos, Averroem, Cousinium, qui contendunt lumen illud esse aliquam facultatem in se subsistentem separatam ab anima1, tum contra Ontologos, qui asserunt lumen lllud esse ipsum lumen intelligibile Dei. Probatur. Actio, qua species intelligibilis a phantasmate abstrahitur, est actio propria uniuscuiusque homims. Atqui non potest aliqua actio esse propria cuiquam, nisi a principio ipsi intrinseco proficiscatur ; nam prmcipium extrinsecum potest movere aliquid ad operandum, sed numquam efficere potest, ut illud, cui nullum agendi principium intrinsecus inhæret, actionem sibi propnam exerat. Ergo intellectus agens, quo species intelhgibihs a phantasmatis abstrahitur, aliquid intrinsecum animæ esse debet a. 123. Contra Ontologos præstat etiam hoc adnotare: DeuPler anima noslr. 3 po est ier um. 'nte"'f "d.! ProSrediturAtqui anima mimnm illfus a tffi fapCU,tatena.> UUæ est P"ncipium •eSE nuncupatur. fcrgo intellectus possibilis re ipsa aoimæ S^-S-iJSsxjsr^ esl facultas' mrSemffi1hn}e,leCtUS agens sua actione eBcit obiectum u intclhgibile, quia species ntelligibilis nuie nhi :STlal' 6l' efrCC,US actiO" quami;, dle0 us" ^Mffartaav $?£? ver° possibi,is fert pa snva fi!!"',:: r,qT, Potcntia "• reipsa iatelfectus pofsinilis ' aCU'US CSt In,e,,ectus A W "lad autem advertendum est, actionem abs.racti '. qLXXIX, . 2 c. _ 2 Cf p 9g ^ SK-Tci, J . "ft m,,.,, „. 9. CfP-^-t,,a:a^d'/:q';Sia.4eio^ vam intellectus agentis, et actionem receptricem intellectus possibilis eodem tempore fieri, quia ipsæ concur runt ad productionem eiusdem actus intellectivi ; causat autem, quæ ad eiusdem effectus productionem concur runt, simultaneæ esse debent, VII. De verbo intellectus 128. Verbum, sive conceptio a s. Thoma , post s. Au gustinum 2, nuncupatur repræsentatio obiecti, quam m telleclus possibilis in se efformat, et qua veluti m speculo cernit obiectum a specie intelligibih repræ8enUtam.y catur conceptio, quia est illud, quod in te llectus inj eip est a,iquiu '1'i'is, ut obiectumTmaua mT ^, Species inte,li Præsens intellectui lt s?t COenosciblle. Slt intrinse"vcat ad intellectionem' ;,, pr,nciP,Ium ' qaod iHum M cfformet sibi almm sp'ec em P°StUlatUr,' Ut intelletn cognitum sibi repraCat V.m.^fc ob,ecIt.um ve,uti cst quæ dicilur wi sw Atqui bæc a,la species tu cogni.um, "in rinsecus nf, "' obiectnm' tamquam •latur verbum. lntrlnsecus Præsens intellectui, espo SfintlllectTo e^iUSctPsr°vSi0niS-eXe0 connrmatur, is 3: quapropter obt nerl „on VZ 'nte"eCtUS possil , q^æ efflcitur aMnXcKLF" Tctm 8'm • W, quæ produnSrCtab%?ii^ JE 33. Haclenus de illa infn, '• qna ipse obiectum !?' peratione disputavi " materialiu„rcond,UonmhP.r0pr,r' "empe essentias "^cdiate apprehendit A ;US i?"?"".6 eXUtas' Primo ltus alias exerit operatio^ " CCtUS 'am in actu concosnitiones, ind°caT ',;?,,• ' T^6 coSnoscit suas ipationes exnlirw ' ra(l0ci,natur, recordatur. Ad has Consckn fci"8 Progreniai?ur necesse est 0 ^quæS æ?n?nt,buS aCC,pitur' est co" os> lum in.^llectivosUsatur MCa°gn,t V°S' tUm Sen scnsu, est cogniiio S , Cpta proPrio' et '• suasque inte Ilec°inn ° t?ras scire dicitur, etiamsi de litteris actu non cogitef ( Mens sui notitiam habitualem habet, qua poss, perc uere se esse 3 . Conscientia autem actua .s ea est, qn aHquis considerat se in actu animam habere , vel,, s Tugust"nus inquit, ea, qua anima adse cogxtandam qu dammodo 'red.V.ltque se aote conspectum suuu, se pomt 136 Iamvero hæc conscentia actua is lta ab Aquina nosfro explicatur. ln primis anima obiectum intell.g.b: sibi proprium, nempe quidditatem in mater.a corpor, existentem apprehendit ; deinde actum cognosc.t, quo lud ob iec™um apprehendit; et in illo actu se.psam cogn Icit In hoc aliquis percipit se esse,quod perc.p.t se in teU eere1 . Inde esplicatur, cur an.ma setpsam per Smcognoscere dicatur, seu per ipsam sui pr^sentm STdem ex ipsa mente est ei, unde poss.t .n actu Zdire quo se^actualiter cognoscat, perop.endo se, L° et alibi: Ad primam cognitionem (?a nempe liauis vercipit se habere animam) de mente habendam ficU ipsa mentis præsentia, quæ est pr.ncip.um æU „ 'Uo mens percipit se ipsam; et ideo d.ctur se cog, scerqe pefsuailn præsentiam . Sane anima, ope c, . Cf p. 123. Cf s. Aug., De Trin., lib. XIV, c. 6, n. 8. Qq. dispp., De Yer., qX, a. 8 ad 1. Ibid. c. s Op. cit., lib. X, c. 5, n. 7. 6 Ibid., lib. XIV, c. 6, n. 8. 1 . Qq. disPP.,De Ver., q. X a^ • ^ • ?• H, M 3 Ibid. ad 1 in contr. 9 I, q LXXXVli, d. Gent., l ^7 cientfæ actualis, se non in alia M n.i™ • # ssentiam suam mediaTst Vd Vse 1~ J?.2S onvers.onem supra seipsam inspicit smiplicem H.s præstitutis in primis definienrlum nobis est ., •um consc.ent.a sit specialis facultas dislincU at i Intei-" UnlellZ. C°mcimtia non esl °P° J... • V? a an,ma> ?"s.;;:,';;,j-f ••••• .-•. . Q de re Aquinas noster statuit animam mtelbgere cc se i i Intellectus cognoscit seipsum, et suum intelligere ; veniLet ouod "i ., -j,ICUI rel ' Per accide>^ ei e esse sem ner ' "fn acc,denS' a'enle sThoma, non °Per, nec oZYum '?, °mni,,US " Er?0 iulc'leclus non W . omn.um acluum suorum conscientia actuali Perceptio haKi:?E, ' P d,r,menda est hoo modo: "I an ma habetnr nh T °T,am PerccPti°num scm positionh attS,.', eamdem> ooam in prima parle 'lis e,°rum on" um'hXrem/PpC,'CePti0 auf"m a •es a nohis perdnTunh, " COdem temP°ris omento, dub2"', HI). II, c. 34 5 Gf eodem temporis momento, quo res percipimus, rerum ^epS appercipimus. It vero non habemus actua [em apperceptionem omnium percepUonum seos.tivarum iuw &m adepti sumus. Nam ut habeatur hæc apperce Suo, °Pus cst phantasiam reproducere spec.es, qu n t retinet, et memoriam reproductas recognoscere; atqu. uhantasia non semper, et continuo percept.ones reprodu, S nec semper mcmoria illas reproduc.as recognoscU ergo anima non semper habet appcrcept.oneu, ac tualen omnium perceptionum sensitivarum, quas lam adepta est 145 Prop 3\ lntellectus per illum actum, qui concten tiadicitur^non solum actus suos, sed etiam aclus volunla US pZaTui l\M, quod est in votanUte, etiam .quodarn modo in intellectu est, sive intelhgibthter est in amm ^uU intellectus in eodem subiecto, ac voluntas, mhærel ^t nteUectus uti suo loco demonstrabitur, est pr.nc.p.un, ?e quod vountas aliquid vnlt. Atqui illud, quod,ntel Sibiliter est in intellectu, sive in sutæcto intell.gente, a lo inteUigi potest Ergo inleUectus non ^ sotam ^ se.psu et actus suos, sed etiam voluntatem, et eius actus,nu ligU6 PProp V Anima habilualem corporis sui cognitione habet et ver tactum passivum etiam cogmlionem acluale, Probalur T pars. frabituali cognitione an.ma compar tufad seipsam"non aliter, quam,n se est, cognoscenda. itqui antaTcuidam corpori copulatur, cum quo comnv i^Le habet. Ergo anima seipsam corpor, copu atam bitualiter cognoscit, ac pro.nde cogn.tione hab.tual, . rnrnoris frui concludendum est. C \W Probatur V pars. Corpus per lactum pass.vum mutatur tum a rebus exterioribus, tum ab intenor.t T^ his intelligitur teneri non posse opinionem Leibnitii, qui K eepttones sine apperceptione existere poe doco. H • ^ > 1), neqæ opinionera Galluppn qu, oontend.t nullam he n p I centionem sine apperceptione (Lezz. etc, lez., fi'.J, niuio Leibniui vera est, si de apperceptione actual •n^Ugatur, sa si de apperceptione habituali. E contrano, op.mo GUePPgnit.onem su. corporis habet ex eo, quod corooH in mus, per tactum passivum actu experitur „"muta iones ' atio^ibu0, Cv°3r "Unt-At(|Ul h-æ ^ESR ratiombus vitalibus max.ræ consislunt. Ergo anima Der ctum pass.vum quamdam coguitionem experimenAlem •erationum vilalium act.u etiam habet. P Abt.IX. — De actu iudicandi 150I„tellectus humanus natura sua ita comparatus est, I JBi- 'Principe vital, et V ame pensante, c. 23 pf.xz:t j^^cff-- -. s\ I T VPf itUr vUam in "Peribus vitæ •' 1 2æ a CYU ">•>, lua aniu a r„r n. f "S"m """ tam1'"" specialem V >odi enim ??",.. T"6 0Derali°nes vi.alcs cognoscat; en.m co„n.Uo, ut. ostend.mus, per taclum passivum ob ut unico, et primo actu nequeat cognoscere qualitates simul cum essentia rei. Quare ipse primum notiones rei, et qualitatum adipiscitur, dein convenientiam, aut discrepantiam uniuscuiusque qualitatis cum essentia rei cognoscit . Hoc modo ipse de rebus iudicat. Quid sit iudicium, explicavimus in Logica 2. Quæstiones autem dynamilogicæ, quæ circa naturam iudicii versantur, hæ præcipuæ sunt: 1° Utrum iudicium intellectui, an voluntati tribuendum sit; 2° utrum omnia iudicia fiant per comparationem terminorum, an aliqua iudicia fiant ex instinctu; 3° utrum essentia iudicii in comparatione, an in affirmatione, aut negatione consistat. 151. la. Iudicium non est actus voluntatis, sedintellectus. Probatur contra Cartesianos. Actiones, quæ sunt specifice diversæ, reduci non possunt ad eamdem facultatem 3. Atqui iudicium, et volitio, nempe actus voluntatis, sunt actiones specifice diversæ, quia iudicium refertur ad verum, volitio autem ad bonum. Ergo si yolitio pertinet ad voluntatem, iudicium non potest pertinere ad ipsam, sed debet pertinere ad illam facultatem, cuius obiectum est verum, nempe ad intellectum. 152. Obiic. In quolibet iudicio mens vel assentitur alicui verilati, vel dissentit ab aliqua falsitate, quod idem est ac dicere mentem in iudicio aliquid amplecti, vel respuere. Atqui amplecti, et respuere sunt actus voluntatis. Ergo iudicium est actus voluntatis. 153. Resp. Conc. mai.; dist. min., amplecti, et respuere sunt actus voluntatis tantum, neg. min., sunt actus cum Yoluntalis, tum intellectus, licet diverso modo, conc. mm. Neg. cons. Et sane amplecti, et respuere non solura ad voluntatem, sed etiam ad intellectum pertinent, quia sicut voluntas amplectitur bonum, et respuit malum, lta intellectus, cum iudicium conficit, amplectitur verum, et respuit falsum. At ex eo, quod amplecti, et respuere mveniuntur non solum in iudicio, sed etiam in voluntate, inde inferendum non est iudicium ad voluntatem revocari posse; nam amplecti, et respuere diverso modo locum habent in iudicio, quam in volitione. Elenim anima Cf s. Thom., I, q. LVIII, a. 4 c. 2 24. 3 cf p. 103. in iudicio aliquid asserit, aut negat, quia cognoscit nræ dicalum cum sub,ecto convenire, vef ab eo discrenaro in vol.t.one autem aliquid vult, aut non vul°, qu ffi ^PZ°lPCr lnte"eCtUm PP-hendit/elesibibt 154. 2a. ludieia ab intellectu per comvaratinnem ; ermtwum, „0„ vero per instinetum fiunt, ne2e ea sTmul mstmctiva, et eomparativa esse possunt. ? .fc??rjma parS Contra Reidim. qia iudicia „•M^to, e. g ejro SMW corpora existunt etc, non ner com puta vi°nemiuddUi:-Um te.™™. seu per Sffi Puavt ludicia instinct.va, cuiusmodi illa sunt onæ con^nte^ri eXerU.ntUr' qU,> c^scatur' ZTo autem su„ 1' ;" rTgRant,æ te™inorum; comparativa "catum cu ' ' h; et a. 9. ' M. // 5., Dist. I, q. i, 'a. s ad 11. parare non possuraus, nisi eos iam cognoscamus. Ergo simplex apprehensio terminorum iudicio præcedat neces se est. 157. 3a. Essentia iudicii non in comparatione terminorum, sed in affirmatione, aut negatione proprie con ^isttt Demonstratur contra Lockianos, qui iudicium proprie in comparatione terminorum situm esse autumant: Intel lectus per comparationem ponit unum terminum ante al terum, sed eorum convenientiam, aut repugnantiam non cognoscit. Atqui sine huiusmodi cognitione nullum iudi cium efficitur. Ergo iudicium non in comparatione ter minorum situm est, sed in actione, qua intellectus termi norum comparatorum convenientiam, aut discrepanliam perspicit. Atqui intellectus cum perspicit aliquarn pro prietatem subiecto convenire, tunc affirmat, atque e con trario, cum cognoscit aliquam proprietatem subiecto re pu gnare, tunc negat. Iudicium igitur ex affirmatione, aut negatione proprie constituitur, et comparatio terminorum est dumtaxat medium, quod ad illud constituendum con currit. X. De ratione 158. Anima humana, quippe quæ infimum locum inter substantias intellectuales tenet, ad perfectam rerum cognilionem assequendam, præter simplicem apprenen sionem, non modo actione complexa mdicn, sed etian: actione magis complexa, nempe ratiocmatione lndigcf; quapropter ipsa pollere ratione dicitur. 159. De natura ratiocinationis in Logica disseruimus Hic tria circa rationem investigemus oportet : scilicet 1 utrum intellectus, et ratio sint una, an duæ facultatc intelligendi; 2° utrum ratio speculativa a ratione practia differat; 3° quid de ratione superion et inferion dicen dum sit. . . D, • 160. Ad primum quod spectat, non pauci nuperi FW losophi post Kantium 3 admiserunt specificam distinctio nem inter intellectum, et rationem. Contra eos demon stramus sequentem Qq. dispp., De Ver., q. I, a. 3 c. % I, q. LXXVI, a. 5 c 3 Critique etc, Introd. 161. lntellectus, et ratio non sunt duæ facultates mtelligendi, sed duæ denominationes eiusdem facultalis Probatur. Ratio tamquam facultas distincta ab intelie | ctu habenda esset, si obiectum, et actus eius ad obiectum et actum intellectus reduci non possent, sive specifice in ter se d.fferrent \ Atqui obiectum, et actus rationis ad lob.ectum, et ad actum intellectus reducuntur. Ergo non eSLai'arfa?ltaS lnt.eI,iSendi ratio, aiia autem intellectus. • ;ra?r Prima Pars minoris. Obiectum rationis est intelligibile, æque ac intelligibile est obiectum intel lectus. Ratiocinari, inquit s. fhomas, est procedere de uno mtellecto-ad aliud, ad veritatem intelligibilem coffno scendam3. Atqui intelligibile, sub ratione intelligibilis spectatum, est specie unicum, quia intelligibile refertur ad nostram virtulem intellectivam sub unica ralione im matcr.al.tatis. Ergo obiectum intellectus, et rationis est specifice unicum. 163. Altera pars minoris ita demonstratur : Differentia mooi, quo intellectus, et ratio verum intelligunt, in eo consistit, quod intelleclus immediate, sive intuitive, ratio autem mediate, sive dtscursive verum cognoscunt4; ex quo lluit inter modum, quo intellectus, et modum, quo ratio verum cognoscunt, eamdem esse differentiam, ac inter jquietem et motum, quia intelligere per intuitum est quætlam quies menlis humanac, et intelligere per discursum est qu.dam molus eius. Atqui quiescere, et moveri ad uiem prmc.p.um pertinent ; quia per eamdem naturam aliquid quiescit, et movetur. Ergo actio intellectus, et raUon.s ad idem prmcipium reducuntur, sive specifice inter se non differunt6. 164. Itaque intellectus, et ratio non sunt potentiæ ve.sæ sed sunt eadem intelligendi facultas, quæ luabus voc.bus des.gnatur, quia intellectus nomen de>umitur ab mtima penetratione veritatis, nomen autem | Cf s. Aug De lib. arb., lib. II, c. 6, n. 13. " U quæ diximus p. 103. I !,' ™. a8 V. 4 I, qUX, a. 1 ad 1. r .dElocumeri'U2: ^ST,!; l0C.P^™ -oba &J?pp-' De Ver-' 9xv>'1 c.' > 2, q. LXXXIII, a. 10 ad 2. rationis ab inquisitione, et discursu . Nihilominus hæc unica facultas, per quarn mens humana res intelligit, polius ratio, quam intellectus dicenda est, quia mens humana scientiam rerum non nisi per ratiocinationem assequi potest. 165. Quod attinet ad secundam quæstionem, explicandum in primis est, quænam dicatur cognitio theoretica, quænam practica. Theoretica vocatur illa cognitio, quæ yersatur circa verum, prout verum est, sive considerat in rebus rationem veritatis, non rationem operabilitatis. Practica autem est cognitio, quæ versatur circa verum, accommodatum ad operationem, nempe circa verum, prout norma operationum est, ita ut potius rationem operabilitatis, quam veritatis consideret 2. Ex duplici hac cognitione oritur distinctio intellectus, sive rationis, in theoreticarn, et practicam. Ratio theoretica, sive speculativa dicitur, cum in simplici apprehensione veri se continet; practica autem, cum porrigit ad operationem verum iam apprehensum. 166. Iamvero intellectus practicus applicans principia universalia ad operationes, iudicia particularia conficit, quibus decernit aliquid agendum esse, aut aliquid recte, vel secus actum esse. S. Thomas explicans modum, quo anima conficiat hæc iudicia particularia circa suas actiones, docet eam adhibere quemdam syllogismum, cuius maior est principium universale ; minor est apprehensio proprietalis singularis alicuius obiecti, in qua, ope cogitativæ, deprehendit quamdam simililudinem cum principio universali ; conclusio denique est iudicium particulare, quo intellectus applicat principium uniyersale ad cognitionem illius proprietatis singularis, sive illam proprietatem singularem ad principium universale redacit, atque ila aliquid agendum esse decernit. E. g., Filius tenetur patrem honore prosequi; at ego sum filius, Petrus est pater; ergo ego Petrum honore prosequi teneor. Quo in exemplo, maior exhibet principium universale ; minor complectitur apprehensiones proprietatum concretarum filiationis in me, et paternitatis in Petro, quæ per cogitativam fiunt ; denique conclusio est iudicium particulare, quo i Ibid., q. XLIX, a. 5 ad 3. 2 Qq. dispp., De Ver., q. III, a. 3 c. irincipium universale applicatur proprietatibus concretis ipprehcnsis in me, et in Petro . 167. His præmissis, contra Kantium, qui rationem spe:ulativam et rat.onem praclicam, taraquam duas diver;as facultates habuit \ hanc demonstramus Prop. Baho theoretica, et ratio practica non sunt duæ aadtates speafice diversæ. Probatur. Differentia, quæ accidentaliter advenit obieto non constiluit facultatem diversam ab illa, ad quam lud obiectum refertur. Atqui applicare ad opus coSnilonem ventatis, quod est proprium intellectus pracfic on pert.net essentiahter ad cognitionem veri, circa quam ersalur,„ ellcctus speculalivus, sed est aliquid accidenta"e isi cogn, t,on, Ergo intellectus practicus non est facuUas itell.gend, d.st.ncta ab intellectu 'speculalivo, sed est quæZ-XT° 'n.tellec'^. speculativif nempe i psam faculU:m inlelhgcndi extendit, sive applicat ad opus 3. 108. Kcstat, ut distinctionem rationis in superiorem et ifenorem, qnarum penes celcbriores Scholasticos pos s ugustmum ment.o occurrit, explicemus Katio infenor est quæ considerat veritates rerum, prout i rebus temporabbus, mulabilibus, et contingentibus^ex"unt, supenor, quæ considerat veritates rerum, prout re1 I-i-h '? veri.ta.tes æl,crnas, necessarias, et immutabis Intcllcclus D,v,n, ad quarum exemplar naturæ re ?at2?Z ?" COnd"æ •SU"tE rati0 inferior ''cH.i0 fj ? w6 re?' ex eo ' auod incolumitas so ctat.s id expostulat; ratio autem superior ex eo uod cus soc.etat.s auctor, et custos, hoc iubet. Illa appella. Henor qu.a res intelligit, et diiudicat secundum a|um, quod est ea lnfenus, nempe per principia nuæ ^ntemplatione rerum sibi eJrJ, ; Lec dicUur1 su° w,, quia res .ntell.g.t, et diiudicat secundum aliquid, n ut 1 ilh SUrnUS ' nemPe- Per DrinciPia æterna et dWntur qUæ Pnnc,p'a ex 'P8'8 rcbus CHormata 169. Illud autem cum s. Thoma advertendum est, ra J I, q. LXXXVI . 1 ad 2. 2 0p. cit., sect. II, § 1. Cf s. Thom., /„ l,b. III Sent., Dist. XXIII o II a 3 iol 1 t s. Bonav., Centil., tionera superiorem, etsi ob dignitatem sit prior ratione inferiori, tamen ob operationem esse posteriorem ; nam mens humana ex sensilium cognitione proficiscitur, ac proinde æterna intelligere nequit, nisi prius intellexerit temporalia, quæ sensibus hausit '. 170. His præstitutis, demonstrandæ nobis sunt propositiones sequentes: la. Ratio superior, et ratio inferior non sunt duæ facultates speciflce diversæ. Probatur. Obiectum rationis superioris, et obiectum rationis inferioris spectata materialiter, hoc est in sua natura, specie ab se differunt; nam ratio superior versatur circa illud, quod est necessarium, immutabile, et æternum ; ratio autem inferior suam cognitionem ex rebus contingentibus, mutabilibus, et temporaneis attingit. At vero spectala formaliter, hoc est, prout ad facultatem mtelligendi referuntur, inter sese conveniunt, quia in aliquo intelligibili consistunt, cum res illæ contingentes, mutabiles, et temporaneæ a ratione inferiori cognoscantur non secundum earum conditiones materiales, sed in suis essentns, quæ sunt quodammodo necessariæ, æternæ, et immutabiles. Atqui obiecta, quæ formaliter considerata inter sese conveniunt, ad earndem facultatem spectant. Ergo ratio superior est eadem facultas, ac inferior 2. 171. Præterea, quemadmodum mens nostra ex cognitione effectus ad cognitionem causæ progreditur, et ex causa iam cognita ad effectum regreditur, ut penitiorem huius cognitionem sibi comparet ; ita ex veritatibus cognitis per principia, quæ ex contemplatione rerum temporalium, et mutabilium sibi efformavit, ad causam earum extollitur, nempe ad veritates cognitas per principia æterna, et immutabilia ; et ex his regreditur ad ventates, quas cognovit in rebus temporalibus, et mutabilibus, ut de ipsisrectum iudicium pronuntiet. Quapropter in exercitatione rationis inferioris, et superioris non nisi quidam progressus, et regressus obtinet. Atqui progressus et re i Qq. dispp., De Yer., q. X, a. 6 ad 6. 2 Cf s. Aug., De Trin., lib. II, c 4, n. 4; et s. Thom., I, qLXXIX, a. 9 ad 2. gressus, quibus cognitio noslra perficilur, ad eamdem ral.onem spectant. Ergo ratio superior, et inferior unam facultatem conshtuunt. 172. 2a. Ratio superior non est extra. vel supra ommam \ r Probatur contra Cousinium, qui contendit rationem super.orem esse medium, per quod Ratio Divina se cum ratione humana communicat 2, et contra Ontologos, secunJum quos rat.o superior est ratio absoluta, nempe ipsa Ra.0 D.v.na. In pr.mis, ratio superior eadem est facultas, ac •atio inter.or ; ergo sicut ista, ita etiam illa non est extra, el supra an.mam. 173. Practerea, Philosophi, quos hic refutamus, ideo :ontendunt rat.onem superiorem esse extra, aut supra aiimara, qu.a op.nantur immutabile non posse coLnosci >er ral.onem humanam, quæ est mutabilis. Atqui nedum epugnat, necesse est animam humanam per facultatem nutab.Iem cognoscere immutabile. Ergo horum philoso'horum senteut.a falso, et absurdo fundamento super 174. Probatur mmor. 1 Non repugnat animam humaam cognosccre immutabile per medium mutabile, nuia psa, cum res cognoscit, earum proprietates, et relalioes non creat, sed dumtaxal investigat, et dete P' 36 ct 37. Ci p. 137.-4 Cfs. Aug., De Trin., lib. XII, c. 7, n. 12, et alibi. sa non modo res intelligit, sed etiam illarum intellectiones revocat, et agnoscit. S. Bonaventura distinxit duplicem actum memoriæ intellectivæ, unum, quo anima speciem rei intellectæ in se retinet, alterum, quo reminiscitur rei per speciem repræsentatæ. Primus, aiente eodem sancto Doctore, est in anima instar habitus, quia potius statum, quam actionem significat, alter instar usus, quia per ipsum anima habitu memoriæ utitur. Præterea ille sine voluntatis nutu efficitur, hic fit ope reflexionis, et a voluntate pendet1. 176. Memoria intellectiva non est facultas, quæ ab intellectu specie differt, sed est quædam ipsius intellectus affectio 2. Probatur contra fere omnes recentes philosophos. Memoria intellectiva non est facultas ab ipso intellectu distincta, si duo, quos innuimus, eius actus ab ipso intellectu repeli possunt. Atqui illi duo actus memoriæ intellectivæ ab ipso intellectu suam repetunt originem. Ergo. 177. Probatur minor. 1° Retentio specierum intelligibilium, uti ab Aquinate observatum fuit, intellectui maxime convenit, quia, cum intellectus possibilis sit stabilioris naturæ, quam sensus, oportet, quod species in eo recepta stabilius recipiatur ; unde magis in eo possunt servari species, quam in parte sensitiva 3 . 2° Intellectus vi supra se suasque actiones reflectendi pollet ; hæ autem actiones in aliquo tempore existunt; ergo sicut cognoscere potest se in præsenti aliquid intelligere; ita cognoscere potest se atttea aliquid intellexisse 4. 178. Ex his perspicitur, cur memoria sensitiva sit quædam specialis facultas s, et non item memoria intellectiva. Nam specialis facultas constituitur ex obiecto, quod per se, et non ex obieclo, quod per accidens ad illam refertur. Atqui præteritum, prout est præteritum, cum sit particulare, et determinatum, refertur per se ad facultatem sentiendi ; ad facultatem autem intelligendi, cuius obiectum est indeterminatum, et universale, refertur dumtaxat per accidens, nempe quatenus ipsa supra suas actio i ln lib. II Sent. Dist. VII, part. 2, a. 1, q. 2 resol. 2 I, q. LXXIX, a. 7 c. 3 Qq. dispp., De Ver., q. X, a. 2 c. I, q. LXXIX, a. 6 ad. 2. 1A, zs^ivj&rs? sensiii? sit jnem ete „„„ es'se, ^S&S^S01^ ioSufoUsæSnCdei^!ematiS abn°rmitas 1-SS proposij JS" ^ ^^ • sensus, est facuhas inor ^z^r^t^T^ aræ ne aturas omnium rerna ma eriaM nTT,nte,,ieere posset !ectus est inlellisere „.;, m' £,taui Proprium in e in materi _rgo i„ ellectnm"^ l^ ''' qUæ habet sse pro ccrto habenflum est facuitatem rnorganicam 181. Probalur maior. Facultas m.a no~ „ •um exercetur, ad onnm „ reram^m,? ?a?-Uln T00" "natur, e. jr., visus aH ™i7, £ materialium deter '•Itasorganiea adc„„n„-^' ug°' S' in,el|ectus esset rnm matSun et Ce"e t? hanC ^ illain na'nram Rprrorr2.^ri^ ehet t nisHoafc8 " rT\Tl a,ind Per se ap^2S%SffZtt ei corpor™, ',-. eos d,.pB„Tit s. ThomaSj præcipue PP131-182. Cf p.,33-136. _ Cf p 4 p">.os. CnwsT. Compend. l .1 P" sensus non nisi singulare, et corporeum apprehendere potest1 E contrario, intellectus cognoscit essentiam qualita tibus sensilibus exutam 2, et ideo obiectum eius est im materiale 3, et universale4; quinimmo ex notiombus cssen tiarum rerum, quæ habent esse in materia ad not.one: rerum, quæ supra materiam sunt, assurgit \ Ergo obie ctum intellectus ab obiecto sensus ommno ditlert. 183 Probatur 2a pars. Anima res intelligere non, po test, nisi ope alicuius vis activæ, qua$ res actu intelhgi biles efficit, quia essentia, qualitatibus sensilibus exuta non actu, sed dumtaxat potentia in rebus est6; e contra rio anima ad res sentiendas non indiget ulla vi sentiend activa quæ res actu sensibiles efficiat1. Præterea, intel lectus,' cum aliquid intelligit, pati dicitur dumtaxat qui ab obiecto intelligibili reducitur a potentia ad actum; ser sus autem, cum aliquid sentit, pati dicitur etiam quia lrr mutatur organum, in quo facullas sentiens est. Insupe vehementia obiecti sensibilis sensum corrumpit; at veh - tigemas. exP°siulat, ut facultates appelendi in ABT.I.-De appetitu in universum spcclato £ sub r^JfaT'^""^0 appeti malum> "O" PPe, Ut n?Ta Sed '^, sive^,acwoW, iOBBitur mJV. L ^35' fIualenus "onum, cum quo W? J rramilunraraag,E"Tt,|Ur' "T bouum' ouod "lil cihnm 7, fc\ &• leo occidens cervum in ;88 I ann t?tuiU°nCOn,,UnSi,l,r °Ccisi0 a"ima " >peciraiumPfaCI?l,a,.nqUatT constitu't quoddam ge rinRuilur b "S,„ ;• d,C,,tUr " ' V "omfue an appetatu simphnter naturali. Appelitus elicitus est ille, quo anima ex cognitione sibi propria se movet, sive inclinat ad bonum1. Hinc, aiente s. Ihoma, desiderium in rebus cognoscentibus sequitur cogmtionem 2 . Appetitus simpliciter naturalis est, quo res, quæ cognitione destituuntur, tendunt ad finem suum 3 per inclinationem sibi propriam, quam Deus, auctor naturæ, unicuique illarum indidit ; ita ut cognitio obiecti, quod appetunt, non sit in ipsis, sed in Deo, qui ipsas m proprium finem ordinavit . Hic appetitus naturalis non est in anima quædam specialis facultas, sed, ut alibi diximus5, est communis omnibus animæ potentiis, prout hæ sunt quædam res naturales, et efficit, ut ipsæ ad exercitium actionum sibi propriarum naturaliter lnchnent. 189. Appetitus eliciti duæ species sunt, scihcet sensi tivus et intellectivus, quia cognitio obiecti, ex qua appe titus elicitus exoritur, nonnisi sensitiva, vel intellectiva esse polest. Appelitus sensitivus est, quo res obiectum lta appetunt, ut ipsum percipiant, nec tamen rationem, pro pter quam appetibile sit, cognoscant. Appetitus autem tn tellectivus, sive rationalis dicitur, quo res in obiectuu ideo inclinant, quod apprehendunt non solum ipsum, sec etiam convenientiam eius cum sui natura6. Ex his colli gitur 1° appetitum sensitivum esse proprium ammalium. quia ipsa appetunt illud, quod apprehendunt sibi utile; et delectabile, ita tamen, ut minime cognoscant rationem ob quam ipsum appetunt ; 2° appetitum rationalem ess( proprium naturarum, quæ ratione pollent, quia hæ co enoscunt non solum id, quod appetunt, sed etiam ratio nem, ob quam illud appetunt ; 3° in homine utrumqu aut turbatur. MM. Ex his, quæ diximus circa naturam appetitus iracibil.s, consequ.tur illum spectare ad defendendum ea, m quæ appetitu concupiscibili trahimur. Etenim, uti ex am dictis patet, cum concupiscimus aliquam rem dele ;">lem, cuius assecutio ardua est, exurgit appetitus rasc.bil.s ad ea amovenda, quæ illius conseculioni impe\ mento sunt, idque eo vehementiori præstat impetu, uo ma.or est cupiditas, qua in illam rem rapimur! Ea ropter appetitio irascibilis originem ducit ab eo, quod ppetitu concupiscibili expetimus, et desinit in tranquil loo11 m adePtionem, vel fruitionem 3. iJd. Appetitus sensitivus, sive concupiscibilis, sive ira ^1 Qq. dispp., De Ver., q. XXV, a. 2 ad 2. " /q/';LX^XI1' a' 5 C> Cf s' AuSEPadNebrid., Ep. IX n. 4 / Itb. III Sent., Dist. XXVI, q. I, a. 2 sol. l scibilis, brutis, atque hominibus, ut iam diximus , communis est. Attamen, prout in hominibus est, rationis imperio subditur; siquidem quilibet in seipso experitur, e. g., iram ex diversis rationis momentis concitari, vel augeri, vel comprimi2. Quapropter huiusmodi appetitus, prout in homine est, obediens rationi, atque participare aliqualiter libertatem voluntatis dicitur3. Illud autem advertendum est, rationem non omnino pro suo arbitratu appetitum sensitivum moderari posse, tnm quia in illius actum influit organum corporeum, cuius conslitutio, atque habiludo non pendent a ratione, tum quia interdum actus huiusce appetitus ex apprehensione sensitiva subito concitatur, ac proinde antevertit regimen rationis . III. De appetitu rationali, sive de voluntate, et primum de eius obiecto 194. Appetitus rationalis est, uti diximus, inclinatio ad prosequendum bonum ratione apprehensum. Iam hæc facultas ea est, quæ voluntas nuncupatur. Voluntas, inquit s. Thomas, est appetitus quidam rationalis5 . 195. Girca obiectum voluntatis, nempe bonum rationt apprehensum, hæc adnotanda sunt : 1° Obiectum proprium voluntatis est bonum absolute 6 , nempe universe acceptum, quia universale est illud, quod proprie a ratione apprehenditur. Hinc voluntas non inclinat ad hoc, vel ad illud determinatum bo num, sed ad quodlibet ens inclinare potest, quia omne ens ex eo, quod est, parliceps estcommunis rationis boni 2° Gum dicitur obiectum voluntatis esse bonum rationt apprehensum, illud etiam significatur, quod bonum, cui voluntas adhæret, ita percipitur, ut in eo deprehendatui i . I, q. LXXXI, a. 3 c. 3 In lib. III Sent., Dist. XII, q. I, a. 1 sol. la 2æ, q. XVII, a. 7 c. 3 Ibid., q. VIII, a. 1 c. Hæc definitio voluntatis a plerisque nu peris Philosophis reiicitur, quia putant omnem appetitum esse neces sarium, ac proinde voluntatem, si cum appetitu rationali confur-da tur, necessariam, non liheram dicendam fore. At nos omnino nega mus omnem appetitum esse necessarium, quia appetitus rationalis e. eo, quod est rationalis, liber est, cum ratio, ut mox oste ndemus, si radix libertatis, sive in causa sit, cur voluntas libertate gaudeat 6 Qq. dispp., De Ver., q. XXV, a. 1 ad 6. M jipsa ratio bonitatis, sive convenientiæ, quam habet cum propria natura. cc Si aliquod bonum, inquit s. Thomas, Iproponatur, quod apprehendatur in ratione bonl, nonau|lem in rat.one convenientis, non movebit voluntatem . 6 Uonum, in quod volnntas fertur, reale, vel adparens psse potesl, volunlas enim interdum fertur in aliquid veliiit. bonum quod revera malum est, quia intellectus illud veluti bonum ipsi exhibet. Quare dicendum non est pum Saisselo 3, voluntatem interdum ferri versus malum, forout rnalum est, sed potius voluntatem interdum fcrri taftos malum, quod sub ratione boni apprehenditur. 4 Voluntatis obiectum non solum in fine \ sed etiam n medns ad finem consistit; e. g., possumus non solum elle samtatem, sed et.am deambulationem, tamquam me lum ad assequendam sanitatem. Medium autem dicitur yoktum secundarium, et finis volitum principale, et causa ytendt, qu.a finis est causa, cur media velimus. Rursus ! ausa quæri potcst, cur ipsos fines veiimus, e. ff., cur elimus sanUatem; quocirca, ne infinitus progressus cau arum sine principio existere dicatur, admittendus est fi is,, qui ad alium referri non potest, sed simpliciter, et bso ule propter se appetitur, et rationem continet, cur etera omn.a appetantur. Hic finis ultimus nuncupatur 6. Art. IV. De aclu voluntatis \}^'nt^\S volun!atis> .nemPe voluntarium, ita definitur: ictto ab mterno pnnapio procedens cum cognitione finis ' 13 c'b mterm Pnneipio procedens significant actum ?m vppK. CX Pr°Pr,a vo,untatis inclinatione. Illa au n erba cum cognitione finis denotant actionem volun i vol. ?i"Vn ?b,ectum> 9uod apprehenditur veluti finis, V/, l qUOd aCt,° SDectat' et cuius gratia fit8 W. Voluntano oppon.tur involuntarium et £on ™/tm. Involuntar.um dicilur illud, quod non solum non Met a voluntate, sed etiam huius inclinationi repuguat 5 $'J!SPP\?° mal0> VI> • unic. c. l" 2æ, q. XIII, a. 5 ad 2. 1K&^J& "a Tll'Z' l ad 3' Gt C°ntr' • Iib' • ' a., c Huiusmodi, e. g., est actio, quæ fit per violentiam, sive coactionem, hoc est, ab exteriori principio oritur, obsistente voluntate, cuiusmodi est motus illius, qui ab equo rapitur, ut in vincula coniiciatur. Non voluntarium autem dicitur illud, quod a voluntate non proficiscitur, sed tamen voluntas ei non adversatur; e. g., non voluntarii sunt actus facultatum vegetanlium ; hi enim, cum sine ulla prævia cognitione fiant, a voluntate non proficiscuntur, nec tamen voluntas ipsis adversatur. Voluntas, prout refertur ad involuntarium, dicitur nolle, idest velle non aliquid. Nolo hoc, idest, volo hoc non esse l ; prout autem refertur ad non voluntarium, dicitur non velle, nam non voluntarium in mera negatione voluntarii consistit. 198. Ex definitione, quam tradidimus, actus voluntarii facile est intelligere, quid inter voluntarium, et spontaneum intersit. Spontanea dicitur actio, quæ ab interno quidem principio proficiscitur, prævia cognitione, qua apprehenditur obiectum, ita tamen, ut non cognoscatur relatio inter obiectum, atque actionem, quæ ad illud ordinem habet. Voluntaria autem, si prævia cognitio eiusmodi est, ut non solum apprehendatur res, quæ est finis, sed etiam cognoscatur ratio finis, et proportio eius, quod ordinatur ad finem 2 . Ex his colligitur 1° discrimen inter voluntarium, et spontaneum ex eo oriri, quod cognitio, quæ actui præcedit, perfecta, aut imperfecta est; 2° Spontaneitatem in actibus quoque appetitus sensitivi sine concursu voluntatis locum habere, et actionibus quoque brutorum attribui, e. g., canis, audita heri voce, sua sponte ad eum accedere dicitur; 3° turpiter errasse Cousinium, qui actiones spontaneas non solum liberas, sed maxime iiberas esse contendit3; cum enim acdones spontaneæ etiam brutis conveniant, ipsæ perfecfe voluntariæ esse non possunl; tantum abest, ut omnium maxime liberæ sint. 199. Denique actus voluntarius in elicitum, atque imperatum distinguitur. Actus eliciti sunt, qui per se ad volunlatem pertinent, ab eaque tamquam actiones eius pro 1 In lib. I Sent., Dist. VI, Exposit. text. 2 4a 2æ} q VI a> 2 c# 3 Vid. Fragm., Pref. et la lre edit. Cousinio adstipulatus est Saissetus, Diction. phil., art. Libertd. Jgg ; priæ immediate producuntur ; e. s., velle eliære m sentire. Imperati dicuntur illi qui%'er alias Sates a' voluntate motas perficiuntur, 'ita ut%d volunUtem SDe: ctent non prout ab ipsa producuntur, sed prouT psa movet al,as potent.as ad exerendos aclus sibi proprios ' V. De causis, quæ Toluntatem ad suum actum raovent 200. lllud moveri dicitur, quod cum sit in potentia ad plura, reduc.tur .n actum p\r aliquid, quod est ac tf larn voluntas, æque ac quælibet animæ flcultas es in potenna tum quoad exercitationem actus, scilicet prout es" n potenha ad agere, vel non agere, tum quoad mrtfe itionem, s.ve determinationem aclus, nemp^e prouTe 1 "„" -potenha ad agere hoc, vel illud. Quare volunUs ind t ahquo, quod eam moveat tum ad exercitationem, umad determinat.onem actus2. ™ eS?mJdr7niS,',°bieCtUm ab intdleet apprehensum illud I Probatur Appetitus non est nisi boni, ouod sibi ner preS mTstPr°POnitUr3 >>! W™° et bonEm Tneinm,; m°u?"S aPP,e"(m ; alqui aclus, ut æpe nnu.mus ex obiecto, ad quod fertur, speciem suam sum.t, ergo ob.ectum, sive bonum cognitum est fflo? imoiTaflr|Tna.,Ur,.actus voluntatis,8sive voTun. tem i 209 p deter,m'nat.onera actus. nr^„L0i)'.,2a' Volunlas in quibusdam suis actibus ab appetilu sensilivo movetur ex parte obiecti. Ilnnr°a'"[' Voluntas movetur ab apprehensione obiecti, TTnyZtTi Cl eonvenien.tisA.qui apprenhensio bon ivi VZ v ' P.°teSt mUlari CX motibus PPCtitus sensiPclUu senshS ' ^" m°VCri Potest ab P" loS" fxtTrn,miTC°gni,i0 boni' ct onvenicn.is non 1i ."..d V° ble,Ctl natu,ra' auam intelleclus deprehen, sed et.am ex d.versa habitudine hominis pendet. Al 1 i," 2M' '• '• • 1 ad 2. 1 2æ n IX a 1 c, V qp., />e F.r., q. XX.V, a. 2 c. Cf 'p. 163. Wpp. cu., q. XXII, a. 2 c. qui motus appetitus sensitivi habitudinem hominis variant. Ergo ex ipsis efficitur, ut cognitio boni, et convenientis mutetur. E. g., illud, quod videtur conveniens ei, qui ira flagrat, huiusmodi non iudicatur ab eo, qui pacato est animo 1. 204. Diximus 1° in quibusdam actibus; nam sunt multi actus voluntatis, in quibus appetitus sensitivus nullam habet partem. Huiusmodi sunt, e. g., amor iustitiæ, amor veritatis, aliique id genus. Diximus 2° ex parte obiecti, ut intelligatur appetitum sensitivum nihil in voluntatem directe agere, quia ipse est potentia voluntate inferior2. 205. 3a. Voluntas ad exercitationem actus tum a seipsa, tum a Deo movetur 3. Probatur la pars. In volitionibus finis est illud, in quod voluntas primo intendit; quapropter in volitionibus finis merito comparatur cum eo, quod in iis, quæ ab intellectu cognoscuntur, dicitur principium. Atqui intellectus ex assensu principiorum seipsum movet ad assentiendum conclusionibus. Ergo voluntas ex volitione finis seipsam movet ad volitionem eorum,quibus finem consequi potest4. 206. Ex qua argumentatione deducitur nullam repugnantiam in eo agnoscendam esse, quod voluntas seipsam movet, quasi sit simul in actu, prout se movet, atque in potentia, prout movetur; nam, ut inquit s. Thomas, cc non secundum idem voluntas est in actu, et in potentia, sed in quantum actu vult finem, reducit se de potentia in actum respectu eorum, quæ sunt ad finem, ut scilicet actu ea velit 5 . 207. Quod si quæratur, quid sit, quo voluntas, in aliquem finem intendens, seipsam moveat circa ea, quæ sunt ad finem, respondetur illud consistere in eo, quod voluntas inlendens in aliquem finem, vult, ut intellectus institttat consultationem, sive illam actionem, qua intelleetus media investigat, eorumque utilitatem ponderat. Et sane, cum voluntas aliquem finem sibi præstituit, e. g., sanitatem, opus ei est eligere medium ad illius consecutionem opportunum, e. g., potionem; et hæc electio, ut postea di la 2æ, q. LXXVII, a. 1. 2 i, q. CXI, a. 2 ad 3. 3 ia 2æ, q. LXXX, a. 1 c. 4 Qq. dispp., De malo, q. VI, a. unic. c. s ia 2æ, q. IX, a. 3 ad 1.cemus, haberi non potest sine præcedenti consullalione intellectus. Alqu. hæc consultatio intellectus a voluntate imperatur. Ergo voluntas est, ex qua aclio circa electionem med.orum exordium habet, ac proinde seipsam ad ea, quæ suntad finem, movere iure fticilur. Voluntatem acc.p.end. pol.onem præccdit consilium, quod quidem proced, ex voluntate volentis consiliari .sl ^luntas ad primum actum seipsam mnverel, hæc vol.t.o præviam consultationem intellectus lT alia0nvoU H tl0.?liam ^T"^ ^iuia^, et . ursu nliM? . v,a'!am consultationem, ct hæc alia con ^o ie consail|ni(?J,t,0nem1' et sic, iv, '., Qldispp., De malo clinatio naturalis. Solus autem Deus est, qui potentiam volendi tribuit creaturæ: quia ipse solus est auctor intellectualis naturæ. Libertalis nomine hic venit illa voluntatis proprietas, per quam ipsa in suis actibus exerendis a necessitate est immunis. Duplex autem, cum de libertate voluntatis humanæ quæstio est, necessitas distinguitur, scilicet externa, atque interna. Necessilas externa, sive coactio, est quæ ab externo principio infertur alicui contra propriam ipsius inclinationem. Necessitas autem interna consistit in quadam propensione,,qua agens impellitur ex propria sua natura ad aliquid prosequendum, unde necessitas naturæ etiam appellari solet. Hinc duplex libertas dislinguitur, nempe libertas a coactione, et libertas a necessitate naturæ. Illa tantummodo externam vim excludit, qua voluntas hominis invita, ac reluctans contra propensionem suam ad actus impelli possit. Hæc autem excludit quamcumque vim tum externam, tum internam, ita ut voluntas prorsus domina sit actuum suorum; unde etiam libertas arbitrii, vel liberum arbitrium appellari solet. His præstitutis, inquirendum in primis est, utrum voluntas libertate a coactione gaudeat. Voluntas in singulis actibus sui propriis, et intrinsecis libera est a coactione. Probatur. Si actus proprius voluntatis fieret per coactionem, nempe a vi extrinseca cogeretur, ipse secundum, et contra inclinationem voluntatis simul esset ; scilicet esset secundum inclinationem voluntatis, quia actus proprius volunlatis in eo consistit, quod voluntas in aliquid inclinat, perinde ac quidquam naturale alicui rei esse dicitur, si inclinationi naturæ eius sit consentaneum; esset autem contra inclinationem voluntatis, quia id, quod per coactionem fieri dicitur, inclinationi voluntatis adversatur 2. Atqui aliquid secundum, et contra inclinationem volunlalis fieri repugnat. Ergo actusproprius voluntatis a quadam vi extrinseca cogi repugnat, ac proinde voluntas in actibus sui propriis libera est a coactione 3. 1 I, q. CVI, a. 2 c Cf p. 167.— 3 Cf s. Anselm., De lib. arb. c. 6. 212. Hanc veritatem intima cuiusque experientia conl firmat; siquidem quisquis vel plebeius conscius sibi est se I a nulla vi extrinseca impelli posse, ut velit quod non vult aut noht quod vult. Diximus in actibus sui propriis, et intrinsecis; nam violentia mferri potest in actus, qui a voluntate imperantur, et sme membris corporis perfici nequeunt. At vero violentia in hos actus infertur, non quatenus ipsi actus, qui a voluntate promanant, efficiuntur per coactionem, sed quatenus membra corporis impediuntur, ne voluntatis lmpenum exequantur. E. g., sume aliquem ad supplicium trahi; certe tota vis, et coactio trahentis numquam etticiet, ut ille velit ad supplicium trahi, aut nolit id, ' quo opus est, ut ad supplicium non trahatur2. Quod si reus ahquando suppliciorum immanilate defatigatus conhtetur crimen ab se patratum, voluntas eius revera non cogitur, quia ipse reipsa vult hanc confessionem, quum lllam mstar boni apprehendat, nempe tamquam opportunam fmiendis tormentis. Hinc fit, ut reus, etiamsi permulta, et exquisita tormenta patiatur, tamen possit numquam suum animum inducere ad illam confessionem, si nullam boni rationem in ea deprehendit 3. VII.— Declaratur nalura libeitatis arbitrii 214. Libertas arbitrii, ut s. Thomas inquit, eonsistit in potcstate ahquid eligendi ; nam libertas arbitrii, ut diximus, reddit voluntatem immunem a quavis naturali neccssitate, ac proinde cfficit, ut ipsa dominetur suis actiuus ; voluntas autem suis actibus dominari diciturex eo quod potest hoc, vel illud eligere0. 215. Ex eo autem, quod libertas arbitrii consistit in electione, sive, ut idem s. Thomas inquit, in præacceptione unius respectu alterius\ deducitur contra Waddigtonumtvastum, ahosque, libertatem arbitrii, prout homini conven,^c potest, expostulare momentorum consultationem, seu deliberationem, quæ constituitur exeo, quod volun 1 l!.fe' q' VI' a' 4 c' 2 Ibid; loc cit. iW., q. cit., a. 6 ad 1. I, q. , a. 3 c. ) ia &e172' 6 !^LXXXII, a. i ad 3. 1 ^, q. XIII, a. 2 c— De V ame humaine, c. 5, sect. 2. tas, cum intendit in aliquem finem, investigat naturam mediorum, eorumque utilitatem ad illum finem assequendum. Et sane, non potest unum præ alio medio eligi, nisi natura mediorum, eorumque utilitas ad finem assequendum agnoscantur. Atqui homines hæc nonnisi per ratiocinationem, ac proinde per deliberationem cognoscere possunt. Ergo deliberatio est accidens necessarium libertatis humanæ . 216. Libertas arbitrii vocatur etiam libertas indifferentiæ, quo nomine significatur eum, qui agit libertate arbitrii, non esse delerminatum ad unum, sed dum unum agit, aliud quoque agere posse. 217. Hæc autem indifferentia versari potest vel circa actum, quatenus voluntas potest velle, vel non velle; vel circa obiectum, quatenus voluntas velle potest hoc, vel eius oppositum, vel aliud quidpiam2. Hinc exurgit distinctio libertatis indifferentiæ in libertatem contradictionis, contrarietatis, et specificationis. Libertas contradictionis, vel exercitii consistit in eo, quod in potestate voluntatis est elicere, vel non elicere aliquem actum, e. g., amare vel non amare aliquid ; libertas contrarietatis consistit in eo, quod voluntas potest velle aliquod obiectum, aut eius oppositum; libertas specificationis consistit in eo, quod voluntas potest velie hoc, aut quidpiam aliud. 218. At vero, indifferentia, quæ contradictionis dicitur, ad libertatis essentiam constituendam sufficit ; nam, etsi voluntas non possit agere contrarium, vel quidpiam aliud, tamen, dummodo possit actiones suas elicere, vel ab eis abstinere, sui iuris est, et dominium in actiones ipsas exercet 3 219. Præterea, indifferentia considerari potest etiam ex illa parte, quatenus actiones ad ultimum finem spectant, nempe in quantum voluntas potest appetere id, quod secundum veritatem in debitum finem ordinatur, vel secundum apparentiam tantum 4 . Si indifferentia ex hac 4 ln lib. I Sent.y Dist. XI, q. I, a. 2 sol. Exinde magis patescit error Cousinii, qui, ut diximus (p. 168), actiones spontaneas cum liberis confundit. 2 Qq. dispp., De Ver., q. , a. 6 c. 3 Contr. Gent., lib. II, c. 47. Qq. dispp., De Ver., loc. cit. parte considerctur, inde illa liberlas cxurgit, quæ in n0testate rccte, aut prave agendi consislit. h 9 P 220. Hæc autem indifferentia recte, vel nrave asendi p' :::,,beri arbitrii,?°n n™il™ -•• VS£ sP. nnLr^dnYii 've peccandi a fine, ad quem liber.as debertatl''pH Lt? |,r,°lnde n°" SPectal ad senliam li "t 0,n'rP Lr,-,amT(l"am Vl.t,um libertatis habenda esi . yuare lpsa, uti s. Thomas inqu (, non nisi aliauod Hgnum hbcnatis est, sicut acgriludo esl signum vilal" Abt. Vlll.-lnquirilur, an sit in hominc libertas indifferenliæ Declarata natura liberlalis indifferenliæ, inquirendum esl, ntrum ea voluntali humanæ concedenda si. i&y frop. 1 . Vohmlas non est libera liberlate indiffi ezf bonum universate' et ^oizT^tat pr1till!rnmC,U nonbet.natUraC PrJ°prium eSt au -clo ?o,a S 1 .possibihtas, sive eapacitas subditur >. Ergo voluntas . .1 m;rm.U,mnerSa,e' Ct Perfec,um nnNun^domi um ^r^^ff„s3£ po,est- ac proiude I "> Ub. II Sent. Dist. XXV, q. I, a. i ad 2. Cf s. Anseln,., ]>e lib. arb., c. 1. ' CfSs TAu"Inf1' m' "v8 ad,n-4 Q(lWDe ^">. 2a. Voluntas circa bona particularia gaudet libertate indifferentiæ. Probatur. lllud obiectum ex necessitate voluntatem movet, quod est ipsi adæquatum, nempe in quo nulla ratio mali apprehendi potest . Atqui huiusmodi non sunt bona particularia, quia in omnibus particularibus bonis potest [intellectus) considerare rationem boni alicuius, et defectum alicuius boni, quod habet rationem mali . Ergo bona particularia voluntatem ex necessitate movere non possunt ; ac proinde voluntas ita ea vult, ut potestatem ea non volendi habeat 2. 224. Præterea, voluntas tendit ad bona particularia non per modum naturæ 3. Atqui voluntatem tendere ad aliquid non per modum naturæ, idem est, ac ipsam non esse determinatam ad illud, eo modo, quo causæ naturales sunt determinatæ ad unum. Ergo voluntas circa bona particularia gaudet vi electionisf seu libertate indifferentiæ. 225. Maior ita demonstratur. Voluntas per modum naturæ tendit ad beatitatem, et ad media, quæ cum illa necessario coiligantur. Atqui bona particularia non constituunt beatitudinem, ipsaque vel non sunt media, quæ cum illa necessario colligantur, vel, etsi quædam eorum ad illam necessario referantur, tamen hæc relatio evidens nobis non est, quia omnes quidem norunt beatitudinem esse perfectum bonum, sed nemo, dum in hac vita versatur, naturaliter apprehendere potest obiectum illud reale, quod beatitudinem reipsa constituit, nempe Deum, uti in seipso est, perfectum bonum. Ergo voluntas ad bona particularia non tendit per modum naturæ . i la 2æ, q. XIII, a. 6 c. Ibid., q. X, a. 2 c. 3 Qq. dispp. De Ver., q. , a. 4 c. I, q. LXXXII, a. 2 c. Exinde intelligitur, cur voluntas hominis, dum homo in hac vita versatur, non ex naturæ necessitate, sed ex propria determinatione ad Dei amorem feratur. Etenim Deus, ut inquit Caietanus (in cit. 2 q. 82), etsi sit in se maius, et eminentius universale bonum, quam beatitudo in communi tamen non est evidens, et apparens nobis sub tali ratione, sicu beatitudo . Ex quo fit, ut iudicium, quo ratio decernit Deum a mandum esse, fiat cum indifferentia, scilicet ita ut aliter etian fieri possit ; quocirca volitio, quæ consequitur hoc iudicium, noi determinatur ex necessitate naturæ. Deus, inquit s. Thomas, du pliciter potest considerari, vel in se, vel in effectibus suis. In s quidem, cum sit ipsa essentia bonitatis, non potest non diligi; un Argumenta, quibus voluntatem liberlale indifferen mæsCUn.Ca, ;°"a particularia Pudere oslendimus, adeo fi"ma sunt, ut rem plane definiant ; ipsa enim a pronria ac inl.ma e.us natura petita sunt. Sed quoniam omnibus AVll, et XVI I, puta Hobbesio, Collinsio, Bavleo Helve tm, Lamelno nihil magis cordi fuit, quam iit hoc Capita e dogma e.hicæ, et Theologiæ tollerent, a ia argu.mena ad..cere luvabit, quæ non quidem solidius sed Inculent.us I.bertatis existenliam patefaciunt. fJ..i,.?S a,expeJrientia J"culenter edocemur nobis inesse tacultalem el.gend. unum præ alio. E. g., interna exnenent.a compertum mibi est! me ila velle tleambulafionem ut possim eam non vellc, brachium ita movere TZl i du|S:erere'.n {? '° ^ ? ' \J^™ sit otio iiduigcre Jn hls, sexcentisque aliis volitionibus tanta e aaue Zt n°Stra eli?endi P°tCSlate couscii snmus? tanomfnio lh;:,a expen,nur 'Psas Ple° uustræ voluntatis omuuo sub.ic, ut .n antecessum eas disponere, et nræ fe-wn".?^ F,qUi in, haC eligendl' P°teState libertas roimi cons.stit. Lrgo voluntatem noslram liberlate ar iusdern0?^." Cer'° CCr,iuSest Accedit 'luod 'eslimonio ins em inl.mæ exper.ent.æ novimus animam noslram ob benc gestas gaudio perfundi, et si quando fiaSitium lu, dam patrar.t, acu.is slimulis tangi,' tædioque8 labe Mlari. Alqui an.ma has aflcctiones voluptalis, aut lædii ;,::nceee.per,reu,r' nisi sfipsam prorsus ^ en,u i i ',' ' reip,S-a nU}]T tædii affectionem cxpe'mur s. pai,.amus .,|lquoc, flagitium ex ignoranlia, aut CDroin0! ' ^,0,03"1 ctl° "on fit cum deliberalione, } „P0'ulnde uon est l.bcra. Ergo. L>ctaHis cmmVlern/,S,eX ai>SUrdis °PP°sitæ sententiæ con 1 s comprobatur. Eten.m, ut s. Augustinus argu '" .tur, sublata libertate, doctrina morum ruil; si enim _necess,late fac.mus quidquid facimus, nullum rema ab 1 omnibus videntibus Eum per cssentiam diligitur et ibi ooan æcent m' 'T8''" vol"ntati. ^ut poenæ iUatæ, vel . Aug., De actis cum Felice Manichæo, lib. II, c. 8. Philos. Ciirist. Compend. I.i jg net discrimen inter virtutem, et vitium ; neque legibus, obiurgationibus, laudibus, poenis, et præmiis ullus restaret locus 2, quia his omnibus locus esse nequit, nisi actus ita in nostra potestate sint, ut illos pro arbitratu nostro ponere, vel non ponere possimus. Insuper ruunt cuiuslibet civitatis fundamenta, quippe quod, ut modo diximus, nullius momenti evadunt leges, præmia, et poenæ, quorum præsidiis civitas munitur; necnon contractus, et foedera, quibus cives inter sese vinciuntur; hæc enim eadem necessitate violarentur, qua fuissent instituta. Demqua ruit quævis religio ; nam si homines libertate carent, nullis officiis erga Deum obstringuntur, nullumque illi culjum exhibere tenentur. Quamobrem qui hominem libertate expoliat, eum simul domo, civitate, religione destituit, belluisque prorsus exæquat. 3° Denique eidem veritati non parum robons additur ex universali hominum consensione. Re quidem vera, omnes homines cum docti, tum indocti in asserenda hbertate indifferentiæ mirifice consentiunt; nam omnes solent consultationes instituere de rebus agendis, ineunt pacta, agnoscunt difFerentiam inter honestas, et pravas actiones, aliaque huiusmodi, quibus, sublata libertate, locus esse non posset 3. Quod si nonnulli libertatem voluntati denegant, hi admodum perpauci sunt, atque ipsi, licet hbertatem verbis denegent, tamen eam opere docent. Nam, ut Eusebius iam advertit \ ipsi libertatis osores de rebu s faciendis deliberant, aliorum facinora aut laudant, aut vituperant, filios admonent, poenis afficiunt, et ad bonam frugem revocare conantur. Quare ipsi suam sententiam operibus destruunt, et sibimetipsis contradicunt. IX. Quomodo liberi actus voluntatis ab intelleclu pendeant 227 . Tres sunt circa hanc quæstionem Philosophorum sententiæ. Sunt, qui cum Kingio,archiepiscopo Dublinensi, contendunt voluntatem eligere aliquod obiectum sine ullo motivo, nempe sine prævio iudicio, quo intellectus bom 1 Lib. De duab. Anim., c. 12, n. 17. 2 De Civ. Dei, lib. V, c. 9. 5 Cf eumdem s. Aug., Lib. De duab. Anim., c. 11, n. 13. De præp. evang., lib. VII, c. 7. tatem et convenientiam illius obiecti pronuntief quinimmo a.oJ udicum „„„ p„e,|„;,„d,„M „|„™UZ, „b ffl!9. lertia senlenlia eorum esf nni ^..m . tl .nt e,eClio„em voluntatis iE",Ar. idico feta u ab hoc omnmo determinetnr i™,,1 ™i„ J1,^necius, a s^treliei Ut^auif^1"'6' qU°d C^: minatur, es"]i£nlqU,a 'Ud,C1Um' a 0U0 vo,u"^ e 230. la. Voluntas humana non potest artv h. ffir:oXfderm?e ^ w/o ^ ~rj fiuuaiur contra detensores pnmæ senfpnfiio Vr,i.. prehenderet i i oWecto I'1^' q.u,n inte,,^tus rra n,,u ! or),ecto "Ham speciem bonitatis in rca nullum ob.ectum versaretur Afnui hZ Y i P •U " in W 5£" versar i. Ergo fieri "eqaif^ dicio,le boni,ie e n „ mome,.Uo> ™Pe sive pracvio lerminetur ° convement.a ob.ecti ad actus suos . 2a. Posito iudicio, quo intellectus aliquid faciendum vel non faciendum esse decrevit, voluntas non potest manere indifferens ad agendum secundum, vel contra illud. Probatur contra propugnatores secundæ sententiæ. Si postquam intellectus decrevit aliquid esse faciendum, vel non faciendum, voluntas se determinare posset ad oppositum, huiusmodi determinatio destitueretur omni rationis momento, sive motivo, quia nulla ratio foret, cur voluntas se ad oppositum determinaret. Neque dici potest hoc motivum agnoscendum esse in eo, quod voluntasita vult: nam, quemadmodum s. Thomas apposite advertit, velle est quidam motus tendens in aliquid, ac proinde stultum est dicere quod aliquis appetat propter appetere S nempe voluntatem velle propter ipsum velle. Atqui, uti in præcedenti propositione ostensum est, voluntas non potest se ad aliquid determinare sine motivo. Ergo, posito iudicio, quo intellectus aliquid faciendum, vel non faciendum esse decrevit, voluntas non potest se determinare ad oppositum. 233. Refutatis duabus prioribus sententiis, (.ertiam propugnandam suscipimus. Ut autem perspicuitati consulamus, nonnulla præmonenda esse censemus, 1° Certum est voluntatem non posse eligere quidpiam sine prævio iudicio rationis, quia ipsa est appetilus rationalis, eiusque obiectum est quoddam bonum, quod intellectus iudicat consentaneum esse nostræ naturæ 2. 2° ludicium, ex quo voluntas ad electionem movetur, est iudicium practicum, non vero speculativum; nam iudicium speculativum consistit in apprehensione veri, ac proinde non potest movere voluntatem, cuius obiectum est bonum, ad operationem eligendam 3. 3° Huiusmodi iudicium practicum nequit esse universale, et indeterminatum, quia operatio, sive electio voluntatis est aliquid determinatum, et particulare, ideoque ex iudicio indeterminato, et universali oriri non potest . larum actionum absoluta, et obiectiva bonitas, aut pravitas esset agnoscenda : id, quod philosophiæ morali prorsus adversatur. In lib. III De Anim., lect. XV. -' Cf p. 166. 8 la 2æ, q. XIX, a. 1 ad 2. In lib. III De Anim., lect. Quapropter iudicium, quod, tamquam motivum, ad actum electionis concurrit, est iudicium particulare, quod intellectus practicus, ut antea diximus, efficit ex applicatione principn universalis ad proprietatem concretam, et particularem ahcuius obiecti '. 4° Electioni voluntatis plura iudicia præcedere solent. Iam ex hisce iilud, quo intellectus, cunctis libratis, atque expensis, decernit hoc tandem eligendum esse, ad electionem voluntatis immediate concurrit, ac proinde ullimum vocatur 2. 5 Radix, sive subiectum libertatis est quidem ipsa voluntas ; nam voluntas naturaliter non determinatur, nisi ad bonum commune, ac proinde potest ex sua natura, nempe, ut inquit s. Thomas, nulla determinatione naturali in contranum prohibente 4 , ad diversa particularia bona iern. 6 At radix, sive causa libertatis est ratio ; ex hoc enim voluntas potest in diversa ferri, quia ratio potest naberc diversas conceptiones boni b ; nempe ideo voluntas circa bona particularia est libera, quia intellectus porest cre, sive hoc, vel illo modo, de bonis particularinus njdicare. Hinc homo non nisi ex eo, quod rationalis est, hbertale pollere dicitur 6, et discrimen inter eius operationes, et operationes brutorum, atque rerum naturalium non nisi in eo consistit, quod res naturales agunt absquc ludicio, bruta ex iudicio naturali, at non libero, bomines ex iudicio libero \ Præstat dilucidius hanc rem expheare, nempe iudicia, quæ ratio circa operabilia eflormat, esse libera. Operabilia sunt quidem contingentia. Atqui mtellectus libere cxerit iudicia, quæ versantur circa contmgentia; nam intellectus, ut diximus, ex terminorum comparatione de rebus iudicat, unde cum deprebefldit prædicatum ad essentiam subiecti perlinere, cogitur hoc, et non alio modo iudicare ; e contrario, cum æprehendit prædicatum cum subieclo haud necessario connecli, uti evenil in iis, quorum maleria est contingens, ad utramvis parlem inclinare polest. Ergo iudicia Circa operabilia sunt libera 8. Fatemur ultimum iudicium o gie156" ~2 Q De yi q XVI, a. 1 ad 15. K ^a oæ' q.[ a ad 2~ ContrGent-> h'bIH, c-48, n. 5. la 2e, lbld. _ c lf q. lxxxIII, a. 1 c. 7 lbid. i ibid. practicum esse determinalum, alioquin, ut paulo ante diximus, nulla voluntatis actio ipsum consequi posset; sed contendimus non esse absolute necessarium, quia intellectus ita iudicat, ut potuisset secus iudicare, quemadmodum in enunciationihus probabilibus mens ita inhæret uni parti, ut alteri etiam adhærere potuisset. 234. His præstitutis, demonstramus sequentem Voluntas non potest quidqnam agere contra illud, quod intellectus ultimo iudicio practico decernit '; neque id eius libertati obest. Probatur prima pars. Motivum, quo voluntas aliquid eligit, non nisi ultimum iudicium practicum intellectus, uti iam ostendimus, esse potest; quapropter, si voluntas posset eligere aliud ac illud, quod per huiusmodi iudicinm ab intellectu sibi proponitur, electio voluntatis sine motivo existeret. Atqui, uti etiam demonstravimus 2, absurdum est electionem voluntatis absque motivo existere. Ergo. Probatur altera pars. Radix libertatis, sicut causa, invenitur in prævio iudicio intellectus; quapropter, etiamsi voluntas contra ultimum iudicium practicum sese deter. minare non possit, tamen eius actus sunt liberi, dummodo consequantur iudicium liberum, nempe eiusmodi, ut aliter fieri potuisset. Atqui, ut iam ostensum nobis est, actus voluntatis consequuntur iudicium, quod aliter fieri potuisset. Ergo ex eo, quod voluntas non potest quidquam agere contra illud, quod intellectus ultimo suo iudicio practico decernit, nihil, quod eius libertati obest, elici potest. ld ex eo confirmatur, quod voluntas, ut s. Bonaventura inquit 3, non sequitur principaliter actum alienum {nempe intellectus), imo potius actum alienum trahit ad proprium ; videlicet, ipsa voluntas in consilium adhibet intellectum, eiusque attentionem ad hoc potius, quam ad aliud contemplandum convertit; atque ita efficit, ut intellectus hoc potius, quam aliud iudicium practicum pronuntiet. Si igitur ex voluntatis imperio in Qq. dispp., De Ver., q. XXIV, a. 2 c. Sanctus Doctor hoc ii loco quoque observavit electiones illas, quæ fieri videntur contre illud, quod intellectus iudicat, contrarias esse iudicio practico uni versali, at non illi, quod ultimum dicitur. 2 179. 3 In lib. II Sent., Dist. , p. I, a. un., q. 6 ad arg. tellectus ultimum iudicium practicum pronuntiat, dicendum cst actum voluntatis, qui illud iudicium conscquitur, non esse necessarium, nisi necessitate consequenti, illa scilicet, qua eo ipso, quo voluntas aliquid vult, non potest simul ipsum non velle '. X. Obiectiones Fatalistarum 2 exsufflantur 235. Obiic. 1° Voluntas non potest incipere velle quod antea non volebat, nisi ab aliquo agente extrinseco moveatur, quia nihil a semetipso incipere potesl. Atqui, si voluntas ab aliquo agente extrinseco movetur, cius actiones liberæ dici nequeunt. Ergo. 236. Resp. Dist. min. ; si agens extrinsecum moveret voluntatem necessario, conc. min., secus, neg. min. Neg. cons. Et sane, nomine agentis extrinseci, a quo voluntas movctur, vel intelliguntur obiecta extrinseca, quæ incurrunt in sensus, vel Deus ipse prima omnium motuum cau 1 Ii, qui huic circa libertatis originem sententiæ adversantur, progressum consultationum, et volitionum in infinitum in ea admitti arbitrantur, quia omni volitioni aliqua consultatio, et omni consultationi, quippe quæ voluntaria est, aliqua voJitio præcedere deberet. At ipsi crrore decipiuntur. Etenim probe distinguere oportet ætum, cuius vi consultatio suscipitur, ab actibus, qui ipsam constituunt. Si primum spectetur, consultatio procul dubio a voluntatc pendet, quippe quod hæc intellectum determinat ad ea media inquirenda, quæ ad finem sibi propositum assequendum idonea sunt. Ast hac in re progressus in infinitum pertimescendus non est, quia id, quod primo movet voluntatem, et intellectum ad exercitium actus, est Deus. (Cf p. 171 ; cf etiam I, q. , a. 4 ad 3, et la 2æ, q. XVII, a. 5 ad 3.) Quod si actus, qui consultationom constituunt, considerentur, hi consistunt in variis iudiciis, quæ circa media opportuna ad aliquem finem assequendum efliciuntur, et quoniam versantur circa media, quæ non præseferunt necessariam cum fine connexionem, ex sui natura non vero ex voluntatis motione sunt libera, seu indifferentia (la 2æ, q. cit., a. 6 c); voluntas autem, movens intellectum ad istam potius, quam ad illam conditionem perpendendam, aliquod ex iis iudiciis determinatum reddit. Neque voluntas prævia consultatione indiget, ut intellectum ad rem sub illo potius, quam sub isto respectu ' considerandam moveat, sed id efficit ex aliqua occasione, e. g., ex eo, quod ad ld ab appetitu sensitivo movetur. Cf p. 169. 2 Omnes, qui liberum arbitrium homini denegant, Fatalistæ nuncupantur, quia ipsis commune est illud antiquorum Stoicorum pronuntiatum : omnia fato /ieri. sa. Si priraum, illa obiecla numquam possunt raovere voluntatem, nisi intellectus rationem bonitatis, et convenientiæ in ipsis deprehendat '. At bona particularia ab intellectu apprehensa non movent necessario voluntatem, quia non tamquam universaliter, et secundum omnem considerationem bona apprehenduntur 2. Ergo, etiamsi voluntas ab obiecto moveatur, eius acliones non sunt necessariæ. Quod si nomine agentis extrinseci ipse Deus intelligatur, Deus quidem voluntatem quoad exercitationem actus, quemadmodum ostendimus 3, movet; at nihil exinde conlra libertatem inferri potest. Etenim proprium Dei est, ut alibi dicemus, res eo modo movere, qui earum naturis congruit. Atqui voluntas humana eiusmodi est naturæ, ut sit libera. Ergo potius necessitas, quam libertas actuum voluntatis cum Divina motione repugnat . 237. Obiic. 2° Voluntas ad aliquid volendum movetur ab appetitu sensitivo. Atqui actus appetitus sensitivi su necessarii. Ergo idem de actibus voluntatis dicamus o portet. 238. Resp. Dist. mai., semper, neg. mai., interdum, subd. mai., ita ut appetitus sensitivus inclinet voluntatem ad aliquid volendum, conc, mai., ita ut ad se necessario trahat actum voluntatis, neg. mai. Item dist. min., actus appetitus sensitivi sunt necessarii, ita ut voluntas eis dominari possil, conc. min., secus, ncg. min. Neg. cons. Re vera nos iam antea ostendimus voluntatem non in cuncti sed in quibusdam suis actibus ab appetitu sensitivo moveri, et hanc motionem in eo dumtaxat consistere, quod actus appetitus sensitivi inclinant voluntatem ad hoc, ut moveat intellectum ad considerandam rem potius sub isto, quam sub illo respectu, et proinde ad pronuntiandum potius istud, quam illud iudicium practicum 5. At vero tantum abest, ut voluntas ab eis necessario moveatur, ut potius eis, sicut alibi diximus 6, dominetur; ex quo fit, ut in eius arbitrio sit prosequi, aut respuere id, ad quod ab appetitu sensitivo allicitur '. 239. Obiic. 3° Voluntas ex natura sua fertur ad bonum. Ergo libertate indifferentiæ non gaudet. Cf p. 166.—'Cf p. 175.— 3 165. la 2æ, q. X, a. 4 ad 1. Cf p. 169. 6 160. Cf la 2æ, q. X, a. 2 c. I, ^' RcP\P{s,L ?'; ad nonum in universum, conc. ant ad bona particularia, n^. a 4 ns. Re quidem vera, cognitiones boni, el mali e iamsf ' lermUnm Sente,ntiam sThomæ> qnai nos s^cu isumus '' oduTn6."',/0 'Untatem' non tamen necessario eius actus roducunt, qu.ppe quod non sunt causac necessariænam " antea ostendimus , inlellec.us ita iudicat Te bonka e' SnIc^a Zo7c°bieCti' Ut Potnisse'diveersonmodeo' c. Accedit quod causa, cuius effectus imnediri nnl nctbiPtSaniV0,IUntv 'aCKtUm V°luntatis "eceSum non ZntoJS ' co8nlt,onl hon'> vel mah potest per ipsam ^ntatem impedimentum præstari, vel' removendo T j^Cf 8. Thoill., Qq. dispp.y De mal^ lQc c.t ^ ^ ^ ^ ^ ^^ 2 > qL XXXII, a. 2 ad 1 —3 rr n ~o aa l lem considerationem, quæ inducit eam ad ™iendum, vel considerando oppositum, scilicet quod hoc, quod proponitur ut bonum, secundum aliquid non est bonum ' >. Ergo actus voluntatis ex cognit.one boni et mah, a qua Dpndent, necessitatem non accipiunt. . . P 247 Obiic. 6° Admissa vera sententia c.rca ong.nem libertatis, nempe voluntatem ex iudicio i?t'°n£ ^ ?rmf nari, voluntas ex duobus bon.s, uno ma.ori altero m.non, non potest non amplecti bonum maius ; et, si e ' PoP?" nantur duo bona æqualia, neutrum ehgere posset, qma Sulta foret ratio sumciens, ob quam voluntas m.nus,j£ num maiori, aut inter duo æquaha unum allen præier ret Ergo voluntas facultate ehgendi dest.tu.tur, ac pro inde libertate indifferentiæ non gaudet. 248 Resn Neq. ant. Sane, voluntat. .ntegrum non esi ehgtre Sid Juod intellcctus ultimo suo md.c.o pra c c nmkavit^se minus bonum, ac P~ide miuus ehgibile, quam aliud; at vero potest .psa efficere, ut iUud quod in se est deterius alio, tamquam mel.us hoc ab in tellectu iudicetur, quatenus magis conduc.t ad finem quem spectamus. Ita ii, qui peccant, prosequuutur ^unum quod est deterius alio, sed iudicaut hoc esse mel us, quan Hlud, quia videtur eis opportunius ad oJ>'inendnmdbnAm quem sibi constituunt. Potest etiam voluntas es duobo gonis æquahbus unum velut præstant.us altero el.ger nam, aiente s. Thoma, nihil prohibet, si al qua ^duoa quaha proponantur secundum unam considerauonem, qu Srca aWum consideretur aliqua cond.Uo, per quam mineat, et magis flectatur voluntas .n .psum quam aliud . Quod si post istam inqu.s.t.onem in . neuti inveuiat novam aliquam bonitatem, potest volunta, ad num bonum alteri præferendum moven ex eo, quod 1 . tellectus exhibet ei, tamquam bonum, exercitat.onem pr priæ libertatis. CAPVT VI. De facultate locomotiva 249. Facultas locomotrix est quædam specialis faculi • Qq. dispp., De malo, loc. cit. ad 18. s ia 2æ, q. XIII, a. 6 ad 3. Jg7 organica, qua aniraa movet de loco in Iocum corpus cum quo ipsa comunghur. "us' Lum Anr. I.-Quodnam sit principium moluum localium 250. Facultatis locomotricis existentia demonstrari „„„ potest n.s, pr.ns definiatur, undenam prmcTnium (1otio num local.um > repetendum sit. P™ noUo P^L/1"' M0'WSlocaUs soli corpori atlribui non posmnt Probatur pracc.pue contra Cartesium, et LeibniM m Motus locales sunt operationes vitales, et viv en\, csse debei dlud pnnc.p.um, a quo ipsi promanant. AlquTcon)uS prout est corpus esse non potest principiuu i WvensXro toOtus locales sol, corpori attribui non possuT g° S ita eTerceri d1T0nstra[ur: Compertum est motus lonovea tur auh in ir lai'a "$". moveant' non ab aii° afi ^iprrve0.:!3™ ^ ^ tiElEfi lecesse^st "„;'"' Prlnc'P'um. sui molus in se habeant are potest'n\s i fi? 0Peral!°.ab liquo subiecto maal'i if, per Princ,P'um . quod in ipso ope um moiuf glnW'.Ut an-lmal in Se na'>eatPprinPcium motus, quo se de loco m bcum transfert Afm.; z i:^u::t re ? per ^t^^ti iiS. e ilkid nrincinPeraU° VlUl,S ;,deoaue vivcns dcbet inl opeTionoTvTl " q1° promaJna'^rgo motus locales tfp^^™""81 eSSe PrinciPium> Wus l?Z lTm demonstra'io"e non indigel; quia, si X' P ?Ut est corPus, esset vivens, nullum jrenus cor 3POpreDe2æ epXpCrS V-itæ : id uuod Perle eft falsura. ProbatZvriS nCtptUm moHo™m localium est anima. robalur. Pnncip.um mot.onum localium, uti in præ Wtru.qdisuLuSr 11 'r 'n l0CU'," P-"ditur, tocates wt, cuiismod sun, m. . ' ln au,bus cor',us Iocu' > J est vcgctans, eveni,!„t m°l,0neS ' qUæ in cornore ™">-^> 5 Cf p ?8°m" /"r ^ V" Ph!ls lcctVU. P8. I, q. LXXV, a. 1 c. cedenti propositione ostensum est, debet esse illud, per quod animal est vivens. Atqui huiusmodi pnncipium est anima. Ergo anima est fons, et pnncipium omnis motus in rebus animatis ! . Ex qua argumentatione mfertur contra Malebranchium, animam esse causam non occasionalem, sed vere effectricem localium motionum. Etenim anima est principium huiusmodi motionum ex eo, quod vitam animali impartilur. Atqui ea vivunt, quæ i operantur ex seipsis2 . Ergo anima est causa vere et-, fectrix localium motionum. 254. 3a. Anima per aliquam facultatem organicam movel corpus, ac proinde non ipsa per se, sed simul cum corpore est principium motuum localium. Probatur conlra Platonem 3. 1° Anima nihil agere potest, nisi alicuius facultatis ope. Atqui mter actiones animæ occurrit eliam illa, qua corpus suum de loco m locum movet. Ergo anima pollere debet facultate movendi corpus suum de loco in locum. Præterea, anima non potest movere corpus, nisi ipsum tangat. Atqui anima, cum sit partium expers, non potest tangere corpus contactu physico, nempe prout partes suas partibus corpons apponit, sed dumtaxat contactu virtutis 4, nempe prout aliquid in illud agit. Ergo oportet in anima ahquam tacultatem inesse, cuius virtute corpus suum movet. 2° Facultas, per quam anima movet corpus, debet esse organica. Nam anima per facultatem movendi corpus, dc loco in locum aliquid extra se agit. Atqui spintus hu mani, ut s. Thomas ait, cum sint corponbus uniti, H exteriora operari non possunt, nisi medio corpore, ac quod sunt quodammodo naturaliter colhgati . Lrg( facultas movendi corpus nequit ab anima exercen sim aiiquo organo corporeo. 3° Quod si anima per aliquam facultatem organican corpus movet, ipsa non per se, sed simul cum corpor est principium motuum localium, quia ad exercitationer facultatis organicæ anima simul, et corpus quidquaL conferunt6. i In lib. I De Anim., lect. 1. -2 I, q. XVIII, a. 3 c. 3 Plato (Cratyl, p. 400, a; Alcib., p. 150 a, ed. H. S.), ali que motus locales uni animæ tnbuerunt.- I, q. LXXV, a. l s Qq. dispp., De Pot., q. VI, a. 4 c. Cf p. JCQ A)o. Kesp. JSeg. ant. et cons Vt wno c; GSt Dud omnes Philosophos me er 4 JuZ n-mSI corP°ribus coMvenire. Ergo motn local ! aturæ animæ prorsus repuffnat 3 Hinr oi rt otus exequitur, est, „t ait s. Thomas, ea,™'pei auam embra redduntur habilia ad obediendum appelUuf' " æc antem potentia, quæ exequitur motus ea esl n„ p como r,x appellatur, Hq„ia potentia dicUur immedia^tum uTTtL^T™' PtCipiUm ^ i™™ZZe?l sæ am " vero il.ud, a quo IDEALOGIA. Ad Dynamilogiam, ut diximus in Introduct. ad Philosophiom ', IDEALOGIA, et Criteriologia etiam spectant. bx ns enim, quæ circa naturam, obiectum, et operationes tacultatum animæ humanæ statuta sunt, nullo negotio colligitur, 1° quomodo cognitio humana per lllas tacultates evolvatur, sive quomodo cognitionis humanæ ongo explicanda sit; 2° quidnam roboris ad veritatem nobis patefaciendam ipsis insit. Harum tractationum pnma oicitur ldealogia, quia originem idearum ad examen revocat, altera autem vocatur Criteriologia, quia critena, sive motiva, ob quæ de vera cognitione rerum certi sumus, ex ponit. . c i_fl 2. Quod attinet ad Idealogiam, nos quæstionem soivemus de idearum origine in universum spectata, sive cie modo, quo intellectus noster primo assequitur cognitionem rerum 2 ; atque 1° præcipua Philosophorum systemata excutiemus ; 2° illorum Philosophorum sententiam expendemus, qui humanam cognitionem sine sermonis ope evolvi non posse pertendunt; 3° quoniam quæstio de ongine idearum ad notiones universales spectat, de celenri illa controversia, quæ circa vim notionum universalium penes Philosophos exagitatur, verba faciemus. Excutiuntur Philosophorum systemata circa originem idearum Art.I.— De Sensismo 3 Sensismus est illud systema, in quo origo totius cognitionis humanæ ex sensibus, tamquam ex unica tonte; repetitur. 1 Degsp3ecialibus modis, quibus anima res materiales P^tsitf gulares sunt, vel ea, quæ materialium rerum ?™VT'™& diuntur, vel seipsam cognoscit, iam a nobis exphcatnm est ( d p. 136 sqq, et p. 145 sqq). Modum autem, quo ad Dei co8niti nem perveniraus, in Theologia naturali investigabimus. Sensismus est systema in se absurdum, et ad absurda consectaria ducens. Probatur prima pars. Sensistac ideo docent sensus esse unicam lontem cognitionis humanæ, quia cum Condillacho unicam sentiendi facultatem animæ attribuunt, et contcndunt ceteras facultates, quæ a Philosophis numerantur, non aliud esse, quam diversas sensibilitatis formas, earumque actiones non aliud esse, nisi sensationes transformatas \ Atqui nos iam evidenter demonstravimus opcrationes mtellectus tum ex obiecto, circa quod versantur, et ex modo, quo exercentur, tum ex ipsis Condillachi pnncipns non posse reduci ad sensationes. Ergo absurdum est assignare sensus, tamquam unicam nostræ cognitionis fontem. 5. Probatur altera pars. 1° Homo, ex cognitione intellechva, qua pollet, discriminatur a belJuis, quibus non nisi cogmtio sensitiva inesse potest. Atqui, si sensus essent unica fons cognitionis humanæ, et cognitio intellectiva ad sensationes reduceretur, nullum extaret discrimcn inter cognitionem propriam hominis, et illam, quæ pertmet ad belluas. Ergo, posito sensismo, homo ex di§nitat .e sua' W belluis maxime præstat, excideret. ^cientiarum principia absoluta, universalia atque immutabiha sint oportet. Atqui sensus non nisi concretum, contmgens, et mutabile referre possunt. Ergo, posito sensismo, scientia prorsus evanesceret. 6. Hæc autem absurda consectaria sensismi haud vitantnr, si origo idearum eo, quo docuit Lockius, modo ['xpi.cctur. Nimirum anglus hic philosophus duas facullates ad rcrum cognitionem assequendam in anima admisu, nempe sensahoncm, per quam anima res, quæ sive ijxtra se, sive m se fiunt, apprehendit, et reflexionem, per laam ad res sensibus apprehensas vim suam intendit2. &Zu? jC reflex10' auam Lockiusprætersensationem n tt.t ad sensationem, ut merito Condillachus obser ^ayt, reducitur. Nam huiusmodi reflexio non exercetur, m . circa ea, quæ sensibus percepta sunt, ac proinde ipsa ?r,I°rrS r.eddlt scnsationes, atque ad summum eas in nes dissolvit, aut vario modo componit, sed numquam Cf p. 161. 2 Essais etc, lib. II, c. 2, § 1. efficere potest, ut mens ad intelligibilia, quæ ab ipsis sensationibus specie differunt, adsurgere possit. 7. Obiic. Vulgatum est illud effatum Scholasticorum : Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu. Ergo cognitio nostra non nisi a sensibus repetenda est. 8. Resp. Dist. ant., quatenus cognitio intellectiva evolvi non potest sine phantasmatis, quæ per sensus hauriuntur, conc. ant., quatenus intellectus apprehendit illud ipsum, quod a sensu percipitur, neg. ant. Neg. cons. Et sane, ex illo Scholasticorum effato coliigi quidem potest cognitionem inteiiectivam aliquo modo a sensibus oriri, quatenus hi præbent intellectui phantasma, in quod inteliectus actionem suam exercet l; numquam vero sensitivam cognitionem esse tolam causam cognitionis intellectivæ 2; quia intellectus ex vi sua sine ope sensuum ex phantasmate obiectum sibi proprium, nempe intelligibile, omnino diyersum ab obiecto sensuum efficit, illudque apprehendit immo multa cognoscit, quæ per sensus nullo modo cognosci possunt 4. II.— De systemite idearurn innataruoi in uniyersuui 9. Systema idearum innatarum illorum Philosophorum est, qui originem idearum ex eo explicant, quod anima cognitionem rerum saltem initialem per ideas sibi naturaliter insitas habeat. #, 10. Systema idearum innatarum est reiiciendum . Probatur. 1° Si idearura innatarum hypolhesis admitta tur, consequitur animam intelligere res per medium absolute immateriale, ita nempe, ut ope phantasmatis non indigeat. Atqui id, ut iam demonstratum est b, naturæ animæ humanæ repugnat, et experientiæ contradicit. Ergo hypothesis idearum innatarum reiicienda est, Hoc argumentum ex eo magis confirmatur, quod intelligere res per earum species acceptas a Deo simul cum intellectuali natura est proprium substantiarum intellectualium, quæ sunt a corporibus totaliter absolutæ 6, ac proinde proprium i Cf p. 133-134.— ^ I, q. LXXXIV, a. 6 c. 3 Cf p. 135 sqq. Ibid. ad 3, et q., a. 4 ad 4. Cf p. 136. Vid. s. Bo nav., In lib. II Sent., Dist. XXIV, p. 2, a. 11, q. 1 ad arg. Pp. 133-134. 6 I, q. LV, a. 2 c. ;n ivnVii.' -j i""b'.LU|iur . Atqui id exp hcart ncanif,in hypothesi idearum innatarum. Ergo idcas rerum Z i mnalas esse dici nequit. Huic eliaml.rgumento mTtas ro i m itac' am in sevoSV^T' quodammnu° sit yinPutis, indtc sirr;„t tf ftis n3an?mamUn1',|i|dne"C !.nnatæ, qU,'pPe auæ al> actio"e rerum L in m^r InZ ° pendenti aliouid mere •'', £a^ rnlVr^Srerur^.e^i0,'. ? ^^JZ clnm fnM( r • fealitate nostræ cognitionis dvemendum S' M argUme,nti vis ut clariu perspidatur S rerum tccitT 'nnataS vim repræsentanui reali^ •eesse dUm.nh,r-Pn? n°"P°sse ex jPsa anima> cui ;™warum rcpræsen."?^ an'ma' CUmnon sit causa rerum, lis ideis rel i X 6SSC neau" Nec iu™t asserere ^ru, lur nim rJ°l,rPra,eSentari'.auod a Deo aniraæ '"">ctum nataMlJ • taS,.noSiræ eognitionis, cum sit aliquod -liarSe^ei •;epeUtænCdaUSeastnatUra,i' ^ ^ V .III.-De variis rnodis, quibus sysleroa idearuu, innalarun, a rnilosophls propugnatur iam d^lve0s°sPmon-aUieiaCaS ^,^ admittunt. senlentiam "lamm svslcmT, 1 ex.Ponunt> unue diversa idearum in "t Plato in(mr J, nU" Ur' quorum Precipui auctores !! o mlenelcres, et ex recentibus Carlesius Lcib s, ct Rosm.nius. Secundum Plalonem anima , an, corpon uniretur, exlilit, atque rerum ideTs' nuæ" n ubSn" reP,ra.f eutant etlunt aliquid e^, j! suosistens, mtuila est; deinde in corpus, tamquam 'Wp. .42-143.-2 Cfp. 133. _J 1 2æ, q. XXX, a. 4 ad 2. in carcerem, ob quædain crimina detrusa, omnium, quat ante intuebatur, est oblita. ltaque anima in hac vita se cum fert obliteratas ideas, quas in anteacta vita contem plata est ; sed quoniam res externæ ad illarum idearun exemplar conditæ sunt, efficitur, ut anima per sensationes quibus res externas percipit, illas ideas in se exsuscitet atque in præsentia contempletur. Hinc scientia rerum quam in dies adipisci videmur, non nisi rerniniscentia est ad quam rem Plato affert exemplum pueri, qui etsi nihi umquam didicisset, ordine tamen, et sensim interrogatus etiam de difficillimis problematibus protinus, et rect P™ eins ciuMuid nauq^tat. IJIud enim non al ud innuif nisi n.lfl jL^ |um na.urali Kcdtate intelligendi præditnm fnisse Pua i3r'r,offgan-on0il|I„,rainUS ^4™. respondere potes? inl erroganonibus, quæ gradatim, et ordine fiunt '. Lliri! distinguunt in adventitias, factitias, blZ\,Z' Anvent,t,a> e°rum sententia, sunt quæ animæ .rnaZ in r'°n-m0tUUm' aui ex aPPuls rero, ex! oTideT '? °p,S.°.-gan,S excitantur ; cuiusmodi, e. ^tar ntt (f-°tltaæ sunt 1uæ ab 'Psa mente eflf: ET.T. " un'one diversarum idearum, e. ., idea hin XU,ide^,qnC,nn!Uæ SUUt' aUæ eim anim^S. canur, idest a Deo,n aclu crealionis in anima infun !m M°nira .nanC Cartes''anorum opinionem adnotamus am h.s duobus pronunlialis inniti, quorum nrimum^sf undnm anlma° in aCtUali C°Snitione eonmi sPterm Ham' mem%lThJT rma essentia-> ''ta etiam 'cog"& nlbm \° Ct; alterum est> auod 'dearum intelle onu„ma,0"g0faDf SenSUS CXP'icari neaQitAst P™" onun atum faisum est; nam, ut suo loco ostendemus rti n araniCm0Sn,,,° ' -SCa eliam facu,tas eognoscendræs: e n nfc "] Const!tuere "equit. Ex altcrS pronunliato lem inlern non potest .deas esse innatas, sed polius Vsihi\.,:rama1reatgn0SCendam e faCultatCm ' C 15. Præterea, Cartesius hac in re ambiiruns est nm aodo pro ideis innatis uaturalem cognCend facuN n inn ! f/r- 7^ Ur. • At si Cartes,'us nomine ideana arum intelhgit ipsam naturalem cognoscendi fa cisdtar? CUm C°n-SenmNihilomioui liccat nobis ab lin, e c ' n°mneS,. et '"diviso aclu, qU0 relalio inter subcctum, et prædicatum perspicitur ; et hæc relatio hoc nodo persp.c. non potest, nisi una, eademque sit faculM. quæ sub.ectum, et prædicatum cognoscit. Alqui in d,l! ',\°JUf C'?, rosminiano subiectum et prædicatum t dnc.sas facultates perlinent, quia subiectum est id, uod per sensat.onem exlrinsecus animæ advenit, præ M anTm" "I e.Sl-,"Iea intellieinilis entis, quæ int/inseus an.mæ est. Ig.tur lud.cu.m primitivum eo modo, quo uod Ju^,0^CXf)llcatllr' na,luræ i,ulicii Pnnat. Accedit, uod hoc .ud.cium, secundum Rosminium, est simul com nm,!"'' ' !nsl",c.tlvm; comparalivum, quia fit per o .unctionem .deæ ...natæ enlis cum elementis scnsili 1'taDem !. T ',quia iMa coniuneti !'• actionem und "mnTi' -et naturalem ratio"is ctlicitur. At nos iam 2 repugnaJe comParati™m simul, et instinc.i 1 ' et originem cognitionis hu si cJu monstrare student Priori, nempe ab ipsa ana'si cogitat.oms remotæ ab omni experientia sive inlera, sive externa. 21 Ilorum Philosophorum systemata ortum habuerunt iatfn,?,' W°t materiam et formam in quavis cognitione 3 • fater,a est mutabilis, et contingens, atque ex ns.libus ob.ect.s sive internis, sive externis advcnit; forUnrl ne,Ccssar,a > et universalis, atque exurgit ex ipsa nciLr" •!?CU coSnoscentisIam cogitare, seu aliquid ncipere idem est, ac ludicium de aliqua rc proferre; (icinrn?æC-g,Utl°nis t0tidem esse debent, quot sun 1 ; ' n epecies. H.nc intellectui nostro insitæ sunt tn m;\ormæ> se categoriac,quac sunt Unitas, multitutio iU! r ral,0n° amntitas iudiciorum, prout uempe rifo? lll rUi IT™' aut P,ura' aut totum complectitur; TuumaTa"' citmitat" ratione qualitatis, nempe reoit i 7 iL]!r aflu'mantia> negatio quoad iudicia negan h \s c 7JT?11 1Udic,a indefinita> Substantia e ac s, causa et cffectus, atquc reciprocatio, sive actio et passio ratione relationis, idest ralione nexus inter subie ctum, et attributum, nempe, categoria substantiæ et acci dentis quoad illa iudicia, in quibus attributum absolute convenit subiecto ; categoria causæ et effectus quoad illa iudicia, in quibus attributum sub aliqua conditione enun ciatur de subiecto; categoria actionis et passionis quoad illa, in quibus plura attributa ita de subiecto enunciantur, ut, uno eorum posito, cetera tollantur, et, cetens omni bus sublatis, unum reliquum ponatur. Denique forma pos sibilitatis et impossibilitatis, existentiæ et non-exxsientiæ, necessitatis et contingentiæ ratione modalitatis, sive ratione modi, quo subiectum, et attributum ad mentem nostram referuntur, nempe prout consensus inter subiectum, et at tributum a nobis concipitur vel ut possibilis, vel ut rea lis; et rursus realis vel contingens, vel necessarius. Itaque intellectus, applicans has formas sibi inhærentes elemen tis sensilibus, obiecta suæ cognitionis sibi efformat. Quarc res a nobis cognoscuntur ope iudiciorum syntheticorum c priori l. Hoc nomine ea iudicia designantur, m quibus anima neque per experientiam cognoscit prædicatum, ne que in notione subiecti illud detegit, sed haunt lpsum e? subiectivis formis, quæ sibi inhærent, et quas ex quo dam instinctu materiæ suæ cogitationis, sive elementi sensilibus applicat. 22. Philosophi, qui Kantium secuti sunt, eius system; evolventes, docuerunt elementa cognitionis ab obiectis ex tra mentem positis derivanda non esse. Quamvis auten ipsi sententiam suam diversis modis explicent, tamen 11 eo consentiunt, quod animam esse suæ cognitionis uni cam causam, immo suæ cognitionis obiecta sibi construe re statuunt. Inter eos Fictheus eo devenit, ut animam e. vi sibi insita obiectum intelligibile, immo seipsam crear putaret. i ludicium, cuius prædicatum pertinet ad essentiam subiecti, ii ut resolventi notionem subiecti notio prædicati occurrat, diciti analyticum. E contrario dicitur syntheticum illud iudicium, cuius a tributum non pertinet ad essentiam subiecti, sed ei superaduii Istud dicitur aposteriori, quia in eo adiungitur prædicatum subiec post cognitionem, quam nobis experientia præbet. Illud dicitur priori, quia relatio inter prædicatum, et subiectum ex ipsa W rum collatione patescit. Ut systematis Kantiani, aliorumque Germaniæ Philosophorum, quatenus ad rem hanc spectant, abnormitas evincatur^demonstramus sequentes propositiones 1\ Formæ, quas Kantius nativas affectiones intellectus esse asserit, repugnantiam in se includunt, eiusque doclrvna de xudicas syntheticis a priori naturæ mentis humanæ aperte adversatur. Probatur prima pars. Huiusmodi formæ, Kantii iudicio, sunt notioncs inanes, et omni obiecto expcrtes, ac proinde sunt notiones, pcr quas nihil cognoscitur. Atqui nolio, qua nihil cognoscitur, non est notio, sed potius negalio notionis, seu cognitionis. Ergo illæ formæ sunt notiones non notiones. Præterea, singulæ illæ formæ, seu notioncs, una cum notionibus sibi e diametro oppositis ponuntur, e. g., forma necessitatis, et contingentiæ, possibihtatis, et impossibilitatis etc. Ergo si illac essent internæ .p.tellectus affectiones, affcctiones secum pugnantes intellectui convenirent, id quod valde absurdum est li. Irobatur secunda pars. Quodlibet iudicium a priori lest analyticum, md.cium enim a priori efformari dicitur, cum altributum detegitur ex subiecti analysi vel imme nale, vcl med.ate, nempe per ratiocinationem. Synthetica autem mdicia sunt natura sua a posteriori, quia in iudi cnssyntheticismensnonperspicit intrinsecum nexum in er prædicatum, et subiectum, ac proinde statuit rela lonem inter utrumque subsidio experientiæ. Quare si uoicia synthctica a priori existere possent, in iis mens eque per analysim subiecti, neque per experientiam iu icaret, hoc est ex coeco instinctu iudicia efformarel. At jui .(I naturæ mentis humanac adversatur \ Ergo doctri unvnnlll^e,Ud/C,is syntheticis Priori naturæ mentis uimanæ adversatur. ionis l>r°P' tja' NequU mima esse unica causa suæ C09ni ^objitur. Si anima esset unica causa effectrix suarum liea mThUi,n'-t(M,C.nClUm f°ret sVitudines rerum in eam equc a I,pbIS robUs, neque ab alia causa exteriori in ausV r,! VU,; T' CUmolu? "tellectus Divinus sit ^sa reium, Ipse solus simihtudines omnium rerum in x Cf p. 153. 204 IDEALOGIA se essentialiter habet. Ergo nequit dici animam esse unicum principium efficiens suarum intellectionum, nisi ipsa unum, idemque cum Intellectu Divino esse dicatur, id quod purus, putusque pantheismus est. 26. 3a. Absurdum est animam cognoscere res ex eo, quod illas producit. Probatur. Si mens res cognosceret ex eo, quod illas producit, sane produceret res, quas non cognosceret se producere. Atqui hoc falsum est; nam, cum quodlibet ens quidquid agit, agat secundum modum suæ naturæ, anima, utpote quæ ratione pollet, nequit aliquid agere, nisi cognoscat illud, quod agit, eiusque notitia, tamquam exemplari, ad agendum utatur. Ergo ipsa non novit res, quia illas producit, sed res producit, quia illas novit. 27. 4a. Cognitio non potest dicit ut ait Fichteus, creatio. Probatur. Anima non cognoscit res ex eo, quod illas producit. Ergo cognitio non potest dici creatio. Præterea, omnis actio cognitrix est perfectio subiecti cognoscentis, non vero obiecti, quod cognoscitur ; e contrario, actio creatrix transit in aliquid posilum extra subiectum creans, quia ipsa non est perfectio subiecti creantis, sed obiecti quod creatur. 28. 5a. Maximum absurdum est id, quod ait Fichteusy animam eo ipso, quod se cognoscit, seipsam creare. Probatur. Si anima ex eo, quod se cognoscit, sibimetipsi existentiam largitur, sequitur ipsam se cognoscere, ac proinde operari, antequam existat. lam si res ita se haberet, cognitio sine subiecto cognoscente, et operatio sine subiecto operante admittenda foret ; quæ profecto manifeste absurda sunt '. V. De Ontologismo, et priuium quid hoc systema sit, exponitur 29. Ontologismus, ut alibi diximus 2, est illud systema, in quo statuitur mentem nostram intueri, sive immediate cognoscere Deum, et ab hac intuitione repetendam esse cognitionum nostrarum originem. i Cf s. Aug., De immort., c. 8, n. 14. 2 Log.j 9q ! beisHhua'bu:„sr sær"t . •> !L ! cnm intimior Deo Tauam "riM™,ebrancb,l"n> mens nostra, quid in Deo est ^e, e 5 'f .s"> De™> et quidl sive exemplaria omnium rJ,U° aM '" De0 sunt eæ, lclligat ex eo auoS „"?' setIu'lur' u' ipsa res in. luit Deum s° „£ ess &?&",D De° vide' Hinc stæssc inteH.gibifa, " si "„ ifo 17' ce,era1ue omn tum quia bufus ew non potest.neque vcr teE [„'% 0n'm Deum mens Per Eum'cognoscere potest Cm rerUm in Eo> ^ SirtSf^? r''4a'e' Præsertim '"•• • lib. II, t. II. tn Dyna., c.' IV),. „_ p ^^ ^ ^ ^ ? ^ Declaratur, quid sibi velit cognitio immediata, seu intuilio Dei 34 Goo-nitio immediata, et directa, prout hic accipitur, est ea qua res cognoscitur in seipsa. Cognoscitur autem aliqua res in seipsa, cum cognoscitur vel per suam essentiam, quæ, prout cognoscibilis est, præsens est potentiæ co^n tnci, vel per eius propriam simihtudinem, a qua facultas cognitrix informatur \ E. g., immed.ata est cognitio lucis, quæ præsens est oculo 3; ltem lapis a visu immediate cognosci dicitur, quia hæc cognitio nt per similitudinem lapidis in oculo immediate denvatam ab ipso laoide ila ut ipsa species lapidis resultet tn ocuto . 35 Huiusmodi cognitio ab ea distinguitur, qua res non in se ipsa, sed in suo sirnili, sive in sua imagine cognoscitur 6, ita ut cc similitudo rei cognitæ non accipiatur immediate ab ipsa re cognita, sed a re aliqaa, in qua remiltat ^ E g., huiusmodi est cogmtio ahcuius homims, qui iu aliquo speculo videtur, quia in hac visione cc non s\milituaoqhominis immediate est in oculc, sed .m^tudo hominis resultantis in speculo 8 ; quapropter imme diata est cognitio imaginis hominis, at non cognitio ipsius hominis, quem illa repræsentat. m 36 Iam, cum intellectus aliquam rem immediate co^noscit ipsam intueri, idest videre dicitur, atque ipsa lmmediata cognitio intellectiva a visione sensitiva nomen accipiens, intuitus, seu visio nuncupatur . 37 Ex his plane colligitur ad visionem intellectivam duo potissimum expostulari : 1°, ut principium per quo res cognoscitur, sit proprium ipsius rei, ahoquin, resnor in se ipsa, ac proinde non immed.ate cognosceretur, l, ui habeafcum re perfectam similitudinem, et conven.entiair "T^f s. Thom., I, q. XII, a. 9 c. Ibid., q. LVI, a. 3 c. 3 Jn Epist. I ad Cor. e. XIII, lect. IV. 4 Jhid s I a. LVI, loc. cit. T.TTT o llid q. XII, a. 9 c. Cf etiam Qq. dispp., De Ver., q. VIII a. 3 ad 17, et in lib. II Sent. Dist. XXIII, q. II, a. 1 sol. "' I, q. lVi, loc. cit. 3 in Ep. I ad Cor., loc. cit. Allff„ctinus o Contr. Gent., lib. III, c. 83. Visus, inqmt s AugustiDnj ad utrumque referendus est, idest et ad oculos et d mentem Lib De videndo Deo, seu Epist. GXLVII ad Pauhnam, c IX, n. lin esse cognoscibili, alioquin non diceretur, ut fnquit |4qmnas, res illa immediate videri, sed quædam umbra 38. lamvero, cum de visione Dei agitur, huiusmodi prinpium nequ.t esse al.quid exlra Deum, nam quidquid st extra Deum, mfin.te distat a Deo, ac proinde esse ne[fuit princ.p.um, ex quo Deus in seipso intelliffilur. Oua)ropter princ.pmm, ex quo visio intellectiva Dei obtineri ►otest non aliud esse quit, nisi aliquid, quod in ipso Deo •t, et quoniam quidquid in Deo est, unum, idemque cum im essenlia re ipsa est, principium, ex quo visio intel;ct.va Dei efiic.tur, est ipsa Eius Essentia, quæ, ut ila camus, yices gerit formæ intelligibilis, ex qua intelleim fit actu mtelligens . Deus, inquit s. Thomas, non nmediate v.deretur, nisi Essentia sua coniungeretur in'lleclu. • . Itaque visio intellectiva Dei est illa aua eus per principium, quod non sit aliud ab ipso Deo, inlligitur uti est in seipso. ! 39. Ontologi pertendunt principium immediatæ visios Dc. non esse ipsam Divinam essentiam, sed vel Esse ^ri,; U! aiU,U, U,baghs ' eius(ue asscc,æ t ^eas ne ssar.as, atque absolutas, prout concretæ, et reales sunt ueo, quæ non al.ud sunl, nisi ipsa Attributa Dei. At Du^US,l!nrSe,,DS0SrP^CissiniUS est> EiuS(lue natnræ pugnat distmclio mter Essentiam, el Esse, vel Atlri ila. Quare si Deus cognosci dicatur ex rerum finitarum tari F?n,0nHe' P?'CSt V^ per divisos conceptus coan Eius Lssent.a, vel Esse vel Altributa; at sl imme L Tr1^ 'iCqU,t co^nosci Ess^ vel aliquod Attri• :!" E™Esscntia simul cognoscatur. Itaque vel lo,, t° m?d.° m Se,PS0 el immediate cognoscitur, vel •m n r1 CS\n SC' ac secundu™ ipsam Essenliam. Ceum etiamsi d.st.nct.o, quam Ontologi comminiscuntur, ei D i Essent.am atque Esse, vel Attributa admitta > tornen, uti cx d.cend.s patebit, semper impossibile .ti ^r&rnnatUrahtCr iaSSCqui >'isionemDei,sive EstVibuta i Dei. Pnnc,p,um hu,us vis,'onis, sive Esse, vel Quodlib. VII, q. i, a. 1 c. !bidlbi IV.Sent:>,Dist XLI> qII, a. 1 sol. " hæc. non potestXd „a_ iral, er cognoscere, ut. est in seipso, seu vidcre Alnni ama enin"ar De • eSCedit im!?'nalitatem cuiuslibef ubant.æ inlell.gentis, nam a Deo, cuius proprium est esse m esse subnstens, quaccumque compositio, et /'as removenda est ; creaturæ auten/inlelligentfs tam mpos tio,nenm,rn,aleS' T ^•'.?S.S ™ seThahZZ COnip!eCtUnlUr> 1u'' • "ntel,ig-e, sivc vidcre llfct,fm°tter SeCUU^a parS: ?emDe sPeciatim quoad i„"eclum bumanum. Jam a nobis ostensum est coenitinm m.ellcct.vam,n homine effici non posse, nM W. ndTm Trn-6^1' ^T ^™0 COnfcrat an ^ "ffi^dam, proindeque ob,cclum proprium intellectui hu m esse non possc intelligibil/purum, sed in.el ligibiL Mraclum a phanlasmatibus 2. Hinc, cum de substan-,.vePrU,'daln,hUSaliauid inteIliSimu> necesse babcmus I mi? TnTla COrPorum' licct ipsarum non sint masmata . Hoc præmisso, e„ argumentum • Intel ner"mrS "n °ei COSnitionem assurgere Z po, sDC,ri 0UaS sPcclessve simililudines, quas ex re d Sbrr'PUit /tqUi C°Snoscere De™ Pcr huiusn ufi nu -P SUS dlversum est, ac lllum per se ipræsen,! " sc> cnSnoscere; nam nulla specics creata -, eM,,°'CStJ)eUm ' Uti est in seEW° ''npo^i", P '" el,cct>"n.humanum naturali.er Deum videre . a. iræterca, anima huraana ad Divinam visionem e Cf s. Thom., I, q. XII, a. 4 c. J- Dynam., c. iV, a. 2, p. 132-135. IqLXXXIV, a. 7 ad 3. I, q. XII, a. li c. rnuos. Curist. Compend. I.' .. levari non potest, nisi toto conamine intcllectus in Deurr intendens a ceteris potentiis, ac proinde a potentiis sen sitivis omnino se abstrahat ; nam, cum Deus sit intelh gibile vehementissimum, non potest noster intellectus Eun videre, nisi tota eius intentio in hanc visionem colligatur et, quemadmodum alibi ostendimus 3, quoties anima to tam vim suam in exercitatione alicuius potentiæ mtendit nullam aliam potentiam exercere valet. Atqui in hoc stati vitæ, in quo anima cum corpore coniungitur, naturahte: ' fieri nequit, ut anima a potentiis sensitivis omnino se abs trahat. Ergo fieri non potest, ut anima naturaliter Deuu videat4. 46. Denique, si anima humana gauderet llja perenni vi sione, quam Ontologi comminiscuntur, destitui non pos set conscientia huius facti interni. Atqui nemo consciu sibi est se hac visione gaudere. Ergo hæc, quam Ontc logi comminiscuntur, visio inter calentis suæ phantasia figmenta amandanda est. Cui argumento maius robur ac cedit ex eo, quod, secundum Ontologos, perennis visi Dei est principium, ex quo cognitionem rerum mens nc stra adipiscitur. lamvero illa visio principium nostrarui cognitionum esse non posset, nisi mens eius conscia e set, quia origo cognitionis per principium menti ignotui explicari non potest. VIII. Nonnulla consectaria Ontologisuii exponuntur 47. Ontologismus ex eo etiam reiiciendus est, quod r; tionalismo, et pantheismo latissimam viam sternit. Atque in primis, rationalismus est illud systema, m qi dogmata Religionis Christianæ ita explicantur, ut nc aliud exhibeant, quam quod intra rationis hmites mcli ditur. lam ex principio visionis Dei facile inferri pote Deum in se videri non posse, nisi videatur eo modo, qi reapse subsistit, ac proinde veritates, quæ mysteria d cuntur, e. g., Trinitas Divinarum Personarum, huiusmoesse, ut in Deo, æque ac veritates naturales, a mente n stra naturaliter cognoscantur 5. i Qq. dispp., De Ver., q. XIII, a. 3 c. 2 Ibid. ^ Dynam., c. I, a. 9, p. 10o. Cf s. Aug., De Gen. ad litt., lib. XII, c. 27, n. 55. 5 Summa Bonitas Dei, inquit s. Thomas, secundum modura, q • 4£,Prat'.lerea ' naluralem ordinem cum supernalurali m Onlologismo confundi ostendi.ur eliam eTeo ouod l T s.o De. natural.s est inlelleclui creato, ipsi opus^non ->sset lumtne glonæ, ut ad bealificam visionem per/en at • riiTft . I'S'° b^lifica "°n esset Pernaluralis. Nos c.mus Onlologos, hunc errorem eflWere volontes staucre discnmen inter visionen, beatificam, e visionem laluralem De.,n eo, quod per hanc obscure, per illam bus Z illf °SC,lUr; lei '" e°' ouod Per anc m ino il)us, per illam maionbus gradibus Deus videlur • vel SE5 'ne°' flU0(1 in visione beatifica Essentia Dei .(lctur, in v.sione autem naturali limites intellectus creati causa sunt, cur Esse, vel Atlributa Dei, non autem ius Essonlia videalur. 49. At ipsi ludunl vcrbis. Etenim quoad primum, vio ahcuius obiecti consislit in immediata eius cognitio Vrir^ '" S'" • n S.nt., Dist. X.XIII, Ql. Hspp., De Ver., q. XVIII, a. 1 c.- intellectus creati impedirent, quominus ipse in visione naturali Dei essentiam videret, intellectus creatus ne per visionem quidem beatificam Essentiam Dei videre posset, quia ipse, cum ad visionem beatificam extollitur, limitibus circumscribi non desinit. 50. Præterea, ontologismum cum pantheismo arcte colligari evincitur hoc argumento1: Res sunt intelligibiles, quatenus sunt; quapropter quidquid habet esse m se, intelligibile etiam in se est, et quidquid non est lntelhgibile in se, non habet esse in se. Atqui secundum Ontologos res non sunt intelligibiles in se, sed dumtaxat in Deo. Ergo earum esse non est ipsis proprium, sed, uti Pantheistæ dicunt, est quædam derivatio ipsius Esse Dei. Quod argumentum ut clarius perspiciatur, advertendum est res creatas, etsi a Deo pendeant, tamen propria realitate gaudere; quapropter illæ, si considerentur prout creatæ sunt, ab Eoque pendent, nonnisi per actum creativum Dei intelligi possunt; sed si considerentur in realitate sui propria, et distincta a Deo, dicendæ sunt intelligibiles ln se, et non in Deo; quod si negetur, uti revera ab Ontologis negatur, ipsas propria realitate destitui dicendum est, ac proinde pantheismus ab Ontologis vitari nequit. IX. Argumenta Ontologorum disiiciuntur 51. Obiic. 1° Intelligibile est obiectum proprium intel Giobertius in sua epistola, cuius titulus, Demofilo alla giovine Italia, sine ulla ambage professus est pantheismum esse unicam solidam philosophiam. 2 Gum hæc sint ontologismi consectaria, Sanctæ Romanæ, et Universalis Inquisitionis Congregatio (die 18 sept. 1861) declaravit tuto tradi non posse hanc propositionem, Immediata Dei cognitio, habitualis saltem, intellectui humano essentialis est, ita ut sine ea nihil cognoscerepossit;siquidemestipsumlumenintellectuale;etNea\)o\itMi&e Regionis Episcopi in Epistola collectiva ad Clerum sæcularem, et regularem suarum Dioecesium (die 29 iun. 1862), illius definitionis mentione facta, inter absurda philosophica systemata Ontologismum numerarunt, atque ab hoc cavendum præceperunt. Cf La Scienza e La Fede, vol. XLVI in Append. p. XXXII. Nullum autem esse dubium, quin illud S. Congregationis decretum ad ontologismum spectet,ostendit P. Thomas Zigliara, 0. P. (a Leone PP. XIII S. R. E. Cardinaliurn in Collegio adlectus), Della luce intellettuale e dell' ontologismo, t. II, lib. III, Della luce oggettiva, part. II, c. XI, p. 148 sqq, Roma leclus humani. Atqui Deus est sumræ intelligibilis. Ergo Dcus est obiectum maxime proprium intellectus, ac prol inde immediate ab eo cognoscitur. 52. Resp. Dist. min., Dous est summe intelligibilis in | se, conc. mm., quoad nos, neg. min. Neg. cons. Et sane, res sunt intelligibiles in se, quatenus sunt immateriales , ac proinde Deus, quippe qui est maxime immaterialis, t est etiam in se maxime intelligibilis. At vero intelligibii litas rerum, si referatur ad intellectum, qui eas intelli git, spectanda est non ex natura rerum, sed ex natura, ipsius intellectus; nam, ut sæpe diximus, modus cogno scendi sequitur naturam cognoscentis. Atqui immaterialitas jDei est extra genus cuiuscumque intellectus creati. Ergo, etsi Deus sit in se maxime intelligibilis, tamen huiusmodi |non est, si ad intellectum nostrum referatur2. 53. Obiic. 2° Deus arctissimo vinculo cum mente hujmana coniungitur. Atqui hæc coniunctio necessario effijcere debet, ut mens humana Deum immediate cognoscat. ! Ergo. 54. Resp. Dist. mai., ut causa cum effectu, nempe, ut sustinens eam in esse3, conc. mai.; ut obiectum immediatum polentiæ cognoscitivæ, neg. mai, neg. min. Neg. cons. Re sane vera, satis non est rem esse menti humanæ præsentem, ut illam cognoscat, sed oportet illam esse præsentem tamquam obiectum cognoscibile, quod mentcm ad sui cognitionem determinat. Hoc autem modo Deum esse naturaliter præsenlem nostræ menti haud possibile est, quia Jpse vires intellectus creati infinite supergredilur4. 55. Obiic. 3° Deus est illa Veritas, per quam ceteræ vcritates cognoscuntur. Atqui veritas huiusmodi irametliate cognoscitur. Ergo. 56. Resp. Dist. mai., ita ut sit causa, propter quam alia cognoscimus, conc. mai., ita ut sit obiectum, quo co£ito, aha cognoscimus, neg. mai.; sub eadem distinctioe conc. et neg. min. Neg. cons. 5 Enimvero res per Deum | Cf Dynam., c. IV, a. I, p. 131. Cf s. Bonav., /n lib. I Sent., Dist. III, p. I, a. 1, q. 1 resol. ^ Qq. dispp., De Ver., q. VIII, a. 3 ad 7. Cf s. Bonav., In lib. II Sent., Dist. III, p. 2, a. 11, q. 2 ad 3 ; iJist. x, a. I, q. 1 ad arg. Propter Deum, ad rem inquit s. Thomas, alia cognoscuntur, IDEALOGIA a nobis intelliguntur, turn quia Deus res ita condidit, ut sint potentia intelligibiles, tum quia nobis largitur, et in nobis conservat lumen, quo res intelligimus f. At vero inde haud inferri potest nihil a nobis cognosci posse, nisi primo Deum cognoscamus. Etenim, sicut res a nobis cognoscuntur, quin prius cognoscamus lumen ipsius nostri intellectus, quod est causa proxima nostræ cognitionis, ita necesse non est primo cognosei Deum, qui est causa prima nostræ cognitionis, ut ceteræ res cognosci possint2. 57. Inst. Secundum s. Augustinum, omnia in luce Primæ Veritatis cognoscimus et per Eam de omnibus iudicamus. Ergo. 58. Resp. Hunc s. Augustini locum iam s. Thomas explicavit. Dicendum, ait, quod omnia dicimur in Deo videre, et secundum Ipsum de omnibus iudicare; in quantum per participationem sui luminis omnia cognoscimus, et diiudicamus. Nam et ipsum lumen naturale rationis participatio quædam est Divini Luminis; sicut etiam omnia sensibilia dicimus videre, et iudicare in sole, idest per lumen solis. Sicut ergo ad videndum aliquid sensibiliter non est necesse, quod videatur substantia solis, ita ad videndum aliquid intelligibiliter, non est necessarium, quod videatur Essentia Dei 3 . 59. Obiic. 4° Plerique illorum, qui denegant menli nostræ immediatam cognitionem Dei, docent notionem Dei ex rebus crealis in nobis gigni. Atqui haud fieri potest, ut notio Dei a rebus creatis suppeditetur. Ergo immediata cognitio Dei admittenda est. 60. Resp. Neg. min. Et sane, non solum omnes Scholæ Doctores, sed etiam omnes Patres aperte docuerunt non sicut propter primum cognitum, sed propter primam cognoscitivæ virtutis causam ; I, q. LXXXVIII, a. 3 ad 2. t Cf Dynam., c. IV, a. 5, p. 142. 2 I, q. LXXXVIII, a. 3 ad 1. — 3 I, q. XII, a. 11 ad 3. 4 Nos, ait s. Thomas, aliter Deum notum habere non possumus, nisi ex creaturis ad Eius notitiam veniamus (Qq. dispp., De Ver., q. XVIII, a. 2 c; cf. ibid., a. 1 ad 1, et I, q. LXXXVIII, a. 3 c). Atque FIDANZA : Cognoscere Deum per creaturam est elevari a cognitione creaturæ ad cognitionem Dei, quasi per scalam mediam. et hoc est proprie Yiatorum ; In lib. I Sent., Dist. III, p. I, a. 1, jmentem nostram a rebus creatis ad cognitionem Dei ascenjtJerc. Satis sit hæc pauca s. Augustini afferre: In simijlitudine sua Deum quæramus, in imagine sua Creatorem agnoscamus . Quomodo autem ex creaturis in cognitiofæm Dei deveniamus, in Theodicea explicabimus. X. De Psychologismo rationali 61. Hoc nomine appellatur illud systema, quo statuitur Dngincm nostræ cognitionis ita progredi, ut primo in:ipiat in sensu, secundo perficiatur in intellectu 2 . 62. Hoc systema ab Aristotele profectum omnes Schoastici post s. Augustinum 3 propugnarunt . Quomodo au:em nostra cognitio oriatur a sensibus, et perficiatur in ntellectu, lam explicatum, et ostensum a nobis est in Pynamilogia 5. Hic dumtaxat in memoriam revocantes ea, jjuæ ibi statuimus, demonstramus cognitionis nostræ raliionem non nisi in hoc systemate reddi posse. ^ 63. Origo nostræ cognitionis non nisi secundum ^cholaslicorum systema explicari potest. Probatur. \\\u& solum systema ad explicandam originem jognitionis intellectivæ est accommodatum, quod responlet naturæ nostri intellcctus; nam oportet, quod cogniio fiat secundum modum cognoscentis 6 . Atqui intelectus humanus est eius naturæ, ut ad primas cognitioics rerum pervenire non possit, nisi dicalur ipsas oriri i sensu, et per vim intellectivam perfici. Ergo origo inellectivæ cognitionis non nisi secundum systema psychoogicum rationale explicari potest. . 5 resol. Quam ob rationem Concilium Vaticanum hanc edidit d§nitionem: Si quis dixerit, Deum unum, et verum, Creatorem et lominum nostrum, per ea, quæ facta sunt, naturali rationis humtæ lumine certo cognosci non posse, anathema sit ; Const. doqmat. e bide cathol., Sess. III, Canones, n. I, S I. IJn loan. Evang. c. F, tract. 23, n. 10. Cf De Civ. Dei, lib. VIII, .; Confest.. lib. VII, c. 17, n. 23 et alibi passim. Qq. dispp., De Ver., q. I, a. 11 c. Cf Enchir. ad Laurent., c. IV, n. 1; De vid. Deo, c. 17, n. 42, 4; ^ Genad litt-> ljl>V, c. 12, n. 28; De Imm. an., c. 10, n. 17. M, præ ceteris, s. Bonav., De septem itin. æt., Itin. 3, d. 4, />c septem donis Spiritus S., De dono intell., c. I. Cf c. IV, passim. 8 I>i Ub. I Sent., Dist. XXVIII, q. I, a. 2 sol. 216 IDEALOGIA 64. Minor huius argumenti probatur hoc modo: 1° Na-\ tura nostri intellectus expostulat, ut eius cognitio a sen-j sibus oriatur . Enimvero unicum est in homine princi-j pium, quod res sentit, atque intelligit, quia, ut in A/U/iro-l pologia ostendemus, una, eademque est anima, quæ si-l mul sentiens est, atque intelligens, idest, quæ est sub-l iectum intellectus, et simul cum corpore subiectum fa- 1 cultatum sentientium. Ex hac coniunctione facultatum intelligentium cum senlientibus efficitur, ut obiectum nostro intellectui proportionatum non sit intelligibile purum. sed essentia rerum, quæ esse suum in materia habent5. Atqui res, quæ habent esse suum in materia, non nisi per potentias sentientes apprehendi possunt. Ergo nalura intellectus humani expostulat, ut nequeat assequi obiectuno sibi proprium, nisi cognitioni eius cognitio sensitiva præcedat . 2° Natura intellectus etiam expostulat, ut eius cognitio, quæ a sensu initium sumit, ab ipsa vi intellectiva perficiatur. Re quidem vera, etsi intellectus cum corpore coniungatur, tamen ipse actiones suas sine ullo corporeo organo exercet 5. Ex hoc consequitur proportionem intei intellectum, atque obiectum eius proprium intercederf non posse, nisi statuatur, essentiam rerum apprehendi afc intellectu, non prout est in hac, vel in illa re singulari. quemadmodum apprehenditur a sensibus, sed altiori modo, nempe prout abstrahitur a quavis conditione materiali; ac proinde sub universali ratione consideratur 6. Atqui. si res ita se habet, agnoscenda est in mente aliqua virtus superioris ordinis, quam sensus, ut per ipsam cognitic sibi propria perficiatur, eaque est, quæ nomine intellectus agentis designatur 7. Ergo. 65. Obiic. 1° Intellectus, antequam efformet speciem iatelligibilem, aut cognoscit rem, quam species repræsentat, aut non cognoscit. Atqui primum dici nequit, quia Naturale est homini, ut per sensibilia ad intelligibilia veniat quia omnis nostra cognitio a sensu initium sumit ; I, q. I, a. 9 c 2 Cf Dynam., c. IV, a. 2, p. 134. 5 Ibid. Cf ibid., p. 132-135, ubi idipsum ex testimonio experientiæ etiarr comprobavimus. s Cf ibid., a. 1, p. 131-132, et a. 12, p. 161-163. ispecies rerum haberet, antequam ipsas efformaret ; nec secundum, quia intellectus nequit in seipso effingere species lllarum rerum, quas non cognoscit. Ergo origo nostræ cogmtionis secundum systema Scholasticorum exniicari nequit f. ' 66. Resp. Dist. secundam partem maioris, aut non co~ \gnoscit, ita tamen, ut obiectum polentia intelligibile sit ipsi præsens, conc, secus, neg. Dist. item secundam partem minoris, nequit effingere etc, si obiectum potentia inteiiigibile non sit lpsi præsens, conc, secus, neg. Neg cons IKe qu.dem vera intellectus agens efformat speciem intelJligibilem per abstractionem, quam naturaliter exercet sujper phantasma, et hæc abstractio non est ea, quæ dici\tur per modum compositionis, et divisionis, sed ea, quæ lieitur per modum simplicitatis z ; quapropter, uti' alibi idnotavimus 3, intellectus agens ad efformandam speciem mtelhgibilem expostulat, ut phantasma, quod est obiectum Mentia intelligibile, præsens ipsi sit, sed non ut ideam 'ius lam in se habeat. Nemini autem negotium facessat, Jbanlasma, quod ad facultatem sensitivam pertinet, esse iræsens intellectui. Nam, quamvis animæ facultates in-' er sese dislinguantur; tamen una est earum radix, unum-' [ue eo, quo explicavimus, modo, est ipsarum subiectum •empc essentia anime 4; ita ut non facultas, sed anima er lacultatem aliquid agere proprie dicatur \ Hinc fit, il anima, cum per facultatem sensitivam phantasma perPit, per intellectum agentem exerit actionem abstractiam m phantasma. 67. Obiic. 2° Intellectus essentiam communem ab indiiau,s abstrahere non potest, nisi prius nota communi, e idea gcnerah potiatur. Ergo lantum abest, ut abstra"o^eilormet ideam universalem, ut potius. ipsam expo 68. Resp. Neg. ant. Etenim abstractio non expostulat, mCnAdir r/T phil'f usum Semin' Lu^ MetP™ ™ b e "' a'JFere eodem argumento usus est ctiam Rosmi • w ; ' sczIv e- ! a16' et ?. MDynam., c. IV, a. 5, p. 140.-3 lhid p. 140 >id. Dynam., c. I, a. 4, p. 101. Cf s. Thom. Qq. dispp., De Ver., q. X, a. 9 c. 6 Cf Rosmin., loc. cit. ut anima præviam cognitionem notæ communis, sive no| lam communem cognitam tamquam communem habeat; \ sed tantum ut animæ obviam fiat obiectum, ex quo inj teliectus aliquid, quod pluribus commune sit, seiungere i potest. Hoc obiectum est phantasma, in quo essentia, quæ i pluribus communis sit, latet. Quocirca abstractioni, ut j diximus, præcedit cognitio concreta, quæ essentiam una i cum conditionibus individuantibus exhibet. Intellectus autem ope abstractionis sibi conficit notionem illius essen| tiæ exemptæ a conditionibus individuantibus; deinde re1 flectens super hanc notionem apponit illi notara communem, sive rationem universalitatis . Cognitio igitur notæ communis efficitur ex reflexione super notionem, quam intellectus ope abstraclionis adipiscitur; tantum abest, ut \ abstractioni præcedat 2. CAPVT II. De connexione sermonis cum cogitatione I. De signis in universum 69. Antequam controversias, quæ circa connexionem sermonis cum cogitatione agitatæ sunt, dirimamus, nonnihil de signis in universum, et maxime de natura signorum, quæ verba appellantur, in antecessum dicamus o portet. Signum, ut s. Augustini verbis utamur, a est res, præter speciem, quam ingerjt, sensibus, aliqu^MjEaciens \ in cogitationem venire^/Ex quo intellrgifur trm m quo libet signo nobis occurrere, scilicet unum, quod aliquic significat, aiterum, quod per ipsum significatur, et quod dam principium, cuius vi e cognitione unius ad cogm tionem alterius progredimur. E. g., in fumo, prout es signum ignis, tria occurrunt, nempe fumus, qui lgnen significat, ignis, qui a fumo significatur, et relatio intei utrumque, quatenus fumus ab igne producitur. 70. Si signum non ex voluntate hominum, sed natur; sua ad rem, quam significat, refertur, dicitur natwrale e. g., fumus est signum naturale ignis; sin ad rem signi i Cf s. Thom., I, q. LXXXV, a. 2 ad 2. ^ Alias obiectiones exsolvimus p. 141-142. 5 De Doctr. Christ., lib. II, c. 2, n. 1. icatam referatur ex hominum instituto, dicitur arbitratium; e. g., oliva est signum arbitrarium pacis 71. lam homo quibusdam signis, seu mediis sensilibus |.pushabct, ut conceptiones suas extrinsecus proferre posjit.Wam 1 lpse est animal naturaliter politicum et ociale, ac proinde necesse est quod conceptiones unius fominis mnotescerent aliis . 2 Mcdia, quibus homines -pus nabent ad cogmtiones sibi invicem manifestandas, ensibiha esse debent, quia ipsi non ex spiritu tantum ed ex corpore etiam constant 2. 72. lam signa, quibus homines cogitationes suas cum ttns communicarc valent, sunt gestus, voces, et scriptura. fcestus sunt motus corporis ad animi cogitationes patefaktndas comparati^Sl ex instinctu naturæ fiant, sunt naUrales; sin ex conventione inter homines facta confWan\ ar, artificiosi. E. g., oculi torvi naturaliter significant r^^nem, et motus corporis, quibus surdo-muti deW h....,0(ue,æ supplcnt, cogitationes ipsorum artificiose 73. Gcslibus longe præstantiora sunt verba. Verbum ;lZX,'f S /?"S a?ticulatus ad animi cogitalioncs expriScoS, Z L0CUtl° au'em.in verboru,, seu vocum 8 Thom^'n Si bel1^. unt Z " ^er,-U ' "• '• . WSCSSn.C^dr.e didtUr Ctiam ". 1ia deno.a, rongUur?a s,TiZ"a ?r ' "T V°CibuS "P'entanlur. Uinc diees quæ i I \Z,.„,deoral>htm> a™ significantur ideæ, non voro N verlrdrbcu7uPirnS,Cntant-.HaCC ScriD,ura inogr.phic. potcst a.quainnoce^rner?0 f ' '"'"Z"' VcI sm6°ea, cuiusmodi est,uuainnocentiapercolumbam,velferacitasperspicamsi,-ni.icatur. Utrum yoces sint SIGNA NATVRALIA, AN ARBITRARIA [sive NON-NATVRALIA (Grice)]. Nonnulli veteres, inter quos Heraclitus , docuerunt verbis sive ore prolatis, sive scriptis ex natura sua, non ex instituto hominum res significari. Aristoteles 2 oppositam sententiam tradidit, quam Scholastici 3 post Ecclesiæ Scriptores tuiti sunt. Scilicet nomina, secundum ipsos. conceptionibus nostræ mentis oportet quidem ut respondeant. Elenim, quoniam ratio, quam significat nomen. est conceptio intellectus de re significata per nomen 4 . illud consequitur, quod intellectus . . ., secundum quod apprehendit res, ita significat per nomina 5 . At vero. quoniam ex variis nominibus iliud eligere nobis licet quod cum ea ratione, qua rem apprehendimus, magi Lu&d- Batav. 2 ; . I \ tr' Chrtst- Iibn, c. 2, n. 3. alesc 2 Phtl°8' "" U$ premiers ohJets ds connaissances mo adhibetur, nisi ad significandum verbura interius, quod ræns, rem concipiendo, efformat f, et non donatur nomine verbi, nisi propter relationem, quam cum verbo in teriori habet2. 79. 2° Nomina, uti iam a nobis ostensum est, non significant res ex natura sua, sed ex arbitrio hominum : unde nominibus præcedere debet cognitio rerum cum ir. illis, qui nomina rebus imponunt, tum in iis, qui ea audiunt; in illis quidem, quia homines, nomina rebus imponere volentes, non aliter possunt denominare res, quair prout ipsas cognoscunt; in istis autem, quia ii, qui no minarebus iam imposita audiunt, non possunt scire, quasnam res ipsa significent, nisi cognoscant conceptus, quoi eorum auctores significare voluerunt. Apposite s. Augu stinus: Magis signum, re cognita, quam, signo dato ipsa res discitur3 . Atqui si cognitio rerum, quas no mina significant, expostulatur cum in illis, qui nomini instituunt, tum in illis, qui ea audiunt, profecto ea noi sunt necessaria ad cognitionem rerum adquirendam, alio quin dicendum foret causam, sive conditionem sine qui non, posteriorem esse effectu ; quod perabsurdum est Ergo. . Mens humana ad cognitionem reflexam e/ ficiendam non indiget sermone, aut alio quovis societati subsidio . Hæc propositio statuitur contra Rosminium 5, Giober tium 6, P. Romanura e S. I. \ et Scriptores Lovanienses Hi docent mentem nostram non posse reflecti super co gnitionem rerum iam sibi comparatam, nisi a sermon ne,0"g^ quidem, ac exquisitæ lstitutioms sociahs præsidio, sed ope Divinæ Revelationis consequi otest Annales de phil. chret., Ser. 4, t. VII, et t. VIII. La tradizione, e i Semipelagiani della Filosofia, c. I, ret \ r " IV. De origine sermonis 84. Coronidis loco quæstionem de origine sermonis inuere par est \ 1° Sententia Rationalistarum, qui contendunt sermonem ijiomine sponte sua exsurrexisse 6, omnino absurda est, on d,parUiSs T^l™' Sw V °Pinion dli Dr Stuard etc, RefuIkI:-, 5 • Non Dauca exer"pla surdo-mutorum hoc com m s VX^ Tdt Deerandum {De V °duc°™ • Pars v> linxviu. "æc °uæst,Vum altera> auam antea eicussimus, logieam Z riT nT' ETim hæC duo' nemPe hominum TnTeK • hominP quodammodo sine sermonis auxilio evolvi, simulum on ?°n P°SSe viribus Suis conficere illuu imi egre Hanc in,pT Serm°niS inventione™> secumnon pugnant. ten^, c! xT nUpernme ProPu?u^it Renan, m V origine primo, quia si sermo sponte sua in nobis oriretur, noil tantum unius labii omnes homines essent, sed ne ulla qui } dein disciplina indigerent ad sermocinandum, qua reaps indisere nemo diffitetur; secundo, quia firmurn ratumqu est hominem non Ioqui, priusquam alioS loquentes audiat 2° Non desunt Philosophi catholici, qui docenl homine sermocinandi virtute a Deo donatos et ratione utentes potuisse per se invenire sermonem. Ipsi autem sententiaii suam adstruunt hoc modo: In primis dubitari nequit, qui aliquis homo rem sensibus occurrentem quodam signo alii communicare potuerit. Gum autem innata vi loquendi præ ditus esset, nihil repugnat eum protulisse sonum syllabi quibusdam distinctum : iam ipse, cum ratione polleret potuit determinare illum sonum ad rem commonstratar significandam, idque eo consilio præstare potuit, ut a aliis intelligeretur; et hi, cum etiam ratione fruerentur potuerunt intelligere, qua mente alter sono illo usus sii Nec quidquam difficultatis in significandis rebus spiritu; libus nancisci potuit; nam sicut, aiente s. Thoma, sens bilia intellecta manu^lucunt in mtelligibilia Divinorum !) ita ex nominibus significantibtfs res materiales proceder potuit ad nomina, quibus res spirituales denotantur, prac sertim propter quamdam analogiam, quam homo inte utrasque res percipit. 3° Quod si historia consulatur, una cum loquela ipsur sermonem primo homini a Deo infusum fuisse dicimus tum quod ex pluribus Sacræ Scripturæ locis id sat colligitur; tum quod primus homo, utpote non solum ai ctor, sed etiam institutor totius generis humani, a De constitui debuit ætate perfecta ; iisque omnibus instn ctus, quæ ad aliorum instructionem, et gubernationei pertinent 2, ideoque etiam sermone, cuius longe maic necessitas ingruebat 3., i Qq. dispp., De Ver., q. X, a. 6 ad 2. 2 Cf s. Thom., I, q. XCIV, a. 3 c. 3 Non desunt pauci inter ipsos Catholicos, qui sermonem a pi mo homine excogitatum fuisse opinantur, atque hanc sententiam s. Gregorio Nysseno in Orat. XII Contr. Eunom. traditam esse p tant. At de huius sancti Doctoris sententia vid. Al. Coletta in gregio op. SuW origine del linguaggio, § III, p. 44 sqq, Napoli De vi, et potestate notionum universalium Aitr. I. Diversæ Philosophorum opiniones recensentur 85. Tres sunt circa vim universalium Philosophorum p.mones quæ vocari solent Nominalismus, ColceZt hsmus et Reahsmm. Nominalismus in eo consLtUauod enegat rænt. humanæ conceptiones universales c stmuU mversaha vel esse pura noraina, seu flatus vocs/tI eSSe '.oces aut conceptiones, quæ, si spectenlur in sc s„„ ;.ngulares, sed un versales dici possunt ex eo quo d plSres Hto nf, Tl d.es,n.ant' Hæc ^ntentia prior raodo tvl kam s Jc xivTS ;,,°ISteri0ri modo a Guilielmo OMmo sæc. XV, el, securulum verisimiliorera sententiara tiam a Roscelhno, aliisque Nominalibus sæc XI os Ar.stoteles, et post eum præcipui Scholæ Doclores",nnn,linIS;Jf"m'ni significatione racare. inte e,,„ '° if6"' US 'deaS existere eitra •"•. ™ in Deo, eruduos nulio non tempore fuit, eaque adhuc sub iudice est docuerunt illas habere fundamentum in re, sive esse actu in intellectu, sed fundamentaliter, et potentialiter in rebus1. 88. Ex recentibus Nominalismum secuti sunt omncs Sensistæ; Realismum omnes Pantheistæ, ex eo quod ipsi blaterant universalia esse emanationes Dei; Conceptualismum autem primo modo acceptum, omnes, qui originem idearum vel per ideas innatas, vel per formas ipsius subiecti cogitantis explicarunt; altero autem modo acceptum, omnes, qui s. Thomæ placita in explicanda origine idearum sectantur. Nominalismus et Realismus refelluntur. Nominalium sententiam a veritate aberrare ostenditur sequenti Universalia neque sunt voces, cuiuslibet conceptionis expertes, neque sunt voces, aut conceptiones singulares, quibus non aliquid universale, sed plura individua designantur. Probatur prima pars. Signum, prout signum est, ad aliquid, quod significat, necessario refertur ; ac proinde absurdum est esse signum, quod nihil significet. Atqui yoces nihil aliud sunt, quam signa, quæ conceptiones animi significant. Ergo absurdum est universalia esse voces, quæ nullam conceptionem significant. 90. Probatur altera pars. Singula individua proprios conceptus habent, quia singula individua qualitatibus sui propriis gaudent, per quas alia ab aliis discriminantur, Atqui ea, quæ proprios conceptus habent, propriis no minibus designanda sunt. Ergo fieri non polest, ut no mine, et conceptione singulari plura individua designen tur. Attamen, quoniam omnibus individuis quædam qua litates communes sunt, unica conceptio potest repræsen tare eorum qualitates communes, atque unicum nomei potest illas significare. Itaque vox, sive conceptus com munis non designat plura individua, sed quidquarn plu rium individuorum commune. 91. Utraque propositionis pars confirmatur ex eo, quod ut Leibnitius ait, admissa sententia Nominalium, eyer tuntur scientiæ, et Sceptici vicere 2 ; siquidem scien i Gonceptualismus, hac altera ratione explicatus, realismus ten peratus etiam vocari solet. 2 Præf. ad JSiz., tiæ, ut sæpe innuimus, sine enunciationibus universalibus cxistere non possunt. 92. Sententiam Realium, quocumque modo explicelur, absurdam esse h.s duabus propositionibus evincitur 1 rop. 1 . Umversaha nequeunt esse aliquid actu existens, et ab ipsis rebus singularibus omnino separatum. Irobatur Universalia, e. g., humanitas, essentias rerum conslituunt, al.oquin non possent prædicari de rebus seicundum essentiam. Atqui repugnat essentiam actu esse bitra rem, cuius essentia est, quia res sine essentia esse iiequ.t. Ergo fieri non potest, ut universalia omnino a rebus discreta, et seiuncta actu existant. 93. 2a. Universalia non existunt actu in rebus sinfulanbus. Probatur. Quoniam universalia, uti diximus, essentias •crum constituunt, si ipsa actu existerent in rebus sinjulanbus, consequeretur rebus singularibus essenliam in.versalem inesse ; et quoniam quælibet res per essenlam suam eflicitur id, quod est, res singulares, quippe [uæ essentia umversali gauderenl, simul singulares, et in.yersales dicendæ forent. Atqui id repugnat. Ergo. I ^4. ltaque, etsi essentia universalis non sil, uti antea Hemonstravimus, omnino seiuncta a rebus; tamen ipsa in jebus singulanbus actu non invenitur, prout est univerlaiis, sed prout a qualitatibus singularibus in unaquaque e determ.natur. Exemplo rem declaremus. Si humana !>atura, prout est universalis, esset actu in individuo, puta p .aocrate, Socrates esset species humana. Ex quo illud uam ttuit, quod S1 tota species humana esset in Socrale, ocrates simul experirelur affectiones omnium individuouni nominum. Ita, si tota species humana esset in So aie consequitur, ubicumque est humanitas, esse etiam ocratem, ideoque Socratem esse simul Romæ, Athenis, in omnibus locis, in quibus singuli homines versantur; iuæ omma sunt manifeste absurda. Aut. III. De Conceptualismo 9o. Sententiam Conceptualium non quidem priori modo secundo inodo acccptam veritati esse consentaneam Pm,0?a 'rr °,ie sequeutium propositionum colligiiur: lUlbtL: ' U™vers?}™ ™n sunt universales conccptiones ucllectus, quibus nihil obiectivi respondct. Probatur. Si universalibus conceptionibus nihil obiectivi, et realis responderet, dicendum esset conceptiones universales ex ipsa rerum natura haud depromi. Atqui id repugnat. Ergo. 96. Minor ita demonstratur. Si conceptiones universales ex ipsa rerum singularium natura haud depromeren-i tur, impossibile foret cunctas res singulares in quasdam species, et genera digerere, e. g., Socratem ad speciem humanam, non vero ad belluinam, et contra ea bucephalum ad belluinam, non vero ad humanam referre, atque utrumque generi animantium accensere. Si nihil est in Socrate, quod eum a bucephalo distinguat, eccur vel quilibet e plebe in Socratem incidens eum pro homine, el non pro bellua habet ? Non certe ex conventione, tum quod experimur in eo etiam illos consentire, inter quos nulla conventio facta est, tum quod conventio circa quædam dumtaxat individua, non vero circa omnia existere posset. Necesse igitur est aliquid esse in rebus singularibus, cuius gratia homines sine ulla conventione res ac easdem species, eademque genera reducunt. 97. Gonfirmatur propositio ex eo, quod, posita horun Conceptualium sententia, nulla scientia obiectiva existerr potest. Etenim, cum scientiæ sine universalibus conceptio nibus existere nequeant, vis cuiuslibet scientiæ vi con ceptionum universalium respondere debet. Ergo, si uni versalibus conceptionibus nihil realis, et obiectivi respon det, scientiæ quoque nihil exhibere possunt, quod in re rum natura sit, ac proinde intra idearum ambilum con cludantur necesse est. 98. Prop, 2a. Universalia actu sunt in intellectu, sed [m damentaliter in rebus. Probatur la pars. Natura rerum, ut s. Thomas argi mentatur \ vel dicitur habere rationem universalitatis i se, nempe absolute spectata, vel in rebus singularibui vel in intellectu. Atqui non primum, nam quidquid cor venit naturæ rerum absolute spectatæ, e. g., homin prout homo est, convenit omnibus individuis illa corr prehensis ; quocirca si natura humana, prout est natur bumana, haberet rationem universalitatis, universaiiU i De ente et essentia. mveniret cuilibet individuo homini, id quod absurdum ;t. Non alterum, quia quidquid est in individuo, deterinationes individuales habet, ac proinde non invenitur co communitas aliqua, scd quidquid est in eo, indivijalum est !. Restat igitur ut universalia actu in intelctu existant. 99. Confirmatur. Notiones universales, ut in scholis tratiir, fiunt per abstractionem, et intentionem universalita; . Per abstractionem, quatcnus intellectus avocat cogitionem ab individuis, in quibus aliqua natura invenitur, it invenm potest, et non aliud cogitat, nisi ea, quæ sentiahter lpsam constituunt. Per intentionem universaatis, quatenus mtellectus reflectitur super abstractam itioncm lllius naturæ, et cogitat ipsam ad plura indidua mdeterminate referri posse. Atqui abstractio, et intitio univcrsalitatis non nisi opus intellectus sunt. Ergo nversal.a actu non alibi, quam in intcllectu, esse cenndum est 3. 100. Probatur 2a pars. Natura, quam intellectus abstrami a conditionibus singularibus, atque universalem coat, eadem est, ac illa, quæ determinata conditionibus igulanbus m rebus invenitur, adeo ut illa vere præditur de singulis mdividuis, puta cum dicimus, Petrus Jiomo Atqui si ita se res habet, liquet intellectum in >is rebus tundamentum invenire, ex quo naturam ipsis mmunem velut universalem considerat. Ergo universa fundamentaliter sunt in rebus P^T.Vn,"."0™-' '' q' LXXXVI' " ' cel vel H?o ne sul quod bu.namtas apprebendatur sine individualibus con s T,! r?VPSam abStrahi' ad uod 8euitur unio n dU humanitati . secundum quod percipitur ab in CRITERIOLOGIA Ad Dynamilogiam illa etiam, uti diximus ', tractatio spectat, qua inquiritur, quid roboris nostræ animæ facultatibus insit ad certam veritatis cognitionem gignendam. Hæc, maximi quidem momenti, tractatio CRITERIOLOGIA nuncupatur, quia facultates cognoscendi, ut mox dicemus, prout veritatem rerum nobis patef aciunt, criteria veri appellantur. Philosophi, qui mentem humanam illis, quibus prædita est, cognoscendi instrumentis, veritatem sine ulla erroris formidine assequi posse negarunt, aut nondum assecutam esse contenderunt, Sceptici, sive, ut latine dicitur, Observatores vocati sunt, eorumque sententia Scepticismus audiit. 2. Itaque in huiusmodi controversia hunc ordinem adhibebimus. Primo, statutis quibusdam notionibus circa criteria veri in universum, singulorum criteriorum vim tuebimur. Deinde universam scepticismi rationem refellemus. Denique, quoniam facuitates cognoscendi inspici possunt non solum in se, seu absolute, sed etiam moraliter, idest una cum illis adiunctis, quæ illarum usum perturbare solent, inquiremus, quænam vis ipsis moraliter inspectis insit. De criteriis veri in universum spectatis I. De reritate, ac variis animi circa illana statibus 3. Investigaturis instrumenla, quibus veritatis certam cognitionem assequimur, opus nobis est in ant ecessum definire, quid sit veritas, et quotuplici in statu circa eam mens humana versari queat. Veritas, prout refertur ad mentem, quæ illam cognoscit, dicitur logica, et posita est in eo, quod mens cum re cognita, prout hæc in se est, consentit. Quare a s. Thoma definitur: Adæquatio intellectus, et rei, secundum quod intellectus dicit esse, quod est, et non esse, quod 1 3.non est . Iam veritas logica distinguitur tum a veritate metaphysica, quæ, uti in Ontologia dicemus, est convenientia rei cum intellectu, a quo producitur ; tum a veritate morali, quæ est convenientia vocum cum rebus, quæ per illas significantur z . 4. Iam homines aliquarum veritatum notitia carent, aliarum autem notitia potiuntur. Circa res, quarum cognitione destituimur, in ignorantiæ statu versari dicimur ; in i iis vero, quas cognoscimus, animus noster vel hæret dubius, vel opinatur, vel certus est. 5. In dubitationis statu animus versatur, cum non magis ad assensum, quam ad dissensum inclinat 3. Quod quidem, ut advertit s. Thomas, contingit vel quia animus neutra ex parte aliquam rationem advertit, vel propter apparcntem æqualitatem eorum, quæ movent ad utramque par ytem. Hinc animus in statu dubitationis instar libræ esl; f|uemadmodum enim hæc, si aut nullum, aut æqualia rn utraque lance momenta habet, nullam in partem declinat, sed in æquilibrio perstaf, ita animus, si aut neutra ex parte, aut æquales ex utraque parte rationes advertit, nec alicui enunciationi assentitur, nec ab ea dissentit. Cum animus dubius hæret, quia neutra ex parte rationes advertit, dubitatio dicitur negativa; sin æquales utraque ex parte rationes habet, posiliva vocatur. 6. Opinio, sive probabilitas, prout certitudini opponilur5, est ut sThomas inquit, ille stalus mentis, io quo ipsa cc adhæret uni parti cum formidine alterius0 . Adhæret quidem um parti, vel quia pro aliqua ipsarum dumtaxat Contr. Gent., lib. I, c. 59. Hæc definitio quadrat in veritatem moralem spectatam secunaum sui rationem obiectivam. Quod si secundum rationem subiectivam consideretur, in consensu vocum cum conceptibus, qui res repræsentant, posita est; non autem in consensu vocum cum remis, quas conceptus repræsentant. Veritas moralis secundum rationein subiectivam veracitas, et falsitas moralis mendacium proprns vocibus designantur. Dubitatio, inquit s. Bonaventura, proprie dicit indifferentiam maicii rationis respectu utriusque partis contradictionis, ita quod neutriim præcligat alteri ; In lib. 111 Sent., Dist. XVII, dub. 3. • Qq. dispp., De Ver., q. XVI, a. 1 c. J De opmione, prout opponitur scientiæ, locuti sumus in Logica. p Ja0;?1, a4> p- 69cf etiam ihidp30 not3 6 2a 2æ, q. II a. 1 c. raliones, vel quia pro una graviores, quam pro alia, rationes ei occurrunt. Cum formidine alterius, quia rationes iilæ non sufpcienter ipsam movent ad assentiendum illi propositioni . Ex quo fit, ut probabilitas minor, vel maior esse possit, prout paucioribus, aut levioribus, vel pluribus, aut gravioribus momeniis innititur. Quod si hæc momenta tenuissima sint, probabilitas proprie appellatur suspicio. 7. Denique certitudo est ille animi status, in quo ipsi alicui enunciationi sine ulla sollicitudine adhæret . Certitudo autem potest esse vera, aut falsa, prout iudicium, cui animus fidenter adhæret, est rei veritati consentaneum, aut dissentaneum. Falsa cerlitudo error vulgo au dit; quare error definiri potest: animi stalus, in quo ipsi certo pronunciat aliquod iudicium rei veritati minime consentaneum. 8. Distinguitur autem certitudo in metaphysicam, pk sicam, etmoralem. Metaphysica certitudo existit, cum meu tis assensus in rerum essentia fundatur. Ita metaphysice certum est radios circuli a centro ad peripheriam ductos esse æquales, quia intellectus perspicit hanc proprietatem circuli ab eius essentia fluere. Physica vero certitudo habetur, cum assensus mentis innititur constantia legum naturæ, vel simplici facti observatione. E. g., physice certum est omnia corpora ad centrum terræ ferri, quia id colligitur, ope inductionis, ex constantia legum naturæ, itemque certum est corpora existere, quia ipsa per immediatam experientiam percipiuntur. Denique moralis certitudo obtinetur, cum assensus menlis fundatur in hominum testimonio, ac proinde in legibus, quibus i 2a 2æ, q. I, a. 4 c. 2 In lib. III Sent., Dist. XXVI, q. II, a. 4 sol. Advertito contra assertores Calculi probabilitatum, posse probabilitatem ad certitudinem magis minusve accedere, sed numquam illam assequi. Etenim totum quodpiam confici nequit ex partibus, quæ diversæ, ac ipsum, naturæ sunt; siquidem collectio efficere non potest, ut partes natura sua expolientur. At certitudinem, et probabilitatem diversæ naturæ esse manifestum est, namque certitudo omnem dubitationem tollit, probabilitatem autem aliqua dubitatio semper comitatur. Quæcumque igitur sit probabilitas, et quousque eius gradus augeantur, numquam in certitudinem evadere potest, nisi naturam suam exuat. Cf s. Thom., In lib. I Poster., lect. I. mores hominum temperantur. E. g., moraliter certum est Persas ab Alexandro fuisse debellatos. Iam perspicuum est cerliiudinem metaphysicam eiusmodi esse, ut illius oppositum sit absolute impossibile, quia res essentiis suis expohari nequeunt ; certitudinis vero physicæ, et moralis propnum est, ut earum oppositum sit impossibile hypothetice, ncmpe salvis legibus physicis et moralibus f. N.— Quænam siut veritatis criteria 9. fnstrumenla, quibus assequi possumus certas de ver.tat.bus cogn.t.ones, post græcos criteria, scu verorum wdiciorum regulæ in Scholis vocitantur \ propterea auod )orum ope, quid verum sit in unaquaque re, diiudicaur, atque ipsorum vis rationem, ob quam de nostroom .udiciorum ventate certi sumus, exhibet. z rwpssrr eti sd recwm' prudenlmquc p^ 2 Cf Sext. Emp., Hypoth. Pyrrh. libri tres, passim. • In i hac cnterii notionc tradenda veteres politiores philosophi fa hmur convenerunt. Sextus enim Empiricus (HypoL PyTh.] \t'J: ' ?' ' CUm Ph,losoPhorum opiniones de criterio ve e nrorn' ^ ^T^ ^ C°S ™™ vel Pl™ cri er a ad s.sse, prout unum, vel plures eertarum cognitionum fontes ho mi suppetere arbitrabantur. Ast non pauci inter recentes med?a r.tat.s cognoscendæ a criterio veritatis distinguunt ataue hoc erumaue statuunt i„ evidentia, sive quadam nota ?psi obiecto °n ricam 1 o? rnS ^ aSSeDSUm C°gilUrAt non dri nobis yWetar to tum a^ rmTneiCnteriUm' qU°d coSno^ndi mediis adiunUtes llq '• S' facuItates cognoscendi huiusmodi sunt, ut vetates certo arr.pere possint, nuJlo alio criterio ad verum ifakn oTulde^Tunt °aPtUnoerit;HtUm non P-cac "nitio^s in illæ comnnUonI0 ? evidentes. E. g., evidentes nobis haud 1 ;, cognit.ones, quibus obiectum non in seipso sed ner sne rehen i urr.e,ifræ T U1° qUamdam habet iffidtaJ£ Tpl l r 'qUe lI]æ ' quæ circa veritates contingentes et '• t. qu us'TnnteVl^nC % Th0maS GVidCntCS -rilues esse Derfec m vl ^llec u videntur, nempe quarum cognitio -iiri Pi prim ^°nauæn:Urg,t '• SiCUt per,Umen natura,c ^emua us etia.no' q C cP^noscimiIS tatim, ut terminos...: et ulte £ m d UuturqUvWeri T F™" rGSOlVerC P0SMm P" ' (/" lm III Zit £ ™l qUaC SCimUS dc'°nstrative proUn Uo. m sent., Dist. XXIV, q. I, a. 2, sol. 1 c). Præ Ut, quænam sint huiusmodi criteria, patescat, necesse est diversa veritatum genera præ oculis habere. Veritates, quæ a nobis cognosci possunt, sunt aut contingentes, nempe quæ versantur circa facta nobis com perta per experientiam internam, aut externam ; vel ne cessariæ, nempe quæ spectant rerum connexiones, et idea rum relationes1. Tum veritates contingentes, tum neces sariæ sunt aut primitivæ, aul deductæ. Primitivæ sun illæ, quæ nullo medio demonstrantur; deductæ sunt illæ in quibus convenientia attributi cum subiecto ope ratioci nationis perspicitur. E. g., existentia ?ov ego, et mund huius adspectabilis sunt veritates primitivæ contingentes corpus est grave, eclypsis fit per interpositionem terræ in ter lunam, et solem, aliæque huiusmodi enunciationes sun veritates contingentes deductæ; totum maius est sua parte est veritas necessaria primitiva ; substantia spiritualis li bertate gaudet, est veritas necessaria deducta 2. 11. Iam 1° veritates primitivæ contingentes cognoscun tur experientia immediala; nempe illæ, quæ circa fact interna versantur, conscientia; illæ autem, quæ ad fact externa spectant, sensibus externis nobis innotescunt; 2° vc ritates primitivæ necessariæ cognoscuntur per intelli gentiam; 3° verilates deductæ, si sint contingentes, a nc bis adquiruntur per inductionem ; et sive sint contingen tes, sive sint necessariæ, per syllogismum 3. Intelligentic inductio, et syllogismus unico nomine rationis appellai solent. At vero his, quæ enumeravimus, instrumentis co gnoscendi veritates duo alia adiicienda sunt, nempe me terea in iis ipsis, quæ evidenter cognoscimus, realitas, quæ, u aiunt, se nobis manifestat, et intellectum ad assensum rapit, e quidem causa, cur intellectus necessario illis assentiatur, seu, i idem sanctus Doctor inquit, cogatur (Qq. dispp., De Ver., q. XXVII a. 3 ad 6); sed non est proprie causa, cur ea certo cognoscat. A cedit, quod si quemquam e vulgo interrogaveris, e. g., cur certi sit, se revera existere, illico tibi respondebit, quia id mihi conscie tia testatur ; et si pergas interrogare, quanam ex ratione corpo existere pro certo habeat, haud hæsitans reponet, quia sensus e terni id renunciant. 1 Veritates contingentes a posteriori, vel syntheticæ ; veritat autem necessariæ a priori, vel analyticæ etiam appellantur. Ideal., c. I, a. 4, p. 202, not. 1. 2 Cf Scot., In lib. I Sent., Dist. III, q. 4, n. 6-11. 3 Cf Scot. noria, quæ, elsi nihil novi nobis afferat, tamen co ratio> memoria, et au „i2,^-.hii-Criteriisawctoritas dicilur momenlum exlerium certuudmis, quia per eam cerli sumus de veritate dicu.us rei, quatenus alii illam perspexisse nobis testanur. Celera cnteria dicuntur momenta interna certitudi"s, quia sunl inslrumenta animo nostro insita, ita ut •er ca cert, efliciamur de verilate alicuius pronun tiat" osSmus5. 'PS1 COnvenientiara attrib"' cum subiecto 13. Porro crileria interna, quemadmodum ex dictis perpicitur, nonnis. ipsæ facultales cognoscendi sunt mins amma prædita est. Aucloritas vero, quamquam s t ocair;Urmn?,XrnUm ',amC" ad interna nodam„q,odm r" ocatur, qu,a s,ne moment.s intcrnis, idesl sine cognitriibu an.mac iacultatibus cxislere non potest. Et sane os momentis e ralione petilis opus habemus, ut cerHefcamur eum, qui aliquid nobisnarral, aut edoce d osrcc,CdiSeKC,U;,a1SCntiamUrUaLque critcria suntTpsæeoCl,ii "av!' quatenus hæ motiva suflicicltia exM8umuqs " Ur cert,tudo> 1ua v^ilates cognoscere De criterio, quod dicitur Conscientia Aut. I. — De vi huius crilerii us4' MZSfntia CSt i"-ud crilerium, quo anima sui ip "mi;,msuiqSeiqdur,n ca actu sunt s affectionura e la. Conscicntiæ vis ad intema facta nobis patefa1^2UT1TU SUnt> quia ca> " fuerunt i„ nobis, obie un memoriæ sunt. cienda adeo ex se est perspicua, ut neque demonstrationem admittat, neque demonstrationis egeat. Probatur la pars, nempe non admittit ullam demonstra tionem. Nulla est demonstratio, in qua id, quod in quæ stionem adducitur, pro certo sumitur . Atqui infallibili tas conscientiæ demonstrari nequit, nisi iam pro cert; sumatur. Ergo. 16. Minor ita demonstratur : Si quis veracitatem con scientiæ demonstrandam aggreditur, iam percipere debe quæcumque demonstrationem constituunt, et certum ips esse debet se ea percipere. Atqui id non aliter constan ei potest, quam ex testimonio conscientiæ. Ergo vera citas conscientiæ demonstrari nequit, quin iam pro cert sumatur. 17. Probatur 2a pars, nempe demonstrationis non egel Non eget demonstrationis illa veritas, quæ admittitur a eo ipso, qui eam negat, aut de ea dubitat. Atqui huius modi est infallibilitas conscientiæ circa nostri, nostrarum que affectionum existentiam. Ergo. 18. Minor demonstratur hoc modo: Qui se existere ne gat, sane affirmat se existere in statu negationis, et s dubitat, utrum sit, se existere in statu dubitationis affii mat, et si dicat se nescire, an sit, iam pro certo sumi se existere in statu ignorantiæ. Quod si addat se dubi tare etiain, utrum dubitel, et nescire, utrum nesciat, uti que affirmat se dubitare, ac nescire, ac proinde se exi stere in statu dubitationis, aut ignorantiæ 2. Quin imm si quis obiiciat vitam nostram esse perpetuum somnium quemadmodum hac postrema ætate Fichteus autumavil iam fatetur nos vivere in statu somnii, ideoque existere ', i Gf Logic, p. II, c. I, a. 3, p. 53 sq. 2 Si fallor, inquit ad hanc rem s. Augustinus, sum; nam qi non est, utique nec falli potest ; De Civ. Dei, lib. XI, c. 26. tem s. Thom. (Qq. dispp., De Ver., q. X, a. 12 ad 7): Nulli potest cogitare, se non esse, cum assensu; in hoc enim, quod o gitat aliquid, percipit se esse ; Cf ibid., a. 8 ad 2. Idem dicati de internis animi affectionibus. Nam qui ponit dubium testimoniui conscientiæ aliquam internam affectionem referentis, simul ponei cogitur yeracitatem conscientiæ circa illam animi affectionem, qu tum actua(i esse imus PSa ' $lVe reale ' ac ohiectivum cogno IntZ Pa"C?nscientla habilualis, sicuti vidiraus', ræsen... "? '?nUur' Pmli esseJaum rca"e cognoscendum habilis est. maauatr.-M ^v " prlmis • anima Per conseienm hahlfnX 'Um Cl,C,t actum' in ; scd ut evincatur eam nullis scepticorum cavillationibus latactan posse. Ita s. Augustinus primum statuit nos existere tamam factum per se notum, proindeque certum: Sine ulla phansiarum, vel phantasmatum imaginatione ludificatoria mihi esse \e\ ~que.nosse et amare certissimum est (De Civ. Dei, lib. XI, -C). Deinde adversus Scepticos, obstrepentes quemquam posse oc falli, ostendit, uti antea adnotavimus, illud factum ipso erre asseri: si fallor, sum ; nam qui non est, utique nec falli jest, ac per hoc sum, si fallor ; Cf p. 238, not. 2. 1 237, not. 1. Pnaos. Ciirist. Compend. 1. 1 j[6 sæpe testatur se niulta videre, et audire, quæ omnioc nulla sunt. Ergo conscientia re ipsa fallitur. 29. Resp. Dist. ant., quæ nulla sunt extra animam conc. ant., quæ nulla sunt in ipsa anima, neg. ant. Neg cons. Et sane, illa, quæ amentes, et somniantes putant sn posse percipere corpora autumant, his duabus ratio rc dX!tUn!Ur' Tmpe: r Simililud° naturæ interce.i,,,„ " • sul),ectum cognoscens, et obieclum co.,' Pr°,nd.e an'ma' quæ esl spiritualis, non potKnoscerT ^T?05 commTicare> at'quc hacc'in seijs s £?! .?.. a uuldfIuam cxtra se positum per pere extra se opcraretur, quod certe numqaam fieripot • Atqui hæ rationes nullius ponderis sunl. Ergo nihil pJr,Sall0neS esscnaluia sa obiectivas negatur. oLn oTLTm°r Simi itudo in,cr sobiectum cot no,' v™ T conn.oscen(l' obiectum intercedere denilnm .Vn c lntCr. sub,ectum cognoscens, et obicctum n tf0M \J S.DeCtata; qUlan0U 0l,iectum cognitum, sed m tcrhl U,0.C0Sn0SCen,isQuapropter anlma, et i sit nm Mhs, potest tamen res materiales pereipere, dum Ge a„mraaleria1' m0d0 P^ipiaf. 2 Falsum omjO es aoimam non posse res exlernas percipere, nisi Sr ^" ?C aat' Nam c°gu,'>io est ex'eo g n re "onum, quac in anima manent, non quæ extra ani '}'/ omnes alii sensus fundantur\ exploretur; nam, ut advertit Nemesius, sensus arcta quadam communione inter se continentur, ac Pr2n a/l errorern aIterius facile manifestat1. Jrt). Ad hanc rem præstat adnotare vim criterii sensuum mernorum haud imminui illis falsis iudiciis, quæ alijuando mlellectus ope sensuum, de rebus sensilibus con ino ff"-"1' in h,SC(' iudiciis vel intellectus iudicat de Mpsa atleclione sensuum, nempe sensus hoc, vel illo mo °ea rebus aff,ci; ve> iudicat res eo modo in se esse, quo a sensibus repræsentantur 8. Si de prima iudiciorum spe ie agitur, sensus intellectui comparatus semper facit reram exist.mationem in intellectu de dispositione proa , nam secundum quod sensus disponitur, secunium iioc dispositionem suam intellectui demonstrat 10 l lect." niUg'' De vem Relig' ' c 33' "' 61 ; et s" Thom' ' °P' \ cTni GenL> "? nc 13> n' 2-3 Op. cit., lib. III, c. 108. r Cf Dynam., c. III, a. 2, p. 113-114. ^ I, q XVII, a. 2 c. 6 i, q. LXXVI, a. 5 c. • lbidaL irSfc C8' l! Qq' >" De Ver' . h a11 c. Hinc s. Augustinus aiebat : Ne ipsi quidem oculi fallunt, non enim renuntiare possunt animo, nisi aflectionem suam . Sin de altera, dicendum est illa mdicia esse vera, quoties facultates sentiendi rite adhibentur, quia cum ipsæ rite adhibentur, perceptio sensitiva rem, uti in se est, manifestat. Quod si facultates sentiendi nte non adhibentur, illa iudicia sunt falsa. At vero error non ab ipsa sensuum natura, sed a temeritate nostra prohciscitur; intellectus enim minime expendens, utrum ea omnia sensibus suppetant, quibus ad rite fungendum ofticio suo opus habent, illorum testimonium excipit, falsumque de rebus iudicium pronuntiat 2. Si quis, inquit s. Augustinus, remum frangi in aqua opinatur, et, cum mde aufertur, integrari, non malum habet internuncium, sed malus est iudex; nam ille pro sui natura non potuit aliter in aqua sentire, nec aliter debuit, si enim ahud est ær, aliud aqua, iustum est, ut ahter in ære, ahter m aqua sentiatur. De criterio rationis 51. Ratio, prout est quoddam criterium triplici nomine appellatur, nempe intuitiva, inductiva, et deductiva, quia, ut iam diximus 4, tria complectitur, nempe intelligentiam, sive intuitionem, inductionem, et syllogismum. I. — De ratione intuitiva 52. Ratio intuitiva pro criterio veritatum primitivarum, quæ necessariæ sunt, habetur. Hæ veritates immediato evidentia gaudent, ita ut quisque statim probet audita b. atque axiomata, vel dignitates passim appellantur. 53. Veritas iudiciorum immediata evidentia fruentium adeo manifesta est, ut non solum demonstrationis nor> egeat, sed ne demonstrari quidem possit; potest tamen ahquo modo declarari. Probatur la pars. Demonstratione opus est, ut convenientia, aut discrepantia cuiusdam attributi cum subiectc i De vera Relig., c. 33, n. 62. 2 Cf s. Thom., ibid. 3 Op. cit., c. 33, n. 62. 23b. /n lib. III Sent., Dist. XXXV, q. II, a. 2 sol. 1 c. 1 detegatur. Atqui in enunciation ibus immediate evidentibus illa convenientia, aut discrepantia adeo manifesta est ut non solum ipsam detegi necesse non sit, sed etiam contranum h.s, inter quæ illa convenientia, aut discrepantia perspicilur, cogitare nemo umquam possit . Ergo 54. Probatur2a pars. Quælibet demonstratio principiis per se evident.bus innilitur; acproinde qui auctoritatem .immediatæ evidentiæ demonstrare vult, iam tamquam cerla sumere debet principia per se evidentia, ex quibus hæc demonstratio proficiscitur. Atqui demonstratio, in qua pro certo sumitur id, quod vult demonstrari, nulla 3St. Ergo. 55. Probatur 3a pars. Error ex eo in mentem cadere potesl, quod ipsa ml erdum medio opportuno non utitur id rei ventatem diiudicandam ; hinc, quoties mens rem ine ullo medio, sed ipsa per se cognoscit, nullus errori locus esse potest. Alqui in enunciationibus, de quibus hic jgimus, mens connexionem inter terminos sine ullo me- tio cognoscit. Ergo in huiusmodi enunciationibus nullus :rron locus esse potest 2. II. — De ratione inductiva 56. Ratio, prout ex verilatibus particularibus aliquam eritatem generalem per inductionem colligit, inducliva di- -itur,et habetur pro criterio veritatum^ductarum con- ingentium. Hic autem loquimur de inductFone incompleta, iam lnductionem completam nobis largiri cerliludinem crspicuum ex se est ; siquidem tota eius vis in eo po- ita est, ut toti generi tribuatur id quod compertum est mgulis spec.ebus illo genere comprehensis convenire s. >;i",°V' lnduct%° wcompleta, quæ sufficientem partium uumerationem exhibet, certitudinem nobis largitur Irobaiur. Inductio incompleta, quæ suflicientem par- ium enumerationem exhibet, ut alibi diximus in fir- mate ordims mundani innititur. Atqui dubitari non Pot- st de hrmitate ordinis mundani. Ergo. 08. M xnor demonstratur ex ipsa rerum mundanarum na- Cf s. Thom., In lib. J Post. Analyt., lect. XIX. s p llCnr" Gandav-, Summa, q. II, a. 3, n. 8. Cf Log., part. I, c. III, a. 6, p. 48. Log., ioc. cit., p. 49. •• „VA tura. Et sane, eo modo, inquit s. Thomas, aliquid ope- ratur, quo est ', sive similiter unumquodque habet esse, et operationem2 . Atqui causæ naturales huiusmodi sunt, ut electionis vi destituantur. Ergo oportet, ut in ipsis sit virtus operativa determinata ad unum ; ac proinde quoties causa naturalis in eadem rerum conditione ver- satur, toties eumdem effectum producit, msi causa aliqua exterior eius actioni obicem opponat 4. Atqui ex uno, eo- demque modo,quo causarum naturalium operationes fluunt, firmitas ordinis mundani exurgit. Ergo de firraitate ordims mundani dubitari non potest. g 59. Huius argumenti vis haud mmuitur ex eo, quod aliquando causæ naturales, ut diximus, ab aliqua causs exteriori impediuntur, quominus effectum suum produ- cants. Etenim ad inductionem spectat non eventus parti- culares, sed leges universales naturæ nobis mamtestare quia eius conclusio, ut diximus 6, est semper umversahs Atqui causæ naturales etiam quando impediuntur, quo minus effectum suum producanl, virtute producendi illim effeclum haud destituuntur ; ac proinde universalis U naturæ, quod nempe quædam causa ad quemdam elte ctum producendum determinata est, firma, immotaque ma net. E. g., etsi aqua ob morbum, quo corpus hydropic laborat, eius sitim non restinguat, sed augeat; tamen ipsi vim restinguendi sitim non amittit, ita ut semper certun nobis sit aquam vi restinguendi sitim pollere. Ergo ei eo, quod impedimentum actioni causarum naturaliun obiici possit, nihil contra veritatem enunciationum, qua inductione comparantur, inde conficere licet. 60. Diximus, quæ sufftcientem partium enumerationen exhibet ; nam, ut constat ex iis, quæ in Logica diximus si quamdam qualitatem in paucis, non vero in plensqu i I, q. LXXV, a. 2 c. 2 Ibid., a. 3 c. - - I, q. XXII, a. 2 ad 4. Pertinet ad agens naturale, ut suum effectum producat,qui natura uno, et eodem modo operatur, nisi impediatur ; I, q- XO a. 4 c. Cf s. Aug., De Gen. ad litt., lib. IX, c. 17, n. 32. s Huiusmodi impedimentum acciderc potest vel secundurn lege: quibus mutuæ actiones causarum naturalium reguntur, vel pote: oriri ab immediata Dei actione, et tunc, ut alias videbimus ( stunt facta supernaturalia.— Log., loc. cit., a. 2, p. 3J-4U. jndividuis experti sumus, illam esse ipsis naturalem, proindeque in ceteris eiusdem naturæ quoque inveniri magis, vel minus probabile, scd non certum esse nobis polest. 61. Ex his colligitur falsum esse id, quod Humius au- tumavil; nempe vim inductionis incompletæ nullo firmo principio inniti f. Etenim, quemadmodum Scotus monuit2, atque a nobis iam ostensum est, veritas inductionis ab expcrientia, et a ratione vim suam sumit. Experientia bnim ostendit quamdam qualitatem constanter in aliqua re inventam esse; ratio autem suggerit illam qualitatem, 30 quod constanter in illa re invenitur, ad eius naturam pertmere; ex quo consequitur fore ut illa qualitas in omni- bus similibus subiectis conslanter inveniatur. 62. Obiic. Leibnitius 3, Genuensis 4, Rosminius J: Cer- titudo perfecta non invenitur, nisi in iis, quorum oppo- jsitum est impossibile. Atqui fieri potest, ut id, quod le- ^ibus naturæ adversatur, eveniat. Ergo certkudo indu- :tionis, quæ a constantia Iegum naturalium pendet, non ist perfecta. 63. Resp. Dist. mai.9 est impossibile vel absolute, vel naturaliter, conc. mai., absolute tantum, neg. mai. Dist. lariter min.9 fieri potest absolute9 conc. min.9 naturaliter 9 ieg. min. Neg. cons. Re quidem vera, certitudo, quemad- nodum ex s. Thoma monuimus G, diversa ratione dicitur >erfecta9 prout diversæ speciei est; nam certitudo meta- bhysica pcrfccta dicitur, quia oppositum est absolute im- possibile; certitudo autem physica est perfecta, quia op- bositum est impossibile hypolhetice9 seu inspecto naturæ prdine 7. Iam certitudo, quam inductio nobis largilur, est bbysica, ac proindc est perfecta ; nam etsi id, quod lekibus naturæ opponitur, non sit absolute impossibile, taben omnino certum est rem naturaliter secus evenire fion posse. 1 Essais sur V entendement humain, Ess. IV, part. II, Oeuvr. 'hil., trad. de 1' angl., t. I, p. 121-138, Lond. 1788. 2 In lib. 1 Sent., Dist. III, q. IV, Schol. 3 Dissert. De stylo philos. Marii Nizolii, § 32. Artis Logico-crit. lib. V, c. 6. 1 Trattato della coscicnza morale, lib. III, sez. 2, c. 2, a. 3. c Cf Log., part. III, c. IV, a. 2, p. 92. " Cf p. 234-233. De ralione deductiva 64. Ratio, prout ex veritatibus generalibus alias minus generales, aut particulares per syllogismum elicit, deductiva dicitur, et ideo habetur pro criterio veritatum deductarum, sive hæ necessariæ, sive contingentes sint. Circa huiusmodi criterium duo nobis demonstranda sunt, nempe syllogismi veritas, et utilitas. 65. la. Veritas sijllogismi sine contradictione negari non potest. Probalur. Non potest sine contradictione concedi aliqua enunciatio, et simul negari alia, quæ cum illa necessario connectitur. Atqui inter præmissas, et conclusionem syllogismi necessaria connexio existit, siquidem conclusio cuiuscumque syllogismi tunc dicitur secundum logicæ regulas derivari ex præmissis, cum illa his continetur. Ergo si quis præmissas concederet, et conclusionem negaret, eanidem enunciationem simul assereret, et negaret, ac proinde in contradictionem impingeret. E. g., in hoc syllogismo: Omne animal habet vitam sensitivam; atqui homo est animal; ergo homo habet vitam sensitivam; si quis concedat hæc duo, nempe, omne animal vita sensitiva frui, atque hominem esse animalium speciem, iam exinde concedit hominem vi sentiendi pollere ; quocirca si eani negarel, a se ipso dissideref. 66. 2a. Syllogismus ad inveniendam veritatem imt^ mane quantum utilitatis confert. Probatur contra Van-Helmontium , aliosque philosophiæ peripateticæ osores. Mens cum progreditur ad cognoscendum actu illud, quod antea virtute, seu potentia cognoscebat, novam cognitionem adipiscitur. Atqui mens ope syllogismi sibi comparat actu illam cognitionem, cuius adquirendæ virtute dumtaxat pollebat. Ergo syllogismus ad veri cognitionern valde ulilis est. 67. Probatur minor. Mens, cum præmissas in se co gnoscit, conclusionem, quæ in illis potentia continetur, potentia, non actu cognoscit, quia satis non est aliquid altero contineri, ut mens unum videns, videat et alterum; sed necesse est, ut aliud alio contineri perspiciat. Atqui mens nonnisi ope syllogismi conclusionem præmissis con Log. inutilis, tract. VIII, Opp., p. 27, Lugduni. tineri actu cognoscit. Ergo mens ope syllogismi progreditur ad agnosccndum actu illud, quod antea potentia dumtuXiii cou nosceoa t. 68. Ut hæc clariora fiant, memoria revocandum est cognitionem, quam per syllogismum nobis comparamus, non esse intuilivam, per quam aliquid in alio cognoscitur, sed esse deduchvam, per quam aliquid ex alio coqnoscitur ' ; unde conclusio ex præmissis elici 2 dicitur. Atqui ratio non potest conclusionem ex præmissis elicere, nisi duas exerat ætiones, quarum una veritatem præmissarum, altera venlatem conclusionis cognoscit 3. Ergo nos ratiocinando conclusionem cognoscimus non eodem actu, ac præm.ssas, sed novo actu, qui illi succedit; unde primum myest.gamus, utrum extrema cum medio conveniant, oeinde ex hac investigatione relationem ipsorum extremorum coguoscimus. De criterio memoriæ Veracitas huius criterii osteDditur I 69. Etsi memoria, uti diximus , nihil novi nos doceat Umen,psa cognitiones ante adeptas revocat, Tproinde conditio est, sine qua scientia humana constare non potest lam prætentas cognitiones, quas memoria, cum recte adhihetur, nob.s suggeril, re vera olim in nobis exUUsse demonstratur sequenti exuusse, Memoriæ veracitas negari non potest auin simul ipsa memoria animo denegetur P ' q mul lm^-tUr' ^mneS in his duobus consentiunt: 1° quod Stea h?h£?8,la e5 in vi ™~Ko^ndi perccptione, ^aas notest mV V 2 qU°d memoria non [iter nos decipere C '„?' 9uJle.nus ante nentem sislit perceptiones, quas antea non habuit. Atqui horum unum altero des?rui 2 rf l' lh°m'' Qq' di$Pp-> De Ver'> a c. 5 rin ?"' lH Ub' U1 Sent'> Dist XVIII> a . q. 3 ad ara tu nl " dlCU.U/' SUbdit sThomas> aHquid ex al q2o co-nosct Pp 236-237 m°VetUr iU aHud >); °p•'• ibid" L tur, Ergo oportet memoriam aut tamquam per se veracem habere, aut animo denegare . 70. Præterea, nos potestate pollemus discernendi perceptiones, quas re ipsa habuimus, ab iis, quæ fictitiæ sunt; nam quoties conamur aiiquid, cuius obliti sumus, recordari, species rerum, quæ nobis sese offerunt, respuimus, donec illa, quam quærimus, nobis occurrent. Atqui potestas, qua reaie a fictitio discernitur, est verax. Memoria igitur, quæ est huiusmodi potestas, verax est 2. II.— Nonnallæ obiectiones diluuntur 71. Obiic. Nihil frequentius auditur, quam memoria nos decipi. Ergo memoria non est criterium veri. 72. Resp. Dist. ant., eo quod sæpe obliviscimur eorum, quæ antea cognovimus, conc. ant., eo quod revera non habuimus cognitiones, quas memoria perspicue revocat, neg. ant. Neg. cons. Si res diligenter expendatur, facile perspicietur homines huius rei potissimum conqueri, quod nonnisi pauca eorum, quæ didicerunt, in memoriam revocare possunt, non quod perceptiones noyas pro præteritis accipiunt. Iamvero illud nonex memonæ vitio, sed ex limitibus ipsius oritur, qui in causa sunt, cur non recordemur omnium, quæ didicimus. 73. Inst. Atqui re ipsa homines quandoque putant ngmenta suæ phantasiæ esse imagines factorum, quæ olim perceperunt. Ergo., 74. Resp. Dist. ant.; hoc evenit penes homines haud sui compotes, conc. ant., apud homines sui compotes, rce ^mplices apprehensiones ntellcctus essenl.as rerum, prout in rebus sunt, rcpræ•ent.int. Atqu., s. essenl.as ren.m, prout in rcbus sunl epræsentant, consenlaneæ rebus apprehensis esse denvonih,^0'." S'mp C' aPPrchensione veritas logica etiam nvenuur. At, quon.am mtclleclus convenienliam sui cum eus por s.mphcem apprehensionem non cognoscil, veitas log.ca propr.e et perfecte ad illam pertinere nequit2 a S. quodammodo veritas logica in simplici apprehen ^iJmilT^,n.ea falsUaS Per Se num,uam se polKV? Slml,llces.c°nceptus intelleclus ex eo, quod ri,nl nm' T"' '" Se,S,,nt' cepræsentant, omncs " ve" fak? lTm' U' m,ullis W0lfianis visum est™ tollectus " mX ' '"^"f re" est proprie obiectum Uus . nulla autem facullas cognitrix, uti antea vi '• 0..,4p1' m! Ti2Qc"ofpp',De Ym:> h aa- 3- ct 12 c nr;,tt. '7 '. T. ',l l2 cob eamtlein rat onem ntellectus ppp ' c riee:iP„'n,Ull° m;d? dCCipUur " ^" >n.e.lec u se,p YZ" ': " "" m'od ""'clleclus est principiorum circa auæ " decpuur ex eade.n causa, qua non dec.pitur circa quod quid dimus1, circa obiectum sibi proprium decipi potest. Di ximus per se ; nam falsitas per accidens m pnma opera tione intellectus inveniri potest, scihcet ralione attir mationis, vel negationis annexæ , e. g. cum mtellectus definitionem unius attribuit alteri, ut si animal ratio nale mortale conciperet quasi definitionem asim; vel in quantum coniungit partes definitionis ad inv.cem, quæ coniungi non possunt, ut si conciperet quasi denmtionem asini animal irrationale immortale; bæc emm est talsa, aliquod animal irrationale est immortale 2 • Ast, si pri mum, intellectus asinum pro homine, respectu cuius ille conceptus verus est, apprehenderet : sin alterum, ninil intelligeret. Hinc idem sanctus Doctor : In operatione intellectus, qua cognoscit quod quid est, potest esse tat sitas, in quantum ibi compositio intellectus adm.scetur. Quod potest esse dupliciter. Uno modo, secundum quod iniellectus definitionem unius attnbuit alteri, ut si den nitionem circuli attribuat homini : unde defanitio unius rei est falsa de altera. Alio modo secundum quod parles definitionis componit ad invicem, quæ simul sociari non possunt ; sic enim definitio non solum est falsa respectu alicuius rei, sed est falsa in se, ut si formet ta em defr nitionem, animal rationale quadrupes, falsus est intelle ctus sic definiendo, propterea quod falsus est in torman do hanc compositionem, aliquod animal rationale est qua drupes. Et propter hoc in cognoscendo quidditates sim plices non potest esse inlellectus falsus, sed vel est verus vel totaliter nihil intelligit 3 . U.— Utruai verilas sit mutationis, et progressus capax 96. Recentes propugnatores progressus, seu perfectibili tatis generis humani, inter quos Lerm6"nier, Lamennais Jouffroy, Sansimoniani, aliique quamplunmi recensentur est. Nam principia per se nota sunt illa, quæ statim, intellecU terminis, cognoscuntur, ex eo quod prædicatum ponitar in diff nitione subiecti (I, q. XVII, a. 3 ad 2 ; cf p. 250 sq). Quar secundæ operationi admiscetur falsitas etiam per se; non qmde quantum ad primas affirmationes, quas naturaliter intellectus C( cnoscit, ut sunt dignitates, sed quantum ad consequentes, quia r; tionem inducendo contingit errare per applicationem unius aa liud ; In lib. I Sent., Dist. XIX, q. V, a. 1 ad 7.- ^ 2 Qq. dispp., loc cit. 5 I, q. XVII, a. 3 c. yeritatcm numquam immotam, et fixam existere, sed pro jualibet ætate variare, et perfici arbitrati sunt. Hanc ab~ lormem sententiam refellimus sequenti Verilas, quæ est obiectum intellectus humani, capax nutationis, et progressus esse nequit l. Probatur. Veritas nostrarum cognitionum posita est in ;arum convenientia cum rebus, quas repræsentant 2 ac )romde m ipsa realilate rerum fundamentum habet^At(ui reahtas, s.ve essenlia rerum, cum in exemplaribus Jivim intellectus fundamentum habeat, immutabilis est (uemadmodum immutabilis est Divinus Intellectus En?o eritas, quæ est obiectum intellectus, seu illud, quod veitatis cognitionem constituit, mutationis, et pnWessus :apax non est 3. et 97. Obiic. 1° Quod in aliqua re existit, ab ea re necesano pendet. Atqui veritas, quæ a nobis coffnoscitur st m nostro intellectu. Ergo veritas, quæ a nobis co^nocitur, pcndet ab æstimatione nostri intellectus, ac proine niutalionis, et progressus capax est. 98. Rcsp. Dist. min.; si oritur ex principiis rei, in qua st, conc. min.; secus, neg. min. Neg. cons. Huic difficulUi lam obviam iverat s. Thomas hisce verbis : Illud uod est in aliquo, non sequitur illud, in quo est, nisi uando causetur ex principiis eius: unde lux, quæ caultur in ære ab extrinseco, scilicet ex sole, sequitur moim sol.s magis quam ærem; similiter veritas, quæ in rnma causatur a rebus, non sequitur existimationem aimæ, sed existentiam rerum; ex eo enim quod res est BLno"e.st> oratio ve™> vel falsa dicitur >>. i J9. Obi.c. 2° Veritas logica sita est in adæquatione in Ueclus cum rebus. Atqui experientia quotidiana constat cont.nuo mutari. Ergo veritas logica continuo mutatur. JU. Kesp. Dist. min.; si per res intelli non autem de intellectu, qui Uatem cognoscit; mtellectus cnim potest mutari, et progredi a ex errore ad veritatis cognitionem, vel ex Ieviori ad penitio Jl eius cognitionem gradum facit. _i Cf p. 233 losofia Controversia consSanseverino, / principali sistemi della Wdtspp., De Ver., q. I, a. 2 ad 3. rium, et leges, quibus continentur, neg. min. Etsi res singulares sint assiduis mutalionibus obnoxiæ, tamen earum raliones, ut s. Thomæ verbis utamur, sunt immobiles^ et necessariæ, quippe quæ ab immutabili lntellectu Diyino originem habenl ; proindeque scientiæ, cum non circa qualitates singulares, sed circa immobiles rationes versentur, sunt etiam immutabiles . Quonam pacto autem necessilas ac immutabilitas naturis, et legibus rerum conveniant, alias explicabimus. III.— Utrum certitudo diversos gradus admittat 101. Certitudo, quam per criteria veri nobis comparamus, iam, ut alibi diclum est2, in melaphysicam, physicam, et moralem distinguitur. Ex notionibus, quas tradidimus, harum diversarum certiludinis specierum, patet certitudinem metaphysicam ad veritates necessarias spectare, physicam ad veritates contingentes, moralem ad ea, quæ ex aliorum auctoritate addiscimus. 102. Disputatur autem a Philosophis, utrum his generibus certitudinis æquale pondus insit, an una certitudo sit altera præstantior. Ut hæc quæstio facile solvatur, animo reputandum est certitudinem duo complecti, nempe omnimodam dubii exclusionem, et momenta, ex quibus perfectio actus adhærentis alicui rei exurgit. Si primum consideretur, omnia genera certitudinis in eo conveniunt, quod omnem formidinem erroris ab animo expeilunt. Hanc ob rationem cerlitudo in puncto quodam indivisibih posita esse dicitur, propterea quod si mensin dubitationem vel minimam incidit, illico certitudinem amittit, neque certitudinem iterum adipiscitur, nisi illam vel minimam dubitationem expellat. Sin alterum, genera certitudinum non æqualis ponderis sunt; siquidem non æquale inest pondus momentis, ex quibusea enascunlur, ac proinde, pro diversitate huiusmodi momentorum, alterum genus certitudinis allero præstantius esse debet3. In universum autem certitudo metapbysica, ut quisquis ex se mtelligit, physicæ, et morali, et physica morali antecelht. i ln lib. IV Ethic, lect. III; I, q. LXXXIV, a. 1 ad 3.-J 234. • In lib. III Sent., Dist. XXIII, q. II, a. 2 sol. 3. Gf etiam Qq. dispp., De Virtut., q. II, a. 9 ad 1. Certitudinem moralem interdum vi certitudinis metapnysicæ Quod si cum his generibus certitudinis certitudo, quæ ex Fide Divina efficitur, comparetur, hæc certiludine naturali, quæcumque sit, longe superior existimanda est f. Elenim, quamvis, ut iam diximus 2, evidentia, quæ m scientia obtinetur, desit in iis, quæ ex Fide accipimus8, tamen Fides Divina est longe certior quacumque naturali cognitione, nempe firmius iis adhæremus, quæ ex Divina Auctoritate excipimus, quam iis, quæ ipsi ex nobis cognoscimus, quia Divinam Auctoritatem, qua ad credendum movemur, vi, et ponderi cuiuslibet naturalis criterii antecellere nobis certum est. IV.— Utrum verilates rationales decretis Fitlei adversari possint 104. Pompanatius Mantuanus docuit rationem, tametsi recte adhibeatur, ea decreta quandoquc fundere, quæ decretis Fidei Christianæ adversantur b. Ad hunc errorem explodendum statuimus hanc Numquam fieri potest, ut ratiorecte adhibita decretis Fidei adversetur. Probatur. Ea, quæ ratio recte adhibita docet, adeo vera sunt, ut nec ea esse falsa sit possibile cogitare ; nec id, quod Fide tenetur, cum tam evidenter divinitus con gaudere, Gerdil (Saggio d' istr. teolog., Della storia umana) aliique non immerito docuerunt, quia cum homines ingenio, opinionibus, moribus dissidentes nequeant in idem mendacium conspirare, lllorum consensio esset eirectus sine causa, quod metaphvsice impossibile est. 1 Cf p. 2o7. 2 Log., p. II, c. III, a. 4, p. 69. ! Qua in re monendum est, evidentiam, qua Fides destituitur. lllam esse, quæ intrinseca dicitur, nempe quæ circa ipsam veri i tatcm creditam, ac proinde in se non visam versatur ; non autem quæ motiva credibilitatis attingit, et extrinseca appellatur; siqui dem potest intellectus evidenter cognoscere rationes, ob quas ali ^quid dignum sit, cui tides adhibeatur. Sane, Fides non habet in qnisitionem rationis naturalis demonstrantis id, quod creditur: ha ;bet tamen inquisitionem quamdam eorum, per quæ inducitur ho imo ad credendum (2a 2æ, q. II, a. 1 ad 1). Quocirca moliva ioredtbxhtatis sunt visa ab eo, qui credit: non enim crederet, nisi videret ea esse credenda propter evidentiam signorum, vel propter aliquid huiusmodi ; Ibid., q. I, a. i c. Cf Conc. Vatic, Sess. III, touf. Dogm. DeFide, c. III De Fide.- Cf s. Thom. loc. cit. De tmniortalitate animæ, Bononiæ, BOLOGNA. firmatum sit, fas est credere esse falsum '. Itaque tum decreta rationis recte adhibitæ, tum decreta Fidei vera sunt. Atqui solum falsum vero contrarium est, ut ex eorum definitionibus manifeste apparet 2. Ergo impossibile est decreta rationis decretis Fidei adversari. Præterea unicus est auclor rationis, et Fidei, nempe Deus. Ergo si ratio recte adhibita ea decernat, quæ Fidei adversantur, Deus nos ea docere, quæ secum pugnant, dicendus eril; id quod impossibile esse omnibus compertum est 3. Denique tantum abest, ut ratio, et Fides adversis committantur cornibus, ut rectus, et sobrius usus rationis ad Fidei dogmata iilustranda, et tuenda multum utilitatis conferat; philosophia enim, ut iam in lntroductione diximus, multis famutatus officiis erga Theologiam fungitur. De scepticismo Postquam singulis instrumentis, quibus certam veritatum notitiam assequi possumus, vim, auctoritatemque suam vindicavimus, propositi nostri ratio expostulat, ul in præsentia scepticismum in universum spectemus, diligentique examini subiiciamus. Breyis Scepticismi historia describitur 106. Postquam Socrates Sophistas profligavit, philosophia copiosius, perfectiusque tractari coepit, et ad beali tatis adeptionem semper spectavit. At quoniam Socratei potius philosophandi methodum, et finem, quam aliquaa philosophiam tradidit, factum est, ut Philosophi, qui e successerunt, e. g., Plato, Aristoteles, Epicurus, dum So cratem ducem sequi gloriabantur, in multas, secumqus nobis urgere licet. Exempli instar sit David Humius, qui statuit •', nisi phoenomena nobis comperta esse posse; quare dum om-, '"certa esse sancivit, aliquid pro certo sumpsit. W s. Aug., De Trin., Iib. X, c. i, n. 3. Pbilos. Cbrist. Compend. I. ? j[§ demonstrationes secundum Scepticos sunt legitimæ, et veræ auia ipsi putant illas vim habere evincendi omnia esse' incerta. Atqui omnis ratiocinatio expostulat certitudinem principiorum, ex quibus proficisci debet, et legunt Wicarum. Ergo Sceptici, dum vim ration.s oppugnant ea utuntur, et dum omnia incerta esse demonstrant, mul ta certa sumunt . Obiic. 1° Gonsuetudines populorum, et opinione: sanientum sæpe sibi invicem adversantur. Atqui hu.usmo di oppositio argumento est certam ventat.s cognitionem ; nobis comnarari haud posse. Ergo. 114 Resp. Nea. min Neg. cons. Emmvero, si consue tudines Gentium,et opiniones Philosophorum non raro m ter se dissident, indubium etiam est Gentes in multis in stitutis, etlegibusconcordare, multaque decreta de rebus et offic is esse omnium Philosophorum communia E. g. omnes Gentes, et Philosophi concorditer tenent ahquaD DeUatem existere, eamque cultu quodam nolns proseque dam esse; animos esse immortales, ob idque rel.g.osai seTuIcrorum curam habendam; alias. actiones esse : natur bonas, alias malas, atque illas præmium, has poenam m reri aliaque id genus quampiurima. Quapropter s. Scc ptic illa ob dissidentiam inter incerta reiic.unt, hæc o Snsenaionem certa fateri debent. Præterea ^sidenU Philosophorum, si Scepticos ipsos exceper.s, non spec | neque prima, atque immediata pronunt.ata cum tact., tu rationis, neque ea, quæ ex his proxime eliciuntur, sed Ltummodo1, quæ aut sine longa ratiocina ^num ser.e gnosci nequeunt, aut circa quasdam abditas rerum na ras, et causas versantur. Ex his autem postremis pronu, tiatis plura sunt, quæ aliquæ ph.losophorum sectæ p tius ob libidinem disputandi, quam ob eorum obscunt, T^0n minus, quam Pyrrhonici, Academici sibimetipsis adverH tur. Re quidem vera, eo ipso, quod Academici docebant nu asc tas nobis^esse rerum notitias, sed tantum probabiles c erUtud n se sequi profitebantur. Nam pro certis hæc sumebant 1 notottquas habemus, de rebus esse neque omnino incertas, ™V™™ no certas, sed'tantum probabiles; 2° diversa esse P^f^^ nera; 3° certis regulis nos potiri, quibus probabihtatis m omen, et gr^adus metiri possumus ; 4° argumentationes W™™^ conabantur mentem nostram numquam consequi posse cert.ti nem, sed dumtaxat probabilitatem, certitudine gaudere. , a nobis cognosci non potest. In Se Jto. Kesp. DtV. om., si spectetur, prout est affpnin laiem ipsam, quæ cognoscitur, wca. ant. Nea con F nt non.ab æstimalione inlellectus pendeat sed ab,n ' pnncpns rei oriatur . Quamobren? ex eo, quod co" 1,110 ventatis relationem ad subiectum hnlw i,„ entcm nuilius certæ cognitioSr^cS^st-Sct iEh?bAta ^0/"'1' °St evide,,S' et certum si" demonatione. Atqui demonstrat.o non polest confici sine a a enunciatione, quæ est ex se evideni pi L™ . . uon eget Ergo nibil cert? cognosci J&E2T 118. Resp. JVey. „-., conc, minNca. cons Lni, ' inn.s 3, quædam veritates. quæ ea luce menti effuhUn? demonstrationis neque indi'geant, nequ™ c" paces %Z ' U insd,arenl 'nqUlt S' Tb°mas' uuæ aturalTterrationi teles, ore profern, sed uullo pacto mente re,H,tari Cttide%T'.C'• a4P202. not. 1. £J7g Cum igitur sint aliqua pronuntiata adeo ex se ipsis persoicua, ut ea in dubium revocare nob.s non liceat, liquet non solum non oportere illorum demonstrationem exhibere sed ne ullam quidem controversiam de illorum veritate posse institui Hinc illud Scholasticorum effatura, Contendenti principia respondere nefas. Scepticismus criticus speciatim refutalur lis, quæ adversus Rantium alibi observavimus , hanc adiicimus propositionem, quæ ad refellendum eius sceplicismum propius spectat: Prop Criticismus tum in exorsu, tum in methodo, tum in conclusione systema sibi repugnans se prodit. Probatur la pars; nempe, Kantius cum in smecriUcæ exorsu investigare nititur, utrum cognilio sit possibilis, absurdam qualstionem solvendam susc.p.t. Re qu.dera vera, qui inquirit, utrum aliquid sc.re possit, necne, is certe tenet se nihil scire. Atqui ille, qu. mh.l sot nulam inquisitionem instituere potest, nam necesse est, ul qui aliquid inquirit, instrumenta, per quæ inqumt.o fit c^ognoscV Ergo absurda est illa, quam Kant.us solven dam suscipit, quæstio, an coamlio sit possibilis. 120 Probatur 2a pars; nempe absurdus est modus, qu( Kantius criticam suam conficere studu.t. Enimvero .psc contendit vim cognitionis a priort mvestigandam esse.lt. u „1 ipsam experientiam existentiæ su, a.se abi. ciat Atqui id haud possibile est, tum quod fien omn.n. nequit ut homo se ipsum aliquo modo affectum not. ex penatur tum quod qui se esse non sc.t, ut.que ratioc. nari non notest, quia nisi sciremus nos esse, qu. pr.nc.pi; cognosc?mPus con^lusionem ex iis haud inferre possemj. Er|o modus, quo Kantius crilicam conficendam esse con, fendit nluribus scatet absurdis. 121 Probatur 3 pars; nempe nullam v.m messe posa conclusioni critices Kantianæ. Etsane cnUca ratioim c,o nisi insa ratione fieri potest, idque exemplo ips.us Kan tfi declaratur, qui ope^ationis evertere conatur cerht dinem obiectivam ratioms, et facultatum quæ ra o antecedunt Atqui rat o, cum sui lpsius naturam, et v res^nvestigat, procul dubio nequit invest.gat.on.hu. sm i Cf p. 239, et Idealog., c. I, a. 4, p. 202 sq vim maiorem ea, qua ipsa pollet, largiri. Ergo si ratio, Kantu ludicio, obiectivam certitudinem haud parit, necesse est, ut critica, quæ eius ope instituitur, certitudine obiectiva careat; ac proinde conclusioni huius critices, qua statuitur naturas rerum nobis prorsus iatere, nulla vis messc potest. Præterea, abnorme est illud criticismi pronuntiatum, quo statuitur rationem practicam nobis largiri illam obicctivam cognilionem rerum, quam ralio theoretica suppeditare haud valet. Namque imperativum absolutum ex Kantio est factum, quod conscientiæ testimonio nobis patescit. Si igitur Kantius consentire sibi velit, imperativum absolutum phænomenicum, ideoque minime accommodatum ad obiectivam cognitionem rerum producendam fateri debet. Accedit, quod ratio theoretica, et ratio practica sunt una, eademque facultas ', et ratio practica nobis non largitur rerum cognitionem, sed cognitionem comparatam per rationem theoreticam extendit ad opus%. Quare absurdum est rationi practicæ illam vim >roducendi obiectivam certitudinem attribuere, quæ raioni theorcticæ denegatur. Utrum mens humana moraliter considerata verum semper assequatur Aht. I. — Stalus quæstionis exponitur, et vera sententia demonstratur 122. Haclenus investigavimus, quid vires humanæ menis, in seipsis, sive absolute consideratæ, ad rerum co.nitionem nobis comparandam valeant. Sed recolendum nimo est, menti humanæ multa et intrinsecus et extrinecus occurrere, quæ illarum virium usum neque sem>er tutum, neque satis expeditum efficiunt3. Etenim præadicatæ opiniones, quas cum lacte combibimus, vehelentes affectiones animi, coecum erga magistros obseuuim, ahaque id genus haud raro iudicium rationis præertunt; et msuper cum ratiocinationes alias cx aliis conectimus, evemre potest ut sive ob attentionis defectum, tve ob aham quamcumque causam error formæ, aut \ Cf Dynam., c. IV, a. 10, p. 156-157.- Ibid. • U s. Thom., Contr. Gent., lib. I, c. 4. materiæ in illarum seriem obrepat. Hinc, postquam novimus quid vires humanæ mentis absolute sumlæ valeant, opus nobis est inquirere, quænam ad verum assequendum vis insit ipsis moraliter sumtis, sive una cum iis, quæ illarum usum perturbare solent. 123. Ad hanc quæstionem solvendam sequentes propositiones demonstramus : Prop la. Animus noster neque in usu sensuum circa sensilia propria fallitur, neque in simplici apprehensione essentiæ rerum, quæ est obiectum proprium inteltectus . Probatur. Facultates, quæ circa obiecta sibi propria decipiuntur, absurdæ sunt. Ergo neque sensus falli pot est circa sensilia sibi propria, e. g., visus circa colores; neque intellectus in simplici apprehensione essentiæ re rum, quæ est proprium eius obiectum, æque ac exter na rerum facies est obiectum proprium sensuum. Ante cedens ita demonstratur: Omnes potentiæ naturam suam sumunt ab obiecto, ad quod referuntur 2, ac proinde na turalem ordinem ad proprium obiectum habent, et natu raliter ad illud assequendum operantur 3. Ergo si quæ dam facultas cognitrix circa obiectum sibi propnum de ciperetur, nempe obiectum suum non assequeretur, ips aut formæir niJ^iT^fn?^18' q,bUS ^6"8 humana mora,iter spectala in veri myestigatione adiuvanda est, et primuni de Divina Reveiatione \JuIr ™ iaim dict,S PersPicitU1' nostram rationem moalitcr constderatam cognoscere non posse sine ullo erro LS?nCt AtVentate8 ' etiamsi hæ ad ordinem Mturalem pectent. At vero externa præsidia ad illas tuto cogno J}' 2°— fI, q. XVII, a. 3 ad 2. tt Dt/nam., c. IV, a. 10, p. 154. ChnniTa 9li?"' 39.-sJn Kft. jj SenLi Joc cifc enna ni 'r,?Uæ in tn'bUS ProPositionik"s demonstravimus, exped omn 11 confir,nat Etenim non solum omnes PhiJosophiL ?? qUe h0l,nncs Perfectnm usum rationis adepti con S aiT?0! Prim^ CXUC'ient-e> tuue ratiLs',^ r I h oJnh Iucu,enter Profluunt. Multæ vero lites, quæ ind ^ ^^f rSerUnt' m^æque præiudicatæ opinionls, quæ inLln Perva?atæ sunt, versabantur circa ea, quæ ex prociatis per se notis non sine difficili demonstrationededucmUur. scendas homini non desunt. Horum præcipuum est Di Tipro^lSUT..°TeS,n fa,sitate tradenda conspirent. Ercro : 161. lllud autem advertendum est, veritatum cognitio nem, quam ex sensu communi sapientum nobis compara mus, esse dumtaxat vulgarem, non scientificam, quia, ut s. Ihomas mquit, in scientia ^locus ab auctoritate, quæ Unootu£ suPer ratl°ne humana, est infirmissimus 3 . 166. lertium auxilium rationis nostræ est consensio omn.um gentium. Consensio omnium gentium est certum veritatis inuicium. 1 J. qI, a. 6 c.-s Dispp. Tuscul., lib. I, c. 15. J qI, a. 8 ad 1. Probatur. Notæ, quibus opiniones a consensione omnium gentium petitæ gaudent, hæ duæ sunt, nempe, nuod sint perpetuæ, et universales, ita ut ostendi non possit tempus, in quo non viguerint, aut natio, quæ illis :unquam caruerit. Atqui opinio perpetua, et umversahs talsa ^lU^inor his D. Thomæ verbis luculenter demonstratur cc Ouod ab omnibus communiter dicitur, impossibile est'totaliter esse falsum; falsa enim opinio infirmitas quædam intellectus est, sicut et falsum iudicium de sensibih Droorio ex infirmitate sensus accidit. Defectus autem per accidens sunt, quia præter naturæ intentionem; quod autem est per accidens, non potest esse semper, et in omnibus; sicut iudicium de saporibus, quod ab omni gustu datur non potest esse falsum; ita iudicmm, quod ab omnibus' de veritate datur, non potest esse erroneum . 135 Præterea, fontes, ex quibus consensio omnium ffentium promanat, alii esse non possunt, quam evidentia, et facilis demonstratio pro iis veritatibus, quæ perspicuæ sunt atque primæva traditio pro iis, quæ cognitu sunt difficiles Atqui, si de veritatibus primi generis agitur, illæ ex ipsa humana natura fluunt, proindeque sunt homini naturales; id autem, quod est homini naturale, verum esse necesse est; siquidem, cum natura uniuscuiusque rei vera sit, id, quod naturale est, consentaneum ve ~Tcontr. Gent., lib. II, c. 34. Hac autera in re caveamus oportet ab errore Lamennaisii, qui contendit hominem individuæ suæ rationi relictum nullius veritatis certitudinem assequi posse, statuitaue consensionem oraniura hominura esse unicum ven cnterium ?loc cit ) Ad quam sententiam refellendam satis sit mente reputare consinsionem omniura horainura circa aliquara veritatera ads"ni non posse, nisi iam tamquara firma sumantur critena qmbus singuli homines pollent, nempe conscientia sensus exterm et ratio Neraini enim exploratum esse potest, quid de ahqua re totura genus huraanura opinetur, nisi antea ope conscientiæ, et sensuum externorum cognoscat se, et alios existere; et nisi ope rationl Tognosca°trfieri non posse, ut omnes homines decipiantur e menianturnisi testimoniura horainura probe intelhgat ; nisi ps cTstet nDenm primos humani generis parentes V""™™& nisi alia multa noverit, quæ recensere longum foret. Quare sini metins rrPugnat qui dura statuit criteriura veri in genens humam ronsensione cunct^a instrumenta menti huraanæ adirait, per quæ illam consensionem cognoscere potest. ritati sit oportet. Nec de veritatibus alterius generis du monstSus ^dT™' ^0' Uti Pau'° ante de" m°t jfrgoT M Revela',one originem suam su IV. Corollarinm ex theoriis iam demonstratis deducitur contra Rationalistas, et Traditionalislas 136. Ratiomlistarum nomine hic a nobis intelliguntur Ui, qu. contendunt rationem, etiamsi moraliter specte"ur s.b.,psi omnmo sufficere, qnin u||a RevelalioneTndiceat ad assequenda s.ne ullo errore omnia dogmata quæ ad rel.gion.s cultum, et ad mores pertinent. q ld7. At ex ns, quæ iam ostendimus, pronum est in dnS 1PA°S Ver° vehementer aberrare. Etenim, quemadmodum demonstralum a nobis est, facultates bomuWs lnd.v.duæ, s. considerentur una cum iis adiunctis n,-,P fiæ etefir1maati0n,;,n ^T^" ^uZZ\TdTo re sint' „A l' ut.oranbus verilatibus assequendis,,a™" Z,bnU!,h0m,n.1 °PUS est ad intellectus institu ionem'ni„t,S-reg,men' 0are confecimus Revelatio suiT in„nna,m °mn,n0 consu|endam esse philosopho, u °n p 1? u0nlhus Slne errore Progrediatur. uui> '"consulta, con.Sr V l 0,ICæ F,de' doc"-'"a, scientias rerum lerroriri vo,uerunt > modo paganicæ philosophia^ illis for.,rVaVer,nt-' Sed ' haC P^ertim noslra ætate? .U.s tortasse mag.s,mpios, et absurdos protulerint \ lin\li„,,n 6° aUtem' Uuod nullus ({sil Pbilosophus, qui I; s Crr°re,S n0-n nelde--'t, Traditionalistæ conclu 'nul L, em ade°,mbecil'am, et infirmam esse, ut vel fCT ventatem, vel nullas veritates abs raclls el^altem nullas ver.tates metaphysicas, et morales sine obHdunrsi^.H'"'5'"'.' qUaSdam falsas PP'"" opiniones nobis proindeo;, ' ? ' dCm ha° DeqUe ^"e, neque universales sun ' S Bonav," ,T,T'Um genti"m min"ne ". Cf ?,"/ V' ; ' Se"L> Dist XVI", • , q 1 "d ara Pii £' ' n i._.-- :„. r, nnhie r.nnn.n xCWitur De modo, quo facultates animæ a nobis cognoscuntur De modo, quo facultates inter se distinguendæ sunt Quot sint animæ facultates De potentiarum distinclione in activas et passivas, ei ^ de potentia obedientiali De conalu potentiis insito g De habitibus potenliarum animæ De facultate vegetativa I. De natura, et operationibus huius facultatis Vitæ veqetativæ definitio tradilur Invesligalur, utrum operaliones vitales in homme sinl ^ rationales, an naturales De facultale sentiendi Quædam notiones præstituunlur De obiecto sensibilitatis De numero sensuum externorum De modo, quo actus sentiendi, sive cogmtio sensilxva ^ efficitur D 12( V. Quædam circa species sensiles adnotantur Obiectiones contra specierum theoriam dissolvuntur De sensu communi De Phantasia De Æstimativa, seu Cogitativa De Memoria, et Reminiscentia JAll I DYNAMILOGIA De facultate intelligendi I. Cuiusnam naluræ sil intelleclus, et quanam ralione res ad ipsum referanlur PAG |gj II. Cuiusnam generis sil immaterialitas rerum, quæ ab inteUectu humano, prout cum corpore coniungilur, cognoscuntur 139 III. Quodnam sit obiectum intelleclus ex iam dictis dedu CttWf • 1 QM De modo, quo intellectus obiectum sibi proporiionatum intelligit, et primum de speciebus intelligibilibus. De intellectu agente De intellectu possibili De verbo intellectus De aliis aclibus intelleclus, et primum de conscientia De actu iudicandi,1^1 \.De ratione L n 26rens bidei adversari pos. -Dc Scen, UL ^cepticismo Rt' Ji £^ " historia describitur t' r' Refutatur Scepticismus. scrwtt'^ 270 lRT I. S/ato quæstionis exnonitur ot, stratur. fxP°nttur> et vera sententia demon lRTII. Deauxiliis, quibus'men, 'humn^ '' fliwna Revelatione. ' ^r^nw de • • et nemPe Prot est ens, disputat '; unl\UuZ,nt',alaue ex.P?nit n°n iam iHas notiones, quæ hquem modum spec.alem entis repræsentant, sed auæ otionesU?.lr?al',ter aCCeptUm SpeCtant 5Iam huiusmodi UDn.nnS,SU,,t' qU/e cak9°riæ dicuntur, hoc est, illæ eZn ur T°^' ad, qUaS cetera™™ rerum uotiones reeruntur. Quocirca obiectum, in quo Ontologitatur. Iam ens hac rati?ne spectatum toitur ideale, et duphcis generis cst, vel nempe huiLmodi, ut ex kX^ln^t^T^l SiVG Pr°dUCi P°SSU' VCYta ab intclue sino / ab Xll°. S0,° Producatur> in eoque re^aneat, neZS,ntel,ectu cogitante ullibi esse possit. Si ens ideale hoc bus,nennSU f Clp,atUF' ms rationis vocari solet, atque illis notio mndTl" i.qUaS m L°9ica (part' ' C-J' a' J> P- 10> noti. vol. I) undas appellavimus. E. g, notio generis ens rationis exhibet Mpitur. rCrUm UatUra P°teSt rcsP°ndere Seneri, prout genus ipariCsColPerSi]),litaS n0mine Potenti'æ ^cæ vel obiectivæ nun g ONTOLOGIA mini se ipsos invicem destruunt, e. g., circulus quadraZ lllud autem, quod inlrinsecus est possibile, dicitur ^Weu r& possibile., si ieralnr ad^ hm cau sam Der quam ad actum reduci potest, a que extnnsecus, eu VKe impossibile, si referatur ad illam causam, per nuam ad actum reduci nequit. Ita intellectui humano posS est essentias rerumVitarum ™fi™?^^ res eius naturales spectentur, impossibile est cognoscere Essentiam Dei, prout in se est. :„,r:„cpriis im 10 Ex his facile intelligitur id, quod est intrinsecus im nn^ihile esse quoque extrinsecus lmpossinile, quia, ui, Lo o o'os endemus, ne Deus quidem efficere potest, ut ea nuæ secum invicem pugnant, in eodem sub.ecto m nian ur; Xd, quod e t Winsecns poss.b.le esse exIrinsecus possibile, si est intra vires causæ, ad quam re StoTrS extrinsecus impossibile, si eius v.res supergreditur '. II.-De notione nihili 11. Nihilum est negatio, sive absentia " /' "n Sc h£ lastici illud simpliciter non ens vocare olent De hoc m t.ilo lnnuen s. Augustinus perbelle ait. JNitni nec corpus commun.ss.me accepto oppomt ur d et m etiam solet ld, quod oppoiuiur euu alirnius momodum determinato, ita ut denotet f^^SS^fa rli onlis Nihilum hac rat one spectatum distingunur ... tia alicuius modi entis cons.derata m s ipsa, e^ g., no videre, non habere rationem ; n.h.lum pr.va t.vuro esl .M sentia alicuius modi entis cons.derata in al.quo sub.ecto, quod ad illam habendam naturaliter comparatum est, e. g., absentia visus in animali. j;0„„;m„„ inler S 13. Ex his in promptuest.ntel.gere ™™eP 'T negationem, et privationem. Negatio en.m non al.ud de "onnullas circa possibile, et impossibile quæstiooes in T..loto orK attingemus. • Cf Anst., Me t l.b. III, c. 2, f 3 0j). imperf. cont. Iulian., hb. V, n. al. notat, nisi simpliciter aliquid non esse, qu w denotet uilum subiectum, cui illud aliquid inesse nuturale est Privatio autem denotat aliquid non esse in subiecto, cuius natura illud expostulat1. Quædara adnotantur circa originem notionum entis, et non entis 14. Præcipuas theorias, quæ ad originem notionum entis, et non entis spectant, sequentes propositiones complectuntur: la. JSotio entis prima est cum in ordine cronolopco, seu temports, quo intellectus notiones rerum adquirit lum %n, ordme logico, quo notiones inter se continentur. Pnma pars huius propositionis illud^sibi vult, quod intellectus, essentiam rerum materialium, quæ est ipsius >mectum, primo, prout est ens, concipit2. Altera pars ngnincat m conceptum entis omnes reliquos resolvi 3 lo. Probatur la pars. Mens humana ita comparata est, na notionibus magis communibus ad notionesminus comnunes progrediatur. Atqui nihil in rebus communius, [uam ens, intell.gi potest. Ergo mens humana obiectum idi proportionatum, nempe essentiam rerum materialium, •rmcipio, prout est ens, intelligit. 17. Minor huius argumenti facile ex se perspicitur, quia [uidquid in singulis rebus invenitur, sive substantiale, sie accidentale, est quoddam ens . Maior autem ita denonstratur: Mens humana ita comparata esse debet, ut nncipio cognitionem rerum imperfectam adquirat, deine lpsam gradatim perficiat, quia non in actu cognitionis, ea in potentia ad cognoscendum a Deo creatur. Atqui ogmtio, quo magis communis est, eo minus est percu, quia quo magis communis est, eo pauciores notas ropnas obiecti, quod repræsentat, complectitur 5. Enro ens humana ita comparata est, ut notiones rerum maiscommunes prius, quam minus communes, assequatur6. Cf s. Thom In hb I Sent., Dist. XIII, q. 1, a. 4 sol. V\ VrAr F' dizpr-> De Ver-> a c t nrim, i, • a# C' Exinde intclligitur notionem entis, prout 'lOTiZnl^r cronoIoSico> e^ e imperfectam, ac proinde in S ToL 6 confusa,nPræ^at autem hic adnot.re ens com mstme acceptum tamquam indeterminatum intelligi, quatenus g Itaque intellectus, essentiara rei exploraturus, ex variis rationibus, quibus illam concipere potest, rationem entis primo in ea cogitat. E. g., ex variis conceptibus, quos intellectus circa hominem, qui pnmo ei occurnt, elformare potest, puta animalis, corporis, substantiæ, pnmus est conceptus, quo illum velut ens cogitat. 19 Probatur 2a pars. Notio in aliam resolvitur, quoties hæc' illam continet. Atqui notio entis reliquas omnes notiones continet. Ergo in notionem entis omnes rehquæ notiones resolvuntur. Hinc si ab omnibus notionibus removeantur cunctæ differentiæ, quibus ab se invicem determinantur, remanet ens, quod omnibus commune est. 20. Ex hac propositione tria corollana consequuntur: 1° Notio entis, quæ est prima omnium, est abstracta, non vero concreta. Etenim intellectus non potest inteihgere essentiam rerum materialium dumtaxat prout est ens, nisi in ea consideret rationem entis, non^qnsiderando aliquid ex iis, quibus ens in ipsa determinatur. Atqui considerare in aliqua re unum, quin cetera considerentur, constituit illam actionem intellectus, quæ abstractio nuncupatur. Ergo notio entis, de qua disputamus, ope abstractionis conficitur, ac proinde est abstracta . et Entis notio, quam omnium pnmam mtellectus aaquirit cum sit omnium communissima, tneque essentiam, neque' existentiam repræsentat, sed actum essendi, sive actualitatem communem essentiæ et existentiæ. non est hoc, aut illud ens, et tamen natura sua ita comparatmr est ut plures determinationes accipere, ac proinde ad hoc vel ad aliud determinari queat. Quare abnormis est sententia Hegheln, qu ex eo quod Ens, sive ut ipse ait, Ens-Idea, est indeterminatum ipsum esse purum putumque nihilum confecit. Nam nihilum ca nax non est ullius determinationis, dum e contrano ens huiusmod est ut in singulis naturis rerum diversis modis determinan possintelligatur. Ceterum nihil est negatio entis; ac proinde si ens, si ve Ens-Idea, est nihil, dicendum erit ipsum esse ens, quod noi est ens, sive ens, et non ens. m i Hinc vides quam turpiter errent Pantheistæ, qui ut res, quot quot sunt, esse unum ens conficiant, contendunt ens concretum et reale in rebus esse ipsum ens universale, cuius ideam inteiie ctus habet, et quod velut unum cogitatur. Item mtelhgis valde d cipi Ontologos, cum autumant ens, quod mens humana pnncip. apprehendit, esse ens realissimum, et concretum, nempe ens, quo Deus est. Ens, cuius notionem omnium primam inlellectus sii contac.t, est illud, quod actum essendi realem, non ve 0 possibilem denotat. Et sane, ut intelligatur aliquid esse oss.b.le, intelligere oportet primum elementa, ex quibus psum constat, et deinde hæc eiusmodi esse, ut secum i>mponi poss.nl; ac proinde notio entis possibilis nequit sse pnma omn.um, quas intellectus adquirit. Contra ea, us,quod intellectus primum omnium cognoscit, est reale, uia essentia rerum materialium, quam ipse sub ratione ntis pr.mo intell.g.t, est, ut alibi diximus, realis. Hic fltem advertendum est, ens, quod primum omnium intelictus intell.git, etsi sit reale; tamen ipsum non co^nosci t> intellectu, tamquam reale ; nam cognitio entis tanaam real.s, est reflexa et distincta, quia intellectus neii cognoscere aliquid tamquam reale, nisi super se re3Ctatur, naturamqæ entis, quod apprehendit, expendat2; Jm e contrano notio entis, quam intellectus primam omum adquiril, est directa, et confusa. 21. Prop 2a. Nihilum ab intellectu cognoscitur non per ipsum, sed per eius oppositum, nempe per ens communisme sumtum. Probatur la pars. Non potest per seipsum intelligi il a, quod esse sui proprium non habet. Atqui nihilum non M m se al.quod esse. Ergo nihilum per seipsum ab tellectu cognosci non potest 3. 22. Probatur 2a pars. Intellectus non potest intelhVere entiam cuiusdam specialis determinationis entis, °nisi telligat ahquod obiectum, in quo illa determinatio en[mvenilur. E. g., nobis non licet intelligere absentiam lionis in bellua, msi ex eo, quod rationem homini inse novimus. Atqui non ens, seu nihilum denotat absenim cnt.s communissime sumti. Ergo inlcllectus non po t mtell.gcre nihilum, nisi per ens communissime sumna, cui nih.Iurn opponitur. Quare s. Thomas statuit inicctum notionem nihili sibi conficere ex eo, quod abntiam ent.s concipit 4. 1 Ex his illud magis confirmatur, quod antca ostendimus (Idea iimti.J ' ' P' 19-7 Sqq' voL !)' nemPe fa,sam esse Rosminii tentia,, qua statult ens? quod primo ft nobis cognoscitur5 esse I Zihf 7 3 Cf S Th0m'' '• 1XYI • 3 ad 2. ioia. Ex hac argumentatione facile perspicitur error Ad. Fran ^RT> IV.— Principium, quod ex notione entis dimanat, exponitur 23. Mens humana, postcjuam assecuia est notiones' entis, et non entis, illud iudicium conficit: Non est possibile ens esse simul, et non essef sive: Non est possibile idemsimul esse, et non esse. Hoc iudicium vocatur principium contradictionis, quia essey et non esse, quæ sunt eius termini, contradictoria sunt '. Iam circa hoc principium duo investiganda a nobis sunt: 1° utrum sit primum principium; 2° utrum, præter ipsum, aliud primum principium admittendum sit. 24. Primam quæstionem solvimus sequenti Principium contradictionis est omniurn primum. Probatur. Quin hoc iudicium, idem non potest simul esse, et non esse, inter principia, seu inter iudicia ex sef perspicua recensendum sit, nulli dubium esse potest. Nanl non ens tollit ens, ac proinde nullo medio opus est intel-i lectui, ut intelligat id, quod est ens, non posse esse id, quod est non ens, sed hoc immediate intelligit ex compaJj ratione notionum entis, et non entis2. Quod autem sif principium omnium primum, ita demonslratur: Ut aliquor,nc(>. rfe,„ „„,., g ? „ g illud, propter quod res ad certo quodam modo existendum determinatur, est ratio sufficiens existentiæ eius. Ergo nihil sine aliqua ratione sufficiente existit. 29 Probatur 2a pars. Omnes res creatæ non solum contingentes, sed etiam necessariæ, puta non posse existere hominem, nisi ratione polleat, ordinatæ sunt a Mente Divina cum Deus infinite sapiens sit. Alqui ubi est ordo ratio quoque est. Ergo non sohim rerum conlingentium sed etiam necessariarum rationes sufficientes sunt. 30' Probatur 3a pars. Omnes veritaies tam necessanæ, auam contingentes in effaturn rationis sufjicientis resoivi possunt. Atqui illa veritas, in qnam aliæ resolvuntur, est principium earum. Ergo effatum rationis suflicientis est principium veritatum tum necessariarum, tum contin gentium. Maior ita demonstratur: Si cuiusque rei sive contin^entis, sive necessariæ aliquid esse debet, per quod ad °certo modo existendum determinatur, consequens est in resolutione cuiusque veritatis cum contingentis, tum necessariæ posse tandem perveniri ad aliquid, ex quo, cur potius uno, quam alio modo existat, mtelligatur. Alqui id est, quod ratio sufficiens dicitur. Ergo omnes veritates tum contingentes, tum necessanæ m eilatum ra tionis sufficientis resolvi possunt. 32. Probatur 4a pars. Illud principium omnium primnm dici nequit, quod in aliud se supenus resolvitur. Atqui effatum rationis sufjicientis in principium contradictio ?iis resolvitur. Ergo effatum rationis sufficienhs pnmun] principium dici nequit. Minor probatur hoc modo: Si mhil m re est, pei quod ipsa ad certum modum existendi potius determinatur, quam non determinatur, consequens est posse eani dem rem certo quodam modo simul esse, et non esse. Atqui id contradictionem involvit. Ergo effatum rahoms suj ficientis in principium contradictionis resolvitur. Deus, inquit Tertullianus, omnium conditor, nihil non ratu ne tractari,' intelligique voluit ; l)e Poenit., c. I. Resolvi possunt, inquimus, non debent, quia, quamvis ceriu sit nihil esse sine ratione sufficienti, tamen non semper rationeniam est id, quod est, efficitur, quemadmodum s. Thomas inimt ut ipsa per essentiam, et in essentia habeat esse: De Ente et ssentia, c. i. »;I,HanCr°b ?ausam dicitur etiam definitio rei, quia definitio, ut diumus m Logic. (part. I, c. I, a. 10, p. 21 vol. I) denotat quid res sit. stituunt; nominales vero, quæ a rerum constitutione haud pendent, sed opus sunt nostræ mentis, quæ revocat varias res ad nonnullas species, et confingit generaha quædam nomina ad illarum discrimen designandum. Uocuit præterea nominales quidem essentias, numquam vero reales a nobis cognosci l. Eamdem sententiam tuitus est Lriobertius ; hic enim essentias, quas Lockius nominales appellavit, rationales vocavit, atque essentias reales non solum impervias nostro intellectui, sed in seipsis inintelUqibiles, sive inexcogitabiles esse pertendit. 38. Huiusmodi sententiæ absurditas hac evincitur Multarum rerum essentiæ reales a nobis cogno cpiiYitur Probatur. Dubitari nequit, quin multis in rebus quasdam differentias coneipiamus, quæ lllas constituunt m deterrainato entium gradu a ceteris distincto, suntque veluti fontes, unde earum attributa pullulant. E. g., quisquis admittit bruta differre a plantis, et plantas a lap.dibus, eo quod bruta sentiunt, non vero plantæ, et plantæ vegetant, non autem lapides. Atqui huiusmodi difterentiæ sunt reales, ipsamque rerum constitutionem, noc est, essentiam ingrediuntur; nam sive cogitentur, sive non codtentur, sive his, sive aliis nominibus iSlæ appellentur sive ad has, sive ad illas species a nobis revocentur, sem per verum est bruta sentire, ob idque a plantis difterre Ratum igitur, firmumque sit reales essentias rerum a no bis cognosci 3. . 39 Præterea, res, aiente Aqumate, per suam essen tiam cognoscibilis est, et in specie ordmatur, vel in ge nere»rqapropter, si realis cuiuslibet rei essentia noi lateret, baud possibile foret nos scientiam rerum adqui l Essai sur V entend. hum., lib. III, c. 3, § 15-17. Introd., lib. II, c. 8, not. 2. Advertito essentias rerum non raro non a pnori, sed a posi riori a nobis cognosci, ita nempe ut non ex seipsis eas comp " mus sed ex earum proprietatibus, et accidentibus detegamus ^c rThomV^. displ le Pot., q. IX, a. 2 ad 5). Qaod ao e, cognitione distincta essentiarum rerum intelligendum est, si cnii de cognitione coofusa agatur, essentia rerum matenalium ut sæp diximus, est primum obiectum intellectus nostri, ac proind $ iHa primo, et non ex eius proprietatibus, et accidentibus apprehendimu. De Ente, et essentia, c. 2. ONTOLOGIA 15 rere, quia omnis nostra cognitio non circa ea, ex quibus res const.tuuntur, sed circa ea, quæ de rebus nobis anparent, versarctur Atqui id nonnisi a Scepticis asseri potj est . Ergo, si nulhus rei essentia realis comperta nobis esset, purus, putusque Scepticismus obtinerel 40. Illud contra Giobertium speciatim adnotandum est, quod ex eius sententia hoc maximum absurdum etiam lluit, nempe ne Deum quidem esscntias rerum cognosce-, re posse. Etenim essentiæ rerum, ipsius Giobertii iudicio, sunt immutab.Ies. Ergo s. ipsæ obiective in se inexcozitabiles sint, numquam potest fieri, ut intelligibiles evadant. III.-Nonnullac quæstiones ad notionera essentiæ mæis magisque declarandara valde uliles solvuntur ; 41. Trcs quæstiones in hoc articulo investkandas suscp.mus, nempe 1° utrum essentiæ rerum s nSnlices an compos.tæ; 2° utrum esse essentiæ ab esse existenliæ rum s.nt æternæ, necessanæ, et immutabiles. Ouid cir i ion l^Uæ. 10neS/enl,endum sit' ex sequentibus propo(sit.on.I)us planum fiet. l l Li2'Jr°P-' ia' °mn6S essentiæ sunt compositæ ex quibus}dam pincipiis: quæ tamen ita inter se cohærent, ut, aliquo ilbrum sublato, essentia illico pereat Irobalur la pars contra Cartesianos 2. Quælibet essena e.usmod. esse debet, ut babeat tum aliqufd per qZ riminln C°nSent,t>. tUm aliUJd' Der 1uod a ceterisqdis 'i"T„t n X' S1 PnrnUm deeSSel' res> auæ in monlo sunt, nullo nexu continerentur ; sin alterum, omnes s unum, xdemque forent. Quapropter, cum res deffi ZximZ ^"T CSSe?t,a. slSnifi™tr i adhibetur genus 7tTcZ\T'f ?m.PieCtltUr a,i0Uid eommune rei defiuo rp"m r ' 6t dlITerent^ qa exhibetur aliquid, ex cntia? rt fin,ta a Cet.enS rebus "iscriminatur ". Ergo esenhæ rerum ex varns principiis sunt compositæ. i! 5w1S2,M t TUyiS rerUm creatarum> esse -+-> MLogic, part. I, loc. cit, p. 22 vol. I. Probatur 2a pars. Essentia rei constituitur ex om L nibus iis, quibus res est id, quod est. Ergo, subtracj vel minimo eorum, quibus res est id, quod est, essenti rei preat necesse est. Hinc. Scholastici sap.enter decr ;. verunt essentias rerum consistere %n indtvisibih, et nume rorum instar se babere, quia si ex numer o eel umU y tantum subtrahatur, non manet idem specie numeru . u 44. 2a. Inter essentiam, atque existenliam realis a stinctio admittenda esl . i>i,,-|nnnlios necessariæ et immutabiles. „/'., P' ' jfessen'oe r ad ætum reduTLanZ T6"1abS°lute neccssar™, et immutabiles , Z ITuh, parS' nempe non esse aoso/M nempe esse hypolhelice necessa1 m£ !>?„, entT suam sunt iu. qnod sunt. Ergo, 'n creD,inn.P ° SSet r6S n0n creare> tamen. Posita eaaueTdn°,vL,i,Sæ1eSSent,,S.Suis nequeunt deslitui, no ^Vro&fa a',oqy,,,ni,Tl,essent' et non essent .„;„' ";"r °, Pa,s"lud absolute necessarium dici 'p inctiiPPd°es Z repUgnan' AtQUi repUgnat essentiam f esse P It „„„ ' . q-U.,buS constat' quiPPe quod si' sTmnlnL „„ 6SSet',SC,l'.Cet esset' quate,,us suuiitur bn co„sqii,ui"on T. qn,a non, haberet rinciPia' e bus t L ! g,'-' tr,anguIuni, quod qualuor la •t n„fi 7? angul,s c,onstaret, esset simul, et non anlulos hanf,UlU,m-' qU°d plus' quam tria IaUra, et si"Ud L; • ' tr,anSulum dici nequit. Ergo essen tur absoP,ZC'P,a pr°X,ma' ex quibus conslant, refeSram di™ necessanæ suntQuod de necessitate esrum demonstralum est, ad earum immutabilitatem ZlltTse „ T,ibU[æternitas ™9°tiva, quatenus nempe ad 2 deerm,nenur ad aKjuod em/ms; I, q. XVII, nTnnU h'iCU!US rei P°teSt esse vel ', hoc est, eiusmo s, eiMmodr^n' Se" C°ndUi0nC PCndea Vel Z 3f s. Thl Vn,', "T "?' S.ttUta aliqua eonditione, exista, inom., Contr. Gent., l,b. II, c. 30, n. 4. Pbros. Curist. Compend. II. 7 g 18 ONTOLOGTA quoque spectat, quia illud, quod est riecessarium, essel nequit aliter, ac est, et ideo immutabile est . De proprietatibus omnium entium communibus, et primum de unitate 51 Tres a Philosophis maxime generales proprietates I entis dMinguuntur, unitas nempe, veritas, et bonitas, cuaj qua pulcritudo arcte coniungitur. Hæ vocantur transcen-% dentales, ut distinguantur ab attributis categonas, ns nempe, quæ certo quodam genere, sive categona continentur I I.— Ea exponuntur, quæ proprie ad nnitatem spectant 52 Unum, ut s. Thomas advertit, nihil aliud signifi 1 Cat quam ens indivisum 2 ; unde hæc est vera defamtu i unius? Unum est ens, quod non dividitur \ Exinde intel i ligitur unum non addere enti aliquid reale, sed tantun aliquam negationem, quia ipsum, cum non aliud signin cet, nisi ens indivisum, divisionem entis negat . Lav tamen ne inde inferas conceptum unius esse negativum Nam unum, cum significet ens, quod est mdivisum, si snificat principaliter ens, sive substantiam, et secundan fc negationem divisionis, ac proinde eius conceptus non es negativus, sed affirmativus 5. 53. His præstitutis, demonstrandum nobis est unitater esse proprietatem omni enti communem. Omne ens est unum. Probatur. Omne ens per suam essentiam est id, quo est. Atqui essentia est id, quo unumquodque ens ab aii distinguitur, et ens ex hoc ipso, quod ab alns distingu i Ex his, quæ deraonstravimus, facile est redarguere errore Cartesii, qui sensit (Repons. aux sixiim. object., § 6) essentias rum a libera voluntate Dei pendere, ita ut essentiæ rerum qu Deus condidit, possent aliter se habere, quam se habent. bea his in Theologia naturali. Hic tantura adnotatum voluraus, n Cartesii sententiara, ut ipse Baylius (Dict., art. Spinoza)scn^ ad interitum metaphysicæ viam sternere. Nam scientiaruni q circa rerum essentias versantur, obiectum non lam necS?sa"^!° immutabile foret, sed mutabile et contingens; huiusmodi enin id quod a libera voluntate Dei pendet. d 2 1 q XI a. 1 c.-8 In lib. I Sent., Dist. XXIV, q. I, a. ^ i) q.' XI,' loc. cit.-s Qq. dispp., De Pot.% q. IX, a. 7 in i se sunt indivisa, dividi possunt. Ita hoSo est u; un.tate compositionis, quia anima, et corpus ex u" ipse comppnitur aliquid in se actu indTv um £E,7 II !.°d e,,usmoJdi Sl|nt, ut ab sc dividi queam? onl ad3, hmfln,dVertendUm eSt'-hanC un,tatem ™mpartbus 1, Ua pr°Pr,e,Pert,nere > quæ constant rperficit'„q „,Um MUna ab a'tera ' LVeluti P°tentia J, perlic.tur, quæ idc.rco unicam substantiam comple Cf s. Thom., Quodlib. VI, a. 1 c.- I,, vr ]n. „;, [m-. /., Dis, „,,. 2. Cf, ££•£; l,in, £^ssPe^ern:^. sffi-at supra cns "^ 1 PPelLPurm"m Uni,a'em ""^'8. Posteriorem pftj, tam constituunt, unamque existentiam habent. Quare huiusmodi entibus, æque ac iis, quæ compositionis partium sunt expertia, unitas per se convenire dicitur. E. g., homo est unus per se, quia ex anima et corpore in unicam substantiam perfectam coalescit. E contrario, illud ens, quod ex partibus componitur, quarum una ab alia non perficitur, sed distinctam existentiam habent, dicitur unum per accidens. Hoc modo unus dicitur exercitus, quia unusquisque militum, ex quibus componitur, est per se substantia completa, atque existentiam a ceteris militibus distinctam habet. II. — Dc identitate, et distinctione 58. Identitas in eo consistit, quod ens cum seipso con sentit. Ipsa oritur ex unitate entis, nempe ex eo, quo( omne ens est indivisum in se, sequitur omne ens cun se ipso consentire, ac proinde esse idem sibi . 59. Quod si identitas indivisionem, nempe, ut Aristo teles subdit2, unitatem ipsius esse, in sui conceptu inclu dit, patet identitaiem proprie eam esse, quæ considera tur in aliqua re, prout est in se ipsa, seu respectu su ipsius. Quocirca illa identitas, quæ consideratur in aliqu; re, prout cum alia comparatur, e. g., cum cogitamus Pe trum idem specie esse cum aliis hominibus, et idem ge nere cum brutis, non est proprie, et stricte identitas, senam, et Banonam, seu filium lonæ distinguit. Interdum ero plura inter se distinguit, quæ unum re ipsa sunt ed noc unum intellectui præbet fundamentum plura in pso distmguendi. E. g., si intellectus distinguit in anima lumana tna pnncipia, sci licet rationale, sensitivum, et veetativum, fundamentum huius distinctionis in ipsa anima nycnit, quia anima humana, quamvis sit re ipsa unicum inncipium, tamen triplicem virtutem exercet, scilicet ralonalem, sens.tivam, et vegelalivam. Hæc altera distin !Lio rationis appellatur etiam virlualis, quia obiectum, in uo mlellectus plura distinguit, etsi unum revera sit, taien virtule multis æquivalet, ideoque intellectui fundalentum ad efformandos plures conceptus obiectivos illius pacbet. 63. Præter has distinctionis species Scolus distinctio^ em formalem invexit. Hæc, secundum Doctorem Subti>m, intercedit mter eas entitates, seu, ut ipse ait, for 1 Hic non loquimur de distinctione reali, qua Tres Personæ Dinæ inter se djstinguuntur; ea enim, ut Theologi docent, non nisi opposmone relationis oriri potest, quatenus nempe Pater relative 'Pomtur Fiho, et Pater Filiusquc relative opponuntur Spiritui S., iub unicum principium sunt. mas, quarum una concipitur ab intellectu sine altera, ita tamen, ut ipsæ neque realiter, neque dumtaxat rationt ab individuo, in quo sunt, atque inter se distinguantur. Non realiter, quia ipsæ una res cum individuo sunt. Non ratione dumlaxat, quia anle omnem actionem intellectus ab individuo, atque a seipsis invicem distinguuntur. E g., esse hominem, et esse animal in Petro, non distinguun tur realiier, quia neque ab ipso Petro, neque a se mutu SGU exemP'ar^s Intellectus Diviexem nhrfl n qU' ? natura,es accuratissime respondent auiZil !n ' Secunduin uuæ De" iHas condidit. Ergo quidquid in natura rerum est, est verum. accunUssil1,a aC1^ de,nostr^r-Si res naturales non accuratissime responderent cxemplaribus, secundum quæ ^^ziczxTr iiiud s- Augustini: f™ > ' ^ripUoInsl t!uT™ ""? Cr,amPIeus Wittenbachius, Brevis de Deus illas condidit, dicendum foret Deum aut nescivisse, aut non potuisse res condere, quales in se intelligit. Atqui illud infinitæ sapientiæ, hoc infinitæ potentiæ Dei repugnat. Ergo repugnat res naturales non accuratissime respondere exemplaribus, quæ in Intellectu Divino reperiuntur. 83. Hinc scite a Scholasticis sancitum fuit verum cum ente converli ; scilicet omne verum est ens, quia veritas rei, ut diximus, in entitate rei fundatur, et omne ens est verum, quia omne ens ordinem ad Inteliectum Divinum necessario habet '. . 84. Ex his intelligitur nullam falsitatem metaphvsicam in rebus inveniri posse, et, si quæ res falsæ dicuntur, id veluti improprie dictum accipiendum esse, nempe, ut AQUINO (vedasi) inquit, in ordine ad intellectum nostrum, ad quem res per accidens referuntur 2. Scilicet si res referantur ad intellectum humanum, quodammodo falsæ dici possunt, quia sunt quædam, quæ etsi vera in se sint, tamen ita natura sua comparata sunt, ut scnsibus nostns quæ non sunt, aut qualia non sunt , apparere queant. Ita auncalcum per se, perinde ac aurum, est verum, quia natura eius, non secus ac auri, exemplari Mentis Divinæ consentanea est; at quia speciem, seu similitudinem aun habet proindeque occasionem præbet intellectui nostro, ut lllud esse aurum iudicet, falsum quodammodo dici potest . III.— Utrum uua sit tantum veritas, an plures 4 85. Ontologi docent unam esse veritatem, nempe Deum, ceterasque res non nisi veritate Eius esse veras; ex quo colligunt, ut alibi dictum est, mentem humanam non posse ullum verum cognoscere, nisi Deum intueatur, quia, cum Deus sit unica, eaque summa Veritas, nulla res vera, alibi, quam in Deo, apprehendi potest. i Cf s. Thom., Qq. dispp., De Ver., q. I, a. 2 ad 1. 2 Op. cit., q. I, a. 1 c— 3 I, q. XIV, a. 1 c. Aliam quæstionem, quæ circa veritatem versatur, utrum nempe dentur veritates, quæ sint necessariæ, immutabiles, et æternæ, nic omittimus; nam paulo ante ostendimus contra Cartesianos ventates, quæ ad essentias rerum spectant, esse necessarias, æternas, et lmmutabiles; et in Criteriologia refutavimusProgressistas,qui ventatem ab una ad aliam ætatem progredi obganniunt. .•„,8h' ^r°P' Sin?ulæ res nalurahs, singulægue conceptiones tnleUectus propria veritate gaudent. r,nZ vr' n S' esse, cuiusue rei sit quædam participa™ A.sse De'>.et limen intelligibile inlellectus humani SU quædam part.c.pat.o luminis inlelligibilis Dei ', tamen nemo, nisi qui pantheismum profitetur, negare potest esse cuiuslibet rei creatæ re ipsa distingui ab isse Uei, ct lumen intelligibile intellectus humani in se reip a d.stingu. ab intelligibili lumine Dei. Atqui esse proprium rerum est fundamentum veritatis ipsarum, ac concepl.ones nostr. mtellectus sunt veræ, eo quod per pro! !!"Un!lUme-n m^'MC veritatem, quæ fLdalu^r JrefeS TT Eng°' S' \m cuiuslibet rei reipsa dih ff • / Dei'et lumen intelligibile inlellectus ; humani re ipsa d.stmgu.tur ab intelligibili lumine Dei ! consequens est quam ibet rem, et quamlibet conceptionem propr.a ver.late gaudere \ Audiatur D. Thomas: Dicen dum, quod rat.o ventatis in duobus consistit, in esse rei, r™Pr^"SIOnC v.rtulis cognoscitivæ proportionata ad htlZ : Urumc"ue autem horum quamvis reducatur in mS!m,' ! '" CaU.Slm efl1cientem> et exemplarem; nihil"7,ST auæhbet res Parjicipat suum esse crcatum, fiUlI r l CS,t; et unusauisque intellectus participa cxmmnh.P, qUP°d r6Cte de re iudical > uuod quiueest Lam^nmV U,1',ne,nCrCat° Habet etiamHintellectus El Vnl 1°nKm '? Se' ex aua completur ratio veritanmniVT d,C°' q.UOd S-Cut cst unum esse Divinum, quo "' Sun l> s,cut Pnncipio efTcctivo exemplari; nit.il formnl,,n, reDUS d'VerS,S est diversunf esse, quo formal ter res est;,ta et.am est una verilas, scilicet 'di l "rf. ru'?.omnia vera sunt> sicutprincipio effectivo exem K,', H{I TUS sunt P,ures veritates in rebus creatis, qu.bus dicuntur veræ formaliler ' . talHlCrnT„°ninCS rCS' et vis inMlnCS rCS naluralcs> omnesque conceptiones nostri intel SOW., lS >\, VlXs eSSC auoda,nmod° ' Ub Sent., capite%sse%I'thæ'ism„0'adteqm0 0ntoloismum v et lKt aoptt bile, es bonum. Ergo omne ens est bonum. Hanc ob rationem bonum, æque ac unum, et verum, cum ente cmverh dicitur, quia omne bonum est ens, e™omne ens quænus ad appetitum refertur, est bonum •. ' 4. kxindc perspicilur bonitatem, prout est transrm lcntalis proprietas rerum, in eo consistere, quod res prout „rn|;naDpet'tl"'P0ni,as' sl hac "tioneVclet ur T i ". ekitnr, '"ellfgenl 102. Ut hæc notio luculentior fiat, menle reputandum est tria,n pulcnludine distingui oportere, nempe raZ IZlTrtT S,Tf e-SS-mtiam' (fectum ^fundZentm. Katio formal.s pulcn in convenientia partium, seu svm mcr.a ob.ect, consistit. Effectus est delectatio quam y™. mctr.a ob.ecl,, lacultati cognilrici in sua claritale aff,™ IZl ZlcZ0 „ Hi"C -'^.hominum'^ ffij vocat pulcrum n.si id, cuius cognilione delectatur Fundamentum,n bomtate ipsius obiecti situm esf nam an" mum nostrum illa rerum cognitio seu "dspeclus dele" ctare potest, .n qua appetilus%uiescil; id au n appet.tus qu.escit, non est, nisi id, quod tamquam boimm apprehenditur. Quapropler si ralio formalinSer, 2? pulcrum definir, potcst, id, qnod debitam proporlionemha>bet £% S \6onum. Al, quon.am pulcrom a celeris proprietatibus en-,s propter proportionem obtecti, et del'clationem co„no scentis, llam discriminatur, ipsum definiri pc tes( id Zod cum mulMudinem partium sibi cohæreniiumpra ese tat mamfestatione sui cognoscentem delectat P ' ' 106 Porro P'rum in naturale, arlificiosum, et morale hVC!:tlfi EP"L XVI" ai C°eleSt' »• 2, et s. Thom., I, 2 2a 2, q. CXLV, a. 2 c. •ensistis autumant aliquid csse Dulcrum ! n J ' ™? CUm us quac endam LPnmam Ca"Sam' ori^^mque pulcri in ipsis re dividitur. Pulcrum artificiosum est illud, quod iu operibus artificiosis humani ingenii splendet ; hæc enim, ut omnibus experientia compertum est, si proportionem inter partes, ex quibus constant, præ se ferunt, animum cognoscentis voluptate afficiunt. Pulcrum morale m actionibus humanis invenitur, quatenus hæ cum æterms, ac immutabilibus regulis morum proportionem habent . Pulcrum autem naturale, ad quod hæc tractalio maxime spectat, illud est, quod tum in singulis naturis rerum, tum m mundo, qui ex illis componitur, effulget. Etemm unaquæque natura ex pluribus principiis constat, quæ unitatem eius efficiunt, omnesque naturæ ita inter se colligantur, ut unus mundus ex ipsis existat. Hinc pulcræ dicuntur singulæ species rerum, et pulcher mundus, qui ex ilhs com ponitur. 104. Diximus singulas species rerum; nam si res non m notis suis singularibus, sed in sui essentia spectentur, dubitandum non est, quin pulcritudo sit omnium rerum proprietas. Re quidem vera, cum Deus sit naturarum auctor, fieri non potest, ut in ulla natura vel aliquod principium, quod ad ipsam efficiendam requintur, vel mter principia, quæ ipsam efficiunt, ordo desideretur. Quamobrem ne fieri quidem potest ut, quispiam naturam rei penitus cognoscat, nec tamen e coguitione eius ullam voluptatem sentiat. At si in rebus essentiæ non considerentur per se, sed prout per notas singulares mdividuantur, ipsæ vel pulcræ, vel deformes esse possunt. Etenim causæ proximæ, ac immediatæ rerum singulanum sunt aliæ res singuiares, sive causæ naturales. Atqui causæ naturales ita secum colligantur, ut actio unius ab actione alterius impediri, aut saltem turbari possit \ Ergo neri potest, ut res singulares aliqua notarum careant, quæ aa pulcritudinem constituendam requiruntur 3. Hinc s. Thomas de hoc pulcro loquens, inquit: In hoc consistit, quod conversatio hominis, sive actio eius, sit bene proportionata secundum spiritualem rationis claritatem. Hoc autem pertinet ad rationem honesti, quod diximus idem esse vinuti quæ secundum rationemmoderatur omnes res humanas; 2 l, q.iiL,AT, a. 2 c. 2 Cf Criteriol, c. IV, a. 2, p. 251-252, vol. I. a Mnrme 3 Circa opera artificiosa, atque actioneshumanas patet opus acionne evadere, si artifex illud non conficiat secundum leges artis, quæ Iam pulcrum naturalc in corporeum, et spiriluale dividitur. Etcnim nos et cum in re corporea multas partes aflabre concinnatas, et cum in subslantia spirifuali plura pnncipia, quæ ordine inter se continentur, contemplamur, quamdam voluptatem persentiscimus. Pulcritudo corporea vocatur sensibilis, quia ad res spectat, quæ ope sensuum cognoscuntur: spiritualis vero dicitur inlelligibihs, quia rerum propria est, quæ intellectu anprenenduntur f. tl 106. Deus autem, a quo, ut s. Augustinus scribit, omne pulcrum est \ et qui, sicuti s. Thomas subdit, est universorum consonantiæ et claritatis causa 3 , pulcherrimus aicitur. Neque negotium alicui facessat, quod mulliludo ad unitatem redacta, quæ est essentialis nota pulcritudinis, in Deo, qui simplicissimus est, a nobis cogitetur. Ham, cum nobis certum sit nullam compositionem in Deo esse, lntelhgimus infinitas pcrfectiones, quæ in Eo sunt, esse lpsu„ x Esse Dei, atque absolutam unitatem Eius constiluere. Hinc nos Deum veluti pulcherrimum intellmmus, Eumque pulcherrimum nominamus, quia infinitam multitudmem attributorum cum absoluta unitate coniunctam m Eo mtelligimus 4. De categoriis in universum spectatis 107. Hactenus de iis, quæ ad ens gcneratim consideratum pertment, disseruimus. Antequam de singulis decem categorns sermonem aggrediamur, hæc duo circa ipsas universum mvestigare oportet: 1° quomodo ens sit prin manas, quæ a pronuntiatis rationis practicæ discedunt crun nisir a!,Cnl|n-da 0mnin° CSt °pin,° i,,0rum',' a,US d,°o tnna n°n Va,d0 ab,usit Giobertius, Saggio "„ h(ll0> c 1, P39 sqq, Napoli 184. JJ ^"^liX'1'c0: 1S> et 1 Cf I, ([. XIII, a. 4 ad 3, ct Contr. GcnC, lib. I, c. 31. cipium, ex quo categoriæ promanant ; 2° quomodo ens per categorias dividatur. Art. I. — Quomodo ens sit principium categoriarum 108. Iam innuimus ens esse principium, a quo categoriæ promanant; siquidem ipsæ ens pluribus, diyersisque modis determinatum exhibent. Id magis perspicuum fit hoc argumento: Categoriæ sunt supremæ notiones, ad quas diversa rerum genera referuntur, proindeque supremæ notiones, quæ de diversis rebus prædicari possunt 2. Atqui quidquid de aliqua re prædicatur, ad eius esse pertinet, quippe quod non potest aliquid cum aliquo coniungi, nisi ipsi inesse, scilicet in eo esse intelligatur. Ergo categoriæ, cum sint suprema prædicandi genera, diversos modos essendi significant, ac proinde esse est principium, a quo ipsæ promanant. .-'..; 109. At vox ens tribus diversis significalionibus accipi potest . Ipsa enim quandoque illud esse significat, quod copulæ officio in enunciatione fungitur; e. g., cum dicimus, Socrates est philosophus; quandoque autem essentxam rei, nempe id, per quod quælibet res in sua specie constituitur, e. g., humanitatem in Socrate, quia per humanitatem Socrates est homo; quandoque tandem actualitatem, sive actualem existentiam rei, nempe id, quo res actu est in natura. Ens hoc tertio modo acceptum, dicitur ens actuale. 110. His præstitutis, demonstramus sequentem Ens, quod tamquam principium categoriarum po nitur, non est illud, quod copulam enunciationis constituit, neque illud, quod essentiam rei simpliciter significat, sed est ens actuale. . . Probatur prima pars contra Kantium % et Rosmmium . Categoriis non quæritur, an sit res, sed cuiusmodi sit. Atqui esse, quod in enunciatione munus copulæ obit, significat quidem aliquid entis inesse subiecto, sed cuiusmodi illud sit, utrum substantia, an qualitas, an alius quidam modus entis, non patefacit. E. g., in hac enunciatione, i 4._ 2 Gf Logic, par. I, c. I, a. 6, p. 16 vol. I. s ln lib. II Sent., Dist. XXXIII, q. I, a. 1 ad 1. Critiaue de la raison pure; Log. transcend., lib. I, sect. 6, % i" s Logil, lib. II, sez. I, c. 9-11, p. 116-122, Napoli. Socrates est philosophus, verbum est significat esse philosophum Socrati inesse, sed ulrum esse philosophum sit substantia Socratis, an qualitas, quæ substantiæ inhæret minime innu.t. Ergo ens, quod per categorias dividilur' n°444Sin Ur ' quod C0Pu,am enunciationis significat 111. Irobatur altera pars contra Heghelium , et Giobertium . Lategoriæ non significant diversas essentias rerum, nempe illud, per quod res in certo genere, vel certa specie constituuntur, sed diversos modos, quibus essentiæ rerum determinatæ exislunt; e. g., categoria substantiæ non denotat essentiam hominis, sed modum, quo essentia hominis in rerum natura existit. Modi autem, auibus essentia rerum creatarum determinala in rerum natura existit, ab ipsa essentia reipsa distinguuntur. Hisce adnotaUs, lta argumentamur: Si categoriæ ab ente, quod essentiam s.mpliciter sumtam significat, derivare dicunlur, lunc vel ipsis dumtaxat essentias rerum exhiberi vel essent.am, et modum, quo ipsa in rerum natura existit, unum, idemque esse dicatur oportet. Atqui utrumque est la sum. Ergo ens, ex quo categoriæ derivant, illud non Vi3n essenl,am simpliciter sumtam significat tJlj: Frobatur tertia pars, quæ ex iam dictis facile intellig.tur. Categonæ sunt notiones supremæ, ad quas rerum, quæ in natura sunt, notiones revocantur. Atqui not.ones quæ referuntur ad res, prout in natura sunt, exh.bcnt ahquem modum entis actualis, sive aliquem moaum, quo res actu sunt in natura. Ergo cateoxmæ repracsentare debent communissimos modos entis actualisy s.vc communissimos modos, quibus res actu esse possunt ac Proinde non n.s. ens actuale, sive illud, quo res actu tsi in natura, illarum pnncipium esse potest. H. Quoraodo ens per categorias dividatur ou1!?.' Ad JianC. I"30^00^ exsolvendam in primis nobis est uemonstranda sequens pr3' tEm ™lUo m?do ta^quam genus assignari potest. mi u h r T GeUUS eius'nodi est > "t a ciifTerentiis delerminetur, hæ autem differentiæ, etsi potestate in genere 5 pf/;,Th°m;' l0P' cit—% E^yclop.y § 86 sqq. Protohg., Saggio I, et III. n contineantur , tamen extra essentiam generis sunt; si enim differentiæ ad essentiam generis pertinent, notio generis cum notione speciei permisceretur, quia species ex genere, et differentia conflatur 8. Hoc posito, en argumentum : Si ens esset genus, eius differentias aliquid reale extra ens esse oporteret. Atqui impossibile est turn dan . aliquid reale extra ens, quia extra ens non est nisi non ens, seu nihil, tum aliquid mente concipi, cuius conceptus ad conceptum entis non reducitur, quia extra notionem entis non est alia notio, nisi non-entis, seu nihili. Ergo ens tamquam genus nullo modo assignari potest . 114. Hac theoria præstituta, facile est perspicere veritatem huius secundæ Ens per categorias dividitur non tamquam genus per species, sed tamquam per diversos modos essendi. Probatur prima pars. Ens nullo modo tamquam genus assignari potest. Ergo ens per categorias non dividitur tamquam genus per species. Quapropter categonæ non addunt enti aliquid, quod est præter essentiam eius, eo modo, quo species addunt aliquid generi, quod extra ipsius essentiam est, nihil enim esse potest, quod sit extra essentiam entis. 115. Hoc idem alia ratione confirmari potest : Illud, quod pertinet ad genus, univoce, nempe eadem sigmficatione singulis speciebus est attribuendum ; e. g., animal univoce de homine, et de brutis prædicatur: quaproptei si ens genus categoriarum esset, ipsum de iis singulis univoce prædicandum f oret. Atqui ens de singuhs categorni univoce non prædicatur ; nam in singulis categoms c diversis modis exhibetur, unde unicuique [categoriæ) de betur proprius modus prædicandi 5; e g., in pnma ca i Dicitur differentia potestate in genere contineri, quippe quo eenus a differentia perfici non potest, nisi sit ita dispositum, u ab hac determinari queat.-2 Cf Logic, par. I, c. I, a. 2, p. 11 vol. 1 3 Cf s. Thom., I, q. IH, a. 5 c. Nemo vero existimet ens ess genus, quia ipsum in ens, quod est per se, nempe substantiam, e in ens quod est in alio, nempe accidens, dividitur; hæc enim, ui Boetius (Prædic, c. 4) monuit, non est divisio stricte sumta sci licet quæ per species fit, sed potius quædam enumeratio. Ct . Damascen., Dialect., c. 10. Cf Loqic, par. I, c. I, a. 5, p. 15 vol. I. In lib. I Sent., Dist. XXI, q. I, a. 3 ad 2. Ens autem no tegoria, quæ est substantia, significatur esse per se, in reiquis novem, quæ sunt accidentia, significatur esse in alio, 3t in smgulis harum specialis modus essendi in alio inTenitur. iLrgo ens per catcgorias tamquam genus per spe3ies non dividitur. b l l 116. Probatur altera pars. Unaquæque categoria certum, 3t pecu.arem modum entis significat. Ergo ens per cate-,'or.as d.viditur tamquam per diversos modos, secundum juos ens et esse, et intelligi potest. De categoriis speciatim consideratis 2 I. Notio subslantiæ declaratur 117. Substantia, prout categoria est 3, describitur, ut am m Logica dix.mus \ res cui convenit esse in se, et non n alio, sive non m subiecto. Ad hanc subslantiæ notionem leclarandam, exphcandum nobis est 1° cur substanlia diatur.noP;J^en.s> quod est in se, sed res, cui convenit ss.e.Qin,f' f (lu,d Slbl veht esse in se, et non in alioA^ 118. Uuod attinet ad pnmum, in memoriam revocanjlum nobis est substantiam, æque ac quamlibet cate-oliam, esse quemdam specialem modum, quo aliqua ves fctuest in natura, ac proinde ipsam intelligi non posse, | iisi l iii ea et al.qu.d, quod quodam modo est, et quidam aodus, quo ipsa aclu est, distinguantur. Hanc ob ratioiem substantia dicenda non est ens, quod est in se, aut cr se, scd res, cui convenit esse in se, aut per se, ut igmncetur discnmen inter ipsam rem, et modum, quo raantiaCatUprf t Categ0riis a%^ocey sed analogice, quia ens de sub.antia et dc diversis acc.dentibus non sine aliquo ordine unius L ZJ^T^ siuuidera> cu™ ecidens substantiæ inhæe suh, ntLUSH -/5Se/Ub!tantiæ pendet' ac Proindc " Primo vZ n r CU,Ur' d°lnde de diversis ccidentibus. Cf quæ dijmus in Logica, loc. cit. p. 15 vol. I. ' Cf s. Thom., Qq. dispp., De Vcr., q. XXI, a. 1 c. M Vof.°TrUm nUmerUm exP0S™s in Logic, loc. cit., a. 6, m^Z^ZZ^ categoria est: vo substantiæ aliquando nidetur ad significandam essentiam, vel naturam rci vel formam Uma^tenam, aut quidquid ex utraque quasi confectum esj actu est in rerum natura, sive inter esse essentiæ, et ess existentiæ f. 119. Quod ad alterum speclat, in notione substantiat illa verba esse per se, sive esse in se excludunt inhæren tiam in subiecto, sive denotant illud, quod dicitur sub stantia, non habere esse suum in alio, tamquam in sub iecto, sed non removent a substantia causam effectncen suæ existentiæ, sive non denotant ad notionem substan tiæ pertinere, ut esse suum ab alio non recipiat, nan substantiæ creatæ esse suum a Deo accipiunt. ! 120. Iamvero res, cui convenit esse in se, non xn aho substantia ex eo præcipue nuncupatur, quod est accidec tium subiectum, ac proinde sub accidentibus stare, ho est, accidentibus subesse intelligitur. Substantiam autet esse subiectum accidentium ita demonstratur: Si subiec tum accidentium non esset substantia, oporteret esse aliu accidens, et quoniam hoc accidens, non secus ac omn aliud accidens, expostulat subiectum, in quo insit, pr( gressus in infinitum admittendus esset. Atqui huiusmoc progressus, omnibus fatentibus, est absurdus 3. Ergo sul iectum accidentium est substantia. Art.II, — Definitiones substantiæ a nonnullis Philosopis traditæ exploduntur 121. Ex principiis, quæ in præcedenti articulo exp nire per substantiam, cuius est accidens ; In lib. I Sent., Dist. q. IV, a. 3 ad 2. . Op. cit., lib. II, c. 23, § 1 sqq. Hanc Lockii opimonem, pn ter omnes sensistas, David Humius, utpote scepticismo suo la\ Neapoli 1881. Nouveau systeme de la nature etc, p. 124-127, ed. Erdm. 2 Elementa metaphysica scientiæ naturæ (germ.),p.42,Riga 17 • 3 Cf s. Thom., Qq. dispp., De Por., q. X, a. 1 ad 8. Protol., Saggio. Notio substantiac uli paulo ante ostendimus, alia t a notione causac. Ergo substantia in eo consislere nent, quod sit causa, sive principium operationis, per lam ipsa nihilum negat. Accedit quod s/ subslantia conituitur ex eo, quod est princip?u_ operalionis? per lam ipsa n.hilum negat, diccndum est substantiam e^se uisam creatncem sui; nam, cum productio rei ex nih o creatio, subslant.a, si se ipsan/ex eo constiluit, " uod f alttsMmS. SC ipSam " ^ 2S III _ Scnlenlia s. Thomao circa principium, ex „ao subsla„l,a lit individua, exponitur, et probatur |127 • In primis, in quo quæstio circa principium indi Juationis vcrsatur, declarandum nobis est. NoUo perfectæ substantiæ, ut in Logica diximus \ non gu eribus, et speciebus, sed in individuo invenitur. 'ft1™seu s.ngu are, secundum s. Thomam, diurillud, quod esttn se tndistinctum, ita ut in plura di !„T,P°SS.'t' Pr0lnde e> seeusac universale, lamquam 3_£__ _" Commuue,u(elli neqneal;aft aliis vero hnctum S,ta ut s.t hoc, et non illud, aut aliud. LlVJ1-'! •rnentUm,seu radix' ex p- 16 sq vo1- '— ' '. xx, o. i c. ___.Pinrf J. Uæst,one,n vcrsari circa principium formale, seu ScDmV "at,°mS' -n°n Vero circa P""cipium eflicens, m • _nTm ' -? Per SpiCUam est PrinciPi'>'n _ectivam esse •T ni.rZ' • cu",s v,rtnte ali(I"a natnra c(nci'"">', M • n m Z.I,ntCr utru,t"luc Principiam iam adnotavit s. ThoZ, ", dlssercns dc 'ndividuatione animæ, inquit: Princinium t_liP„^'r i-Tinsecum, sed impossiMle „t, ^od mpossibilr e "" m rlnsecnm ani,næ, vel alterius creatu ac.et inlr „trn .' ^ „_? ' lndivins, falsitas sentcnS.I _rPL ^ ?. ' qU' Huetium ^^rches historiaues, 'ionis i„ 'iw !,„'• Gand 1838) Sec,ttus> asscruit radiccm indivil !?V___1_. r8S.0.Cat, '""""'• Vid' ^0" etc' hæc est, quid sit, ex quo substantia singularitatem sumit, sive eius unitas indivisibilis in plura, et a quocunv que alio divisa oritur. Eadem quæstio huc redit ; quid sit, quo substantiæ intra eamdem speciem solo numerc differant, et multiplicenlur ; nam unumquodque individuum a quocumque alio eiusdem speciei divisum mtelliffi nequit, quin individuorum multiplicatio, quæ numerica dicitur, intelligatur, ac proinde eo ipso, quod prmcipium individuationis exponitur, principium pateht, e^ quo multiplicatio numerica existit. 129. Hisce præmonitis, nos s. Thomæ doctrmæ ad hærentes, hanc oslendimus, ln substantiis materialibus prinapium individua tionis est materia, signata quantilate. '— Probalur la pars/Etsi principium mdividuationis ne queat esse aliquid, quod ad essentiam rei spectat, qui; individuatio non pertinet ad essentiam rerum creatarum tamen esse debet aliquid substantiale, seu quod ad lpsun esse substantiæ refertur ; nam individuatio substantiæ cum pertineat ad prædicamentum substantiæ, ad ahqui ° £• -ndividua 1 Contr. Gent., lib. II c 93 2 j i ^d:e/raatumesir,;0rav„pear rcm forma -^5^ 4 HI, q. LXXVII, a. 2 c. • 7n (£" f nt-' D,StXII> 1a • 3 ad 3. . In hb. II Sent., Dist. II, q. i, a. 4 s0,. ar. IUac"T 07', "%. ^"titatis plicavimus i„ £o^0, idivlrtL'," " dU° ln,0nere PræslatPrimum est, quod princioium 1 ^ vTroeSDSreoud'c"ur """. Proat ordinem\d S •, p"o„t malrPiaP LT U8S aC'U el inhæret; tum u'a 1uane inAwl™ inhæret, iam individuata est, proinde k"r .r es^SLrr"' Mm qUia auantitas. u'iæ cta inhit Fam indiwVn.. ° ccidens, ac proinde per ipsam princi Wte^' "•' d'lim"uS' aIiunid Intile esse 'WdUP1 s distne?(Un; ITT 'n,er h0C> et aliud individuum no„ icubitum J InC t,0'/ed 1,la> uuæ> e ; inter bicubitum, et atis a? CS ',,n,ercederetAUerUm est1uod dimensiones quan W .b. ™t °riaI prout Pr'"oipium individuationis est, or H vero prout '2£ """ SU°, r , prout termm^n:"hnihl?Pff l0n!m,C,Um^ua coniuncta compositum sub-anUæ efformat; vel ea, quæ existere non potest, nisi \nZ I COexistat^ nou quiem uti subiecto inhærentiæ, CruLn •aCC,denV Sed U,i Subicct0 coexistentiæ. rrioris genens exemplum est anima humana, ut in 4 uXipTm Cem!lS' qU3e ^61 Per se existere Possit> naurahter tamen ordmatur ad physicam compositionem cum jorpore, cum quo constituit illud compositum subslanlianL?^/v.ocatur ^0 : quocirca anima humana dicitur uostanha mcomplela in ratione speciei, licet integra sit nratione substantiæ. Alterius generis exemplum est ania brulorum, quæ proinde substantiæ incompletæ dicunK°^,80,umtnraa^V^8ed etiam tn roturoe 6 34. lam subslantiæ incompletæ sunt quidem per se, &Ui„JXrU8,^°n.inhæ1rent a,teri> vc,uti subiecto, iroindeque ab accidenlibus distinguuntur; sed, prout to .Hiv'^111, .9 2 ad,3^ Quoniain substantiæ Angelicæ per seipsas d,v duantur, s Thomas inde confecit ipsas specie inter se differre! 4 rAngeh1e,usde,n sPcciei inveniri nequeant (ibid., q. L ni ? qmde.,n' nt ideni sanctus Doctor advertit, non iit ex , qnod I natura cuiusque Angeli per se spectata in pluribus esse q ii, nam forma, quantum est de se, nisi aliquid aliud im ouorl ?n P°tCSt a Pl"ribus {ihid'> q' ni, loc. cit.); sed ex, quod, cnm omnis materiæ sit expers, non inveniuntur sub i a Tad? ipliCCt',r >>; Cf Q9' dispP'> q" UU De ' f f 1 ^ C?USi' l6Ct' IX" Sed hac re in Theologia nalurali. ^i nostrum Lexicon peripateticum etc. ed. cit., p. 340. Pnn,os. Christ. Compend. II. 7 ^ ONTOLOGIA tum substanliale compositum efformant, non nisi in ipso substanliali composito perficiuntur. Substantiæ autem completæ non sunt in aliquo, tamquain in subiecto, neque in aliquo, ut totum quoddam constituant ; proindeque iure dicunlur esse sui ipsius, nempe absolula ratione per se, et non in alio existere. 135. Quod si substantia completa est sui ipsius, consequitur proprium quoque illius esse, quod quidquid agit, sibi agil. E contrario substantiæ incompletæ, quippe quæ non sunt sui ipsius, quidquid agunt, non sibi, sed subiecto, a quo perficiuntur, agunt. E. g., quidquid Angelus operatur, operatio ei tribuitur, at, cum manus hominis percutit instrumentum, non proprie raanus, sed homo per manum agere dicitur. 136. Actus, sive perfectio, per quam substantia completa exislit, subsistentia appellatur. Quare subsistentia Ua definiri solet : Actuaiitas, seu perfectio, per quam natura fit sui ipsius, et non alterius; vel etiam, perfectio, per quam natura ultimo completur, et terminatur, ita ut sit, et operetur, quin cum altera se communicet. V. Notiones suppositi, et personæ declarantur 137. Subsistenlia concrete sumta dicitur >suppositum ; quocirca supposilum est substantia individua. et completa incommunicabiliter subsistens. Quod si suppositum intelligentia perfruatur, digniori nomine personae, ve! hijposthasi? nuncupatur, eaque secundum Boetium vulgo defimtnr : Naturae rationalis individua subslantia. 138. Haec personae definitio ita explicatur: 1° Persona debet esse substantia; accidens enim, cum nullo modo in se existat, sed in subiecto insit, nequit esse aliquid subsistens, ac proinde nequit esse persona l. 2° Gum persona dicitur individua, tria significantur. Scilicet primo, persona debet esse quaedam substantia singularis, ac proinde non potest, quemadmodum natura universalis, esse communis pluribus 2; unde personalis tessera in tali modo existendi consistere dicitur 3. Secundo debet esse substantia completa; ita ut non possit communicari alteri substantiae, cum qua compositum substan Cf s. Thom., Qq. dispp., De Pot., q. TX, a. 2 c. 2 /n lib. I Sent., Dist. XXV, q. I, a. 4 ad 7.— 3 Qq. dispp., ibid. ad ONTOLOGIA tiale efficiat . E g. anima separata est pars rationalis naturae, hnmanae ? et ^ ^ P ona s hominiS et ideo non est pergooa 2 . Tertio, debet habere ubs.slent.am propnam sibi , ita „1 persona dici nequeat ilh nalura, qoae etsi singularis, et completa sit, tamen quia assumitur a persona excellentiori, propriam hyTosthas.m am.ttit, alque in illa excellentior hyposthasf P a qunQ assumilur, subsistit 4. jpusmas., a 3 Illa vox rationalis adclitur, ut subsistentia cuiuslibel naturae singulans completae ab illa, quæ propria iuiel jqo naturac est> distinguatur \ H liam „n"?0ne Personæ> uu' tradidimus, illud c am peisp.citur, personam esse inlegrum operalionum ^nm pr.ncip.um, quippe quod nulla natura^aliquid £ 1m>^!nrm su,)SlslatHi.nc i,,ud effatum, Actiones sunt teer^1' 'T^ GlS1 natUra f°nS Sit' et Principium I mtegrum, et completum pnnc.pium, quod operatur. VI. Nonnullæ absurdæ opiniones cuca nolionem pcrsonæ refelluntur 140. Aliqui ex hodiernis Germaniæ Theologis personam iciniuiit,naturam sui consciam \ Horum scntentia valde Uinis ; viflelur opioiom Lockii, qui identitatem personæ in onscient.tvrpropr.arum actionum, seu in actu, quo ouis e.LitPr 10mim SUarUm °St COnscius> Ponendam esse ontcia Pr°P" ^' PerSOm PerPeram drfnitur, natura sui |J/n lib. I sent., loc. cit. l/in^r'' D& P0L'.qIX' a' 2 ad J4— 3 /n »• ' ••. loc. cit. Vcrbo „„ L? rnat,on,s 'ystcrio evenit, quia, cum humana nntura ipediJh np hP ' ( sua »ni°ne IV i >,m,nana natura propriam personalitatem haberct (III aaUtaq nl, 3'urndc naturac assumptæ non deest propria per pc t n^i ? æCtUm a,,'C,UJUS' aUOd ad P^fectionem bumanac rac per tineat, sed propter additionem alicuius, quod est supra hu itVtti? qU°d CSt uni0 ad div'nan pcrsonam »; ibid!, ad 2 ( J> LCetfriS Zucri^> Defensio scientifica theoriæ christia5 inmtatis (germ.), Viennæ 184. °P©., lib. II, c. 27, $ 9. Probalur. 1° Conscientia est actus, quo natura intelle 'ctrix se, suasque operationes cognoscit. Atqui, aiente s. Thoma, actus omnis cst rei subsistentis, et perfectæ , nernpe suppositi, et personæ. Ergo conseientia personam iam conslitutam expostulat, tantum abest, ut lllam con stituat. 2° Si persona in conscientia posita csset, anima etiam sine corpore persona esse posset, quippe quod ipsa eorpore non eget, ut sui conscientiam habeat. Alqui sola anima, utpole substanlia incomplela, persona esse nequit Ergo persona ex conscientia sui ipsius exurgere non potest 3° li, qui hanc novam definitionem personæ tradunt, s sibi constare velint, doceant necesse cst homines, cum si ne conscientia sui ipsius nascantur, minime nasci ut personas, sed annorum cursu fieri personas, proindequminis persona, sive eædem, sive diversæ eius operationes sint. Diximus naturam singularem, nam quæstio circa naturam out essentiam rei significat, non versatur; si enim, uti iam osten M (P lb), existentia in rebus creatis ab essentia distinguitur iDitari non potest, quin subsistentia quoque ab ipsa distinguatur 18. Uiom., Quodlib. II, a. 4 c). Diximus etiam in rebus creatis rium enim est Divinas Personalitates a natura ratione tantum sungui . 2 Unde s. Thomas monet singularitatem naturæ efficere, ut ipsa næc natura, non vero hoc subsistens. In tib. III Sent.. Dist. quemadmodum de nalura humana Christi a Verbo assumpta factum esse docet Fides. Ergo in rebus creatis natura a subsistentia reaiiter distinguitur. 144. 2a. Subsistentia est aliquid positivum, non mera negatio. Probatur contra nonnullos Scotistas, qui putant subsistentiam idcirco in mera negatione consistere, quia ipsa id dumlaxat efficit, ut natura cum altero communicari nequeat. Natura ex subsistentia valde perficitur, quippe quod per ipsam ita sui iuris fit, ut ei non solum non sit opus, sed ne possibile quidem sit se cum allera communicare. Atqui aliquid perfici non potest, nisi per id, quod est positivum, et reale. Ergo subsistentia in mera negatione posita non est f. i VIM. De accidente 145. Sicut substantia est res, cui esse^ n^nJj^aHo convenit; ita accidens est res, cui convenit esse "in alio, tamquam in subiecto; siquidem accidens nuncopaTuTTlle specialis modus essendi, qui modo, quo substantia est, opponitur 2. 146. Accidentia in absoluta, et modalia distinguuntur; nempe ipsa accidenlia, quæ substantiam afficiunt, absoluta appellantur; modi autem, secundum quos accidentia substantiam afficiunt, accidentia modalia dicuntur. E. g., motus est accidens absolutum, segnities autem, vel velocitas motus est accidens modale ; item, calor aquæ est accidens absolutum, intensio autem caloris est accidens modale. Ut notio accidentis penitus intelligatur, veritatem harum propositionum, quas Scholastici docuerunt, et plerique philosophi recentes inficiantur, demonstremus oportet. Cf s. Thom., I, q. XXX, a. 3 c. Quod si quæratur, quodnam sit hoc positivum, quod subsistentia supra naturam addit, responderi potest esse quemdam modum, quo natura ultimo completur. sive terminatur, fitque sui iuris. Hic agimus de accidente physico, seH prædicamentali, non vero de accidente logico, seu prædicabili. Discrimen inter utramque accidentis speciem eiplicavimus in Logica par, I, c. I, a. 6, p. 16, jiot. 1. yoI. I. j la. Esse accidentis, etsi ab esse substantiæ dependeat, tamen ab hoc reapse distinguilur. Probatur. Accidens est aliquid, quod substantiæ addijtur, aut ab ea demitur, unde ex accidentibus fit, ut subjStanlia aliquem modum, sive statum accipiat, vel amiltat jAtqui impossibile est unam, eamdemque rem sibi ipsi addi (aut a seipsa separari. Ergo esse accidentis unum, idemque cum esse substantiæ dici non polest, ac proinde esse accidentis ab esse substantiæ reapse distingualur oous est K 14. Irop. 2 . Accidentia absoluta 2 ex virtute Divina 3 fxislere possunt, quin actu inhæreant substantiæ. Irobatur. Omnia, quæ intrinsecus non repugnant, a Deo e Iici possunt. Atqui mtrinsecus non repugnat, accidens ;absolulum aclu existere seorsum a substantia, a qua naluraliter pendet. Ergo. 4 149. Minor probalur hunc in modum: Accidens, etiamsi ictu non inbæreat suæ substantiæ, tamen propriam ac3ident.s essentiam non amittit ; nam ad essentiam accilentis pcrlinet quidem necessario habere ordinem ad sub.tantiam, ila nempe ut exigat esse in subiecto, quia esse iccjdentis ab esse substanliæ pendet, sed non pertinet actu nessa substanliæ, quia esse accidentis ab esse substan-,iæ d.slinctum est. Accidens, inquit s. Bonaventura,|uamy,s non sit in subiecto, non tamen separalur a sua liflin.t.one imo ei convenit, quia aptum est esse in subecto . Atqu. illud, quo rei essentia non destruitur, ntrinsecus non repugnat. Ergo intrinsecus non repusnat ccidcns absolutum actu existere seorsum a subslantia, a ua naturahter pendet s. Lt.l Sb.A?#;-efi/rt^ ™> ' ' " 2' Ct S' nV 2 Ide.n de modis dici nequit. Etenim, etsi modns revera distin 8tBn!/l' C;UUS est rnodus' tamen sinc neutiqam esse po8t qu.a modus, aiente s. Augustino (De Gen. ad litt lib IV • J, n. i) cst quædam mensura, quæ rei præfiaitur ac nroinde pugnat ahquid esse modum alicuius rei, quamVevera non men! irat. a s. Ihom., In Ub. IV Sent., Dist. XVI, q. III, a. 1, sol. •ci£nHnn!, M rirtUtC DlYina; °mnes enim in eo consentiunt, quod cident naturahter convenit inesse suæ snbstantiæ, ac proinde i vfrtnte naturali non potest seiunctum ab illa evistcre ' OocVV6^" ^ XI1' Par' ' a" f' i °9Quod si al.qua accidentia sint, quæ sine suis subiectis actu. Si accidentia existerent sine subiecto, re ipsa existerent per se, unde essent veræ substantiæ. Atqui repuffnat accidens cxistere per se. Ergo accidens ne virtute quidem Divina seiunctum a subiecto existere potest. 151. Resp. Neg. mai., conc. min. Neg. cons. Et sane nccidenlia, quamdiu seiuncta a subiecto existunt, sustentantur a Deo, ita tamen, ut eo, quo diximus, modo ordinem servent ad substantiam. Quocirca, cum sustententur a Deo, non subsistunt per se, quod est proprium substantiæ, et cum ordinem servent ad subieclum, naturam accidentium non amiltunt . Quin autem accidentia possint a Deo sustentari, dubitandum non est; nam, ut optime s. Thomas observat, sicut Deus potest effectus causarum naturalium producere sine naturalibus causis, sic potest tenere in esse accidentia, sublracta substantia, per quam conservabantur in esse z. esse haud concipi possunt, huius ratio non ei eo, quod sunt accidentia, sed ex eo, quod talia accidentia sunt, desumenda est. E. g., intellectio humana non nisi in intellectu humano esse potest, non prout accidens est, sed prout actio humana est. Gomparatio, inquit idem Seraphicus Doctor, accidentis, ad subiectum secundum aptitsidinem est essentialis, et hæc numquam privatur ab accidente ; Op. et loc. cit. in resol. III, q. LXX.VII, a. 1 c. et ad 2. Hac de accidentibus absolutis theoria Scholastici facile explicant, quomodo in venerabili Eucharistiæ Sacramento, peracta consecratione, species panis, et vini permanere non repugnet (Cf s. Thom., Quodlib. IX, a. 5 c, |et s. Bonav., Jn lib. IV Sent., loc. cit.). Nonnulli recentes Theologi, cum doceant omnia accidentia esse modos, ac proinde fieri non posse, ut accidentia a substantia unquam separentur, contendunt accidentia in illo Sacramento non remanere, sed eorum sensationes a Deo in nobis excitari ; Deus enim afficit organa sensoria eodem prorsus modo, quo a pane, et vino naturaliter affici solent. Litem istam dirimere nostrum non est. Dumtaxat iis recentibus in memoriam revocamus receptam a tota Ecclesia doctrinam Gatechismi Romani, Tridentinæ Synodi interpretis, quæ hæc est: Quoniam ea accideniia Ghristi Gorpori, et Sanguini inhærere non possunt, relinquitur ut supra omnem naturæ ordinem ipsa se, nulla alia re nisa, sustentent. Hæc perpetua, et constans fuit Ecclesiæ doctrina ; Pars II, c. 4, n. 44. De secunda, tertia, et quarta categoria mScw !; ;:crSiSa a est vel subsria> tia, re.iquæ novem cnt^HaS Sl "££ quæ acl quantitatem, relationem, et auaLlem ZVtli ' n.co capite complectemur, qiiff'W u" • lojfca disputatum nobisV/lH' pau^a „ L'^ earum nouones ontologice consideralas Lx me LSnt modo aduciamus necesse est. peruncnt, Anr. I. Dc qu.intitale 153. Circa quantitatem in primis illhH nnnrl -nnmmus, uherius explicandum UK-Wi^ srjasr si aa-aa 'w i~ ' ~ e />„,., q,,x a 7 c_ extensione partium ad se comparatarum posita esse non potest. 154. Probatur 2a pars contra Cartesium , eiusque seclatores. Extensio partium quantitatis ad focum est aliquid, quod essentiæ quantitatis iam constitulæ advenire intelligitur. Ergo essentia quantitatis in extensione partium in ordine ad locum ponenda non est. Antecedens probatur ex eo, quod partes quantitatis ad partes loci extenduntur, quatenus metiuntur partes loci, ita ut pars quantilatis sit in parte loci, et totum quanlum in toto loco ; id quod intelligi non potest, nisi iam quantitas cum suis dimensionibus intelligatur. 155. Probatur 3a pars. Cunctæ proprietates quantitatis, omnibus concedentibus, in extensione partium, sive prout ad se, sive prout ad locum referuntur, fundamentum habent. Atqui extensio partium multiludinem ipsarum subintelligit, multitudo autem parlium nec esse, nec intelligi potest sine divisione. Ergo divisibilitas est prima radix omnium proprietatum quantitatis. Atqui illud, quod est prima radix omnium, quæ in re sunt, essentiam rei constituit. Ergo essentia quantitatis in divisibilitate ponenda est. 156. Notione quantitatis iam perspecta, ad mquirendum progrediamur, utrum quantitas in infinitum augeri possit. la. Quantitatem conlinuam 3 mathematice sumtam infinitam in potentia esse haud repugnat. Probalur. Quantitas continua mathematice sumpta est, uti in Logica diximus, abstracta a qualibet forma sensibili, ita ut in ea nonnisi quantitas consideretur. Atqui ex parte quantitatis continuæ non est aliquid, quod repugnet additioni 5 ; nihil enim prohibet, quominus successivum augmentum partium sine ullo termino cogitemus : id autem sibi vult quantitatem mathematice sumtam esse infinitam in potentia. Ergo quantitatem conlinuam mathematice sumtam velut infinitam in polentia esse non repugnat. i Les principes de la phil., par. 2, § 9-13. 2 In lib. IV Sent., Dist. X, q. I, a. 1 ad 5. 3 Quænam sit quantitas continua, et discreta, explicavimus ip Logica, par. I, c. I, a. 7, p. 17 vol. I. Loc. cit., p. 17, not. 1. - b III, q. VII, a. 12 ad 1. J. '££ StSL"!,SSS.'SSS 'ssfr fferi non notP^f pv™ ? naDet> In mfinitum au LnET^; S1^ a>i?ue a.iam - ==: ssssst-s polsft neaa?addlPnarSSinBmerB' • in°''"" esse L4 "Lfii Z no laTl^riaT^ m in !".?•• QUOd est An...; rt„n y "u . ia0u> neqne mmws iritel cri nofpsf fitum esse rep^gnat2 '0rErg0nUmerUm ac'" infi" II. De categoria relationis sse?diReSecunn,Prn°Ut CateS°ria est>°enotat illm moclum br rs laxle -sr in e° ?f?Vodaa no kcidentia sed etUam Pffi,;, sub,?ct0>,nes'> sicutcetera P ilind referatnr' ' Ut substantia> in 1™ ineat, pomerari; „an! in'sola reJeiotr.iVCi^°a J Cf s. Thora., loc. dt.~2 Quodlib. IX a 1 c Qq. dispp., De Pot. a VII uui ad nu"u'u alium modum Fr.rn J ' sI,ecialem eategoriam referenda sunt. trgo ahquem modum qualitatis esse specialem calegoriam pro cerlo hahcndum est. lu.'iJ^"s vcritas cn"Stal cx iis, quæ in Logica inImZL San°' (luanlUas' ^elatio, et alia actidentia non, TZ i ' °d,c"nse1ueler qualificant subieelum ; siquiJtm n 1IS quaftficaho substantiæ consequitur modum enl'n,l,°,,!V,'1 'am ""lucu"t 3- At e contrario, sunt quæ'is inehH ?' m'æ/,?r s. ue ert, quin alium modum L n j"11' simPl)nler 7/ efficiunl. E. g., scientia, mu albedo, rcchtudo, curvitas, aliaquc huiusmodi acww, sul)lec""n scientia, aut virtute præditum, aibum, hS ! ™™um, ut aliis id genus modis ?n/C sim>nciter elhciunt. J Cf s. Bonav., ln lib. l Sent.t Dist. XXX, a. i, q. 3 resol. Par. I, c. I, a. 9, p. 20-21 vol. I.-' Loc cit. De actione, et passione I.— Explicatur modus, quo ACTIO – cf. Grice, Actions and events-- , et passio inter calegorias rccensentur 167. Aclio denotat illud, per quod aliquid ab aliquo originem habet. Id, quod ex alio producitur, effectus;\a, a quo effectus producitur, agens, vel causa efficicns; ld denique, in quod actio terminatur, sive a quo aclio recipitur, patiens, et receptio actionis passio nuncupatur. 168. lam certum est actionem ab ipso esse substantiæ creatæ distingui, et hanc non semper agere id, quod agere potest: quapropter aclio, quatenus est quoddam accidens, quo substantia actu aliquid producens constituitur, inter categorias recensetur, quia indicat specialem modum, quo ens determinatur. 169. In actione autem considerare possumus quemdam motum, quatenus incipit ab aliquo, et ad aliquem terminum tendit . lam, etsi actio, et passio conveniant m uno motu, cuius origo est in aclione, et terminus m passione, tamen actio, ct passio ab se invicem dislinguuntur, quia diversa est ratio, qua agens, et paliens ad eumdem motum se habent, nempe in actione lmportatur respectus, ut a quo est motus in mobili, in passione vero, ut qui est ab alio 2 . Hoc discrimen inter actionem, et passionem luculentius manifestatur in iis actionibus, quarum terminus, ut mox dicemus, est extra ipsum agens. btenim, monente Aquinate, si actio est in agente, et passio in aliquo extra ipsum aojens, actio, et passio non potest esse idem numero accidens,^ cum unum accidens nor possit esse in diversis subiectis 3 . De disciimine inter actionera immanenlem ct transeuntem 170. Actio immanens ea est, cuius effectus in ipso agenu locum habet, ita ut idem subiectum sit pnncipium, e terminus actionis; actio autem transtens est ea, cuius i i S. Thom., In Ub. 1 Sent., Dist. VIII, q. IV, a. 3 ad 3. 2 I, q. XXVIII, a. 2 ad 1. 3 in lib. II Sent., Dist. XL, q. I, a. 4 ad 1. ao ipsius ?geP„tis tSrnsPamemtpaS,VeS ? £? ... -hquid intel.igit, perficil sSJ^ ^it exlnde^"^^/^0."15 l™'' Xntius ii acti^r ^oT si bani rad„°ccuurLans sa!hurmo iransicns, non proul esi \r i t • 2• acl'° d,c,tur hoc modo spectata in fjn ','Ve affecl'° aSentis> nam lini, sive C '"r, aen(.e mane!> s' raUone ter lislinclum extra S1',h "m., ' h'C S" aliq-uid ab actio"e ia non poicst uidem il '?1agenS eSSe D0,csl2° Substa".ccidens' roppiun 1 1™ &'?' aualenus ali'luod •on potest ePpcd"esXpr .commun>cet ; nam accidens cctum vo iiare nf alind i°i • ",q"° CSt'"enue ext,a sub" ri,,;,?; tem un,us entis in Itera. non alin/re -2 "^.^TsirdSS .tj-rtar' sive ut towctim, mi evenit in „ : ' ' ve per conlactum 'i per con,actur,,ttV £•.. vel spiritnsT corpt ? ™ ^10"6,'ritM in S^adL^elrnp8.6 ^^' ^'^ ProPositioiS jcho transiens nihil absurdi præsefert U& "ffi TSst /ibnitA' acti0 ua, qU,a, si substantw in alteram agerel, aliquod --•), • . n P. 261, upt"'^^';;'"'0' M r-~' Tæ potissimum tribuitur, de hac speciatim disserendum nobis est. Alque anle omnia explicemus oportet, qua ratione causa efliciens prior suo effectu dicatur, ne cum JEnosidemo notio causæ efficientis veluti absurda traducatur. Elenim antiquus iste Scepticus, ut notionem huius causæ e medio tollercl, ipsam duo secum pugnantia com 1 Finis dicitur primus in ordine intentionis, postremus in ordine executionis, nempe finis, quatenus causam efficientem ad aliquid operandum movet, est primus in ordine intentionis; quatenus vero non nis. postquam acdo completa sit, obtinetur, est postremus in ordine executioms. Ex his vides futile essc id, quod post Epicureos a Spinosa, BufTono, ct Laplaceo obiicitur, nempe theoriani de Hne absurdam csse ex eo, quod statuit aliquid esse prius, et posterius Eten.m, quamvis finis sit prior, ct posterior, tamen id ex 'iiHMs.tate respcctuum, qua omnis repugnantia tollitur, contingit. bxinde etiam aliud argumentum pro causis finalibus petitur. EteBm in ordine causarum, quarum una alii subiicitur, una sublata, ræ tolluntur (1. 2-, q. j, a. 2 c.}. At(]lli causa ^ imnm> t .luu.us, inter causas locum tcnet. Ergo, si nullæ causæ finaies essent, ne ullæ quidem causæ efficientes darentur. ~ Qq> dispp., De Vcr., q. XXII, a. 2 c. plecti putavit, nempe, quod causa existit ante effectum, secus non posset illum producere, et quod non existit, nisi cum effectus existit, quia causa non potest esse causa, nisi cum existit effectus '. 181. lam distinguendæ sunt causæ, quæ actione successiva, nempeper motum producunt effectum, ab iis, quæ agunt sine motu, idest actione instantanea. Præterea, causa spectanda est prout est causa, et prout est in se, idest sine relatione ad effectum. Denique adnotandnm est discrimen inter prioritatem temporis, et prioritatem naturæ. Prioritas naturæ illa dicitur, qua aliquid, etsi simul cum alio existat, tamen eiusmodi est, ut alterum ab ipso quoad existentiam pendeat. Prioritas temporis vocatur illa, qua unum alteri præcedit duratione, ipsoque nondum existente, existit. 182. His præmissis, si prioritas naturæ spectetur, indubium est omnem causam esse natura semper priorem suo effectu, quia omnis effectus a sua causa necessario pendet. At si prioritas temporis consideretur, causa, secundum diversos respectus, vel prior effectu, vel simul cum effectu esse potest. Etenim id, quod aliquid efficit, si consideretur sud ratione causæ, certe non potest esse prius, quam effectus, quia, antequam aliquid effecerit, causa dici nequit; sed si spectetur in se, nempe sine ulla relatione ad effectum, interdum simul cum effectu existit, interdum ipsi præcedit, quippe quod causa, quæ effectum successive producit, effectui tempore præcedit, ut pater filium; sed causa, quæ subito actionem suam exerit, simul cum effectu existit, e. g., sol cum luce. Quæ cum ita sint, liquet commentitiam esse illam repugnantiam, quam ^Enesidemus in notione causæ delitescere putavit. De vi obiectiva causæ efficientis, et de principio causalitatis 183. Principium causalitatis est illud, quo ab existentia effectus existentis causæ arguitur, atque boc modo enunciatur: quidquid fit, sui causam habet, vel, omnis effectus subaudit causam. Iam, secundum David Humium, experientia, quæ, ut ipse opinatur, est unica cognitionis nostræ causa, vinculum consecutionis, non vero conne Cf Sext. Empir., Hypoth. Pyrrh., lib. III, c. 3, sect. 25, et 26. xionis inter facta naturalia palefacit; hinc ipse vim obiectivam notionis causæ e medio sustulit, atque principium causahtatis, quo dependentia inter causam, et effectum statuitur, inter præiudicia nostræ mentis amandavit . 184. la. Notio causæ est obiectiva. Probatur. Mens nostra ad notionem universalem causæ assurgit ex iis, quæ ope experientiæ comperit. Atqui notio, quam hoc modo mens sibi comparat, realitate obiectiva gaudere dicenda est. Ergo notio causæ est obiectiva. 185. Mawr probatur hunc in modum : Animam nostram novos modos in se ipsa efficere intima, iugique expenentia edocemur. Vivere se, inquit s. Augustinus, et meminisse, et intelligere, et velle, et cogitare, et scire auis dubitet ? Insuper, cum factum sensalionis expendimus, animam in se ipsa passivam, atque ab obiecti exterions actione affectam experiri facile agnoscimus 3. Iam lntcllectus, si in hæc primitivæ experientiæ facta vim suam mtendit, facile advertit quasdam esse entitates, quæ ex lnlluxu alicuius vis activæ originem habent, atque hoc pacto notionem alicuius, quod fit, et alicuius, a quo nt, hoc est, effectus, et causæ adipiscitur, quas notiones universales reddit, quatenus ab ipsis quamcumque determinalionem, e. g., hanc, vel illam entitatem, quæ producitur, alque hanc, vel illam producendi rationem, abslraiit. Ergo mens noslra ex iis, quæ ope experientiæ compcrit, ad universalem notionem causæ assurgit. 186. 2a. Principium causalitatis desumit suam vitn ''X ipso principio contradictionis. Probatur. Principium causalitatis, nempe, quidquid fit, m causam habet, est verum iudicium analyticum 4, in quo )rædicatum ita cum subiecto connectitur, ut si habere cau'am de effectu negetur, ipse cffectus evancsceret, ac pro"de simul esset, ct non esset effeclus. Ergo principium 'ausahtatis ab ipso principio contradictionis vim suam 'Uniit. Tract. de nat hum (ang]#j f Iib IV ^ c 6 m ipsum me Humium asseruerat Glanwilleus, Scepsis scientifica adversus ogmaticorum vanitates, Lond. 1605. \ De Trin., lib. X, c. 10, n. 14. Cf Dynam., c. III, a. 4, p. 117-120 vol. I. De his mdiciis analyticis cf Idealog. c. I, a. 4, p. 202, not.l, . Antecedens ita demonstratur: Effectus, fatente ipso Humio, est aliquid, quod incipit existcre, dum antea non existebat, seu quod a statu possibilitatis ad statum existentiæ progreditur. Atqui aliquid de potenlia non potest reduci in actum, nisi per aliquod ens actu ! . Ergo, ut effectus existentiam accipiat, aliquid iam in actu esse oporlet, quod hanc existentiam ei largitur. Atqui id, quod effectui existentiam largitur, non potest esse idem effectus, sed debet esse aliquid ab eo distinclum 2. Ergo notio effeclus expostulat notionem alterius rei, quæ sua virtute existentiam effectui largilur. Alqui res, quæ existentiam alteri largitur, causa illius cst. Ergo notio effectus est eiusmodi, ut notionem causæ necessario expostulet, ac proinde si hæc causæ exigentia ab effectu auferatur, ipsa notio effectus evanescit 3. 188. Obiicit Humius: Experientia successionem, non vero connexionem factorum naturalium nobis patefacit. Ergo alterum alterius esse causam colligere nobis non licet. 189. Rcsp. Neg. ant. Perperam Humius contendit nos ex præiudicata nostra opinione dependentiam inter res statuere, quia ipsas nonnisi sibi invicem succedere experimur. Etenim distinguenda est cognitio dependentiæ unius rei ab alia, atque cogniti o necessitatis huiusmodi dependentiæ . lam, quod ad primam cognitionem spectat, experientia sæpe nobis patefacit non simplicem successionem, sed actionem unius in aliud, ac proinde dependentiam unius ab altero, a quo producilur. E. g., ipsa nos edocet sensationes in anima a corporibus, sensum doloris ex suscepto vulnere, extinctionem famis, et sitis ex sumptione cibi, et potus, combustionem ligni ex eius proiectione in ignem effici. Hoc adeo verum est, ut ea, quæ sibi invicem succedunt, ab iis, quorum unum ab altero i i, q. II, a. 3 c., Nec est possibile, quod aliquid sit causa efflciens suis ipsius, quia sic esset prius seipso, quod est impossibile ; Ibid. 3 Inde Kantius etiam refellitur, qui principium causalitatis intei sua principia synthetica a priori (cf Ideal., loc. cit.), recensuitNam in principio causalitatis, quemadmodum ostendimus, ex notione subiecti notio prædicati evolvitur, id quod, secundum ipsum Kantium, analyticorum iudiciorum proprium est. Cf Scot., ln lib. I Sent., Dist. III, q. IV, schol. producitur, discernamus. E. g., nos dicimus ignem esse causam fumi ; at non dicimus diem esse causam noctis, aut unam tempestatem esse causam altcrius. Quod si de cognitione necessitatis huiusmodi dependentiæ sermo haheatur, sane eam experientia non commonstrat, sed intellectus perficit, ope illius pronuntiati, quod Scotus ita enunciavit. Quidquid evenit ut in plurihus ah aliqua causa non lihera, est effectus naturalis illius causæ. Refutatur Occasionalismua 190. Non pauci Cartesiani post Malehranchium 2 autumant Deum esse unicam causam agentem, res autem creatas orani activitate destilui, nihilque aliud præstare, quam quod Deo occasionem agendi præhent. Hæc sententia Occasionalismus appellatur. Ipsa autem, quam etiam hac nostra ætate ab. Dehreyneus 3, Buchezius , aliiquc propugnant, auctores habuit quosdam veteres 5, ex quorum opinione Deus, dum res in quibusdam circumstantiis positas intuetur, secundum leges, quas ad mundi conservationcm sihi præscripsit, effectus producit, qui ab ipsis rehus produci videntur. 191. Vim agendi rebus creatis inesse haud repugmit G. Probatur. Nulla ratio, cur rebus creatis vis agendi repugnet, sumi potest neque ex natura rerum creatarum, m quihus illa concipitur, neque ex natura Dei, qui illam cum ipsis communicat. Ergo vis agendi rebus creatis haud repugnat. 192. Antecedens ita demonstratur: 1° Si res ipsæ considerentur, vim effectricem eis inesse absurdum non est. Etenim vis agendi, quæ a causa Prima pendet, limitibusque definitur, et pro diversa creaturarum indole di 1 Loc. cit. Cf Criteriol., c. IV, a. 2, p. 254 vol. I. De inquir. ver., lib. VI, pars II, c. 3. 1 Theorie biblique de la cosmogonie, et de la gtiologie, Paris 1848. Introd. d V dtude des sciences mddicales, lec. II, p. 67 sqq, Paris Joo8. Mlorum mentio occurrit apud B. Alb. M. (Phys., lib. II, tract. II, C 8), ct apud s. Thomam, Qq. dispp., De Pot., q. III, a. 7. Id tantum, ne Ontologiæ fines egrcdiamur, demonstrandum obis hic est. Utrum autem, necnc vis quædam actuosa insit re^us creatis, in Cosmologia investigabimus. versa est, naturæ rerum non modo non adversatur, sed etiam omnino convenit. Atqui huiusmodi esl vis effectrix, quam nos creaturis adversus Malebranchianos vindicamus; non enim nobis volumus huiusmodi vim rebus creatis convenire, ut ipsæ quidquam ex nihilo efficere valeant; sed solum contendimus res creatas posse a Deo eiusmodi vi ornari, ut, ipso Deo ad illarum actiones concurrente, aliquid ex præexistente materia efficiant. Ergo vim effectricem rebus creatis inesse, si res ipsæ considerentur, absurdum non est. 2° Nec, si consideretur Deus, qui vim agendi cum rebus creatis communicat. Et sane, Deus potest communicare aliis similitudinem suam, quantum ad esse, in quantum res in esse produxit . Ergo potest communicare eis similitudinem suam quantum ad agere, ut etiam res creatæ habeant proprias actiones . 193. Secundum Occasionalistas, creaturas quidquam operari repugnat, 1° quia, cum Deus sit causa perfectissima, aliæ causæ, præter Deum, admitti non possunt; 2° quia si Deus dumtaxat omnia, quæ in mundo fiunt, operari dicatur, iidem effectus in mundo existerent, ac proinde Deus, si vim agendi cum rebus a se creatis communicaret, frustra aiiquid moliretur, id quod Divinæ Sapientiæ refragatur. 194. Ast ipsi longe opinione falluntur. Etenim quod spectat ad primum, nos tuemur alias causas, præter Deum, admitti posse non ex insufficientia, ut s. Thomas ait, Divinæ virtutis, sed ex immensitate Bonitatis ipsius, per quam suam similitudinem rebus communicare voluit, non solum quantum ad hoc, quod essent, sed etiam quantum ad hoc, quod aliorum causæ essent 2 . Iamvero, quemadmodum infinita perfectio Dei non impedit, quominus plurima alia imperfecta existant, cuiusmodi sunt contingentia, et finita; ita non vetat admittere alias causas, quæ per virtutem a Causa Prima, nempe a Deo acceptam, agant, ab Eaque in operationibus suis pendeant. Quin etiam sicut perfectio Divina non esset dicenda infinita, si Deus non posset aliis extra se rebus existentiam largiri, 1 Ita argumentatus est AQUINO, Contr. Gent., lib. III, c. 69. 2 Op. cit., c. j ila ne infinila quidem ipsa dicenda essef n. jrebus a, se creatis vira a^endiToLn are^os^ i 195. Quodaumet ad alterura, si Deus dumtax-n>nn jeCus T^J^oL^^ P^88 lffi ue cura Deo iilos^roXS t^t vero sTeSf qU°; ART.VIII.-De diversis causæ efficientis speciebus ;>rincipalis oncris arliSi 1'. art,fex est causa litur ad opus cfficfen^ °n '. T6,nstrumeu quibus 197 NatuVcSts^ Lr^RSlL cion™^ on in vir ute „r f™' secuuum quam operatur sl u mentaV m £,£? n,nm -artls ! nou aute>n perfici WedicuZr rLæCtUS Prod?conem concurrU, icuntur . Circa quas species causarum s. Tho m "' riif "f\Disii' ' ' a' 4 ad "i q LAII, a. 1 ad 2 ?inSSateCSSaliaP„- r,CaU!aS Pr01,'maS ' Si ad Prodnetionem Jus asponant Tur raaf„ " ' C' 8-' P'Ures baiuli' "" ""icu"' ' d e umdem cffc 1, nLP K, MUSæ Proli"' '"^om or uem ellectuni produccndum rcquiruntur, cum ipsæ mas adnotavit naturam effectus ex conditione causæ proximæ, non vero remotæ pendere, quia a causa proxima cffectus immediate promanat. E. g., ex causis proximis aliqui effectus dicuntur necessarii, vel contmgentes, non autem ex remotis causis ; nam fructificatio pJantæ est effectus contingens propter causam proximam, quæ est vis germinativa, quæ potest impedin, et dehcere; quamvis causa remota, scilicet sol, sit causa ex necessitate agens. Insuper causa potest esse vel per se, siv epropna, vel per accidens. Causa per se appellatur, quæ lllum producit effectum, ad quem naturaliter comparata est. Lausa autem per accidens duobus modis præcipue dici potest. nempe vel ex eo quod præler intentionem llle etteclm a tali causa sequitur sicut fodiens sepulcrum ad sepe liendum, invenit thesaurum præter lntentionem ; ye ex eo, quod est removens prohibens, sicut qui extinguit candelam, vel exportat ex domo, dicitur causare tenebras3 , quia actione sua id removet, a quo teneora dispelluntur. 200. Explicandum etiam est, quænam sit causa sm qua non. Hæc, monente s. Thoma , quandoque est eius modi, ut nihil agat, quandoque eiusmodi, ut aliquid aga ad productionem effeclus. Ita admotio lgms ad stupan sine qua ipsa stupa non comburitur, nihil per se conter ad stupæ combustionem, quantum ad rationem causandi e contrario, respiratio, sine qua animal non vivit, aliqui' ad vitam eius servandam per se agit. Iam, si primum tiat causa sine qua non est causa per acadens 5; sin alterum est vera concausa. incorapletæ sunt, quia, si completæ essent, iam aliorum consoi tium excluderent. Cf s. Thom., I, q. LII, a. 4 c. i Contr. Gent., lib. III, c. 72. Gf I, q. XIV, a. 13 ad 1, et I lib. I Sent.y Dist. XXXVIII, q. I, a. o sol. Oq. dispp., De Pot., q. III, a. 6 ad 6. Cave tamen, ne in colligas aliquid fortuitum in hac rerum universitate evenire. Jii nim, ea, quæ hic per accidens aguntur, sive in rebus naturdi bus, sive in humanis, reducuntur in aliquam causam præoruina tem', quæ est providentia divina ; I, q. CXVI, a. 1 c. 3 In lib. I Sent., Dist. XLVI, q. I, a. 2 ad 3. In lib. V Met., lect. VI. s Cf Clem. Alex., Strom., |s.mil.s ost ipsi causæ sccundum camdcmra^oZmlccTfl,cam uli bomo est eausa univoca hominis, ZZZnfffi \Æqiiivoca dicitur a nino r„m „fr™ præseferunl f ' ° ' ^™ " \)2. Porro quælibet causa præstantior est cffecin o, quod v.rtute acliva illum produccndi pollet" I" ve 'Linuum esse qu.sque ex se perspicil s. •ostde" tH uCniV0Ca° n°nnisi ••• speciei suæ eonsen.a ; Quanam ratione efTectus a Deo creati in Vn Mn.i icabimus in TÆo^ia naft.roK. contmeantur, cx De septima categoria, quæ dicitur ubi Art.I. Noliones ubi, et loci declarantur 203. Illud accidens, quod substantiæ corporeæ adiacet, atque efficit, ut ipsa quodam loco contineatur, et circumscribatur, nomine ubi designatur. Hinc, secundum B. Albertum M., ubi est circumscriptio corpons a loci circumscriptione procedens. Ex qua notione ubi perspicitur locum, ut idem Doctor inquit, esse lllud, a quo, sicut a causa, fit ipsum ubi . Quare notio ubi ex notione loci magis declaratur. 204 lam locus secundum Anstotelem defanitur: lmmobilis superficies corporis, quæ aliud corpuspnmo ambit.i et circumscribit, ita ut æqualem cum huius superhcie proportionem partium, sive mensuram habeat . >oxpnmo significat locum proprie esse illam superficiem, quæ corpori contigua est; ipsumque immediate continet; unde nos non dicimus hominem in toto ære existere, sed solum in ea parte, qua circumscribitur. Superucies autem, quæ corpus immediate ambit, etsi secundum se moveri possit, tamen non habet rationem loci, sive continentis, nisi tamquam immobilis concipiatur. E. g., etsi, tlante vento, superficies talis corporis, puta æns, mutetur, tamen illa, quæ priori succedit, eamdem, quam præcedens, capacitatem intra sua latera habere debet; quapropter ill^a superficiest prout aliud corpus ambit, lmmobilis dicitur . 205. Porro ubi categoricum significat ahquid esse ln loco per modum proprium loci 5. Exinde intelhgitur pri 1 De sex principiis, tract. V, c. 1. Ubi, inquit etiam, non est ]ocus, sed in loco aliqualiter esse ; De Prædicam., tract. VI, c l. 2 De sex principiis, tract. IV, c. 2. s Nat. ausc, lib. IV, c. 4, § 12. Aliud exemplum affert s. Thomas hunc m modum: Est acc ipere locum navis in aqua fluente, non secnndum hanc aquam, auæ fluit, sed secundum ordinem, vel situm, quem habet hæc aqua fluens ad totum fluvium: qui quidem ordo vel situs idem rernanet in aqua succedente. Et ideo licet aqua materialiter præterfluat, tamen secundum quod habet rationem loci, prout scihcet consnieratur in tali ordine et situ ad totum fluvium, non mutatur , m lib. IV Physic, lect. VI. ^j^y^ s I, q. VIII, a. 2 c. iTlud C Z hm %t °-riCWm aPPel!etur '!™_m>_; nam in to,o socundum comm^l^ nem J",^ %££ hoc J, nonmsi substantiis corporeis con^enirc D0Ssi( ' nam nonn,SI mediis quantitaliLs dimens™ auZ Lj WB-.^. diS^i^jrf. w ;erue in cumqne modo . Hac e rai .. „K . ? "S ^0" aa e mc0ura"sttVOfiCa[,,r -•"•. nia cnLluræ TpU ncorporeæ no„ Psun „ lTJr ?,sl,m?kx> qia substantiæ '(SM& i, „, h, a''to sunt, s Cf s. Thom., (feotfHo. vil,,. 8 c - I loc cit b.H,c non loquimur dc præsentin nei „.„„;, ? • 1 in Theologia naturali einli^MM, °™nibus '° ai'ocinmd.it?n?nr "'^ quæst,'ones' q°00 circa corpora i„ '• esse possin '"JT > utrum du0 "rpora i„ Peodc,„ esse,pi„ coiZ"z:s::1 unum corpus iu p,uribus De spatio, et primura sententiæ Philosophorum, qui vacuum admittunt, refutantur 207 Nos ex eo, quod conspicimus res corporeas secundum locum ferri, et quem locum una deserit, alteram occupare, quoddam excogitamus receptaculum, in cmo corpora sibi succedunt. Hoc receptaculum illud est, quod vulgus nomine spatii intelligit. Inquirendum igitur nobis est, quidnam reipsa hoc spatium sit. 208 Ex Philosophis nonnulli tuentur non ahua spatium esse admittendum, quam externum, atque hi sunt, qui spatium esse vacuum, nempe aliquid a corponbus distinctum, omnisque corporis expers putant. Hanc opmionem inter veteres post Democritum, et Leucippum Lpicurus vehementer defendit, quippe qui putavit nihil aliud esse in rerum natura præter inane, seu vacuum, et corpora quæ in eo moventur . Inter recentes Gassendus, notionem vacui declarare volens, dixit spatium esse ens æternum, independens, non productum, quod non est substantia, nec accidens, sed quidquam incorporeum sui generis, nemyt incorporeum, quod dimensiones longitudims, lalituclinis, et profunditatis habet, sed a dimensionibus corporeis longe diversas 2. Denique Newtonus, post Morum 3, docuit spatium non aliud esse, nisi ipsam immensitatem, JJei, quia Deus, ex eo quod existit ubique, spatium constituit eoque usque progressus est, ut spatium sensonum De\ nuncuparet4., . 209. At doctrinam vacui, quocumque modo exponatur reiiciendam esse scquentes propositiones evincunt. la. Vacuum, sive secundum Epicurum, sive secun dum Gassendum intelligatur, absurdum est. m Probatur la pars. Yacuum, si secundum Lpicurum ln tellieatur, est purum, putumque nihil; namque quidquK est, aliquid vel incorporeum, ve! corporeum sit oporte Atqui Epicurus spatium admittere non potuit velu U m corporeum, quia quidquam incorporeum esse negat, ne i Lucret., De nat. rerum, lib. I, p. 420 sqq. 2 Phys., lib. II, sect. 2, c. 1. 3 Enchirid. metaph., pars I. Londini 1671. ffpnpral 4 Principia rnathematica philosophiæ naturalis, bcnoi. Deuei et Optic, nq que uti corporcnm, qnia corpus ab inani, seu vacuo rii lensioms expers; corpora vero rnm p,.on, ? mnis e.xT a rcccpiacu/o, quod Unlum' e^ SS^Ty? jcuum,ff,iur nequit esse spatium. P SUtU' a' U3L £lT J^Z W Vacuum > ^cnndum Gas h Ataui nihll l^U?>S-a.nt,am' UCaue -acddeiu referi.ur. Aiqui nihil medii inter ulrumiiiie ari potest !. Ergo vacuum a fi3n fj •' l excoS'" hino abSurdum.°Pra2~ auiE , a?m,ssum est m &Tmx^ U eSxlteent;Ualc it^l^K^ilT orporcum m ^, Gassendus excoSitav" nemnf n orporcum, qnod (rinas dimensiones hfbet notionZ de" otal, quæ se ipsam destruit. Denique Gassendus vnlnl, KhniusmodTr.' ™ ^™1™' SBS-SJ b-S^V?5^ Erg0 i,k,d baVutcmme;Si n°" Mt ihi1'" ^ fflS.^SfStt praTtauiCD:on0nutPD0otatn.ri id'-UUOd-eX PC£. iqui i/eo, utpote qui omnino simplex est, non ' of„S',AuS•, fle Gen00ntrMan., lib. I c i j 0?. ..., q. un. De spir. creat. a ll'c msi,^s^:iLTvaacuiltncstorceusi1X7icj,lud • W" uuod e" tiguurn, inde taiuen T, ul Llr °'pon aUnd corPus ^sset -voii, nisi omnia^u?^;^,"^'-0 ft °™ eorpus ''/•', lect. X) docet nersni,!,. h ! ' T1>omas / H*. /r ndensatione cornon.,'n • Z t Ct pni"° " rai'^ctione, et W. nemo nou vid™ 'nosi" •:"P"a rarcflcri > ct conde„'sari kentur: sccundo cv P,,Ua Corum "10veri * partes antcriorcs fluid, P^ t0tUm fl"iuum movcri sc'' !-. m iocum *::";tri^;z:mbit' ad Iatcra rc solum partium, sed cuiuslibet etiam generis compositio repugnat. Ergo repugnat spatium esse attnbutum Dei. Præterea, quodlibet attributum Dei est ipsamet Essentia Dei. Ergo, si spatium est attributum Dei, dicendum toret Essentiam Dei esse quoddam corporum receptaculum; et si addatur cum eodem Newtono spatium esse sensorium Dei dicendum etiam foret mundum esse Divmum Animal, et hoc animal esse Deum. Atqui hæc nonnisi a Pantheistis asseri possunt . Ergo opinio Newtoni de natura spatii omnino absurda est. Art.III. Refelluntur aliæ Philosophorum opiniones circa naturam spatii 212. Cartesius vacuum non solum reiecit, sed etiam spatium a corporibus non distinguens, ipsa corpora spatium constituere dixit \ Leibnitius autcm spatium m ordine, quo coexistunt res materiales, posuit . Quocirca, secundum has opiniones, spatium non est aliquid extermm corporibus, sed internum; nam vel ab ipsis corponbus, vel ab aliqua relatione, quæ inter ipsa existit, emcitur. Denique Kantius spatium esse visionem a priori sensibilv tatis externæ docuit4. 213. la. Spatium non est idem ac corpus. Probatur. Spatium non est aliud, nec ahter lntelhg i Hinc inter nuperos Bouillierius ( Thtorie de la raison imper sonelle, c. 5, p. 83 sqq, Paris 1844) sibi constitit, quod sententian Newtoni, quam amplexatus est, e pantheismi placitis denvavit. 2 Princip. de la phil., part. II, § 9-12. 3 Recueil de divers. dcrits etc. passim. 4 Critique de la raison pure, trad. par Tissot, Estetique trar. scend t. I. Ut hæc sententia Kantii intelligatur, sciendum e. Kantium sicut quasdam ingenitas generales formas in intellect (cf Idealog., c. I, a. 4, p. 201-202, vol. I), ita quasdam, form. sensibilitatis agnovisse, sive quasdam repræsentationes, quæ a experientia non pendent, et manent in nobis, etiamsi cogitationei, ab obiectis avocemus. Hæ ab eo vocantur visiones puræ, ut a stinguantur a visionibus empiricis, quæ sunt elementa sensilia p experientiam nobis manifestata; reducuntur autem ad visiones 1 ras spatii, et temporis, quarum illa ad sensibihtatem externan ista ad sensibilitatem internam spectat; quia res externæ nonn prout in quodam spatio existunt, et affectiones rou ego nonnw pro sibi invicem succedentes, ac proinde prout in quodam tempoi existunt, nobis necessario repræsentantur. ONTOLOGIA 1 ! potest, quam id, quod corpora continct. Atqui repusrnat id, quod corpora continet, cum eo, quod con inetur Tm . t-ræterea, Lartesius in suam senlentiam ex eo adductus LeaS!i,qU°d eSSe"lam CorPoris in extensionc consistere pu tav.t, ac proinde spatium, cum sit extcnsum iJem ar corpus esse d.xit. Atqui hæc ratio futilis "" ' ( uia ex Iteoi? EUr°gol0CO °StCnd— > -entiam 2poS"kS l!nt alZli%StatiUm ^ ^™' U° ~ ~ \JSZf' - n°" P,ossumus ''ntelligere duo corpora ^fflere msi ea in diversis punctis spatii existerJ Vi nol,„ elligamos ; nam corpora, quæ /oex stun procul fon.nr n " T^ ^^ ' corPora tem disla? d"t.8eh?hif erSa, SpatU Puncta occupant. Atqui" si ta ed cLosinh. TX,Sten -a corP°ru™ ^patium non effici? itum C tt g° ^™ '" co"" corporum po \ici%PuT' SpaHUm ViSi° pUra sensibi'ittis extemæ ia^cttniVcrsalis Tt^ ?eCwdam K™li™> est nccessa hli., j -l AU|U1 necessanum.et uoiversale sen I at, adscr.bi nequit. Ergo spatium visio pura sensl i oicm drenoæoitue, "7 PotestP™eterea, KaSsuTuS i n.onem ideo lu.tus est, qu.a putavit nos non posse per afam r C°rpU,S' " si. "o"onem spatii animo præfor• am habeamus. Atqu. id falsum est, quia nos reaose po a pcrc.p.mus, anlequam nolionem sJatH habeamus He not.o spat.i est poslerior perceptione corporls .Tgo A,u. IV.-Vera senlentia circa oa.uram spatii adslrui.ur t redDif^AZi iNud °f ° intelliSimus' qod corpora I recipit. Atqui receptaculum cuiuslibet corporis, SSlS?.KP' ^oncePtus,emPons in nobis exurgit ex eo KLtfT PnUS' .et.P°sle™ 'n motu8 seuflu ?S™\: mxpurcicd,pTi"æ numeramr prius Uo Aristoteles declaravit ^cS^^STSSS ^ uo 1mommlrs;nnon-adver,ere' uuia cum 'Huu Xs; " lo4° 72 ^TmUr> exPe.r^facti coniungamus cum imu ;u„ ° " Sfl°mn0 exci'a'">-. nullumrdum dor •n frantii'/^e0pini0nes circa sPatium et '>Pus Plos Kleut o(La fiosofia antica esposta e difeea-ttei. vol II %,,, rv MtaSlrt id „c.30(Sq°' ?°ma 1867) S0lidc -f"'a„!u "' lra"IV' m es aa» HT!" faCCSSa'' nam> ut a sAugustmo observat imellil ! „""-) • C,,npUS CSSC Dr° ccrt0 hbont. valde difliefle s Hin,. ;n„/ y^L XVII.— iVaf. auscu/f., lib. IV c 11 8 4 r " " e i„Ud„„S; Ihn°maC •"'•'» Prios et posteri s pounnl 'g„Uu "e „o„P "u^"'ur i„ motu eI K» ' VA;^"0n SCCUnd,,m,ro(d n>ensra„t„r ei tempore »; .negnit„di„e Ci;„riH„ ',CCt pr""J Ct P0"r'»' ntea sunt uiotue. !!,' spat'°. 1uod corP'»s decurrit auam mensu a,?æ'n m°tU' °Uam in t0-"Pre ; siqnidem empus nicnsuralur tempore, cum idem non sit mensura sui ipsius . Circa temporis notionem, quam tradidimus, hæc mente reputanda nobis sunt: 1° Tempus cum sit mensura motus, ad modum entis successivi intelligitur, quippe quod non habet in rebus esse fixum, sed fluens. Quare partes tempons lta secum copulantur, ut una alteri succedat. Ulud, quo partes temporis secum copulantur, aliquod indivisibile esse mtelligitur, atque est id, quod vocatur, nunc, sive instans; hoc enim, cum sit finis præteriti, ac initium futuri, veluti utriusque extremum intelligitur, ideoque, perinde ac punctum, quod est extremum lineæ, indivisibile est . 2° Quoniam ens successivum plures partes simul habere repugnat, ideo illud, quod est reale in tempore, consistit in instanti. Hoc autem instans, ut s. Thomas monuit2, non est intelligendum veluti nunc, quod mvariabiiiter manet, sed veluti nunc, quod variabiliter de prion in posterius fluit, seu veluti aliquid, quod, dum ldem quoad substantiam manet, in toto decursu tempons secundum modum variat. Hinc tempus ab eodem sanctc Doctore dicitur etiam fluxus ipsius nunc, secundum quoa alternatur ratione \ Hanc ob rationem tempus m prac senti etiam invenitur. Scilicet in præsenti, si in se spectetur, tempus per se non invenitur, quia in eo prius, el posterius non numerantur 4, sed invenitur ex eo, quoc præteritum, et futurum in ipso copulantur ratione mstantis, quod, cum sit finis præteriti, atque initium futurr i Eiusdem rationis, inquit s. Thomas, est tempus componi e> nunc, et lineam ex punctis ; In lib. I Sent., Dist. XXXVII, qIII a. 3 sol. 2 Opusc. XLIV. 3 lbid. Dicitur secundum quod alternatur ratione, quia connexn instantis cum præterito, et cum futuro ab intellectu ponitur ; s quidem inter id, quod in rerum natura est, nempe instans, et ea quæ in ipsa non sunt, scilicet jiræteritum et futurum, reahs, at que obiectiva connexio existere non potest. Hinc idem sanctus Docto monet mensurationem prioris, et posterioris esse actionem, qua completur in operatione animæ numerantis (In Ub. I Sent. Dist. XIX, q. II, a. 1 sol). Cave tamen ne inde inferas notioneD temporis esse mere subiectivam, nam res, quas nos in tempor esse intelligimus, in mundo ita sunt dispositæ, ut una alteri suc Id sibi voluit s. Augustinus, cum ait: Præsens, si sernpc esset præsens, iam non esset tempus, sed æternitas ; Confess. loc. cit. §7 utruinque coniungit, atque continuum successivum ef C A P V T XII. De duabus postremis categoriis, nempe de situ et habitu I. De s itu 228. Quoniam res corporeæ propter suam quantitatem locum occupant, huius partes quemdam ordinem habeaat jnecessc est. E g corpus hominis in loco est sedendo vel stando, vel cubando. Iam illud accidens, quod ex orJinc partium ad locum exislit, appeilatur situsX Diximus w ordme parhum quantitatis ad locum, nam ordo oar lum quantitatis ad totum, e. g., ordo, qucm caput, pedes t! 7Vn!mal'? habent' ^amvis "omine situs les.gnetur, ad categonam situs non pertinet, et nomine oositionis magis proprie denotatur. Ex hac notione situs perspicilur ipsum non esse ontundendum cum ubi; nam corpus dicitur locatum, prout VT Drout hoc> vel i110 hio5o in oco est. lioc s Thomas ex eo præcipue demonstrat, quod W mutato situ, potest mutari ubi; e. g., si homo sedens .ermanente sessione, ab alio moveretu?, ipse ubi ^quidem ed non situm mutaret 5. P 4 uem' .edlarlrceaditSUCCeSSiVa " UnU'" a,te" ^ 1 Præstat hic adnotare, tempus Iato sensu acceptum in onera a vif et crrerurarum inte,,i nossQod ^21: erus nnLV6rb,S: ((rIntCll6CtUS CSt SUDra temPus > T[°nei aCCCpt0,0CUti SU,nus P 47> "ot. 7. • (to. /i Phys., lect. VII. 230. Nolionem silus e rebus materialibus ad spirituales transferre solemus, atque his quoque situm metaphorice accommodamus . Hinc Deus, aiente Aquinate, dicitur sedens propler suam immobilitatem et auctoritatem, et stans propter suam fortitudinem ad debellandum omne, quod aversatur 2 . Art.II.— De habitu 231. Inter accidentia, quæ substantiæ corporeæ adiacent, ea recensenda sunt, quæ dumtaxat instar vestimenti, vel ornamenli ipsi accommodantur. Huiusmodi, e. g., illa sunt, ex quibus Socratem tunicatum, vel loricatum denominamus 3. Iam supremum genus, ad quod hæc accidentia referuntur, illam categoriam conslituit, quæ nomine habitus designalur . 232. Hæc categoria a B. Alberto M. definitur, Corporum, et eorum, quæ circa corpus sunt, adiacentia. Qua in definitione vox corporum id denotat, ad cuius commodum habitus spectat, e. g., esse togatum est hominis commodum. Voces eorum, quæ eirca corpus sunt, sigmfican! materiam, ex qua habilus constat, e. g., toga est materia illius habitus, qui esse togatum dicitur. Denique vox adia centia denotat ordinem, qui est circa corpus, nempe inter habentem, et quod habetur, atque illud accidens constituit, quod habitus vocatur. 233. Ex his pronum est duo intelligere. Pnmum est quod ad efficiendam categoriam habitus duæ substantiat requiruntur, quarum una circa aliam versatur; quaprop ter ex nullo accidente, quod substantiam afficit, e. g., e^ scientia, et sciente, categoria habitus constitui potest 8. Al terum est, quod essentia habitus non consistit in alteru i Quod est, ait s. Thomas, in corporalibus situs, est in spi ritualibus ordo ; nam situs est quidam ordo partium corporaliur secundum locum ; Quodlib. III, loc. cit. 2 I q. III, a. 1-4. 3 Gf s. Aug., Qq. LXXXIIl, q. 73. Perspicuum est habitum, prout hic accipitur, omnino diflerr ab habitu, quem in Logica (part. I, c. I, 9, p. 20 vol. I. esse quamdam speciem qualitatis diximus. s Des sex principiis, tract. VII, c. 1. e Cf s. Damascen., Dialect., c. LXI. tra, aut utraque substanlia, sed, ut s. Bonaventura inquit, ln adiacentia unius substantiæ respectu alterius ' ifcxinde etiam perspicitur habitum, etsi inter duas substantias sit, tamen esse accidens categoricum, quia posi10 un.us substantiæ circa alteram, in qua natura habitus consistit, est accidens 2. L£tl'dU Sent" Dist' VI' a> f q3 resoL Hinc sThom^ ^cnpsit labitum neque mdumentum, neque habentem indumentum esse, sed aliquid medium inter utrumque (la 2æ q XLIX a 1 c ) Ei quo vides Suaresium (Dispp. mett., Dist. LIII, sect. I n 3) aliosque vim huius categoriæ haud probe intellexisse, cum eius :sentiam vestem esse decreverunt; nam vestis est materia, ei qua aabitus constat, sed essentiam habitus haud constituit. Cf s. Thom., In lib. III Sent., Dist. VI, q. III, a. 2 soU COSMOLOGIA idem valet, ac sermo de mundo; quem enim, ut Plinius ait, Græci Kq(J(j,ov nomine ornamenti ap^ pellavere, eum et nos a perfecta, absolutaque elegantia mundum dicimus ' . Iam mundi nomine designatur unimrsitas rerum creatarum, quæ coelo, terraque continentur. Ex quo intelligitur, si nomen Cosmologiæ, qua late patet, sumatur, scientiam hominis illius ambitu contineri, quia homo inter res, quæ coelo, terraque continentur, invenitur. At vero scientia de homine a Cosmologia segregari solet, atque speciali nomine Anthropologiæ appellatur. Neque Cosmologia cum scientiis physicis est confundenda, sed potius ipsa est velut illarum vestibulum, sive, ut aiunt, propedeutica, quia principia scientiarum physicarum communia, earuinque studio inservientia exponit. Quocirca ipsa definiri potest : Scienlia, quæ suprema principia, supremasque rationes mundi sensilis exponit. 2. In ea autem tractanda hunc ordinem persequemur, ut primo diversa genera rerum munduin constituenlia, excepto homine, qui est anlhropologiæ obiectum, explicemus ; deinde nexum, quo ipsa inter sese continentur, mundique systema efficiunt, exponamus; denique de mundi origine, et perfectione disseramus. 3. Ad primam partem quod spectat, distinguenda sunt corpora viventia a non viventibus. Viventia, uti iam alibi diximus 2, sunt quæ sese ab aliquo principio intrinseco ad motum, sive operationem determinant ; et non mventia illa, quæ ab aliquo principio extrinseco ad motum determinantur. Illa dicuntur etiam animata, quia principium vitale, nempe illud, ex quo corpora inter viventia numerantur, anima vocatur; ista autem inanimata. Insuper illa dicuntur etiam organica, ista inorganica, quia illa organis, seu instrumentis pollent, quorum subsidio opera i Hist. nat., lib. II, c. 4. Dynam., c. I, a. 1, p. 98 vol. I. 9J tiones vitales naturæ suæ consentaneas eliciunt, hæc autem nullis organis instruuntur. 4. Hoc djscrimen ex multiplici causa ostenditur • sed præc.pue 1 ex origine, et perpetuitate. Nam corporum viventium aha ab aliis sibi similibus procreantur et successiva sui generis propagatione perpetuanlur; no'n viventia autem, quia omni semine carent, ideo sui sirnile corpus gignere non valent; quare nec per generationem orijginem habent, nec per successionem generationum perpetuanlur, sed ex fortu.to causarum diversi generis concursu emciunlur, assiduasque vices subeunt. 2° Ab exvlicatione, et modo se conservandi. Nam viventia ex vi sibi msita gradatim succrescunt, donec perfectionem sui nropriam assequantur, iacturas suas per assimilationem eiementorum, quæ in substantiam suarn convertunt, resarcmnt vitamque tandem naturali cursu amiltunt; at non viventia ex se stalum suum mutare non possunt, atque taon i nisi accessu novæ materiæ augentur, aut recessu matenæ, quam habent, minuuntur, et non nisi aclione .causæ extenons corrumpuntur. 5. Quæ cum ita se habeant, nos de diversis rerum -e leribus, quæ mundum constituunt, ita agemus, ut pri num de natura, et proprietatibus corporum non viven iurn,n universum, deinde de natura et proprietatibus !>mguIorum generum viventium disseramus. Quænam sint principia constitutiva corporis, investigatur 6 Prima principia intrinseca, quæ cuiuscumque cor•or s si.bstant.am efficiunt, vulgo elementa corporum voantur . fca autem pnncipia, ut Aristoteles ait 3, onor t nec ex se invicem esse, nec ex aliis, et ex ipsis esse ninia . Lt sane, si non omnia ex ipsis constituerentur, ve Acdn4U tdTnnh°^eS ! C°nn-a ^TrT ^^pologie specula3rihC; V' ' P" 5 Sqq' D,JOn 1843^' alisque, qui cunctis corJnbus, ahquam vitam inesse autumarunt. isUnguenda Tunt.' ^" ^™" ab eIementis> ut Post dicemus, 3 iVof. auscult., lib. I, c. 3; cf Plat. Parmenid. et Phædr. non forent prima omnium principia ; si essent ex aliis, ne ullius quidem rei prima principia essent, quia principia illis priora darentur; si demum ex se mutuo essent, nullum eorum esset primurn principium. Quare naturam substantiæ corporis nosse volentibus in eo adlaborandum nobis est, ut quænam hæc principia sint, investigemus. I. — Systema atomicnra, seu mechanicum de elemenlis corporum exponitur, et refellitur 7. De natura elementorum, ex quibus corpora componuntur, diversæ sunt Philosophorum opiniones. Atque in primis systema atomicum, seu atomismus dicitur illorum philosophorum doctrina, qui omne corpus ab aliis exiguis corporibus, quæ atomos vocarunt, dumtaxat componi decernunt '. 8. Atomismum inter veteres post Leucippum, et Democritum Epicurus propugnavit, cuius hæc fuit sententia: Principia corporum sunt corpuscula atoma, nempe insecabilia, quæ, quamvis partes habeant, in illas tamen dividi nequeunt, eaque ita exigua sunt, ut omnem oculorum aciem effugiant, figuraque, magnitudine, gravitate, aliisque qualitatibus, quæ quantitatem consequuntur, sunt prædita. lam corpora gignuntur ex eo quod atomi, quæ per vacuum vagantur, similes cum similibus cohærent, atque ita secum commiscentur; corrumpuntur vero, cum atomi, ex quarum coniunctione effecta sunt, dissociantur; alterantur denique, si dispositio atomorum in ipsis quodammodo turbetur. 9. Epicuri doctrinam omnino emortuam inter recentcs Gassendus, duo, quæ ille admittebat, reiiciens, nempe æternilatem atomorum, atque ex illarum fortuita concursione mundi productionem, exsuscitavit 2, eamque magna ex parte Cartesius , et post eum diversa ratione Newtonus longe celebriorem reddiderunt. Nostra etiam ætate Hi philosophi ad hanc sententiam ei eo pervenerunt, quod investigationem circa elementa corporum sola experientia instituendam esse sibi persuaserunt. 2 Syntagma phil., pars II, Phys., sect. I, lib. III, c. 8. 3 Les princip. de la phil., part. 3, § 44 sqq; et Traitd du monde, § 8-10.— Optices, lib. III, q. 31. theoriæ atomorom illi Physici suffrajrantur, qui omnem vanetatem corporum non ab aliis principiis repelunt, quam ab atom.s, et a motu, quo atomi pelluntur '. ° 10. A tomismus dicitur etiam systema mechanicum ex aliuS, mofnnien,eS e'US f3"!0^ V post Gassendum, non alium motum, nisi mechanicum \ atomis concedunt! Lu i,UurLi ™™m' ouocum quibus coUmpon : u i'va corDornn? T fU"?i ^0 repUg',at PrinciPia consti" SuamPeP .eX part,UUS co^3^ æqoo ac repugnat luioquam esse s.mul ynncyuwm, et principiatumt eql.e\ruie|aUmaat°p,iiCprrUm,Senlent,'a' m°tUS eSt nalnraiis a'omis, ?Motus a Phvstofs dicitur™,!" '^ " CiC> C Fa(0> c" 10 ^20' roducitur ct vh, „>„ 1L " " n,psi corPori insita Profieiscitur. >os cssc ver.enS°er;m\nt0m'Smi' non ?. ouippe qai tradunl ato ' Uinc re^ : „ ' P" 21 vo)'— e Cf P 91-92. sc in .i^rt^'' !,C- 2',§ 24> obscrvavi,, atomos admitt Wredila r verum in " '""'If' nlt". ",0 analvsis !• "o" r, verum .n metaphjsica vcluti principia coustitutiva cor- Probatur 2a pars: nempe non posse ab Alomicis ra- tionem reddi, quomodo atomi corpora constituant. Et sa- ne, omne corpus quadam unitate per se, et proprie di- cta gaudere debet, ita ut, dum ipsum in partes divisibile est, actu sit indivisum, nempe per se unum. Atqui huius- modi unitas ex contactu atomorum effici non potest, quia contactus congeriem, seu multitudinem atomorum efformare quidem valet, sed efficere nequit, ut illa mul- titudo atomorum unicum individuum constituat, siquidem congeries multarum rerum constituit unum per accidens, non vero per se, cuiusmodi est corpus. Ergo ab Atomicis ratio reddi non potest, quomodo atomi corpora consti- tuant. 14. Præterea intelligi non potest, quomodo ex atomis diversæ naturæ rerum existant, et quomodo generatione perpetuentur '. Et sane, dubitari non potest, quin res na- turales secundum substantiam differant, e. g., homo a bel- lua, bellua a planta, plantaque a lapide, et secundum sub- stantialem generationem perpetuentur. Atqui ex fortuita atomorum coitione, sive conglobatione nulla in rebus sub- stantialis diversitas produci, nullaque nova substantia ge- nerari potest. Ergo, si ex atomis omnia efficerentur, haud possibile foret explicare, unde diversæ naturæ rerum existerent, et quomodo generatione perpetuentur. 15. Minor ex eo evincitur, quod atomi, antiquorum, recentiumque Atomicorum iudicio, eædem secundum sub- stantiam sunt, nec nisi motu, figura, situ, aliisque huius- modi differunt, quæ sunt mera accidentia ; manifestum autem est accidentia nec diversitatem substantialem in re- bus, nec ullam novam substantiam efficere posse, quia in effectu nequit plus contineri, quam in perfecta et com- pleta eius causa continetur2. porum haberi non posse, quia, cum ipsæ quoque ex partibus com- ponantur, in metaphysica adhuc quærendum est, quo modo for- mentur, et usque eo quoad intellectu resolvi possint. 1 Id a Lactantio [De ira Dei, c. 10) veteribus Atomicis iam obie- ctum fuit. His argumentis dedimus Atomicis atomos posse inter se co- hærere. At vero ne id quidem ab eis explicari potest. Etenim cum Epicurus, aliique veteres Atomici, tum Gassendus, eiusque secta- tores docent atomos inter se coire ex eo, quod duplici motu, sci- licet perpendiculari et declinatorio, pollent, Non aliud inter vete- De systemate chymico 16. Fautores systematis chymici hæc docent: Corpora sensihilia in simplicia, et mixta, seu composita distin- guuntur. Simplicia sunt, quæ in alia corpora heterogenea, seu diversæ naturæ adhuc resoluta non sunt, e. g., hy- drogenium, et ferrum ; mixta autem ea, quæ in corpora heterogenea resolvuntur, e. g., aqua, aut lignum. At vero et corpora simplicia, et mixta in partes, seu moleculas dividuntur, ita tamen ut in corpore simplici non aliæ moleculæ inveniantur, nisi quæ sunt homogeneæ, nempe eiusdem naturæ, et dicunlur integrantes, quia corpus ab ipsis integrum efficitur; in corpore autem mixto non so- lum moleculæ integrantes, sed etiam constituentes, quæ sunt heterogeneæ, et ita dicuntur, quia ex ipsis natura corporis mixti constituitur. E. g., in aqua inveniuntur moleculæ integrantes ex quibus nempe massa visibilis aquæ constat, et moleculæ constituentes, quæ sunt hydro- genium, et oxygenium, ex quorum copulatione natura a- quæ efficitur. In hydrogenio autem non alias moleculas, quam partes ipsius hydrogenii, nanciscimur. Tum molecu- læ integrantes, tum constituentes ex quadam vi sibi insita coniunguntur, quæ attractio molecularis appellatur, et pro- prie vis, qua .moleculæ integrantes uniuntur, cohæsio, et vis, qua moleculæ constituentes coniunguntur, affinitas chymica audit. Iam ultimæ particulæ, ad quas in divisio- ne molecularum integrantium pervenitur, quæque humana arte insecabiles sunt, moleculæ, seu atomi primitivæ di- cuntur, corporumque elementa sunt. 17. Hoc systema, præter multos chymiæ cultores, duo res, et recentes Atomicos intercedit, quam quod illi duplicem hunc motuiu atomis per se inesse, hi vero ipsis a Deo inditum esse ar- bitrnntur. At duplici illo motu explicari non potest, quomodo ato- mi inter se ad corpora constituenda eoire queant. Non motu per- pendiculari ; nam si atomi gravitate feruntur ad perpendiculum, evenit profecto, ut una alteram perpetuo insectetur, sed fieri num' quam potest, ut una alteram contingat, quia omnes eadem vi deor- sum feruntur. Nec motu declinatorio; nam declinatio atomorum non aliter iicri posset, quam si una atomus ab alia depelleretur; id au- tem haud possibile est, quia atomi, ut moto diximus, ob motum "• ^™ ^" fo™aH onus esse, ut ex us corpus mixtum constiluatur Ereo efementa constKuentia corpus in systemate chymico pJE peram explicantur. "j""" pcr AnT. III.— De syslemate djnamico 21. Hoc svstema in recenli ætate Leibnitius ex indus ria exposuit, et propugnavit. Ipse staluit principia, seu elemenla corporum esse subslantias simplices, et proinde corpora non aliter esse substantias compositas, quam quod "as si?„mn? lXe'°neS Substantiarui11 ^-Plicium. kls subs\annoLi,P •? . ' .CX qU!bus. corDOra efficiunlur, monades, tibTn.r t6S aPpel,avit.1uia ex iis, velut ex unital res monnTrSH 7"S 5°^ti luilur. Quomodo autem plu- hoc rild efficendum corpus concurrant, explicuit 1,nm°i„m Monades' ex Ulb^ quodlibet corpus constat, tensfonom p,° r 0CCupant cu°> ^int simplices, ex^ rma T2' • fiSuramrn0n habent ; 2° in qualibet partiSS" |Unt lnfinitæ ' .uuia matcria est divisibilis m lntinitum, 3 repræsentatione tolius mundi gaudent bscura tamen, et confusa, hoc est sine conscienUa; 4 ppetitu, nempe pnncipio inlrinseco activitatis pollent, x quo omncs mutationes in ipsis fiunt; 5° desliluunlur >mc0enndnn,US ln aIteram2' Unde non Possunrad corJSs 2 TotZ Teg>m eX mutua in se PS™ actio". cd Pus eis est aliqua causa exteriori, ex qua congreffentur iæc autem causa est Deus, quia Deuslonades Tta "iHer" comunxit, ut internæ mutationes unius cum mutatio ontinct. (Vid. Ferrariensem, In lib. III Contr. Genl., c. 56). Ouam i.d ir °"Bm°C r,,nT 7nUnerrime C°ntra ^versariorum obiectlne™ VII n M . W Z'ghara' De mente Cone ? n V1 secundum Boschoviummodo occupanl, ita scse conlmil, i',,,PUnCtuni s° Eran L n unicum ium punctum coalescant necesse p^ ^go ne phoenomenica quidem extensin L J, twf monadcs, 's tse (Canl at!UnloccuPe'Vecesse est. -e4£^ antiam/ct ord?„em inJftnSS. BoX0-!?1™ Di" v" ex vi altrahendi 7!, oschovichius repe W -PB-at in eadelr „Pf "t.rricculf ^0"-'vcniri unicam vim,..,. j.! molccula corpons ri. qoia ?tlrTtioq el rr 1° attractri?> ™odo repul•posiu eq E%o non ' 'ips in? 'S'° SUnt V-Ires "atnrafiter fe?u\Ss\netU"li.teS' SeCUndum Dr»mlco., ita dicuntur i„ . s tcrminus ™ „„i „, ', UJ,,",.nu">'. to tf.^ J&?J£1&»£ • Præterea, etiamsi sumatur illa »tensa dirtantiam inter se servare, tamen ipsa m unicum punctum protecto non coalescerent, sed phoenomenon conUnu.teUs efficere numquam possent. Et sane, cum nec partes seu . extensa quæ corpus componere d>cuntur, cont.nuæ sm, nec totom seu corpus, quod ab eis compon. d.c.tur, sit continuum, omne fundamentum phoenomeno contmu.ta tis deest ART IV Quomodo secundum Scholasticos quæstio circa pnncipia corpu. constituentia spectanda s,t, expl.catur 27. Ut theoria AristoteHco-Scholastica circa Fincjia' ex quibus corpus constituitur, probe intell.gatur, hæc iti antecessum scienda sunt: ... nflm rr.r 1° Scholastici, post Aristotelem, ut compos.Uonem cor porum explicarent, causas intnnsecas umversales eorun rParticularibus accurate distmxerun . Atque id qu.den sapienter. Nam quælibet res mater.ahs cons.derari potes etPin universum, prout est corpus et s.ng.l at.rc, p.ou est corpus determinatum, nempe hoc corpus non ver aliud E e, ferrum, si in un.versum specte ur, est cor p„s, non mi er ac aurum, argentum, aut al.ud e.usjno Si -\ed si sc-ectetur, prout esl ns omnibus præd.tuu popter quat omnes 'illud vocitant ferrum, atque ab aurc "Tllii dynanusmi propugnatores conlendunt cum Wol|io phær,. nenum exLsionis repetendum ss. con us perc P_ £_e _ ( dum, ex quibus corpus conflatur . nam ex eo qu r quibus corpus constat, confuse perc.p.mus, fi t, n t .ps. T elu continuum efficientia nobis W>™"-J£^T æte q ua s. q nades, uti ostendimu, . copnlsn non possnnt, qu,^ confuse ctum coalescant, Wolnus pro LUI1^C3 absurdum, q nobis percipi, sen sentir, lam hoe es P™ » 1 est,q„ obiectum facultatum sent.end. ut ^ suo loc '™m0, qn „isi aliquid corporeum esse potest ; monades _"1 ^n'J_e ^sjb sunt substantiæ simpliees, shqi..d corporeum ac promd esse nequeunt. Neque aud.endus est Ga oPp.us_, qu • l s. LXXXIII) docet nihil proh.bere, qu.n plura s mplrn», q _ gula scorsum sunt insens.l.a, s.mul con uncta totu m ciant. Nam, si repugnat naturæ facul aM »enuen t.se esse aliqnid simp.ex eerte repugna, ; . ™Pl ^J^ 'nla sinon seorsum, sed cum alns muius tom romI)0Sjt0 non per plicia, cum, ipso Galluppio consentiente in composno sceantur, naturam suam amittere non possunt. 101 et argento discriminant, est corpus determinatum, nemne ferrum non vero aurum, aut argentum, aut aliud simile lam J5Cholastici causas universales rerum principia et causas particulares elementa appellarunt. E. £., hydroæmum, et oxygemum sunt elementa, ex quibus corpus quod dicitur aqua, exurgit. Quare tum principia, tum elementa sunt causæ intnnsecæ corporum, sed illa sunt causæ univcrsales, hæc autem particulares, propterea quod ex lllis natura omnium corporum communis constituitur atque ex his illa natura singularibus proprietatibus determmata gignitur. l 2° Elementa, cum conflentur ex principiis, ex auibus jcorpus .n universum constituitur , sunt corpora. Unde s. Thomas elementa definivit: corpora, in quæ alia replvuntur, lpsa vero non resolvuntur in alia 3 3 i Cum quæstio metaphysica de constitulione corporum instituitur, causæ universales eorum, non vero particuares quæruntur, quia harum investigatio ad speciales >cient»as physicas, non vero ad Gosmologiarn, quæ est inetaphys.ca physicæ, spectat. Qua de re theoriaSchola.iticorum, quam exposiluri sumus, non de elementis, sed le pnncipiis corporum versatur. Quoniam autem ipsa eementa, ut diximus, sunt corpora, hæc quæstio non soum corpora mixta, sed etiam simplicia, ex quibus illa iomponuutur, complectitur. ' Aht.V. Systema Aristotelico-scholasticura exponitur ^ 28. Systemalis aristotelico-scholaslici summa hæc esf Horpus, seu compositum naturale considerari potest vei in se, nempe prout intelligitur seiunctum ab esse, quod P accipiL " m fierh nCmpe Dr°Ut 6SSe in ™rum na" &pmSdnniPUS Primo '11,°do ?pectetur, ad eius constitufonem duplex substantiale pnncipium concurrere intellipuw oportet, eorumque unum est passivum, ex quo, ceu •t\in'![rm?r'nin(IUi,nU^Ut iMaS distinSuaiuus a causis agente, rnus auo dnr " in^ed,lintur compositiooera corporis, sed extra »rpus, quou producunt, exislunt. InI,(:iC"r!/rinCip/a' Ut P°Stea dic"»us» sunt materia, et forraa. mælc0nTT;V,ni^irT? T\l0mdS> CSt ^mpositioraateriæ,et rmæ», Contr. Gcnt., hb. III, c.23.- In lib.III De Coelo, lect.VIII. radice, extensio corporis exurgit, alterum vero activum, ex quo eius activitas emergit. Primum vocatur matena, et alterum forma l. ' . 30. Hæc theoria ita explicatur: 1° Materia pro diversis modis, quibus ipsa consideratur, \nprimam, et secundam dividitur. Vocatur prima, cum consideratur m se, nempe prout nullam ex se habet formam, ob ldque ad quamlibet formam in se recipiendam indifferens est; secunda autem, cum consideratur, prout iam formam in se recepit, et, ipsam retinendo, ad alias determinationes non quidem substantiales, sed accidentales, quas nalura, vel ars in ipsam inducere possunt, in se recipiendas apta est. E. g., fignum, si consideretur prout scamnum ex eo etfici&potest> materia secunda appellatur. Quapropter materia, quæ, tamquam principium substantiale, ad corpus efficiendum concurrit, est materia, prout est pnma; siquidem materia, prout est secunda, iam quoddam corpus est, quia ipsa copulationem formæ cum matena prima expostulat. Definiri autem potest materxa pnma: Altquid, quod cum pcr se ab omni essentia, et proprietate vacet, in potentia est ad recipiendam in se quamlibet essentiam, aut proprietatem 2. Id exemplo e rebus artificiosis Petlt de_ clarari potest. Etenim materia prima ita se habet ad ens naturale, ut lignum se habet ad rem artificiosam ; quia sicut li^num, cum nullam figuram artificiosam habeat, m potentia ad omnes recipiendas est, ita materia prima, cum i Theoria de materia, et forma dicitur Aristotelico-scholastica, quia ipsam a Platone inchoatam Aristoteles ad umbihcum perdnxit atque Scholastici perpoliverunt, et illustrarunt. At ante Doctores mediæ ætatis ingentem, ut Moshemius ait, Doctorum numerum in primisque s. Augustinum illa theoria fautores habuit. In recenti autem ætate Leibnitius primum a systemate atomico ad dynamr cum gradum fecit, deinde, hoc etiam relicto, ad matenam et lor mam confugit. Denique hodie non pauci hoc systema sectantur inter quos commemoratione digni sunt Barth. Saint-Hilaire, ei ItalisBrentazzolius, Gontius, Thommasius, Santius, Liveramus,trai ceschius, et præcipue P. Liberatore, S. I. 2 Cf s. Aug., Confess., lib. XII, c. 6, n. 6, et De nat. bon. eontr Manich., lib. I, c. 18. Hinc s. Thomas ait: Materia propne lo quendo non habet essentiam, sed est pars essentiæ totius M dispp., De Ver., q. III, a. 5 ad ult.) Et s. B0^1.11^"^? r ria est indistincta, et passibilis ad distinctionem per formam , / lib. I Sent., Dist. XIX, p. II, a. 1, q. 3 resol. nullam quidditatem, proprietatemque per se habeat, ad (juamlibet quidditalem, proprietatemque in se reciniendam m potentia est. ' 2° Maleria, cum per se sit indifferens ad hoc, vel illud corpus constituendum, indiget aliquo principio, ex quo determ.natur ad hanc, et non aliam corporis speciem cfficendam. Hoc pr.ncpium dicitur forma' substantialis. Mater.a inquit s. Thomas, per formam contrahitur ad ifiterminatam speciem • . Hinc forma subslantialis defi ii linrrnif" F""" mat^ePrim° cum dicitur ætus, lislingu.tur torma a materia, quia materia, ut diximus in potentia cst ad quamlibet essentiam in se recipiendam orma autem est quæ reducit materiam ad actL, nemi .e ad constituendam actu hanc, aut illam speciem, sire ma er£ COmDOS,tl naturajisQapropter essenlia rei non i materia, quæ per se ad omnia indifferens est, sed a orma repetenda est. Exinde eliam intelligitur materiam e uti pr.ncipium passivum, et formam veluti principium c tivum ad corporis effectionem concurrere ; nam forma pnncp.um, quo efllcilur id, quod res est, et mateda t pr.ncpium quo eff.citur id, quod res est. Secundo uin iorma substantialis dicitur actus primus, distin"uiur cum ab aclu exislentiæ, quo res non iam essentiam, 1 suuul. acc'P't> tum a formis accidentalibus, quTe ssent.am rei lam constitutam quibusdam modis afiiciunt ertio, cum diclur actus maleriæ, distineuitur a uh^'nsseparatis, sive Angclis ; hi 'enim JTulLu co ia aJpelklrT deSt",antur' ac nroiude ' rnate ' I, qXLIV, a. 2 c. Et ibid. (q. L, a. 2 c.): Materia rcrinit nna.n, ut secundum ipsam constituat'ur i„ esse ai.cu „ spec e 1 æris, vei .gn.s, vel cuiuscumque alterius,, spec.ei, For.na accidentalis a substantiali diffcrt, quia forma substan . .s fact hoc aliquid, forma autem accidcntalis advenU rei am . a l.qu.d .stcnt,,,; Qq. dispp., q. un. De s „ ™ J ;> Al.quando potentia ad esse, nomine materiæ, ct actttesse nt n formæ des.gnantur. Quocirca, cum formæ creatæ nUac,„ "!> Ttu^af^V1 "°le'"iaus aqua conflatur; quapropter, si substantia corporis, ex pio ahud ontur, eadem ac substantia illius, quod oritur, jnaneret, una eademque substantia proprietatum, quæ ibi lnviccm opponuntur, principium, et subiectum esset; d quod fieri non potest '. Atqui, si corpora per mutatioicm substantialem oriuntur, tria illa principia expostuantur, quæ materiam, formam, et privationem a Schoaslicis dicta fuisse vidimus. Ergo. 34. Minor quoad singulas partes probatur hunc in moom: 1 Si ex uno corpore aliud oritur per mutationem ubslantialem, dicendum est in corpore, quod generatur, emanere aliquid eius, quod veterem formam in se reci•lebat, quia secus vetus corpus non transmutaretur, sed a nihilum reduceretur: hoc autem, quod de vetere cor'Ore in novo remanet, intelligendum est tamquam pura otentia, nempe aliquid, quod, cum nullam peculiarem )rmam habeat, est per se indifferens ad omnes formas scipiendas, alioquin plures formas, unam post aliam, in J recipere non posset ; rursus, cx hoc, quod de vetere )rrupto in novo remanet, quodque ad quamlibet formam i se recipiendam indifferens est, substantia novi corpos educitur, quia si non educeretur ex hoc, educi debe5t ex nihilo, seu, quod idem valet, non generaretur, sed •earetur2. Atqui illud, quod de vetere corpore in novo (imanet; ex quo substantia novi corporis educitur; et quod omnes formas in se recipiendas est per se indifferens, lua cst, quod materia a Scholasticis post Aristotelem nun Cf s. Bonav., In lib. IV Sent., Dist. XLIII, a. 1, q. 4 resol. s. Thom., In lib. IV Sent., Dist. XI, q. I, a. 1, sol. 3 c. Id iam vulgo hominum persuasum est; omnes enim, e. g., putant iter ceram, aut lignum mutari, cum novam induunt figuram, ær vero lignum cum in ignem convertitur, quippe quod in cera t Ligno nova accidentia producuntur, quin ipsa substantia cormpatur, sed substantia ligni perit, cum ignis ex illo efficitur. Necesse est, inquit s. Bonaventura, aliquo modo formas nartfes esse in materia, antequam producantur ; In lib. IV Sent st. XLIII, a. I, q. 4 resol. 10g COSMOLOGIA cupatum est. Ergo, si corpus per generationem oritur, unum principiorum, ex quibus ipsum efficitur, illud est, auod materia a Scholasticis dictum iuit1. H 2° In generatione corporis præter pnncipium, quod dicitur materia, aliud, quod dicitur forma, admittendum est Et sane, ad cuiuslibet rei generationem oportet con currere aliquod principium, quo res ad certam speciem entis determinatur, quo a ceteris speciebus entis distingui tur et ex quo eius proprietates emanant, sive, ut aiunt, resultant. Atqui hocce principium aliud, ac matenale, esse debet. Nam materia, si in se, et seiuncta ab omni alio principio consideretur, neque principmm esse potest, auo res ad certam speciem entis determinatur, quia ipsa intelligitur veluti mera potentia ; neque pnncipium, quc una res ab altera secundum speciem distinguitur, quis conceptus materiæ aliquid, quod cunctis speciebus com positorum naturalium commune est, denotat'; neque prm cipium, ex quo proprietates rei emanant, quia, aientt s Bonaventura, (( est principium passivum s . Ergo ac o-enerationem rei, præter materiam, aliud pnncipium con currere debet, ex quo illa tria, quæ diximus, in corpor( efliciuntnr: huiusmodi autem principium illud est, quoc a Scholasticis forma, sive actus materiæ appellatur. 3° Generatio sine privatione intelligi nequit. Etenin intelliffi nequit, quomodo subiectum possit aliquod no vum esse adquirere, nisi intelligatur illud actuahter no! habere, hoc est, eo privari; quocirca transitus de non esj ad esse sine privatione intelligi nequit. Atqui generatr est ille iransitus de non esseadesse. Ergo generatio cor poris sine privatione intelligi nequit. % 35 Exinde etiam intelligitur in corpore lam generatoris existit secundum realitatem jiotentiæ, sive per modum inhoationis entis. s Quare materia, ut s. Thomas ait, participat aliquid dc bono, >cihcet ipsum ordinem, vel aptitudinem ad bonum ; I, q. V, a. 3 ad 3. ma est tantum in potentia, in quantum huiusmodi ) noi ostendit, quod materia non sit creata, sed quod non si creata sine forma. Licet enim omne creatum sit in actu non tamen est actus purus. Unde oportet, quod etiam ii lud, quod se habet ex parte potentiæ, sit creatum, si to tum, quod ad esse ipsius pertinet, creatum est f . 41. Neque repugnat alterum. Etenim, etsi materia si in potentia, tamen ad totum substantiale concurrere pot est ratione aptitudinis ad formam recipiendam. Ut auten causa materialis ad totum substantiale constituendum con currat, non requiritur, ut actu ante ipsum existat, se^; satis est, ut concomitanter, atque in eodem instanti cun forma substantiali existat ; siquidem materia cum noi det esse formæ, sed recipiat esse a forma, non expostu lat esse in se, sed solum capacitatem ad illud, quod pe; formam recipit 3. 42. Obiic. 2° Repugnat in materia, quæ nullam essen tiam habet, formas contineri. Atqui si formæ in materi non continentur, profecto ab ea educi non possunt. Erg eductio formæ a materia, quæ in systemate Scholasticc rum admittitur, absurda est. 43. Resp. Dist. mai.: repugnat contineri actu, Conc. mai. in potentia, Neg. mai. Item Dist. min., si non continentu neque in actu, neque in potentia, conc. min., si continen tur in potentia, neg. min. Neg. cons. Et sane, illud, quo educitur, debet esse in eo, a quo educitur, non actu, se i I, q. XLIV, a. 2 ad 3. Id iam s. Augustinus monuit, aiei materiam esse a Deo concreatam; Confess., lib. XIII, c 33, n. 41 I Et ibid., c. 29, docet materiam præcedere formam non tempor 4 sed origine, eo modo, quo sonus cantum: Cum enim cantatu I auditur sonus eius. Non prius informiter sonat, et deinde form tur in cantum . Cf p. 104, not. 4. 2 Secus res se habet de causa materiali, in qua, tamquam subiecto, forma accidentalis inest, e. g., albedo non potest adv nire homini, nisi homo iam actu eiistat. 3 Hic etiam cum Origene advertere præstat materiam m gen ratione corporis numquam ita in potentia manere, ut non sit act quippe quod cum non sit corruptio sine generatione, materia ser per alicui formæ subiiciatur oportet; De principiis, lib. II, c. Et vicissim, cum non sit generatio sine corruptione, materia, el ad generationem corporis concurrat, prout est aliquid in potenti nempe prout capacitatem habet ad novam formam, qua privatu tamen est aliquid in actu, habet enim formam corrumpendam. \\\ poOntia nam educlio transitum de potentia in actum deS? L ?• mæ n°" quidem aclu latitant in mateTia licIuet ma.nam ad productioncm formæ concurrere ex eo nnnfl sa adiuval agens naturale ad productionem formTe • !uod quidem, monente s. Thoma , non est intelli JXm' Ximaitenfa a'iqUid agat' Sed nt diximus 2S M n.ad f°oomr'".> cipiendain apta est. 4 44. Obuc. 3° Privaho denotat defeclum realitatis Fr .nonePotest quidquam conferre ad gcnerationem' ali • Cf s. Thom., I, q. XLV, a. 8 c. H.nc s Bonaventura secundum s. Augustinum (De Trin., lib. III iL,,}', ?n,": " Rat'°nes seminales omnium formarum sunt .psa (mater.a) ; /„ Ub. IV Sent., Dist. XLIII, i „ 4 "° uftta a ^lV,h°maS m°net f0rmaS' secundm lud^uttin ten lia, a Deo materxa concreari (cf etiam s. Aug. ibid c 0 16), ct, secundum quod sunt in actu, de potcnHamateriacedu In ipsa matcria, inquit s. Bonaventura, aliquid est concreaSen qmstagVH n"™ a^j" 'T' e SUnt imn'eoia'e a Deo pro Ilnl, ad nutum obed" "aleria, tamqnan. propriac cau "DW DeusTat7ni,iCand".m,M0ySeS SingU"'S P^Tpr.e"?,. n P e "rbnm Dei"^ ' 9"° significatnr formatio rc forin If" Cla' a ouo' seeundum Augustinum, est om tnik et, c°rap.-"go, et concordia partium ; L q. L\V a 4r ' W. /f vel mitmm generatioms est privatio formæ inducendæ 4 . De essentia corporis 46 In rebus compositis ex materia, et forma, ait s Thomas, essentia signiBcat non solum formam, nec soluu nTateriam, sed compositum matena t^ na\Tan i prout sunt principia speciei . Quare ad naturan corooris intelligendam satis non est cognoscere, quid s forma et quid sit materia, sed cognoscere etiam oportet quid sit corpus, quod ex utraque conflatur, sive ir i qoc consistat essentia,seu esse essentiale coroons, quod ex co pulatione formæ cum materia constituitur. Aliquorum Philosophorura sentenliæ de corporis essentia reiiciuntur 47. Lockius ratus essentiam corporis positam esse i: collectione omnium eius proprietatum, statuit ™™ cornoris nobis latere, quippe quod non omnes eius prc Sates exploratas habemus . Cartesius, cui, præter tqui, si extensio a substantia reipsa distinguitur, sequi | Cf Ontol., c. VII, a. 1, p. 42.-2 Ibid c> n a „ De corpore physico hic agimus, nempe spectato cum qualita•us sensilibus quibus i„ rerum natura existit; essentia enlm corns mathemaUci, nempe abstracti ab omni qualitate sensibTli (Cf fac p. I, c. I, a. 7, p. 17, not. 1 vol. I) non nisi in trina di| nsione posita esse potest, quia nihil aliud in eo præter tres di|!nsiones mvenitur. F l fj[Ontol:, c. X, a. 3, p. 80-81. Hoc inde etiam confirmatur I d s. spatium et locus essent corpora, cum locus et locatum I S Tln lTeivUll duV0rp0ra GSSe Simu,5 °-uodest inconveRns , in lib. IV Phys., lect. II. Hima^nHtr08 aU: po „3' Ut h.°C ar,Kumenlura magis perspicuum fia(, observandum est ex plunbus non posse aliqu d, quod est unum per se, effic, sine a iquo principio, quod Ipsa ita pervadT ut unum cx ns existat, divisibile quidemV^7n plu res partes, sed mdivisum actu. Quapropter partes corporis non possunt constiluere corpus sine aliqua vi aua ron Unentur, alque unum efficiunt. Iam, si præto paVles £ quibus corpus coalescit, opus est ad co^rpu effic[endum a liqua vi, seu pnncipio activo, ex quo ipsæ cobæren? ; alque,n unum coalescunt, liquet essentiam corporjs ex, eo constilu, non posse, quod corpus ex pluribus substanI lns compositis, ceu sui parlibus, conflatur. At. Il.-Vera sentenlia circa csscntiam corporis adstraitur .J^ Doctores mediæ ælatis, si Ockamum exceperis concorditer docuerunt corpus tribus dimensionibus W pe exlcnsione, nalura sua præditum esse, corpor, -,„. ! em essent.am non esse positam in acluali o 0,scd m exigentia exlensionis, sive, ul nonnulli a unt in ext ennone radtcali. Quocirca dimensiones, ex eorum sentontia, a corpore virtutc Divina separari queunl.Ted si :ex0£;icZuslil,as semP"¥ t^S corPn,ro,J • ' |U'Ppe quod' S1,lcet nobis substamiam corpoream sine actuali extensione intelli^ere necesse KæmSusUt illam Ve'UU a",am °d hanc ^piendTmin! p4rnnVC£latCm UUlUS sententiæ demonstramus sequenti tajomposita ad tnnam dunensionem recipicndam apta. Brafes ' r°J'"n f°rma CSt °rd° ' VCl comP^i"o "on snnt res p! lTb. IVf c. 05Um UnUaS P°SSU °iCi U"UaS naturac : Contr. •t/.(ro0'uri;CiS hac,. adquirat. H "ucnsiones quantitatis 57. At vero fautores Dvnamismi nli fcl.hi „,1 . • extensionem nonnisi phæ^nomeTc \^ ostendimus contra ipsos sequentem dammunt Qure Prop . Extensio corporum esl realis. Use obieclivas in DynamilogtaVicTZTTrl ^0^ tas, s.ve cxtensio co/poris i ^™ B'£da -2? Vnf"'1titas est fundamentum ceteroru.n nroiA^,yuan" quia quantitas est VrirntToTnS^™ XCiaT '' pons advenire intelliffimiis m „,,-V -5 sunstanl'æ cor E iutelligimus, non S^rou0' Pqe ' (lUt'eds eXditufst prout est jikwKmot, intell.frere Dossumn ' n ' seH fxteosio, seu quan itas coSS^ >,;,?Uapr°'.ter si Comenic., .omnes qualitatef corpo s no„ a liid Vis PU°e' mectio ammi . vel momm ^kJ anud, nisi mera .. jiivdd qaid,„,,r;„ P r,: jk&^a '°r R-sxrar^~s£si •.. i. ricxv^rc4rxr^;re J 4ad. GWC, lib. I, c. 6.-2 Vid. p. 99 F £?xr dt, drm.rAT •' . • > . Ug IMPENETRABILITAS [Grice: Cf. Humpty Dumpty -- ] est illa proprietas, qua omne corpus cetera expellit ab ipso loco, quem occupat. 60 Omne corpus est impenetrahite. Probatur. Substantia corporea ratione quantitatis m par tes, quarum una est extra aliam, distnbuitur, sive exten ditur; quod quidem possibile non est, nisi quælibet par tium a liud, ac ceteræ, spatium occupet; atque a spatio, quod occupat, ceteras expellat '. Atqui sicut se habet pars corporis ad partem loci, quem corpus occupat, i ta se ha bet totum corpus ad totum locum; nam quodl.bet corpus est ab omni alio divisum. Ergo quemadmodum quæhbet pars corporis expeliit alias partes eius a parte spatn, quocl occupat ; ita quodlibet corpus debet certum spatium sui proprium occupare, ab eoque reliqua corpora expellere . Confirmatur hæc propositio ab expenentia, ex qua com pertum est nullum corpus posse altenus locum occupare, nisi ab eo ipsum expellat. . 61. Ut autem notio impenetrabilitatis clanor fiat, hæ( ^l^VmpenltVabilitas explicari non potest, nisi quædarr vis resistendi in corpore esse dicatur Namque unum cor pus impedire non potest, quominus ahud corpus occupe Focum ei proprium; nisi quidquam agat. Atqui hæc actirrooaiur. Magniludo cuiuslibet corporis determina.a esse debet, quia quidquid in rerum natura existft e de ermmatum. Atqui magnitudo non aliter delerm nata in lellig. potest, quam si uno, pluribusve LnSSb^S^ hensa concip.atur; id qnod experientia confi"^ uam itaui in h; T firne C°rpUS tenninis eomprehenditur. v„T,. . r figura corP°ris posita est . Ergo omne c? ™ qua figura Peædilum est. 8 auæ' nM?nife8lu,n est fi>'™ esse proprielatem corporis, quæ a for promanaL Nam lnaleria' . P,s KndamnSi.ad ^3"1'1"6' substau^' corporeaS const EE™?',ta qU00Ue e-st Per se "'differens ad quamlibet I m na reM qUant"atiSHinc' Sicut mate" a forma iam itl .h -!j Tam Certamsubsta"tiam constituenjam,,ta ab eadem forma quantitas eius ad unum nli. que term.nos in se recipiendos, ac proinde adK "am figuram determ.natur. Quod si figura corooris a fnr t&TT' Consequitur %-as esseSrScundum verSas corpomm species, quia forma est principium ne" |uod corpora ab se specie differunt. Id, si in corpoHbus Ita prædU.s, nempe plantis, atque animalibus S us ouoaue X" "S V'tæ cxPertibus> hoc est mineraHus quoque observatur, cum a statu æriformi, vel linuido wSifi. prantQ/are diTer?.itaS firæ nonqn,odo -centibus Physicis, sed et.am a Peripateticis tutius in !n„'„„?U' in similitudfne corporea illos Sanctos repræsentabant t Log., part. I, c. I, a. 9, p. 20-21 vol. I. e 'rJLT11' a ad 2' Sensu autcm improprio hoc nomen fi-U andum T T qU0Hbet sino' ^uod ad aliquid si fnl andum secundurn ass^imilationem ad aliud •; / lih. ?// £., 8-cif.^a^Tc': ^11"6 termin°' VGl terminis comPrehenditur ; I, 1 scd m^ f'">e ub fTectn m T T' "" 'nstra'n^', quo eausa prineipalis ad 'cTnatLPel CeDdT T"' "°n e° Spcctatnt cfrcctu"> simi!em Wr^f ' J natUraC Cansæ P™eJPS, q„ia ab hac om B \Z nctaT „!!",?• ^, EI,ectUS non ••1 ins.rumenm, >eu prmc ipali agenti; sicut lectus non assimilatur securi sed ni luæ est in mente arlificis ; III, q. LXII, a. 1 c primarias, et secundarias vulgo distinguunt. Illæ sunt, queniadmodum Lockius ait, soliditas, extensio, figura, motus, quies, et numerus !; istæ autem consistunt in quadam vi, qua primariæ pollent, producendi in animo sensationes, e. g., colores, sapores, odores etc. Iam in definiendo, utrum hæ proprietates re ipsa inveniantur in corporibus, ipsi valde inter se dissident. Nonnulli, inter quos idem Lockius, docent qualitates primarias esse obiectivas ^ secundarws autem esse subiectivas, nerape animi nostri affectiones, quibus nihil simile in corpore respondet. Alii, inter quos Berkeleyus, omnes qualitates primarias, non secus ac secundarias, esse subiectivas contendunt, atque inde idealismum eliciunt . Leibnitius denique 3, Garnierius , aliique non solum qualitates primarias, sed etiam secundarias esse reales voluerunt, atque istis, perinde ac illis, aliquid simile in corpore respondere arbitrati sunt. 73. Quid de hac controversia sentiendum sit, ita breviter declaramus: 1° Certum est proprietates, quæ a recentibus primariæ appellantur, esse reales, sive tales in corporibus, quales a nobis cognoscuntur. Etenim proprietates primanæ aliquid denotant, quo extensio in corpore determinatur, quia cum quantitas, tum figura, tum situs, tum denique motus extcnsionem exhibent diversis modis determinatam. Atqui extensio in corpore, uti ostendimus, est realis, hoc est, talis, qualis a nobis cognoscitur. Ergo qualitates primariæ quoque sunt reales, nempe tales, quales a nobis cognoscuntur. i Essai pkil., etc, lib. II, c. 8, § 9-21. Diximus secundum Lockium, quia alii diversis modis illas enumerant. 2 Galluppius {Saggi o fil., lib. IV, c. 4, § 44), cuius sententiam Saissetus (vid. Dict. phil. art. Matiere) nuper defendit, Berkeleyo concessit omnes proprietates, quas nos corpori tribuimus, non aliud esse, nisi sensationes nostras, quibus res extrinsecus obiectas mduimus, sed idealismum inde concludi posse negavit. Ast perperam. Nam, corporum naturam nonnisi ex eorum proprietatibus cognoscere possumus; quapropter, si cunctæ proprietates corporum non sunt tales, quales in corporibus a nobis cognoscuntur; concluiendum est nos naturam corporum ignorare, ac proindei dealismus Berkeleyi, sive scepticismus circa scientias rerum naturalium admittendus est. 5 N. E., lib. II. c. 8. Qua in re Leibnitius monadologiæ suæ placitis parum cohæsit Precis de Psycologief lib. I, c. 1, sect. 2, § 4, Paris 1831. cosmologu 125 sensilSUsunf SnneCUndariæ' Si sPec'entur relative, prout u., idcmqwquc°umpe;coprSu ?l per spec,em sensi,em ;cst%onu7s„UUnalseeSipSsTsUndat^ abS0,Ute> hoc • s>eipsis, atque lmpressionem anm ; Ssti " Fgana SGnSOria Producnnt^uædariiffido existtt . Emmvero compertum est qualitates se mi 1;, a corpore animnli pvrmi ™ j 4ua"i secunaanas dcrc. ur m,l n C°rp0re animaIi esse> si aterial ter cons derelur,,d ipSum, quod es, in quo|ibe, co " "™ Ke vera, cnm manun, igni admovcmus nrorn? ?l • I SSfcdHr" SCn"'mUS' ;Psamie "' aft L S^an6 fejjfc s asrts ™ ca S& mter aualilates Secundarias absolute snerinfr.c „, m apprehensiones sensibiles • non exirtfffl M ''" be'mes-tan?r, Simili,ud° repraZZfon i KoTeM 1 ro m SMn'tUd0 -atUra^ a"ia 1ualita'es sccunda,æ 'Toris, seu abim csst„ '„„,! II d,s .ngu.tur ab innnutatione 4 Cf Dynam., c.PI p^ voh ? "^" " °rSan° Producit pore animali '; 2° sensationes, quamvis affec Uones animi nostri sint, tamen non esse dumtaxat ahquid sub.ec . rum, uti Berkeleyus, et Humius voluere, sed etam ob.ect.ram, quia in rebus obiectis aliqu.d rerera est, quod e.s re spondet, et quod ipsarum causa est. De vegetabilibus 75 Postquam corporum vita carentium naturam, et proprielates exploravimus, propositi nostr. ral.o eiposlulat, ut de corporibus viventibus, seu animatis d.sseramus. Ab Hs in quibus infimus gradus vitæ viget, hoc est a yegeabil bul" eu plantis ordiamur. Quænam s.nt operat.one vege ativæ, e quomodo vita vegetat.va defimatur, al.b expHcuimus ; quare. hic dumlaxat quære n J™ nobis es, utrum principium vitale, seu an.ma .ns.t plant.s, et, s. v Um ™lanti inesse invenerimus, cuiusnam specie, illa sit. ABT. I. Vitam plantis inesse demonstratur 76 Aliqui veteres, secundum Epicureos, et Stoicos, alque non pauci recenlcs, secundum Cartestum, nul um, principium vitale plantis inesse pugnant, alque ex . s al.i mo tus ct effectus plantarum ex sola part.um extura t repetunt, ita ut non alio discrimine plantæ a ceter.s corpori bus quam mcliori, et nobiliori partium ord.ne distmguan tur \ rel per vires physicas, et chym.cas fier. arb.tran tur Horum sententiam refellimus sequent. 77 Prop Principium vitale, seu aliqua ammaplanhs tnest Probatur. Planlæ, uti s. Augustious inqu.l, non tantun ex vi exlrinsecus impellente, velutt cum ventis agttantur sed ex principio sibi intrinseco moventur, e. g., cnmsu cum attrabunt, quo nutriuntur, et augescunt,e t fol a fructus, aliasque planlas sib. s.m.les edunt . Atqui prw cipium vivens, seu anima iis conven.t, quæ se .psa ad ( ~7"cf s. Thom., In lib. IV Sent., Dist. XLIV, q. H, a. 2 sol. c et a. 4. sol. 1 ad 3. C \ cfVam., c. II, a. 1, et 2, P: 109-111 vol. I. i Præsertim Lamarck, Philosophie zoologique, t. I, p. JS, ris 1809, et Histoire naturelle des animaux sans vertebres, Inlrod. p. 85, ed. 2, Paris 1835. 4 De Gen. ad litt. pcrandum movent . Ergo vila, seu quædam anima plan ; 78. Prælerea, plantæ sunt corpora, quæ ex pluribus, IVTTT6 °rgan,S ^nflwtur, siquidem in eis, aienle B Aberto M., sunt radices ori similes, et stinites " tram, et cetera d.versa officia habentia >,.' Atq Pp rincfpinm substant.ale corporum organicorum debe e.sse anima qu.a ipsum efficere debet, ut corpora se ex se ipsis moi veant, alioquin organa frustranea essent. Ergo nrincipium substanliale, quod plantis inest, est anima 79. JJenique admissa adversariorum sententia, princimum, per quod plantæ constituuntur, et operantur deberet esse idem, ac illud, a quo corpora non viventia essentian,, et operationes suas sumunt/ nempe, ut ipsi contendunt, leges mechanicæ, sive vires chymicæ. Atqui hoc conseclanum cst absurdum. Ergo 4 J!!hi\fJZJu dem°nS(ratur: LeSes> ^ecundum quas veMtabiha constituunlur, et operantur, ut alibi diiimus ' ib ns d.flerunt, quæ constitutionem, operationesuue corlorum haud viventinm moderantur. Atqui diver has °e 5T„'. IT r" con1s.tituti.°nem.. et operationes entium perincnt, specificam divers.tatem principiorum arguunt Er 'hiueunaturSl prmCnip,Um' 6X ^^orporanonvivlntiaconhaniri e,'rhl peranlUr \consi?tat' quemadmodum Me-hanici, et Chym.ci contendunt, in legibus mechanicis, vel iribus chym.cis, tamen principium" ex quo vesre tabifia ^nst.tuunlur, et operantur, diversum esseTebet ' ri ?'".';?•• C ' a • P 98 vo1 '•, q LXXVm; aM'l ? "> ^ '• " > "' °> "• "•. • f oTuf/ £ Tbom°9dispp-> • unD •• •• entia' e ?" ',bl esPos"!mus. ddi potest corpora non vi-,,,n'„i g'' Uum' lapu' 'oms' sub qualibet figura, et vcl exi d n fi"arTT' VirSqUe SUaS retine'e: sed viventi; sinc ccru • Neouc Ur,V °i6 ",eC C."Sterc' nec °Perari Possunt. Neque d.cas cum P. Tongiorgio (Instit. phil., Psyeh.,lib. I c. imt.if'^ • P,antarum naturam dcrivari ex viribus unæ ex s P vs'cT,e irT PnVSieari"net °"5micarum rcsuHant. N m " is,7„, ' C' ehy|mcao, quocumquc modo coniungontur et ncrseeantur, supra condilionem naluræ mor, J™?£ ner. ", qtbus ZT VeSetabiliu'usi'e borum opcratioues sivc^le 'rP0qu n7norPSæieiCrUntU; ' sP.ee,averis • valdc pracs.a't oaturæ P rum inorganicornm. Ergo s. non per vires physicas, et chy Ut hoc magis perspicuum fiat, mente repetendum est plantas non posse nutriri, augescere, aut simile s.bi jrienere' nisi aliquid in novam substantiam transmutent . Atcui partes plantæ, quoad variæ sint, et exqu.s.ta slructura ornentur, hanc transmutationem per vires phys.cas, et chvmicas efficere nequeunt; nam hæ possunl quidem partes alimenti aliter, aliterve disponere, sed nequeunt illas corrumpere, seu, ut aiunt, alterare, ut inde nova substantia producatur. Ergo, ex adversar.orum sententia, operationes1 plantarum nullo modo fien possnnt H.nc nobiliores Physici, et maxime nuper. mgenue fatentur nerennem circuitum humorum, assimilalionem succorum, uuibus plantæ nutriuntur, et augescunt, et maxime reJroauctionem per vires pbysicas, et chym.cas nullo modo eX89CItraqueSpro certo habendum in vegetabilibus, nræ ter vires physicas, et chymicas, exislere pr.ncipium h.sc. mulm præslantius, quod' illisveluti inslrument.s ut.tu ad producendas operationes, quæ v.lales vocantur Hoc autem principium nos non latet, quemadmodum Cuv.erkis" aliique contendunt. Nam ex i.s, quæ de principiM constitutivis corporum statuimus, patet prmc.p.um .llud esTe formam illam substanlialem, quæ mater.am ad veffetabilium speciem de terminat, fonsque est omn.um operationum, quas in ipsis observavimus . mira, uti ostensum est, ne per harum quidem combinationem na Sr. ve"ettW Ham eiplicari potest. Accedit, quod chym.c, concor duer SeDntiun non posse fieri ullum vegetabile per comb.nat.one v rium nhvskarum, et chymicarum, immo nc unam qu.dem moleculaT orglnkam; cf Ber/elins, Traiti de ckimu, or,.m ^Hæ" tf dS-n. (Dynam. c. II, a. 1, p. 109 vol. I), suutpra. cipue^ vegeUbiUum^opcrat.one, ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ±> ^, § 1;3etzftt'neDani,n"', l.lkLV^ lon oraannation, in.ro '" ^Ex^hofclnUn^Uquod ^l™ i"ividnum sit eorpas inan |29 AaT.n.-Cuiusnau, speciei vita plantarum sit, inquiritur Quoniam vegetabilia vivere norsnptimnc : bportet, num iJlorum vifn u Pf.rsPex,mus > mvestigare 83. Plantas vim sentiendi habere docuit PJafo • m.n i Si£S?' Clmtat SmsibuS hadPollent \ > re mtileASf fMt,træ "' saPientissi'us, Eum um est Ain ; rUStra eg,sse Pro cert0 haben iH^L q -VSenSUS,n Planlis frastraoei forent Plan s ig.tur sensibus carere certum esse debet., ™;!TC'tUr h0C modoSensus viveutibus datur LStnr exterioribus, quæ ea destruere adnitun ur' Kr vRent^n C0USerVent> hoc est > t quæ sibi no"fa Entar Atnn; ?afqUe ad v.,tam necessaria eis sun" se quide? 6S im oCX nC:PUe P,antæ S6nSUS exP°s'Iau • W immnhilJf0r P^i. ' nam' cum 'Psæ ob radicem telideS„ adbæreant, et facultate e loco se moven asibu uaapns„d j : ips:s/r ^' quæ noxia sibTs^ allerofZ' '• qU a effugei"e non possent. Nec ' ia Cf Clem Alex.( 5(roOT) j.b ^ senpni. h-IpiniumVæ pZ ' ^e^S h,b; '• C' ^ • iir^ VCT, Jvmacip6 8;At 1818 1 .. Thom., 2 2-,. CLXVn7. ^'c?' ^' " a"b' :„; XCI- a- 3 ad 3.- i, „. x'vni> æ3 e. fHuos. Cbbist. Compend. II. 7 q 130 cosMOLoaiA bare possumus. Re vera, plantæ nobis haud præbent in se ulia illorum indiciorum, ex quibus nos an.maha sensibus pollere colligimus. Primo enim in lpsis non invenimus^organa ad sensationes apta, sed organa tantum, quæ nutritioni, augmentationi ..et.reprod^ ^ mserviunt: secundo, non observamus in ipsis illos motus ex miibus arguere solemus ammal.a sensationes, et anecuo ne quælpsas concomilantur, in se expennN.hil.gito in plantis nobis occurrit, ex quo sensus in ip.s arguere possumus . CApvT y De brutis Hactenus de infimo genere viventium, nempe planlarum nunc ad genus, quod iilo proxime super.us est, nemp. brutorum, explicandum accedamus. Abi. I.— Bruta non esse au.oinata demonstratur 87 Cartesius post Pereiram aliquorum veterum sen tentiamTnstaurans, contendit belluam esse merum matum, seu machinam affabre ™^WJ gium, ita ut omnes eius operat.ones^ non al.ud s.nt, ni. mntns aui leeibus mechanicis fiunt ". 88 Pron Selluæ non sunt automata, sed mla gauden Pwbatur prima pars. Si bruta essent automata secu. dum certas/immotasque naturæ leges moveren tun Atq belluæ non moventur secundum has leges. Belluæ ig.t. non sunt automata. . 89. M inor demonstratur ex præcipua lege ruotus, qu, huiusmodi est: Corpus in motu posilum V^sevem eadt vploritate ataue in eadem direchone, msi ab ahqua extt tclusa^ aut in alias partes deterrmnetu TTf Alb. M., Op. cit., lib. cit., c. 3. Qua in re adyertend, est contra Robinetum motus herbæ, quæ a manu ipsam att ecta>; M auæaue idcirco casta vocatur, et motus herbæ, quæ v, iXlTY^T^^ ° causara nomen heliotropn^h S„ullumTndidum sensationis præseferre, sed ex pmcipio >nt ib ^ petendos esse, quod varias leges, propnetatesque in varns motum, yel vicissim transeant; Xpe enuus aTlffl"1 ' v.is determinatus, ut ad hordeum acceda,, TmediL K" sam mvenerit, cursum skfii &J ' ai.meuiam los vens in brutis agnoscendum est g Pr'ncipmm vi T„STi.\C"^'" ".' "'io.ib.. "ffici,S "d" '•, qas,n bcllu.s compicimu,. E,go belluæ M ntr.;!. ' s' et Principim est operationum eius E" au.lem> 9.as in belluis obse/vamus Tmodo :stend.mus, e.usmod. sunt, ut naturæ automati cartesiani 1 Vid Dynam c. I, a. 1, p. 98 vol. I. 3 Cap ^'n,Ua?2 p. % iUqab^ contr; • 4, n. 4. • omnino repugnent. Ergo Deus automata, qualia Cartesius belluas esse contendit, condere non potuit. Il.-Cuiusnam speciei vila brutorum sit, investigatur Q4 Inter illos, qui animam inesse brutis tuentur, nemo contendit ipsam esse dumtaxat vegetativam, sed cum ^mnes animam^belluinam esse pnnc.p.um yegetat.vum faTantur, acriter disputant, utrum s.t pr.nc.p.um dumtaxat vegetativum, et sensitivum, an et.am .ntelleclivum. Q^ Pron la. Anima brutorum est sensitiva . Probatur Brutorum anatome nos edocet bruta nsdem exfernis internisque organis instructa esse, quæ y.tæ tnsitWæ hominis cum externæ, tum mternæ inserv.unt. Aau Torgana, ut scite advertit s. Thomas,.sunt propter noTnlias ' t Ergo in belluis facultates sent.end. sunt P % Præterea, bruta actiones exerunt, quæ facultates sentiendi expos tulant. Ergo anima brutorum est sens.U™ Anlecedel expositkWoperationum brutorum demonsiratur 3 Et sane de sensationibus, quæ referuntur ad res Sraas, dubTtandum non est ; belluæ enim .Uas.operatfones edunt, quæ visui, auditui, gustu., odoralu., et tactuTtribuun ur '. Quod autem belluæ sensat.ones suas, earumque differentias sentiant, ex eo ev.ncitur, quod .psae Ttilia a noxiis discriminant s. Phantast.cas vero operaUones a brutis exerceri vel sola illorum somnia ostendnT- '. Actiones autem memoriae sensitivae valde persp cuae in ipsis sunt. Memoriam, s. August.nus inqu.t, non i Ex huius propositionis demonstratione sententiae Cartesiana. abnormitas magis, magisque confirmatur. I i„ ',2 Ms ^erationibus • ^J^gj,„ m,ihns vis sentiendi, quantum illarum natura fert, tota evo.yi ur^ Sunt enim qnemauldum inferius dicemus, quaedam sp.c. I,!!! nuTe cum ad plantas proxime accedant, proindeque t fimo 0r,M.ViU. gradu polle.5., perpaucas operation.s v.ta TcfT TuTTloann. c. II, tract. VIII, n. 2. Quin etian, . exercendo hominibus longe exccllnnt. Irerum intelligibilium, sed harum corporearum et besliao !c£rCbSennulrlUr rNCC fac". e ..-Lira d"! citur, belluae expcrles sunl, quippe quod insae ut Ge deUreenSprreSdicUan1rr,CmUS' ?". 1oae 3S nam sfS f,? 'w ?Se am,Ca' aut inimica P™esciunt; nam, s, amica fuermt, tolae se comparant, ut blande a & exaCsepaeULt„Cr,P;ant; T" T° ' ™-ca praesagian^ S" sfrl, V q,UC ad\.Proellnm veluti accingunl, °in au leva Pt f ' Prod,turae,2 • enique non sunt mi6"cia I&nim reqUe" H? ln belluis aPPetilns S3nsitivi infcra' So'™ 'PSae,C,b°S' el ea' auae vilae snnt "ecesfSnl, q i 'U,ntur; e.a' uuae sibi noxia snnt, cavent; Cio imnPqH?,bUS,,0n' sibi,.couve„ientiS adeptio,'aut p" .essio 'mpeditur, a se amoliri conantur. ' w r°P' ' AmJna brutorum rationis est expers 3 tfontir oCOU!ra Codillachu rationis investigatione el nstUutione soc.ah, perinde ac homines, adquirerent At j ConL Epist. Fundam., c. 17. Cf Dynam., ib id. a 10 n 123 I „0lT;Uam bCS"æ; obse"'a„te s Basiiio BelaZ '/llom • mJri mZ Sn°abcrrantc. luandoque iter eommonstr.m ionemleMuk^rfr' T^ VetCrUm ". qul hacreticos ra m VI n /£i S vcbcmcntC1' redargucront. Cf s. Basil., . ""• V11 w Juexæm., n. 2s Orno TVvcc n„ ^ •/? • i .' , c. 30; s. Aug., De W,' Mfcf^^f -.^5^D' ^0 W 5 QZaniLaiiaTU^ C' ' 2 C' paSSim' Amsterdan. 1753. ' £ ^, HeTmstad/ms^6 ra"'0'!e ^1"' melius "." • Montaigne, ,„, ilb. n, c. 12, Paris 1725. I er b commcmo dus est Malcbranchius, De inauir. ve • V..J-11 llbVI> Pars ". c. 7. :• obtln tC'crlPaUCi aI" SCC,,ti sunlintcr na ?sitione , et sine hoc, quod ab alas doceantur, ut lia a noxiis discriminant, qu.a, statim ac in lucem eduntur, ea nuæ sibi consentanea sunt, sectantur, atque ea, quæ sunt rontraria, vitant. Ergo bruta ratione non pollent. 98 Præterea, si belluæ ratione pollerent, nec seroper onerarentur idem, nec omnes operarentur s.mi i mouo. K non operarentur idem, quia obiectum rat.on.s non est aliquod particulare determinatum, sed universal, et ?udeterqminatum, ac proinde ratio non ™^™AjT? determinatum, sed circa multa, atque oppo 't.a vrsatu^ Neque omnes eodem modo semper operarentur, quia,, cum ratlnem libertas consequatur, ipsæ pro l.bero ntellectus sui iudicio operationes suas diverso modo exererent. Id n animalibus" quæ ratione pollent, nempe,n homin.bu, conspicimus; hi enim multa, d.versaque agunt, neque- a, quæ agunt, simili modo agunt. Atqut belluæ, n cu que exnerientia compertum est, idem semper operantur, e quæ unius speclei sunt, cunctas suas operat.ones s.m.h ter exerunt f Ergo belluæ ration.s experles sunt. 99 Exinde hoc aliud argumentum conficere lubet. Illu. nronrium est aniroalium, quæ ratione pollent, quod s.ngu ?a cum a noto ad ignotum discurrant, operat.ones suas i di'es P^rfidunt, et tota species ex singulorum progress. sensim perficitur. Atqui belluæ nec singulæ suas opera tiones in dies perficere valent, nec unaquæque spec. ex variarum ætatum success.one progredi potest, qui •psæ, ut diximus, ad quasdam operat.ones e™nndasJg ural iter determinantur, et quæ un.us spec.e. sunt, illa s"militer exercent . Ergo belluæ, cum nulhus progre ssu peTfectionisque capaces sint.ralione carere d.cendæ sum 1 Qq. dispp., De Yer., q. XVIII, a. 7 ad 7. 2 /„ lib. II Sent., Dist. XX, q. II, • 2 ad 5. 3 Qq. dispp., De Ver., q. XXIV, . 1 c. tæ fuTricX "esdem ope^stiones edere, emde=e modou £Jj edendis tenere, atque ex historns animabum de nt dem c on ^ discimus species brutorum, quse in prsetentis se a obus o tæ sunt, easdem operationes, eodem modo, ac illas, qua Ttti.Trth.8; dimcultate se e.pediret, contendit be.lu 100. Accedit quod, concessa brutis ratione, nihil certe :etat, qu,„ loquela, quæ, aienle s. Thoma, e t proi.r.um opus rat.on.s • eis concedatur, quia pleraque Z um organ.s ad voces edendas opporlunii instruuntur At .ruta habent qmdem signa naturalia, quorum one afft Uones suas secum invicem communicant '; sed ea a ner t aliniens,tirinn,Snnl0nge( d,Stant' qUia a brut's dnturP„aliis manifes.Pn. "T, ^T n ^,' u t affectiones suas ttis man.testent '. Itaque belluæ nulla vi intelligendi nolnt. An.mæ best.arum, subdit s. Augustinul, vivun ftd non mtelligunt . ' ' I 101. Obiic. Sunt aliquæ brutorum operationes anw '"lO™ Xr J"1611^6"^-" ^ commoP„strann Ergo .102. Resp. Neg. ant. Et sane operationes illæ i„ ioclamTlu^us3,"009 ^^ ^ nerilicelle" loc lam s.August.nus observaverat scribens: Multa mira nte oculos nostros de apibus vera sunt, longe tamen ab u.usmod, .rrationabilium animantium, quamffs m?rabili ensu d.stare rationem, quæ non hominibus et uecor ' us, sed hom.nibus, ange^lisque commum's es^ PQuod nonnullac brutomm operationes quamdam rat onis st aUur,nrdiP[rShCfe|rUnt' id ab Aauinate hac ra S ex" icatur lud.cia brutorum, cum sint instinctiva ac Drn ide naturaha , operationibus rerum naturalium sinfilia, tate reneetendi carent, ratio ipsis inesse 'nequu!' ^11"6 f' i, q. Xtl, a. 3 ad 3. 2 Cf s. Aug., De Doctr. Christ., lib. II c 2 n ? „ p-„, • .. Thomas, habent valde paucos concep'tus' Jos pauc ' na~ rahbus signis exprimunt ; Qq. dispp. De Ver „ iy f"l !i "n~ ; Etsi bruta animantia al^uid mnniE^ ^tionem intendunt; sed naturali instinctu aliquid agu™t ad auod amtestationem sequitur ; 2a 2æ a CX a 1 ° c' a quoa J >e Tnn., lib. X, c. 4, n. 5. ' ' J />o gestis Pelagii, c. VI n 18 Pf c Racn ct •/ •,,, Attende tibi ipsi n 2 lL' HomiL ln llIud: sunt. Quare bruta . . . sequuntur iudicium sibi a Deo inditum ; et proinde (( habent motus interiores, et exteriores similes motibus rationis % , ita ut (( habeant principium ordinatum de aliquibus s . Aht. III.— Utrum anima brutoruua materiaiis, an immaterialis dicenda sit, inquiritur 103. Animam, eamque sentientem, belluis inesse novimus. Iam anima, quæ in belluis vegetat, et sentit, una, et eadem esse debet. Re quidem vera, pnncipium, quod in brutis vegetat, et sentit, eorum forma substantialis esse debet, quia est illud, ex quo bruta in sua specie constituuntur, et ex quo effectus sibi propnos producunt. Atqui, ut alibi innuimus 4, in quolibet composito naturali forma substantialis non nisi una esse potest. Ergo unum, et idem est principium, quod in brutis vegetat, et sentit 5. Quia vero brutum naturam suam speciiicam sumit non ex eo, quod vegetat, sed ex eo, quod sentit G, con ~T~Op. Cit.a q. cit., a. 1 c.- la 2æ, q. XLVI, a. 4 ad 2. 5 Qq. dispp., ibid. a. 2 c. Exinde sanctus Doctor rationem expo nit, qua bruta quamdam prudentiam participare, et futura præ coqnoscere dicuntur. Quod ad prudentiam attinet, ita inquit: ti hoc contingit, quod in operibus brutorum animalium apparent quæ dam sagacitates, in quantum habent inclinationem naturalem ad quosdam ordinatissimos processus, utpote a summa arte ordinatos. Et propter hoc etiam quædam animalia dicuntur prudentia, vei sagacia; non quod in eis sit aliqua ratio, vel electio: quod ex hoc apparet, quod omnia, quæ sunt unius naturæ, simihter operan tur • la 2æ q. XIII, a. 2 ad 3. Quoad autem futurorum præ coqnitionem: Ex instinctu naturali movetur animal ad aliquid tu turum, ac si futurum prævideret : huiusmodi enim instinctus es eis inditus ab intellectu Divino ; Ibid.f q. XL, a. 3 ad 1. rræ stat etiam cum eodem sancto Doctore illud advertere quod nullus habitus proprie acceptus in brutis inveniri potest, quia habitus pro prie sumti, ut diximus in Dynam. (c. I, a. 40, p. 108 vol. I), ra tione comparantur, vires autem sensitivæ in brutis anmialibas non operantur ex imperio rationis (la 2æ, q. L, a. 3 ad 2). At quoniam bruta animalia a ratione hominis per quamdam con suetudinem disponuntur ad aliquid operandum sic, vel ater;n^ modo in brutis animalibus habitus quodammodo poni possunt Ibid.—t Pp. 105-106. . f s Hoc magis perspicuum fiet in Anthropologia, ubi de unnaie animæ in homine disseremus. „-mQi;c • e In hoc, quod est sensitivum esse, consistit ratio animalis , De sensus et sensato [Grice: Cf. Austen, SENSE AND SENSIBILITY, Austin, SENSE AND SENSIBILIA] isequens est illud unicum principium, quod forma subistantiahsdicitur, esse principium sentiens, seu principium vegetativum, quod ad altiorem ordinem principii sensitivi assurgit. Et sane, nulli dubium esse potest, quin principium sentiens pnncipio, quod mere vegetativum est, nalura sua excellat. Atqui forma perfectior virtute continet quidquid est inferiorum formarum ! . Ergo in brutis una eteadem anima, nempe sentiens, per diversas potcntias, quæ ab eius essentia fluunt % non solum operationes sensitivas, sed etiam quidquid anima vegetans in planlis præstat, exequitur. Quænam sit natura huius principii, cruod vesretat et sentit, inter Philosophos non convenit; ipsi enim pro suorum systematum varietate in diversas sententias dis3esserunt. At nos secundum theoriam peripatetico-scholasticam de pnncipns, quæ compositum naturale constiuunt, naturam animæ belluinæ explicamus. Atque in inm,s nonnullas notiones, quæ illius systematis veluti con.ectaria sunt, in memonam revocemus oportet 1 hsse materiale diversa ratione prædicatur de subtantns completis, ac de forma, quæ, uti ex diclis in ^apite pnmo colligitur, est substantia incompleta. Eteiim substantiæ completæ materiales dicuntur corpora pæ, cum actu lam constituta sint, extensione, divisibiitaie, alnsque corporum proprietatibus pollenl. Formæ utem matenales dicuntur illæ formæ, quarum esse, ut j. lnomas ait, est per hoc, quod insunt materiæ 4 , icrnpe tormæ, quæ habent esse concretum in materia la ut a materia in esse, et operari pendeant 5. E contraio, lormæ immatenales, vel spirituales dicuntur illæ for™, quæ a materia in suo esse non pendent, proindee abea separatæ subsistere possunt. Hinc formæ imlatenales, secus ac materiales, subsistentes nuncupantur. j^Jnterme matenale priori significatione acceptum, et I, q. LXXVI, a. 6 c. iuV^T 9b 6SS? tia animæ • in brutis ' • • Potentiæ non soim a„!latlVæA Seletiam sensibi^s; a quibus dcterminatur eo U Qq. dtspp., q. un. De Sp. cr., a. 3 c. • c Contr. Gent., lib. II, c. 30.-3 lhid^,ib> Jy^ c 81 6 PoLa æ lmma'eriaIes sunt Per se subsistentcs ; Qq. dispp., esse immateriale, sive inter corpus, et spiritum, nihil i medium esse potest. At vero si materiale altera signincatione sumatur, diversæ eius species esse possunt. Nam, cum formæ sint materiales ex eo quod a materia in esse, et operari pendent, ipsæ ob diversam rationem, qua ad roateriam deprimuntur , magis, vel minus matenales sunt, ac proinde minus, vel magis ad immatenalitatem acce "lOo. His præstitutis, sequentes propositiones demonstrandas aggredimur:, la. Anima brutorum non est materiahs eo moao, auo materiale est corpus. m j„. Probatur. Corpus est aliquid ex materia, et torma compositum . Atqui anima brutorum est forma.non^ tem ipsum compositum ex materia, et forma. brgo lpsa aliquod corpus esse non potest. Præterea, anima brutorum est principium, per quod ipsa vivunt, et sentium. Atqui principium huiusmodi non potest esse corpus, secus omne corpus viveret, et sentiret. Ergo . 106 Prop 2a. Anima belluina non est forma immatenalis seu quæ per se subsistit, sed ad genus formarum roaterialium pertinet, ita tamen, ut ad immateriahtatem pro xime accedat. . • __ Probatur prima pars. Natura uniuscumsque rei ex Cius operatione ostenditur s . Atqui brutorum operationes huiusmodi sunt, ut nonnisi m corpore, et per corpn. exerceri possint, quia operationes animæ sensitivæ, iiod complentur sine corporalibus instrumentis 6 . Ergo amma belluina etiam in suo esse a corpore pendet. Atqui tor ma, quæ a materia pendet, non est forma J"!e,"_ "f est forma, quæ esse suum concretum in materia nabc ac nroinde genus formarum materialium non supergrem tur \ Ergo anima belluina ad genus formarum matenalium pertinet. iQq. dispp., De Virtut., q.I, a. 1 ad4.-2 Contr.Gent lib. II, c.68 s I q III, a. 2 sed contr.—1 Contr. Gent., hb. II, c. 08. s i' (j LXXVI a. 1 c— 6 Contr. Gent., lib. IV, c. 11. i Forma, quæ uon est per se subsistens, non habet alium m dnm a modo subiecti, quia non habet esse, nisi in q™ntnm e. actus talis subiecti, et ideo mensura compositi ; In hb. IV deni. Dist. XLIX, q. II, a. 3 sol. Idem argumentum hac alia ratione exhiberi pojest: Omnis res secundum suam formam, sive secundum uam speciem agere debet, quia forma est principium, x quo acliones oriuntur; (juapropter, si anima belluina sset torma subsistens, proindeque immaterialis, actiones ognitrices eius circa immateriale versari deberent. Atui consequens est falsum, quia cognitio brutorum, uti stendimus, supra sensilia non assurgit. Ergo anima beluina genus formarum materialium non supergreditur 2. 108. Altera pars ex cognitione sensitiva, quæ bellua;um propria est, facile colligitur. Enimvero ratio comtionis ex opposito se habet ad rationem materialitais . Atqui sensus species rerum sensibilium accipit quiem cum earum conditionibus materialibus, sed tamen sine xaterxa . Ergo, sicut anima intellectiva ex eo, quod abstrahit speciem non solum a materia, sed etiam a laterialibus conditionibus individuantibus 5 , est immænalis; ita anima sensitiva, in qua sunt species rerum ensibilium, sine propriis materiis, sed tamen secundum mgulantatem, et conditiones individuales, quæ conseuuntur materiam 6 , non esse quidem forma immateialis, sed ad lmmaterialitatem proxime accedere dicena est 7. IV.— Qua ratione anima belluina indiyisibilis sit, explicatur 109. Brutorum anima spectari potest vel dumtaxat prout [ Id iam Gennadius {De Eccles. Dogmatibus, c. 17, App. ad Opp. i Aug. t. VIII) docuerat hisce paucis : Solum hominem credijius habere animam substantivam . . ., animalium vero animæ non iiint substantivæ .—2 T) q# LXXXIV, a. 2 c. lbid.—>> Ibid.—s Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 13 c. Exinde perspicitur animarn belJuinam non esse materialem, peride ac formæ rerum animæ expertium, atque animæ vegetabium. Etenim cognitio sensitiva supergreditur non solum operatioes rerum vita expertium, quia hæ sunt a principio extrinseco, ia autem a pnncipio intrinseco ; sed etiam operationem animæ egetabihs. Nam operatio vegetabilis fit per organum corporeum t virtute corporeæ qualitatis ; verum cognitio sensitiva expostuit quidem quasdam qualitates corporeas, non tamen ita quod lediante virtute tahum qualitatum operatio animæ sensibilis proeaat; sed requiruntur solum ad debitara dispositionera organi • i q. LXXVIII, a. 1 c. est in se aliqua forma, abstracta a corpore, quod infor mat, vel prout actu corpus informat. Iam, si priori modc consideretur, nonnisi veluti indivisibilis cogitan potest Etenim divisibilitas est proprietas quantitatis, atque hætelligi potesl IZnTTJi v f,m-' vel P-er eorruptionem in destructio dumtax. W „2^?' " F huiusmodi rum,'redigit ;,„m q^innoneTrjSZ^ '" "ihilura tan potesl, qu0'd esse sibi, onr um ha w ^•tUm ^ .Lelluina non habel alinrf „ P" et.' -an,ma autem Per se corrurnpi dicf nol,. ^ n,M comPositiNeque ipsa p alibi diximPus ' noPn fo mCa°errUP^° enira> et e\o, [tiali proprie conveni, Bni^ ' -ed comPos'l° substan animam Uufoam" ex "E Tunli Ve Pot-' • V, a. 4. •.C;t"aoS' caorr0unC,PuAnnt„m T a0'1","130' COrruPto corPn" ear„m ..tX^K."^ "Jum "^ T PCr h°C' •" "on potest „; Qq. 7W., Oe PolP'' V ". T-iT" Pdilos. Cdrist. Compend. II. ' gnitione sensitiva pollet, est corpus, yel qnælibet forma I forporea. Atqui ex sentenlia Scholaslicorum neque corI PuTneque quælibet forma corporea cogn.t.one sens.t.va pollet ; nam anima bellnina, cui cogmt.o sens.t.va altr uitur, non est corpus, imo indivis.bilis est, atque ets. forma materialis sit, tamen ipsa a celer.s form.s matenalibus differt. Ergo illam sententiam mater.al.smo v.am s ernere summa iniuria asseritur. Neque dicas; n.mam bellu.nam, etsi ceteris formis mater.ahbus anteeellat, l ™n,£ iis non differre, tum quia est, per.nde ac f%'^%e.r^' tum quia per virtutem corpoream produc.tur Eten.m quod spectat ad primum, formæ mater.ales.ex Scholast^o rum sententia ',' non pollent eaden, \.V^lf^™\\Z. III, c. 97. -•- Paf; 5 I a CXVIII a. 2 ad 3. Cf ln lib. II Sent., D,st. XVIII, q, • d 8 circf" uto um animam præstat legere noviss mum opus £ tecriTnue- V inirnortalit, de V ame de, W' " m Thoma, d' Aquin, par 1' abbe J. Beney, Autun. Igj ARr.I.-Rerura raundanarum colligatio exponitur Anol' ^ili^nl P°r NenJesium S Auctorem Librorum £ :$£: „p ';TkS^iv^'^-z lium infimn,Mo^ quoniam vita vegetativa est om SiftSs:; fs fiecnu„r^r!su,nuDv ct •" unt belluan nnL -i d,cu.nlur Supra plantas assur 121 d15/ ?• eo infusas cognoscunt. F lt ffii.™ erent,as>. nemPe qualitates essentialos, „uæ 1 cgui sabTicfuXr^ lamen SeCU-m consentiunt^er 1 #e naf. Aom., c. 1. : SSSSH'it • Deus ellunt,consideran/æs„„ veZn^!!'' " "S0 hæ' Pr^'i"e alii "a, qa.nt.im ein fmb cil ilas 1° £^5 S S' PCr q"°S menS h Comm.,„ .. m/ceB^^-^^^^-onen.Deiascendit. j£g rent tamen in eo conveniunt, quod utraque suiit substan tiæ.' Animalia a vegetabilibus dissident, quod ipsa sen sum habent, quo plantæ carent; at in eo consenliunt, quod ambo vivunt. Homiues a brutis discriminantur quod ra tfone præditi sunt; sed, pcrinde ac bruta, sent.unt. Cum s int Angeli snbstantiæ mere intellectuales, d.fferun ab hominibus; secl hi cum illis conven.unt, eo quod,„ eH, gunt. Insuper ex diversis speciebus una est altera perfe ctior', immo in eadem specie sunt diversi essenl.ales gra dus perfectionis, indeque diversæ, ut recentes, a.unt, clas ses existunt Ex hoc fit, ut nobilior natura per spec.enr vel clasem inferiorem, quam complectitur, cum ea, qua et homiue" Juiumquc sit gradus perfcctioms vel n planta, vel in brnln st connexioUsSmfillOS ^ ^ ££££& si connexio, sed non continuatio. At vero non nv.fi r Mtes,,nter quos Bonnetus , Leibnitium secmi K et gat.onem per legem continuitatis explicarc co > cndun " mnes speces rerum, secundum ipsos, Ha intr se ve" .continuam Imeam efforment, quæ a reeno minerali nd etabile, a vegetabili ad animale, et ab°ani aiadho mem progred.tur. Hæc autem continuat o f per ste' cs ac^nvocas, nempe species, quæ intcr duas quasJue" 'op^smu.01 Part,C,'PeS W™™™, qæ ær 120 Lex continuitatis absurda esl. £ ner ^T^T et Leibnitius fassus est nullam speciem mediam inter hominem et D( luam in nostro terrarum orbe inveniri, sed contendit nihil Prohlb^ quin illam in alio orbe existere putetur {N. E., lib. IV, c. 16, § U Denique impius Buchnerus hodie pertendit Æthiopes esse speciem a quivocam, per quam species belluina cum humana continuatur, qu ipsi in sua structura organica præ se ferunt multa, quibus ad simia proxime accedunt {Force et matiere, p. 75, et 76, ed. cit.). Sed na commenta Lockii, Leibnitii et Buchneri sunt adeo futilia, ut vix co futatione egeant. Et sane, quod ad Lockium attinet, sicut, aiente s. A gustino, videmus infantilem animam nondum coepisse uti ratior et tamen eam rationalem dicimus {De Gen. ad litt.,\ib. VII, • n. 10); ita homines, qui imbecilles a nativitate sunt, etsi ratio quivocam inler belluam, et vegetabile. At id omnino falium est . Nam polypus, etsi, ob structuræ or^anicæ sim)Iicjtatem, propius, quam celeræ belluæ, ad plantam iccedat, tamen est animal, et non aliud, nisi animal; quia >ennde ac an.mal, sentit, se ipsum movet, et nutrit, manucat et digerit 2. Art.III.— De ncxibus djnamico, ct teleologico rerum raundanarum 130. Ncxus rerum mundanarum non solum ex eo exur 9n utantur tamen rationales, ac proinde homines, dicendi sunt uod ad Le.bnitium spectat, quidquid sit de aliis mundis uos m hngit, procul dubio entia, ei quibus hic mundus constat ita ) se irmcem pendere debent, ut inde unicum systema eiurgat TVlTv rGrUm svstemate> Leibnitii iudicio, nullus hiatus se debet. Ergo, si qua species æquivoca inter hominem, et belam daretur hæc m nostro hoc mundo inveniri deberet. Denigue ichnerus dehrat, non philosophatur. Nam, quæcumque sit simi;udo quæ, structura organica spectata, inter simias, et Æthiopes tercedit, certum est Æthiopes ratione pollere, qua simiæ, perinde rel.quæ best.æ, carent, eorumque aliquos ipsam adeo eicoluisse viri in primis eruditi, atque acuti evaderent. Gf Flourens, Histoire des travaux, et des idees de BufTon et ivier, Histoire des travaux, etc. ' 2 Magis autem absurda est opinio illorum, qui cum Robineto (Conlcrauon phil. sur la gradation naturelle des formes de V ttre ou Les wis de la nature, qui apprehende d faire Vhomme, Amsterdam 1768) otquot sunt in mundo, diversas naturas, non esse aliud, nisi diversa iimenta unius naturæ, nempe humanæ, et diversas ætates, quas ica illa natura percurrit, usque dum formam omnium perfectissim nempe humanam, assequatur. Sane, si omnes species sunt trans tationes unius speciei, conscquitur unicam esse omnium rerum, æ sunt essentiam seu substantiam, et dumtaiat accidentia diver Atqui hoc absurdum est, quia diversæ naturæ, seu species ren,U iU,SffSCala mUndi constituitr, secundum essentiam, ut viuas 1 r"' Ergo absurda est opinio eorum, qui 'omnes ^uras rerum ab un.us speciei evolutione repetunt. Accedit 1° quod a, quicumque gradus eius sit, ei evolutione naturæ, quæ in pri ei cvolutione materia bruta est, secundum hanc sententiam, eiurU d quod de vita vegetativa et sensitiva abnorme esse ostendis, ct mag.s absurdum esse quoad vitam rationalem hominis suo de.nonstrabimus. 2 Quod si mundus, uti philosophi isti conten \ Ura "ZZTT ^^,n-tti ^GCiUS fuisset> Deus OIUoil" > r o nP SUCt0r n°n CSSet; id auod "laximeimpium est w Z . UinnTT aUtCm I,UiC VaIdc allini' oua'u Lamarckiu wm, aluque hodie propugnant, in Anthropologia dicemus git, quod ipsæ, eo, quo exposuimus, modo, inter sese collio-antur, sed etiam ex eo, quod muluam in sese actionem exercent, atque ex eo, quod una alteri inservit. Hinc duo modi connexionis rerum, nempe per causarum efftæntium, et per causarum finalium colligationem existunt; quornm primus nexus dynamicus f, alter teleologicus 2 ap peilari solet. . Nexus dynamicus in mundo invenilur probatur. Nexus dynamicus in mutua rerum in se actione consistit. Atqui res, ex quibus mundus constat, vim actuosam in sese invicem exercent. Ergo. 132. Minor ex ipsa contemplalione rerum evincitur. htenim certum est res corporeas aliquid in organa sensoria corporis nostri agere, quippe quod, nisi quidquam m ea agerent, illarum sensationes in nobis fieri non possent. Certum quoque est nos in res corporeas, quibus circumdamur, multa agere, ut illas ad nostræ vitæ utilitatem, oblectationemque accommodemus. Certum denique est res corporeas in se ipsas aliquid invicem agere; constat emrc inter omnes terram, et corpora coeSestia se mutuo attrahere vi gravitationis, unde regularis ille motus planetarum exoritur, corporaque, quæ in terra sunt, sive sim plicia, sive mixta, mutuas actiones in se exerere ob vim attrabendi, et repellendi, qua poiient 3. 133. 2a. Nexus, qui per causas finales eflicitur, ii mundo existit . i Ita dicitur a vi, seu energia {Svvapis), quam res naturales ii se exercent. . . . 2 Ita appellatnr a /me {rekos), cuius gratia una res alten inservit 5 Hanc propositionem demonstrantes pro certo sumsimus, omne res, quæ in mundo sunt, vi actuosa pollere. Id enim tura ex us quæ de viventibus, immo de ipsis corporibus manimis lam dict sunt, aperte coliigitur, tum ex theoria de principns constitutivi rerum, materiali nempe, et formali; principium enim formaJe, i suo loco vidimus, est principium activum, quia quælibet res ex e ipso, quo constituitur, vim operandi accipit. Hinc s. Damascenu! Actus est vis, motioque cuiusque substantiæ, qua caret lllud . lum, quod non est ; De fide orthod., lib. II, c. 23. Argument autem, quibus cum Malebranchio omnem activitatem, vel cum LeiJ nitio activitatem transeuntem substantiis creatis repugnare pro tur, nullum pondus inesse iam alibi {Ontol., c. IX, a. 2, p. e et a. 7, p. 71, sq) ostensum a nobis est. Philosophis, quos causis finalibus infensos esse mnuimus m unu Probalur Partes nniversi, ut s. Tbomas inqnit, ita ordmanlur admvicem, sicut el partes exercitus adinvicem' Atqu, ex.nde nexus teleologicus exurgit. Ergo ' 134. Mawr cx phænomenis, quæ in tota hac rerum an.versUa c cernunlur, ea cvidentia probatur, qua nnl™ ma.or des.derar, potest. Enimvero sive in coclum sive m lerram s.ve in mare oculos coniiciamus, in phænonena ...c.d.mus, quac rerum alias aliarum finibus.comnodisque ...scrv.re luculenler commonstrant. E. g. ex v i/ent.bus plantæ ad nutrimenlum belluarum, ct bominum cdum RoLClJellUæ 'n USUm' commodumque hominum nodf J LV|fe exPertes> P'a aqua, acr, aliaque huiusnri ;; :, l A,rUm' telluarum> e' hominum bonum comrfhn! • AtmosPhera. resp.rationi, et sustenlandis vawnbus, qu. ex aqu.s or.untur, deservit ; venti vanores n nubcs cogunt, ct noxias exhalaliones dissipant; aPqnæ x mont.bus decurrunt, ut planlæ, brnta, et nomines ad c s„,(„,„nem lpsls utantur. To(a ter corpora. afconcenumTl|SeSe ""'T gravitant ' et 8™^°™ U' n! V m.' s,ve hi,rmoniam efficiunl, quæ a ronomos incred.bili stupore percellit. Hic vero concen is non modo inter diversas naturas rerum, ex cfuibus rial,', r ? h.°die 'U0ntUr> necnon Bttchnerus, ajiique Ma ".„,, uuntA' contra> cognilio causarum finalium ad lese phæ : u0, ZZZTeZT r110 præsidi0 est' lr,ntu,n bes' nt '" ' not : auæsun, „r CU'"S,!U0 "'' facile cst operationes ; 1'" 'ees phænomcnorum non sunt r. Co eo/„u'. fi„UKdUm qUaS feS corPorc0° neeesssrio operan-es „1, 'n,r S lbus rerl"n • n""° nc?olio Possunt cognosci .uui "on id, quod absolute, sed id ber ti iS ? suPernaturaIe est> admittunt. Ut de uno Gio bertiu dicamus, hic pertendit quamlibet naturam esse naturalem si h,s iiZ7 1PSa SnPeriore'n' supernaturalem, siri aliam natuTam 384 et ^TrT Jafe:atUF ^eoHea del ^vrannaturale, not. XLV, p seriPsi' quoqu/ pJrsuasione m de ex C rc DrotnSre?atUraliS ab ^noratione ™™ profuisci;quonitnr^Hc f casarum progreditur, ambitus ordinis super. naturahs coarctatur. Yid.Filo,. della Rivel., § 3, p. 13, Torino 18o( dine morali, qui circa humanas actiones versatur, prout hæ ad finem hominis spectant; denique, ne cunctos enumeremus, ab ordine politico, in quo gubernatio civitatis fundatur. . 139. Normæ, secundum quas ordo physicus eincitur, leges naturæ, vel pkysicæ vocantur f; et consecutio eventuum secundum ordinem physicum, nomine cursus naturæ designatur. Art.V.— Ordinis naturalis existentia, et ordinis supernaturalis possibilitas adstruuntur His notionibus praestitutis, inquirendum nobis est, an ordo naturalis in mundo exislat, atque an ordo supernaturalis sit possibilis. Ordo naturalis in mundo existit. Probatur. Deus mundum ita debuit, et scivit creare, ut fini, ad quem ipsum destinavit, adamussim respondeat. Atqui mundus non potest finem assequi, ad quem Deus illum destinavit, nisi ordo in ipso existat, quia ordo, ut diximus, est apta partium ad finem assequendum dispositio. Ergo, si Deus est auctor mundi, ordinem m mundo esse pro certo habendum est 3. 141. Quod si res ista cum iis agatur, qui Deum esse auclorem mundi negant, argumentari adversus lpsos licet hoc modo : Ea, quae in mundo sunt, ipsis Atheis non diffitentibus, unicum systema efficiunt. Atqui ex pluribus, diversisque rebus, cuiusmodi sunt mundanae, aliquod unicum systema exurgere non potest, nisi speciales, aiversique earum fines ad finem unicum totius systematis con i Secundum s. Thomara hae leges sunt quaedam impressiones a Deo factae in rebus ratione carentibus, ut hae in certum finem mclinentur, atque determinentur ab uno prae alio modo operandum: Sicut homo imprimit denuntiando quoddam interius principmm actuum homini sibi subiecto, ita etiam Deus imprimit toti naturae Drincipia propriorum actuum; et ideo per hunc modum Deus dicimr praecipere toti naturae ; la 2ae, q. XG, a. 4 c. Sed de hac re fusior sermo erit in Philos. morali, p. I, c. IV, a. 3, ubi de lege aeterna verba faciemus. 2 Possibilitatem dumtaxat ordinis supernaturahs PMlosopnus 10vestigare debet, nam Theologorum est inquirere, utrum, nec ne aliquis ordo supernaturalis a Deo in mundo constitutus sit. 3 Gf s. Thom., la 2ae, q. CII, a. 2 c. Ciirrant; concurrere autem ad hunc unicum finem non possunt, nisi res ipsae inter se colligatae sint, nempe nisi ord.ne inter se contineantur. Ergo si cunctae res, ex quibus muridus conllatur, unicum svstema efformant ordo, procul dubio in mundo existit1. 142. Advertendum etiam est ordinem universalem quo, res omnes un.cum mundi systema constituunt, ex multis ordinibus particulanbus inter se connexis efformari Id a s. Fhoma sequenti comparatione declaratur: Oportet quod omnes particulares ordines sub illo universali orchne contineantur, et ab illo descendant, qui inveniuntur 10 rebus, secundum quod a prima causa dependent Humsmodi exemplurn in politicis considerari potest Nam omnes domestici unius patrisfamilias ordinem quemdam ad invicern habent, secundum quod ei subduntur. Rursus autem lam ipse paterfamilias, quam omnes alii, qui sunt suæ civitatis, ordmem quemdam ad invicem habent, et ad pnncipem civitatis, qui iferum cum omnibus, qui sunt m re^no, aliquem ordinem habet ad regem2 . 143. 2a. Nihil prohibet quominus ordo naturalis in mundo cum supernaturali coniungatur. Probatur. Ordo supernaturalis neque ex parte Dei ne•que ex parte rerum creatarum, neque ex parte ordinis a Weo creah aliquam repugnantiam exhibet. Ergo. Et sane non repugnat a parte Dei; nam sapientia, et potentia Dei creal.onc naturæ non exhauriuntur, ac proinde Deus rebus a se crealis perfectionem Iargiri polest maiorem ea iquarn earum natura expostulat, ita ut actiones naivis suis |vinbus super.ores exercere queant. Nec mpugnat a parte \rerum creatarnm; hæ enim, ut alibi diximus 3, potentiam obedientiæ a Dco acceperunt, ut valeant ea in se recipere, vcl agere, quæ facultates suas naturales præterorejfliuntur. Nec demum ex parte ordinis a Deo creati; nam ordo supernaturahs ordinem naturalem distinctum servat et lpsum, qu.n perturbet, perficit, quia naturas rerum ad ctiones supenons ordinis exerendas aptas reddit •antInme„dUl,°S' 1ul.mala.. 1æ in mundo conspiciuntur, csagge Zia IJL v'-s 0f: 'I q. CV, a. 7 ad 3). Rousseavius (Rousseau, Lettres de la montagne. Lett. III), aliique contendunt nos numquam posse cognoscere, an aliquod opus sit miraculosum; quia, cum non sint nobis omnes leges naturæ perspectæ, cognoscere haud possumus, utrum, necne aliquis effectus vires naturæ prætergrediatur. Ast ii omnino falluntur. Ei sane, qnamvis non omnes leges naturæ nobis sint exploratæ, ind( inferri nequit nobis exploratum esse non posse, utrum, necne aliquis effectus vires naturæ prætergrediatur. Nam nos miracula dicimusilb opera, quæ exploratis naturæ legibus adversantur. Atqui si non om nes, certe plures naturæ leges, eodem Rousseavio, eiusque asseclis fatentibus, compertæ nobis sunt. Ergo cognoscere nobis licet, nurr aliqua opera sint miraculosa. Frustra regereres posse fieri, ut aliqii: effectus, qui cum legibus notis non concordat, legibus nondum explo ratis sit consentaneus; repugnat enim dari in rerum natura leges du plicis generis secum pugnantes; ideoque duos ordines, quorum unun alterum tollit. Cf Bergier, Traite historique, et dogmatique de U vraie rdligion, part. V, c. I, a. 1, Paris 1784. 2 De falsis definitionibus miraculi verba non facimus, nam e theoria s. Thomæ, quam hic exponimus, quisque veram a fals definitione miraculi dignoscere potest. > Contr. Gent., lib. III, c. 401. e. g., est compenetratio duorum corporum, quæ in resurrectione I. Chnsti ex sepulcro non aperlo alque in Eius ingressu ad d.sc.pulos suos, clausis ianuis, Ivenil quippe quod, cum omne corpus sit naturaliler impenetrab.le, compenelrationem duorum corporum omnis creala visnullo modo efficere polest. .151 Miraculum vero quoad subieclum diciluropus, ciuod vires tolius naluræ crealæ superal non essentia sua sed [propler conditionem subiecti, in quo /it ; ila ut causæ fcrcaiac sim.l.a, il . efficere valeant, sed non in subiecto? W quo illud eflicitur. Ila certum nobis esl causas crea a Pd vilam, el vis.onem in rebus producendam concurrere qma v.vens a v.venle gignilnr, alque visio in animali pc.feclo per generat.onem oblinelur. At cerle vilam in jmortno cxsusc.lare, aut visionem cæco reslituere nulla d.a causa po.esl, sed solus Deus, 2. Uenique m.raculum quoad modum esl opus, ouod ec propler essentiam, ncc propler subieclum, sed pro iredimr hT'qU° v' y,res,tolil,s namræ creatac superTCdHur. Huiusmod. m.racula exislunt, cum ægrolus sine rævi.s remed.is, et sine olla crisi cimvalescil, viresque lorpons sub.lo resum.i, vel cum tempeslas in ranqu "iiatem subilo mulalur '. h-"" 153. Ex iis, quæ de notione, et diversis speciebus mi-,lo Vffal,,:MU,S' /aci'e ™\em&™> qid mirabileTuZ m !Aatmhh?yem> .iucu'enAue theoriam s. Tho iæ . Ad efliciendum mirabile duo requiruntur : 1° ut a præter naturam cum codem Aquinate dici possinl Mirarnlnm Cao~c nceo'' oo.d"' °Um Patet il,Ud "P-' "esM,o™ •odi.,-i n ' . ° °d. fl,,acv,s na'" illiim cffcclum vel omnino oduccre non potest, vel illum producere non polest in co subio: ",fluo. P;.od"C.um conspicitur. Miraculum ero coJa al m patrar, d.cHor, si in rcbus, in quibus fit,,, rcmanet. „t s. Tho ;:i,'r": cvntraria2 :d„ TT' qnT Deus fadt • Cr n0tUni est i,,,,d esse eff"tnm, qucm na odnH qU,dCm Produeere s^d non in illo modo, quo revera oduc.tur e. g., Ægyplum repente ranis scatere , q. CX, a. 4 ad 2; cf s. Aug., De Trin., lib. III, c. 7, 8, et 10. Fhilos. Crrist. Compend. II.? ^ causa eius sit occulta; 2 ut in re in qua fit, aliquid i insi repugnans esse putetur. lam utrumque duobus mod.s conlinge?e potest. Etenim causa eventus, quem admiramur, vel est occulla secundum se, hoc est, eiusmodi, u omnes lateat, vel occulta quoad nos, hoc est, eius modi, ut nuosdam solum lateat. Item in eventu, quem adm.ramur vel vere est aliquid repugnans in re, ad quam eventus pertinet, vel apparet esse, dum vere non est. Si cansa eventus, quem admiramur, est secundum se occulta, atque in re, circa quam ipsa versatur, est contrar.a d.spositto ad ipsum producendum, eventus est illud, quod miraculum vocatur; quia Deus, quippe qui in rebus omnib cretissime operatur, est causa occullissima, eiremotissima a nostris sensibus, atque Ipse tantum in rebus operari potest aliquid, ad quod res non sunt comparatæ. b causa eventus non omnibus, sed qu.busdam dumtasat s t occulta, neque in se sit aliquid, quod e. vere repugna sed solum secundum opinionem, seu apparenter, ellectus mirabilis vocatur '. VIII. — De miraculorum possibilitate 154 Miraculorum possibilitatem negant omnes ii, qui ob diversam, ut diximus \ rationem leges naturæ absolute necessarias, et immutabiles esse tenent. Nec al.a est opinio Rationalistarum ; nam ipsi comm.n.scuntur haud possibile esse ut facta, quæ leg.bus exper.ent.a umversim exploratis adversantur, cont.ngant, et ideo omn.a nuracula, quæ Sacræ Litteræ narraut, veluti mythos interpretantur 3. T^ou desunt notæ, quibus miracula ri nomiuis a mirabmbus diseeruantur. Eteuim illa ab istis dist.ngu. poss nnt on solom comparatione eventuum cum explorat.s nstnrse leg bus sed e t. m 1° ex inenio, indoleque eius, qui miraculum operatur num su pie tate nimique demiskne insignis, necne ; 2 ex modc, opersnd scilicet uum omnia, quæ miraculum concom.tantur, "dolean ^rel gionem, gravitatem, et modestiam, n.h.Ique snpemtauosi, etndaml præ se ferant; 3 ex fine cum operis, tum operant.s, hoc est numopu \i cultnm Dei promovendum, hominumque corda amore De. mua". manda spectet, et num operans glor.am De. un.ce quærat a pro priam gloriam et Iucrum aucupetur; 4° ex .-^.'^ effectus, quia opera Dei sunt firma, præst.g.aque c.to evanescu Cf Bened XIV, Op. cit., lib. IV, c. 4. 1 58 sq. 5 Horum commenta in unum collegit Strauss, F.e de Jdsut, trac ^5 1 P.roV-Deus eflicere potest miracula. n£c°L ri M,ra?ulu'"> t.ex dictis patet, existit ve! cam ootes, vJl a'T'.d "0vi facil' (Iuod natura efficere non potest, vel cum efTectum impedit, qui ab actione alicuius causæ natura ., consequi deberet '. E. g„ si Deus coeco I mraTr ™lt' ^^ n°vi in coeco efficit, quod „a: tara efficere „o„ potest, quia coecus visionem quam a effic ' ut "n" ^ rUrSUS aCWirer% non notest; si autem ! tTlffol, 8 "0n con,l,urat> '"'Pedit combustionem, quæ n,l5m,US pr°pnUS 'Sn,sAtuui "eum i„ rebus utrum • q !,?. d,w De Pot „ vi, a. 1 c et a 2 a,I t ua Wv?nr°ad ali,a hUiUSm°di fta'dlendum est-;'namsi Dcus om 1 v.vent.a ereav.t nonne potest vitam largiri vel plantac, ul rursus 2 ' frciusquo ed, vel cadaveri, ut homo reviviscat V Si Deus otes" L """' h°m™1™ tem conficiendi panis edocuit; nonne oranum„?,rPa,neS,tamultiplieare' ut non nl0d quinque muna mCf rw,",nt'Se,let'am mu,U illoru,n >gment. supcrsint? Cf Cruerwl, c. IV, a. 2, p. 232, not. 8, vol. I. nere, ut illud vel quiescat, vel alio cursum convertat. At si homo hæc, aliaque huiusmodi præstare potest, nemo cerle negabit Deum, qui ubique est, et operatur, cuiusque virtus humanam infinite excedit, potuisse hominem e tecto præcipitem in ære suspendere, ut eum a mortis periculo liberaret. Illud quidem inter actiones rerum creatarum, et actiones Dei, a quibus effectus causarum naturalium impediuntur, interest, quod illæ ordine naturali continentur, hæ autem vel quoad substanham, vel quoad modum \ires naturæ prætergrediuntur, prout effectus causæ naturalis vel a nulla re creata absolute lmpediri potest, vel impediri absolute potest, sed non in iis adiunctis, in quibus a Deo miraculum efficitur. 158. Confirmalur propositio ex eo, quod Deus, ut iam innuimus1, non ex necessitate, sed ex liberrima voluntate ordinem, qui in mundo conspicitur, constituit. Nam, si ordo mundi non ex necessitate, sed ex liberrima Dei voluntate existit, nihil prohibet, quin Deus aliquid præter ordinem naturæ operari, seu, quod ldem valet, miracula patrare possit2. 159. Obiic. Si miracula fierent, leges naturæ essent mutabiles. Atqui leges naturæ esse mutabiles repugnat tum ex parte Dei, quia repugnat voluntatem Dei, qui illas constituit, esse mutabilem, tum ex parte ipsius naturæ, quia, cum naturæ rerum sint fixæ, et determinatæ, determinatæ etiam, proindeque immutabiles esse debent leges, quibus ipsæ gubernantur. Ergo miracula fieri haud possibile est. . 160. Resp. Conc. mai. ; neg. min. Neg. cons. ht sane, neque ex parte Dei, neque ex parte ipsius naturæ quidquam prohibet, quin ieges particulares aliquando mutentur. Non quidem ex parte Dei. Etenim Deus, cum leges naturæ liberrime statuisset, illas eadem voluntate, qua constituit, mutare, aut suspender e potest, quoties ordo Providentiæ id expostulat. Neque idcirco mutan Deus dicendus est. Nara Deus, ait s. Thomas, ab æterno prævidit, et voluit se facturum, quod in tempore tacit. bic ergo constituit naturæ cursum, ut tamen preordinaretur in æterna sua voluntate, quod præter cursum istum quan i 158 sq. Cf s. Aug., De Gen. ad litt., lib. VI, c. 43, n. 23 et s. Thom., Contr. Gent., lib. III, c. 99. Jg5 (loque facturus esset '. Neque ex parte ipsius naluræ Nam rebus, quæ a Deo crealæ sunt, ab Eoque conser' z °:;;i?r' r°n. repus,,at' --:: . est ipsas nutui Dei obedire. Alqui, cum le-es mundi ob immediatam actionem Dei mutantur, re frea æ nutui De, ipsascreant,s,conServantis,gubernandiSque obediant" mnfarP Nkf ^T™ T rePaS™1 leges eius aliquando Hri^Lmn (l"0SCum leSes "aluræ per miracu a mutari dicuntur, putandum non eSt miraculo lædi ullam le I Srffen".eralem ',at,Uræ' 1uia' Ul e all"tis exempt col t I gitur, Oeus miracula palrat non quia leeem ire, er-ilem • se statutam destrui. s'euia iu atura,duci" sensibilem per se, et immediate pro CAPVT VII. De mundi origine I.— Ulrum mundus a Deo sit crealus L..!61' Crefim\S n0mine intelligitur productio rei in ksc secundum totam suam substantian, >, ita ut causaNilas creant.s se extendat ad omne illud, quod i re in E uV ?naClldefini,Ur : Productio tot?uBr™eX jHimio, i ta, ut mhil antea exlet, ex quo res ednratnr iHinc valde distat creatio ab illa 'actione quæ simplkl' Qq. dispp., De Pot., q. III, a. i ad 6. Cf s. Bonav., In lib. I Sent., Dist. XLII, a. 1, q. 3 ad ara. ' Vid. etiam quæ adnotavimus p. 159 not 2 is if^i C"m.1,niracula ™nt™ nataram fieri dicuntur, id de natuw particulanbus tantum intelligendum est ; neuue ita ut earuin .atun/aji?e;tTe|Ur;,meC enim i,,Ud tantu" Postulat qu d 0 ^ i?P,7e/etUr' n°n niS/. °Pc™tiones sibi consentaneas exerere 01 Jes rwum,Vn nilraCUllS eiFeCtUS Hant COntra ordines PartiinrpVovirn;Semper secuudl" ordinem universalein Di aventurfoif,ff"'"' ^,'.1 '' "' 2 so' Creali. inqt.it s. BoSl:; t i 2,Sq "! SeCUndUm t0lUm "; ter effectio dicitur, nempe per quam subiectum, quod iam existit, immutatur. Duplex modus est caussandi. Unus quidem, quo aliquid fit, præsupposito altero. Alio modo caussatur aliquid, nullo præsupposito. Et boc modo dicitur aliquid fieri per creationem l . 162. Mundus a Deo esse suum habet per crea tionem 2 Probatur prima pars, nempe mundum habere esse suum a Deo. Omnes res, ex quibus mundus constat, non sunt ex se ipsis, sive, ut Scholæ aiunt, non habent esse ex se.± Atqui id, quod non est ex se, oportet ut sit ex alio, seu, ut babeat esse ex alio, quippe quod nihil medii est inter esse a se ipso, et esse ab alio. Quotquot igitur res sunt, ex quibus mundus componitur, esse suum ab aho habent. Atqui boc aliud, a quo res mundanæ esse suum repetunt, nonnisi Deus esse potest; nam ea, quæ non sunt a seipsis, cum habeant esse participatum, causam sui esse m eo agnoscunt, cui esse essentialiter convenit; Deus autem i dumtaxat est Ens, cui esse essentialiter convenit. Ergo omnes res mundanæ a Deo esse suum habent 3. 163. Probatur altcra pars, nempe modum, quo mundus esse suum a Deo habet, in creaiione consistere. Nequit Deus dare esse rebus ex materia præexistente. Ergo res a Deo efficiuntur ex nihilo, seu esse suum a Deo accipiunt per creationem. Antecedens ita demonstratur: A Deo, quemadmodum ostendimus, esse omnium entium onginem habet, proindeque esse ipsius materiæ, quæ et ipsa quoddam ens est, ita ut haud possibile sit esse matenæ existere, antequam a Deo efficiatur. Atqui, si res lta se habet, compertum est Deum res non producere ex aliqua materia præexistente, sed eas ex non ente, sive ex nihilo educere . Ergo. i In lib. De Causis, lect. XVIII. 2 Si quis, ita a Concilio Vaticano definitum fuit, non conntea tur mundum', resque omnes, quæ in eo continentur, et spmtua les' et materiales, secundum totam suam substantiam a Deo e: nihilo esse productas... anathema sit ; Sess. III Const. dogm. D Fide Cathol., Can. I, n. 5. I q XLIV a 1 c. Vid. etiam Contr. Gent., \\b. II, c. 13. Cf s. Aug.,' De Vera Relig., c. 18, n. 36; s. Ansel., Monol . 6, et AQUINO (vedasi). Demonstrationi directæ indirectam, quæ maiorem perspicuitatem habet, adiicimus. Ut origo mundi explicetur, hæ hypotheses fingi possunt. Nam vel mundus semper extitit, qualis nunc est, seu est æternus tum ratione matenæ, tum ratione formæ f; vel ingenita, et æterna est matena informis, et ex ea mundus effectus est per ordinem, seu formam, quam Deus materiæ in tempore largilus est 2; vel æternæ sunt atomi, et ex iis per inQnitum mane vagantibus, atque in diversas combinationes lemere coalescentibus, mundus, quem videmus, ortus lest3; vel mundus ornnino cst emanatio, aut evolutio substantiæ Divinæ, ita ut ab ipso Deo non distinguatur, ac promde sit, qualis Deus est, æternus ; vel denique a Deo e nihilo eductus, seu creatus fuit, ab eoque ordinem, quem præ se fert, accepit. Atqui ex his hypothesibus quatuor priores sunt absurdæ. Ergo, secundum leges syllogismi disiuncti, restat, ut quinta, quæ creationem mundi staluit, sit vera. 165. Minor probatione eget. In hac, relicta quarta hypothesi, de qua in Theodicea disseremus, trium priorum rlumtaxat ratio habenda nobis est. Iam abnormitas primæ, et secundæ hypothesis hoc ar^umcnto evincitur. Si materia, quocumque modo conci 1 Præcipuus auctor huius sententiæ fuit Aristoteles. Cf Jul. Sinon, de Deo Aristotelis, Paris 1839. 2 Hæc fuit Platonis doctrina, de qua dignus est, qui legatur H. tfarlin, Etudes sur le Tim. etc, Argum., § 7, t. I, c. 27, et not. .XIV; t. II, p. 179 sqq. 1 Ita opinati fuere Leucippus, Democritus, aliique veteres defen•ores atornorum. ' Hæc omnium veterum, recentiumque Pantheistarum sententia est. )piniones aliorum recentium, qui creationem impugnant, ad primam, |t tertiam revocantur. Etenim ipsi cum atheismum vel manifeste deendant, vel occulte insinuare adnitantur, mundum, vel qualis nunc st, semper exlitisse, vel ex vi ipsi materiæ insita evolutum, sensim[ue efformatum esse autumant. Prima harum opinionum defensa fuit i multis Incredulis sæculi proxime elapsi. Altera valde probatur Juchnero, aliisque materialistis Germaniæ. Ipsi enim, cum teneant lullam aham vim existere, quam quæ matcriæ inhæret, eamque tonnisi in materia existere posse, inde colligunt mundum ex vi ipsi natenæ insita evolutum, sensimque efformatum fuisse, ac proinde totionem creationis esse prorsus absurdam, quia creatio vim extra nundum positam, ab omnique materia seiunctam expostulat. piatur, nempe vel sua forma iam prædita, qualis est mundus, vel omnis formæ expers, esset infecta, ac proinde stricto sensu æterna, ipsa procul dubio existeret ex necessitate suæ naturæ, ideoque immutabilis, atque ab omni successione immunis foret; siquidem id, quod non est factum, ex se ipso esse debet ; id vero, quod ex se ipso est, existit necessitate suæ naturæ, et quod necessftate naturæ suæ existit, mutationi, et successiom obnoxium esse nequit, alioquin esset necessanum, et non necessarium, nempe necessarium, et contingens Atqui repugnat, docentibus ipsis adversariis, quosbic retelhmus, maleriam esse necessariam, immutabilem, atque ab o-i mni successione immunem. Ergo repugnat matenam, quocumque modo ipsa concipiatur, esse mfectam, seu stncto sensu æternam. Secunda autem hypothesis alns, nsque validissimis argumentis oppugnatur. Et sane, Deus non poterat materiæ ingenitæ largiri formam, quam habet, nisi ipsa ab Eo penderet, Eique subiiceretur. Atqui repugnat materiam, quæ est ingenita, atque infecta, ab ahqua causa anteriori pendere, ullique causæ extenon subnci. Ergu, si materia informis esse infecta, atque ingemta dicatur, Deum ex ipsa mundum, quem modo conspicimus, eftecisse dici nequit2. Præterea id, quod est ingemtum, nullam mutationem admittit. Atqui nihil ex eo, quod est immutabile, fieri potest, quia perspicuum est hoc lpso,, quod ex aliquo aliquid fit, mutari id, ex quo ht. Matcn? ergo, ita concludit Lactantius, si facta non est, ne tieri ex ea quicquam potest 3 . Accedit, quod Deus inhmt? potentia pollet, ac proinde putandum non est Eum, nor secus ac homines, non posse efficere quidquam, nisi e^ i Ex quo vides antiquos Patres philosophis, hæreticisque æter nitatis materiæ defensoribus iure, meritoque obiecisse, quod lps materiam Deo æqualem facerent, proindeque duos Deos commini scerentur; siquidem esse ei se ipso, seu necessitate suæ naturæ immutabile, et stricto sensu æternum, est proprium solius natura summæ, et perfectæ, scilicet Dei. Inter eos, secus ac Auctor Syst natur. (Systeme de la nature, part. 2, c. 2, Lond. 1770), impuden ter asseruit, recensendus est Tertullianus, qui æternitatem mund adversus Hermogenem ex industria impugnavit. Cf s. Iustin., Ad Gentes cohortatio, c. 23. 3 De ira Dei, lateria iam existente; sed tenendum est Eura, sicut nullo rtifice, ita nulla materia eguisse, ut mundum conderet ! 167. Absurdior est tertia hypothesis. Enimvero, atomi bsis Atomicis fatentibus, etsi insecabiles sint 2, tamen laites habent, materialesque sunt ; quocirca si repu^nat jiatenam esse ingenitam, repugnat etiam ingenitas esse .tomos. Atqui atomi, ex quarum fortuita concursione munSum ellectum esse Epicurus, recentesque Increduli comUiniscuntur, sunt ingenitæ. Repugnat i^itur mundum ex ftomis per æra temere convolantibus effectum fuisse. ' 108. Præterea, etiamsi demus posse dari alomos, certe •ullo modo evenire potuit, ut ex ipsis et singulæ res c quibus mundus conllalur, et ipsa mundi compages eflcerentur. Hoc m primis ex eo demonstralur, quod illæ omi tamquam ingenitæ adstruuntur. Etenim plures a!;mi non possunt ad aliquam rem efficiendam coalescere Mi quodammodo lmmulentur, quia necesse est ut ipsæ Jiquid in sese invicem agant. Atqui id, quod est in.Alteraai tem ratione asseritur rem creatam ordinem habere ad nih lum, quatenus ipsa est natura sua post nihnum, æqi ac si dicatur c, mtel hgenda est de duratione æternitalis, non vero pons, vel de æternitale temporis imaginati non ve° •eal.s, quatenus durationem ælernam Entis increati e sme successione est, sine aliqua successione imari nequ.mns. H.nc commode dici polesl Deum fnigM | mundum, qu.n vel Dcum in tempore esse, vel tem ante mundum fu.sse staluatur. Prius vero, ItmJu, seu ante, ct post si considerentur in ipso tcmCore 1 dub.o quædam e.us differentiæ sunt ; vcrum si' udcrentur relata ad æternilalem, non aliud den™ant rclat.onem temporis ad ipsam ; siquidem nos q i ess.on, assuet, sumus, concipimus esse immoTunA mslanhs, quod est proprium ælernilatis, fu?sse anam success.o temporis inceperit, et futu^um si'suc•o tempor.s desmeret. Quare dicimus Dcum fuisse ante ndeV' mUudum esse P°s eum, non quod Deum! nde ac mundum, tempore conlineri intel igimus sed . cum Deum extra omne tempus esse intfSus udum reqUC De-Um fuiSSe aule muudi oKem lundum esse incep.sse, cum iam Deus esset . i ¥• cit.t ibid., c. 23, n. 3. • q. XLVI, . i ad 8.- Cf s. Aug,D0 Civ.DH, ]ib. xh,c. 17, nl Si Deus mundum in tempore creasse ( catur, illud quoque dicendum est, fuisse tempus,inqmnium possibihum optimus, non quod optimæ sunt sinplæ eius naturæ, sed quod ipse, totus quantus est, a oono ad mehus in infinitum progreditur. Præter Platonem inter veteres, Abælardum in media ætate, minHJ m W uhJecni[\ ætatis initium, sententia de optimismo nundi MaJebranchio probata est. lifflr^WK desciene: !-. art Optimisme. Leibnitius etiam, a .nmcuitatibus adversanorum pressus, eo tandem devenit, ut theo rW par n"1 g n202OPtimO ' C°ntinU° Pr0greSSU derivaret5 vid' • Optiraismus raundi refellitur 192. Doctrinani de mundo oplimo, quocumque modo accipiatur, admilti non posse sequentibus propositionibus evincitur: la. Optimismus Leibnitianorum et per se absurdus est, et ad exitiales errores ducit. Probatur prima pars. Finis, ob quem Deus mundum creavit, ut in Theodicea videbimus, est manifestatio perfectionum Dei; qua de re mundus optimus ilie dicendus foret, qui perfectiones Dei ita manifestet, ut nihil supra. Atqui mundus, quilibet ipse sit, utpote finitus perfectiones Dei nequit ita manifestare, ut ipsæ magis, ampliusque manifestari non possint. Ergo hunc mundum, vel alium quemlibet possibilem esse omnium optimum absurdum est . Probatur altera pars. Doctrina de mundo optimo potentiam Dei, quæ omnem limitem respuit, limitibus cogit; atque Deum, qui in productione rerum extra se maxima libertate gaudet, necessitati obnoxium facit. Ergo ad exitiales errores ducit. 194. Antecedens ita demonstratur. Et sane : 1° Si Deus mundum omnium possibilium optimum creavit, Eius potentia iam exhausta est; quia, cum mundo optimo nullus alius præstantior dari queat, Deus iam effecit quidquid efficere potest. Atqui potentia, cuius obiectum exhauriri potest, imo iam exhaustum est, non est infinita. Ergo theoria, quæ mundum omnium possibilium optimum a Deo creatum esse statuit, infinitam potentiam Dei tollit2. 2° Si Deus mundum creare volens, debuit optimum omnium possibilium creare, non potuit ex infinitis mundis possibilibus 3 potius unum, quam alium ad existen Cf s. Thom., Qq. dispp., De Pot., q. I, a. 5 c. Adeo verum est optimismo mundi omnipotentiam Dei lædi, ut Abælardus, et Wiclefus, cum docuerint Deum non posse alia facere, quam quæ fecit, id quod omnipotentiæ Dei profecto adversatur, autumarunt quoque, uti paulo ante adnotavimus, illum mundum a Deo creatum esse, qui est omnium possibilium optimus. 3 Series mundorum possibilium, non diffitente eodem Leibnitio (Lettres d Borguet, Lettr. I), est infinita. Et sane mundi, qui esse possunt, tot sunt, quot sunt modi, quibus Deus esse suum cum rebos extra se communicare potest. Atqui series horum modorum est inn tiam vocare, sed eum, quem creavit, scilicet omnium optimum creare coactus est. Alqui ubi non est eleclio, ibi est necessitas. Ergo Deus hunc mundum præ reliquis posjsibilibus non ex suæ volunlatis consilio, sed necessilate coactus creavit. Quinimmo ex theoria optimismi illud etiam sequitur, quod Deus mundum, quicumque sit, creare cogitur. Etenim, Leibnitianorum iudicio, Deus mundum lomnium oplimum creare debet, ut perfecliones suas, quoad fieri potest, manifestel; ergo eo magis ad mundum creandum cogitur, alioquin perfcctiones suas non modo non quoad fieri potest, sed omnino non manifeslasset . Optimismus cliam eo modo, quo a Bouillierio, aliisque explicatur, reiiciendus est. Probatur. Ralio, ob quam repugnat ullam particularem creaturam esse omnium possibilium optimam, in eo, his •Optimistis non diffilenlibus, sita est, quod quælibet par ticularis creatura infinitum Esse Dei modo finito repræ sentat, ac proinde aliæ sunt possibiles, quæ Divinum >Esse magis, magisque manifestant; siquidem finito aliquid jsemper addi potesl. Atqui, etiamsi detur mundum esse in continuo progrcssu, ipse, cum nonnisi finitæ progres isionis capax sit, Esse infinilum Dei modo finilo semper manifestat, ac proinde alii multi eo præstantiores fieri jpossunt. Ergo eadem ratione, qua probalur, nuperorum jOptimistarum iudicio, nullam singularem creaturam esse iomnium possibilium optimam, probalur simul ne totum iquidem mundum, quicumque tandem sit, omnium pos •sibtlium optimum esse. 196. Adde his, quod continuus progressus in infinilum, nita; quia, cum singuli modi finitam entitatem, seu realitatem a Deo accipiant, horum series, quantumvis maxima dicatur, vel cogitetur, Esse Divinum, utpote infinitum, exhaurire numquam potest. Ergo series mundorum possibilium est intinita (cf s. Thom., In lib. III Sent., Dist. XIV, q. I, a. 4 ad 3). Exinde aliud argumentum, quo mundus optimus veluti in se absurdus redarguitur, confici potest; siquidem, posita doctrina de mundo optimo, series mundorum possibilium non esset infinita; quippe quod, postquam series a mundo minus perfccto -ad mundum magis perfectum progrediens, mundum omnium optimum lassecuta est, supra ipsum assurgere nequit. 1 Cf Fenelon, Rtfutation du systdme du p. Malebranchc sur la nature, ct la grace, c. 6, et Bonifas, ttude sur la Thtodicee de Leibniz, part. 3, c. 4. quem hi philosophi mundo, prout totus est, considerato tribuunt, prorsus commenlitius est. Etenim, cum mundus in tota rerum, ex quibus conflatur, universitate consideratus non sit aliquid abstractum, sed ex diversis naturis rerum compositum, non potest aliter ^inteiligi ipsum esse in conlinuo progressu, quam si ipsas naturas rerum in naturas præstantiores continuo transmutari admittatur, alioquin progressus non esset substantialis, sed accidentalis. Atqui repugnat naturas rerum ita progredi, ut aliæ in alias continuo transmutentur . Ergo repugnat in mundo inveniri illum progressum, quem nuperi Optimistæ commenti sunt. 197. Obiic. 1° Leibnitius, eiusque sectatores: Si Deus inter mundos possibiles optimo alium prætulisset, mundum sine ulla ratione sufficiente creasset. Atqui quidquain ne in Dei quidem operibus sine ratione sufficiente esse potest. Ergo Deus mundum omnium possibilium optimum creasse dicendus est. 198. Resp. Dist. mai., sine ratione extra Deum posita, conc. mai.y sine ratione, quæ est in ipso Deo, neg. mai.; eadem dist. neg. et conc. min. Neg. cons. Sane admittenda est aliqua ratio, ob quam Deus mundum creavit, quia Deus, utpote sapientissimus, nihil sine ratione moliri potest. At, cum Deus, ens sibi ipsi sufficientissimum, a causa extranea delerminari non possit, illa ratio non in perfectione mundi, sed in ipso Deo invenienda est ; nempe, ut s. Thomas inquit, est ipsa stia Bonitas z. Quod si ratio, ob quam Deus mundum creavit, non est perfectio ipsius mundi, sed bonitas Creatoris, consequitur rationem, ob quam Deus hunc mundum, non vero alium ipso perfectiorem, aut imperfectiorem condidit, non in perfectione ipsius mundi, sed in ipso Deo etiam quærendam esse. Hæc autem inquisitio supervacanea, imo temeraria est, cum de re agatur, quæ ad arcana Divinæ Sapientiæ pertinet. Talis quæstio, ad rem ait s. Bonaventura, est irrationalis, et solutio non potest dari, nisi hæc, quia voluit, et rationem Ipse novit 3 . 199. Obiic. 2° Si Deus crearet mundum 'omnium possi Cf Ontol., c. II, a. 3, p. 17. 2 Contr. Gent., lib. I, c. 86. 3 In lib. I Sent., Dist XLIV, a. 1, q. I ad arg. Cf s. Aug., Epist. III ad Nebridium, n. 2. COSMOLOGIA 183 hilium minime optimum, Sapientiæ, Bonitatique suæ flerogaret, quia minus honum est quoddam malum, æ![uc ac minus malum est quoddam bonum. Atqui conseimens est absurdum. Ergo et antecedens. | 200. Resp. Neg. mai> ; conc. min. Neg. cons. Sane Sajnentia, Bonitasque Dei non expostulant, ut Deus efficiat jnundum omnium possibilium optimum, sive absolute op lmum, sed tantum ut quemcumque mundum ex omnidus possibilibus efficere velit, ipsum efficiat relative, nemf>e m genere suo optimum, quatenus ei omnia largiri debet, per quæ et omnem illam perfectionem, cuius natura ;ius capax est, assequatur, et ad ultimum eius finem, qui bst manifestatio Bonitatis Dei, perfectum ordinem habeat. llud autem omittendum non est, perabsurdam esse ra jfionem, qua Leibnitius propositionem maiorem sui argujnenti probavit, quia bonum, et malum privative sibi opponuntur, ac proinde prorsus repugnat ullum bonum, >rout est bonum, esse malum, aut ullum malum, prout j:st malum, esse bonum. 1 Cf s. Bonay. loc. cit., q. II ad arg. Homo omnia, quæ in reliquis naturis rerum adhuc observavimus, in se exquisitiori modo continet1, atque ob suam facultatem intelligendi particeps est proprietatum, Eer quas substantiæ intellectuales, sive Angeli cæteris reus creatis excellunt2 ; quocirca ipse annulus est, quo natura visibilis cum invisibili copulatur, ut unica inde universitas rerum creatarum efficiatur $. Hinc tractatio de homine a Cosmologia, uti diximus , segregatur, atque peculiarem Philosophiæ partem, quæ ANTHROPOLOGIA vocatur, sibi propriam habet. In hac tractatione primo explicabimus quidquid ad unionem animæ, et corporis in homine spectat; deinde inquiremus 1° in quo essentia animæ humanæ consistat; 2° utrum, necne anima sit immaterialis; 3° quænam sit origo animæ; 4° utrum, dissoluto corpore, anima superstes sit, an cum corpore pereat. Quænam sit animæ et corporis uuio in homine inquiritur I. — Substantialis animæ, et corporis unio in homine adstruitur 2. Communis vulgo hominum persuasio est hominem non esse solam animam, aut solum corpus, sed aliquid, quod ex anima, et corpore conflatur 5 ; siquidem nemo, quantumvis plebeius, cadaver, aut animam a corpore separatam hominem appellat, latumque discrimen inter ca Hinc homo fjVY.poY.ovfjLog, parvus mundus, dictus est, quia, ut AQUINO (vedasi) advertit, omnes creaturæ mundi quodammodo inreniuntur in eo ; I, q. X.GI, a. 1 c. 2 Cf s. Aug., De Civ. Dei, lib. IX, c. 13, n. 3. 8 Cf Nemes., De natura hominis, c. i. 4 90. s De Dicearcho, aliisque paucis antiquis, et recentibus Materialistis, qui in homine corpus tantum admiserunt, alias disseremus. daver, animam, ct hominem non agnoscit. Verum quoniam unitas, ut in Ontologia vidimus , cst vel substantialis, vel accidentalis, non convenit inter omnes Philosophos, utrum unilas hominis, sive, ut aiunt, compositi humam sit subslantialis, an accidentalis. Et sane non pauci inter antiquos, recentesque vel aperte professi sunt animam per acadens cum corpore coniungi, vcl hominem ita dennivere, ut nullam rationem corporis haberent. Nos primum substant.alem, seu naturalem unionem animæ cum corpore in homine adslruemus, deinde quædam contra oppositas sententias adnotabimus. 3. S. Thomas, de unione anitnæ cumfcorpore disserens ait: (( fcx anima, et corpore constituitur in unoquoque noslrum duplex unitas naturæ, et personæ 2 . Yentas huius theoriæ, quæ in tota media ætate viguit, et iam a ss. latr.bus, al.isque antiquis Scriploribus 3, post Aristotelem, trad.ta fuerat, sequentibus propositionibus a nobis demonstratur: 4. la. Corpus, atque anima in homine adeo inter se comunguntur, ul ex ipsis una natura, seu una substantia completa constituatur . Probatur.Ea, quæ sunt diversæ naluræ, unam, eamuemque actioncm exerere non possunt. Atqui anima et corpus quæ m se seorsum consideratæ sunt diversæ res, nabent in hom.ne operaliones utrique communes Er^o corpus, et amma in hornine adeo inter se coniunubstanUa completa, sive una natura constituatur Minor probatur præcipue ex sensationibus, quæ non sunt >ohus an.mæ, aut solius corporis, sed ulriusque. Re uuiIdm,Veransensat,0.nes non.sunt solius corporis, quia cum psa s.t operat.o immalerial.s, a solo principio materiali, sr;lest r:pus' proficisci -w •>^ 3 ri6Ptia comprobatur, quia corpus, poslquam anima ab eo Cap. III, a. 1, p. 19.-2 in? q. rij a. j ad 2 W præ cetens s. Iustinum (Fragm. libri De resurr. carnis • 8) A henagoram (De resurr., c. 12, 13, 18, et 21) s Irenacum yeirid.^: l\ t't t^}De CtvDei> libXIX> ; ™° \ Contr. Gent., lib. II, c. 57. ° Cf DtJnam., c. III, a. 4, p. 119-120 vol. I. seiuncta est, nihil sentire experimur. Neque sunt solius animæ, quippe quod, cum anima sit immaterialis, res materiales nihil in ipsam per se, sive immediate agere possunt *. 5. Itaque neutrum (neque corpus, neque anima) habet speciem completam, sed utrumque est pars unius naturæ 2 . Quapropter homo nec corpus, nec anima est, sed aliquid tertium, quod ex utroque componitur 3. ld ex ipsa notione corporis animati clare intelligitur ; siquidem corpus animatum non est solum corpus, quia corpus per se est expers animæ, seu vitæ, nec sola anima, quia anima est naturaliter incorporea, "sed aliquid tertium ex eo exurgens, nempe corpus, quod anima informat. 6. 2a. Ex anima, et corpore unica persona in homine efjicitur. Probatur. Operationes in qualibet natura tribuuntur supposito, seu personæ, secundum illud Scholæ, quod in Ontologia statuimus, Actiones sunt suppositorum *. Atqui in unoquoque nostrum unum, idemque est illud, cui operationes animæ, et corporis tribuuntur. Ergo ex anima, el corpore una persona in homine constituitur. Veritas minoris ex interna experientia constat. Et sane nos iu nobis ipsis experimur, illud, quod in nobis intelligit, ei vult, essc idem ac illud, quod sentit, nutritur, deambu lat: unde unusquisque nostrum sicut dicit, ego volo, el ego intelligo. ita dicit quoque, ego patior, ego deambulo aut aliud huiusmodi. Atqui illæ operationes sunt sohuf animæ; hæ autem animæ, et corporis, quod anima m format. Ergo unum, idemque esse in homine illud, cu operationes animæ, et corporis tribuuntur, experientu interna constat. 7. Præterea, hæc personæ unitas, quæ ex anima, e corpore efficitur, ex iis, quæ in præcedenti proposition, nihil diciIfius; nam conlra istam opinionem eadem valent argumenta mhm personam non posse definiri naturam sui consciam stendimus 2; quippe quod rb ego secundum Kantium, alios>ue nuperos re ipsa non aliud, nisi personam, denotat 14. Denique Kosminius docuit rb ego non esse solam immam, uli Gartesius opinatus est, neque solam conscienHam, uu Kantius contendit, sed esse animam, prout conpa sui ipsius esl; nam subiectum humanum tum evant ego, cum per diversas operationes internas suarum fa;ultatum conscientiam sui assequitur3 . At Rosminius DefinXIII, § 55. Modus, ait, quo corporibus adhærent spiritus, et animalia Nihilominus Scholastici, Aristotelis, ipsiusque s. Augu stini doctrinis adiuti, de modo, quo anima, et corpus u nicum compositum subslantiale efficiunt, theoriam concin narunt, quæ cuilibet solidæ, et cuiusdam momenti diffi cultati aditum præcludit. Quæ theoria huc redit, quoartem formæ, non autem materiæ in homine expleret psum iorct principium, quo homo vivit; at hoc fieri ne[uit, quia corpon per se inspcclo nec vivere, nec esse inncipium vivendi convenirc polest, alioquin omne corius oporteret esse vivens, vel principium vitæ * 19. Alterum argumentum ex ipsa notione formæ subtant.al.s pet.tur: Re quidem vera, formæ subslantialis, oonenle Aquinate \ duo sunt propria. Primum in eo conistit, quod ipsa rei, cuius est forma, esse substantiale *rgilur, veluti pr.ncipium inlrinsecum, ex quo res in ua specie constituitur 2; alterum, quod a primo fluil, est, |UOd ex forma substantiali, et ex materia, quæ ab illa eterminatur ad aliquam rem constituendam, unicum esse jubstant.ale efficitur *. Atqui dubium non est, quin anima rga corpus hacc duo munia obeat ; namque 1° anima, i ante vid.mus 5, esse corpori largitur veluti principium, uo res cst id, quod cst; unde corpus, antequam ab anima tormetur, non est corpus humanum, et staiim ac anima o eo separatur, corpus humanum esse desinit. 2° Anima um corpore unum esse substantiale constituit; namque si )sa intnnsece esse corporis constituit, necesse est ut una um corpore unicum esse substantiale efficiat 6. Er^o nenm dub.um esse potest, quin anima cum corpore*, veiti iorma substantialis cum materia, copuletur. £J. Frop. 2 . Amma, quæ est forma substantialis cor7' /*on est> msi amma intellectiva, sive rationalis. rrobalur contra non paucos, eosque præsertim recen§, qu. ut intra videbimus, pugnant animam, qua corus vivit, non esse animam intellectivam, sed animam ab Jc d.versam, quam principium vitale vocant. Forma, ut \ r'fqr LXXV' a* * ? 2 Con*r. Gent., lib. II, c. 68, n. 2. * Cf Cosmol., loc. cit., p. 102-103. ninn!df^P* i104" •Pr°pter hæC duo forma sbstantialis, quæ prin E? ani n ? rei.ctaV°CatUr' a Princiui0 efficiente discrimitur, quia pnncipium efliciens largitur esse rei non ex eo aunrf a produc.t, atque esse eius non est idem ac esse rei productæ est etiam ipsius animæ ; I, q. LXXVI sæpe diximus, speciem, seu naturam cuiusque rei determinat. Atqui natura cuiusque rei ab eius operationibus dignoscitur. Ergo in composito substantiali, quod dicitur homo, forma ea esse debet, quæ illius operationibus respondet. Atqui operationes propriæ hominis sunt intellectivæ, quia per has a ceteris rebus discriminatur. Ergo anima intellectiva est propria hominis forma. Nonnulla circa eamdem theoriam adnotantur 21. Ad eius, quam exposuimus, theoriæ maiorem explanationem, hæc tria mente recolemus oportet: Horum primum est, animam rationalem non posse informare corpus, prout est rationalis, quia ipsa, prout est rationalis, naturam materiæ longe supergreditur. Hinc, cum dicitur animam rationalem esse formam substantialem corporis, hoc intelligendum est, secundum essentiam animæ intellectualis, non tamen secundum operationem intellectualem 2 , quapropter unio animæ ad corpus uon pertingit usque ad operationem intellectus 8 . 22. Alterum est, animam humanam, secus ac animam belluinam, ita informare corpus, ut per se, et sine corpore existere valeat, sive, ut Scholæ aiunt, esse formarr substantialem subsistentem . Et sane, si anima humana. secundum quidem suum esse, sed non secundum suam virtutem intelligendi est forma corporis, sequitur aliquas operationes ab ea exerceri sine organis corporeis 5. Atqui anima humana non posset ullas operationes sine organu corporeis exercere, si esse eius a corpore omnino penderet. Ergo anima humana ita informat corpus, ut per se; et sine corpore existere valeat. 23. Tertium est, quod anima, etsi sit forma corpons. tamen operationes intelligendi exercere potest. Secundum essentiam quidem suam [anima intellectiva) dat esse 1 I, q. et a. citt. c. „ Qq. dispp.&xm. De Anim.,a.7 ad 11. Cf Contr. Gent.,lib.IV,c.S& s Qq. dispp., De Fer., q. XIII, a. 4 c. . Quænam sit forma substantialis subsistens, exphcavimus n Cosmologia, c. V, a. 3, p. 137-138. s Quamvis esse animæ sit quodammodo corpons, non tamei corpus attingit ad esse animæ participandum secundum totam suan nobilitatem, et virtutem: et ideo est aliqua operatio animæ, m qm non communicat corpus ; Op. cit., De Anirn., a. 1 ad 18. GESm' • Secundum Potemiam vero proprias operationes ^fficil'; nam ipsa cum corpore ila coniungilur, ut per •at.onem vires eius superet, eiusque dominelur . Vicissim tsi anima natura sua sit intelligens, tamen ad opcra,V,es corporis concurrere potest. Etenim ipsa es? forma erleclior form.s sensitiva, e( vegetaliva. Atqui quæ! bet uTcontST/ formarum> uæ Psa inferio^es u„ se conhnet. Ergo an.ma humana, cum maleriam inforoat, e. largitur esse, quod corpori inanimato convenit Wetare, quo planla super corpus inanimatum exlolli tur Asentxre, quo brutum plantæ excellit; nihilque al u I ibi kopnum retinet, nisi vim intelligendi, quam cum mabria commun.care non potest . Itaque anima huma. a loæ seeundum essentiam suam est rationalis, ad oS lones corpor.s concurrit non quatenus est rational? sed "t C„eVlil|U'rn SCr. fTU,tateS Ve^tativas in ' conS '.inn ' ' • 0m'llenu"m est, animam producere one Uiones corpons, non prout sunt mere materiales et cororeæ, secl prout vilales, ac proinde aliquid simplex sunt. Abt. HI.-Argumenta, qaibus Scholasticorum theoria impugnatur, solvuntur L% ^bi'C- °Si anima ratinalis csset fbrma substaniJi.s corpons, ipsa cum corpore sese commisceret, ita ut 'ni eo exteuderelur, et divideretur. Atqui id, quod est 1 fni!,' .Ct d,visibilc> est materiale. Ergo Scholasticoim sententia animam humanam materialem facit. i I n,n7P.' \eg"""':> concminNe9consEt sanc il".',?.,• abadversar"s ob.icitur, quod nempe anima foret le nnn', V CUm .corPorc commiscerclur, iam ab Aquiicen !u T f0lt Quæ miscen'r> ait, oportel ad m IZ tt ? eSSe.; qux°d non onling'. "''! uis, quoWcr8 n °na eadem • At ex eo> 1uod ^ima i"for« corpus, ipsam cum corpore commisceri haud seuui Un> De PircreaL' a2 ad 10. ' hb. III Sent., Dist. I, a. 1, q. I ad arg. - 192 expostulat, ut ad coniunctionem cum corpore ordinem semper retineat, non vero ut sine actuali cum corpore coniunctione in suo esse perdurare nequeat l. IV.— Scotistaruni sentenlia expenditur 31. In superioribus articulis diximus animam humanam, cum materiam informat, utpote forma ceteris perfectior, quæ harum virtutes in se continet, ei largiri non solura esse vegetans et sentiens, sed etiam esse corporis'-; ac proinde informare materiam omni forma dcnudatam, ita ul ipsa sit illa forma, qua corpus in suo esse corporis constituitur 3; neque id animæ simplicitati obesse . Qua ir re silentio prætereunda non est sententia Scoti. Ipse enim, post Henr. Gandavensem, etsi animam esse formam qua corpus vivit, seu, ut aiunt, animatur, propugnaverit tamen, secus ac B. Albertus M., s. Thomas, et pleriquc Scholæ Doctores docuerunt, contendit agnoscendam præ terea esse in corpore « formam, qua corpus est corpus aliam ab illa, qua est animatum s. Hanc formam, qu et du cor^' RdP°nse « • P Bottalla, •in «I i ! / «l8.? qUæ adversus Tongiorgium disseruimus in Ne^fs^r^'^"^'' V°!HI' -ParS Prima' C' H ubl etiam solutas invenies obiectiones Henrici und,,mSIS: U' neCn°n ill0rum receutiuu> qui horum throriam unoum atomismi placita propugnant. ANTHROPOLOGIA corporis humani per se, et essentialiter. Id Leo X confirroavit in synodo Lateranensi, cum definivit, quod anima intellectiva « vere, per se, et essentialiter humanr corporis forma existat 2 . Secundum utriusque synodi den nitionem, Pius IX in suis ad Episcopum Coloniensen Lilteris questus est Giintherum, eiusque discipulos lædere in suis libris « catholieam sententiam ac doctrinarr de homine, qui corpore, et anima ita absolvatur, ut am nra eaque rationalis sit vera per se, atque immediata cor poris forma 3 . . ., 35 Iam hisce definitionibus, utr constat ex Eprstola, quan de mandato Pii Pp. IX D. Wladimirus Czacki, nunc S. RE Cardinalis, D. Eduardo Hautcoeur, Rectori Universitatn Cathol. Insulensis inscripsit 4, docetur unitas substantiafr humanæ naturæ, quæ duabus constat substantns partxali bus, corpore nempe, et anima rationali. Et hoc quidem a doctrinam theologicam spectat. Quod autem attinet ad con troversias, quæ non ita pridem ab aliquibus Philosophis rt suscitatæ sunt, scilicet circa principia constituentia corpc rum, unde unitas illa substantialis diversa ratrone ab ei explicalurs, ipsæ doctrinas mere philosophicas respiaum super quibus catholicæ Scholæ diversas sententias sequm tur ac sequi possunt; quoniam suprema Ecclesiæ auctorxto numquam pro altera iudicium tulit, quod alteram excludi ret. At vero, id non impedit, quominus philosophrca argi mentatione demonstrari possit, sententiam Thomrstarun quam nos amplexi sumus6, quoad unitatem substantralei humanæ naturæ, cum laudatis Romanorum Pontrhcui definitionrbus potius, quam alias, consentire; scilrcet, ut præfatam definitionem non nisi hoc sensu Doctois Scholarum semper acceperint6. 1 Vid. pp. citt. 2 Aliam formam diximus, non vero aliam nimam; nam de unite animæ in homine controversia inter Catholicos, quemadmodum Lapite IV ostendemus, cxistere haud potest. Cf Cosmol., c. I, a. 5, p. 101-102. Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 9 ad 11. ibid. ad 18. Hoc argumentum fuse evolvit Em. Card. Zighara, Op. cit., Pars explicav.t, quod hæc media natura suggerit animæ ndquid rerum fit in corpore, et in corpore exequitur ndquid amma ei præscribit, quin causas suarum opetionum cognoscat 4. l 44. Systema mediatoris plastici absurdum est Vrobatur.Si inter animam, et corpus natura media, iæ s.tutnusque parliceps, existeret, oporteret ipsam se simul corporearn, cognilione præditam, et cogitatio5 cxpertem, celer.sque oppositis proprietalibus pollen 1 Qq. dispp., De Ver., q. XXVI, a. 10 c. In Ioann. Evang. c. V, tract. XXIII, n. 5. " Saggio su' temperamenti, Bologna 1864. Bibliothbque choisie, t. II, p. 113 sqq. 202 tem, quibus anima, et corpus ab se discriminantur. Atqui notio huius naturæ est absurda. Ergo. 45.Præterea, hæc natura media officio administræ inter animam et corpus in homine ita fungi dicitur, ut conscientiam operationum suarum non habeat. Atqui natura, quæ se, suasque operationes non cognoscit, profecto non potest fungi officio administræ inter animam, et corpus in homine; nam haud possibile est aliquam naturam officio administræ fungi, nisi dominium in suas operationes habeat, alioquin ipsa, ut advertit s. Thomas1, non agit, sed potius agitur. Ergo naturam plasticam, quam Clericus effinxit, ex eo etiam absurdam esse patet, quod ipsa officiis fungi nequit, quæ in homine ei assignantur. 46. Obiic. Multæ operationes, e. g., respiratio, molus cordis, in homine conspiciuntur, quæ nec a corpore, neque ab anima repeti possunt. Ergo admittenda est in homine tertia natura, quæ sit illarum operationum principium. 47. Resp. Dist. ant., non possunt repeti a solo corpore, aut a sola anima, conc. ant., non possunt repeti ab anima simul, et a corpore, neg. ant. Neg. cons. Re quidem vera, corpus, uti iam ostendimns, esse suum ab anima accipit, unamque substantiam completam cum ipsa effieit, ac proinde anima cum corpore est unicum principium respirationis, motuum cordis, aliorumque, quibus corpus vegetat. Frustra Clericus contendit operationes respirandi, aliasque id genus non posse animæ adscribi, cum quod nihil convenientiæ inter ipsas, et intellectiones existit, tum quod anima nescit, quomodo agantur in corpore ea, quæ ipsa peragi in illo vult. Etenim, quod ad primum attinet, nihil vetat respirationem, aliasque einsmodi operationes, atque intellectiones, quamvis sint diversi generis, ab anima tamen perinde proficisci ; siquidem anima per alias facultates est principium intellectionum, et per alias facultatcs est principium yegetandi, et sentiendi. Alterum autem ex eo fit, quod alia est in anima facultas, qua illas operationes vult, alia autem, qua illas in corpore exequitur. i De unione Verbi Incarnati, a. 5 c. De systcmate causarura occasionalium 48. Malebranchius, uli antea diximus , ratus est Deum dumtaxat esse causam efficientem, atque cum corpora tum animas omni vi agendi destitui ; ex quo confecit Deum esse unicam, et immediatam causam omnium motuum, qui in corpore fiunt, omniumque operationum, quas anima exerit; atque consensum, quem experimur inter certos motus corporis, et certas operationes animæ, et vicissim, nonnisi a Deo esse repetendum. Itaque ipse statuit Deum ob suum generale decretum, quod totum mundi ordinem complectitur, ita motus corporis, actionesque animæ moderari, ut, quoties certi motus in corpore fiunt, sensationes ipsis consentaneas, et quoties certæ operationes in anima fiunt, motus ipsis consentaneos in corpore producat. Ex quo patescit nec ullos motus corpons esse veras causas actionum animæ, nec ullas actiones animæ esse veras causas motuum corporis, sed dumtaxat dici posse causas occasionales, quia nonnulli motus corporis Deo occasionem præbent producendi in anima actiones illis consentaneas, et vicissim 2. Hoc systema oczasionalismus, vel systema adsistentiæ dictum est, quia animam, et corpus vcluti causas dumtaxat occasionales ignoscit, Deumque animæ, et corpori conlinuo adsistentem ponit. Hanc theoriam, eodem fere ac Malebranchii tempore, Sylvanus Regius 3, et deinceps non pauci propurnarunt usque in hanc diem, in qua, uti ante vidimus 4, heonam caussarum occasionalium a nonnullis Philosophis )ræsertim in Gallia exsuscitata est. 50. Systema causarum occasionalium falso fundanento innilitur ; falsam philosophandi methodum sectatur ; mnem umonem mter animam, et corpus tollit; impias con'lusiones parxt. Probatur prima pars. Malebranchius, ceterique Occalonahstæ consensum inter certas operationes animæ, crtosque motus corpons omnibus obvium ab immediata ictione Dei repetunt, quia omnem vim activam rebus 1 Ontol., c. IX, a. 7, p. 71. 2 De inquirm V9r^,ib yI c 5 Cours entier de phil., M4t., par. 2, c. 1-5. 1 Ontol., loc. cit. creatis repugnare arbitrantur. Atqui, ut in Ontologia ! vidimus, nihil repugnat vim quamdam actuosam rebus creatis inesse, immo, si ea ipsis negetur, multa absurda inde profluunt. Ergo nulla, immo absurda est ratio, ob quam occasionalismus ab eius auctoribus excogitatus fuit. 51. Probatur altera pars. Occasionalistæ non inficiantur nobis videri animam, et corpus aliquid in sese invicem agere, sed causam huius phænomeni ex ipsa natura hominis non expostulant, sed ad Deum omnium rerum auctorem, et conservatorem, confugiunt. Atqui hoc, ut s. Thomas iamdiu observavit 2, indignum est viro philosopho ; Deus enim procul dubio est causa universalis omnium phænomenorum naturæ ; sed philosopho quærendæ sunt causæ phænomenorum particulares, seu proximæ, quia in harum cognitione, quemadmodum in Logica vidimus, scientia consistit. Occasionalismus igitur methodum philosophandi sectatur, quæ scientiam gignere non potest. 52. Probatur tertia pars. Secundum Occasionalistas anima cum corpore neque secundum esse, ita ut ex ipsis unica completa substantia exurgat, neque secundum operationem, ita ut anima, et corpus aliquid in sese inyicem agant, unitur. Ergo occasionalismus non modo unionem substantialem, quam ante demonstravimus, sed quamlibet unionem animæ cum corpore tollit. 53. Probatur quarta pars. Si anima non est cum corpore principium omnium operationum corporis, sed Deus est harum unica causa, certe non ei, sed Deo tribuenda sunt, quæ anima per corpus bene, aut male operari videtur. Item, si anima non est principium activum suarum cogitationum, sed has Deus occasione motuum corporeorum in ipsa producit, liquet cogitationes, quæcumque sint, sive bonæ, sive perversæ, neutiquam possc animæ imputari. Quocirca, posito occasionalismo, homini Loc. cit., p. 171-172; cf etiam Cosmol, c. III, a. 4, p. 122-123, ei c. VI, a. 3, p. lol sq. 2 Si quis, ait sanctus Doctor, quærenti, quare lignum est calefactum, respondet, quia Deus voluit, convenienter quidem respondet, si intendit quæstionem reducere in primam causam; inconvenienler vero, si intendit omnes alias eicludere causas ; In Ub. De Causis, lect. neque actiones interiores animi, neque exteriores corpons imputari queunt. Atqui hoc infinitæ perfectioni Dei maxime mdignum est, atque omncm moralitatem actio|num humanarum destruit. Ergo systema causarum occaswnahum lmpias conclusiones parit. 54. Obiic. 1° Anima nescit, quid sit, quo membra coripons moventur. Ergo ipsa non est causa motuum corporis. 5o. Resp. Neg. cons. Etenim anima motuum corporis causa est, quatenus eos præscribit, eosque per organa corpons exercet '. Quocirca ipsa cognoscere quidem de bet motus, quos producere vult, non vero modum, quo lorgana corporis illos exequuntur. oG. Obiic. 2° Nulla est connexio inter voliliones anifcmæ, et motus corporis. Ergo. 57. Resp. Neg. ant. Nam si anima, uti ostendimus, est !imul cum corpore principium omnium operationum, quas |in corpore conspicimus, maxima connexio inter volitiojfies, ahasque operationes proprias animæ, atque inter ouerationes corporis existere dicenda est 2. III. — Doctrina harmoniæ præstabilitæ confutatur 58. Leibnitius, cum, ut alibi diximus 3, possibilitatem >ciionis transeuntis, ac proinde actionis, qua anima, et cor>us m sese mvicem agunt, inficiatus sil, consensum inter jperationes animæ, et corporis ex eo repetendum esse do;'uit, quod Deus animam, et corpus in singulis hominibus ta constituit, ut, dum anima, et corpus nihil in sese mu|uo agunt, utriusque operationes mirifice sibi consentiant. lanc theonam systema harmoniæ præstabilitæ vocavit, ||uia lpsa harmoniam inter operationes animæ, motusque orporis a Deo præstabilitam cognoscit . Modum autem, ||uo in singulis hominibus hæc harmonia a Deo præstabiatur, ita exphcavit: Unaquælibet anima, prout schema, eu typus totius universi evolvitur b, continuatam seriem J Cf Dynam., c. VI, a. 3, p. 190 vol. I. Cf s. Thom., Qq. dispp., q. Un. De spir. creat., a. 3 ad 4. Alias mectiones, ci quibus Malebranchius Deum non possc vim actuosam uin rebus creatis communicare arguit, refutavimus in Onro/.,loc.cit Ontol., c. IX, a. 2, p. 63. Systeme nouveau de la nat. etc, § 14. Cf Ideal., perceptionum, appetitionumque in se ex vi sibi insita pro-1 ducit, adeo ut ratio posterioris perceptionis, et ratio poste-i rioris appetitionis in præcedenti perceptione, et appetitio- 1 ne contineatur; item, unumquodlibet corpus per se solum I ex legibus motus continuatam seriem mutationum in sel producit, ita ut ratio posterioris mutationis semper existal in præcedenti mutatione '. Quandoquidem autem infini-j tæ sunt animæ possibiles, infinitaque corpora possibilia/ i liquet infinitas quoque esse cum possibiles series perceptionum, tum possibiles series mutationum; ideoque, quæi cumque anima sumatur, semper inveniri aliquod corpus in quo series mutationum cum serie perceptionum illiu! animæ mirifice consentit. Quamobrem Deus harmonian inter operationes animæ, motusque corporis præstabilini dicendus est, quatenus cum anima coniungit illud corl pus, cuius mutationes curn perceptionihus illius animac adamussim, et constanter concordant 2. 59. Systema harmoniæ præstabilitæ falso funda mento superstruitur; effato rationis sufficientis, quod Leib nitius adeo inculcavit, manifeste adversatur; unitatem sub stantialem hominis, quam Leibnitius admittendam esse de crevit, tollit; impiis, absurdisque theoriis latissimam vian sternit. Probatur la pars. Leibnitius systema harmoniæ præ stabilitæ excogitavit ob illam rationem, quod substantia' nihil in sese invicem agere possunt. Atqui hoc pronun tiatum, quemadmodum ostendimus ', omnino falsum est Ergo. 60. Probatur2 pars. Perceptiones,appetitionesque, quai in anima sibi succedunt, sæpe secum pugnant. Atqui fier non potest, ut posterioris perceptionis, et appetitionis ra tio sufficiens in opposita præcedenti perceptione, et ap petitione existat. Ergo systema harmoniæ præstabilita effato illi rationis sufficientisy quod Leibnitius maximope re exaggerat, manifeste adversatur. 61. Probatur 3a pars. Leibnitius aperte asseruit, incul cavitque existere inter animam, et corpus veram unio Lettre d Mr Arnauld, § 107, et 108. Thdodic, par. I, § 62-67; par. II, § 188; par. III, § 291. 3 Ontol., loc. cit., et Cosmol., c. VI, a. 3, p. 152. nem, cx qua fit suppositum ', atque to ego in nobis unitatc gaudere vera, non collectiva, qualis ea est, quam horologium habet 2 . Iamvero unitas substantialis hominis m systemate harmoniæ præstabilitæ non modo non jadslruitur, sed manifeste tollitur. Etenim ipsa expostulat, ut unicum sit in homine esse animæ, et corporis. Atqui anima, et corpus secundum harmoniæ præstabilitæ placita, non solum non uniuntur secundum esse, sed ne secundum operari quidem, quia anima omnes suas affectiones experirelur, etiamsi nullum esset corpus, et vicissim. Ergo unitas substantialis hominis in systemale harmoniæ præslabilitæ non modo non adstruitur, sed etiam manifeste tollitur. Quin etiam in homine secundum placita harmoniæ præstabilitæ ne unitas quidem collectiva admittitur, qua horologium gaudet. Etenim unitas collectiva in horologio ex mulua partium in se actione constiluitur, ita ut, hac perturbata, horologium destruatur; at Leibnitius sua harmonia non solum animam, et corpus ab se secundum esse omnino separat, sed etiam nullam animæ in corpus, corporisque in animam actionem cognoscit. io^h P™batur ^a pars. Systema harmoniæ præstabilitæ ldeahsmo favet. Nam si corpora ad sensationes, quas anima in se experitur, nihil prorsus conferunt, pronum ent Idcalistis inferre nullam rationem esse, cur corpora existant, aut saltem nobis comperlum esse non posse, num re lpsa existant. 2° Libertatem voluntatis humanæ destruit. Etenim actiones, quas anima per se exercet, liberæ esse nequeunt, quia ipsæ hac lege in anima evolvunlur, ut posterior in præcedenti rationem sufficientem mi habeat, et ipsæ aliæ esse non pessunt, quam quæ motionibus corporis, quocum unitur, adamussim respon1ent. Neque ullæ motiones corporis liberæ dici possunt, jmppe quod omnes motus corporis non solum fiunt per ^es mechanicas, eoque nexu, ut posterior rationem suficientem sui in præcedenti habeat, sed etiam ab omni lctione, concursuque animæ adeo remoti sunt, ut, etiamsi mlla anima existat, eodem modo fierent, ac nunc fiunt. Thdod., Discours de la conformitd d la foi avec la raison, § 55, Eclairciss. du nouveau systdme. 3° Si illud systema admitteretur, nonnisi Deo cuncta peccata lam interna, quam externa tribuenda forent. Cuius rei hæc manifesta ratio est, quod omnes perceptiones, appetitionesque animæ sunt naturalis, necessariaque sequela evolutionis schematis, quod, secundum Leibnitium essentiam anima constituit, omnesque motiones corporis secundum leges mechanicas fiunt, quin anima quidquam ad illas conferat. Atqui Deus et unamquamque animami cum schemate creavit, quod necessario in ipsa evolviturJ et leges mechanicas statuit, secundum quas omnes motus j corporis fiunt. Ergo et quæcumque anima cogitat, acJ vult, et quæcumque corpus exequitur, Deo, secundum harmoniæ præstabilitæ placita, tribuenda sunt. Hinc, si| quid anima cogitat, ac vult, aut si quid per corpus, exequitur contra legem naturalem, aut positivam, omne id i Deo dumtaxat imputandum foret. Igitur systema harmo-l niæ præstabilitæ impiis, absurdisque theoriis latissimam viam sternit. IV.— Systetna physici influxus, seu causarum efficientium expenditur 63. Systema influxus physici, seu causarum efncientium i unionem anirnæ, et corporis ex mutua utriusque actione deriyat. En quomodo P. Makus illud exponat: Docenl nimirum eius [physici influxus) defensores, naturas has [animam et corpus) plurimum dissimiles ita sibi strictas esse, ac devinctas, ut altera in alteram vere, atque eflicienter influat, neque tamen ea actione ex una in alterarn quidquam transferri: sed, impressis in sensu motionibus, et nervorum ope ad cerebrum usque propagatis, mentem ad informandas rerum notiones determinari; et vicissim, suborta in animo voluntate membri cuiuspiam commovendi, nervos continuo impelli, motusque in eo membro voluntarios consequi . 64. Systema influxus physici, seu causarum efficientium est reiiciendum. Probatur. Secundum assertores physici influxus mutua 1 Compendiaria metaphysicæ Institutio, Psychol.. c. II, § 450. Hoc systema, quod iam Newtonus, Clarkeus, omnesque Angli barmoniæ præstabilitæ adversarii in primis adornarunt, post Makum Storchenavius, aliique e S. I. tuiti sunt. A actio animæ, et corporis repetenda est non ex eo, quod anima corpon esse, et operari largilur, sed ex eo, qubd mima, et corpus, dum distinctum esse habent, vim suam jperandi in sese invicem exercent; quapropter hæc actio jon consequitur unionem animæ, et corporis, sed notius Ham constituit. Atqui duarum substantiarum unio quac x eo dumtaxat exurgit, quod illæ vim agendi in sese nvicem exercent, est accidentalis, quia actio esse rei iam onstitutum sequitur, quidquid autem rei adiungitur, postuam esse eius constitutum est, accidens est C Ennf seundum assertores physici influxus unio substantialis in3r animam, et corpus adstrui non potest, ac proinde hoc fstema procul vero est. 65. Adhæc assertores physici influxus rationem, qua corus in animam agit, reddere haud possunt. Et sane, si adiittatur corpus unicam substantiam completam cum ani constituere, dicendum est corpus in animam agere on qua ratione est corpus, sed quatenus ab anima vitam! .virtutem agendi accipit, ita ut non tam corpus, quam nma per potentias, quarum organa sunt membra corpos, agat . E contrano, secundum assertores physici inixus, quoniam corpus non constituit cum anima unicam iDstantiam completam, ipsum in animam agere dicendum I, prout corpus cst. Atqui corpus, prout corpus est, non )test agere, nisi per contactum physicum, qui ab anima, læ immatenalis est, excipi non potest. Ergo in systeate phys.ci influxus actio corporis in animam explicari V.— Mutua animæ, corporisque in sese actio secundum Scholasticos explicatur 66. Si theoria aristotelico-scholastica de unione animæ corporis admittatur, nullo negotio intelligere licet muam ammæ, corporisque in sese actionem ex eo esse relenciam, quod anima se ad corpus, velut forma ad mariam, habet. Quod explanatur scquenti ^rop. Si anima est principium formale corporis,necesse est, [ /n lib. II Sent., Dist. XXVI, q. I, a. 2 sol. Anuna, et corpus conveniunt in unam personam, et in unam 21 / Ct liC0,didtur una actio humana ; De unione Verbi '(iinati, a. 5 ad 11. Philos. Christ. Compend. II.? j£ ut anima aliquid agat in corpus, motusque corporis in ani\ mam redundent. Probatur. Quandoquidem anima est forma substantialis corporis, ideo unum est esse utriusque, quia forma, ut sæ | pe diximus, est actus rei, seu id, quod dat esse rei . Atquij operari, ut Scholæ effatum est, sequitur esse. Ergo, quoniam unum est esse commune animæ, et corporis, inde necessario efficitur, ut anima, et corpus in sese invicem effluant, atque ex suis operationibus sese invicem immuj tent. Præterea, cum anima sit forma substantialis corpoj ris, ipsa debet esse intrinsecum principium, a quo cor pus virtutem operandi accipit, ac proinde simul cum cor I pore subiectum potentiarum, propter quas corpus opera tur 2. Atqui si anima est principium, a quo corpus vir i tutem operandi accipii; et non cornus tantum, sed totuni coniunctum, scilicet corpus cum anima, a qua constitui tur, est subiectum potentiarum, propter quas corpus ope ratur, necesse est non modo ut anima membra corpori: ad operandum movere possit, sed etiam operationes corj poris in animam quodammodo redundent. Ergo, admiss; theoria, quam Scholastici de principiis constitutivis homi nis tradidere, admittendum quoque est et animam in cor pus, et corpus in animam aliquid agere posse. Deniqu ob eamdem rationem, quod nempe anima est forma sub stantialis corporis, consequitur in una essentia animæ : tamquam in radice, facultates tum superiores, tum infei riores colligari 3. Atqui mutua facultatum colligatio in un radice expostulat, ut earum actiones sint mutuæ. Ergo 4 Necesse est, si anima est forma corporis, quod animæ, n est,mo pperæ pretium esse arbitramur rem tanU wi^declarare, firmiusque stabilire, quia æstio de pnncipio vitali in homine magna contentione ter recentes agitatur. b w"lc"one 'D' [.— Refulalur organicismus,S"fil . ^ T mechan.ca Cartesii, qui quidquid in corire fit, secundum leges motus, seu mechanicas in eo fieri rd.cus contendit, eorumque, qui hodie in Anglia e •Hia, maximeque in Germania ad leges mechanicas,'ve yires chymicas in explicanda vita corporis confugiunt «il h,c dicimus. Nam, quoniam leges mechanicæ et -es chvmicæ, uli vidimus, non mod^o brulorum, sed em infimi genens viventium, nempe plantarum onera;nes elbcere nequcunt «, liquido patet ipsas eo S icerc posse opcrationes vitales corpVis hu^mani quæ T un longe exqu.s.t.ores. Itaquc, hac sentenlia præterssa, systema, quod organkismus vocalur, in primis exadcndum nobis cst. t ""Jis ex >9. Defensores organicismi fatentur non posse sola phya, aut cbymica expl.car. omnia phænomena vitæ, quac eUtu et c ZT' V0""Ua"f,nlensum qnitnr passio in sensuali sa ;,„'," '"T con'e'"P^"one retrahuntur, vel impediuntur edund"'' 1 ' JT aCUbUS; " " COnVerSO ei viribus 'nferioribus Zu,,. suPer'orssi°ncm afficitur, •>•, De Ver., q. XXVI, a. 10 c. Cf Cosmol., c. IV, a. 1, p. 126-128, ct c. V, a. 1, p. 130 et 131. in corpore conspiciuntur, ac proinde admittunt proprietates vitales in corpore a physicis et chymicis diversas; sed cum pro certo habeant nulium phænomenum vitæ posse ab anima repeti, tuentur harum proprietatum vitalium principium, et subiectum esse ipsam materiam corporis. j Quare, secundum ipsos, principium vitale non distinguitur ab ipsa materia organorum ', sed est quædam vis insita, propriaque materiæ, et mera eius affectio 2. Hoc systema a Sociis Academiæ Parisiensis, quibus Bordeus præcessit, hodie propugnatur. Illud inter Bordeum, atque hodiernos organicistas Academiæ Parisiensis interest, j quod ille cuique organo corporis propriam vitam tnbuit s, hi vero, ut unitatem corporis, viventis sartam, tectamque faciant, unicum esse principium vitale matenæ organorum insitum pugnant. 70. la. Principium, ex quo actiones vitales promanant, est distinctum a materia corporis. Probatur. 1° Corpus humanum, perinde ac quodhbet aliud corpus, non posset ex quibusdam molecuhs, veluti partibus, constitui, nisi sit aliquod principium, quo ipsa£ congregantur, atque ad unitatem substantiæ reducuntur. alioquin corpus non esset unum per se, quale reipsa est, sed unum per accidens. Hoc præmisso, en argumentum: Illud principium, ex quo corpus constituitur, seu ex quc moleculæ in unitatem corporis coalescunt, a materia ipsius corporis distinguitur; quippe quod ipsum efficit, u moleculæ, quæ potentia corpus sunt, actu corpus fiant; asUrenS' 6 la W6> 6t de V itltelli9ence, p. I, sect. I, c. 5, irisf1862.iIlier' DU prinCl'pe Vitale' et de '• pensante, c. 3, 3 Bordeum secutus cst Fouquet, Discours surla clinique, Paris. in quolibet corpore animato inesse non solum vitam to ti corpori communem, sed etiam tot speciales vitas, quot sunt organa corporis. 1° Operationum principia, quæ ad unicum principium, tamquam sui subiectum, non redu cuntur, diversa operationum subiecta expostulant ; nam cuiuslibet generis operationum aliquod subiectum esse de bet. Quare, si tot principia vitalia in corpore animato e xisterent, quot sunt organa corporis, tot distincta, diver saque subiecta vitæ existere quoque in ipso deberent, quot sunt organa corporis; ita ut quodlibet organum es set subiectum alicuius specialis generis vitæ. Atqui quis quis noslrum experitur unicum esse in se subiectum di versarum operationum, quæ per diversa organa exercen tur. Quis enim non videt unum, idemque esse in se ipsc subiectum, quod quinque species diversas sensationum ir, se excipit, earumque differentias sentit, quod imagiua-, tur, quod corpus movet, quod, ne plura dicamus, respi rat, alimenta digerit, aliaque opera vitæ exercet? f Fal sum igitur est tot esse in corpore nostro principia opera tionum vilalium, quot sunt organa eiusdem corporis J 2° Inter plura principia, quorum unumquodque pro prias operationes habet, in iisque exerendis ab alio prin cipio non pendet, non alia unio, quam accidentalis, ess potest. Quare, si singula organa non tantum exerceren quasdam speciales functiones eiusdem principii vitalis quo ipsa informantur, sed unumquodque ipsorum pro prium principium vitæ haberet, corpus, quod ex ipsi componitur, esset totum per accidens, non vero per se Atqui, secundum omnes et philosophos, et physiologos, e iusmodi consensus, sive harmonia inter cuncta corpori organa existit, ut ex ipsis corpus unum totum per se, e quodammodo unum organum efficiatur. Ergo pro cert Cf s. Aug., Conf., lib. X, c. 7, n. 11. 2 S. Thomas hoc argumentum ex natura zoophytorum perbellei lustravit. Constat enim inter omnes, cum zoophytum in partes div ditur, quamlibet partem diversas exercere operationes animæ, se principii sentientis, et vegetantis, quo corpus zoophyti animatur. A qui hoc evenire non posset, si quodlibet organum animalis propric operationes per principium vitale diversum a principiis vitalibi reliquorum organorum exerceret. Ergo in corpore animato unui principium vitale cunctis organis commune, non vero diversa pi diversis organis admittenda sunt. Cf I, q. LXXVI, a. 3 c. babendum cst singula organa corporis non gaudere proprio pnncipio vitæ, sed dumtaxat exercere speciales fun:tiones umus eiusdemque principii vitalis, quod totum corpus mformat. Vitalismu3 irapugaatur, siraulqje animismus asseritur 72. Postquam vidimus vitam corporis non esse repetenlam a legibus mechanicis, et cbymicis, sed a quodam prin•ipio actuoso speciali, quod vitale dicitur; atque hoc prin:ipium vitale non esse vim insitam, propriamque materiæ, 5t meram eius aflectionem, sed esse principium, quod ab >rganorum materia distinguitur; inquirere debemus, utrum stud principium vitale distinctum a materia organorum sit psa anima rationalis, an tertium principium, a corpore, )ennde ac ab anima rationali, diversum. 73. Iam inter Philosophos antiquos disputatum est, urum in homine sit unica anima, (qua ipse intelligit, senit, et vegetat, an duæ, quarum una intelligit, altera auem sentit, et vegetat, an tres, quarum una intelligit, alera sentit, tertia denique vegetat. In philosophia recenti thalius acriter vehementerque reprehendit diversas eoum theonas, qui, præter animam intelligentem, alias T ^m?/1!?1^ et seniientem n homine posuerunt2. Sæulus XVIII Buffonus, Gassendi 3 vestigiis insistens, ex puna, quæ mter sensum, et rationem existit, unicum utriusue pnncip.um, et subiectum esse non posse contendit, t ideo in unoquoque individuo humano veluti duplicem ominem agnoscendum esse decrevit . At, exeunte sæcu t Bordeus etiam in eo erravit, quod unumquodque principium itæ sive unumquodque corporis organum propria sensibilitate gauere decrevit. Hunc errorem iam s. Augustinus reprobavit, qui aif Vun sent.endi non habet vita quælibet (De Gen. ad litt. Lib. V,''' c' V n-/4) Sane non omnes operationes animalis, ut ^Thonias advert.t salvantur in qualibet parte eius, maiime in nimal.bus perfect.s (Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 10 ad 7) uare, ets. quidquid est sensibile, sit vitale, tamen vera non est ropos.t.o conversa, quidquid est vitale, est sensibile. edJaZta TdiclZra^PhyS'> paSsim; P^ænesii ad aliena a re edica arcendum, § 39; Disquis. de mechan., et organ. etc, § 69 sqq. 3 Physic, sect. III, Membr. poster., lib. III c 4 Discours sur la nature des animaux. Hominem duplicem Buf A lo XVIII, et ineunte sæculo XIX, controversia de uni tate principii in homine vehementer exarsit, atque in u tramque partem maximo animorum æstu inter Philoso phos, Medicos, ipsosque Theologos adhuc agitatur. Omnet ii, qui cum Aristotele, Ecclesiæ Scriptoribus, Scholasti cis !, et Sthalio tuentur animam rationalem esse princi pium omnium phænomenorum vitæ, ita ut nullum aliuc principium vitæ, præter ipsam, in homine sit agnoscen du m, Animistæ vocantur. li autem, qui duce Barthezio sentiunt, præter animam rationalem, et corpus, esse ii homine principium vitæ ab ipsis distinctum, quod es omnium phænomenorum vitalium corporis principium vocantur Vitalistæ. 74. Una in homine est animd, nempe rationalis quæ est principium cunctarum eius operationum. Prohatur. 1° Ab eodem, ut verba s. Thomæ usurpemus res habet, quod sit ensy et quod sit una, nam ens, et unun convertuntur 3. Hinc, cum quælibet res per formam ha' beat, quod sit ens, per formam quoque habet, quod si una. Itaque res non potest esse per se, seu simplicita una, nisi per unam formam ; ac proinde si in homim non esset unum principium formale, quod intelligit, sen tit, et vegetat, sed vel tria, nempe intellectivum, sensiti vum, et vegetativum, vel duo, ut ii volunt, qui vim sen tiendi principio intellectivo, aut vegetativo adscribunt homo non simpliciter unus, sed multiplex esset. Atqu quilibet homo est per se unus . Ergo unum debet esse ii homine principium formale, proindeque una anima, sei unum principium vitæ b. foni non sine aliqua laude Condillachus ( Traitt des animaux part. I, c. 3) confutavit. Ab iis excipiendus est Guil. Ockamus, qui, sicut multa alia ita hoc quoque philosophiæ Scholasticæ caput impugnavit, duaJ que in homine animas admisit. Cf Quodlib. II, q. 10, et 11. 2 Nouveaux tUmens de la science de Vhomme, 2e ed. Paris 1806 3 Cf OntoL, c. III, a. i, p. 18. 4 Id omnes Vitalistæ, si fortasse perpaucos exceperis, saltem verb fatentur. Nec aliter sentire illi dicendi sunt, qui hominem cum Bui fono duplicant; hi enim unitatem hominis non negant, sed durata xat duplex esse in eo principium operationum sibi volunt. s I, q. LXXVI, a. 3 c. Ex quo vides hominem, si essent in e plures animæ, non unum vivens, sed coacervationem viventium ft 2° Quæ attribuuntur alicui eidem secundum diversas formas, prædicantur de se invicem per accidens . E. g., esse musicum, et esse album, quæ sunt diversæ formæ in Socrate, de se nonnisi per accidens possunt invicem prædicari; quia quandoque re ipsa evenit, ut ille, qui est musicus, sit etiam albus, et ille, qui est albus, sit etiam musicus ; at simpliciter, seu per se non potest unum de altero prædicari, quia essentia, sive, ut aiunt, notio unius alia est, ac notio alterius. Quapropter, si esse vivens^ animal, homo, tamquam diversæ formæ cuilibet bomini inessent, esse vivens in homine non posset prædi:ari per se de animali, nec animal posset prædicari per le dc homine. Atqui consequens cst absurdum; quia ho110, secundum quod est homo, est animal, et secundum juod est animal, est vivum . Ergo ab eodem principio iliquid est animal, homo et vivum 2 . 3° Anima rationalis, ut diximus, est in homine huiusnodi forma, ut perfectiones ceterarum rerum mundi adpeclabilis adunatas in uno principio contineat, ac proinle ipsa sola per se præslat ea omnia, quæ tum forma prporis inanimati, tum animæ vegetabilis, et belluina iræstant 3. Ergo unica est in homine anima, sive unicum •rincipium intelligendi, sentiendi, ac vegetandi. Ad hoc llustrandum excmpla numerorum, et figurarum optimo onsilio afferuntur 4. Etenim numeri variantur per addi }. Neque dicas cum Jouffroyo plures animas, quippe quæ ab se inicem pendent, inter se consociari, atque inde unitatem hominis efci. Nam consociatio principiorum substantialium, quocumque modo en dicatur, hominem per se, et simpliciter unum efficere nequit. Et ine, consociatio plurium principiorum substantialium, seu formaim, non aliam, quam ordinis unitatem, producit, quia plura prinpia substantialia non aliter inter se consociari possunt, quam quod Qum habet ordinem ad alterum. Atqui unitas ordinis, ut s. Thoas scite advertit, est minima unitatum (Contr. Gent., lib. H, c. 58, . 2). Ergo si plures animæ in homine esse dicantur, unitas hoinis ex illarum consociatione ellici nequit. Contr. Gent., ibid., n. 1.-2 ] q. LXXV, a. 3 c. ' Cf p. 192-193, Cf s. Thom., Qq. dispp.,q. un. De Sp. cr.,a. 3 c. Aliud argumenim s{inctus Doctor conficit ex eo, quod facultates hominis in suis :tioml)usimpedimento sunt, ita ut quo magis una intcnditur, altera mittatur, id quod explicari non posset, nisi dicatur unam esse aniam,quæ sitillarum facultatum principium; Contr. Gent., ibid.,n.7. tionem, aut subtractionem unitatis, ita quidem, ut numerus superior numerum inferiorem contineat. Diversæ quoque species figurarum ita inter se comparantur, ut una alteram contineat, e. g., pentagonum continet tetragonum, et tetragonum trigonum. Iam sicut numerus superior, e. g. denarius, non per alium numerum est novenarius, auli octavus, et per alium denarius; atque pentagonus non pei aliam figuram est tetragonus, per aliam trigonus, et pei aliam pentagonus; ita homo non habet per aliam animaur esse rationale, per aliam esse sensitivum, per aliam esse vegetativum, sed his omnibus per unicam animam gaudet. Neque dicas operationes vegetativas, sensitivas, et ifl tellectivas, quippe quæ ab se natura differunt, ab una, eademque anima produci non posse. Nam anima humana a causis naturalibus in eo potissimum discriminatur, quod istæ, cum unica vi operandi polleant, nonnisi eiusderc naturæ effectus producere possunt; illa autem, cum habeai plures facultates, quæ sunt principia proxima operationum, diversos effectus per eas producere potest. 4° Accedit communis hominum consensio. Sane nos au dimus quemlibet e plebe dicentem non solum: Ego intel ligo, sed etiam, Ego sentio ; et non solum, Ego intelligo et sentio, sed etiam, Ego nulrior, Ego augesco, Ego prolem generOj necnon, Ego deambulo l. Atqui hæ, aliæquc communes locutiones, quæ communis modi cogitand signa sunt, persuasionem hominum vel plebeiorum dt unitate principii vitalis denotant; nam si aliud esset prin cipium substantiale, quod intelligit, aliud vero, quoc sentit, et vegetat, unumquodque illorum principiorun substantialium operationes proprias, alterique haud com munes haberet, proindeque non possent eidem subiectc omnes illæ operationes adscribi. Ergo ex communi homr num persuasione confirmatur unum esse principium substantiale, quod intelligit, vult, sentit, de loco in locun se movet, operationesque vegetandi exercet. 5° Denique si principium vitale, præter animam rationalem, in homine admilteretur, ipsum aut materiale, aul immateriale esse deberet. Atqui neutrius generis esse potest. Nam si materiale esse dicitur 2, illud absurdum con * Cf Gerdy, Physiologie des sensations, et de V intelligence, p. 8 Paris 1846. 2 Ita sentiuDt Gassendius, Buffoous, et Martinus. ;equitur, quod nempe materia, cum sit vilæ expers, viilam corpori ln homine largiatur. Sin immateriale ', illud ijuod etiam ialsum est, consequitur, nempe principium /itale, dissoluto corpore, manere, ipsumque non esse corfuptioni obnoxium. Etenim, secundum Vitalistas, principium vitale est diversum a principio, quo corpus homiiis, vel cuiuslibetanimahs in specie corporis constituitur. |rgo corpus hominis, vel cuiuscumque animalis posset Iissolvi, qum pnncipium vitale dissolvatur ; immo non >osset pnncipium vitale cum dissolutione corporis dissolvi, luia esse unius ab esse alterius non pendet, atque illud >perationes habet, quæ huic, prout corpus est, non coneniunt. 75. Illud autem omittendum non est, Philosophum Chritianum dubitare non posse, quin anima rationalis sit uni:um pnncipium omnmm operationum hominis. Nam in )nmis, hæc theoria est merum corollarium illius doctrilæ, qua traditur, animam rationalem esse formam subtantialem corporis; siquidem, cum forma sit in qualibet •e non modo pnncipium rol esse, sed etiam 7oz> operari, dem est dicere, Antma rationalis est forma substantialis orporis, ac Anima rationalis est principium cunctarum oyatxonum corporis. Insuper, Ecclesia in Concilio Constaninopohlano IV duas animas in homine ponentes anatheoate confec.t 2; atque Pius Pp. IX ipsam animam ratiolalem esse pnncipium operationum vegetativarum adverus 15altzerum aperte declaravit 3. Pro immaterialitate principii vitalis stant Arhens, Ubaghs, Ma alhæns, alnque non pauci. ° ' J Veteri et novo Testamento unam animam, rationalem, et intel ctivam, habere hominem docente, et omnibus deiloquiis Patribns et agistns EccJesiæ eamdem opinionem asseverantibus, in tantum im etat.s qu,dam malorum inventionibus dantes operam devenerunt, t duas eum habere ammas impudenter dogmatizare, et quibusdam rat.onalibus conatibus per sapientiam, quæ stulta facta est, pro r lain hæres.m confirmare prætendant. Itaque hæc sancta et uni ersai.s Synodus, veluti quoddam pessimum zizanium, nunc germi anten, nequam opinioncm evelJere fcstinans. . ., talis imp"etatis ventores et patratores, et his similia sentientes magna voce ana lematizat ; Act. VIII, can. II. G ' Nototum præterea est, inquit Summus Pontifex, Baltzerum in nrnnl0 1,.fc,,0.tu!n10mncm controversiam ad hoc revocasset, sitne Prpor, vitæ pnncipium proprium ab anima rationali re ipsa discre Vitalistarum argumenta refutantur 76. Obiic. 1° Nihil sibi polest adversari. Atqui in homine appetitus rationalis curii appetitu sensitivo pugnat. Ergo in homine non est admittendum unum principiucc operationum, sed duplex, sive, ut Buffonus ait, duplea homo. 77. Resp. Dist. mai. Nihil sibi adversari potest secundum idem, conc. mai., secundum diversa, neg. mai., sul eadem dist. conc, et neg. min. Neg. cons. Sane, primo pugna, quæ inter actus appetitus sensitivi et intellectiv in homine quandoque existit, animismo non opponitur Etenim opposita, s. Thomas ait, prædicari de eoden secundum idem est impossibile, sed secundum diversj. nihil prohibet ; quippe quod ratio veræ oppositionis ut sæpe diximus, expostulat ut non solum idem de eo dem, sed etiam secundum idem prædicetur. Atqui actu appetitus rationalis, et actus appetitus sensitivi sibi noi opponuntur secundum idem, sed secundum diversa, nempt secundum diversos modos, quibus obiectum apprehendi tur ; siquidem experientia compertum cuique est actu appetitus sensitivi cum actibus appetitus rationalis pu gnare, quoties aut sensus apprehendit velut delectabile jl lud, quod ratio vetat, vel apprehendit velut triste illud quod ratio præcipit. Nihil igitur vetat, quominus appe titus sensitivus, et rationalis eidem subiecto inhæreant eorumque actus eidem subiecto, nempe animæ, tribuan tur. Accedit quod hæc ipsa oppositio, quam inter actu appetilus sensitivi, et actus appetitus rationalis exister diximus, nonnisi accidentalis est; nam ipsa ex eo oritur tum, eo temeritatis progressum esse, ut oppositam sententiam e appellaret hæreticam et pro tali habendam esse multis verbis ar gueret. Quod quidem non possumus non vehementer improbare considerantes, hanc sententiam, quæ unum in homine ponit vita principium, animam scilicet rationalem, a qua corpus quoque et mo' tum et vitam omnem et sensum accipiat, in Dei Ecclesia esse com munissimam, atque Doctoribus plerisque, et probatissimis quidei maxime, cum Ecclesiæ dogmate ita videri coniunctam, ut huiu sit legitima solaque vera interpretatio, nec proinde sine errore i fide possit negari . Videsis Ephem. La Scienza e La Fede, vol. XI. p. 378 sq; nec non voll. XXXIII, p. 186 sqq, 284 sqq, 399; XXXIV 263 sqq, Napoli 1857, 1860. III, q. XVI, a. 4 ad 1. uod interdum actus appetitus sensitivi sunt adeo vehelientes, ut rationem ad se trahere conentur '. At ipsi naira sua ad actus appetitus rationalis ordinem habent, ac 'roinde non solum rationi subduntur, sed etiam libertais voluntatis quodammodo participes sunt2. I 78. Secundo, pugna inter actus appetitus sensitivi, atue actus appetitus rationalis animismo favet. Revera, um appetitus sensitivus in homine contra rationem inurgit, homo sive secundum ipsum, sive contra ipsum a!at, unum actum humanum exerit, qui principium ha[et in ipso appetitu, et terminum in ratione 3 ; isque 'ctus dicitur vitiosus, si fit contra rationem, honestus, l fit secundum rationem. Atqui non posset unus actus umanus ex utroque appetitu exurgere, nisi unicum esset triusque subiectum ; quippe quod si aliud esset subrctum appetitus sensitivi, aliud subicctum appetitus raonalis, unus appetitus posset quidem in alterum agere, ;d ambo appetitus unum actum exerere non possent. Ergo ugna, quæ inter actus utriusque appetitus in homine )nspicitur, unitatem principii vitalis in homine arguit; ntum abest, ut ipsi adversetur. 79. Obiic. 2° Homo potest usu intelligentiæ carere, quin tam amittat. Atqui id demonstrat aliud in homine esse rincipium intelligentiæ, aliud principium vitæ. Ergo. 80. Resp. Conc. mai.; neg. min. Neg. cons. Re quidem ^ra, homo vivit, quamdiu anima cum corpore coniunitur, quia, uti ostensum est, anima ex eo, quod corpus itbrmat, vitam ipsi largitur. Atqui anima, aiente Aquiate, non unitur corpori ut forma mediantibus suis potenis, sed per essentiam suam . Ergo nihil vetat, quomias anima cum corpore unialur, atque homo ob hanc u onem vivat, quin usum alicuius suæ facultatis habeat5. Dicendum, quod potentiæ animæ non se habcnt con irtibiliter cum essentia: quamvis enim nulla potentia 4 Cf Dynam., c. V, a. 2, p. 165-166, vol. I. Cf ibid. 3 l 2æ, q. LIX, a. 2 c. Qq. dispp., De Ver., q. XIII, a. 4 c. J Alicuius facultatis, inquimus, non vero omnium, quia, cum vi'Otia non sint, nisi quæ se agunt ad operationem, homo, quamdiu vivit, usu omnium suarum facultatum irere nequit. animæ possit esse sine essentia, tamen essentia animæ potest esse sine quibusdam potentiis, puta sine visu, et auditu, propter corruptionem organorum, quorum huiusmodi potentiæ proprie sunt actus . Quomodo autem possit homo usu intelligentiæ carere, quin vitam amittat, facile explicatur. Gerte, homo usum intelligentiæ amittere potest; nam, cum intellectus sine phantasmatis in hac vita nihil intelligere possit, imaginatione, aliisque facultatibus, quæ intelligentiæ inserviunt, turbatis, usus intelligentiæ, vel minuitur, vel omnino cessat2. At, cessante usu intelligentiæ, non idcirco cessat vita, quia cessatio intelligentiæ secum non fert cessationem facultatum vegetandi, per quas vita animalis existit. Et sane, perturbato, vel prorsus cessante usu alicuius facultatis, non aliæ facultates inde perturbantur, aut cessant, quam quæ sine illa actiones suas exerere nequeunt. Atqui facultates vegetandi, quæ ad vitam animalis pertinent, sine usu facultatis intelligendi operationes suas exerere possunt. Ergo, cessante usu intelligentiæ, necesse non est, ut vita quoque cesset. 81. Obiic 3° Notum omnibus est in cadavere animalis. si qua scintilla electrica extremas partes nervorum percellit, motus contractilitatis in musculis produci ; ac in capitibus recisis, vel membris amputatis motus contractilitatis aliquandiu perdurare. Atqui huiusmodi motus in cadavere, et in membris corporis amputatis evenire non possent, si anima esset principium vitæ corporis; quippe quod illi motus sunt vitales: in membris autem amputatis, et in cadavere anima non est. Ergo anima non esl principium vitæ corporis. 82. Resp. Conc. mai.; neg. min. Neg. cons. Falsum esl motus contractilitatis, qui in cadavere, et in membris corporis recisis, aut amputatis observantur, esse actus vitales. Primo, nihil vetat, quin aliquod principium actuosum physicum, aut chymicum in musculis corporis nonnullos motus producat Illis similes, quos, dum animal vivit, anima in ipsis producit; propterea quod organa in cadavere non corrumpuntur illico, sed integra aliquandiu perdurant. Verum illi motus non sunt actus vitæ, sed operationee i Qq. dispp., De Virtut., q. V, a. 2 ad 17. 2 Cf s. Thom., Contr. Gent. ocre physicæ, quia non proficiscuntur a principio ipsi adaveri insito, sed in cadavere a principio, quod positum xtra ipsum est, excitantur. Secundo, motus contractiliatis, qui in membris corporis recisis, aut in cadavere nimalis yiolenta, subitaque morte perculsi observantur, on ab alia causa repetendi sunt, nisi ab actione, quam irincipium vitac ante mortem animalis in musculis exeuit. Nam, quoties animal morte violenta afficitur, aut liquo membro per violentiam privatur, necesse est in adavere, aut in membro reciso motus, quos anima iam i musculis produxerat, non illico cessare, perinde ac horda pollice icta, digito amoto, non continuo vibrare esistit. Quapropter ne hi quidem motus contractilitatis unt veri actus vitæ. CAPVT V. De sede animæ I. — Philosophorurn diversæ opiniones recensentur 83. Mirum quot circa sedem animæ veleres Philosophi rotulerint sententias 1. Ut præcipuas innuamus, Plato nimæ sedem in capite locavit. Aristoteles, cum animam >rmam substantialem corporis esse docuerit, eam singus partibus arcto nexu coniunxit. Sloici animam rationam in corde præcipuum locum obtinere, alque inde per ;Iiquas corporis partes se protendere opinati sunt 2. De Cf Plut., De plac. PhiL, lib. IV, c. 5. 2 Hic abs re non erit adnotare testimoniis ss. Scripturarum, et Paom cos maxime abuti, qui sententiam Ghristianorum huic stoicæ millimam probant. Nam aliquam affinitatem inter hanc de sede aniæ opinionem, et illa verba sive quæ leguntur ad Rom., c. X, v. 10, •rde creditur ad iustitiam, sive quæ Act., c. I, v. 24, et c. XV, v. 8, ; Deo cordium scrutatore, et quæ alibi similia sunt, nemo umlam Scripturarum interpres vidit, nec videre poterat; quoniam lec, aliaque ad internos animi sensus, afFectionesque significanis dicta fuisse cuique perlegenti faciliter occurrit. Item, ss. Pæs, si cor aliquando veluti animi sedem constituunt, id docuent, ut cor principium alFectuum esse innuerent, atque Platoni obam irent, qui omnes animi affectus a cerebro oriri senserat. Satis t verba profcrre, quæ s. Hieronymus adhibet, nempe: Est prinpale non secundum Platonera in cercbro, sed iuxta Christum in •rde ; Comm. in Ev. Matth., lib. II, c. 15. nique nemo est, qui negat Epicurum animam posuisse ii pectore, seu, ut Tertullianus inquit, in tota lorica pectoris1 84. Quod spectat ad Ecclesiæ Patres, ferme omnes A ristotelem hac in re sequuntur. Audiatur præ ceteris s. Au gustinus. Anima, inquit, non modo universæ moli cor poris sui, sed etiam unicuique particulæ illius tota simu adest2 . Hanc s. Augustini, aliorumque Patrum senten tiam Doctores Scholastici pro virili parte defenderunt. Si quidem cum anima iuxta sapientes illos forma substan tialis corporis sit, nec nisi una forma substantialis in cor pore uno esse queat, profecto illam in toto corpore, e in singulis eius partibus esse necessario consequitur. Quo niam vero anima una est essentia, multiplex virtute, Scho lastici illam in toto corpore, et in singulis eius partibu reperiri totalitate essentiæ, non totalitate virtutis conten dunt; nam anima in singulis corporis partibus non eas dem operationes peragit, sed in aliquibus vegetat, senti in aliis. 85. Quod si hæc theoria de sede animæ alteram dit, ac proinde ita immediale forma subslantialis cum mæria coniungitur, ut nihil magis . Ergo, si anima est clus tolius corporis, et non unius partis tantum, ipsa imoediate in toto corpore, et non in aliqua eius parte tanum esse debet. Ex quo argumento illud consequitur, quod i anima in una parte corporis ponerelur, non esset actus olius corporis organici, sed unius organi tantum, puta ordis, aut alicuius alterius, et reliquæ partes essent per[ectæ per alias formas 5; unde una anima in uno corpore on esset. 89. Probatur altera pars. 1° Principium illud, quod percit totum, et non partes, forma accidentalis esl, uti se es habet in forma domus, quæ est forma tolius, et non lngularum parlium. Atqui anima est corporis forma non ccidentalis, sed substantialis. Ergo (( sic anima est forna totius corporis, quod est eliam forma singularum par Antropol. in serv. della scienza morale, lib. II c. 7 a. 1 S S oroll. II. "> 1 Anirna, inquit s. Augustinus, totum corpus nostrum anirnat, t vivificat ; De agone christiano, c. XX, n. 22. 5 Cont. Gent., lib. II, c. 72. - Cf Cosmol., c. I, a. 5, p. 104. Qq. dispp., q. un., De Anim., a. 10 c. Philos. Curist. Compend. II." 15 a tium, ac proinde singulis partibus corporis adesse debet f 2° lioc argamentum ex eo amplius declaratur, quod si gulæ partes corporis ab anima speciem sortiuntur, hum næque appellantur, ita ut anima sit actus singularum pa tium corporis. Atqui actus, seu forma est in eo, cuius c actus. Ergo anima in qualibet corporis parle est 2. Exi de etiam intelligitur ab iis philosophis, qui animam in c pite, vel corde collocant, explicari non posse, quomodo nima, ibi suam sedem habens, singulis partibus sui co poris speciem communicet; nam anima principium spec ficum partium corporis esse non posset, nisi ipsis ita intri sece præsens sit, ut una cum illis completam substa tiam constituat. 3° Nobis non licet spiritibus locum præfinire, nisi ; illorum operationibus 3. Atqui anima operatur in singul corporis partibus, et quiclem immediate. Ergo anima singulis corporis partibus esse dicenda est. Minor proba potest ex eo quod in sensationibus evenit. Et sane, unu quisque experitur sensationes in illo puncto corporis fi ri, cui revera accidunt ab obiectis sensilibus. E. g., quis manum igni admoveal, profecto caloris sensatione in manu sentit, quin totum brachium, vel cerebrum v alia corporis pars sit adusta . Atqui hoc esset falsum, concipiatur anima uni parti præesse, ab iilaque motus corpore ciere. Ergo anima immediate in singulis corpre, ut continens, et non ut contenta 3 . Ergo ex eo, lod anima est simplex, ac proinde non est circumscripta co, pronum est intelligere eam esse lotam in singulis rporis partibus \ 91. ld magis perspicuum ex eo fit, quod anima est simex, quatenus extra genus quantitatis constituitur, non ro ad modum simplicitatis puncti \ Sane, ea, quæ sunt 1 illud tota sentit anima, quod in particula fit pedis, et ibi tann sentit, ubi fit ; De immort. anim., loc. cit. ! Cap. X, a. 1, p. 7(>-77. 2 I, q. LH, a. 1 c. 1 Ibid. Cf s. Damasc, De Fide orth., lib. I, c. 13. J Has rationes, quibus explicavimus quomodo anima tota in sinlis corporis partibus esse possit, nos docuit Nemesius his paucis: inima, quod corporis est expers, ncque loco definitur, tota per um et Iumen suum, et corpus permeat ; De nat. hom., c. III. c spectat etiam illud FIDANZA: Quia simplex, non est undum partcm et partem sui. non habet situm, et idco nec in puncto, nec in parte determinata ; In lib. I Sent., Dist. VIII, 2, a. 1, q. 3 in resol. ' Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 10 ad 18. simplicia ad modum simplicitatis puncti, cum habeant e| terminatum silum in continuo, non possunt esse simul diversis partibus continui: e contrario, substantiæ, qu sunt simplices, quatenus extra genus quantitatis cons luuntur, non sunt in loco per contactum proprie diclui^ quippe quia hoc genus tactus nonnisi corporum est1, s per contactum, quem vocant virtutisz. Hoc posito, tacl virtutis ab uno, vel pluribus locis non discriminati prout hæc quantitative differunt; sed ab ipsa virlule, q subslantiæ simplices in corpora agunt, fit ut ipsæ I uno, vel pluribus locis simul sint 3, dummodo earum v tus ad hæc porrigatur. Atqui, cum anima sit simple tactus, quo ea cum corpore coniungitur, est tactus virt tis. Ergo ex simplieitate animæ explicatur, quomodo ip in pluribus partibus corporis tota simul esse possit. 92. Ex his, quæ demonstravimus, plane consequitur ai mam non esse totam in toto corpore secundum quantit tem, sed secundum essentiæ perfectionem. Sane totalitas s cundum quantitatem nonnisi quibusdam formis imperf ctis, atque insuper his nonnisi per accidens, ratione extem quod informant, convenit 5; id quod de anima, quæ a cc Sunt enim tangentia, quorum ultima sunt simul, et punc, vel lineæ, aut superficies, quæ sunt corporum ultima ; Con Gent., lib. II, c. 56. z Agunt enim substantiæ intellectuales in corpora, et mov( ea, cum sint immateriales, et magis in actu existentes; hic auttam suam essentiam sunt in qualibet parte materiæ, )tiori iure id de anima tenendum est . 93. 3a. Anima in singulis partibus corporis non t tota secundum totam suam virtutem. Probatur. Operationes sensitivæ, et vegetativæ per diirsa organa corporis exercentur, ita ut diversæ partes >rporis conveniant diversis operationibus animæ. Ergo lima secundum illam potentiam tantum est io aliqua par-, quæ respicit ad operationem, quæ per illam partem ►rporis exercetur. E. g., anima est, secundum visum oculo, secundum audilum in aurc, et sic de aliis 3 . III. — AdYersariorum obiectiones diluuntur 94. Obiic. 1° Compressa, vel putrefacta medulla cere•i, atque laborante cerebro, vel nervo inter organum nsorium, et cerebrum, sensationes omnino deficiunt. tqui hæc demonstrant sensationes exerceri in cerebro, ; proinde animam non nisi in cerebro esse. Ergo. 95. Resp. Neg. min. quoad utramque partem. Re qui;m vera, in primis, ex allatis experimentis illud, quod m oslendimus, sensationes nempe in singulis organis ;ri, haud evertitur. Etenim opportuna eorum phænome>rum ratio ex eo reddilur, quod cum cerebrum sit veti centrum totius systematis nervei, quin immo princium, a quo omnes nascuntur ncrvi, qui sensationi inserunt, profecto nervi sensifici tunc propriam naturam re(icbunl, si et suam cerebrum retinuerit; ac proinde si nnprimitur, aut putrefit medulla cerebri, vel cerebrum borat, nervi naturam sensiferam amittunt, atque funcliotm referendi impressionem sensilem obire nequeunt. Ce visione continui,sicut albcdo perdivisionem superficiei; Qq.dispp., un. De Anim., a. 4 c. Cf Cosmol., c. V, a. 4, p. 139 sqq. 1 Cf s. Bonav., In lib. I Sent., Dist. VIII, p. 2, a. 1, q. 3 ad arg. 1 Quod spectat ad virtutes intellectivas, has, utpote nullo organo entes, nusquam corporis esse diccndum est. Potcntiarum aniæ quædam sunt in ea, secundum quod eicedit totam capacitam corporis, scilicet intellectus et voluntas; unde buiusmodi poten>e in nulla parte corporis esse dicuntur ; I, q. LXXVI, a. 8 ad 4. 8 I, q. LXXVI, a. 8 c. terum, allata obiectio in ipsos adversarios retorqueri potest. Nam, quemadmodum, corrupto cerebro, sensatio deficit, ita hanc, corruptis organis, deficere eadem experienlia testalur. Quocirca, si ex adversariorum obiectione sequitur sensationes in cerebro perfici, pari ratione ab hac ultima testata experientia inferre nobis licet sensationes in organis fieri. 96. Secundo, præter vim sentiendi anima aliis virtutibus pollet, quas per alias corporis partes exercel. Quapropter si experimenta ab adversariis in medium prolata quid valerent,' animam in cerebro secundum totam virtutem sensilivam esse demonstrarent , sed inibi tanlum ipsam residere numquam probabunt. 97. Obiic. 2° Anima est in eo corpore, cuius est actus, hoc est in corpore organico. Atqui quælibet pars corporis non est corpus organicum. Ergo. 98. Resp. Dist. mai., ita ut non sit in parlibus corporis organici primo, et per se, conc. mai., ita ut non sit in eis, prout ad tolum referuntur, neg. mai. Eadem ratione dist. min., quælibet pars corporis non est corpus organicum, sed tamen ad illud ordinatur, conc. min., secus, neg. min. Neg. cons. Anima humana, quippe quæ ceteris formis superior est, ea virtutis perfectione pollet, ut diversas exerere possit operationes; et ideo corpus, quod anima informat, diversis organis inslructum esse debet, ut per hæc ad diversas operationes exercendas idoneum efficiatur2. Quapropter nonnisi totum corpus, quod nempe ex diversis organis constiluitur, est proprie, sive prtncipaliter el per se illud, quod ab anima informatur. At vero, quia partes habent ordinem ad lotum, consequilur mimam, quæ est forma totius corporis, ac proinde est in toto corpore, esse etiam formam singularum partium, ideoque in his singulis residere 3. 1 Alienum a veritate prorsus non est animam in cerebro esse secundum totam virtutem sensitivam, non quod in cerebro omnia sensilium genere sentiat, sed quia, ut in Dynam. (c. III, a. 7, p. 124 vol. I) diximus, encephalum, sive systema cerebro-spinale est organum sensus communis, qui velut aliquis fons totam virtutem sensitivam continet, ab eoque reliqui sensus, tamquam rivuli, deducuntur 2 Qq. dispp., q. un. De spir. creat., a. 4 c. 3 Corpus organicum est perfectibile ab anima primo, et per se, singula autem organa, et organorum partes in ordine ad totum ; 99. Obiic. 3° Si anima in qualibet parte corporis est, crescentibus partibus corporis, anima, ut esse possit ubi jprius non erat, iterum creetur oportet ; et, a blata qua cunique corporis parte, vel illinc excedit anima, vel com>migrat ex illa parle in alias. Atqui falsum consequens. ! Ergo et antecedens. 100. Resp. Neg. mai. Et sane, quod spectat ad primum, illa iterala creatio non exposlulatur ; nam, crescentibus parlibus corporis, anima non proprie incipit esse, ubi prius non erat, sed, ciim sit forma corporis secundum cssenliam, crescentibus huius partibus, anima eas vivificare incipit !. Quod attinet ad alterum, dicendum, s. Thomas inquit, quod, præcisa parte, non requiritur quod auferalur anima, vel quod ad aliam partem transmutetur, Jnisi poneretur, quod in illa sola parte anima esset, sed sequilur quod illa pars desinat perfici ab anima totius 2. 101. Obiic. 4° Nihil eius, quod est totum in aliquo loco, ipotest esse ultra locum illum. Atqui in una parte cor:poris anima est tota. Ergo nihil animac in ceteris corpo ris partibus esse polest. 102. Resp. Dist. mai., si agatur de toto secundum quantitatem, conc. mai., si de toto secundum essentiam, neg. \mai.\ dist. ctiam min.: est tota secundum essentiam, conc. min., secundum quantilatem, neg. min. Neg. cons. Equidem illud, quod habet parles extra partes, ita est in aliquo, ut quælibet pars eius respondeat parti eius, in quo est; proindeque si sit totum in aliquo, nequit esse in alio. j At e contrario, anima, ut diximus, ideo est tota in qualibet parte corporis, quia simplex est, et loco non circumscri Op. cit., loc. cit. ad 13. Exinde duo facile intelliguntur. Primum est, quod etsi anima sit in qualibet parte corporis, tamen non singulæ partes corporis sunt animal. Anima non est in qualibet parte corporis primo, et per se, sed in ordine ad totum, et ideo non quælibet pars animalis est animal {Ibid. ad 2). Alterum est, quod anima, cum sit in singulis corpons partibus, in pluribus locis non est. Etenim eo modo anima est in singulis corporis partibus, quo ad eas veluti forma comparatur. Atqui forma comparatur ad partes per posterius, secundum quod partes habent ordinem ad totum (I, q. LXXVI, a. 8 c). Ergo ex eo, quod anima in singulis partibus est, in pluribus locis eam esse perperam infertur. Gf p. 228, not. 4. 1 Qq. dispp., q. un. De Anitn., a. 10 ad 17. 2 Op. cit., q. un. De spir. creat., a. 4 ad 15. bitur; proindeque est tota non secundum quantitatem, seu aliquam totalitatem partium, sed secundum essentiam, seu perfectionem guæ naturæ '. lam, cum anima sit secundum essenliam tota in una parte corporis, profecto nihil animæ est extra animam, quæ est in hac parte corporis; non tamen sequitur, quod animæ nihil sit extra hanc partem corporis; sed quod nihil sit extra totum corpus, quod principaliter perficit 2. De essentia animæ humanæ Discrimen inter animam, et corpus in præsenti pro certo sumentes, hæc circa animæ humanæ essentiam inquirimus: 1° an ad genus substanliæ pertineat; 2° quænam eius definitio sit ; 3° quid de illorum sententia dicendum, qui essentiam animæ humanæ in cogitatione, vel in cogitandi vi constituunt. I. — Subslantialilas aniraæ eonlra Sensistas yindicatur 103. Humius 8, et Condillachus , secundum Lockii placita 5, animam non substantiam, sed quamdam affectionum complexionem esse contendunt. Qua in re Protagoram, veteresque Sensistas secuti sunt, qui animam non aliud esse, quam sensaliones asseruerunt. 104. Anima humana est quædam substantia. Probatur. Anima in re viventi contrarias qualitates ad concentum redactas conservat, et pugnantes organorum affectiones, ne se mutuo perimant, rata lege cohibet, et denique tam diversa munia tanto ordine, et consensu administrat ]. Atqui ea forma, cuius merito, ac beneficio hæc omnia perficiuntur, accidentalis esse non polest, sed 1 In lib. I Sent., Dist. VIII, q. V, a. 3 ad 7. Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 10 ad 3. 3 Tract. hum. nat. (angl.), lib. II, part. IV, c. 6. Traiti des sensations, part. I, c. I, 2. s Cf Ontol., c. VII, a. 2, p. 42. Paucis abhinc annis H. Janeus {La phiiosoph. Franc. du XIX siecle, p. 16, et 245, 2e ed. Paris 1860) Condillachi doctrinam ad vitam revocavit. 6 Cf Lært., lib. IX, segm. 51. 7 Cf s. Aug., De quant. anim.t c. 10, n. 17. ^substantialis; cum alicuius accidentis tanta efficacia esse nequeat, tantumque imperium in membrorum rei viven Itis, el contrariarum qualitatum quasi rempublicam. Er^o 10o. Adhæc, viventia sunt quidem substantiæ Si igi tur ea, quæ vivunt, per animam vivunt, hæc profecto non accidens, sed substantia est. Id ex eo confirmatur, quod est commune omni accidenti, quod non sit de es I sentia rei ! ; dum e contrario, anima ad essentiam viventis ita pertinet, ut vivens idem prorsus ac animatum sit. 106. Denique quantum Lockii, eiusque asseclarum placita a yentate abhorreant, ostendimus in Ontologia 2. Argumenlis, quæ ibi retulimus, adiicere præstat, 1° quod attecliones, sive qualilates varias, et sibi succedentes, a jnimam vero lmmotam in nobis experimur ; quapropter anima exjpsis affectionibus, sive qualitatibus constitui Mneq.uK; 2 quod permultæ ex hisce affectionibus ab ipsa anima in se gignuntur; ac ideo anima a suis affectionibus, perinde ac causa ab effeclu, distinguenda est. II.— Quomodo subslanliæ animac humanæ deQnienda sit, explicatur Postquam vidimus animam humanam in genere substantiæ collocandam esse, quænam huius substanliæ essentia sit, explicandum nobis est. Essentia animæ humanæ in eo consistit, quod nt jprxnapxum intellectivum, et simul forma substaniialis "orporis. j Probatur. Essentia rei illud significare debet, quod res j:um al.is commune habel, atque illud, quo ipsa ab aliis liscnm.natur Atqui anima humana ex eo quod est forma substantiahs corporis, ac proinde substantia incom^leta, quæ per se, et naturaliler ad coniunctionem cum orpore ordinem habet, cum aliis animarum speciebus ^onsenl.l; siquidem ipsa, æque ac istæ, suum esse cor>or. commun.cat, .lludque vivificat, et informat : atque ^ eo, quod est pnncipium intellectivum, ab iis distinZ rrsusLe,x eo quod ad coniunctionem cum cor ; ore ord.nem habet, differt a substantiis intellectualibus, Piæ^ separatæ, sive Angeli dicuntur: et ex eo, quod est 1 Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 12 ad 7. Loc. cit. principium intellectivum, cum eis consentit; nam animæ hurnanæ ex eo, quod intellectiva est, illud, ut mox ostendemus, convenit, non habere esse concrelum in materia ', ac proinde a corpore separatam subsistere posse. Ergo essentia animæ humanæ in eo consistit, quod est principium intellectivum, et simul forma substantialis corporis. 108. Ex his colligitur, quomodo anima humana sit definienda. Porro animæ communiter acceptæ definilio est: Actus primus corporis physici organici potentia vitam habentis2. Voces illæ, actus primus, animam esse formam substantialem, ac proinde a formis accidentalibus distingui designant 3. Dicitur autem actus corporis physici organici, quia anima facit ipsum corpus organicum, sicut lumen facil aliquid esse lucidum 4 . lis verbis, potentia vitam habentis, significatur animam, cum sit actus primus corporis organici, efficere, ut ipsum ad vitales operationes edendas potenliam habeat 5. Iam prout huius 1 Gf p. 192. Ex hoc, quod anima humana non habet esse concretum in materia, consequitur quod ipsa, etsi sit substantia incompleta, quia, cum sit pars humanæ naturæ, non habet perfectionem suæ naturæ, nisi in unione ad corpus [Qq. disj)p.,q. un. De Anim.,&. 2 ad 5); tamen est in genere substantiæ non solum sicut principium, quod nempe totum substantiale constituit, sed etiam sicut species. Guius rei ratio hæc est: Substantia dicitur ens, cui convenit esse in se. Atqui esse in se non ipsarum formarum, si materiales sint, nempe a materia pendeant, sed totius compositi substantialis proprium est; e contrario animæ humanæ, quippe quæ est forma a materia non dependens, proprium est esse in se, quod ipsa corpoii communicat. Ergo ceteræ formæ non sunt in genere substantiæ, sicut species, seo solum sicut principia; anima autem humana estin genere substantiæ non solum sicut principium, in quantum est forma huius corporis, sec etiam sicut species, quia habet esse absolutum, non dependens a ma teria. In lib. 11 Sent., Dist. III, q. I, a. 6 sol. 2 I, q. LXXVI, a. 4 ad 1. 5 Cf Cosmol., c. I, a. S, p. 101-102. 4 Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 1 ad 15. b I, loc. cit. Profecto vivens substantia constituitur in suo esse, a q' XV' a c ~x hoc> ° pi7-z '• LIV> a. 1 c. -3 lhid, Dynam., c. I, a. 4, p. 101 ToI. I. s Ibily a. „, p^™. q-lta. • oil. tennios foret, atqTSbC SCnSUm nroduccrct. q er.„TraaCrra„tt0uraarennrd,U„m " "'"""'l prtoC",l° "•. cmPe colara colligebenj . ' " C'USUC'" principii act"°s' elapso Helvelius, Auctor systematis naturæ, DiderotuH Lammetrie, multique alii Galliæ, Hollandiæ, et Anglia scriptores recensentur. His sæculo XVII viam slraver Spinosa, Tolandus, et Hobbes. Ineunte hoc sæculo, pra observation exacte De hominis creatione,et de substantia ammæ( ejmO.Gottmg.l { s Gf Janet, Le maUrialisme contemporam, c.I,p.!4sqq, farib 117. Itaque in immalerialilate animæ humanæ vindinda nos primum abnormitatem materialismi generatira .tefaciemus; de.nde quædam contra materialismum Xjolog,cum,et dynam.cum speciatim adnotabimus; lum amam sp.nlaalem esse ostendemus; denique de phrenogismo pauca adnciemus. pureuu Il.-Animam hnmanam simplicem esse demonslratur 118. Si anima humana forma substantialis corporis adittatur, ipsa neque aliquod corpus, neque ulla ratione v.sib.l.s d.ci potest;nam neque^corpus potes es,e for a, neque forma potest esse aliquod corporeum ma humana s.t huiusmodi forma, ut animal perfeCum Z ITrllZn a mJe: "; seVliara per $%?%£ >nem respuit At vero materialismum argumentis alinn ! pet.t.s refe llere ndbis lubet sequenti ? '"" Pmh P,roPJiAntma humana ^quit esse corporea. Probatur . Præcipuum argumenti genus ex natura illam operationum ammæ, quæ cogitationes dicuntur e nmur atque,ta se habet: Cogilationes, quæ ad \\ni m spectant, nempe noliones rerura sens Iran, vel slmcium, .ud.c.a rat.ocnationes, conscienlia, a substa™ corporea profic.sci nequeunt. Alqui operari seauiTv 20 if an'ma humana neauit ess corporea ? 1^0. Hoc argumentum evolvitur hunc in modum • Pri "sfbi' coamn0ara°tneSu[enr ^'T' ™ ^osUarJra ;,,' ' comparat, ut per iinam formam, sive sneciem us omnes partes rci compositæ, prou sunt in toln 'co actu percpat. lam substant a corporea ac nroin' xtensa, et divisibilis, huiusmodi notioCm numlam ectæ now tmm veI s,nSulæ eius partes singulal re, ectæ porliones per diversas harum snecies Dereinf.rnf s.ngulæ partes per speciem totiusC eam tofam s ' I complecterentur Atqui neutrum sumi po, N ' ™peVPe,ræn,tu,ndiVerSæ Par,eS a'icuius ^Smi^ maP to, Fus N„„ \n,UraqUanl Vero simul iutegr n sub na tot.us . ]\on alterum, qu.a tunc quot partibus ani Cf Cosmol., c. V, a. 3 n 117)1 2 n. -i-j 'Cf s. Thom., I, q. LXXXV, a 4 adl " ""^ ' ' P' " "il' natura cognitionis species oportere esse immateriales adstruim, ut animæ simplicitas inde patescat. Cf s. Aug., De quant. anim., c 13, n. 22. 9iq quid compositum, non nosspf iH et Pr,nc'P'um, a quo tantia corporea^imW,?, """" -SSOt 1uæda™ subleretur iosa non„ 2i, 'US coSn'trlx convenire po io inter 7U0 fr n Ul, C°nS,St.at ; siqoidem compa >ec duo percipS VmTi P°! ' ' """ ab, 6° ' uul simu' 'dicium eonfi ' ifiimsk „• V7 mtellcclus conclusioncm ex 26 Ouarm0 1 US fleducitur> "uerc cognoscil '. IS s„i ?' An,ma' q"e"ia''modum sæpc observavi S c'ieenttiSamre7enT^irUm f' consc'a e" C _,cient,am ex eo habet, quod ipsa se, tamquam Op. cit., lib. XV, c. 22. Ws. Thom. Contr. G.„,., Iifc, „ c. 49 "|æA"-Vm "'-rt-. !"•,. 8, n. 22. . n n b esse rem, quæ omnes operationes ehct. Atqu, nullu. horum explicari posset, si substanUa. cogitans ; e teus,, divisibilis in partes poneretur. Eten.m 1 ill > depende tia operationum haberi nequ.l, n.s. n i bis, quæ secu dum ordinem naturalem procedunt ab uno •; 2 cm cur operatio unius potentiæ operat.on. altenus,mpeens ei vitam, quod nullum corpus præstat corpori 3 . ^ræterea. Quemadmodum ipsi physiologi docent, corpus >er leges assimilationis, et excretionis quoad particulas, x quibus constat, sensim sine sensu commutatur, adeo ut :emporis fluxu prorsus renovelur. Si igitur anima sive trincipium vivendi non nisi ipsum corpus esset, princi•ium vivendi in dies variare, ac tandem in aliud renoari deberet. Atqui unusquisque nostrum experitur prinipium cogitandi conslanter manere idem; ita ut nos, qui unc vivimus, eosdem esse, qui antea viximus, consciaaus. Ergo. 134. Quod si anima a corpore distinguitur, ipsam neue ln temperamento, neque in harmonia corporis conistere consequitur. Non quidem in temperamento. Nam mma corpus sibi subdit, atque haud raro reluctatur iis ppehtionibus, quæ ex corporis temperatione oriuntur; iquidem multi homines appetiliones illas sedanl, et effilunt ut rectæ rationi pareant. Anima igitur non est ip temperatio corporis; secus idem effectus simul ab eæm causa oriretur, atque destrueretur . 135. Neque est harmonia, seu ipsa compositio partium orpons, vel ralio, qua partes corporis secum invicem onnectuntur. Etenim in diversis partibus corporis sunt lversæ compositionis rationes; ac proinde si in hac corons partium compositione anima consisteret, singulæ artes corpons haberent singulas animas, nempe aliam nimam haberet os, aliam caro, aliam nervus, utpote quæ ttundum diversam proportionem sunt composita. Alqui 'oc manifcsle falsum est. Ergo 8. 136. Advcrsus materialismum dynamicum observasse iuerit, quod, ctsi portenlum illud assumatur, maleriæ espntiam ln vi activa quadam positam esse ; hæc tamen ^tiones illas, quæ vilales dicuntur, numquam efficere post : 1 quia effectus aliquis non subest potentiæ aliJius agentis.... per hoc, quod non habet cum agente af 1 Cf Cosmol, c. V, a. 3, p. 137-138. I, q. LXXV, a. 1 c. s Conf., Iib. X, c. 6, n. 10. Contr. Gent., lib. II, c. 63. -5 ibid c. 64> finitatera, vel similitudinem ; atqui actiones vitales nullam curn materia similitudinem habent ; viventia enim quemadmodum alibi a nobis ostensum est % a non vivea tibus multum distant; 2° quia si actiones vitales, uti etian demonstravimus, per principium vitale organis corpori insitum explicari nequeunt s, ipsas materiæ vi longiu præstare dicendum est; 3° quia subiectum, in quo per ficiuntur actiones vitales, est ipsum vivens, siquidem a( genus actionum immanentium illæ spectant; dum e con trario materia non in seipsam, sed in aliud extra se dum taxat vim suam exercere potest. 137. Ad cuius rei maiorem explanationem mente recola mus oportet materiam ad aliquam speciem actionum deter minari: Res corporales habent determinatas actiones >} siquidem corpora non operantur, nisi naturaliter 5; natu ra autem est determinata ad unum. Quocirca, si activa ma teriæ vis ita evolvi sumatur, ut sicut naturæ mortuæ ita naturæ viventis actiones exerat, illud admittendum fo ret absurdum, utrasque illas actiones eiusdem esse spe ciei. Itaque, etiamsi concedatur materiam nihil aliud esse quam vim per seipsam, seu sponte sua activam, illa ta men ex essentia sua et differt ab anima, et aniraæ actu cfficere nequit. IV. — Materialistarum obiectionibus satisfit 138. Obiic. 1° Substantia corporea afficitur qualitatibuj quæ non sunt divisibiles, e. g., gravitate, vi motrice, e aliis eiusmodi. Ergo ex eo, quod cogitatio est aliquid iii divisibile, inferri nequit ipsam ad substantiam corporear pertinere non posse. 139. Resp. Dist. ant., et illæ qualitates sunt indivisi biles, si in seipsis considerentur, conc. ant., sin relata ad corpus, cui insunt, neg. ant. Neg. cons. Sane, sicu formæ corporum dicuntur inextensæ, seu simplices, i considerentur abstractæ a materia 6, ita illæ qualitates nempe gravitas, vis motrix, aliæque huiusmodi, si abs tractæ a corpore, cui insunt, in se spectentur, nihil, nif i Contr. Gent., lib. II, c. 22, n. 5. 2 Cosmol., Introd. p. 90. Cf etiam c. IV, a. 1, p. 126 sqq. 3 Cf quæ diximus p. 211-214. I, q. CX, a. 1 ad 1. * Contr. Gent.j lib. III, c. 102. Cf Cosmol., c. V, a. 4, p. 139-140. llimplex, atque uniusmodi exhibent. At prout corporeæ fiubstantiæ insunt, non sunt indivisibiles; gravitas enim luxta divisionem massæ corporis dividitur; item, vis mo|nx in omnes partes corporis dispergitur, ita ut si vis [aotrix in corpore est, ut duo, in dimidio sit, ut unum. Wj contrano quævis cogitatio lum in se, tum in subiecto ogilante prorsus indivisibilis est. 140. Obiic. 2° Nullatenus fieri potest, ut extensi obie ti imaginem anima indivisibiiis in se contineat. Ergo si inima res extensas percipit, ipsa indivisibilis esse nequit. |. . -L .rp# Neg' anL et cons' Nam anima non est ini ivisibihs, ut punctum habens situm in continuo, sed er abstractionem a toto genere continui * . Sane indi jisibile habens positionem, cuiusmodi est punctum 2, i laginem extensi obiecti totam, quanta re ipsa est, in se 'Ontinere non potest. At virtus integram extensionem ob |>cti percipiendi non indivisibili, instar puncti, sed sub Itantiæ omnino indivisibili, quæ nempe nullum ad par s;s ordinem habet, et ad genus continui nullo modo per net, propria est. Quod si ad obiectum extensum perci lendum extensio in subiecto percipiente requiritur, i j.ud tantam, et tam variam reipsa habere debet dimen jonem, quanta est dimensio diversorum, quæ ab ipso ercipiuntur, obiectorum; id tjuod est aperte falsum 3. Ac ;?dit, quod integra rei extensio sub una simplicissima, pe itusque indivisibili ratione formali percipitur; ergo hu lismodi pcrceptio non nisi ad principium omnino indi sibile pertinere potest. 142. Obiic. 3° Vulgatum est illud effatum: Quidquid repitur, per modum recipientis recipitur. Atqui anima repilur in corpore. Ergo est corporea. 143. Resp. Dist. mai., ita ut nequeat unum ab altero Cipi, nisi sit inter utrumque quædam proportio habitunis, conc. mai., nisi sit inter ea naturac convenientia, Qq. dispp., q. un. De sp. cr., a. 4 ad 16. De hoc indivisibilitatis genere cf /n lib. I Met., lcct. II. 5 Tam multas, ad rem inquit s. Augustinus, et tam magnas corrum imagmes, si anima corpus esset, capere cogitando, vel memoi continendo non posset.... Qua igitur magnitudine, quæ nulla illi, miagines tam magnorum corporum, et spatiorum, atque re>num capit? De anim. et eins orig., lib. IV, c. 17 n 25 neg. mai. Dist. etiam min., anima recipitur in corpore, ut perfectum in perfectibili, conc. min., ita ut in corpo-, re contineatur, ncg. min. Neg. cons. Sane anima non recipitur in corpore, ita ut contineatur, nam, ut s. Augu stinus inquit, anima continet corpus * . Quapropter cor pus recipit animam eo modo, quo materia recipit formam scilicet ita ut per ipsam perficiatur: seu ut secunduu ipsam constituatur in esse alicuius speciei * . Utauten corpus hoc modo in se recipiat animam, non requiritui ut huius natura cum natura illius conveniat, ita ut animj extensa, æque ac corpus, sit 8, sed solum quædam inte illud, et istam proportio, quæ in eo consistit, ut corpu, habeat ordinem ad animam, et capacitatem, ut ab ea in formetur *. Iam simplicitatem animæ haud impedire, quo minus hæc talem cum corpore proportionem habeat, an tea a nobis ostensum est . Ex eo igitur, quo.d anima re cipitur in corpore, nihil contra eius immaterialitatem in ferri potest. . |j 144. Obiic. 4° Anima non potest movere corpus, ms illud tangat. Atqui tactus non est, nisi corporum. Ergc 145. Resp. Dist. mai.: nisi illud tangat contactu virtu tis, conc. mai., contactu corporeo, neg. mai. Sub eader dist. neg. et conc. min. Neg. cons. In primis, cum movet sit actus existentis inpotentia* , producere motum ms gis ad substantias immateriales, quam ad materiales, pei, tinet. Etenim nihil potest transire de potentia in actun nisi per id, quod est actu. Atqui substantiæ mtellectu! les magis actu sunt, quam corpora. Ergo ad illas magii quam ad substantias corporeas pertinet aliquid moven Agunt substantiæ intellectuales in corpora, et movei ea, cum sint immateriales, et magis in actu existentes \ Ut vero quomodo substantia immaterialis corpus tanga et moveat, intelligatur, distinguendus est contactus qim titatis} qui proprius corporum est, a contactu virtutis i Contr. Epist. Man., c. 16, n. 20. Cf p. 227. 2 I, q. L, a. 2 c. -3 Cf p. 193-195. 4 Debita proportio materiæ ad formam est duphciter, scihc per ordinem naturalem materiæ ad formam, et per remotione impedimenti ; In lib. IV Sent., Dist. XVII, q. I, a. 2 sol. 1 Loc. cit. 6 In Ub. I Sent., Dist. VIII, q. I, a. 3 sol. 7 Contr. Gent.,\ib. II, c. 56.— Cf Dynam., c. VI, a. 1, p. 188 vol. j rimo contactu langenlia dicuntur ca quæ uniuntur lcundum ulfma quanlitatis ; unde in corporibos ono" t mutuum esse tactum ' >,. Contactus virtutis pert net ? 1 ea quæ etsi i„ quantitatis ultimis ncn tanganf bcuntur mhilominus tangere, in quantum agunlV^Hoc,tem tactu substanfa immaterialis, quæ est indivisibi fcff' %[ mT? C°rpUS' quod est auædam quantitas div i bil.s.Nam lactu corporeo id, quod est indivisibile puta inctum, non potesl langere, nisi aliquod indivis b^ile • tac u vtrtutts substanlia immaterialis potest langere JTnT •d-,,V!f.lb,lem Substantia intell/ctualis qufm! | nt ind.vis.bihs, potest tangere quantitalem divisibifc,.n quanlum ag.t in ipsan,8 Alio enim modo est inni.bile punctum, et substantia intellectualis. Punctum .dem est S1cut quantitatis lerminus, et ideo habet s™ a, determmalum m continuo, ullra quem porrigi no„ l|,lest ; subslanf a autem intelicctualis est indivisibihs itur tt irnr.i8veinUKS,f|Ua,ntil?!iS eX,SlenS' Unde U°" ^'e Itur ei indmsibile al.quid quantitatis ad agendum In animam non n,s. tactu virtutis movere \st. XIX in arguendo. I, q. LXXXV, a. i Diximus sæpe, non semper, interdnm enim operationes meni in iuvenibus languidiores sunt, et e contrario intelligentia in qu busdam hominibus usque ad ultimam senectam in dies magis, m. sisque viget. Guius ratio, aiente Aquinate, ex parte ipsius tnze ;rescentis animæ argumentum est, vires in maiori ætale ;naiorcs . Exinde etiam perspicitur, quomodo organorum perturbatio exercitium intellectus perturbet: Debiitatur intellectus ex læsione alicuius organi corporalis 'ndirecte, in quantum ad eius operationem requiritur operatio sensus habentis organum . Ob eamdem rationem i causis, quæ in corpus agunt, intelligentiæ evolutio penderc dicenda est. Hæc omnia ila s. Thomas paucis complectitur: Cum anima sit forma corporis, consequens est, quod unum sit esse animæ, et corporis; et ideo, corpore perturbato per aliquam corpoream passionem, necesse est quod anima per accidens perturbetur, scilicet quantum ad SSSe, quod habet in corpore 3 . V. — Lockii error ex iam ostensis refellitur 150. Lockius etsi animam simplicem esse fassus sit, tamen ea permotns ratione, quod non omnes materiæ proprietates perspectas habemus, in dubium revocavit, utrum, necne cogitandi vis inter proprietates materiæ, quæ nobis compcrlæ non sunt, revera sit, aut saltem divinitus 3ssc possit4, Lockii dubitatio a Voltairio 5, aliis;(ue malimo plausu excepta fuit. 151. Dubitatio Lockii futilis est. Probatur. Ut certo asserere possimus aliquod attributum substantiac cuipiam repugnare, non requiritur ut omnia huius attribula perspecta nobis sint, sed sufficit, ut aliquod unum in ca certo dignoscamus, quod cum dato atlribulo evidenter pugnat; nam una, eademque substantia constare nequit cx attribulis, quæ se mutuo destruunt. lla, etsi geometræ nondum omnes circuli proprielates calleant, tamen pro rc certa cxplorala habent, quadraturam inter eius proprietates nondum cognilas minime contineri, (juippe illa rotunditalis proprietati in circulo iam perspcctæ evidcnter opponitur. Alqui cogitatio curn notis proprielatibus materiæ, nempc extensione, divisibilitate, so lectus, qui est perfectior, repetenda est, quatenus nempe hi cum babeant corpus mclius dispositum, sortiuntur animam maioris virtutis in intelligendo »; loc. cit. 1 Op. cit., c. 22. 2 In lib. II De Anim., lect. VII. 8 III, q. XV, a. 4 c. Op. cit., Iib. IV, c. 3, § 6. s tUm. de la phil. de Newton, part. I, c. 6. liditate, figura, inertia, adversa fronte pugnat; quæ auU secum pugnant,Divina Omnipotentia non continenlur.Erj vis cogitandi nec divinitus materiæ convenire potest. 152. Iam cogitationem cum illis maleriæ proprietatibuj pugnare comperlum cuique est. Sane 1° pugnat cogitatic cum extcnsione, et divisibilitate ; nam, quemadmodurr. satis, superque a nobis ostensum est, cogitatio est quidquam unicum, et indivisibile. 2° Pugnat cum soliditate; neque enim integrum obiectum cum omnibus eius partibus percipi a nobis posset, nisi species singularum partium in unam confluerent; neque in iudiciis et ratiocinationibus plures notiones secum comparari possent, nisi illæ in unum compenetrarentur . Accedit quod cogilatic seipsam reflexione permeat, el insuperduo subiecta percipientia possunt se invicem comprehendere: si vero es-j sent solida, unum non posset alterum penetrare, ideoquc unum non comprehenderet alterum, comprehensio enim rei habetur, cum ipsa tota cognoscitur. Pugnat cum inertia, materia enim, utpote iners, ab extrinseca causa determinatur; unde consequitur lex illa Newtoni, mutalionem motus proportionalem esse vi motrici impressæ, ei, fieri secundum lineam rectam, qua vis illa imprimitur. Al nos de multis rebus cogitamus, quin ulla actione externa agitemur, atque insuper seriem unius demonstrationis interrumpimus, aliamque prorsus diversam aggredimur, ac præterea ab imaginatione ad intellectionem, atque ab hac ad illam rursus pro lubitu transimus. 4° Pugnat denique cum figura; quod enim est figura præditum, habet terminum, cum figura sit quæ lerminis continetur : at potentia cogitandi est quodammodo infinila; in infinituni enim inlelligit species numerorum augendo; et similiter species figurarum, et proportionum: cognoscit etiam universale, quod est virtute infinitum secundum suum ambitum, continet enim individua, quæ sunt polentia infinita 2 ». 153. Itaque cogitatio præcipuis, ct valde notis mate 1 « Impossibile est duo corpora se invicem continere, cum continens excedat contentum. Duo autem intellectus se invicem continent, et comprehendunt, dum unus alium intelligit »; Contr. Gent., lib. II, c. 49, n. 6. « Ibid., n. 5. iæ proprielatibus adversatur; quapropter si materia pos•et cogitare, ex proprietatibus secum pugnantibus conlaret. VI.— De animæ huraanæ spiritualitate 154. Animam humanam non esse aliquid extensum, sed p una simplici, et indivisibili realitate consistere contra mnes materialistarum classes demonstravimus. At aliquid obilius ipsi est tribuendum; etsi enim corpus informet, amen huiusmodi est, ut a corpore haud pendeat ; unde,on solum simplex, sed etiam spiritualis appellatur. j 155. Anima hurnana est spiritualis. i Probatur. Operationes propriæ animæ humanæ, eæ iempe, quæ ad intellectum, et ad voluntatem spectant, |me organis corporis exercenlur ; ac proinde a maleria on pendenl. Atqui similiter unumquodque habet esse, et oerationem. Ergo esse animæ humanæ huiusmodi est, ut \ materia non pendeat, ac proinde ipsa spiritualis di3nda est. 156. Ad maioris veritatem perspiciendam satis est mente Jcolere ea quæ in Dynamilogia statuimus. Sane operaones cognilrices, quæ corporeis organis indigent, ad iquod genus rerum materialium percipiendum determianlur: neque aliud, nisi quod maleriale est, atque prout )nditionibus materialibus adstringitur, apprehendere posint; unde obiectum illarum proprium non nisi singulare 'Se potest : super seipsas denique converti nequeunt '. tqui operationes intellectrices circa quodlibet rerum mainalium genus versari possunt, easque cognitione immanah, umversali, et necessaria attingunt2; lum super sesas reflectuntur 3; atque ad ea se porrigunt, quæ rerum latenaliumordinem transiliunt 4; intellectusque in eorum 'iHemplalione quam maxime delectatur 5 ; atque, secus 1 Cf Dynam., c. IV, a. 12, p. 161-162 vol. I. \ I, q. LXXXIV, a. 1 ad 4; Cf Dynam., loc. cit. et a. 3, p. 136. J Cf ibid., p. 162. 4 Ibid., p. 161. Hinc Lactantius aiebat: « Nullum est animal, præ • hominem, quod habeat notitiam aliquam Dei. Solus enim sapientia structus est, ut religionem solus intelligat; et hæc est hominis, jue brutorum vel præcipua, vel sola distantia ; De ira Dei c. 7 b Cf s. Aug., De lib. arb. ac facultas organica, quæ quoties ab obiecto sensili vehementer impellitur, ad aliud eiusdem generis obiectum sentiendum inepta evadit, ipse ex obiecto valde intelligibili ad intelligendum obiecta minus intelligibilia validior fit f. Ergo operationes intellectrices supra corporeum omnem ambitum sic evebuntur,ut materiæ determinationes omnino transcendant, ac proinde a materia non pendent. 157. Idem de actibus voluntatis est dicendum. Etenim voluntas bonum intellectivum, nempe incorporeum appetit 2; neque ad hoc, vel ad illud bonum determinatur, sed in quodcumque obiectum,in quo ratio boni deprehenditur, libere ferri potest 3; super suos ipsos actus reflectitur, quia vult se velle, et diligit se diligere 4; denique corpus sibi subdit, illisque cupiditatibus, quæ ab appetitu sensitivo proficiscuntur, adversatur. 158. Obiic. Anima nihil potest intelligere sine ope sensuum, qui per organa corporea exercentur. Ergo in ipsa operatione intellectiva ab organis corporis pendet, ac proinde non est spiritualis. 159. Resp. Dist. ant.f quatenus sensus ad actionem intellectricem intrinsece concurrunt, neg. ant., quatenus sensus præbent intellectui phantasma, in quod ipse snarrj actionem, quin a sensibus pendeat, exerit, conc. ant. Neg. cons. Responsionem istam, quæ ex theoriis in Dynamilogia statutis satis superque declaratur, Aquinas noster hh verbis tradidit: Dicendum, quod corpus requiritur ad actionem intellectus, non sicut organum, quo talis actic exerceatur, sed ratione obiecti; phantasma enim comparatur ad intellectum, sicut color ad visum s. Et alibi : Intelligere est propria operatio animæ, et non egreditur ab anima mediante organo corporali, sicut visio me Cf s. Bonav., In lib. I Sent., Dist. I, a. 3, q. I ad arg., e Alb. M., De Anim., lib. III, tract. II, c. 15. Cf Dynam., c. V, a. 3, p, 166-167 vol. I. 3 Cf Dynam., ibid., a. 8, p. 175 sqq. In lib. I Sent., Dist. XVII, q. I, a. 6 ad 4. Noli ergo mi rari, inquit ad hanc rem s. Augustinus, si ceteris per liberam vo luntatem utimur, etiam ipsa libera voluntate per eam ipsam ut nos posse, ut quodammodo se ipsa utatur voluntas, quæ utitur ce teris, sicut se ipsam cognoscit ratio, quæ cognoscit et cetera De lib. arb., lib. II, c. 19, n. 51. I, q. LXXV, a. 2 ad 3. iante oculo. Communicat tamen in ea operatione corpus x parte obiecti; nam phantasmata sine organis corporeis >se non possunt . VII.— Refutatur phrenologismus 160. Ut quid hoc systcma sit, facilius explicemus, ilid in pnmis memoramus, a diligentioribus, et peritis ituræ scrutatoribus, propter intimum nexum, qui inr animam, et corpus intercedit, ex huius eonformatio!, et habitudine nonnulla non quidem certa, sed probalia indicia de illius interiori statu perspecla fuisse. Exde ortum habuit physiognomia. Quæ inler veteres haut cultores Empedoclem, Platonem, Aristotelem, Galcim, ahosque; medio ævo præ ceteris Avicennam, et AIrtum Magnum ; in recenti ætate magnopere adaucta it a nostro Ioanne Baptisla Porta, Lavater, Camper, asque pluribus. 161. At, ineunte hoc sæculo, Gall, ciusque discipulus urzheim usque adeo processerunt, ut systema phrenopcum, seu cranioscopiam invexerint, hæc præcipue ituentes : 1° Cerebrum non est unicum organum, sed multis organis inter sese distinctis constat. 2° Hæc gana, prout magis, minusve explicantur, et evolvun', maiores, aut minores circumvolutiones in cerebro, ldemque in calvaria protuberantias istis circumvolutio)us respondentes efficiunt. 3° Singula hæcorgana, ideoe smgulæ calvariæ protuberantiæ sunt primilivarum imi facultatum sedes, imo ipsæ facultates organorum mme appellari possunt. 4° Nomine facultatum primitium non veniunt iilæ, quæ a Psychoiogis vulgo reiscntur, nempe facultas sentiendi, imaginandi, volun-, et aliæ huiusmodi, sed potius naturales propensio' > quas quisque sortitur, uti propensio in poesim, in lCitiam, in malhcmaticam. Unde Phrenologi in cerebro (inguunl organum matheseos, amicitiæ, iracundiæ, mcidn etc. Facultates vero a Metaphysicis recensitæ sunt, nisl secundariæ, sive subieclæ facultatibus nnlivis, harumque veluli atlributa generalia. 5° Hæ ultales secundariæ tot vicibus in eodem homine repee mveniuntur, quot facultalibus primitivis iste pollet. Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 1 ad 11. Philos. Christ. Compend. II. 7 47 Iamvero non omnia organa, ideoque non omnes facultates ipsis propriæ in singulis hominibus extant, nequt organa, quæ in eis extant, eodem modo explicantur, ei evolvuntur; proindeque neque æqualis est protuberantiarum numerus in singulis calvariis, neque quælibet protuberantia eiusdem est magniludinis. Hinc fit, ut si qui L rnaterialisme et la phrdnologie rtnlr a seos/0ndement°, Paris 1840; Flourens, Examen dela rm i ; 2/ atqUG interSer'nan°s,Friedreich, Arch. psychol. mLk £ 131;194' Heidelbergæ 1824, et Reichlin-Meldegg., Psyeh. m"s (germ.), sect. I, p. 358, Heidelbergæ. nibus hominibus communes, tamquam facultatum specia lium proprietates, spectare. 2° Absurdius etiam est ratio nem, et voluntatem e facultatum numero extrudere, curr ipsæ ceteris omnibus facultatibus præstent. 3° Si una quæque facultas primitiva propriam sibi percipiendi, re miniscendi, ratiocinandi facultates habet, tunc illud vald. yuod si physiologice hæc theoria spectetur, multis ctiam ab Probatur. 1° Exemplaris, aiente s. Thoma, propriurr est eo spectare, ut illa, quæ ad normam sui eftingantur similia sibi reddat . Atqui id de homine cum reliquh animalibus comparato dici nequit. Namque homo ob ra tionem, qua solus inter animalia poliet, a reliquis ani malibus essentialiter differt. Ergo homo exemplar, seii typus totius vitæ animalis esse nequit2. 2° Si homo esset ultimus terminus, ad quem evoluti embrionis pervenit, facultates cognoscendi, appetendiqu in homine a principio quodam maleriali producerentur quippe quod embrio, horum Physicorum senlentia, ex v sibi insila seipsum evolvit. Atqui hoc, ut ex dictis II Dynamilogia patet, perabsurdum est. Nam facultates ratic nales, cum sint inorganicæ, principium alius naturæ, a animas a Deo creari) opinionem elegerit, vel adhuc dubitandum putaverit ; In lib. II, Dist. XVII, § 15. Cf etiam Melchior Ganus, vc locis theol.,hb. 12, c 13). Hoc adnotatum voluimus, quia Casimirus Ubaghs (Anthrop. Philos. Elementa, Pars synthetica, c I) asserit opinionem, animas a parentibus generando propagari, probabilibus n rationibus minime spernendis, edimque cumnullo catholicæ Fidei dogmate pugnare, dummodo generatio illa non velut ma'erialis divisio, Obiic. 1° Parentes hominem generare dicuntur. Atqui homo constat ex anima, et corpore. Ergo non solum corpus, sed etiam anima per generationem oritur. 177. Resp. Dist. mai.: quatenus operantur ad unionem corporis, et animæ, ex qua unione homo est homo, conc. lmai,; quatenus gencrant quamlibet partem hominis, neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Et sane, licet anima rationalis non sit a generante, unio tamen corporis ad eam est quodammodo a generante f ; nam generans disponit corpus, ut coniunclionem cum anima secundum leges naturæ expostulet, et acquirat2. Quoniam vero ex unionc animæ ad corpus homo est homo, oplimo, meritoque iure parenles hominem generare dicunlur, quia generatioiis finis, ut sæpe monuimus, non est forma, sed compoitum ex materia, et forma. 178. Obiic. 2° Si corpus per generationem, et anima per creationem oritur, unum non est esse hominis. Atqui :onscquens est absurdum. Ergo anima per ipsam gene'ationem corporis oritur. 179. Resp. Neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Ex eo, quod jorpus per generationcm, et anima per creationem prolucitur, esse corporis ab esse animæ minime separatur; lam creans dat esse animæ in corpore, et generans dis)Onit corpus ad hoc, quod huius esse sit particeps per inimam unitam s . 180. Inst. Unum esse hominis produci non potest a cauW diversis. Ergo. 181. Resp. Dist. ant., si illæ diversæ causæ non sint nter se ordinatæ, conc. ant., sccus, neg. ant. Neg. cons. ausæ, inter quas nullus ordo existit, eumdem effectum Mf diffusio quædam concipiatur. S. 0. Congregatio tum ob traduciani'iww, tum ob aliquas doctrinas, quas prof. Lovaniens, propugnabat, f quac sunt similes aliquot ex septem propositionibus, quas eadem -ongregatio die 18 sepf. 1861 haud tuto tradi posse iudicavit (cf quac ixi.nus in Ideal., c. I, a. 8, p. 212, not. 2, vol. I), tum ob alias opilones, quas cautc minus, quam fas est, ille exponebat, decrevit in bns philosophicis a Gerardo Casimiro Ubaghs hactenus in lucem litis, et præsertim in Logica, et Theodicea invcniri doctrinas, seu pmiones, qure absque periculo tradi non possunt . Cf La Scienza La lede, vol. LXII, p. 390-391, Napoli 1866. 1 Q(f. dispp., De Pot., q. III, a. 9 ad 19. Ibxd. ad 2.-3 n,^ ad 2Q. producere nequeunt. At vero in productione hominis generans cum operetur usque ad ullimam dispositionem, qua corpus exigit informari anima rationali, eum ordinem habet ad Deum, qui animam creat, ut ad Ipsum, veluti causa instrumentalis, referatur. Etsi igitur Deus creans, et homo generans sint causæ diversæ, tamen unum esse hominis ex iis producitur. . Natura est sicul instrumentum Divinæ virtutis; unde non est inconveniens si Virlus Divina sola faciat animam rationalem, actionc naturæ se extendente solum ad disponendum corpus f 182. Obiic. 3° Filii similantur parenlibus non solum secundum physicas qualitates corporis, sed etiam secundunc qualitales animæ. Atqui hoc demonstrat, sicut corpora. Falsum est animam sensitivam hominis iroduci per generationem. Probatur. Unum est esse animæ humanæ, quæ simul ensiliya est, et rationalis. Atqui anima humana, prout :st rationalis, quemadmodum ostendimus, per generatio Tcpn°u °ritUrEr^° necue Prout est sensitiva. lSb. Hoc argumentum, quod ab unitate animæ huma-,æ depromitur a s. Bonaventura his duobus modis exiibe ur: 1 Philosophus dicit quod sensitivum est in ntellectivo, sicut tetragonus in pentagono; et vegetativum n sensilivo, sicut tngonus in tetragono. Si ergo ab eoem pnncipio est tetragonus, a quo est pentagonus, ab odem erit anima intellectiva, et sensitiva; sed intellectia non est a generante, ut demonstratum fuit supra Er 0 nec sensitiva . 2° Quæcumque sunt idcm in subtantia, ab eodcm principio educuntur in esse. Sed aniia sensitiva, et intellectiva in eodem homine sunt idem B substant.a, qma unius perfectibilis una est perfectio -rgo si rationalis non est per generationem, videtur, uod nec sensibihs 3 . 187. Præterea idem Seraphicus Doctor ita etiam argulentatur: Quæ simul corrumpuntur, simul etiam projucuntur; ergo, pan ratione, quæ simul separantur, si-,iul et mtunduntur. Sed, recedente in homine anima raonah, nullo modo remanet potentia sentiendi in corpop. fcrgo sicut amittitur polenlia sentiendi in recessu amæ, ila infunditur in adventu. Non est igitur a geneitione, sed a creatione . ° et 1 I, q. CXVIII, a. 2 ad 2. 2 cf . n 1,6. II Sent., Dist. XXXI, a. 1, q. I, £ opp. Ex his argu n perspictur, quare anima sensitiva in brulis, non vero in im r,Prr Seneratlonem Producatur. Etenim ex hoc, quod ipsa Thol r/n c°rp0ri 6SSe sensiti^^equitu'r;monente nl itiv n/fn 1 U Sen^ DiStXVI11' "• a3 ad an™'n nsitiyam in homine, et brutorum ad eamdem speciem non referri rt;,^^ ori*inis modnm- c' . Obiic. Embrio, antequam anima rationali infor metur, vivit, et animam habet. Ergo anima, prout es vegetativa, et sensitiva in homine, diversam ac prout es rationalis, originem habet. 189. Resp. Dist. ant., ita ut, adveniente anima ratio nali, maneat anima vegetativa et sensitiva, neg. ant., it; ut hæc abiicialur, conc. anl. Neg. cons. Hic memoria re colendum est rem a prima forma substantiali in sua es sentia constitui, et quidquid essenliæ rei iam constitutat advenit, esse accidentale. Quocirca, si, manente anima ve getabili, vel sensitiva, ei adiungeretur anima intellectiva, hæc inveniret subiectum iam in sua essentia constitutum; ac proinde anima intellectiva hominis essentiarc non constitueret, sed accidentaliter animæ sensitivæ velut quædam eius perfectio adveniret; id quod absurdun: est1. Hinc s. Thomas hæc docet: 1° In generatione ani i malis, et hominis plures sibi succedunt formæ, ac proin de plures generationes 2. 2° Quoniam generatio unius es corruptio alterius, adveniente forma perfectiori, 6t cor ruptio prioris, ita tamen, quod sequens forma habet quic quid habebat prima, et adhuc amplius 3 . 3° Quare ii fine generationis humanæ abiicitur anima vegetativa, e sensitiva, atque creatur a Deo anima intellectiva, quæ si mul est et sensitiva et vegetativa. Primo inducitur a nima vegetabilis; deinde, ea abiecta, inducitur anima sen sibilis et vegetabilis simul ; qua abiecta, inducitur noi per virtutem prædictam (nempe virtutem formativam, quw a principio est in semine), sed a creante, anima, quæ si mul est rationalis, sensibilis, et vegetabilis. Et sic embrio antequam habeat animam rationalem, vivit, et habet ani mam, qua abiecta, inducitur anima rationalis * . Qq. dispp., De Pot., loc. cit. 2 Cuius rei hanc rationem assignat: Quanto aliqua forma est nc bilior et magis distans a forma elemehti, tanto oportet esse plures foi mas intermedias, quibus gradatim ad formam ultimam veniatur, etpe consequens plures generationes medias ; Contr. Gent., loc. cit. s I, loc. cit. Cf p. 217. * Qq. dispp., De Pot., ibid. ad 9. Hæc D, Thomæ theon hisce postremis annis probata est inter alios doctissimos physiologo a Vincentio Santi, Della forma, genesi, corso naturale e modi c viventi, Perugia 1855. Cf etiam Liveranum, Su principii del mi derno Ippocratismo, Fano. 190. 2a. Repugnat animam sensitivam transmitti p parentibus, cl postea fieri intelkctivam pcr manifestatiolem ideæ cntis. Probatur. Abnormis est illa opinio, ex qua vel plures inimas, sive formas substanliales in bomine esse, vel inimam intelleclivam veluti corruptioni obnoxiam, et tam|uam quamdam perfectionem accidcntalem animæ sensilvæ advemre consequitur. Atqui alterutrum admiltenlum essct, sj anima sensitiva transmitti a parenlibus, et jostea heri intellecliva per manifestationem ideæ entis llicatur. Ergo. 191. Minor ex D. Thoma ita demonstratur : Tcrminus jictionis Divinæ revelantis ideam cntis aut est aliquid ubsislens, aut non subsistens. Atqui si primum, anima, [uac per huiusmodi manifestationem fit intellectiva, diersa secundum essentiam est ab anima præexistente, icmpe sensiliva, quæ non est subsistens, ac proinde non ina est m homine anima. Sin alterum, anima intellectiva b anima sensitiva secundum essentiam non differret, sed uædam esset eius perfectio, et sic ex necessitate seuilur, quod anima intellectiva corrumpatur, corruoto orpore f . 192. Accedit 1° quod manifestatio ideæ entis nonnisi nimac lntellcclivæ fieri potest, ac proinde animam innllcctivam, nedum constituit, expostulat; 2° quod ex dotnna Ecclesiæ Catholicæ anima intellectiva ex nihilo reatur 2, non \ero per aliquam perfectionem animæ seuHivæ adiunctam producitur. V.— Animas anle corporis formationem non existeic demonstratur 193. Plato post Pjthagoram 3, et Empedoclem * censuit nimas ante hanc vitam terrestrem vixisse aliam coeletem, atque ob ahquod crimen, aliamve causam nobis motam, in terrena hæc corpora detrusas fuisse s. Hanc * I, Ioc. cit. 1^2-133, Romæ 1876. 3 Cf Meiners, Histoire des sciences dans la Cr^cfl,etc.,lib. III, c.4. U Karstcn, Empedociis Agrigent. carminum reliquiæ etc. ihædr., p. I. Non convenit autem inter Platonis interpretos, Piiilos. Cbrist. Compend. II. 7 j o Platonis doctrinam, quam secundum emanatismi sui ph cila Plotinus* evolvit, amplexi sunt Origeniani 4. 194. Animarum præexistentiam alia ratione docuit Leil nitius. Eius sentenlia fuit, omnes animas simul cum mund a Deo conditas, cum propriorum corporum germinibu quæ in Adamo continebantur, coniungi, atque ex illi, ubi lapsu temporum cuiusvis corporis germen evolvitu: singulos homines constitui V 195. Gommunis autem est Philosophorum, ac Theok gorum opinio, humanas animas tunc a Deo creari, cm humano corpori coniunguntur, novusque homo genitt existimatur. Ut huius postremæ sententiæ veritas patc scat, scquentes propositiones slatuimus : 196. la. Animæ humanæ creatæ non fuere an\ corpora. Probatur. In anima naturalis ordo ad coniunctionei cum corpore agnoscendus est 4: quapropter, si anima, ai tequam cum corpore coniungatur, creatur, dicendum e ipsam a Deo creari, ita ut perfectione sibi naturali d nam animæ, corpor ™ iæ con.uncfo, quæ neque ex nalura, neque ex volun>ate .ps.us an.mæ, sed a causa extrinseca proficisci tur *r v.olent.am an.raæ illatara fieri dicenda est ; et auobam omne violentum est conlra naturam, coniunctio ilh amquam ahqu.d naturæ conlrariura babenda foret -2 Weo homo, qux ex utrogue componilur, est quid innaturah quod palet esse falsum 3. "a'ra 198. Eamdem ob rationem, animam in corpus ad sni upphc.um delrudi falsissirnum est. Et san Pf u Sf rgumentatur Angelicus Doctor, poena bono naturæ dversalur, et ex hoc dicitur mala.Si igitur unio an; >æ, et corporis est qnoddam poenale, C est bonura aturæ; quod esl .mpossibile: est enim ntentum per „? .ram, nam ad hoc naturalis generatio terminatur Fr erura sequerelur quod esse horainera non eTset bonum icundum naturam ; cum taræn Geneseos 1,31, fa™ p^XWT" vm Deus cuncta t^PS, .2° Animæ coniunctionera cum corpore poenalem esse Hmitt. nequ.t, qum graviora scelera l.aud iuste a Dr * jp.bus ull.mo supplicio puniri su.natur. U enim Lre ie d.spmav.t s. Cyrillus Alexandrinus : Si aUe cor" ex.stens an.ma peccavit, et idcirco innexa es carni an, ob causam lex graviora quidem peccata mo rto lc ^rf Ver° Vivere ^^ Præstaret quippc ^rmutere turp.ss.morum criminum reos diu in coVoon! s hærere, u hoc paclo gravius punirentur innTen rium esse recepit a Deo, ita quoque ab Eo naturalem suam immoralitatem recepit; camque cum dependentia ab Ipso retinet. 2 Incredibilia prorsus videntur, quæ his postremis annis, præserim ab Heghelianis, contra animorum immortalitatem disputata sunt, idlaborantibus, duce Ruge, Annalium germanorum scriptoribus. .itrauss aperte professus est animorum immortalitatem esse postremum ;iostcm in scientiæ speculativæ campo prolligandum. Eorum oinnium [ma ferme, eademque sententia, quæ ex pantheismi principiis fluit, læc est: Unica est omnium, quæ sunt, vita, eaque infinita, universa tinui progressus *, qui immortalitatem animarum per metempsychosin explicanles contendunt hominem modo sub ista, modo sub illa forma in hac rerum universilate apparere, atque cum moritur, formam, sub qua seipsum in præsentia manifestat, amittere, et post mortem superstitem esse, quatenus novam induit formam 2. Aut. II.— Aniinam huuianam intrinsece immortalem esse dciuonslralur 204. Quoniam immortalitas in continuatione vitæ consistit, ut anima humana intrinsece immortalis dici possit, requiritur eam huiusmodi esse naturæ, ut 1° a corporis yinculis soluta existentiam perpetuo continuet; 2° ut acliones sibi consentaneas exercere pergat, secus haud proprie vivere diceretur; 3° ut sui conscientiam, et præteritarum affectionum memoriam retineat, secus, ut iam innuimus, \itam non continuaret, sed potius novam inchoaret, et præmii, aut poenæ capax non esset. Iam hæc in animam humanam quadrare sequentibus propositionibus a nobis demonstralur : 205. la. Anima humana est nalura sua incorruptibilis, ita ut separata a corpore perpetuo suum esse retineat. Probatur. Anima humana est immaterialis ; ergo natura sua est incorruptibilis, ac proinde nalura sua corpori post mortem superest. Consequens his s. Gregorii Neocæsariensis, sive Auctoris Disp. De Anima, verbis demonstratur: Consequens mihi videtur, ut quod est simplex, etiam sit immortale. Nam omne, quod corrumpitur, dissolvitur; quod dissolvitur, compositum est; compositum multarum est partium.... Quamobrem cum simplex sit anima, neque ex pluribus partibus constet, quia lis, divina; homines huius vitæ unicæ partieulam hahent; post corporis corruptionem hæc particula in vitam universalem illico transfunditur; ex quo fit, ut homines sui conscientiam, rerumque præteritarum memoriam amittant, hoc est personalitate expolientur. Inter hos præcipue commemorandus est Petrus Leroux, infensissimus Ghristianæ Religionis hostis (De V humanite, de son principe et de son avenir, Paris 1840). 2 Non alia ratione de animi humani immortalitate alius eontinui progressus defensor Lamennais sentire \idetur (Esquisse d' une phU losophie, Paris. nec composita esl, neque dissolvi potest, sequitur eam incorruplibilem, et immortalem esse . 206. Hoc argumentum ex Aquinate nostro ila explicatur : Rei corruptio duplici ratione contingere potest, nempe vel per se, vel per accidens. Priori corruptionis generi obnoxia sunt ea, quæ ex materia, et forma constituuntur; ipsa enim suum esse amittunt, si forma a materia separelur ; alteri subiiciuntur omnes formæ illæ, quæ m se non subsistunt, sed quoad sui exislentiam a subiecto corruptibili pendent, ita ut illo, cui insunt, dissolulo, et ipsæ desinant necesse est \ Alqui anima humana eius naturæ est, ut neutro modo interire possit ; non quidem priori modo, quia est subslantia intellectuans: (( nulla autem substanlia intellectualis est composita ex materia, et forma 3; neque altero, quia est forma, quæ habet essc non dependens ab eo, cuius est forma . Ergo. 207. Confirmatur eadem proposilio tum ex operatione, quæ intellectio appellatur, tum ex ingenito illo desiderio, quo anima appetit semper esse. Et sane 1° intellectio exeritur eo quod inlellectus agcns eificit speciem rei actu intelligibilem, nempe immaterialem, et idco incorruptibilem, atque intelleclus possibilis illam, prout huiusmodi est, m se recipit 5. lam faciens est honorabilius facto ; quocirca si intellcctus agens facit actu intelligibilia, quæ, tn quantum huiusmodi, sunt incorruptibilia, multo fortius ipse erit incorruptibilis, ac proinde et anima humana, cuius lumen est intellectus agens \ Item, unum J In Maxima Bibliotheca Patrum, t. III, p. 320, Lujrduni 1677 2 Cf Cosmol., c. V, a. 5, p. 145. Contr. Gent., ]ib. II, c. 55. « Qq. dispp.,q. un. De Anim., a. 14 ad 9. Sanctus Doctor fibid. c.) Hac aha ratione argumcntatur: Esse est aliquid, quod per se consequitur formam. Ergo si forma sit subsistens, nempe talis, ut ipsa sit Uliid, quod habet esse, nequit profecto privari esse; esse enim ab hulusmodi forma separari idem foret, ac formam separari a seipsa id quod impossibile est. Atqui anima humana est forma subsistens. Ergo non potest desinere esse, nempe est incorruptibilis. Cf Dynam., c. IV, a. 4, p. 137 vol. I. « Oportet facientem melius aliquid habere ad faciendum, quam cst id quod facit ; s. Aug., De imm. anim., c. 8, n. 14. 1 Contr. Gent., lib. II, c. 79. quodque, quod recipitur in aliquo, recipitur in eo secunduni modum eius, in quo est . Igitur intellectus possibilis, cum in se recipiat formas rerum, prout sunt incorruptibiles, incorruptibilis sit oportet; ex quo conficitur ipsam animam natura sua incorruptibilem esse, nam intelleclus possibilis est aliquid animæ . 2° Unumquodque naturaliter suo modo esse desiderat; hinc animantia bruta, cum non percipiant esse, nisi hic, et nunc, desiderant quidem esse nunc, non vero semper, quod non apprehendunt; e contrario, cum anima humana vi suæ intelligentiæ apprehendat esse absolute, et secundum omne lempus, naturaliter desiderat esse perpetuum. Atqui impossibile est naturæ desiderium esse inane. Ergo impossibile est, ut vi suæ naturæ anima humana ab existentia desistat 2. 208. 2a. Anima humana a corpore separata intelligere, et velle pergit. Probatur 1° Operatio cuiuslibet rei est quasi finis eius 3. Ergo si anima post corporis fatum est superstes, operationibus sibi consentaneis, quæ sunt intelligere, et velle, expoliari nequit. 2° Intellectus, et voluntas sine organis corporeis exercentur. Ergo remanent in anima a corpore separata . 3° Experimento constat animam, quo magis a sensuum impulsionibus seipsam avocat, eo melius actiones suas i tellectuales exercere 5. Ergo a corporis impedimentis soluta expeditius actiones illas excrcebit. 4° Quamvis eadem sit natura animæ ante mortem, et post morlem quantum ad rationem speciei; tamen non est idem modus essendi, et per consequens nec idem modus operandi fi . Ergo, animæ, secundum illum modum essendi, quo corpori est unita, competit modus intelligendi per conversionem ad phantasmata corporum, 1 Contr. Gent., lib. II, c. 79. 2 Ibid. Qq. dispp., De Ver.% q. XIX, a. 1 c. Contr. Gent., lib. II, c. 81. 5 Anima nostra quanto magis a corporalibus abstrahitur, tanto abstractorum intelligibilium fit capacior (I, q. XII, a. 11 c.) Idem observavit s. Augustinus: Quis bene se inspiciens, non expertus est tanto se aliquid intelleiisse sincerius, quanto removere, atque subducere intentionem mentis a corporis sensibus potuit ; De imm. anim., c. 10, n. 17. 6 De Ver., loc. cit. ad 5. quæ in corporeis organis sunt. Cum autem fuerit a corpore separata, competit ei modus intelligendi per conversionem ad ea, quæ sunt inteiligibilia simpliciter ; sicut et alns subslantns separatis ! . 209. Hæc postremi argumenti conclusio, nempe modum, quo anima a corpore separata intelligit, cum illo qui substant.arum separatarum proprius est, similitudinem nabere, sequenti argumento comprobatur. Anima numana, ut sæpe diximus, medium locum lenet inter substantias intellectuales, et substantias corporeas; quia insa per intellectum attingit ad substantias intelligibiles, in quantum vero est aclus corporis, contingit res corporaJes . Atqui omne medium quanto magis appropinquat -uni exlremorum, lanto magis recedit ab alio; et quanto magis recedit ab uno, tanto magis alteri appropinquat. Lrgo amma quando tolaliter crit a corpore separata, perlecte assimilabilur substantiis separatis, quantum ad modum mtelligendi 3 . ' 210. 3a. Anima separata a corpore perqit habere conscientiam sui, et præteritarum affectwnum. 1 I, q., a. 1 c. ; 2 Rationem, ob quam anima in sui creatione non ita a Deo in stituta est, ut modus intelligendi substantiarum separatarum pro pnus ei conveniat, explicavit s. Thomas, I, q. cit. a. 4 Cf d 234 (et Idealog., c. I, a. 2, p. 194 vol. I. ' Cf In lib. IV Sent., Dist. L, q. I, a. 1,ol., et Contr. Gent., iib. II c. 81. Quinam autem sit hic intelligendi modus, ab eodem sancto Doctore ita breviter explicatur: Dicendurn, quod anima jseparata non intelligit per species innatas, nec per species, quas tunc abstralm, nec solum per species conservatas; sed per species ex influentia Divini Luminis participatas, quarum anima fit particeps, s,cut et aliæ substantiæ separatæ, quamvis inferiori modo. tnde tam cito cessante conversione ad corpus, ad superiora convertitur. Nec tamen propter hoc cognitio, vel potentia non est natural.s: qu,a Deus est auctor non solum influentiæ gratuiti lumi|Jis, sed et.am naturalis (I, q. cit. ad 3). Exinde etiam patet -nunus intellcctus agentis, et possibilis, qui, ut paulo ante adnotanmus, rcmanent in anima separata a corpore, diflerre ab illo quod in præscnti vita obcunt. Audiatur idem Aquinas : Operatio inie lectus agent.s, ct possibilis respicit phantasmata, secundum quod 3St annna corpori unita; sed cum erit a corpore separata, per in-euectum possibilem recipiet species effluentes a substantiis supe(ionbus, et per intellectum agentem habebit virtutem ad intelngcndum ; Qq. dispp., q. un. De Anim. Probatur prima pars. Ab immaterialitalc animæ, ut in Dynamilogia diximus1, repetendum est quod ipsa conscientiam sui hahct. Atqui, si ita res est, animæ separatæ a corpore potiori iure, quam coniunctæ cum corpore, coguitio sui tribuenda est. Ergo. Probatur allera pars. Anima præsenti vita affectionum intelleclivarum recordatur, quatenus pollet intellectu, in quo species rerum, quas antea intellexit, conservantur, et per quem se supra se convertit, ut actu istas species consideret. Atqui, cum anima a corpore separatur, remanent tum intellectus, tum species intelligibiles antea acquisitæ, quia hæ, ut diximus 2, stabiliter in intellectu recipiuntur: tum vis convertendi se supra seipsam. Ergo 3. III. — Utrum anima ab aliqua causa in nihilura redigi possit Hactenus demonstravimus animam humanam eius esse naturæ, ut nullum in se habeat destructionis principium. Jnvestigandum modo est, utrum ipsa ab aliqua causa possit suo esse privari, ita ut in nihilum redigatur. 211. la. Nulla causa creata virtutem habet animam in nihilum rcdigendi. Probatur. Quæcumque, aiente s. Thoma, incipiunt e-sse, et desinunt, per eamdem polentiam habent utrumque . Atqui animæ humanæ, quippe quæ per creationem originem suam habent, ex virtute causæ finitæ incipere esse non possunt. Ergo s. 212. 2a. Deus, si Eius potentia absolute spectetur, 1 Cap. IV, a. 8, p. 147 sq vol. I. Reflectere se super se, inquit s. Bonaventura, hoc est virtutis cognitivæ subliraatæ a materia ; In lib. II Sent., Dist. XXV, p. I, a. 1, q. 3 resol. 2 Dynam., c. cit., a. 11, p. 160 vol. I. 3 a Reminisci, cum sit actus per corporeum organum exercituf, non poterit post corpus in anima remanere; nisi reminiscentia æquivoce sumatur pro intelligentia eorum, quæ quis prius novit; quam oportet animæ separatæ adesse etiam eorum, quæ novit in vita, cum species intelligibiles in intellectu possibili indelebiliter recipiantur ; Contr. Gent., Ioc. cit. Op. cit., lib. II, c. 55. s In nulla creatura est virtus, quæ possit vel de nihilo aliquid facere, vel aliquid in nihilum redigere ; Qq. dispp., DePot., q. V, a. 3 ad 15. polest animam in nihilum redicere; sed hoc, si Eius poHntfacum alns atlribulis consideretur, velle non potesl Probatur 1 pars. Hoc, quod Deus creaturæ esse commun.cat, ex Dei yolunlate dependet ; ncc aliter res in esse conservat nisi in quantum eis conlinuc influit esse. Sicut crgo anlequam res essent, potuit eis non commun.care csse, et sic eas non facere; ita postquam iam factæ sunt, potest eis non inlluere esse: et sic esse desinercnl; quod est eas in nihilum redigere 2 213. Probatur 2" pars. Deus ea velle non potest, quue cum suis attnbut.s pugnant. Alqui destructio animæ Sap.entiæ, Bon.lati, et lustitiæ Dei adversatur. Ergo.," In,Pnm,s> destructio animæ Dei Sapientiæ adversatur. Quod ut mlelligatur, memoria repetendum est destructionem animæ Deo, ut auctor naturæ est, attribui non posse. Lten.m, ut s. Thomas argumentalur: Sic Deus unamquamque naluram instituil, ut ei non auferat SOam naluralem propnetatem. Rerum autem immateria!ium...proprietas naluralis est earum sempiternitas, quia Z rinT •,P?le-"a ad "r0n esse • ul suPra osten um It ?n,.f . J?" •DOn a,,fert tralem inclinationem, E!,„?i,. ™ nd"; !la "°n, auferl rebus P'ædictis semp.tern tatem, ut eas in n.h.lum redigat '. Quocirca animæ destructio præter ordinem naturalem creaturis indi!um even.ret Iam ea, quæ hoc modo fiunt, a Divina Sapientia ord.nantur ad gral.æ manifestalionem... ; redi?ere autcm aliqu.d m nihilum non perlinet ad graliæ firit 1T6?' CUm magis, per hoc Divina Polentia, et B;r"1 ord.ne ur seu ostendatur, quod rcs in esse con versa nr DeSlruct,°,8,tur anlmæ Dei Sapicnliæ ad 21o. Insupcr destructionem animæ Sapientiæ simul ct Bon.lat. Dei repugnare hoc alio argumento conlicilur Hon.num ammis inest vehemens perfectæ bealitatis cupidiM, quac, cum nccessana sit, et constans, a Dco auctore -aturæ ips.s indita est, proindeque inanis esse nejuit' ' Dc hac diversa rationc, qua Potenlia Dei considcrari noipsf l!, Civ!"' 3ftcK" "' Se"'-' D!St'' q" ' 3 "'• ' Qq. dispp'., De Pot., q. cit., a. i c. 4 I, qcil., a. 4 c. 1 Beate certe, inquits. Augus.inus, on.ncs vivere volumus; neque Atqui nemo diffitetur nullam hac in vila esse veram, et perfectam felicitatem, quæ scilicet expleat omnes animæ facullates. Ergo, si Deus animam in nihiium redigeret, ac proinde altera post præsentem vita non superesset, fruslra hunc appetilum ab Ipso singuiis hominibus insitum esse consequeretur, atque Eum admodum crudelem, et homini inimicum fingere deberemus, quia hanc cupiditatem hominum animis inserendo, eos maximopere excruciaret, efficerelque brutis animanlibus deteriores, quorum appetitiones hac in vita plenissime satiantur. Iam horum alterum Bonitati, alterum Sapientiæ Dei repugnat; nam contra rationem sapientiæ esl, ut sit aliquid frnstra in operibus sapientis j. Ergo destructio animæ cum Divina Sapienlia, et Bonitate stare non potest. 216. Hæc autem altera vita perpetua sit oportet; tum quia, ut inquit Auctor libri de Spiritu, et Anima, nullum bonum, præter summum, homini sufficere potest2; tum quia, observante s. Augustino, bonum, quod perfectæ beatitalis cupiditatem explere potest, tale esse debet quod ( homo) non amittat invitus. Quippe nemo potest confidere de tali bono, quod sibi eripi posse sentit, etiamsi retinere id, amplectique voluerit. Quisquis autem de bono, quo fruitur, non confidit, in tanlo timore amiltcndi beatus esse qui potest ? 3 217. Huic argumento respondet Auctor Systematis na~ turæ, homines desiderare vitam corporis, itemque esse divites, etc., nec tamen semper vivunt, nec omnes sunt divites. At reponimus distinguendam esse cupiditatem^nmitivam, et universalem a cupiditatibus secundariis, et particularibus. Illa, cum omnium animis insit, a Deo auctore naturæ originem ducit, proindeque non potest non expleri; hæ autem illi subiiciuntur ; et quoniam ad illam contingenter referuntur, neque in omnibus inveniuntur, neque semper expleri possunt. quisquam est in hominum genere, qui non huic sententiæ, antequams plene sit emissa, consentiat ; De morib. Eccl., lib. I, c. 3, n. 4. i Contr. Gent., lib. III, c. 69. 2 Cap. 14. 5 De morib. Eccl. lib. I, c. 3, n. 5. * Omnis homo naturaliter vult beatitudinem. Et ex hac naturali voluntate causantur omnes aliæ voluntates, cum quidquid homo vult, velit propter finem »; I, q. LX, a. 2 c. anthropologia 287 218. Quod aulem ad iuslitiam Dei atlinet, certum est neque .mprobi.atem sua poena, ncque virtutem suo nræ S flffl„ræSe,nt' VL'a aflici; nam ^gitiosos homines bon,s afflucre, el probos toto ætalis suæ curriculo multis ; bem; at:^us oppressos sæp° videmus0°°° ^ SS Si np„l cums,Ioanne Chrysostomo argumenlamur: non f?teh t.^ a!CUI- feVera CSl ' Eum iustum esse nemo,n°n„an •;• tqU,Ls',ustus est> et his> e0 Zll'T nræm,um '» Præse"ti vita retribui. 'm£ii aTnlemU?: ^ Aut peCCa,um est sulliciens P°ena oeccati, aul non. S primum; ergo in hoc mundo iniuste olunU,S,if^n,n,Ur 'mpii,' S6d reh"qnendisunt omnes ut oluptal.bus hbcre indulgeanl suis; quod quam iniquum, t urpe sit, nemo non videt. Sin allcrum ; ergo aliam os corpor.s morlem, admit.amus vitam oporle,, ne sc,n:et,ns,gn,s improbitas sine poena maneat'. 2° Neque mpn,n hac v,(a scelerum suorum stimulis exagitantur! e ?„ 2i'mPaCe rUUnt,Ur' "iS! aU,'a Utriuue eert0 sciun sse mdicem, qu,,n altera vila singulos præmio vel VZ^TT^1 3° SæPe venit? t"um im ii in qui latis fastigium atdgerint, non amplius conscienæ i slimuli eos mordeanl ; atque e conlrario, ut iusli ravionbus anxielahbus torquoanlur. Proderit ergo per 1 De Lazaro, Concio IV. AmSi;nqUiSi MiCer,et P°enarn peccali in eo consistere, quod Deus aniam in mhil rcdigat, ita a nobis cum s. Thoma redar-ueretur m" ^i I°n ntaS r°nt,a DeUm H ; ^^1"; pessima quacque flagitia vitam ducere, cum virtus in iusto sine præmio maneat. 4° Probi homines quandoque, ne sua violent officia, mortem ipsam oppeterc debent. Ergo nulla huic præslantissimæ illorum virtuti merces rependeretur, si hæc dumtaxat esset recte facti conscientia, atque nulla post præsentem vita animarn maneret1. 221. Rursus contra vim eiusdem argumenti ex iustitia Dei depromptum obiicitur, ex ipso probari quidem animam corporis fato superesse, non vero in æternum esse duraturam. At contra res se habet. Et sane, quod ad præmium spectat, numquam vera forent præmia, nisi huiusmodi sint, ut naturali desiderio perfeclæ felicitatis satisfiat. Aqui perfecta felicilas non est, nisi æterna, ut superius probatum est. Ergo. 222. Quod ad poenam attinet, eius æternitas cum ratione non pugnat, imo consentit. Non pugnat, quia poena peccato proportionatur secundum acerbitatem, atque in nullo iudicio requiritur, ut poena adæquetur culpæ secundum durationem 2. Cum ratione consentit. Etenim 1° eaderri iustitiæ ratione poena peccatis infligitur, et bonis acti Cf Lact., Div. Inst. Epit.y lib. III, c. 12. 2 1 2æ, q., a. 2 ad 1. Hanc rationem adhibuit s. Augustinus, ubi eos refutavit, qui iniustum putabant, utpro peccatis quamlibet magnis, parvo scilicet tempore perpetratis,poena quisque damne tur æterna. Quoniam idem, ac illi veteres, Rationalistæ, inter quos Reynaud [Terre et Ciel, le ed., p. 371-391), hodie repetunt, præsta hæc pauca sancti Doctoris verba proferre: Damnum, ignominia exilium, servitus, cum plerumque sic infliguntur, ut nulla venia re laxentur, nonne pro huius vitæ modo similia poenis videntur æter nis? Ideo quippe æterna esse non possunt, quia nec ipsa vita, quaax est, quia semper defcctus, quo subtrahitur princi)ium, lrrcparabilis est...; sicut si corrumpatur principium isivum, non potest fieri visionis reparatio, nisi sola virute divina.... Et ideo, si per peccatum corrumpatur prinipium ordmis, quo voluntas hominis subditur Deo, erit nordmatio, quantum est de se, irreparabilis, etsi renaan possit virlute divina 2 . Quod cum ita se habeat,'ita rguimus: Ideo peccato poena irrogatur, quia ordo 'per psum evertitur; et sicut, manente causa, manet effectus a quamdiu pcrturbatio ordinis durat, nccesse est ut tiam pocna duret. Atqui perturbatio ordinis ex parte realuræ, uti paulo ante ostendimus, semper durat ac roinde peccatum est quoddam malum æternum. Er"o oena mterminata erit 3. et 3° Apud Divinum ludicium voluntas pro facto comutatur: quia, sicut homincs vident ea, quæ exterius gnntur, ita Deus mspicit hominum corda. Qui autem proter ahquod temporale bonum aversus est ab ullimo fine ui jn ælernum possidetur, præposuit fruitionem temoralem illius boni temporalis ætcrnæ fruitioni ultimi rus; unde patet quod mullo magis voluisset in æternum lo bono temporali frui. Ergo, secundum Divinum Iudium, ita punin debet, ac si æternaliter peccasset. Nulli Jjcm dubium est, quin pro æterno peccato æterna poena fceatur. Debetur igitur ei, qui ab ultimo fine avertitur, >ena æteiVia . 4° Habet quodlibet peccatum contra Deum commisim quamdam infinitatem cx partc Dei, contra quem comUtitur. Manifeslum est enim quod quanto maior per>na cst, contra quam peccatur, tanto peccatum est graus; sicut qui dat alapam militi, gravius reputatur, quam oaret rustico, et adhuc multo gravius, si daret Prinpi, vel Regi. Et sic, cum Deus sit infinite magnus, ofnsa contra Ipsum commissa est quodammodo infinita; \ %??' Gent-> Uh' ni c W-2 la 2æ, q. cit., a. 3 c. f Ibld— Contr. Gent., loc. cit. Philos. Ciirist. Compend. II. ? |Q unde et aliqualiter poena infinita ei debetur. Non autet potest esse poena infinita intensive, quia nihil creatuc infinitum esse potest. Unde relinquitur, quod peccato moi, tali debeatur poena infinita duratione 4 . IV.— Refutantur argumenta contra animæ immorialitatem 223. Obiic. 1° Forma non habet esse, nisi in eo, in qu est. Atqui anima humana est forma corporis. Ergo no potest esse, nisi in corpore, ac proinde perit, perempt corpore. 224. Resp. Dist. mai.: si sit forma, quæ dependet al eo, in quo est, conc. mai., secus, neg. mai. ; sub eadei dist. neg., et conc. min. Neg. cons. Anima, ut sæpe d: ximus, est talis forma, quæ habet esse non dependens a eo, cuius est forma; ac proinde, corrupto corpore, in su esse perseverat. Exinde etiam patet, quod etsi anima, tj corpus in uno esse hominis conveniant, tamen, corrupt corpore, adhuc remanet anima, quia, ut etiam alibi d ximus2, illud unum esse est ab anima, ita quod anim, humana esse suum, in quo subsistit, corpori commun cat 3 . 225. Obiic. 2° Naturalis est animæ unio cum corpon Atqui hæc naturalis coniunctio expostulat, ut anima no nisi cum corpore existere possit. Ergo anima separata corpore in existentia perdurare nequit. 226. Resp. Dist. min.: si nihil obstaret ex parte corpc ris, conc. min., secus, neg. min. Neg. cons. Sane, cum m turale sit animæ esse corpori unitam, ipsa ex sui natur 1 Opusc. III, c. 183. Aliud pro æternitate præmiorum, et po narum argumentum desumi solet ex eo, quod efficacia sanctionis 1 gis moralis illam exigit. Cum enim Deus hominibus leges simul, libertatem largitus sit, consentaneum fuit, ut eos aptissimis incit mentis, salva tamen eorum libertate, ad legibus obsequendum mov ret. Præmia autem, et poenæ temporaneæ ad id obtinendum inep sunt; siquidem ista, utpote et adhuc multum remota, et non perp tuo duratura, homines facile posthaberent. Quapropter necesse fui ut Deus præmia, et poenas numquam desituras humanis animabi statueret, easque proinde immortales efficeret. Cf Nicolas, Z^wdes ph los. sur le Christianisme. t. II, c. 8. 2 Cf p. 191, not. 6. 5 Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 14 ad 11. xigit esse cum corpore. At, quoniam corpus est corrutibile, ipsum recedit a dispositione, per quam est apim ad recipiendum vitam ; atque ita fit, ut anima a Drpore separetur2. Quocirca propler corruptionem corons evenit, ut ipsa persevcret essc sine corpore. Illud Btem monendum est, statum, in quo anima sine corpore ustit, esse quidem præter naturam ipsius 3, quia anima t.sacpe diximus, ex se exigit esse cum corpore, sed non nusmodi, ut animæ naturæ adversetur ; nam anima lamsi separata sit a corpore, tamen naturalem inclina^nem ad ipsum retmet 4. 227 Obiic. 3° Id, quod est ex nihilo, in nihilum redijri ooq ^,U1 anima humana ex nihiJo est. Ergo. J2H. Ilesp. Dist. mai.y ita ut natura sua in nihilum tent, neg. mai., ita ut nisi a Deo conservetur, in nihilum digatur, conc. mai. Neg. cons. Re quidem vera tenre in nihilum non est proprie motus naturæ, qui semr est in bonum b . Quoniam vero creatura a seipsa non istit, neque idcirco ex vi suæ naturæ in existcntia rseverat, in n.hilum redigi non potest, nisi quatenus sisut virtus, quæ illam in esse conservat6. Hæc au Qq. dispp., loc. cit. ad 20. Hinc mors, per quam anima a corpore separatur, est, docente em Aqmnate, naturalis homini ratione corporis, non vero animæ: orma nominis est anima rationalis, qoæ est de se immortalis: et ) mors non est naturalis homini ex parte suæ formæ. Materia em hom.nis est corpus tale, quod est ex contrariis compositum, quod sequitur ex necessitate corruptibilitas, et quantum ad hoc s est hornini naturalis ; 2a 2æ, q. GLXIV, a. 1 ad 1 CUm fuerit a corP°re separata, habcns aYvvm' C 4mc\mllonc™ naturalem ad corporis unionem ; I • tem virtus solius Dei propria est. lam vero satis a nobis demonstratum est animi annihilalionem cum Dei altributis contradicere. Refutalur metempsychosis Metempsijchosis, sive transanimatio, vel transcorpo nj ratio vulgo dicta est illa theoria, qua animarum ab un^ in aliud corpus transmigratio adstruitur !. lam, teste D Thoma, cc omnes, qui posuerunt animas extra corpora crea ri, posuerunt transcorporationem animarum, ut sic anim exuta a corpore uno, alteri corpori unirelur, sicut honn r exutus uno vestimento linduit alterum2 . Sane Plato, qui ut iam diximus3, censuit animos ex astris in humana coi pora immissos fuisse, docuit etiam illos, qui recte vitai, egerint, ad astra reversos vitam beatam potituros essq contra, eos, qui immoderate vixerint, in corpora deteric, ra, et, si ne tum quidem finem yitiorum fecerint, in bru, torum figuras suis moribus sirnillimas mutatum iri, n6; que ante ab huiusmodi mutationibus cessaturos, quarr affectibus sedatis, ad primum, optimumque sui habitui redierint4. Hac nostra ætate a Petro Leroux, et a ceti ris continui progressus assertoribus metempsychosis, i in primo articulo diximus 3, ad vitam revocata est. E adstipulati sunt Remy 6, Michelet1, Reynaud 8, et Andi Pezzani9. lh i Palingenesia, idest regeneralio appellari quoque solet, quia priori corpore vivere desinit anima, et in alio, quod de novo sumi vitam auspicatur. 2 Qq. dispp., De Pot., q. III, a. 10 c. — 3 273 sq. 4 Ante Platonem a Pythagora, eiusque discipuiis metempsycnos decretum in Græcia ubique propagatum fuit Pythagoram vero h decretum ab Ægyptiis, aliisque Orientis populis didicisse comper res est. Sane metempsychosi Ægyptios, et Chaldæos adhæsisse v teres passim tradidere, eaque in omnibus Indicæ philosophiæ ScboL æque inveniebatur. 3 278-279. 6 J)e la vie, et de la mort, par le Dr Remy, Paris 1847. i Ipse in libro Le peuple eo impudentiæ devenit, ut ob hanc ai marum transmigrationem inter bruta, et homines cognationem agn yerit, et bruta fratres sæpe appellaverit. 8 Terre et Ciel, PariS 1854. 9 La pluralite' des existences de Vame, lib. IV, c. I, p. 38b sq Paris. Ficri nequit ut unius hominis anima de suo n aliud corpus commigret. Probatur. Animarum numerica differentia ex ordine d ^diversa corpora, quorum sunt formæ, inspicienda st2; quapropter si corpora sunt numero diversa, necesse st, ut animæ sint numero diversæ. Atqui, si animæ unt numero diversæ, prout sunt diversa corpora, fieri lequit, ut una, eademque anima, quæ aliquod corpus nformat, in aliud corpus commigret. Ergo . 2° Si una anima diversa corpora generata informaret, dem numero homo per novam generationem ilerum exiteret, sive, secundum Platonem, homo non nisi anima orpore indula esse dicatur, sive anima tamquam sublantialis forma corporis agnoscatur; sicut enim esse, ita t unitas formam rei consequitur, et ideo illa, quorum orma est numero una, sunt idem numero. Atqui fieri equit, ut per novam generationem idem numero iterum xistat homo; na m, cc cum generalio, et corruptio sit mojs in subslantiam, in his, quæ generantur, et corrumuntur, non manet substantia eadem, sicut manet in his, uæ secundum locum moventur. Ergo absurdum est nimam, quæ hoc corpus informat, in aliud corpus com)!grare. Quod si anima ex uno in aliud corpus humanum ansmilti nequit, ipsius in corpus belluinum transmi^rao inter humana deliramenta adnumeranda esl. Etenim nima est forma corporis et motor eius. Atqui determinate formæ determinata materia debetur, et determinato mo)ri determinatum organum, sicut quælibet ars in agenle titur propriis instrumentis. Ergo anima humana nonisi cum corpore humano coniungi potest. Præterea, si nimæ humanæ ad corpora brulorum informanda transent, seu brutorum formæ fierent, operationes horum roprias exercerent, suamque naturam amitterent. Iam Metempsychosis, ut s. Thomas advertit, Fidei contradicit, hæc um animam in re>urrectione idem corpus resumere prædicat quod jponit ; Contr. Gent., lib. II, c. 44. 2 Cf Ontol., c. VII, a. 3, p. 48. Ex corpore recipit esse indiduatum; quod quia non dependet ex corpore, remanet individuatio, iam destructo corpore ; In lib. II Sent., Dist. III, q. I a 4 ad 1 s Contr. Gent., lib. II, c. 83. i In lib. II Sent., Dist. XIX, q. I, a. 1 sol. hoc in primis absurdum est, cum rerum naturæ sint immotæ; deinde, si admitteretur, finis, ob quem anima ad huiusmodi corpora deprimi dicitur, ut nempe scelerum poenam luat, et beatitudinem assequi possit, inanis foret ; nam si animæ sint formæ brutorum, poenarum capaces non sunt, neque mereri possunt, ut ad vitam meliorem revertantur. Quin immo ipsa metempsychosis rueret; non enim eadem anima, quæ antea corpus humanum informabat, sed anima diversæ naturæ corpus belluinum informaret. Si demutationem capit, ita arguebat Tertullianus, amittens quod fuit, non erit quæ fuit; et si quæ fuit, non erit, soluta est metemsomatosis, non adscribenda scilicet ei animæ, quæ si demutabitur, non erit. IIlius enim metemsomatosis dicetur, quæcumque eam in suo statu permanendo pateretur. Mirum itaque non est, si nonnulli Ecclesiæ Patres hanc sententiam seria refutatione indignam habuerint Abiiciamus hæc, s. Augustinus aiebat, et vel rideamus quia falsa sunt, vel doleamus, quia magna existimantur Sunt ista, Fratres mei, magna magnorum deliramentf Doctorum. Modus, quo ab hodiernis Pantheistis immortalitas animæ explicatur, refellitur. lam Plotinus putavit mentem humanam ita natura sua comparatam esse, ut paullatim ad simplificationen pervenire queat, scilicet ad illum statum, in quo, destru cta dualitate subiecti, atque obiecti, se unum, idemquc cum Uno, sive Absoluto agnoscat 3. Hæc doctrina, quam Plotinus magna ex parte £ Stoicis accepit, palingenesia, sive regeneratio dicta est, eam que omnes Pantheistæ, in primisque hodierni heghelia ni , licet diversis modis et sub diversis nominibus, illan amplexati sunt. Hinc, ipsi, ut antea diximus s, animai^ ex eo immortalem esse docuerunt, quod post corruptio nem corporis in Divina substantia, sive, ut aiunt, Abso luto absorbetur. Iam, omissis vitiis pantheismi, ex qu que. Ceterum, etsi Essentiam Dei non comprehendamus, seu non cognoscamus, quantum in se cognoscibilis est, tamea aliqua imperfecta ratione, ut mox dicemus, Eam atting 1 Cf Criteriol., loc. cit., p. 284 vol. I. Cf etiam definitionem Con cilii Vaticani,quam exscripsimusin JeZeaZ.,c. I,a.9,p.214, not. 4, vol.I z I, q. III, a. 4 ad 2. Nec hoc, idem sanctus Doctor inquit,! debet movere, quod in Deo idem est Essentia, et Esse, ut primi ratio proponebat. Nam hoc intelligitur de Esse, quo Deus in seips> subsistit, quod nobis quale sit, ignotum est, sicut Eius essentia; noi autem intelligitur de esse, quod significat compositionem intellectus sic enim esse Deum, sub demonstratione cadit, dum ex rationibu demonstrativis mens nostra inducitur huiusmodi propositionem deDe formare, quæ exprimat Deum esse ; Contr. Gent. THEOLOGIA NATVRALIS nus; et quoniam inter existentiam Dei, et Eius essentiam listinctio rationis admittenda est, optime possumus illam,:ognoscere, quin hanc adæquale cognoscamus. > 6. 2a. Deum existere etsi sit veritas per se nota, ta~ \nen est per se nota tantum secundum se, non vero etiam nons, acproinde indiget demonstratione, ut anobis cognoscatur. Probatur. Quælibet propositio, cuius prædicatum est q ratione subiecti, per se nota dicitur. Iam propositiones ;er se notæ vel huiusmodi sunt, ut constent terminis imiQediate notis apud omnes, e. g., omne totum est maius ]ua parte; vel huiusmodi, ut carum termini non sint apud j-mnes noti; unde licet prædicatum ad rationem, sive esjentiam subiecti pertineat; tamen, quia definitio subiecti on est omnibus nola, necesse non est tales propositiojes ab omnibus concedi, e. g., omnes recti anguli sunt {equales. Islæ per se notæ appellantur tantum secundum b, et non quoad nos; illæ per se notæ dicuntur non so>jm secundum se, sed etiam quoad nos. Hoc posito, ita arpmentamur: Propositio per se nota secundum se est, cu-,us prædicatum includitur in ratione subiecti, atque projositio per se nota quoad nos est, cuius prædicatum injolvitur in ratione subiecti, et nobis innotescit ratio sub-,^cti, et prædicati. Atqui in hac proposilione, Deus exiit, prædicatum includitur in ratione subiecti ; cum nim Dcus sit suum esse, existentia ad ipsam Eius essen-,am spectat; nobis tamen nota non est ratio subiecti, et rædicati ; nam terminos secundum propriam rationem on apprehendimus, atque illos invicem necessario conecti, sive esse ad ipsam Dei essentiam pertinere, simplii mcntis obtutu non cognoscimus. Ergo hæc propositio, }eus existit, est per se nota secundum se, nobis tamen iOn est per se nota, sed demonstrativo discursu indiget1. 1 I, q. II, a. 1 c. Existentiam Dei sine ulla demonstratione admitndam esse Kantius, Fridericus lacobi, atque Lamennaisius alia ra ^ne^tuentur. Kantius enim, uti alibi diximus {Criteriol., c. III, a. 1, 271 vol. I), Dei cxistentiam ratione theoretica probari non posse, d tamquam rationis practicæ postulatum fide morali illi vcritati edendum nobis esse autumat. Iacobi autem, hodiernæ scholæ seninentalisticæ auctor, Deum a nobis cognosci contenditnon ratione, d instinctu, nempe sensu interiori invincibili, qui tum existcntiam ;3i, tum alia dogmata ad mundum intelligibilem spectantia, ncc non undi sensilis existentiam nobis revelat (vid. Sermones de Religione 7. Obiic. 1° Veritatem esse, est per se notum etiar quoad nos. Atqui Deus est ipsa Veritas, Ergo Deum esse, e; per se notum non solum secundum se, sed etiam quoadno, 8. Resp. Dist. mai.: si agatur de veritate communitc accepta, conc. mai., si de veritate per se subsistente, neu mai.; item dist. min. Detis est ipsa veritas per se subs stens, conc. min.; est verilas communiter accepta, neg. mir Neg. cons. Sane veritatem esse in communi ita est per gj nolum, ut nulla demonstratione a nobis cognoscatur; qi enim veritatem esse inficiatur, iam aliquam verilatem æi cognitionem pervenire nobis liceat, mox explicabiius. Satis sit hic observare nullam ex eiusdem Carlesii rincipiis rationem esse, cur idea Dei nobis innata dicen De Fide orthod., lib. I, c. 1. 2 Ideal., loc. cit., p. 214-215 vol. I. Idipsum ex mox dicendis mplius dcclarabitur. 3 ln lib. I Sent., Dist. III, q. I, a. 2 ad 1. 4 I, q. II, a. 1 ad 1. 5 Contr. Gent., lib. I, c. 11. Yid. Kleutgen, La Filos. antica cspofa e difcsa, t. III, tratt. V, c. 3, § I, p. 134 sqq; § II, p. 149 sqq, oma 1867. da sit. Etenim Cartesius hæc docet: In infinito duo spei ctanda esse, rem ipsam, quæ infinita est, et infinitioneml quæ in re illa infinita est: rem infinitam nos posse per cipere positive quidem, sed non adæquate; siquidem cunj finiti simus, infinitum comprehendere non possumus : in finitionem vero a nobis cognosci negative, quatenus ab in finito omnes limites per mentis actionem removemus1 Ex quibus ipsius Cartesii principiis colligitur ideam re infinitæ finitam esse et quoad ipsam rem infinitam, quiil eam perfecte non comprehendimus, et quoad infinitioneml cjuia quod negative cognoscitur, sane non cognoscitu: infinite. Quod si idea rei infinitæ, quam in mente habe mus, non est infinita, patet eam aliunde proficisci posse quam a re itidem infinita; atque ideo nulla est ratio, ol quam illa debeat esse innata. Accedit 1° quod mens irj cognitione rerum eas non producit, sed detegit 2, aosse. Quocirca argumentatione a posteriori adhuius ve•itatis cognitioncm nos pervenire dicendum est: Per cfeclus de Deo cognoscimus quod est, et quod causa alioum est ; cum enim res coeperint esse, oportct, ut ab iliqua causa sint, quæ dat omnibus esse. Ecquis, ait )amascenus, hoc nobis non assentiatur, omnia, quac sunt, nulabilia esse? Cum ergo mutabilia sint, sane etiam creata 5>se oportet. Si vero creata, haud dubium, quin ab aliuo opifice sint condita. Alqui Creatorem increatum esse ecessum est; nam si Ipse quoque creatus est, aquodam rotecto crealus erit, sicque donec ad aliquod increatum enenmus2 . 20. Ex his autem argumcmis a posteriori illud, quod x eilecluum, sivc mundi existentia, et natura depromiir, metaphysicum; iliud autem, quod admirabilis mundi rdo nobis suppctit,^%52^m, seu physico-theologicum apeilatur. His argumentorum generibus addi solet argulentum morale, quod nempe ab omnium populorum conmsione petitur. Argumentum metaphysicum iis quinque, fo-iD Tho™ proponilur3, rationibus hic exhibemus: l\. Frima ratio ex motu, seu mutatione rerum mundaarum ducitur: Existit motus in rerum natura. Atqui hic \ n°nZ'fent'S Hb' m c 49' Cf s' Bonav Lum&l; Serm. V. De Fide orth.y lib. II, c. 3. Unde scio, inquit s. Augustinus, na vivis, cmus animam non video? unde scio? Respondebis: Quia quor, quia ambulo, quia operor. Stulte! ex operibus corporis agnoo viventem; ei operibus creaturæ non potes agnoscere Creatorem ? wrr.in Ps.LXXIIT, n. 25. Cf De Civ. Dei,\\h. VIII, c. 6; Conf., lib. ij, c. 17 n. 23; De Gen. ad litt.y Jib. IV, c. 32, et alibi passim. "i ' " ac toas ,,?£ Er r^^-8-^ entibus ^o^Str^ffi-et tos rj„° bi .nutuo ca,sa simu, et X',1:110 f""0' ' I,od dno enti° sin mstare entibus i T C ^0^8. Silne.,Pona'n^ circulum istum ..,„ entis B, et remoum ;„n n °S' ""V >j la 2o, q. I, a. 2 c. Cf Ontol., e. IX, a. 4, p. 66. Hoc argumentum, cum in illud recidat, quod pht/sico-theolonieum passim appellatur, fusius in quinto articulo proscquemur. rium existit, profecto ab existentia entis contingeniis pcndere haud potesl. Atqui in argumento melaphysico existentia Dei ab existentia mundi pendere adstruitur. Ergo. 33. Resp. Conc. mai.; neg. min. Neg. cons. Sane, cum arguitur, Mundus existit ; atqui mundus existere nequit, quin existat Deus : ergo existit Deus ; mundum esse causam, cur Deus existat, minime adstruitur, sed mundus habetur, uli principium cognoscendi, seu uti signum, quo cognosci possit Deum existere, et Deus uti principium essendi, seu uti ratio, cur mundus existat. 34. Obiic. 3° nlii passim: Nulla inter creaturas, et Deum est proportio. Ergo ex crealuris ad Deum assurgere nobis non licet. 35. Resp. Dist. ant.: nulla est proportio entitatis, sive naturæ, conc. ant.; nulla est proportio connexionis, et dependentiæ, neg. ant. Neg. cons. Etenim, etsi creatura qiioad sui naluram infinite distet a Deo, lamen potest esse proportio creaturæ ad Deum, inquantum se habet ad ipsum, ut effectus ad causam, et ut potentia ad actum ! . Iam ob hanc connexionem inter effecturn, el causam, non vero ob identitatem naturæ, ab existentia creaturæ existentia Dei infertur. Hæc autem illatio rite, recteque concluditur; nam per effectus non proportionatos causæ non potest perfecta cognilio de causa haberi, sed tamen ex quocumque effectu polest manifesle nobis demonstrari causam esse ; et sic ex effectibus Dei polest dernonstrari Deum esse; licet per eos non perfecte possimus Eum cognoscere secundum suam essentiam2 . 36. Inst. Eorum, quæ sunt relativa, et connexa, eadem ratio est. Alqui ab Enlis necessarii existenlia nequit entis contingentis existentia inferri. Ergo a pari ne ab existentia quidem huius potest illius existentia argui. 37. Resp. Dist. mai., si connexionis relatio est mutua, conc. mai.,s\non est mutua, neg. mai.\ conc. min. Neg. cons. Relatio inter contingens, et necessarium non est mutua ; ens enim contingens postulat, ut sit Ens necessarium, a quo in suo esse delerminetur, secus absque causa existeret ; e contrario, Ens necessarium, sibi soli suffi 1 I, q. XII, a. 1 ad 4. Cf s. Bonav., In lib. III Sent., Dist. XIV, a. 1, q. 3 ad arg. 2 Ibid., q. II, a. 2 ad 3. cicns, nihil in sui nalura includit, quod productionem contingentis exigat. Quod si relatio inter Deum, et creaturas non est mutua, paritas illa, quæ obiectione institui| tur, consistere non potest !. 38. Obiic. 4° Effeclus finilus a causa finita potest produci. Ergo ab existentia mundi, qui est effectus finitus, existentia Dei, qui cst infinitus, perperam colligitur. 39. Resp. Dist. anl.i supposita causa infinila, conc. ant., secus, neg. ant. Neg. cons. Sane effectum finilum causa finila gignere potest, ita tamen, ut Causa prima, sive infinita subaudiatur. Etenim 1° quælibet causa finita, et contingens cum a se neque existere, neque agere valeat. Causam, quæ a se existit, et a qua pcndet, exigit, ut ahqucm operetur effectum. 2° Causa finita, cum non producat ex nihilo substanliam alicuius rei, sed tantum quemdam modum essendi in substantia iam existente inducat, causam, ex qua substanlia rei, super quam agit, e nihilo producitur, expostulat. Iam causa, quæ a se existit, et quæ virtute producendi substanliam rei ex nihilo pollet, infinita est. Ergo intelligi non polest, quomodo a causa finita effectus finitus proficiscalur, nisi existentia Causæ infinilæ adstruatur. Exinde illud etiam perspicitur, quod eisi mundus sit effectus finilus, tamen, cum eius origo nonnisi per productionem cx nihilo explicari possit, causam postulat infinitam. 40. Obiic. 5° A sensu distributivo, ut aiunt, ad collectivum non valet illalio. Ergo, etsi singula entia contingentia nequeant ex sui natura in exislentiam prodire, idem de tota serie non licet colligcre. 41. Resp. Dist. ant.: si de proprietatibus accidentalibus senno habeatur, conc. ant., si de proprietalibus essenlialibus, neg. ant. Neg. cons. Cum de proprietatibus accidentahbus agitur, non licet argumentari a singulis ad totam collectionem, quia id, quod convenit loti collectioni, potest noii convenire singulis. At vero, si de proprietatibus cs>enlialibus, valet argumentatio a singulis ad lotam collectionem, illæ enim æque singulis, ac toti collectioni conveniunt. Iam esse ab alio essentiale est entibus contin (pntibus. Ergo neque ea singula, nequc lola ipsorum coljlectio, etiamsi infinita supponatur, possunt esse a seipsis. 1 Cf Logic, p. I, c. I, a. 8, p. 19-20 vol. I. Declarari id potest exemplo collectionis lapidum, quæ, etsi infinita ponatur, nihil continere potest, quod lapidis ad ratiocinandum impotentiam excludat. V. — De argumento physico-theologico 42. Argumentum physico-theologicum ex mundi specie, et apta partium dispositione sumitur. Iam hoc argumentum, ut Hoockius ait, qui copiosius velit pertractare, illi tota Physiologia est percurrenda . At nobis, qui compendio studemus, satis est existentiam Dei ex ordine mundi generatim spectato comprobare. 43. Itaque argumentum hoc modo conficimus: Mirificus in hoc mundo ordo existit. Atqui, nisi Ens infinita intelligentia præditum, nempe Deus, auctor huiusmodi ordinis assignetur, admirandi illius effectus causa sufficiensj tollitur. Ergo 2. Quod spectat ad maiorem, res mundanæ, quemadmodum alibi a nobis ostensum est 3, etsi variarum specierum sint, tamen ita inter se colligantur, ut unicum, mundi systema efforment; alque non obstantibus innumeris, variis, et partim contrariis, quibus præditæ sunt, viribus, per causas efficienles, et finales secum invicem connectuntur, et per constantem harum, quas inter se ha-l( 1 Theol. nat. et rev. principia, t. I, pars I, sect. I. Sane, quælibet' res in natura attente consideretur, nos ad agnitionem Dei ducere pot-' est. Hinc quamplurimi fuerunt, atque sunt, qui ex uno tantum entium>i genere, e. g., ex oculi dumtaxat, aut auris, aut manus artificio, aut| ex pluviæ, vel grandinis, aliarumque meteorarum generatione, vel, ex sola dispositione, et cursu astrorum, vel etiam ex insectis, etj vegetabilibus Sapientissimi Conditoris existentiam demonstrarunt. ' Atque quo rerum naturalium studium magis perficitur, eo plura huiusmodi argumenta a sapientibus explicantur. Gf \ Ubaghs, Inst. phil.y pars IV, Theod., Appendix notarum, nota A. 2 Huius argumenti vim senserunt, et prædicarunt viri omnium ætatum sapientissimi. Ex antiquis satis erit memorare Platonem,!i Aristotelem, Ciceronem. Ex Ecclesiæ Patribus laudari inter omnes debent s. Iustinus, s. Gregorius Nazianzenus, s. Gregorius Nyssenus, s. Basilius, et s. Augustinus, quorum præclaram expositionem protulimus in Op. Elem. seu Inst. phil. christ., vol. III, Theol. natur., c. I, a. 4, p. 36 sqq (vel 367 sqq alt. edit. Neapol. 1873). Ex recentioribus meminisse iuvat rerum naturalium peritissimos Keplerum, Copernicum, Newtonum, Eulerum, Leibnitium etc. 5 Cosmol., c. VI, a. 1, p. 147 sqq, et a. 3, p. 151 sqq. bent, rclationum harmoniam, et consensum ad unicum filem concurrunt. Atqui ex his ordo Universi exurgit. Ergo le ordinis mundani existentia nulla occurrere potest dubitatio. 45. Quod autcm ad minorem attinet, in primis, cum >rdo sit apta dispositio mediorum ad finem, liquido palet •ausam mundani ordinis non nisi intelligentem esse posse; !iam intelligenlis est finem præfigere, atque apta media iccommodare. Deinde huiusmodi causa infinite intelligens, lempe Deus, sit oportet. Re quidem vera, constantia orlinis m rebus mulationi obnoxiis subsistere haud posset me fixis legibus, quæ nec per mutuam collisionem, nec er vicissiludincs, contrariosque eventus umquam labeactarentur. Qui igitur ordinem constantem instituit, deNiit omnes possibiles legum collationes prævidere, easue dumtaxat seligere, quæ numquam ad collisionem perenirent, et nullo adverso eventu subverterentur, aut sal2m per oppositam rerum vicissiludinem ad pristinam dipositionem redirent; hinc debuit etiam omnes possibiles ventus, qui ex causarum activitate provenirent, omnesue eorum concursus perspectos habere; quinimmo cum t homines partem huius ordinis phjsici constituant, ab orumque hbera cooperatione constantia ordinis ex parte ependeat, plurimaque entia libero eorum usui subiilantur, debuit futuras eorum Hberas actiones prævidei Atqui prævisio omnium possibilium eventuum, atue actionum libcrarum infinitam intelligentiam necessao expostulat. Ergo '. 46. Obiic. Multa sunt in mundo impcrfecta, immo inuha, et noxia. Ergo ordo mundanus Causæ Sapientissiæ attnbui nequit. 47. Uesp. Neg. ant. In primis, eoruni, quæ in hoc undo occurrunt, si in seipsis spectcntur, nihil imperfeum dici putest. Etenim quænam non est vel in vilissio cuhce ordinata constructio parlium ? quinam vel in Cf Suarez Met., tom. II, dispp. 29, scct. 2. Imprudcnter noniili philosoplu catholici nullam vim argumento physico-theologico esse docuerunt, nisi metaphysico fulciatur. Sane huiusmodi arguJntum ea, quæ a nohis propositum fuit, ratione, non cuiuslihet usæ ordinantis existentiam, sed causac infinitæ, ncmpe Dei, per evincit. 'x 7 r minima plantula fibrarum contextus ? Quod si aliqua res cum aliis nobilioribus conferantur, minus perfecta quidem sunt; at vero hæc diversa partium perfectio a, compositionem totius plurimum confert; aiente enim s. Ai gustino, cc ita ordinantur omnes (res) officiis, et finibi suis in pulcritudinem universitatis, ut quod horremus i parte, si cum toto consideremus, plurimum placeat2, 48. Insuper, monente eodem sancto Doctore, de singi, larum rerum utilitate recte non potest iudicari, nisi earui relatio ad totum universum perspiciatur 3. At vero nr tot, tantarumque rerum, quæ in mundo sunt, nesjUm variorumque finium subiectionem, eorumque ad ultimun finem relationem mente assequi non valemus. Si igitu totus ordo, singularumque rerum nexus perspectus nobr non est, inutile, vel noxium dicere nihil possumus. i inlrares forte, ad rem ait s. Augustinus, in officinam fij bri ferrarii, non auderes reprehendere folles, incude malleos. Et da imperitum hominem nescientem quidj quare sit, et omnia reprehendit. Sed si non habeat per tiam artificis, et habeat saltem considerationem homini quid sibi dicit? Non sine causa hoc loco folles positi sun artifex novit quare, elsi ego non novi. In officina non av det vituperare fabrum; et audet reprehendere in hoc mui do Deum ? Ceterum, ut aliqua ratione apprehendi po, sit, quantum in iis, quæ videnlur noxia, Divina Sapieii tia eluceat, audiendus est D. Chrysostomus, sic inquien c Pcrv'gata est illa sententia Tullii: [Nulla est gens tam immansueta, tamque fera, quæ •n, etiamsi lgnoret, qualem Deum hahere debcat, tamcn bcndum esse sciats . Accedunt historici veterum popurum. Nulli enim sunt, qui non sui populi, et aliorum, lorum historiam scribunt, religionem referant; in assenda Dei exislentia unanimes, licel in reliquis sæpe disntiant. Quoad autem nationes rccentioribus temporiis detectas, pariter nulla est, quæ in admittendo Nuine non consentiat, testibus ipsis historicis religionis stræ inimicis. Fuere quidem, qui linguæ aliquorum pulorum haud satis gnari spcciem quamdam atheismi ler cos detexisse putabant; verum viatores posteriores, rn magis lnstructi, eadem loca pcragrantes, non obscura hgionis indicia invenerunt . Nec quemquam moveat fuisse quosdam, et esse etm modo, qui nullum extare Deum putent. Etsi enim admittalur b, tamcn argumenti vis nullo modo minui 1 Vid. Ginoulhiac, Histoire du dogme catholique, t. I, par. I, . I, c. V, p. 21 sqq, Paris 1852. i Strom., lib. V, n. 260. s De Legibus., lib. I, c. 8. Vid. Feller, Catdchisme philosophique, t.I, c.l, etBrenna,Z)e gene humani consensu in cognoscenda Divinitate, par.l, lib.I, c.II et III. 1 Qui Deum esse inficiantur, athei, uti iam diximus, ' vocantur. loniam autem diversis modis Deus negari potcst, multiplex extat leorum genus. Si qui essent, qui ob mcntis tarditatem omni pror5 Dei cognitionc destituantur, athei negativi dicerentur. Qui vero um ab aliis agnosci, ct adorari non ignorant, ipsi tamen summa ellectus excæcationeEum agnoscere detractant, aut cavillationibus lerc nituntur, athei positivi, vel dogmatici audiunt. Ii autem, qui n verbis Deum negant, sed tarn pravis moribus vitam suam instimt, quasi nullum timeant Deum, athei practici vocitantur. Iam •o multos osse practicos atheos, et qui simulate, et fallaciter perisioncm de Deo in suis, et aliorum mentibus, conquisitis undique nunculis, labefactare, et delere conantur, lugenda experientia docti mus. Utrum autem veri athei negativi, atque dogmatici extiterint. extent, decertatur inter Scriptores. Quæstio hæc ita enunciari tur, quippe sicut non a raonstris forma humana, ita nec a paucis, brutorum instar depravalis, natura rationalis inquirenda est. 54. Obiic. Opinio de Deo ortum ducere potuit ex igno potest: 1° Sunt ne homines aliqui tam ignari, ut Deum esse omnin( nesciant ? 2° Num homo quisquam ratiocinando ad eam opinionun perversitatem pervenire possit, ut re ipsa sibi persuadeat, non ess#nita corriguntur. E contrario, opinio de existentia Dei er totum orbem diffusa, sæculorum progressu magis, 1 Vid. p. 312, not. J, ct 2. magisque innotuit, eamque ipsi quoque sapientes, quorurr est præiudicia corrigere, constanter lenuerunt. CAPVT II. De natura Dei I. — Dei naluram infinitc perfectam esse oslenditur 56. Ex ipsa existentiæ Dei demonstratione colligitui Ipsum esse Causam Primam, quæ ab aiia non pendet et ideo a se ex necessitate suæ naturæ existit. lam e: hoc, quod Deus est Causa Prima, quæ a seipsa est, Ip sum infinite perfectum esse oportere planis argumenti conficitur. Quod cum ita se habeat, nostrum est primt illud enucleare, quod Deus ex necessitate suæ naturæ se existit, deinde infinitam Eius perfectionem evincere 57. la. Dens est ex necessitate naturæ a seipso. Probatur. 1° Deus ex necessitate suæ naturæ existit Etenim : Omne, quod est possibile esse, et non esse" indiget aliquo alio, quod faciat ipsum esse, quia quan tum est in se, se habet ad utrumque. Quod autem faci aliquid esse, est prius eo. Ergo omni, quod est possibil esse, et non esse, est aliquid prius. Deo aulem non es aliquid prius. Ergo non est possibile Ipsum cssc, et no esse, sed necesse est Eum esse l . 2° Existit a se. Ei sane, in iis, quæ ita sunt necessaria, ut causam suæ nt( cessitatis habeant, hanc causam priorem eis esse oportel Atqui nihil prius Deo esse potest. Ergo Deus non habi causam suæ necessitatis, ac proinde ita necessario est, i a se, et non ab alio sit2. 58. Ex hac propositione illud, veluti corollarium, ir fertur, quod Esse Dei sit ipsa Eius Essentia. Etenim i lud, cuius esse est aliud ab essentia, aliquarn sui esse cai sam agnoscit. Cum igitur Deus habeat esse a se, et no ab aliqua causa, dicendum est Eius Esse esse ipsam Eiu essentiam 3. Hinc Deus dicitur ipsum esse per se subsistem ila nempe, ut per ipsam suam essentiam existat. 59. 2a. Divina Natura omnes possibiles perfectit nes complectitur. Probatur. 1° Deus est rerum omnium, quæ sunt, sterc dcbent. 2° Cum Deus sit ipsum e, ",ubs>stcns, nihil dc pcrfectionc essendi Ei deessc potest lic pro.nde habet esse secundum perfectam rationem ' A ui haberc esse ; secundum perfcctam rationem, idem est,c ommbus pollere perfectionibus ; nam, cura pcrfecrto;es esse denotent, c. g iustitia esse iustura, sapientia e te'l"nm1elC-'l-ub,.erU tota Pleniludo essendi, ct totTus -m d do'olb' ent oranis Pcrfectio.Ergo. I W. i rop. 3 . Deus est simpliciter inplnitus, ita ut nul plk, %S6A et V^rfectionibus limes assignari possit. IProbatur. 1° Deus uli antea diximus, esse secnndum .. rfcctara rationem habet. Atqui limitcs non aliud°quam I quem defcc ura essendi denotant. Ergo in Esse, hpT lciombus Dci nullus potest limes præstitui. 2 Omnis gtus, ct perfectio lerminis definitur vel intrinsece ex sub cio, in quo recip.tur, quidquid enim recipitur, per mo m recipienhs recipitur, vcl extrinsece a causa, a uua oducjtur Atqu, Esse, ct Perfectioncs Dci neque in T Mio sub.ccto rccipiuntur, quia Deus, quemadmodum a • juis ostensum est, est ipsum suum esse subsistens ne ie ab aliqua causa pendent. Ergo 3. |Art. II.— Heghelianorum error circa Dei inGuitatem refellitur i61. Secundum Heghelium, aliosque Transccndentales Irmamæ, quibus in Gallia Vacherotus, Benanus, ali? I auoTdhs,!naaHiiHXem,?!0 Cal°riSl Ct calidi decIarat: Manifestum i 'deo es „ T i, dUm "°n habcat totam Vd"m calidi, Ised • ',?.", °r n°n Partlc'Patur secundum perfectam ratio irtil 1, '°r.CSSC,t pCr SC subsists. nn posset ei aliquid deesse r ute calor s: unde, cum Deus sit ipsum csse per se subsistens •i I de perfect.onc essendi potest Ei dcesse ; I, qP IV, a. 2 c ' tl s. fliom., I, q. VII, a. 1 c. toruT IT.J^J™?™ Pcrfcctissi'"'>' i communi etiam tam torum, quam mdoctorum sensu manifcstum cst. Omncs in m MTS ' CCrtatin' Lpro eeentia Dei dimicanl; ncc quis N e t It „'„r,tCSt' qU1 h0c Dcum crcdat cssc. qo meliusV us om„ h„,C n °mnCS DC„Um C0nscntil"'t csse, quod ccteris m omn.bus anteponunt ; De Doctr. Christ., lib. I, c. 7. n. 7. ' Philos. CnRisr. Compend. It.' qj que se adiunxerunt , Absolutum, sive Deus ea ratione in finitus, seu indeterminatus est, ut aliquid reale, seu, ij aiunt, personale esse non possit. 62. Absurdum est Deum esse infinitum ea rationt qua ab Heghelianis explicatur. Probatur. Sciendum in primis est indeterminationem ess vel privativam, vel negativam. Privativa ea est, qua enf cum actu non sit hoc, vel illud ens, seu ens individuui i et singulare, natura sua ita comparalum est, ut hoc, ai I illud ens esse, sive per hoc, aut illud ens determina; j queat. Negativa vero ea est, qua aliquid est simplicite I eos, quod per se subsistit, quodque idcirco, cum sit i] 5. Obuc. Jnfinitum totum esse in se complectitur. Ereo i nulla re, quæ extra Ipsum sit, distingui potest. M>. Kesp. Neg. cons. Et sane, summa perfeclio, quæ otum esse continet, minime prohibet, quominus Deus ab llns ex ralpsum distinctus dicalur; siquidem Deus totum sse continet, non quatenus Eius esse cum esse, quod pror.um rebus extra Ipsum est, confunditur, eas enim perxtiones, ex quibus hæ constituuntur, ut mox dicemus iversa prorsus ratione Deus complectitur; sed quia eius 1 Quodlib., VII, a. 1 ad 1. Ibid. Hinc alibi (In lib. I Sent., Dist. VIII, q. IV a. 1 ad 2) ise Z2Per Tm ESS1 absolutum n™ ^tum esse,\ed aliquid ise Unde monet cavendum esse ab illorum errore, qui Deum Z eniemlIUd GSSe "nniVerSa,e' qU° UUælibet res fomaSe™ ki ?hSv 7 "' qU°d DeuS est> huius conditionis est, ut nulla tinctu TJGri P°SSiL UndG Per iDSam Suam Puritatcm' est esse tionis mJ,°T e^j.P.roPter uuod in Commento nonæ Propo loms Hbn de Causis dicitur, quod individuatio Primæ Causæ E c l l? enlatn ^Vr? Pero pUram Bonitate Iicet >gitctur absque additione, Ua dXenr reH;eCCptlblIitate additionis est-' nam si animali um vZ n tddl P°SLet' genuS non esset E contrario, Di rJSnm n.. SqUC additione non solu™ cogitatione, sed ctiam,eptl h\vZTaaLel n°n S°lum absque additione, sed etiam absque -eptibilitate additionis ; Contr. Gent., lib I c 26 modi est, ut nihil addi Ipsi queat, per quod ad aliqueu modum entis determinetur; ex hoc ipso autem, quod noi recipit aliquam adolitionem, individuatury et a cunctis alii dividitur l. Quanam ratione perfectiones creaturarum Dco sint attribuendæ 67. Perfectionum aliæ dicuntur absolute, vel simplicitei simplicesy aliæ secundum quid. Priores sunt, quæ secun dum propriam notionem consideratæ nullam includun imperfectionem, neque cum meliori perfectione pugnant e. g., vita, sapientia. Posteriores vero sunt, quae licet in tra genus suum perfectae sint, tamen in ipso sui concepti aliquem complectuntur defectum, et cum aliis excellen tioribus pugnant; e. g., esse corpus1. 68. Iam perfectiones, quae purae, et simplices sunt, s|| spectentur secundum illud, quod in sui conceptu deno tant, formaliter, hoc est, aiente s. Thoma, secundum ve\ rissimam sui rationem 3, in Deo continentur, secus Deui infinite perfectus non esset. E. g., sapientia, si considel retur in sui conceplu, prout nempe est cognitio per al tissimas causas attingens simul unico actu principia, e conclusiones, formaliter in Deo reperitur, quia nihil im perfectionis in se claudit. Hinc Deus absolute bonus, iu stus, sapiens appellatur. Ob eamdem rationem perfectio nes secundum quid, cum in ipso sui conceptu defectun aliquem includant, non formaliter, sed dumtaxat eminen tery excellentiori nempe ratione, Deo sunt attribuendae 69. Diximus perfectiones absolute simplices in Deo for maliter contineri, si considerentur secundum illud, quodi'. sui conceptu denotant. Nam si spectentur secundum ean rationem, qua in creaturis sunt, plures complectuntur im perfectiones; e. g., sunt qualitates, quae intendi, et re mitti possunt, limitibusque circumscribuntur; ac proind non secundum eam formam, qua in creaturis existunt sed modo eminentiori in Deo continentur. Quapropter sta tuendum est perfectiones creaturarum, cuiuscumque ge neris sint, eminentiori ratione Deo esse attribuendas i Qq. dispp., De Ver., q. XXI, a. 4 ad 9. 2 Cf s. Anselm., Monol., c. 15. 3 In lib. I Sent., Dist. II, q. I, a. 2 sol. U Oportet quod omnes nobililatcs omnium creaturarum invemantur in Deo nobilissimo modo, et sine aliqua imperfectione . 70. Ex his intelliges, quod sicut tempus additum aeernitati durationem ipsius non auget, quia omnes duralones llli inferiores in ea eminentissimo modo continenur; ita Dcus, et creaturac non sunt aliquid perfectius, !|uam solus Deus, quia lota creaturarum perfectio in Deo >erfectissimc continetur2. Audiatur Aquinas noster: Boium creatum addilum bono increalo non facit aliquid naius ; quia si duo participantia coniungantur, augeri >otest ln eis quod participatur, sed si participans addatur i, quod per essentiam est tale, non facit aliquid maius; icut duo calida adiuncta ad invicem possunt facere mais calidum; sed si esset aliquid, quod esset calor per essntiam subsislens, ex nullius calidi additione intendereir. Cum ergo Deus sit ipsa cssenlia Bonilatis, omnia au;m aha bona per participationem, ex nullius boni addione fit Deus magis bonus, quia cuiuslibet rei alterius onitas continctur in Jpso 3 . IV. — Modus oxponitur, quo Dei nalura a nobis cogaoscilur 71. Ex iis, quae adhuc de Divinis Perfeclionibus deliivimus, quonam modo ad illarum cognitionem perveniaus, facile est coniicere. Sane ex ipsa existentiae Dei de klbid. Hinc Arcopagita docet omnia de Deo affirmari quodam)do, et negari, Illumque vocat omnium positionem, et omnium latto)iem; quia cminenter ponit omnia, tamquam omnia continens formaliter omnia aufert, quia omnem rationem formalem crean, ct finitam a se cxcludit ; De Div. Nom., c. 13. Et s. Au^unus: Omnia possunt dici de Dco, et nihil digne dicitur de Deo. tiil latius hac inopia. Quaeris congruum nomen, non invenis; aeris quoquo modo dicere, omnia invenis : In Ioan. Ev. c Ili ct. XIII, num. 5. '• Adnotandum hic cst cum s. Thoma eminentiorcm illum modum, 3 Dcus crcaturarum perfectioncs in se complectitur, non solum conimunihus. et gcnericis, sed etiam individualibus earum ratio iUS esse intelligcndum. Omnia in Deo praeexistunt, non solum linium ad id, quod commune est omnibus, sed ctiam quantum Bi, sccunilmn quae res distinguuntur ; I, q, XIV, a. 6 c. Qq. dispp., De malo, q. V, a. 1 ad 4. monstratione colligimus, Ipsum esse Causam Primam,quamnia, quae sunt in mari, quae volant per aerem; non ;;st hoc Deus: quidquid lucet iu coelo,..., ipsum coelum, lon est hoc Deus: Angelos cogitas..., non est hoc Deus. pt quid est ? Hoc solum potui dicere, quid non sit . 73. Verum, quamvis notitia, quae negatione constat, [fnagis congrua, quam quae affirmatione, dicenda sit, non ideo tamen cum Iul. Simon 2, aliisque inferendum est ni^il de Dei natura a nobis sciri posse. Etenim cum ea, quæ Ireaturis insunt, de Deo negantur, Ipsi excellentia perlectionis quovis defectu immunis adscribitur, ac proinde Uæ negationes abundantiam, et excessum præseferunt. | ipposite sanctus Damascenus, postquam enuntiavit conjenientius esse ita de Deo aliquid prædicari, ut Ei jmnia detrahantur, quippe nihil est eorum, quæ sunt »; jubdit, non ut nihil sit, sed ut sit supra omnia, quæ •unt, lmmo vero supra ipsum esse 3 ». 74. Nisi quod, ut ex iam dictis patescit, hæc, quam Je summa Natura Divina per rationem naturalem nobis aomparamus, cognitio nonnisi admodum manca, et rudis st; siquidem mens nostra ad naturalem cognitionem Dei jonnisi per similitudines a rebus creatis arreptas assurlere potest ; per effectus autem non proportionatos causæ m potest perfecta cognitio de causa haberi . Quapropter ukimum, et perfectissimum nostræ cognitionis in hac Mta in hoc consistit, quod de Deo cognoscimus quia Ht, et quod causa aliorum est, et aliis supereminens, et p omnibus remotus 5 ». V.— Quænara ex Divinis Perfectionibus veluti Essentiara Dei constituens a nobis intelligatur 7o. Perfectio illa, quam primam in unaquaque re esse imcipitur, ac veluti radicem ceterarum ipsius perfectioim, atque per quam res a ceteris distinguitur, essentia 1 Enarr. in Ps. LXXXV, n. 12. 3 LZ ^onnatureile, par. 1, c. 2, p. 34 sqq, Paris 1857. . iJG Fide orthod., hb. I, c. 4. Cf p. 310 8 Contr. Gent., Ub. III, c. 49. appellatur. Iam etsi perfectiones omnes in Deo, uti mos demonstrabimus, Eius Essentiam constituant, tamen no bis, qui non possumus Eas uno mentis intuitu comple cti, inquirere licet, quænam ex ipsis tamquam Divinan Essentiam constituens spectari possit. 76. Aseitas, sive esse a se tamquam Essentiæ Di vinæ constitutivum assignari potest. Probatur. Aseitatem tamquam aliquid primum in Dec esse concipimus; nam si aliud prius aseitate in Deo ess\ ideo autem nihil Deo addi potest, quia est Ipsum esse, e] proinde Ens a se. Denique Aseitas, ut ex primo articul constat, tamquam ratio intelligitur, ex qua omnes per fectiones in Deo esse debeant. Ex hoc, ait idem Aqui nas, quod Deus est ipsum esse per se subsistens,...opor tet, quod totam perfectionem essendi in se contineat 2 Ergo. 77. Accedit, quod, docente s. Hilario, « nobis loquen dum non aliter de Deo, quam ut Ipse ad intelligentian nostram de se locutus est 3». Iam Moysi interroganti, qui esset, respondet: Ego sum, qui sum. Sic dices filiis Isræl Qui est, misit me ad vos 4. Quibus verbis lamquam pro prium Naturæ suæ characterem, ens per essentiam, a, alio independens, nempe aseitatem a nobis concipiendan esse designavit 5. CAPVT III. De attributis Dei, et primum de iis, quæ absoluta dicuntur 78. Perfectiones, quas ab Essentia Dei secundurn no strum concipiendi modum manare intelligimus, Attribut Dei nominamus. Ex iis quædam dicuntur absoluta, uf Sapientia, Bonitas, atque hoc nomine ab iis distinguun Contr. Gent., lib. I, c. 26. °I, q. IV, a. 2 c. De Trin., lib. V. 4 Exod. III, 14. s Gf s. Damasc, De Fide orthod., lib. I, c. 12. tur, quæ appellantur relativa, quia aliquam Dei perfe;tionern sigmficant cum relatione ad creaturas, vel nojus cum relatione creaturarum ad Deum, siquidem uti ihln adnotavimus «, creaturæ realem ad Deum habent realionem, non Deus ad illas. De his pauca attingemus, ieteraque Iheologis disputanda relinquimns. I.— De Simplicitate Dei 79. Nomine simplicitatis illud attributum intelligimus, juo a Deo quæcumque compositio sive physica, sive meaphysica, sive logica removetur. Gompositio physica ea Wt, quæ ex parlibus re ipsa distinctis exur-it. Metaphvtca pertinet ad ea omnia, in quibus potentia et actus, ubstantia et acadentia, essentia et existentia, atque attrimta dislinguuntur. Denique compositio logica dicitur de ebus, quatenus hæ sub aliquo genere continentur, ita ut !X«nCnprC' d,fferentia constent. j 80. Quodvis compositionis genus a Deo removeniUtn est . Probatur ex eo, quod Deus summe perfectus est. Sane,in quohbet genere tanto aliquid est nobilius, quanto imphc.us; sicut, iq genere calidi, ignis, qui non habet ali uam pcrm.xlionem fngidi. Quod igitur est in fine noilitatis omnium entium, oporlet esse in fine simplicitatis. E?ma„0.n ' qU°d eStxrnnfine nobili^tis omnium entium, otest" ' a igitUr comP°sitio Ei accidere (.81. Speciatim autem quoad singulas compositionis spepes, tres sequcntes propositiones demonstramus : Frop. 1. Quævis physica compositio Deo repuqnat. Probatur ex eo, quod Deus est primum Ens. Re quijem vera, (« amm., a. 6 c. 3 Cf Op. cit.f q. un. De sp. cr., a. l c. ab essentia realiter distinguitur, non exislunt per ipsan suam essentiam, sed habent esse per participationem. At qui Deus per ipsam suam essentiam existit. Ergo. Præ terea, cum existentia sit actus essentiæ \ si essentia De ab Eius existentia distinguerelur, illa ad istam se habe ret ut potentia ad actum, ac proinde Deus realiter e: actu, et potentia componeretur; id quod, uti osteedimus absurdum est 2. 86. Tertio. Attributa Divina neque ab Essentia, nequ ab se invicem realiter distinguuntur. Re quidem vera Deus per ipsam suam Essentiam perfectionem essendi, a proinde omnes perfectiones, sive attributa habel. Erg Attributa Dei ab Eius Essentia non distinguuntur. Adhæcl si Attribula ab Essentia Dei distinguerentur, hæc illairi perficerent, novumque esse ipsi adderent: quod sane Di' vinæ Naturæ prorsus repugnat 3. 87. Quod si attributa Dei ab Essentia non distinguun^ tur, ea ne inter se quidem distingui consequitur 4. Ih Deo est sapientia, bonitas, et huiusmodi, quorum quod1 libet est ipsa Divina Essentia, et ita omnia sunt uiiud re 5 . Idipsum ex eo amplius declaratur, quod altribut H inler se distincta diversos modos essendi significant, quo! profecto in Deo, qui est ipsum Esse, ponere absurdum est6 Cf Ontol., c. II, a. 1, p. 13. 2 Cf s. Thom., I, q. III, a. 4 c. 3 Perfectio Divini Esse non attenditur secundum aliquid addi tum supra ipsum, sed quia ipsum secundum se ipsum perfectun ^t. Bonitas igitur Dei non est aliquid additum suæ substantiæ sed sua substantia est sua bonitas ; Contr. Gent., lib. I, c. 38. Nos hic non loquimur de attributis, quæ relativa ab intra api pellantur, nempe Paternitas, et Filiatio, Spiratio activa, et Spiratl passiva; Paternitas enim et Filiatio, item Spiratio activa et passiv; inter se invicem opponuntur, atque ideo inter ipsas realem distin ctionem intercedere Fides docet. 5 In lib. I Sent., Dist. II, q. I, a. 2 sol. p Deus, egregie ad hanc rem s. Augustinus inquit, multiplicite quidem dicitur magnus, bonus, sapiens, beatus, verus, et quidqui aliud non indigne dici videtur; sed eadem magnitudo Eius est, qua, non sunt ; Conf., lib. VII, c. 11, n. 17. 3 I, q. XII, a. 4 c. inhæret, esse, et intelligi potest. Nomen substantiæ, ait s. Thomas, imponitur a substando ; Deus autem nulli substat1. Quare, cum categoria substantiæ e rebus finitis in Deum transfertur, duo, uti Henricus Gandavensis advertit, in ea mutantur, quæ aliquam imperfectionem habent, et tertium manet, quod perfectionem denotat. Ea, quæ mutantur, sunt, primo, quod substantia Divina, secus ac substantia creata, esse ab alio non accipit; secundo, quod non est, uti substantia creata, subiectuni accidentium. Illud vero manet, quod esse in alio non habet, seu quod in se subsistit 2. Quare Scholastici post Dionysium Areopagitam 3, et Boetium 4, ut hunc perfectum, quo Deus substantia est, modum designarent, lpsum non tam substantiam, quam supra omnem substantiam dicendum esse sanxerunt 5. 93. Ex hac, quam demonstravimus, tertia propositione, tamquam corollarium, deducitur haud posse Deum defi niri: Omnis enim diffinitio ex genere, et differentia constat . . . ; ostensum est autem quod Divina Essentia non concluditur sub aliquo genere. . . Unde non potest esse Eius aliqua diffinitio G . II. — De immutabilitate, atque æternitate Dei 94. Nomen mutationis, aiente s. Thoma, ostendit esse aliquid aliter se habens nunc, quam prius a . Iam ex summa Dei simplicitate, et infinita perfectione mutatio 1 In lib. I Sent., Dist. VIII, q. IV, a. 2 sol. 2 Op. cit., a. XXXII, q. V, n. 19. Cum hæc ita se habeant, liquet ss. Patres, et Scholasticos pugnantia secum haud composuisse eo quod Deum esse substantiam modo asseruerunt, modo negarunt. Etenim, cum ipsi substantiam, prout denotat esse, quod essentiæ subest, et quod subiectum accidentium est, considerarunt, Deum non posse dici substantiam docuerunt. At cum consideraverunt substantiam, prout non esse in alio denotat, non modo Deum esse substantiam, sed etiam quidquid in Deo est, nonnisi substantiam esse statuerunt (ef s. Aug., I)e Trin., lib. VII, c. 4, n. 9, et De Fide, et Symb., c 9, n. 20); immo Deum potiori iure, quam ullas res creatas, substantiam dicendum esse, quippe quod Ipsi perfectus actus subsistendi convenit. Cf s. Bonav., ln lib. I Sent., Dist. XXIII, a. 1, q. 2 resol. 3 De Divin. Nomin., c. 1. — De Trin., lib. I. 5 Cf s. Thom., Qq. dispp., De Pot., q. VII, a. 3 ad 4. 6 Comp. TheoL, c. 26. ' Contr. Gent., lib. II, c. 17. iem cuiuscumque generis ab Ipso amovendam esse nromm est mtelligcre. ! 95. Neque in natura Dei, neque in Eius decretis vla mntatio adstrui potest. Probatur prima pars. 1° Deus, cum sit primum Ens, st ipsum esse absquc alicuius potentiæ permixtione. Atiii ipsa notio mutationis aliquam præsefert potentialitæm; nam omne, quod quocumque modo mulalur, est liquo modo m potentia . Ergo. 2° Subiectum, quod lutatur quantum ad aliquid manet, et quantum ad aliuid transit, sicut quod movetur de albedine in nigrediem, manet secundum substantiam 2 ; ac proinde quamam composilionem saltem ex substantia, et accidente in ) admittit. Atqui Deus, utpote simplicissimus, quamcumue respuit compositioncm. Ergo. 3° Illud, quod mutatur, 31 ahquam formam acquirit, vel amittit. Atqui nulla )va pcrlectio Deo acccclere polest, et nulla demi, cum eus sit simphciter infinitus, et omnes perfectiones esnlia sua m se continet. Ergo 3. 9G. Probatur altera pars. Mulatur decretum voluntatis, latenus cognoscitur eius mutandi ratio, quæ anlea ignoibatur; quocirca innovatio consilii voluntatis ex eo orir, quod intellectus ab initio non omnia diligcnter per'iidit, nec omnia singillatim novit. Atqui Divino Intelctui omncs rerum connexiones in qualibet temporis cirimslantia pos^sibiles innotescunt. Ergo. 97. Obnc. 1° Deus poenitere, et irasci dicitur. Atqui Qft "lax,mum mutationis argumentum sunt. Ergo. J. Kesp. Dist. mai. : extrinsece, et quoad effectum, ic. mai., mtrinsece, et quoad affectum, neg. mai.) sub fiem dist. neg. ct conc. min. Neg. cons. Neque enim, egrogie monet s. Ambrosius, Deus cogilat sicut homih ut ahqua Ei nova succedat sententia ; neque irasci I, q. IX, a. 1 c. ^ lhid. Hoc Dei attributum s. Bernardus præclaris his verbis declara Deus hanc sibi vindicat meram singularemque suæ Essen'Bimplicitatem, ut non aliud, et aliud, non alibi quoque, et a!ibi, ne modo quidcm et modo inveniatur in Ea. Nempc in semet æns, quod babet, est; et quod est, semper et uno modo est. In multa in unum, ct diversa in idem rediguntur, ut nec de wositate rerum sumat pluralitatem, nec alteraiionem de rarie sentiat ; /n Cant., Serm. 80, n. o. Pbilos. Ciirist. Compend. II.' 10 tur quasi mutabilis: sed ideo hæc leguntur, ut exprima tur peccatorum nostrorum acerbitas, quæ Divinam mej ruit offensam, tamquam eo usque increvit culpa, ut etiar Deus, qui naturaliter non movetur aut ira, aut odio, arj passione ulla, provocalus videatur ad iracundiam l . 99. Obiic. 2° Deus alternis vicibus diversa, imo oppc sita vult. Ergo mutabilis est. 100. Resp. Dist. ant., ita ut successio illa, et varieta; spectet effectus Divinæ Voluntatis, conc. ant., ipsum actui^ Voluntatis Dei, neg. ant. Neg. cons. Sane, etsi ea, quai Deus decernit, sibi succedant, et interdum cum mutui oppositione eveniant, tamen Voluntas Divina, quippe qusj æternitate, et unico actu voluntatis illa decernit, imnu bilis permanet. Aliud est, scite ad hanc rem mon: s, Thomas, mutare voluntatem, et aliud est velle aliqui rum rerum mutationem. Potest enim aliquis eadem vi, fuit et erit; quia et quod fuil, iam non esl; et quod rit, nondum est: sed quidquid ibi est, nonnisi esl2. 107. Deus est ælernus. Probatur. Dei existentia, ac vita nec i nitium, nec finem, ec successionem ullam in se admittere potest. Alqui id 3ternilatis notionem præbet. Ergo. Et sane in primis, eus, cum ita natura sua necessario existat, ut non exiere non possit, semper extitisse debet; alioquin, si aliaaiido incepisset esse, cum prius non existcret, tunc non isentia sua, et necessario, sed contingenter solum exieret, atque illud esse, quod habet, ab alio recepissel. 108. Ila quoque perspicue apparet, quod Deus ipse scmJr existere debebit; alioquin si aliquando desinere post, non essentia sua, ac nccessario, sed conlingenter exieret, ac illud esse, quod habct, ab alio ipsi auferri post, Eiusque duratio ab alio penderet; id, quod ab Entis scessarii natura manifestissime abhorret. 109. Denique Dei aeternitas quamcumque successionem spuil. Nam 1° ubi nulla cst mutatio, ibi nulla est sucssio ; in Deo autem nulla mutatio est. 2° Id ipsum ex nnimoda perfectione Dei cvidenlissime consequitur. Etim ens, cuius duralio, ac vila successive evolvitur, per tales aclus, quos successive promit, successive ad se rljciendum tendil, siquidem vivens per vitales acfus seStipsum perficit. Atqui Deus est ens absolute perieim. Ergo ab Eius duratione, ac vita successio quaevis lovenda est. Quocirca Dei aeternitas dififerentias omncs cludil, quae in tempore dislingui solent, alque ideo I, q. X, a. 1 ad 2. Enarr. in ps. C/, Scrm. II, n. 10. 342 THEOLOGIA NATVRALTS neque prius, neque posterius in ea admitti possunt, seIum rerum compagi actu praesens sit ; Divina tamen tomensitas, quemadmodum paulo ante innuimus, aliorum tttributorum instar, infinita esl; nam omnibus rebus posbilious praesentiam suam exhibendi virlutem habet 3 Exfcde quoque intelligitur Deum ab aeterno immensum esi, quamvis effectum nullum extra se produxisset, nulque promde rci extrinsecae praesens esset ; quia nimiim ab aeterno res produccre, ipsisque adesse poterat. eque ex eo, quod Deus incipit, vel desinit csse in re, iquarn mutat.onem Deo advenire argui potesl; nam hoc, ente Seraphyco Doctore, solum est secundum rei muitionem, non secundum mutationem Eius, ut pula si >re illuminato, inlelligatur creari cryslallus, radius inpit esse m eo, et, crystallo amoto, desinit esse, nnlla cta mutalione m radio. Deus extra mundum eodem modo est, quo fuit, an Moral., Iib. XVI, c. 5. 2 De Fide orthod., lib. I, c. 8. 0 lllud, monet s. Bonaventura, cogitandum est, quod Divinum •se sicut non potest cogitari habere terminum in duratione; sic non tfest cogitari, nec debet habere terminum in existentia, et praentiahtate. Et sicut non potest cogitari habere intercisionem in duttone sic nec in praesentialitate ; ibid., c. 1, q. 3 ad arg. ' Ibtd., a. 1, q. 2 resol. Item, quemadmodum subdit ipse sanctus •ctor, (( cum res movetur, Deum non dimittit, nec ad Deum acait, nec Deus cum re venit; quia sic est in re, ut sit extra rem 3in; ; ideo nec res Eum dimittil, ncc novum invcnit. Et hoc est inligilMJe, si quis potcst intelligcrc, quod Deus sit immensus,simplcx m imtus. Quia enim est immensus, ita est intra, quod extraquia jplex, secundum unum, et idem est intra. et extra; quia infinitus 0 nec dim.ttitur, nec acquiritur aliud in re, nec ab ipso itur ad 'Um cum dimittitur, ut alibi, et alibi inrenialur ; Ibid. ad arg. tequam ipsum mundum crearet. Antequam, ait s. Au gustinus, Deus faceret coelum et terram, ubi habitabat In se, et apud se habitabat !. Et s. Bernardus : Ut erat Deus, antequam mundus fieret ? Ubi nunc est. No est, quod quaeras ullra, ubi erat ; praeter Ipsum nih eral: ergo in seipso erat 2 . IV. — De scientia Dei 115. Tria circa Divinam Scientiam enucleanda suscip mus, nempe illius existentiam, obiectum, et proprietate in quorum tractatione illud s. Augustini memorare pra lbid., a. 9 c. " Ibid. ad 2. ' Ibid. 8 Ibid. c. Quoad animi cogitaliones, ait etiam: Sicut Deus cognocendo suum esse. . ., cognoscit esse cuiuslibet rei; ita cognoscendo uum intelligcre, et Yelle, cognoscit omnem cogitationem, et voluniatem ; Contr. Gent., lib. I, c. 68. Iamvero, licet scientia Dei, ut nox dicemus, sit in se simplicissima, et maximc una, nihilominus secundum divcrsam babitudinem, quam concipimus habere ad sua Ex his consequitur 1° Deum cognoscere infinita. Etenim Deus suarn virtutem perfecte cognoscit. Virtuc autem non potest cognosci perfecte, nisi cognoscantur om-| nia, quae potest; cum secundum ea quantitas virtutis attendatur. Sua autem virtus, cum sitjinfinita, ad infinita se extendit. Est igitur Deus infinitorum cognitor . 2° Co-J gnoscere etiam futura contingentia, et libera; cum eninii ut cum Aquinate ioquamur, cum a Deo, prout actu est in sua praesentialitate, cognoscatur, sic necessarium erit esse', sicut necessarium est Sortem sedere ex hoc, quod Sortes sedere videtur. Iam baec necessitas contingentiam rerum haud toiiit, siquidem non est necessitas absoluta, sed consequens, qua nempe omne quod est, dum est, necesse est esse, Quare, sicut haec enunciatio, Quod videtur sedere, necessi est sedere, accipienda est in sensu composito, non autenc in sensu diviso, ita hæc enunciatio, Quod Deus scit faciendum, illud necessario fiet l. 124. Exinde etiam illa, quæ in medium affertur, diffi cultas extricatur, nempe qui fieri potest, ut creaturarurr actiones, dum a Deo iam futuræ prævidentur, sint libe ræ2. Sane futura a Deo prævisa, ut iam diximus,et certo et infallibiliter, non tamen necessario fient. cc Sicut tu, u s.Augustini verba adhibeamus,memoria tua non cogis factt esse, quæ præterierunt ; sic Deus præscientia sua nor cogit facienda, quæ futura sunt s . Quin immo tantun: abest, ut præscienda Dei imponat causis liberis necessi •! tatem, ut potius ab ipsa Dei præscientia conservetur li Deus successive cognoscit contingentia, prout sunt in suo esse, si cut nos, sed simul: quia sua cognitio mensuratur æternitate, sicu etiam suum esse: Æternitas autem tota simul existens ambit to tum tempus. Unde omnia, quæ sunt in tempore, sunt Deo ab æ terno præsentia, non solum ea ratione, qua habet rationes rerun apud se præsentes, ut quidam dicunt, sed quia Eius intuitus fer tur ab æterno supra omnia, prout sunt in sua præsentialitate. Undbiecto suo pendet, et a rebus ipsis hauritur; 3° quod deaonslratiombus conficitur; 4° quod est multiplex, et pro arietatc obiectorum cognitorum variatur. Atqui scientia |i est subslantialis; non hauritur a rebus, quas cognocit, sed ipse Deus omnia in sese, et in natura sua conoscil; est intuitiva, ncra discursiva; est unica, ac sim iorS1 o3'^0,n Se omnino immutabilis. Ergo. llb. Probatur minor quoad singulas partes: 1° Nulla in eo compositio esse potest, nihilque in Eo est, nisi simncissima, et perfectissima substantia. Ergo scientia Dei on est ahud, quam ipsa Dei substantia. J Deus, ut diximus, perfecte comprehendit suam Esentiam, quæ prima omnium rerum causa est. Atqui ad errectam comprehensionem alicuius causæ requiritur ut i ea sic cognita omnes eius effectus cognoscantur. Er"o eus non haurit scientiam a rebus, sed omnia in ipsa sSa latura cognoscit 2. F ilnn^fp L?' J°' 8-( nihil præscivit. Porro si illc, niiPc.i 1 ?uld futurum csset n nostra voluntate, non utique noJrl lq Præscivit, profecto, et illo præsciente, cst aliquid nost a volnntate ; De Civ. Dei, Ioc. cit. Eiinde concludit: Quo J(™V! cogiinur, aut, retenta pracscientia Dei, tollere vo Sl?.n am' 3Ut' rCtCnt° vo,ulitatis arbitrio, Deum (quod 1 nc?are Pracscfum futurorum; scd utrumque amplectimur, rumque fidehter, et veraciter confitemur »; Ibid., c. 10. Licet, s. Ambrosius inquit, omnia coelestia ct tcrrcstria ac THEOLOGIA NATVRALIS 3° In cognitione discursiva, quæ, ut diximus !, quidarc motus est, intellectus ex potentiali ad actualem conclusionis cognitionem progredilur, atque hanc non eoden actu, ac præmissas, sed novo actu, qui illi succedit, cognoij scit 2. Atqui neque aiiquid in potentia, neque actuum plu ralitas in Deo admitti potest. Ergo scientia Dei non es discursiva. Præstat verba D. Thomæ proferre : « Scienj tia, quæ in nobis invenitur, habet aliqnid perfectionis i et aliquid imperfectionis. Ad perfectionem eius pertinei certitudo ipsius, quia quod scstur, certitudinaliler cogno! scilur ; sed ad imperfectionem pertinet discursus intellej ctus a principiis in conclusiones, quarum est scientia; hi vina Essentia, cointellectis diversis proportionibus rerum ad eam, q idea uniuscuiusque rei. Unde, cum sint diversæ rerum proportiom. necesse est esse plures ideas; et est quidem una ex parte Essentia sed pluralitas invenitur ex parte diversarum proportionum creatui rum ad Ipsam »; Qq. dispp., De Ver., q. III, a. 2 c. * I, q. XIV, a. 8c. Cf s. August., Tract. llnloann. Ev.cap.I,n.l 2 « Quæ sunt, inquit s. Gregorius M., non ab æternitate Eius ' scienliam nostram, ct scientiam Divinam ex eo etiam assignat, quod c quac nobis videtur, non oniungitur. E g., cum Deus præccpit Abrahamo, ut iilium suum .aacurn immolaret, putabat ille Deum velle huiusuodi sacr ficium bnanan^ scd ut inanifcsta «s. prahami fides, et obedicntia. Ita ctiam Deus permittit neccatum ius tamcn voluntas beneplaciti non est peccatum, S, i pSSSfc Jmus, bonum, quod ex peccato eruit. * P ie lfJmU\' cUb:IitTS-Th°maS' pronric est rci nond™ "*bie in hb. I Sent., Dist. XLV, q. I, a. 1 ad i. j Loc. cit., in resol. 8 « Diccndum, scribit s. Thomas, quod voluntas in nobis pertinet Obiectum primarium Divinæ Voluntath est ipsa Divina Essentia; secundarium sunt res extra Deum. Probatur prima pars. 1° « Bonum intellectum est obiectum voluntatis. ld autem, quod a Deo principaliter intelligitur, est Divina Essentia. Divina igitur Essentia est id, de quo principaliter est Divina Voluntas * ». 2° « Unicuique volenti principale volitum est suus ultimus finis ; nam finis est per se volitus, et per quem alia fiunt volita. Ultimus autem finis est ipse Deus, quia Ipse est summum bonum. Ipse igitur est principale volitum suæ Voluntatis. Probatur altera pars. Voluntas consequitur intellectum. Sed Deus suo intellectu intelligit se principaliter, et in se intelligit omnia alia. Igitur similiter principaliter vult se, et volendo se, vult omnia alia 3. 137. 3a. Divina Bonitas est Deo sola ratio volend\ quæcumque extra se vult. Probatur. lllud, quod voluntas propter seipsum vult : est unica ratio, qua cetera velit; hinc ultimus finis, cuir propter se appetatur, ratio est, cur cetera appetantur Atqui illud, quod Dei voluntas propter seipsum vult, es Eius Bonitas. Ergo 4. Præterea, si Divina Voluntas aliqua ratione a bo nitate creata moveretur, amor, quo diligeret creaturas non tantum effectivus, sed etiam affectivus esset ; siqui dem amor effectivus bonitatis obiecti, cum ipse sit, a c{U( illa oriatur, nequit ab ipsa allici, seu moveri. Atqui a mor, quo Deus diligit creaturam, non est affectivus, se I, q. XIX, a. 1 ad 2. Contr. Gent., lib. I, c. 74. Ibid. 3 Ibid., c. 73. 4 I, q. cit., a. 1 ad 3. Exinde etiam sanctus Doctor infert obiect( rum multitudinem, quæ Deus vult, Eius infinitæ simplicitati minim obstare. Nam sicut intelligere Divinum est unum, quia multa no videt, nisi in uno; ita velle Divinum est unum, etsimplex; quia mult non vult, nisi per unum, quod est Bonitas sua ; ibid., a. 2 ad 4. s Quia voluntas nostra non est causa bonitatis rerum, sed ab i format amantem in amatum; dum e contrario Deus omnia trahit ad seipsum, repugnatque lpsum in creaturam transformari. Ergo Divina Voluntas nullo modo a bonitate creata movetur. 139. 4a. Dens necessario seipsum, libere autem res extra se vult. Probatur prima pars. Voluntas necessario inhæret ultimo fini, ita ut opposilum nequeat velle. Atqui Divinæ Voluntatis non est alius finis, quam ipse Deus. Ergo Deus inecessario vult se ipsum. 140. Praclerea, omnis perfectio, et bonitas, quæ in creaturis est, Deo convenit essentialiter. Diligere autem Deum, est summa perfectio rationalis creaturæ, cum per hoc quodammodo Deo uniatur Ergo in Deo essentialiter esl; ergo ex necessitate diligit se, et sic vult se esse. Probalur altera pars. Voluntas necessario vult ea, sine quibus finis esse non polesl; non autem ex necessitate, sed libere vult ea, sine quibus finis esse potest. Atqui Deus vult alia a se, in quantum ordinantur ad suam bonitatem, ut in finem. Bonitas autem Dei est perfecta, et esse polest sine aliis, cum nihil Ei perfectionis ex aliis accrescat. Ergo Deus res extra se non necessario, sed libere vult . 142. Porro perspicuum est tum potestatem faciendi malum, tum deliberationem, tum mutationem a Divina libertale amovendas esse. Sane 1° ad rationem liberi arbitrii non pertinet, ut indeterminate se habeat ad bonum, vel malum ; sed hoc ad libertatem arbitrii pertinet, ut actionem aliquam facere, vel non facere possit. Et hoc Deo convenit; bona enim, quæ facit, potest non facere, nec tamen malum facere potest 8. 2° Deliberatio, seu inquisitio rationum ex deieetu cognitionis oritur ; quocirca, movetur sicut ab obiccto; amor noster, quo bonum alicui volumus, Qon est causa bonitatis ipsius, sed e converso, bonitas eius vel vera, vel æstimata provocat amorem, quo ei volumus et bonum conservari, quod habet, et addi, quod non habet, et ad hoc operamur. 5ed amor Dei est infundens, et creans bonitatem in rebus ; I, q. XX, a. 2 c. 1 Contr. Gcnt. Cf Cosmol., c. VII, a. 2, p. 172. 3 In lib. II Sent., Dist. XXV, q. I, a. 1 ad 2. cum in Deo cognitio sine discursu sit, etiam electio in Ipso est sine deliberatione. 3° Item libertas electionis in eo consislit, ut eligens illo, quo eligit, momento possit, prout mavult, eligere, vel non eligere. At, iam posita illal electione, cum Enti omniscio nulla deinceps innotescere possit prudens ratio mutandi sententiam, electio illa immota manet. Quocirca ratio, cur Deus sententiam non mutet, non defectus liberæ electionis, sed plcnitudo perfectionis est, qua fit, ut nihil novi umquam possit addi-t scere. lllud etiam observandum est, liberam volitionem Dei spectari posse aut ratione entitatis Divinæ, quatenus nempe est in Deo, autratione terminationis ad creaturas. Sfr priori modo considerelur, est quidem necessaria, sin alteroi modo, est libera. Quare illud, quod actus Dei liber addit supra necessarium, non est aliud, nisi relatio buius actus ad creaturas, scilicet habitudo, seu respectus, et terminatm ad creaturas. Rursus hæc terminatio potest ex parle Dei, et ex parte creaturarum spectari. Si ex parte Dei consideretur, quatenus est actio vitalis, et intrinseca, non distinguitur ab ipsa substantia Dei; si vero ex parte creaturarum, est aliquid defectibile, seu, quod deesse possibile sit. 144. Ex his, quantum tenuitas nostræ mentis patitur,i illa expeditur difficultas, quomodo nempe actus liber sit Deo internus, et tamen, cum liber sit, possit esse, vel non> esse. Sane, cum in relatione Divini actus ad creaturas,: duplex respectus sit distinguendus, alter ex parte Dei, sub qua ratione intrinsecus est, ita tamen ut ordinem ad creaturas habeat, alter ex parte creaturæ, sub qua ratione est mere extrinsecus, dicendum est actum liberum Deo internum posse esse, vel non esse, non quidem ratione entitatis, nec ratione solius meræ terminationis extrinsecæ, quia hæc actum intrinsece liberum constituere non po- test, sed ratione terminationis intrinsecæ ad aliquid extrinsecum 2. Quare Divina libertas consistit in intrinseca in- Dicendum quod Voluntas Divina se habet ad opposita, non quidem ut aliquid velit, et postea nolit, quod Eius immutabilitati repugnaret, nec ut possit velle bonum, et malum, quia defectibi-. litatem in Deo poneret, sed quia potest hoc velle, et non velle ; Qq. dispp., De Ver., q. XXIV, a. 3 ad 3. 4 Circa hanc quæstionem cf Gonet, Op. cit., tract. IV, c. 2. lifferentia relationis Divini actus ad obiecla extrinseca. 145. Obiic. 1° Deus vult alia a se propter Bonitatera uam. Atqui Deus Bonitatem suam necessario vult. Ergo )eus necessario vult alia a se. 146. Resp. Disl. mai., ita tamen, ut sine illis Bonitas ua esse possit, conc. mai., ita ut sine illis esse non pos- it, neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Licet Deus ex ne- essitate velit Bonitatem suam, non tamen ex necessitate ult ea, quæ vult propter Bonitatem suam; quia Bonitas lius potcst esse sine aliis . Id ex eo magis perspicuum t, quod Deus non agit propter suam Bonitatem, quasi ppetens quod non habet, sed quasi volens communicare uod habet; quia agit non ex appetitu finis, sed ex amore nis . 147. Obiic. 2° In Deo intellectus, et voluntas non diinguuntur. Ergo sicut Deus quidquid intelligit, necesirio intelligit, ita quidquid vult, necessario vult. 148. Resp. Dist. ant., si considerentur in ipso Deo, mc.ant.y si considerentur relata ad res, neg.ant. Neg. cons., paritatem. Hanc obiectionem s. Thomas iam sibi pro)suit, et iuculenter confutavit. Porro sanctus Doctor adMftit, intelligere, et velle non distingui inler se, si conderentur in Deo, quippe quod, prout in Deo sunt, unum, emquc sunt cum Essentia Divina; sed si relata ad res msiderentur, unum ab allero distingui. Etenim, quoniam >gnitio, ut sæpe diximus, in ipso subiecto cognoscente ta perficitur, pcrspicuum est res a Deo sciri, prout ipsæ Eo sunt; atqui quidquid in Deo est, ab Eius Essentia aliter non distinguitur; crgo res, prout a Deo sciuntur, i Essentia Dei non discriminantur. Unde Divinum scire em est, ac Divinum Esse. E contrario, res, prout a Deo litæ sunt, idem non sunt, ac Divinum Esse; nam volun s Dei ad res refertur, prout hæ sunt in seipsis; res autera, out sunt in seipsis, ab Essentia Dei realiter distinguun r. Ex quo facile conficilur Deum non velle res, quæ tra se sunt, eadem necessitate, cjua illas scit, quia quid jiid est unum cum Essentia Dei, est absolule necessa |iim, sed quidquid existit extra Deum, non est absolule 'cessarium 3. :! S. Thom., I, q. XIX, a. 3 ad 2. 2 Qq. dispp., De Pot., q. III, a. 15 ad 14. Dicendum, quod sicut Divinum Esse in se est necessarium, ita . Obiic. 3° Cousinus: Deus est causa absoluta. Erg non potest non producere res extra se. 150. Resp. Neg. cons. Re quidem vera ex notione causær actio Dei non est aliud ab Eius potentia, sed utrumjue est Essentia Divina '. Ex quo illud etiam consequiur, Divinam Potentiam esse quidem principium effectuum, fui per ipsam producuntur, non vero principium actiolis, qua res producuntur; nam actionis, quæ ipsa Divina ISssentia est, nullum principium esse potest . Potentia Dei est infinita. Probatur. Unumquodque, secundum quod est actu, et erfectum, secundum hoc cst principium activum aliuius 8. Quapropter unumquodque tantum abundat in irtute agendi, quantum est in actu . Atqui Deus est ctus infinitus. Ergo. 154. Præterea, in omnibus agentibus hoc invenitur, uod, quanlo aliquod agens perfectius habet formam, qua git, tanto est maior eius potentia in agendo. Sicut quanto st aliquid magis calidum, tanto habet maiorem potentiam d caIefaciendum...Unde, cum ipsa essentia Divina, per uam Deus agit, sit infinita; sequitur, quod Eius potentia it infinita b . Exinde sequitur Dei Potentiam ad omnia, uæ sunt absolute possibilia, producenda parem esse. iuilibet enim potentiæ aclivæ respondet velut obiectum roprium quoddam possibilis genus; sicut potentia calefahva refertur^ ut ad proprium obiectum, ad esse calefactiile; Divinæ igitur potentiæ, quæ est infinita, respondeat ecesse est obieclum, quod omne genus excedit, seu quiduid ralionem entis habere potest. Atqui huiusmodi est uodcumque est absolute possibile. Ergo Divina Potentia d omnia, quæ sunt absolute possibilia, extenditur8. 1 Ibid. ad 2. Cf locum s. Ansclmi cit. p. 343, not. 3. Qua in 5 s. Thomas monet non oportere quod potentia Dei semper sit conmcta effectui, sicut nec quod creaturæ fuerint ab æterno; siquim Potentia Dci semper est coniuncta actui, idest operationi: m operatio est Divina Essentia: sed effectus sequuntor secundum nperiiun voluntatis, et ordinem Sapientiæ ; Qq. dispv. De Pot. • I, a. 1 ad 8. I, loc. cit. ad 3. 3 I, q. cit., a. 1 c. Qq. dispp., loc. cit., a. 2 c. I, q. cit., a. 2 c. 6 Ibid., a. 3 c. Exinde perspicitur magno in errore versari Abælar um, ahosque, qui, ut in Cosmologia (c. VIII, a. 1, p. 179, not. 1, et • 180, not. 2) adnotavimus, Deum non potuisse alia eflicere, quam uæ fecit, nec plura his, quæ fecit, blaterant. Sane omnis virtus errecta ad ea omnia porrigitur, circa quæ proprius eius effectus . Diximus ad ea, quæ sunt absolute possibilia; na ea, quæ sunt absolute, sive intrinsecus impossibilia, ad D vinæ Omnipotentiæ obiectum non pertinent. En quomod ad hanc rem s. Thomas argumentatur : Hoc, quod e affirmationem, et negationem esse simul, rationem ent habere non potest, nec etiam non entis; quia esse toil non esse, et non esse tollit esse: unde nec principalite nec ex consequenti potest esse terminus alicuius potenth activæ .... Cum Deus sit actus maxime, et principa 1 versatur; sicut perfectus artifex ea omnia potest efficere, quæ su, artis propria sunt Est autem Virtus Divina infinite perfecta, atqi proprius Eius effectus est quidquid habet rationem entis. Igitur dictis (p. 353 not. 4), non est aliud, quam ipsa Essentia Divn De attributis Dei relativis 157. Iam diximus ' allributa Dei relativa ea esse, quæ iliquam relationem ad crcaturas involvunt, ita nempe, ut reaturæ referantur ad ipsum Deum, sed in Deo non sit diqua relatio Eius ad creaturas, sed secundum rationem antum, in quanlum creaturæ referuntur ad lpsum2. Ea, [uac ad buiusmodi attribula scitu necessaria sunt, ad reationem, conservationem, concursum, et Providenliam ediguntur. I. Quomodo Deus causa mundi sit, explicatur 158. Causa, qucmadmodum in Ontologia statuimus, in fficienlcm, materialem, cxemplarem, et finalem distinguiur. Iam Deum csse causam effcctricem mundi, atque illi ier crcationcm cxistcntiam largitum esse iam planum in ^osmologia b fecimus. 159. Deum aulem neque esse, nequc unquam concipi ossc causam materialem, aut formalem mundi cx eo, uod Ipse est causa effectrix mundi, manifeste evincitur! iara causa effectrix saltera numero a re, quam efficit, ditinguatur oportet ., quia aliquid esse causam efficientem in lpsius repugnat5. Ex. gr., si bomo gignit bominem, erte alius est homo, qui gignit, alius vero, qui gignitur. >ncepta a Divino Intellectu, ut imitabilis ad extra; 3° Interna reim possibilitas, præcisa rcali existentia, habet esse ideale, et in oc ordinc habet esse obiective verum: atqui esse ideale est'ab inillcctu, ct in intellectu; atque res denominantur veræ a veritate itellectus, unde si nullus intellectus esset æternus, nulla veritas itet æterna (I, q. XVI, a. 7 c). 4° Si possibilium fundamentum, • ratio a Divina Natura nullo modo penderet, Deus in possibilium )gnitione a re sibi extrinscca, ct a sc prorsus independente pcr^eretur; id quod maxime repugnat. 328 sq. -^Cfl, q. XIII, a. 7 c. a Cap. VII, a. 1, p. 165 sqq. David de Dinando, ut est apud s. Thomam, stultissime di\it: Deum csse materiam primam (I, q. III, a. 8 c), seu causam atenalcm mundi. Almaricus autcm Carnotensis, Dcum, ut est ?ud euindem s. Thomam (ibid.), esse principium formale omum rerum effutivit. 5 Cf Ontol., c. IX, a. 6, p. 70, not. 2. Atqui causa materialis, et formalis, quippe quæ essentiam rei effectæ constituunt, unum, idemque cum ipsa sunt Ergo Deus, cum sit causa effectrix mundi, causa materialis, aut formalis eius esse nequit . Contra ea, quoniam Deus est causa cffectrix mundi, consequitur Eum essei quoque causam exemplarem1; quippe quod, cum Deus sit causa effectrix mundi infinite intelligens, res mundanas e nihilo condere non potuit, nisi secundum ideas, seu exemplaria illarum, quæ in se habuit 3. Itaque explicanduncj superest, quomodo Deus causa finalis mundi dicendus sit.i 160. Deus, cum infinita Sapientia polleat, finem aliqueirj in mundi creatione operi suo præstituere debuit; secusi illud temere, et insipienter confecissct 4. Porro quæstionis huius, cur Deus voluit mundum creare? duplex sensus esse potest: 1° quænam fucrit ratio ipsius actionis Dei;i 2° ad quem finem Deus suum ordinaverit opus s. Vid. s. Thom., I, loc. cit., Contr. Gent., lib. II, c. 17, et 26 Pluribus afferendis abstinemus; errores enim Davidis de Dinando et Almarici Carnotensis pantheismum omnino redolent, de quo in postremo capite agendum nobis erit. 2 I, q. XLIV, a. 3 c. s Hino antiqui Patres discrimen inter mundum intelligibilem, qu in Intellectu Dei ab æterno est, et mundum aspectabilem, seu sen\ sibilem, quem Deus ad mundi intelligibilis instar in tempore conJ didit, accurate adnotarunt. Vid. præ ceteris Clem. Alex., Strom. lib. IV, c. 14 ; s. Iustin., Cohort. ad Gent, n. 30; Origen., Ho mil. III in Cantic; Euseb., Fræp. Evang., c. 23-25. Quis, s. Augustinus inquit, audeat dicere Deum irrationabi liter omnia condidisse ? Qq. LXXXIII, q. 46. Investigatio finis, ol quem mundus a Deo creatus sit, temeraria, quemadmodum Iul Simon (La religion naturelle, part. 2, c. I, p. 128, ed. cit.) con tendit, haud est. Etenim, docente Aquinate, cum finis respondea principio, non potest fieri ut, principio cognito, quid sit rerun finis ignoretur ; I, q. CIII, a. 2 c. 3 In harum quæstionum solutione hæc præ oculis habenda sunt 1° Cum actio Divina sit Essentia Eius, non quæritur ex hac parte fi nis eius,sedex parte illa, qua effectum creaturæ communicat{Inlib. Sent., Dist. I, q. II, a. 1 ad 4). 2° Ex eo, quod Voluntatem Dei J causa extranea determinari repugnat, negandum non est cum Clar keo (Lettres etc, 3e Repl., § 2), Deum ex aliqua ratione res extr; se producere; siquidem Voluntas Dei rationabilis est, non quo uuæ suntadfinem,ordinariin !'•,m Crg0^0C. CSSC propter hoc' sed non ProPter uoe vult c , Ibid., c. Cf Contr. Gtmt., lih. I, c. 87. Ex cuius (Divinæ Bonitatis) amore est, quod Deus Eam com "pagr.e3V58. ^ Qq' diSPP'' D§ P°L' q Il}' a' 1B ad U' IDe(;lT'r^^Gen^ lib h C' 93 Ihidem ^' m> c' 18) ait etia^,"'.qnU1 est Pnmum agens omnium rerum, non sic agit quasi . act.one ahquid acquirat, sed quasi sua actione aliquid largia n ?n,a n°n C9rl ^ P°tentia' ut aliu-Uid acquirere possit, sed so|Q In actu perfecto, ex quo potest aliquid elargiri . Philob. Cbrist. Compend. II.7 q Deum esse demonstrat: Finis non nisi in bono consistenj potest; et sicuti finis particularis rei est quoddam bonunl particulare,ita finis universalis rerum omnium est quoal dam bonum universale. Atqui bonum umversale est, quni est per se, et per suam essentiam bonum; huiusmodi autenl bonum aliquid ex iis, quæ mundum constituunt, ess>| nequit; siquidem in tota universitate creaturarum nuUur.l est bonum, quod non sil particulare, sive partxcxpatiye bcl num Ergo illud bonum, quod est finis totius umversj oportet, quod sit extrinsecum a toto universo , nempj Deus Insuper finis inter alias causas primatumobtinet atque finis posterior est causa, quod præcedens finis interi datur, ut finis; non enim movetur aliquid in finem prox\ mum, nisi propter finem postremum. Exinde consequitiil ultimum finem esse primam omnium causam. Atqui pnmi omnium causa est Deus. Ergo Deus est ultimus ominuii 163! lamvero creaturæ irrationates ad Deum ordinantxl ut in finem per viam assimilationis tantum, nempe, I auantum participant aliquid de Dei simihtudine ; creaturai autem rationales super hoc habent, ut ad ipsum Deumci qnoscendum, et amandum sua operatione pertingant . Hii intellieitur cur finis huic rerum universitati prætixus esi dicatur Divinarum Perfectionum manifestatio, ex qua e.j trinseca gloria Dei exurgit 5. Etenim res mundanæ, cu in eo, quod sunt, et in eo, quod agunt, aliquam, simi.1 tudinem Dei pro modulo suo participent, præstantiam s Opificis veluti impresso vestigio naturahter exhibent, I mnesque simul sua varietate, et apta dispositione bapiel tiam, Pulcritudinem, Bonitatem, ahasque Divinas pern i I q. GIII, a. 2 c. Gf Cosmol., c. VI, a. 3, p. 156. etor.Tood Sr Pronrl e 16, v 4: Universa ^ H ipsum operatus est Deus; et Apocayp., c. ult. v.ld 9° alpha, et omega, primus, et novisstmus P™"P1™"^ : t rtn rf.:o De Ver.. q. V, a. 6 ad 4, el q. XX, a. ; Contr. Gent. lib. III, c. "• Dicitur gloria externa, ut a gloria tnterna Dei distingua quæ in notitia, et dilectione sui ipsius consistit. btiones pandunt. Creaturæ autem rationales non solum in ] ;ui excellcntia et pulcritudine excellentiam pulcritudilemque Gonditoris manifestant, sed etiam, cum facultalbus cognoscendi, et amandi Deum polleant, Eius perfe:tiones laudare, Eiusque potentiæ se Iibere subiicere telentur, atque ita pertingunt ad lpsum per suam operatiolem, bealitudinemquc asscquuntur 4. 164. Atque hinc patet quantopere sit a vero aliena senfi entia Kantu, Arhensii, aliorumque asserentium Deum ®\\reasse hominem propter hominem, cetera omnia non nisi " Topter hominem facta esse. Creaturæ enim homine infelores, etsi ad eius utililatem quadam ratione ordinatæ mt, tamen ad Dei gloriam manifestandam tendunt, tamuam ad ultimum suum finem, quem tum immediatey tum %ediate attmgunt. lmmediate quidem, quia ex ipsa sui atura sapicntiam, bonitatem etc. Divini Opificis palam aciunt, et in semetipsis, tamquam in speculo, quædam Hvinorum atlnbulorum veluti vestigia expressa gerunt; lediate, quia homini inserviendo concurrunt ad eamdem hvinorum attnbulorum manifestationem, quam homo raone, et Iibertate præditus peculiariter præstare debet . Aht. II. — De Divina rerum conservatione 165. Actio Divina, qua fit, ut creaturæ in existentia erdurcnt, Lonservatio Divina nuncupatur. Qq. dispp., De Ver., q. y, loc. cit. Audiatur s. Bonaventura: Est notandum, quod finis, ad quem s ordmantur, duplex est. Quidam enim est finis principalis, et ulmus; qmdam est finis sub tine. Si primo modo loquimur de fine sic noium creaturarum tam rationalium, quam irrationalium finis' est eus, qU,a omnia propter semetipsum creavit Altissimus, omnia enim cit ad laudem suæ Bonitatis. Si autem loquamur de fine non prinpali, qui est finis quodammodo, et finis sub fine, omnia sensibilia latacta sunt propter hominem. Et hoc insinuat Philosophus, cum cit: Sumus finis nos quodammodo omnium eorum, quæ sunt. Insiiat et.am Scr.ptura multo excellentius, cum dicit: Faciamus homim ad imaginem, et similitudinem nostram, et præsit piscibus ma etc. Qu.a ennn homo rationis capax est, ideo habct libertatem nurii, et natus est piscibus dominari. Quia vero pcr similitudim _natus est in Dcum tendere immediate, ideo o.nnes creaturæ ^ationales ad .psum ordinantur, ut mcdiante ipso in finem ultium perducantur,>; In lib. II Sent., Dist. XV, a. 11 q. I resol. etiam s. Thom., 2^ 2, Crealuræ omnes Divina conservatione indigent j ut esse pergant. Probatur. Si ponas ens quodpiam a Deo non con servari, hoc ipso ponis non omnia omnino pendere a Deo Atqui id cum Dei perfectione aperte pugnat. Ergo. 2 iam ad ipsa entia finita mentem convertas, ultro hoc yi debis. Ipsa enim sunt contingentia : quod autem contin gens est, huiusmodi est pro quocumque momento tem poris. Ergo, quemadmodum creaturæ, ulpote continger tes, non vi naturæ suæ existere coeperunt, aut mciper potuerunt, sed vi actionis Divinæ ; lta nec vi natura suæ permanent, aut permanere possunt m existentia, se vi ipsius Divinæ actionis. 167. At quamquam philosophi in hoc conveniant, quo nempe creaturæ Divina ope servantur, dissentiunt tame in explicanda ratione, qua eiusmodi conservatio perficii tur Alii enim conservationcm directam, et positivam; ali inter quos Crousatius , Bayleus z, et Galluppius 3, ind> rectam tantum, et negativam propugnant. Conservatio rf. recta, et positiva ita explicatur, ut Deus lugi quodam 1 fluxu res conditas in existentia retineat. Conservatio aii tem indirecta, et negaliva in eo tantum consistit, quod re postquam e nihilo conditæ sunt, propna virtute sua continuant existentiam, atque a Deo eatenus pendent, qu' tenus Ipse eas non destruit. Quapropter, posita consei vatione directa, res in nihilum abirent, statim ac ab e. influxus Divinæ actionis cessaret. E contrario, si tantu indirecta conservatio agnosci velit, ad rerum annihilati nem positivus actus Divinæ Voluntatis requintur. 168. Admittenda est conservatio dirtcta, et posihv Probatur. 1° Argumenta, qua creaturas, ut existere pe gant, Divina conservatione indigere demonstrant, conse °luo quidem nil absurdius effingi potest |i Denique omnes Ecclesiæ Patres, atque Theoloffi in iii ostram sententiam concedunt. Satis sint hæc s. Auffutini verba: Creatoris potentia, et omnipotentis, ataue mnitenentis virtus causa subsistendi est omni creaturæ uæ virtus ab eis, quæ creata sunt, regendis si aliquando essaret, simul et illorum cessaret species, omnisque nalra concideret 2 . Immo s. Anselmus adeo hanc veritaim persp.cuam esse docet, ut nullum de ea dubium ocurrere queat. Dubium, ait, non nisi irrationabili menti ise potest, quod cuncta, quæ facta sunt, eodem ipso suinente, vigent, et perseverant esse, quamdiu sunt, quo iciente, de nihilo habent esse, quod sunt 3 . • I, q. CIV, a. 1 c. Gf Ibid., q. , a. 1 c. Fusius s. Bona^ntura: Quia creatura est, et accipit esse ab alio, qui eam fecit se, cum pnus non esset, ex hoc non est suum esse, et ideo non t purus actus; quia habet possibilitatem, et ratione huius habet ixibilitatem, et variabilitatem, ideo caret stabilitate, et ideo non •test esse, nisi per præsentiam Eius, qui dedit ei esse. Et exemam huius apertum est in impressione formæ sigilli in aaua ^æ non conservatur ad momentum, nisi præsente sigillo. Et item, quia creatura de nihilo producta est ideo habet vanitatem qu.a nihil vanum in seipso fulcitur, necesse est, quod omnis satura sustentetur per præsentiam virtutis; et est simile, si quis [neret corpus ponderosum in ære, quod est quasi vanum, si non stentaretur; sic et in proposito ; In lib. I Sent., Dist. I, a. 1, q. 1 resol. 1 De Gen. ad litt., lib. IV, c. 12, n. 22. Gf ibid., lib. VIII c. 12 De Civ. Dei, Iib. XXII, c. 44. ' ' Monol., c. 13. Doctrinam hanc sic tradit Gatechismus Goncilii Ad maiorem rei perspicuitatem duo hic sunt ad notanda1° Conservatio rerum a Deo non est per ali quam novam actionem, sed per continuationem actionw, q-ua dat esse . Eadem nempe actione, qua Deus dedif 2reaturis esse, cum eas produxit, conservat illas in ess quod causæ secundæ non ipsum esse, sed tantum qut Tridentini : Quemadmodum omnia, ut essent\ Creatoris sxaM potestate, sapientia et bonitate eflfectum est; ita etiam, nisi, con tis rebus perpetua Eius Providentia adesset, atque eadem >i, q ab initio constitutæ sunt, illas conservaret, statim a [™™u™ ciderent; atque id Scriptura declarat, curo inquit: Quomodoaw posset aliquid permanere, nisi Tu volmsses ? Pars 1, n. 2 Deus eadem virtute, qua esse rebus tribuit, eas in i esse p prio conservat. Unde non magis ostendit Divinam Potentiam i ductio creaturarum, quam earum conservatio ; ln no. Dist. XV, q. III, a. 3 ad 5. iam modos producunt ; Deus autem ipsum esse largitur :reaturis, quæ proinde a Deo dependent, non solum ut aant, sed ut permancant in esse, quod acceperunt. In ioc autem Deus est causa perfectissima, et efficacissima, juia Ipse solus est a se; cetera vero sine Ipso esse non 30ssunt. Quælibet res naturalis tendit ad esse. Ergo potest naturaliter conservari in esse, ideoque Divilæ actionis influxu non indiget. | 173. Paucis sic respondet s. Thomas: Licet quælibet pes naturaliter appetat sui conservationem, non tamen quod l se conservetur, sed a sua causa 2 . De concursu Divino, dependentia creaturarum in agendo ab actu Divilæ Voluntatis concursum Divinum constituit, qui pronde definiri potest : Aclus Divinæ voluntatis efficienter 3 nfluens in creaturarum actiones, quæ acl ordinem naturæm 4 spectant. 175. Distinguitur autem hic concursus in mediatum, atue immediatum. Mediatus in eo tantum consistit, quod )eus vires, quibus creaturæ agunt, conservet; immediaus in eo, quod Deus, ut causa prima, cum ipsa creatura operante, ut causa secunda, operetur, atque eumdem efectum cum illa producat; sive existentiam effectus sua t ipse Deus actione immediatc attingit ; ex quo fit, ut oncursus immediatus etiam simultaneus in scholis dici oleat. P Cf s. Thom., In lib. I Sent.t Dist, q. I, a. 1 sol. et ad 3. (inc s. Augustinus aiebat: Neque enim, sicut structor ædium cum labricaverit, abscedit, atque illo cessante, atque abscedente, stat opus ius; ita mundus vel ictu oculi stare poterit, si ei Deus regimen sui |ubtraxerit ; De Gen. ad litt., lib. IV, c. 12, n. 22. Qq. dispp., De Pot., q. V, a. 1 ad 13. 3 Diximus efficienter, ut intelligatur concursum, de quo hic Jouimur, esse physicum, seu huiusmodi, ut Deus per modum agentis i actiones creaturarum influat. Qui quidem concursus ab illo, qui lcitur moralis, et in alliciendo, consulendo, adhortando, terrendo onsistit, apprime distinguitur. Diximus ad ordinem naturalem, quia supernaturales actus creaararum speciali, et supcrnaturali auxilio, quod qratia dicitur, exostulant. u i Quoad concursum mediatum, quin sit creaturis ad singulos actus necessarius, nemo est, qui dubitet. Quare inquirendum nobis est, utrum, nec ne concursu simultaneo creaturæ, ut agant, indigeant. Immediato Dei concursu creaturæ indigent ad singulas suas actiones. Probatur contra Durandum,qui Deum existimavit non nisi mediate cum creaturis agere, quatenus scilicet operandi facultatem iis a primo ortu concessit, et iugiteii conservat : 1° Quidquid babet rationem entis, Deum habet immediatum auctorem; cum enim Deus sit primum Ensi Ipse est, qui omnibus principaliter dat esse. Atqui quihbet effectus creaturarum habet rationem entis. Ergo oportetJ ut creaturarum effectus immediate pendeant a Deo. Præ ctus est. Ergo creaturæ, dum agunt, effectum propriuir Dei aliquo modo attingunt. Atqui causa, quæ effecturr proprium alterius excellentioris causæ producit, non nis: per eius influxum agit. Ergo . 2° Effectus immediate dependet ab eo, per cuius actio-i nem existit; quapropter si effectus causæ creatæ imme^ diate ab ipsa creatura, et tantum mediate a Deo pendereti ipse magis a creatura, quæ est causa secunda, quam i Deo, qui est Causa Prima, penderet. Atqui id absurduir est. Ergo. Hoc argumentum ex eo maius accipit robur • quod ceum agere cum creatura, ita ut eam adiuvando comiitur dumtaxat, non præveniat. Isti autem arbitrantur 'eum non solum adiuvare creaturara inter agendum, sed tiam ipsam ad actum efjicienter præmovere . Quare se cercet operationom; constat tunc quod C exercet operationem per ^rtutem suam; et quod per virtutem suam hoc possit, hoc est per rtutem B, et ulterius, per virtutem A. Unde si quæratur, quare C Jeratur, respondetur per virtutem suam, et quare per virtutem lam ? propter virtutem B; et sic quousque reducatur in virtutem ausæ Primæ . Cf etiam Con(r. Gent., lib. III, o. 70. Et alibi: Si consideremus supposita agentia, quodlibet agens particulare est imediatum ad suum effectum. Si autem consideremus virtutem, ia fit actio, sic virtus superioris causæ erit immediatior effectui, iam virtus inferioris; nam virtus inferior non coniungitur effectui, si per virtutem superioris ; Qq. dispp., De Pot., loc. cit. J Contr. Gent., Jib. III, c. 70 cit. 2 r, q. IV, a. 5 ad 2. 1 Contr. Gent., ibid. Cf Ontol., c. IX, a. 7, p. 71 sqq. Hinc concursus prævius nomine promotionis physicæ etiam apJllari solet. Eius notionem perspicuis his verbis tradidit Goudinus: Pnysica pracmotio, sive prædeterminatio est induxus Causæ Pri cundum hos Philosophos Deus non solum dedit, et conservat activas virtutes causarum secundarum, et simultanee cum illis concurrit ad producendos effectus, sed etiam eas ad agendum physice applicat, seu movet. Quæstionem huiusmodi hic pertractare nequaquam va cat. lllud tantum ostendendum nobis est, concursu Di vino, quacumque ratione explicetur, libertatem nostrarun actionum nequaquam adimi, sed potius confirmari. Sane admisso concursu dumtaxat simultaneo, res manifesta est Etenim, secundum huius concursus propugnatores, Deui causis liberis concursum indifferentem exhibet, quo nemp narum distributionem non admiltere, æternitatemque mundi, et. qui ab ipsa oritur, fatalismum traderet. Cf de Margerie, Essai su„ la philosophie de saint Bonav., c. 2, p. 40-49, Paris 1855. Sed donum ordinis in rebus creatis existens a Deo creatum est. ktqui Deus est causa rerum per suum intellectum, ac >roinde oportet in Ipso rationem cuiuslibet sui effectus •ræexistere. Ergo necesse est, ut ratio ordinis rerum in nem in Mente Divina præexistat B. 181. 2a. Admittenda est Divina Providentia, prout æc rerum gubernationem significat. Probalur. Quicumque facit aliquid propter finem, litur illo ad fincm. Oslensum est autem quod omnia, uæ babent esse quocumque modo, sunt effectus Dei; et uod Deus omnia facit propter finem, qui est ipse. Ipse ^itur utitur omnibus, dirigendo ea in finem. Hoc autem st gubernare. Est igitur Deus per suam Providentiam mnium gubernalor 6 . 182. Aliud argumentum ex Bonitate, et Sapientia Dei etitur, atque ita a s. Damasceno exhibetur: Natura bous est ct sapiens (Deus). Igilur, quatenus est bonus, proidet. Qui enim non providet, non esfc bonus. Nam et ho)ines,ctbcstiæ propriorum foetuum providentiam habent, se in mundo quamdam genetricem, seu procreatricem naturam, aæ Deo ad singulas res corporeas efficiendas, gubernandasque, mquam instrumentum, inservit. Cf Dissert. ad cap. II System. tell., De natura genetrice, 1-4. 1 Ili in quorumdam veterum, quorum meminit s. Thomas (I, q. XXII, 2), sententiam iverunt. 2 Deistæ dicuntur qui omnem Religionem supernaturalem, veluti Smentum Pontificum, aut Principum respuunt, aliaque capitalia sius Religionis naturalis dogmata impugnant. Varias deismi foras exposuit Samuel Clarke in suo opere, Traite" da V existence des attributs de Dieu. Cf Cosmol., c. VI, a. 6, p. 152, not. 1. Cf ibid., not. 4. 5 Cf I, q. XXII, a. 1 c. e Contr. Gent., lib. III, c 64. naturali quodam instinctu ; et qui non providet, vituperari solet. Quatenus autem sapiens est, optime prospicit . Id, quod ex ipsa Dei natura demonstravimus, es constanti rerum ordine, earumque stahili in suis agendij motibus harmonia, atque consensu confirmatur. Profectc omnes res ad suos ordinantur fines, atque inter eas extai nexus plane mirabilis, ita ut una alteri inserviat, et es omnibus apte connexis consurgat Universi pulcritudo. At qui ex hac rerum ordinatione, sive dispositione Divim Providentia ostenditur \ Ergo 8. 184. Idipsum ex perpetua, atque manifesta omnium gen tium consensione evincitur. Homines, ait Nemesius, ne cessitate aliqua compulsi statim ad Numen divinum, i preces confugiunt, velut natura eos ad Dei opem perduj cente. In repentinis perturbationibus, et timoribusj sine electione, neque deliberate, Dei Numen invocamus Quidquid autem naturaliter quamque rem insequitur, 1 eo tanta vis est ad demonstrandum, ut contradici nihi possit. Denique, sublata Dei Providentia, omnis rehgii est reiicienda. Quis bonos, ait Lactantius, deberi pc test nihil curanti, et ingrato ? An aliqua ratione obstricl esse possumus Ei, qui nihil habeat commune nobiscum? b i De Fide orth., lib. II, c. 29. Eadem ratione argumentatur s. Th( mas: Non convenit summæDei Bonitati, quod res productas ad pei fectum non perducat. Ultima autem perfectio est uniuscuiusque in cor secutionefinis. Unde ad divinam Bonitatem pertinet, ut, sicut prodi xit res in esse, ita etiam eas ad finem perducat, quod est gubernare > I, q. CIII, a. 1 c. Hinc Lactantius contra Epicurum rem agens, ii quit: Si est Deus, utique providens est, ut Deus; nec aliter Ei potei Divinitas attribui, nisi et præterita teneat, et præsentia sciat, et fi tura prospiciat. Cum igitur Providentiam sustulit {L’ORTO), etiai Deum negavit esse. Cum autem Deum esse professus est, et Prov dentiam simul esse concessit. Alterum enim sine altero nec ess prorsus, nec intelligi potest ; De ira Dei, c. 9. Ipse ordo certus rerum manifeste demonstrat gubernationei mundi; sicut, si quis intraret domum bene ordinatam, ex ipsa dotest; aut providendo fatigatur ? Nihil profecto minus; )eus enim est infinite omnipotens, atque simplici volunatis nutu omnia peragit. Neque dici potest, nolle Eum es gubernare, aut res creatas incapaces esse gubernatiojs. Nam Dei voluntas est omnis boni, cum sit ipsa boltas; bonum autem eorum, quæ gubernantur, in orine gubernationis maxime consistit 3 . Non sunt aulem es creatæ incapaces gubernationis; reipsa enim ordinanur ad invicem, earumque multæ gubernantur etiam huiianæ rationis induslria. Nulla igitur, concludimus cum ^usebio, mundi Particula Dei Providentiam effugit . 188. Observandum autem est singulas res diversimode us, non præsidet rebus humanis, nihil cst dc rcIii?ione satagenum . (De util. credendi, c. 16, n. 34). Enimvero, si, inquit Sallanus, negligit Deus in hoc sæculo genus humanum, cur ad Coeim quotidic manus tendimus ? Cur ad altaria supplicamus ? De ubern. Dei, lib. I. i Ibid., c. 8, et 12. 1 I, q. CIII, a. 5 c. Eadem ratione ita argumentatur s. Ambrous: Quis operator negligat operis sui curam? Quis deserat et deituat, quod ipse condendum putavit ? Si iniuria est regere, non est '( iaior iniuria fecisse ? cum aiiquid non fccisse nulla iniustitia sit, non Iprare quod feceris, summa inclementia ; De ofRc. lib. I, c. 13. 8 Contr. Gent., Iib. III, c. 75. ! De præp. Ev., lib. XII, c, 28.gubernari a Deo, secundum earum diversitatem. Hinc crealuræ rationales, cum sint per se agentes, tamquam habentes dominium sui actus, peculiari quodam modo a Dec gubernantur, nempe ab Eo inducuntur ad bonum, e retrahuntur a malo per præcepta, et prohibitiones, præ mia, et poenas. Hoc autem modo non gubernantur a Dec, creaturæ irrationales, quæ tantum aguntur, et non a gunt . 189. Obiic. 2 1° Manifestum experientia est impios pro speram in hoc mundo vitam agere, e contrario iustos in^ numeris affligi calamitatibus. Atqui id repugnat Divina Providentiæ, quæ profecto iusta esse deberel. Ergo • 190. Resp. Transeat maior; neg. min. Neg. cons. Dixi mus, transeat maior; tum quia non semper fit, ut boni ii^ ærumnis, impii vero in prosperitate versentur; tum qui1 falsum est lætos florere impios, dum suis deliciis, a corporeis voluptatibus fruuntur, et vexari pios, dum mi seriis affliguntur; potius enim illi perpetuis conscientia stimulis, et curis dilacerantur ; hi vero in suis miserii, maxima voluptate perfruuntur. Ceterum ex eo, quod mal in bonos, et bona in malos proveniant, tantum abest, u vel iniustitiæ accusari Deus possit, vel lUius negari Pro( videntia, quin potius et summe iustus, et maxime prc vidus hinc Deus ipse appareat . Exinde enim ostenditu Providentiam Divinam etiam ultra huius vitæ termino protendi, ita ut Deus utrisque, sive bunis, sive malis, i vita altera pro meritis vel præmia vel poenas imperti? tur 5. Quoniam vero nullus est tam bonus, qui non ali quando delinquat, neque tam malus, qui aliquod bonur i I, q. CIII, a. 5 ad 2. Hac significatione, ut idem sanctus Dt nfi. 'ec omittendum f.uod Do Tmnin n! 'S •bc?set '•' s bonorum a Deo receDt0r„™ ?™.M ? Permmi° t ^emplo ad meCm t^Zrtnwtor -T^ ^0? m ios, ut in virlutum exerrllin fw r' Vexan autem |m.xt,0 semper ordinatur ad id, ouod est nrr \o h mis bonum Muuu est per se ho iDf.NonTrefer.lnr .",(£,' "! 1U"V'' .' 1 cn ^'^.?tfsr.issa°rs Humiliter cogitantes, quamvis ]onp ihsin. . f • osis atque impiis tamen nn„ . aDsnu a facinoros s, /la os, ntq nec tem or a pro e.s 2' "de° " " UC,ictis •! !-.c. 9. Et c. 8, !.TarT. ni ^ '"a P,CrDetl se iudint dignos ; lrum bona 'ustis ou >,,, 'n„ 'rnaC ProTd> præparare i„ non excrSbuStnr b„M " frUCntUr inius,i'et ""'• "! ^''"riVo^"^^; °mnibus eas ("• -) P„aos r '°C C"~ ' '• qCI"' a7 8d • rHaos. Chuist. Compend. II 7 2o duorum servorum, si ad ipsos servos referatur, casuali est,quia accidit præter utriusque intentionem; si auten referatur ad dominum, qui hoc præordinavit, non es casuale, sed per se intentum '. lamvero ita se res babe circa ea, quæ fortuito evenire in mundo dicuntur; nemp, præter ordinem alicuius particularis causæ aliquis ei fectus evenire potest, non autem præter ordinem Causa universalis. Guius ratio est, quia præter ordinem part cularis causæ nihil provenit, nisi ex aliqua alia caus, impediente; quam quidem causam necesse est reducere i primam causam universalem. Sicut indigestio conting præter ordinem virtutis nutritivæ ex aliquo impedimcatc puta ex grossitie cibi, quam necesse est reducere in i liam causam;et sic usque ad Causam primam univers^ lem. Cum igitur Deus sit prima Causa universahs nq unius generis tantum, sed totius entis, impossibile est quod aliquid contingat præter ordinem Divinæ gubern^ tionis. Sed ex hoc ipso, quod aliquid ex una parte vid. tur exire ab ordine Divinæ Providentiæ, qui consider, tur secundum aliquam particularem causam, necesse es quod in eumdem ordinem relabatur secundum aliam cai sam Itaque nihil fortuiti in hac rerum universitate venit, quippe quod ea, quæ hic per accidens agunh sive in rebus naturalibus, sive in humanis, reducunti, in aliquarn causam præordinantem, quæ est Provident Divina 3 . . Obiic. Si Providentia Dei ad omnes, et singul etYectus pertineat, Divinæ Yoluntati iniunosus est, q in gerendis negotiis et suam, et aliorum curam mterp nit; qui morbo laborans sanitatem in remedns quæn, hæc enim omnia Deo summe provido committenda sut Atqui falsum consequens. Ergo et anlecedens. 194. Resp. Neg. mai. Et sane « Divina operatio to excludit causas secundas4; atque « Deus unicuique \\ ordinavit actiones secundum proprietatem suæ naturæ; quapropter « expectare a Deo subsidium, in quibus i I, q. CXVI, a. 1 c. 2 Ibid., q. CIII, a. 7 c. ^ Ibid., q. CXVI, a. 1 c Cf s. Aug., Dq Civ Dei lib V c. 1. Contr. Gent., lib. III, c. 77. Quare Divina Providentia etsi ' tingat a fine usque ad finem fortiter, tamen dispomt omma suavu diquis potest per propriam actionem iuvare, prælermissa .ropria, aclione.est insipientis, et Deum tentantis Hoc n.m ad Div.nam Bon.latem pertinet, ut rebus provideat lon immed.ate omn.a faciendo, sed alia movendo ad I nromas actiones. Non est igilur expectandum a Deo ut onm act.one propria, qua sibi aliquis subvenire potest ræterm.ssa, Dcus ei subveniat; hoc enim Divinæ ordiationi repugnat, et Bonitali Ipsius «. Id unum noslulag ab co, qu Divinam Providentiam agnosci™ ut sci t et lotum soi labons evenlum Deo commitlat, et refcra ft.nsque voluntatera Jn omnibus animo submisso veneHur. « Hoc, subd.t idem sanctus Doclor, disposilioni Dinæ sub.acel, qu.d cuique ex actione sua proveniat Præp. ergo Dom.nus nos non debere esse ollicitos de eo od ad nos non pcrtinet, scilicet de eventibus nostrarum t.onum; non aulem prohibuit nos esse solicitos d o To-anlnOS $& scilicet de nost™ opere ». ' rte3fru '.rni-i n.A ut Pe" nos I re bant ». Idera d.cendum de contingentil us • Deus m ipse prov.d.t, ut quacdam necessarioD, quædara con fenter even.rent. « Quibusdam effectibus præp«av"t assas necessar.as, ut necessario evenirent, ouibusdam ro caussas contingentes, ut cvenirent cont »S« s£ dum cond.t.onem ; proxiraarum caussarum ^Nm, cAo urura hoD'i:n(a dCHCrC-ta; namc72 « 73. > q. XXII, a. 4 c. genter: sequilur ergo infallibiliter quod erit contingenter. non necessano. De unitate Dei. Refutatnr Polytheisrnus. Ex ipsa Dei nalura, huc usque secundum intelli gentiæ noslræ angustias explicata, Ipsius unitas manife stissimc demonstralur. Turpissimus ille error, quo plure admittuntur Dii, appellatur Polytheismus. Deus ita unus est, ut plures esse Deos absolule r% pugnet., j Probatur primo ex summa Eius simplicitate. Sane « u lud, unde aliquid singulare est hoc aliquid, nullo mo& est multis cornmunicabile. E. g., illud, unde Socrate, est homo, multis communicari potest; sed id, unde est Ai homo, non potest communicari, nisi uni tantum ». Atqui cum Deus ex sui natura sit ipsum Esse subsistens, « ips Deus est sua natura », ac proinde « secundum idem m Deus, et hic Deus ». Ergo, sicut si Socrates per id esst homo, per quod est hic homo, non possent esse plurt homines, æque ac non possent esse plures Socrates; it impossibile est plures esse Deos. Contr. Gent. Hinc sanctus doctor monet admit, posse fatum, si eius nomine intelligatur ipsa divina providentu, omnia, quæ fiunt in mundo, iuxta naturam et conditionem causi rum, a quibus proveniunt, idest libera libere, et necessaria necessario disponens. Divina providentia per causas medias suos e fectus exequitur. Potest ergo ipsa ordinatio effectuum dupliciU considerari. Uno modo, secundum quod est in ipso Deo; et sic ip£ ordinatio effectuum vocatur Providentia. Secundum vero quod pra dicta ordinatio consideratur in mediis causis a Deo ordinatis aliquos effectus producendos, sic habet rationem fati. Sic er£ est manifestum, quod fatum est in ipsis causis creatis, in quantu sunt ordinatæ a Deo ad aliquos effectus producendos. Nihilominus, monente eodem sancto Doctore, non deberm hoc nomine uti, quia non convenit Catholicos habere nomina cu paganis communia {Quodlib.). Prorsus, inquit etia. Augustinus, divina providentia regna constituuntur humana; qui si propterea quisquam fato tribuit, quia ipsam Dei voluntatem, t potestatem fati nomine appellat, sententiam teneat, linguam corr gat; De Civ. Dei. Secundo demonslralur ex infinita Dei perfectione Ens enim summe perfectum non nisi unum esse S fcqmdem si plura essent, certo quodam discrimine inter .e d.stmguerentur; ahoquin, si eadem prorsus natura s n rohs .Ihs communis csset, non multiplex, sed unicam ens sumræ pcrfectum admitteretur. Iam vero illud ifferrent, imperfectio esse non polest, quippe Tepu-naUn inte summe perfecto imperfectionem iliqwm esse Dif errent gltur a|i &,,„ J. ™fg- ^Df Iter, non conveniret: ideo nullum ex entibus illis nfinhe •erfeclum er.l. Itaque Ens summe perfectum num esse potest. Deus ergo ita est sumræ unus ut om jino repugnet plures esse Deos ZZ ST.T ^,lem 0rd,'n,ata rerum °™ uis" Mtio, et apla (ot.us mund, per leges constantes eober o supremæ Causæ intelligentis' uni.atem man feste h.bct. S. cnira plures hæ causæ essent, et ta.nen in 'tatem ordmis, et dispositionis convenirent, una abal I, q. XI, a. 3 c. cit. « Neque artificem, ad rem inquit s. Athanasius, inter homines olutum dueni sed imbecillem, si non soius, «de.mmn.Js im opus expcdiat ; Adv. Genl., a. 38. tera penderet, nec proinde essent Dii; si vero non con-l venirent, non existeret ordo . Errore autem tenentur, qui polytheismum ubiquectonbus erumpit. Refutatur Manichæismus Refellendus hic venit error turpissimus de duobus rincipns, bono altero, altero malo; quorum illud omnium ' ? noc orbe bonorum, alterum malorum caussa sit. OpiH ionis huius absurdæ originem eruditi a Zoroastro vetutissimo Persarum doctore repetunt. Persarum vestieiis istitere hæretici Manichæi, ita dicti a Manete, insanisJ imæ huius sectæ auctore. In recenti ætate Manichæoer um patrocinium Petrus Bayleus suscepit, nullumque non i lovit lapidem, ut eam lmpietatem tot prostratam vicibus ?novaret. Statuit nempe Manichæorum hypothesim ratiof ibus apriori absurdam demonstrari, sed a posteriori con| deratam approbatione esse dignam 2. III! i qi ei existentiam.Hoc adnotandum est adversus Buchnerum, qui (Force matidre, Leipzig) ex superstitioso populorum cultu msensum pro Dei existentia non realem Entis supremi notionem, i aliquid ab ipsis hominibus excogitatum præseferre hlaspheat. bane, intellectus noster, apposite inquit s. Bonaventura, de:it in cogitatione Divinæ Veritatis quantum ad cognitionem, quid t tamen non deficit quantum ad cognitionem, si est. Ouia ergo tellectus noster numquam deficit in cognitione Dei, si est, id?o !c potest ignorare Ipsum esse, similiter non cogitare non esse. Jia vero dcficit in cognitione, quid est, ideo frequenter cogitat .um esse, quod non est, sicut idolum, vel non esse, quod est, cut Deum non lustum: et quia qui cogitat Deum non esse, quod, ut nori lustum, per consequens cogitat Ipsum non esse, ideo Hione defectus intellectus Deus potest cogitari non esse, non men simpliciter, sive generaliter, sed ex consequenti, sicut qui gat heatitudinem esse in Deo, negat eam esse (In lib. I Sent., isi. viu p. I, a. 1, q. 2 resol.). Quocirca ii, qui falsam divinitem profitentur, se nullum Deum profiteri haud putant. Unde nparLhaCtarUn,n" ?e°rU,n cultores ^ligiosos se putant, cum sint perstitiosi ; Div. Inst.y lib. IV, c. 28. 1 Op. cit., lib. II, c. 1. l',fiCt' J\iSt' icrit'> artL ManicMens, Marcionites, Paulicient, gene, Xdnophon, et in Dialogis, et in Rep. d un Provincial Ut commentum istud reiiciatur, tres propositione: demonstrandas suscipimus : la. Dualitas principiorum a Manichæis admissc a ratione prorsus abhorret. Probatur. Per principium summe malum vel intelligi tur ens infinite contrarium principio bono in omni re, u tenebræ opponuntur luci; vel intelligitur principium con sors earumdem perfectionum, excepta sola benevolentia ita ut sit quædam natura Divinarum perfectionum par1 ticeps, sed ad malum maxime propensa. Atqui utroquf sensu repugnat principium summe malum. Ergo. 204. Prima pars minoris ita demonstratur: 1° Cum ma lum opponatur bono , summum malum, si re ipsa dare tur, omne bonum tolleret. Atqui bonum convertitur cun ente. Ergo si summum malum daretur, hoc tolleret omm ens, sive esset non ens absolute sumtum; et ideo summuir malum non aliter concipi potest, quam veluti Nihil ab solutum. Atqui notio Nihili absoluti se ipsam destruit, qui esset simul omne ens, et nullum ens. Ergo notio mal summi est notio, quæ se ipsam destruit. 2° Malum, u alibi ostendimus2, in bono fundatur, ac proinde non pot est esse omnino separatum a bono. Atqui summum ma lum oportet esse absque consortio omnis boni. Ergo nih\ est summum malum 3. 3° Nihil intelligi potest veluti sum mum malum, nisi quod per suam essentiam malum est quemadmodum non aliud summum Bonum, nisi quod pel suam essentiam est bonum. Atqui repugnat aliquid ess per essentiam suam malum, quia omne ens, prout et' ens, est bonum. Ergo summum malum esse repugnat. 205. Altera minoris pars demonstratur hunc in modunc Gf Ontol., c. V, a. 2, p. 32. s Contr. Gent., lib. III, c. 15. Cf Ontol., loc. cit., p. 34. Quæ ut magis perspicua fiant, illu monendum censemus, quod nullum est argumentum, quo inferti^ mala, quæ in mundo sunt, ad aliquid, quod est per essentiam sua malum, reduci, æque ac bona ad aliquid, quod est per essentiai suam bonum. Enimvero, bona, quæ in mundo sunt, ad aliquid, quc est per suam essentiam bonum, reducuntur, quia omnes res bom sunt ex eo, quod participes sunt infinitæ Bonitatis Dei. At nullu ens, ut s. Thomas ait, dicitur malum per participationem, sed p> privationem participationis. Unde non oportet fieri reductionem s aliquid, quod sit per essentiam malum ; I, q. XLIX, a. 3 ad • j Ens infinite perfectum nonnisi unura esse potest Enro lT n9oq^Una]l(IUa natura Pivinarumpcrfectionumparti.eps. 2 JNulla natura attributis secum pugnanlibus contare potest. Alqui hæc duo, naturam aliquam esse Diji.marum perJcctionum participem, et esse simul ad ma„ um maxime propensam, sibi adversantur. Ergo. 3° Inelligi nequit, quomodo Ens infinite perfectum possit ma?ra Pr°sequi. Etenim ens intelligens capere mala consi-,ia non potest, nisi ex ignoratione recti, vel utilitatis ali|ius spe Atqui ens, quod æternum, et independens, atue innnile lntelligens adstruitur, rectum ignorare nequit l sibi suinciens nullius utilitatis consideratione a recto re V9nrni P°lCSt' Erg0 ma,um prosequi nequit. Mj zub. Jlaque evidentibus rationibus a priori repuffnantia .uahsmt ev.ncitur. Quod cum ita sit, illud systema nullo joao potcst demonstrari verum a posteriori ; sic enim iem esset, et non esset repugnans. Fallitur igitur Bayleus, -que ral.ocinandi Ieges ipsis tyronibus perspeclas ignou, cum dualismum falsum a priori fatetur, sed verum posteriori demonstrari contendit.,207 Prop, 2a. Manichæorum hypothesis fini, ob quem vcogitala fuit, adversatur, seu inepta est ad bonorum et \atorum quæ in mundo sunt, originem explicandam. rrobatur. Duo principia, quæ Manichæi fingunt, vel >qualis sunt virtutis, vel inæqualis. Atqui si prius, tunc que Donum, neque malum erit in mundo, quia vires quales, el oppositæ sese mutuo eJidunt. Si vero posteus, tunc vel unice bonum, vel unice malum obtinebit; mpe, si prævaleat principium bonum, malum bacchari I >n sinct, nec sinere poterit; si principium malum viri Contr. Gcnt. Cf Cosmol. Græcarum affectionum curatio, Serm. V De natura hominh \\ 3 Ad malum morale quod attinet, ipsum inest in actione, quæ a morum regula deficit. Causa igitur huius mali in voluntate tantum creaturæ rationalis sita est, quæ, cum Jibera sit, et limitibus circumscripta, deficiendi capacitatem habet, atque iibertate uti ad bonum, vel abuti ad malum potest. Malum culpæ, quod privat ordinem ad bonum Divinum, Deus nullo modo vult ' . Et sane, malum, quod in defectu actionis consistit, seraper causatur ex defectu agentis. In Deo autem nullus defectus est, sed summa perfectio. Unde malum, quod in defeclu actionis consistit, vel quod ex defectu agentis causatur, non reducitur in Deum, sicut in causam. Quin immo malum moraie prorsus a Deo reprobari ostenditur ex eo, quod severissime illud prohibet, et insuper notiones iusti, el iniusti hominum cordibus inscripsit, et valida media, quibus ad bonum incitamur, et a malo abducimur, nobis largitur. Quare neutiquam Deura velle malum morale, sed illud permittere tantum dici debet, quatenus nempe illud non impedit, sed sinit, ut agentia ratione, ac proinde libertate prædita pro lubitu operentur. lud autem prætermissum nolumus, quod mala, quæ nostram vitam, comitantur, atque ipsa mors locum non habuissent, nisi a primævo innocentiæ statu natura humana deturbata fuisset. Quare illorum malorum origo ex peccato originali repetenda est. Deum vero hunc generis humani lapsum permittere potuisse, ex dicendis constabit. Hæ voces nullo modo significant Deum ne; per accidens quidem posse velle malum morale. Etenim aliquodj malum appetitur per accidens, in quantum consequitur ad aliquod bonum... Malum autem, quod coniungitur alicui bono, est privatio alterius boni. Numquam igitur appeteretur malum...per accidens, nisi bonum, cui coniungitur malum, magis appeteretur, quam bonum, quod privatur per malum. Ntillum autem bonum Deus magis vult, quam suam bonitatem... Unde malum culpæ, quod privat ordinem ad bonum Divinum, Deus nullo modo vult ; Ibid. I, q. XLIX, a. 2 c. Cf p. 378-379. AOSTA (vedasi), ut ostendaf Deum nullo modo velle malum culpæ, hoc utitur argumento: Iusta voluntas hominis est ea, qua vult id, quod Deus vult eam velle, iniusta vero e contrario est ea, qua vult id, quod non vult Deus eam velle. Unde sequitur, quod si Deus vellet hominem peccare,: homo peccando non peccaret, simulque voluntas eius iusta, et iniusta foret: iusta, quatenus conformis esset Divinæ voluntati, qua Deus vellet illam peccare; iniusta, quatenus eidem Voluntati repngnaret, quæ prohibet peccare ; De lib. arb. Iamvero hæc mali moralis permissio Divinæ perfectioni haud repugnat. Etenim 1° ita Deus permittit peccatum, ut hoc ex iis, quæ Deus intendit, necessario non :onsequatur; Deus enim hoc unum intendit, ut creatura rationalis hbertale sua recte utatur, atque ita felicitatem, id quam lllam destinavit, assequatur. 2° Adminislratio universitatis, uti post s. Augustinum nquit FIDANZA (vedasi), est ut Deus sic res conditas admiustret, ut eas agere proprio motu sinat 2. Deus autem Jermittendo malum morale, naturam rationalem modo, qui lli consentaneus est, gubernal; eam enim validis auxiliis nstruit, ut peccatum cavere possit; sed si ipsa ad peccaum libere se determinet, non impedit, quominus pro suo ubitu se determinet. Deus neque ex sua sanclitate, neque ex sua benigniate, neque ex sua sapientia peccalum impedire tenetur. \on quidem ex sua sanctitate; siquidem sanctitas Dei e:igit, ut Deus peccatum odio interno infinito improbet mn vero ut tenealur omne peccatum depellere, quemadnodum ex eo, quod Deus virtutem necessario amat, non icet concludere Eum teneri efficere, ut omnia virtutis, et uetahs opera existant 3. Neque ex sua benignitate; Deus nim non tenetur omnibus donis possibilibus hominem cunulare, nec proinde privilegium non peccandi ei conceere. Neque ex sua sapientia ; tum quia, ut paulo ante lximus, sapientis est removere hoc modo impedimenum, quod natura non lollatur ; tum quia sapientia Dei aud postulat, ut Deus illa mala permittere nequeat, quæ b Ipso ad maximum bonum, et ad finem sibi præstituum ordman possunt 5. lam mala morali a Deo ad boium, et ad fines suos ordinantur, non quidem quatenus >eus velil illa mala, ut bonum consequalur, sed quatekus vertit malum m bonum, et ex ipso malo elicit bo 1 De Civ. Dei, Jib. VII, c. 30. ln lib. I Sent., Dist. XLVII, a. 1, q. 3 resol. Cf s. Bonav., ibid., ad arg. ln lib. II Sent., Dist. XXIII, q. I, a. 2 ad 3. Quamvis malum, secundum quod exit ab agente proprio sit ordinatum, et ex hoc per privationem ordinis definiatur: tamen nn pronibet, quin a superiori agente ordinetur ; Qq. disnu. Tr., q. V, a. 4 ad 3. ^ lF num. Vult bonum consequens, ex quo malum ordinatur; ex quo sequitur, quod velit mala facta ordinare, non autem, quod velit ea fieri !; nimirum, si homo sua pravitate bonum in malum convertit, Deus, e contrario, sua Sapientia efncit, ut bonum ex malo nascatur. Hinc s. Augustinus aiebat: Neque Deus. . . ullo modo sineret mali aliquid esse in operibus suis, nisi usque adeo esset omnipotens, et bonus, ut bene faceret et de malo 2 . Ex. gr.J ut advertit s. Thomas, non esset patientia Martyrum, si non esset persecutio tyrannorum 3 ; atque ex scelere omnium atrocissimo in Christum Filium Dei patrato Deus bonum omnium maximum, nempe opus nostræ redemptionis eduxit, et, ne plura consectemur, Divinæ iustitiæ, clementiæ, aliorumque attributorum manifestalio, quæ mun-i di ordinem maximopere commendat, absque mali moralis permissione nuilum haberet locum . 216. Itaque Deus non vult, sed dumtaxat permittit ma]um morale. Atqui hæc permissio Divinis Perfectionibus nihil obest. Ergo mala moralia sub unico Ente infinite perfecto locum habere possunt. 217. Rem totam ita perstringimus: Ex malis nihil Divinæ Perfectioni detrahitur. Ergo frustra, præter priricipium summe bonum, aliud principium summe malum Manichæi comminiscuntur 5. i In lib. I Sent., Dist. XLVI, q. I, a. 4 sol. 2 Enchir., c. 11, n. 3. Unde Deus non eis [creaturis liberis) ademit hanc potestatem {peccandi), potentius, et melius esse iudicans etiam de malis bene facere, quam mala esse non sinere ;' De Civ. Dei, lib. XXII, c. 1. 3 I, q. XXII, a. 2 ad 2. Perbelle ad hanc rem inquit s. Bonaventura: Vis divina, eliciens bonum ex malo, præpotens est malo, et ideo bonum, quod inde elicit, prævalet bono, quod malum corrumpit; et ideo plus valet Universum nunc, quam valuisset tunc, in quod nunc modo commendatur Sapientia Creatoris. Unde Gregorius in benedictione cærei paschalis, Ofelix culpa, quæ talem meruit habere Redemptorem. Et exeraplum est de scypho sano, qui frangitur, et religatur filo argenteo vel aureo, quia melior est post, quam ante, non ratione fractionis, sed ratione religationis ; In lib. I Sent., Dist. XLVI, a. 1, q. 6 resol. 5 Ex iis, quæ adhuc demonstravimus, excluditur etiam, ut s. Thomas advertit, quorumdam error, qui propter hoc, quod mala in muodo evenire videbant, dicebant Deum non esse... Esset autem e contrario arguendum: Si malum est, Deus est. Non enim esset malum, sublato Effcctuum oppositorum oppositæ sunt causæ. Atqui bonum, et malum sunt effectus sibi invicem oppositi. Ergo sicut summum Bonum est causa boni ita summum malum admittendum est, quod sit causa rnali. 2W. Kesp. Dist. mai. Si sermo habeatur de causis proximis, et particulanbus, conc. mai., si de causa remota, et umversali neg. mai. Dist. etiam min.; ita tamen, ut ad 3umdem finem ordinari possint, conc. min., secus, neq mn. J\eg cons. Llramque distinctionem ex D. Thoma ac;epimus. Quod ad primam attinet, contraria, inquit ;anctus Doctor, conveniunt in genere uno, et etiam con/eniunt in ratione essendi. Et ideo, licet habeant causas larticulares contranas, tamen oportet devenire ad unam arimam causam communem . Atque id generatim circa tfectus contranos intelligendum est ; nam cum de malo, uod oppositum bono est, sermo est, illud etiam observanlum est, malumproprie effectum dici non posse siquidem nalum cst mcidens effectibus, sed non est factum per se oquendo. Alteram distinctionem ex his sancti Doctoris erbis confecimus : Res habent contrarietatem ad inviem, quantum ad proximos effectus ; sed tamen concorlant etiam contraria in ultimo fine, ad quem ordinantur ecundum harmoniam, quam constituunt ; sicut etiam pæi in mixto, quod componitur etiam ex contrariis ; et ex oc sequilur quod agentia proxima sunt contraria, licet gens pr.mum sit unum ; quia iudicium de agente, et fine oon^, CUmaohtn duæ causac in idem incidant. Obnc. 2° Dcus aut vult tollere mala, et non pots, aut potest, et non vult ; aut neque vult, neque pot ^ . VUiU'^J01^' Si vull. non potest, imbelllis est, quod in Deum non cadit. Si potest, et non vult, ividus, quod æque est alienum a Deo. Si neque vult, equc potest, et invidus, et imbecillis est. Si vu t, et potst, unde ergo sunt mala ? [ Responsio ex dictis constat. Deus enim potcst utiueomn.a mala tollere, non vult tamen, ne impediatur onum Un.versi. Neque propterea est imbecillis, aut mi rdine boni, cuius privatio est malum: hic autem ordo non esset si eus non esset ; Contr. Gent., lib. III, c. 71. ' Ib.d. ad 3. - In lib. II Sent., Dist. I, q. I, a. 1 ad 4. nus bonus, quia omnipotentiam, et bonitatem suam patefacit, cum ex ipsis malis bona eliciat. 222. Obiic. 3° Secundum illud effatum, Quidquid est causa causæ, est causa effectus, peccatum, cuius causa est liberum arbitrium, reducitur, tamquam in causam, ad Deum, qui est causa liberi arbitrii. Atqui id sanctitati Dei repugnat. Et sane illud effatum ad rem non facit ; nam effectus causæ mediæ procedens ab ea, secundum quod subditur ordini causæ primæ, reducitur etiam in causam primam ; sed si procedat a causa media, secundum quod exit ordinem causæ primæ, non reducitur in causam primam ; sicut si minister faciat aliquid contra mandatum domini, hoc non reducitur in dominum, sicut in causam. Et similiter pec| catum, quod liberum arbitrium committit contra præc©r ptum Dei, non reducitur in Deum, sicut in causam l . Obiic. 4° Prævidit Deus hominem male usurun: libero arbitrio. Ergo, cum sit infinite bonus, debuisse id impedire. Quod si bonitas finita patrisfamilias necessario exigit, ut impediat, quominus sui filii bonis, qua( accepturi snnt, abutantur, multo magis bonitas infinita i( præstare debuit. Equidem, cum homo essentialitei sit rationis particeps, atque libertas sit essentialis ratio nis proprietas, idem fuisset condere hominem libertafc carentem, ac non hominem, quod intrinsecus repugnat Nec libertas est de se matorum scaturigo, sed solum ilj lius abusus, cum mala non fataliter, ac necessario, sec contingenter ab illa deriventur. Neque ullum tam fatuun hominem esse putamus, quem libertatis a Deo sibi con, cessæ poenitere possit, cum illa sit etiam innumerabiliuq bonorum fons. Potuisset utique Deus absolute impedire ne homo peccaret, retenta nihilorninus libertate; ast, cu id noluit, tantum abest, ut malorum permissio Eius infi nitæ bonitati obsit, quin potius illam mirifice manifester uti iam demonstratum est.i 4a 2æ? Peccatum, alibi ait, jefertu in voluntatem, sicut in causam; et quamvis voluntas sit creata Deo, in quantum est quoddam ens, non tamen quantum ad ho( quod defectus ex ipsa incidere potest; In lib.II Sent., Dist. Exemplum autem patrisfamilias, qui bonus non sset, msi prospiceret, ne fiiius abuteretur bonis ei traitis, nullam vim habet; nam pater est provisor particulris; Deus vero est provisor universalis. Aliter autem ocente AQUINO (vedasi), de eo est, qui habet curam alicuius articular.s, et de provisore universali; quia provisor parcularis excludit defectum ab eo, quod eius curæ subdiir, quantum potest; sed provisor universalis permittit iquem defectum in aliquo particulari accidere, ne imediatur bonum totius. Accedit quod pater naturali officio impedire teneir quæcumque filii mala impedire potest; Deus autem ti demonstravimus, non tenetur omnia impedire mala læ potest. Quocirca Deus peccati causa etiam indirecta ci non potest nec debct: quia tametsi non præbeat frxi Iium, quod si præberet, homines non peccarent >c totum facit secundum ordinem suæ sapientiæ et iuitiæ, cum Ipse sit sapientia, et iuslitia; unde non imputar Jii, quod a ius peccet, sicut causæ peccati; sicut ibernator non d.citur causa submersionis navis, ex hoc lod non gubernat navem, nisi quando subtrahit -uberitionem, potens, et dcbens gubernare. Pantheistarum placita recensentur Ex iis, quæ superius de infinita Perfectione Dei cta sunt, non solum eorum error, qui nonnisi unam esse )sse Divinam Naturam inficiantur, sed etiam commenm illorum, qu, Deum cnm hac rerum universitate conndunt, refellitur. Illud philosophiæ systema, in quo nnia, quæ sunt, unicam substantiam constitucre dicun cl,HJfl(IfnrXI,I,I n°tanda ^st vox illa aliquem, i,t c udatur Baylci sopinsma, quo Deum mala permiuentcm assimilat ?i, qui smeret crescere seditiones, et perturbationes iti toto renoVL9JVam acouireretPr°™rati remedii. Nam l.ac agendi ra"n al loua reSm mala Particularia rex permitteret, sed age r Zlr Um commune re^N qod ipse curare debet. Quoca ineptissimum est Baylei exemplum. V la 2, q. Philos. Cerist. Compend. IJ.7 9/? tur quæ Deus appellatur, panlheismi nomine designatur • Iam insania hæc, etsi antiquissima sit, tamen hac nostra ætate late longeque pervagata est, ac veluti culmen atti gisse videtur. Ut veteres2, atque aliquos mediæ ætatis prætermiUamus 3, pessimi huius erroris origo in philosophia re i Hoc ipsa pantheismi vox, a verbis tcat et 0eog effecta, lucu ^Omnes fernie indorum philosophorum Scholæ pantheismum ma eis minusve redolent, sed eum, omni remota ambage, docuit philo soohia Vedanta, quæ cum libris sacris, Vedas appellatis, consentane sitorthodoxa putatur. Vedantici philosophi contendunt unicum extari ens infinitum nomine Brahma, resque multiplices, et compositas, qua. nræter illud existere dicuntur, esse calentis phantasiæ ludibna. Ind se in s° £%%;, |c promde se,n sub.ectum, atquc obiectum reflexionis distinLit J" Z '3° Per reflcx.onem limitcs sibi imponit, scquc in eoosSbl '';."" e9° 0l?,eCt,,,,n Uividit, oniam a, om subicctun/ rcflex ornsob.ecto oppomtur, liquet ego obiectum, comparatum cun eoosul l um'^sum T Ca°QaarVt°r ^punLper reflexion^, po°iviUh purum' hoc est' cum conscientt sui ipsius |r;: z::^sT:zrcicntia sui ipsius - est sk xitramque rem cum cogitatione unum idemque esse contendit, illud pronuntiatum staluens: Quidqnid est reale, est ideale, et quidquid est ideale, est reale. Quare, ex eius sententia, illud, quod cetera omnia complectitur, non est neque subiectum, neque obiectum, verum cogitatio, seu idea, \el Idea-Ens, quæ quidem in se est absoluta, et indeterminata, sed cum seipsam secundum quasdam leges, quæ ab Hegbelio momenia appellantur, evolvit, egoy mundum et Deum producit. Pantbeismus opera Cousini e Germania in Galliam transmigravit. Hic eclecticorum Galliæ dux se panlbeistam esse præfracte inficiatur; sed quod yerbo negat, re fatetur. Revera ipse docet Deum esse unicum, et multiplicem, æternitatem, et tempus, summum, et infimum gradum entis, finitum, et infinitum, simul Deuny naturam, et humanitatem; Deum, cum mundum creat, non quidem e nihilo, sed e seipso illum educere, ldeoque creationem aliud non esse, quam evolutionem, et apparitionem Dei in mundo; creationem esse necessanam, quippe quod Deus, cum sit caussa absoluta, non potest non creare, hoc est, seipsum manifestare, et cum sit causa infinita, huiusmodi manifestatio erit constans, et infinita; Deum idcirco necessario, et semper creare. Exinde intelligitur, cur Heghelius unam esse reruni, et seientiæ rerum originem, et in scientia formam, et id, quod forma continetur, unum, idemque esse decreverit. Quamobrem ipse totam philosophiam intra logicæ cancellos coegit; ex quo sequebatur rationenr philosophandi esse ipsam philosophiam; siquidem logica, ut ab initn diximus, non est aliud, quam communis ratio philosophandi, siy ctitati detrimentum affert. Vid. Allocut. Pii PP. IX, Maxima quidem, in 0.; cit. Atti Pontificii. onc. min. Neg. cons. Distinctionis, quam attulimus, ratio x iis, quæ alihi docuimus, evidenter perspicitur. Obiic. Substantia infinita cum substantiis finiis comuncta est quidquam maius unica substantia infinifc Atqui hoc est absurdum, siquidem illud, quo quiduam maius esse potest, non est infinitum. Ergo absurum est esse substantias finitas præter infinitam. Resp. Dist. mai., quidquam maius quoad nume^m, conc. mai., quoad perfectionem, neg, mai.; conc. in. Neg. cons. Iis, quæ ad huius rei explicationem abi tradidimus % hunc alium D. AQUINO (vedasi) locum adiicius: Finitum infinito additum non facit maius, sed fat plus; quia infinitum et finitum sunt duo. Deus dicitur esse omnium; et omnia dimtur esse in Deo, atque esse participationes divinæ esmtiæ. Atqui hæ loquendi rationes significant res extra eum ab ipso Deo reipsa non distingui. Ergo. Resp. Neg. min. Et sane, (( Deiias dicitur esse mmum eiTective, et exemplariter, non autem per essenam. Creaturæ in Deo esse dicuntur dupliciter. no modo, in quantum continentur, et conservantur virite divina; sicut dicimus ea esse in nobis, quæ sunt in islra potestate. Et hoc modo intelligendum est verum Aposloli dicentis: ln lpso vivimus, movemur, et su~ us, quia etiam nostrum vivere, et nostrum esse, et nostrum moveri causanlur a Deo. Alio modo dicuntur res ise m Deo, sicut in cognoscente. Creaturæ non cuntur divinam bonitatem participare, quasi partem ln lib. IV Sent., Dist. q. sol. ad i. Præclara sunt hæc D. Bernardi verba : Sane esse omnium dixerim Deum, non quia illa sunt, quod est Ule, d quia ex Ipso, et per Ipsum, et in Ipso sunt omnia. Esse est er omnium, quæ facta sunt, Ipse factor eorum, sed causale, non itenale; Serm. IV in Cant. Cf s. Aug., Solil, lil. I, c. 1, ct Damasc, De Fide orthod., lib. I, c. 12. 5 I, q. XVIII, a. 4 ad 1. Cf Qq. dispp., De Pot. Ex his, et aliis, quæ antea passim exposuimus, intelligis facere fundamentum Pantheismi Krausii, eiusque discipuli Arhensii; inidem eoruni sententia in illa verborum æquivocatione superstruir, qua omnia, et proinde etiam mundi essentiam in Dei Essentia sentur contineri. essentiæ suæ, sed quia similitudine Divinæ Bonitatis i esse constituuntur, secundum quam non perfecte Divinai Bonitatem imitantur, sed ex parte. Obiic. Nolio essendi in se, sive subsistendi, i alibi dictum est 2, dumtaxat Deo plenissime convenit. Erg nulla substantia, præter Deum, dari potest. 248. Resp. Neg. cons. Sane aliquid, ut s. Thomas doce? potest dici proprium alicui, vel quia ipsi ita convenit ut nulli alii subiecto convenire queat, ut cum dicituJ proprium hominis esse risibile, quia nulli extraneo a ne tura hominis convenit ; vel quia i!lud,quod de subiect prædicatur, etsi aliis subiectis quoque conveniat, tame eo modo, quo ipsi convenit, nulli alii subiecto convenir1 queat; ut cum dicitur hoc proprie esse aurum, qui non habet admixtionem alterius metalli 3 . Hoc præstf tuto, de substantia Dei idem, ac de esse Eius dicendur est; nempe quemadmodum esse est proprium Deo non e quod res creatæ non sunt entia, sed eo quod esse illo md do, (juo convenit Deo, nempe, prout est purum, seu sin> admixtione ullius privationis, aut potentiæ, nuili natura oreatæ convenit; ita Deus proprie substantia est, nof quia nulla res creata substantia est, sed quia substantia prout perfectum actum subsistendi denotat, nulli rei crea tæ, sed Deo dumlaxat convenit. Itaque ex eo, quod Deu proprie substantia est, non fluit res creatas non esse, ne^ dici posse substantias, non secus ac ex eo, quod esse pro; priissime de Deo prædicatur, non sequitur ipsum noi posse prædicari de rebus creatis s. i In lib. II Sent., Dist. Et alibi: Essei tia Divina non secundum se augmentabilis et multiplicabilis est; se solum multiplicabilis estse^undum similitudinem, quæ a multis par ticipatur ; Contr. Gent.. Sent., Dist. Id luculenter s. Thomas docuit; siquidem, postquam monuit Deun dici substantiam, quantum ad id, quod est perfectionis in substantia" adiecit: Et ideo non sequitur, quod omne, quod est substantia, si Deus; quia nihil ab Ipso recipit prædicationem substantiæ sic acce ptæ, secundum quod dicitur de Ipso; et ita propter diversum mo dum prædicandi non dicitur substantia de Deo; et creaturis univoce sed analogioe. Quædam adversus Spinosam, aliosque Panlheislas adnotanlur n Totum, quanlum est, spinoziani systematis ædifir?(,cium ambigua substantiæ notione innititur, qua explicala, funditus illud corruit. Sane Spinosa Deum unicam e(2sse substantiam ex eo deduxit, quod cum dixerit subit stantiam csse id, quod per se, seu in se est, iliud per se tmjita accepit, ul non solum inhærenliam in aiio subiecto, na>ed etiam causam effectricem a substantia distinctam excKPluderel, unde nonnisi unicam substantiam Divinam exilenitere posse collegit. At hoc falsum est, quia in definitionjbe subslantiæ esse per se, sive in se non denotat eam hu^usmodi esse debere, ut non recipiat esse suum ab alio itj,ed denotat eam non habere esse suum in alio, tamquam jn|n subiecto1. Quamobrem s. Thomas scite advertit sube( tantiam dici posse rem, quæ non habet esse suum per mjihud, si pcr 7 ahud intelligatur causa formalis, quippe i[uod causa formahs est intrinseca cuique rei; non vero, faiii per To ahud causa effectrix intelligalur, quia res creaioi æ esse suum a Deo accipiunt. Spinosa subslantiam ila definivil, ut in ea essentiam M|l> esse non distingueret, quia non dixit substantiam esse )U|Ssentiam, seu rem, cui convenit esse in se, sed ens, quod ie i se est, seu ipsum esse in se; unde pronum ei fuit omnem miausam ab ipsa subslantia diversam excludere; siquidem 0i m subslanlia essentia ab csse non distinguitur, necesse st, ul ipsa per essentiam suam exislat. At vero,' ut idem lhomas scite advertit substantiæ nomen non siffni cat hoc solum, quod est per sc esse, quia hoc, quod est sse, non potest per sc esse genus, sed significat esscn am, cu. compet.t sic esse, idest per se esse, quod la ien^essc non est ipsa eius essentia 3 . Et sane, subslan Ontol.. Esse creatum non est per aliquid aliud, si ly per dicat caum formalem intrmsecam ; immo ipso formaliter est creaturasi tem d.cat causam formalem extra rem, vcl causam effectivam '^c IPC,F ^Tr^ Gt n°n Per SC,); /n 7 S'nt-> >t. Ferranensem,, In lib. I Contr. Gent. Le rePræstatVGatti,Ord.Præd.,/nSr/r.a/,o^fl-co-;,o/e,r^^ )• I, tract. I, Djss. Roma. tia, cum sit quædam categoria, rem secundum aliquem modum essendi determinatam significare debet; ac proinde intelligi non potest, nisi in ea et aliquid, quod quodam modo est, et quidam modus, quo ipsum est, distin guantur. Illud prætermissum nolumus, duo vitia quoque la tere in demonstratione, qua Spinosa unicam substantiam Divinam existere statuit. Primum est, quod huiusmodi demonstratio in seipsam incurrit. Philosophus hebræus primo suhstantiam ita definivit, ut nonnisi esse Dei re vera significaret; deinde ex notione substantiæ, quam sua definitione tradidit, Deum dumtaxat esse substantiam de duxit. Alterum est, quod Spinosa ex solo conceptu sub stantiæ argumentum ad existentiam eius petivit. Enim vero, cum notio substantiæ dicitur esse res, cui conve nit non esse in alio, vel secundum Spinosam, ens, quod per se est, et per se concipitur, procul dubio non affir-' matur esse revera in natura rem, cui convenit non esse in alio, sive ens, quod per se est, sed illud tantummodo decernitur, si quid est, cui convenit esse non in alio, hoc esse substantiam. Quocirca ex notione, quæ definitione suhstantiæ continetur, illud minime licet absolute inferre^ quod substantia re vera existit, sed illud dumtaxat, quod re vera existit substantia, si res, cui convenit non esse in alio, existat. Ad Pantheistas transcendentales quod attinet, 1 iam demonstratum a nobis fuit absurdam esse tum illan. methodum, qua ipsi cognitionem nostram a priori inve stigare conantur2 ; tum illam sententiam, qua animan obiecta suæ cognitionis sibi construere tenent 3. # 2° A vero longe abest pronuntiatum illud, quod ipsi r Neoplatonicis acceperunt, ideas nostras a rebus non dis tingui, atque subiectnm cogitans, et obiectum, quod cogi tatur, unum, idemque esse. Sane, quemadmodum s. Tho5 mas contra Neoplatonicos argumentatus est 5, in pnmil intellectio non est eadem cum re intellecta, quia mens noi Hinc, ut alibi adnotavimus (p. 335-336), substantia, prout cate goria est, in Deum cadere nequit, quia in Deo essentia ab esse dis tlngui haud potest. 2 not. 2. Contr. Gent. solum intelljgit rcm sed per lacultatem in seipsam redeundi, qua pollet, inlclligit intellcctionem rei; L quo, non solum scent.æ rcrum cxislant, sed etiam scienth, cogn.fon.s rerum confici possit. Secundo, intefiecUo d ! stingui ur al> intclleclu, sive a subieclo cognoscenle, quia si intellectus idem esset cum inlellectione, ipse numquam in potcnlia, sed semper in actu foret, hoc cst semner ™ fZT% ^'^«W cogposcit, neque unquam novas^gni." rimin1turU,rnrCtTerU°J inlC!'eC'US a re intC,,ccta u" criminatur, qu.ppe quod res intellccta est princinium per^qiiod anima eam intelligit '. '"cipmm, >t iJn E9\P" Fichlei, Identitas absoluta Schellingii, . enf nos trf FS"T ^™' SmL Re fluidem '« mH ronrnn.in Chlc° doJc?nle ' 0',e al>stractionis ad ego mri conceptionem ascendit. Atqiii nemo vel in logica 110 ' o USn!,goT illVhSlraCrti0nem n?n nosse confici sinc su-> en° 'Fqrm COnf!C"' Ct °,,ieCl° ' circa quod eonfici nhi^f T e9°x Puriconc?Pt« exurgere non potest, nisi '"('>. «qu obiect, rea,kas praoslUuatur At ept.o rcv egopun, secundum Fichleum, quamlibel lum ESf Vs "m TIUSSuh,e.CU repræsentationcm excludit. ^rgo Fictheus lurp.ter sibi contradicit, cum conceplioem „s C5,0 pun ve,ut| sui systematjs fundameiUulT1 niliii?! aUtem-' a-ouo Schellingius supremum co Te, s n... an?e Pr,nc,P,um derivat, est aliquid, quod io.cn,,. .0tTem omns rcalitat. nempc perabstra ules Lv >ieC{0' Ct Su,.,iect0 in sc eontemp latur, et si KL i, rea,,ss,mum • «u'a illud non solum reale, sed Mt 1^^. tat6m' °i f°ntem 0mnis rca,itatis cssc eonraroif n»Un '• ' qU.°d ex rcmolio"e subiecti et obiecti er«m „ " r rcal"?l'S sit, est prieotfo oftscbta, seu *rum mhil. Ergo (dent.tas absolota Schellingii manife terCsi b!hCt C,;"tr 'li,',i"",""• Deni1ucsi Sclu.lfi, g™ turter sibi conlradix.t, cum Absolutum, quod ment ner re ouonem omnis realitatis in se contemjlatur in Ens rea «qronufll",™0,,^ SKbieC,nm intelli8e"s.ot ren intcl.ccum »« 91 9S, m,™ observanlc B»lmesio(F«M. /«» et s°> »«wSr& A«g.; ^«rTm;.!,bi,b.,a^Ua8,;cStUb:CC10 oognosccnti, opnonil. Cf Puilos. Gurist. Compend. lissimum transmutavit, idem Heghelio obiiciendum est, auia ipse asseruit ldeam esse ultimam abstractipnem, ad duam mens, a rebus proprietates earum gradatim remoTendo, pervenit, et simul eam fontem omnis real.tatis, ac proinde cum idea omnium max.me concreta unum, idemque fecit. Accedit, quod, cum idea visionem, sive repraesentationem significet, admittere ideam, quae neque ad obiectum, neque ad subiectum uilo modo refertur, idem est, ac admittere visionem sine re, quae videtur, et sine subiecto, quod videt; id, quo nib.l absurd.m Quae^cum ita se habeant, nihil est, cur dicamus. quantum impia, et ahnormis sit notio De, quam, sti Phv fosophi obtrudunt. Sane, secundum Fichteum, Deus 1 est ro eqo vururn, quod seipsum tamquam purum ponit s ive! nt ipse blaterat, creat; 2° est nostrae ment.s figmen tum naro, quemadmodum Fichteus ingenue fassus esl tres illae positiones, non ego, ego nonpurum, et Deus pmn obiecliva realitate deslituuntur; est infinitum, et s.mt sihi limites assignat. Secundum Schel ing.um, 1 Absc uturo, sive Deus non tamquam illud, in quo omne act est sed tamquam illud, in quo aliqu.d potenhale est, n te igendnm Vet. Etenim evolutio Absoluti non pote concipi velut quaedam manifestat.o; s.qmdem repugn quXam manifesturo se facere, nisi sit al.ud cuisem nifestel; nihil autem omnino est, cu, Absp utum manif stare se potest, quia nihil, secundum Schellmg. um, rea esi!praeterquaro quod ipsum Absolutum, et qu.dqu.d ^pj ter Absolutum existere videtur, re ipsa non ex.stit .(Jua. "tiamsi demus ro ego purum, ut ut infinitum P°f ^Uquem ™i,»m «ihi nonere a Fichteo quaerere nobis hcet, utrum aU limn Sm sTgnandos psum se moveat, an a caussa externa impcllatt Shoc Postremum.agnoscercnecessc cst causam eyopurosupenore nuae in ipsum vim aliquam exercet, ob idque quandam passion coo tribucre quae duo Fichtei systemati adversantur; .pse emm uit qu1dquldqexistit ab ego puro originem habere atque^ uk, . scl* tari uobis liceat a Fichteanis, cur ego purum – H. P. Grice, THE PURE EGO -- Iim.tes s.b, ponat? S sane ex se siquidem nulla res ad imperfectionis statum spectat aue ex eo quod in quodpiam obstaculum incdit, nam ex F.ch S"hil extra ego, eiusque ideas existit. Cf Nicolas, Introd. a l r Bistoire de la Phil., Paris Cf Ancillon, Essai de phil. et de htterat., raris lla evolutio in ipso Absoluto ponenda esset. Atqui si in I ibsoluto omne actu esset, nulla evolutio in eo esse, et inm ell.gi posset, quia cum illud, quod evolvitur, a potenlia lti. id actum progredi debeat, repugnat in aliquo evolvi iim ud quod iam actu in eo est. Ergo, ut illa evolutio in sil knsoluto explican posset, aliquid potentiah in eo intellijendum esset. Iam Absolutum, in quo aliquid potentiale est, secum pugnarc manifestum est. 2° Immo Absolutum >cnellingianum non est, uti vidimus, nisi Privatio absouta, sive merum Nihil. Hinc Oken Schellingii discipulus o usque insannt, ut Absolutum, sive Deum Magnum NiU appellant. Denique, secundum Heghelium, 1° unium ens, sive absolutum, et Infinitum, quod ipse vocat aea-±,ns,Qstahquodprivative indeterminatum, seu omnis eterminationis expers2, unde collegit Ideam-Ens esse puum putumque nihil 3; et quoniam nihil est negatio enis, Idea-hns esset ens, quod non est ens, sive ens, et non ns; 1 fcxevolut.one ldeae-Entis, ut Heghelius ait, emer £ «Tnfr sP^tus> et »Pse Deus. Quare, cum Idea uu">ns cvolutioncm Absoluti S"f° bsnrdam cssc demonstravimus, absurdam etiam cv„Iun„c/ «^'^l.anac prcdunt. Insupcr pcsitiones Ideae He«helii po icncs, s.vc ad creationcs ?ou ego puri Vicblei rcducuntur! quo Uramcnu^rndaet,^8 °StCUSU,U U°biS CSt' VC'Ut "hantaSiaC seu devenit, etcausam, per quam fit, subaudiat: haud enim possibile est, ut aliquid de potentia in actum, nisi per ens iam actu, progrediatur. Adhaec, quis tam vehementer allucinari potest, ut Deum, cuius natura, ut AQUINO (vedasi) inquit, maxime et purissime est actus in aliquo, quod per continuas evolutiones fieri indigeat, ut realiter sit, seu potius quod semper fiat, et numquam sit, consistere effutiat? Denique in refellenda sententia Cousini nihil immorari nobis opus est. Etenim illa, quae docet, nempe res necessario a Deo creari, atque creationem in eo consistere, quod Deus mundum ex seipso educit, ex theoriis antea statutis 8 nullo negotio explodere licet. Unum, et alterum dumtaxat hic adiicimus. Sane, quoad creationis necessitatem, quam Cousinus ex absoluta Dei natura inducit, audiatur iterum AQUINO: Quidquid in Deo est, est sua essentia; et ideo totum est aeternum, et increatum, et necessarium; sed tamen effectus, qui ex Eius operatione procedit, non necessario procedit, quia procedit ab operatione, secundum quod est a voluntate, et idec producit effectum secundum libertatem voluntatis. Fal sam autem omnino esse cousinianam notionem creationis: a Augustino docemur. Creatura, sanctus Doctor ait ita esse dicitur ex Deo, ut non ex Eius natura facta sit Ex Illo enim propterea dicitur, quia Ipsum auctorem habet, ut sit: non ita, ut ab lllo nata sit, vel processerit sed ab Illo creata, condita, facta sit s. Atque inde iU 1 Qq. dispp., De Pot., q. II, a. 1 c. 2 Circa haec Transcendentalium commenta vid. etiam quae diximu: in cap. II, a. 2 Cosmol, c. VII, aa. 1 et 2. In lib. 1 Sent., Dist. XLIII, q. II, a. 1 ad 3. Et ibid. ad 2 Sicut voluntas, et essentia, et sapientia in Deo idem sunt re, se Optimismus mundi refellitur. Antonivs Can. D'Amelio Joseph Ca>\ Molinari Censor Theologus Depnt. cx-a, CZ-o-a 4Pf&}. Gaetano Sanseverino. Sanseverino. Keywords: segno naturale, Boezio, Aquino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sanseverino” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Santilli: la ragione conversazionale -- dal soggettivo all’inter-soggettivo – la scuola di Sant’Elia Fiume Rapido -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sant’Elia Fiume Rapido). Filosofo italiano. Sant’Elia Fiume Rapido, Frosinone, Lazio.  Segue il corso liceale presso la Scuola di Murro a Napoli. Discepolo di GALLUPPI, e amico -- fra gli’altri – di SETTEMBRINI, FIORELLI, e SANCTIS. Si laurea in filosofia. Apre una scuola di diritto morale e costituzionale.  Fervente giobertiano – GIOBERTI (si veda), e attivo propugnatore, nei circoli culturali napoletani, di un'Italia federate. A frequenti rapporti epistolari con MAMIANI, GIZZI, e COUSIN. Quest'ultimo lo introduce nel giro culturale del socialismo utopistico ma modula il suo socialismo secondo i propri valori umanitari, rifiutando la logica della lotta di classe. Ha comunque a scrivere che nel regno di Napoli occorre una savia distribuzione della ricchezza. Presidente della società dantesca (ALIGHERI – si veda) -- e prolifico filosofo. Fonda "L'Enciclopedico" in cui vivacemente sostene che occorreva occuparsi della piaga della povertà. La nazione italiana vuole pane e lo dimanda incessantemente, lo chiede nel pianto dell'indigenza, tra le sciagure della desolazione, lo chiede non a titolo di preghiera, ma diritto necessario, assoluto. Il popolo italiano non capisce la speculativa astrazione di alcune verità filosofica, non sa i titoli di libertà, di costituzione, di uguaglianza. Una riforma che dimentica affatto la fisica prosperità del popolo italiano non è che riforma di solo nome. “Le idee" e testo di studio nelle scuole di Toscana; "Sul realizzamento del pensiero"; "Sviluppo filosofico dell'autorità"; "Cenno psicologico sull'attività dello spirito"; "Individuo e Società"; "Princìpi dell'imanità razionale"; "Il socialismo in economia" e "Lavoro, industria e capitale". Si batté politicamente per l'ottenimento della Costituzione da parte di re Ferdinando II. Malvisto e considerato individuo pericoloso dalla polizia e ucciso a baionettate da soldati che fanno irruzione nella sua abitazione in Largo Monte-Oliveto, accanto a Palazzo Gravina. Venne ucciso a seguito della delazione di una donna, che lo indica come il predicatore alla soldataglia. Lo ricordano due epigrafi: una sulla facciata della sua casa natia e una sulla facciata della sua palazzina in Largo Monteoliveto. Di lui scriveno SANCTIS, PEPE, SETTEMBRINI, VANNUCCI, MASSARI, GROSSI, GUZZARDELLA, e MANDALARI -- che volle raccogliere i suoi saggi in "Memorie e Saggi” (Roma). Peruta. “Il Giornalismo Italiano del Risorgimento”; Ghiron, Peruta, “Storia del quindici maggio in Napoli; Settembrini "Memorie e saggi”; Mandalari, Memorie, Roma. Guzzardella, “Martire del Risorgimento” Milano, Ghiron, Il valore italiano, Tip. nazionale degli editori Ghione e Lovesio, Peruta, Il Giornalismo Italiano del Risorgimento, Angeli, Mambro, in Sant'Elia Fiume Rapido, il Sannio, Casinum e dintorni Roccasecca, Settembrini, Ricordanze della mia vita, Morano. COMMEMORAZIONE DI ANGELO SANTILLI FILOSOFO E PATRIOTA SANTELIANO FU UCCISO A NAPOLILa cerimonia a Sant’Elia – ntensa cerimonia commemorativa, a Sant’Elia Fiumerapido martedì 20 maggio scorso, per la ricorrenza del 160° anniversario della tragica morte del filosofo e patriota risorgimentale santeliano, Angelo Santilli. Promossa dalla locale Pro Loco, la   commemorazione ha avuto il convinto sostegno e patrocinio dell’Amministrazione Comunale, per interessamento degli Assessori alla Cultura e al Turismo Antonio Trelle e Giancarlo Vacca, oltre a quello della scuola media statale, intitolata proprio al Santilli, tramite l’impegno del dirigente scolastico prof. Graziuccio Di Traglia. La cerimonia ha avuto inizio al mattino, con raduno di studenti, autorità civili, militari e religiose, degli eredi del Santilli e di un gran numero di cittadini, in Piazza Antonio Riga dove, all’imbocco di Via Angelo Santilli è stata scoperta una nuova targa toponomastica marmorea, con su scritto: “Via/Angelo Santilli/1822-1848/Filosofo e Patriota”. Nella Chiesa di Santa Maria la Nova è stata officiata da don Rosino Pontarelli una S. Messa in memoria di Angelo Santilli seguita da una orazione commemorativa dell’illustre santeliano a cura di Benedetto Di Mambro. Dopo la messa è stata deposta una corona di alloro presso la casa natale del Santilli al suono delle note de “Il Silenzio”, . Nel pomeriggio, presso la sede della scuola media, si è tenuto un approfondito convegno sulla figura e l’opera dell’illustre santeliano e sulla continuità tra il pensiero liberale dell’800 e la Carta Costituzionale italiana di cui proprio questa’nno ricorre il 60° anniversario della sua adozione. Al convegno, seguito da un folto ed interessato pubblico, hanno preso parte: il sindaco di Sant’Elia, dott. Fabio Violi che ha preannunciato, dietro donazione degli eredi Santilli, l’istituzione di una Biblioteca Comunale proprio nell’abitazione natale di Angelo Santilli e a lui intitolata; la professoressa Silvana Casmirri dell’Università di Cassino che ha sottolineato come il patriota risorgimentale santeliano fosse “un prototipo, un modello di una gioventù idealista durante la fase del Risorgimento italiano”; il Prefetto di Frosinone, dott. Piero Cesari che, rivolto ai giovani studenti, ha rimarcato come fosse importante, nel ricordo del Santilli, costruire insieme “il sentimento della cultura della legalità”; infine il giudice Tommaso Miele, primo consigliere della Corte dei Conti, che ha sottolineato l’attualità del pensiero di Angelo Santilli, rimarcando il concetto della Costituzione “come fonte di democrazia e di uguaglianza”. È stata quindi la volta dello studente Giacomo Vettraino della classe III A che ha chiuso il convegno illustrando la vita e il pensiero di Santilli.  Angelo Santilli, filosofo e patriota – Angelo Andrea Santilli era nato il 28 ottobre 1822 a Sant’Elia, Comune che all’epoca si trovava in Provincia di Terra di Lavoro ed in pieno Regno delle Due Sicilie su cui governava Re Ferdinando I di Borbone. Era figlio del giovane medico santeliano Silvestro Santilli, che sarebbe stato anche Sindaco di Sant’Elia dal 1827 al 1829 e della giovane Giuseppa Mancini, originaria di Castel Baronia, in Provincia di Avellino, ma residente a San Germano, l’odierna Cassino. Il nonno materno di Angelo era il medico Evangelista Mancini, bonapartista e fra i promotori della Repubblica Partenopea del 1799. Di odori libertari il piccolo Angelo ne respirò a pieni polmoni nella sua casa di S. Elia, nei pressi della chiesa di San Cataldo in cui, fra l’ altro, era stato battezzato. Compiuti i primi studi giovanili a S. Elia, nel 1835, a 13 anni, Angelo Santilli si trasferì a Napoli per proseguire gli studi, andando ad abitare in Largo Monteoliveto nei pressi di via Toledo. L’ingresso alla sua abitazione era il Vico Gravina 1. Con Angelo andarono a Napoli anche la madre Giuseppa, i fratelli Vincenzo, Giuseppe e Giovanni ed il giovane compaesano Filippo Picano. Angelo e Vincenzo entrarono nella scuola di Francesco Murro per l’apprendimento della grammatica, della retorica, della filosofia, della storia e delle scienze. Nel 1838, a soli 16 anni, il giovane Angelo si iscrisse alla Regia Università di Napoli avendo fra i suoi insegnanti il maggior filosofo italiano dell’epoca, il kantiano Pasquale Galluppi. Amici e compagni di studi del Santilli furono, fra gli altri, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Silvio e Bernardo Spaventa, Antonio Scialoja, Giuseppe Fiorelli e Pasquale Stanislao Mancini, suo cugino per parte di madre, questi avrebbero tutti avuto ruoli politici, letterari e filosofici importanti nell’Italia postunitaria. Nel 1842, a soli 20 anni, Angelo Santilli si laureò in Filosofia ed in Legge, aprendo così uno Studio Legale e divenendo anche docente di Diritto. L’attività filosofica, giuridica, letteraria e politica del Santilli si sarebbe svolta, incessante e copiosa, nell’arco di sei anni. Sempre nel 1842, a soli 20 anni, dette alle stampe la sua prima opera filosofica “Le idee soggettive” che ebbe grande accoglienza negli ambienti intellettuali ed accademici dell’intera Penisola a tal punto da doverne fare una seconda ristampa per la vasta richiesta che ebbe quale testo di studio nelle scuole del Granducato di Toscana. Santilli non si fermò: continuò a scrivere di diritto, di filosofia, di critica letteraria e fu anche esperto verseggiatore in terza rima. Famosa la sua ode dedicata all’amata Margherita. La fama letteraria del Santilli ebbe grande risonanza a Napoli e nel 1846, su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione del Regno Borbonico, fu nominato Presidente dell’Accademia Dantesca che però dopo qualche tempo fu fatta chiudere dalla Polizia Borbonica perché, ricorda Atto Vannucci, “sotto apparenze letterarie mirava ad intenti liberali ed umanitari”. Santilli ebbe anche una fitta corrispondenza epistolare con Terenzio Mamiani; con il Cardinale Gizzi, Segretario di Stato di papa Pio IX e con il filosofo eclettico francese Victor Cousin, professore di estetica presso l’Università La Sorbona di Parigi. Tramite gli scritti del Cousin entrò in contatto con il pensiero socialista del filosofo utopista francese Pierre Joseph Proudhon e nel 1846 lo stesso Santilli volle esporre le sue idee in proposito in tre pubblicazioni: “Il socialismo in economia”, “Individuo e società” e “Lavoro, industria e capitale”. Lo sviluppo filosofico e politico del Santilli partiva dal criticismo kantiano per approdare al positivismo sociale, attestandosi, alla ricerca di certezze e verità, allo spiritualismo neo-hegeliano che sarà l’espressione filosofica di Bernardo Spaventa e che si esplicherà nel socialismo meridionalista di Antonio Labriola e Gaetano Salvemini. Intanto in tutta Italia si andavano sempre più propagando idee libertarie. Santilli, non vedendo attuabile al momento l’istituzione di uno Stato Repubblicano, abbracciò il federalismo di Vincenzo Gioberti e scrisse al Cardinale Gizzi perché il Pontefice si facesse promotore e guida di un federalismo fra tutti gli Stati in cui l’Italia era divisa. Stava fiorendo il Risorgimento e da ogni parte si chiedeva la Costituzione. Santilli cominciò a dedicarsi alle pubbliche assemblee ed alle pubbliche predicazioni contro il governo assoluto di re Ferdinando II, assieme al popolano Michele Viscusi. Quando, il 29 gennaio del 1848 il Governo Borbonico concesse la Costituzione, Santilli non smise di parlare pubblicamente perché tramite la Costituzione si potessero migliorare le condizioni civili e sociali della popolazione e ci fosse “una savia distribuzione delle ricchezze”. Ma dopo qualche giorno, mentre lo stuolo degli ascoltatori del Santilli andava ingrossandosi sempre di più, la cosa cominciò a creare preoccupazioni e timori nella polizia borbonica che dopo un mese interruppe un discorso del Santilli in Largo del Castello e disperse gli ascoltatori. Santilli denunciò il fatto sul suo giornale “Critica e Verità” la qual cosa gli creò ancor più inimicizia e sospetti dalla parte della polizia. Intanto alla fine di febbraio del 1848 moriva la mamma di Angelo Santilli, Giuseppa Mancini, a soli 57 anni di età. Nell’aprile del 1848 Ferdinando II ritirò la Costituzione ed in tutto il Regno si diffusero ancor più le idee libertarie e di uguaglianza sociale del Santilli. A Napoli addirittura vi furono anche degli scioperi. Agli inizi di maggio Angelo Santilli iniziò a scagliarsi con violenza contro la monarchia assoluta. Il Re, temendo una insurrezione popolare, nei giorni dal 12 al 14 maggio fece disporre l’esercito nei punti strategici di Napoli. Angelo Santilli continuò incessante con le sue orazioni contro re Ferdinando. Nella serata del 14 maggio i napoletani iniziarono ad innalzare barricate contro l’ esercito. Barricate vennero erette anche in Largo Monteoliveto, vicino all’abitazione del Santilli. La mattina del 15 maggio 1848 iniziarono gli scontri tra i rivoltosi e l’esercito borbonico rafforzato da truppe austriache e svizzere. La battaglia si protrasse per tutta la giornata e man mano le barricate furono smantellate dai soldati con largo spargimento di sangue. Ai soldati svizzeri fu dato ordine di scovare ed uccidere il Santilli e nella tarda serata giunsero fin sotto la sua abitazione facendola oggetto di fucilate che uccisero il giovane Filippo Picano e la serva di casa Carmela Mega. Irruppero quindi nella casa e trucidarono a baionettate Angelo Santilli e suo fratello Vincenzo. Gli altri due fratelli, Giuseppe e Giovanni, erano riusciti in tempo a trovare riparo presso conoscenti. Molti degli scritti di Angelo Santilli furono dati alle fiamme ed il suo corpo martoriato assieme a quello del fratello; entrambi furono gettati in una fossa comune. Furono in molti a ricordare Angelo Santilli nelle loro memorie: Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Salvatore Di Giacomo, Marco Lanni, Mario Mandalari, Atto Vannucci e, più recentemente, Franco Della Peruta ed Alberto Guzzardella. Nel 1865 l’ antico Corso Dante che attraversava il centro storico di S. Elia fu intitolato ad Angelo Santilli ed ancora oggi porta il suo nome. Dal 1886 e dal 1889, per volere del maggiore medico Antonio Riga (1833-1918) e del pittore Enrico Risi (1855-1915), due lapidi lo ricordano, la prima sulla facciata della casa natale di S. Elia, in via Risorgimento, e la seconda a Napoli in Largo Monteoliveto sulla facciata della casa dell’eccidio. Dal 1981 anche la Scuola Media Statale di S. Elia Fiumerapido porta il suo nome. Ora è in animo dell’Amministrazione Comunale di S. Elia ristrutturare la casa natale del Santilli e farne sede della biblioteca comunale e di un centro studi.Angelo Santilli. Santilli. Keywords: dal soggettivo all’inter-soggetivo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Santilli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Santorio: la ragione conversazionale del pendolo di Santorio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Capodistria). Filosofo italiano. Capodistria, parte dell’Italia – attuale Slovenia. Padre della fisiologia sperimentale. Il primo a comprendere l'importanza dell'esperimento e dell'adozione dei parametri quantitativi per valutare i quali inventa alcuni dispositivi tra cui il termometro e il tachimetro. Studia sperimentalmente la struttura della materia, di cui descrisse la struttura corpusculare e meccanica, anticipando le ricerche di GALILEI. Studia a Padova. A Venezia fa amicizia con SARPI, SAGREDO e GALILEI. Adatta il pendolo alla pratica, precedendo gli esperimenti condotti da Galilei con i pendoli. Poniere nell'impiego delle misurazioni fisiche in medicina; il suo dispositivo più famoso fu una grande bilancia usata per studiare l'equilibrio omeostatico e le trasformazioni metaboliche Tra i soggetti che si prestarono alla sperimentazione vi fu anche GALILEI. Insegna a Padova. Pubblica descrizioni di congegni termo-metrici e di precisione che divennero di largo uso nella pratica medica. Pioniere nell'impiego delle misurazioni fisiche. Il suo dispositivo più famoso fu una grande bilancia – la stadera medica -- usata per studiare le trasformazioni meta-boliche in soggetti sperimentali tra i quali vi fu lo stesso GALILEI. Pioniere nell'uso del metodo sperimentale di cui comprese l'importanza e la necessità replicando i suoi esperimentil Considerato a torto il fondatore della iatro-meccanica, ne e uttavia ispiratore con i suoi importanti studi sul meta-bolismo e sulla termo-regolazione umana. È il primo a quantificare la perspiratio insensibilis e ad usare il termometro clinico che egli stesso idea.  S. inventa anche altri strumenti – il pulsilogio, l’igrometro, il "letto artificioso", l’"eolopila medica", ed il "termometro lunare" -- intesi a tradurre in numero e determinare con esattezza matematica i para-metri vitali umani. I suoi saggi hanno numerose edizioni, diffusione europea e ampia popolarità. Classico il “De statica medica” -- uno dei saggi più importanti della storia della fisiologia; “Methodi vitandorum errorum omnium qui in arte medica contingunt liNunc primum ccessit eiusdem authoris De inventione remediorum liber (Aubert); “Ars de statica” (Leida, Haro); “Commentaria in artem Galeni”; “Nova pulsuum praxis morborum omnium diagnosim prognosim et medendi aegrotis rationem statuens, sine eorum relatione”; “Commentaria in primam fen primi libri canonis Auicennae”; “Commentaria in primam sectionem aphorismorum Hippocratis”; “Societate si politica”. Galilei -- Storia della Scienza di Firenze. Castiglioni, “Storia della Medicina” (Mondadori, Milano); Pazzini, “Storia della Medicina” (Libraria, Milano); Premuda, “Storia della Medicina” (Milani, Padova); Premuda, “Storia della fisiologia” (Del Bianco, Udine). Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Santorio Santorio. Santorio. Keywords: il pendolo, il pulsi-logio, l’igro-metro, l’eolo-pila. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Santorio” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Santucci – Leech e la prammatica come rettorica conversazionale – simulazione, superlazione, e compagnia – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Grice: “There was a time when Italians – indeed Romans – would NOT stand a hellenism like ‘eironia,’ ‘hyperbole,’ or ‘metaphora,’ and there you would have them – and Cicero, too – uttering Varronesque formations like, respectively, SIMVLATIO, SVPERLATIO, and TRANSLATIO! I simplify the vocabulary by calling them all ‘figures of speech,’ or IMPLICATURAE, that is!” -- Retorica. RHETORIC JEu PRÆCEPTA V E SELECTISSIMIS AUCTORIBUS COMPILATA EDIT PRIMO PETRUS ANTONIUS S. DE CORTONA, Unus ex Presbyteris Congregationis Oratorii DIVI PHILIPPI NERII ejufdem Civitatis. Excudebat Joannes Baptista Recurti. SUPERIORUM PERMISSU, AC PRIVILEGIO. Illujirifs. et Reverendifs. D. D, GABRIELI RICCARDIO Viro nobiliffimo, et Ampliflfimo, Patritio Florentino Marchioni eximio Metropolitanæ Ejcclefiæ Florentinæ Canonico PETRUS ANTONIUS SANTUCCI U JE magna Junt, eadem et tnagnis deberi iifque folii nuncupan da fore, nemo unquam inficias ivit, lllufiriffime, C9* Reverendtjfime Domine. Cum enim omnibus a natura comparatum fit, ut coeli faciem obviam fibi quifque contempletur; huic profetto totius Orbis fublimi /lima parti, O' non alii, ea quce Orbis ipfius fublimi /fima ornamenta fiunt, nempe fydera, ab eademmet natura merito donata fuiffe facile ipfe animadvertat, ne et 2 ceffe Cfjje eji % Quavem, et meritis, fi forte virum quem Confprxerc, filent, arreBifque auribus aflant: Ille regit diBis animos, et pcBora mulcet. At Eloquentix majefias, fe mavult, et admiratione coli, et filentio pradican;ejl enim admiratio prxeonium glorix, et filent tum fidus interpres majefiatis ‘, neque major illa commendatio effe potefi. quam omnis frujlra tentata laudatio. Denique Do&orum omnium Coryphæus, ac facile Princeps D. Augutt. fic de præcellenti hac Arte tertatus habetur: Hxc nobis cum Angelis, cum Deo ipfo quodammodo communis efi; In ea fe ille exercet; in ea deleBatur: in ea triumphat dum nos fine firepitu verbot'um intus alloquitur. Ejufdem Artis Utilitas. E Tfi non defuerunt aliquando, qui maximum hoc hominum adjumentum turpiter dctreXare non dubitaverint, quod ex illorum numero, qui Iiaia Propheta tefte 5. zo. malum bonum dicunt, et bonum malum, fallo judicio deceptionem fimplicium iiatuerint, quod deceptionum imo, fraudum, et doli cujufque infenfiflimus hodis eft; fiquidemvera benedicendi latio veritatem amat femper, illam tutatur, et cunXis Eloquentis nervis prsdicat, fubdinet, fovet, admifcendo quidem interdum Auxefes, hyperbolefque, fed fatis eas moderate, et eo tantum coniilio, ut veritatis ipfius magis affulgidus emicet nitor, auditorefque eleganti, ac faceta interdum varietate deieXet; Illud nihilominus pene Sapientes omnes firmiflimumed, jugiterque erit, quod veluti præfulgens hæc Ars dignitate, ac majeftate ceteris artibus prædat, atque antecellit, quemadmodum fuperius vidimus; Ita illas quoque plurimis in nos commodis, uberrimaque utilitate facile fuperat, evincitque. Nam quid ego dicam in primis, quod ipfa, quæ ex univerfis rebus condat, ut cum Cicerone loquar lib. 1. de Orat, quibus ia fingulis elaborare permagnum eft, quæque omni laude cumulatum Oratorem non efficit, ni/i erit ille omnium rerum magnarum, atque artium Scientiam confequutus; ipfa inquam prædiXis artibus qujbufcumque, earumdemque rerum omnium magnarum fcientia maximam opera fert, ut dignofeantur, amplexantur, amentur, teneantur, et in deliciis fint: iisetiam lumen, et decus impertitur: Clientes, amicos, defenfores conciliat: ab inimicis injude, impieque adverfantibus tuetur, &eripit: eas denique dicendi vi, et libertate magnanime fervat, ftrenue confirmat, et apud poderos omnes perpetuo, et immortaliter vivere mirifice facit? Addere dejude licet cum laudatiflimo perfeXi eloquii Patre lib. quod hac, et non 'alta facultas ejl, qua potuit, aut difperjos homines anum in locum congregare j aut a fera, agrrflique vita ad hunc humanum cultum, civilemque deducere; aut /aw conflitutis civitatibus leges, judicia, jura defribere. Hæc alibi cutn eodem, ceterifque omnibus in ea prædantibus viris tum antiquorum tum noftrorum temporum eft, qua: Urbibus jam conditum fidem colere; juftitiam retinere, labores communis caufa commodi fufeipere docuit: Hæc eft qua facinorofos homines invadimus, virtute præditos laudamus, nocentes condemnamus, innocentes abfolvnius, prudentes exornamus, imperitos docemus. Hæc eft quæ fola res honefias, atque ntiles perfuadere poteft: qua conlolamur afflidos, qua deducimus perterritos a timore, qua gelbentes comprimimus, qua cupiditates, iracundiafque reilinguimus, qua quidquid eft in omni vita redum, ac laudabile gubernamus. Hæc eft, quæ adoleicentes acriter a vitiis revocat, et ardenter ad virtutem cohortatur, quæ feniores languentes excitat, et ad Reipublicæ gubernationem attentiores efficit, qua Imperatores in bello milites fuos ad patriæ defenfionem, et vidoriam acquirendam alacriores reddunt; Quæ populos ad Religionem, et cultum Dei optimi maximi, ad patriæ pietatem, ad communem utilitatem tuendam inducit, quæ conciliatrix eft humanæ focietatis, quæ deniqur femper, vel in otio» vel in negotiis ma-xime commoda eft humanitati, fidei, Sapientiæ, fit hæc fatis dida fint, ut fi non tota, ex parte faltem aliqua attingatur Rhetoricæ utilitas. Quanta prarcipui Studii neceffitas fit ad hanc ipfam Artem acquirendam. E X iis, qux hu^ufque attulimus, facile conflat etiam nectffitas, de qua modo fermo. Nam quum qux pulcia, eadem et difficilia fmt ex, communi adagio; utique quanto ceteris artibus hxc antecellit, tanto quoque illis "difficultate prxller, ut acquiratur, neceffe eft. Sed rem hanc totam potius abfolvit, et ftatuit Magiftrorum omnium caput, ac Princeps prxcelUntiffimus Tullius, quum fupracit. lib. r. de Orat, camdem Rhetoricam lermone perfequens, cunftis illam artibus adeo eminere oflendit, ut in unaquaque ipfarum excellentes permultos homines fateatur, perpaucos autem omni tempore in hac benedicendi ratiore; et quidem fic ille: Ac mihi quidem fixpe numero in fummos homines, ac fummis ingeniis prxditos intuen ti, quxrcndum ejfie vifum eji, quid effiet, cur plures in omnibus artibus, quam in dicendo, admirabiles extitififent. Nam quocumque te animo, et cogitatione converteris, permultos in quocumque genere videbis, non msdiocnium artium, fied prope maximarum. Quis enim eji, quis, fi clarorum hominum fidentiam rerum geflarum, vel utilitate, vel magnitudine metire velit, non anteponat Oratori Imperatorem ? Quis autem dubitet, quin belli duces ex hac una Civitate prxflantififiimos pene innumerabiles, in dicendo autem excellentes vix paucos proferre poffimusl Jam vero, confilio, ac fiapientia qui regere, ac gubernare rempublicam poffent, multi nofira, plures patrum memoria, atque etiam majorum exti terunt: cum boni per quandiu nulli, vix autem Jingulis xtati bus finguli tolerabiles Oratores invenirentur. Ac nequis forte cum aliis Jludiis, qux reconditis in artibus, atque in quadam varietate litterarum verfentur, rmagts hanc dicendi rationem, quam cum Imperatoris laude,,nt cum boni Senatoris prudentia comparandum putet: Convertat animum, et ea ipfa artium genera circumfpiciat, qutque in iis jloruerunt, quamque multi: fic facillime, quanta Oratorum fit, femperque fuerit paucitas, fudtcabit. Neque enim te fugit, laudandarum artium omnium procreatricem quamdam, et quaft parentem, eam, quam ot-kaaopin* \ GV.cn vocant, ab hominibus doitilfimis judicari: in qua difficile ejl enumerare, quot vin, quanta /cientia, quantaque in fludtts tuis varietate et copia fuerint: qui non aliqua m re feperatim elaborarmt, Jed omnia, quacumque effient, vel flentia pervcjhgattone, vel differendi ratione comprehenderint, quis ignorat, 11, qui mathematici vocantur, quanta in obj curitate rerum, et quam recondita in arte, et multiplici, Jubttltque verfentur ? Quo tamen in genere ita multi perfetti homines extiterunt, ut nemo fere fluduiffie ei f cientia vehementius videatur, quin, quod voluerit, confequutus Jit. Quis mu ficis, quis huic Jtudio litterarum, quod profitentur it, qui grammatici vocantur, penitus fe dedidit, quia omnem illarum artium pene infinitam vim, et materiam f cientia, et cognitione comprehendent ? Iere mihi hoc video effie diElurus: ex omnibus iis, qui in harum artium ftudus Uber aU (fimis fint, doElnniJqu verfati, minimam copiam poetarum egregiorum extiffiljje; atque in hoc ipfo numero, in quo perraro exoritur aliquis excellens, fi diligenter et ex nofirorum et Grxcorum copia comparare voles, multo tamen pauciores oratores quam Poeta b| (C>> « )b7)fe7lfa>t«7|(. W7) V?> is faciliorem aperiam ab elocutione aufpicabor, &. ideo. ELOCVTIO tanti eft in arte dicendi, ut inter alias illius partes, primum fibi vindicet locum; artem enim, et artificem denominat, et a Dialeftica Oratoriam fecernit; dum enim prxtiofa fuppelle&ile argumenta contexit, fe gemmæ orationis parentem efle contendit. Definitionem elocutionis jam fuperius afiignavimus, cum eam elfe diximus: Idoneorum verborum, ac fententiarum ad inventionem accommodatio. Sed c\uia de Orat. Cic. inquit: Erit eloquens, qui ita dicat, ut probet, delcElet, et fleciat; probare neceffiratis eft, deieftare fuavitatis, fle&ere viftorise ;& cum de probatione agendum fit ininventione, de motibus in amplificatione, noverit hic orator candidatus fibi proponi delegationem per fuavitatem orationis comparandam; quod ut facilius attingamus, fecutil CICERONE (vedasi) elocutionem per divifionem traftabimus. Dividitur ergo elocutio in elegantiam, compofitionem, et dignitatem. Elegantia agit de puritate Termonis, compofitio de connexione verborum, de oratione numerofa, et de periodis, dignitas de tropis, et de figuris. De Elegantia. E Legantia, ut inquit Cicer. efi y qua facit ut unumquodque pure, et aperte dici videatur. Hxc diftribuitur in Latinitatem, et explanationem. Latinitas eji, qua fermonem purum confervat, et ab omni vitio remotum, ut grammatica docet. Explanatio efl, qua reddit apertam, et dilucidam orationem. Harc autem comparatur duobus verbis, fcilicet, et ufitatis, et propriis. Ufitata funt ea, quæ A 4 veriantur in fermone, et quotidiana confuetudinff. Propria vero, qua» ejus rei verba lunt, de qua loquimur; ita Cicero, et Quinftil. verba, inquiunt, tum propria funt, cum id Jigmficant, in quod primum denominata funt. Pro hac explanatione fervanda tradunt Rethores deleflum fimpliciutn verborum, ex quo rejicienda funt, quæ fcquenti diftico compleftuntur. Sordida, pri/ca, nova, antiquata, poetica, dura, Turpia, rara nimis, vel peregrina cave: Nam &faciuntorationem nimis lordidam, obfcænam, obfcuram, afperam, et nimis ampullolam. De novandis verbis inquit Fabius: Nova non fine quodam periculo fingimus, Ji tamen fingere audebimus, praceptum Horatii fervandum erit de arte Poetica. Dixeris egregie, notum fi callida verbum Reddiderit / untlura novum Hujufmodi effe poflent Verfutiloquor, ruricola, bandiloquens &c. Poetica non arcerem ab oratione, fi remotis ampullis, et quibufdam poetarum fabulis propriis verbis illuftrantur. Afperitas confurgit ex tribus, continuatione confonantium, aflidua ejufdem litterx repetitione, et heco in vocibus. Exemp:a elTe poflent i. O felix Xerfefque. 2. O Tite tute tati tibi tanta tiranna tuhfti. 3. Non cauponantes bellum, fed belligerantes. Contrarius afperitati eft ferino hiulcus, et hians, qui rafcirur e vocalium concurfu, ut Baccæ Eneæ an æniflimx pendebant. Sed hoc loco fervandum, quod aliquando non eft infuavis tum vocalium tum confonanrium concurfus, cujus ufus prudentis Oratoris relinquitur. De Compofitione. D Efinitur compofitio verborum flruSlura, qua facit omnes orationis partes aqualiter perpolitas. Compofitionis ergo officium eft, ita inter fe verba con nette-. p ne&ere, ut nihil in oratione fit, aut obfcurum, aut ptæpofterum,aut hiulcum, aut afperum, deinde omnia diftinguere in conci fa, membra, et periodos, ut verba ita conjun&a numerofe, et fonore cadant. Vis hujus ftru£urse tali fuavitate orationem concinnit, ut licet res de qua agitur, perquam levis fit, fapor tamen, et mira dele&atio fua fponte fluat, atque emanet. De Oratione numerofa D Uo orationis genera communiter traduntur a Rhetoricæ magiftris; alterum pendens, alterum convolutum. De oratione pendente inquit LIZIO dico pendentem j qux nullum per fe habet exitum, nift res, qux dicitur in exitum pervenerit; qux ejl infuavis, quoniam prifinita. Oratio convoluta ejl, qua circuitu effertur. Notandum ergo, quod fuavitatem orationis maxime curarunt poeta? i unde per eam adeo aflentati funt auribus, ut compofita fint commenta, quæ de Orpheo, Amphione, et aliis circumferuntur. Antiqui oratores cum animadvertiflent fe in oratione illa pendente, et in longum produ&a, quæ nullis inciditur membris, nullis clauditur periodis, ejufmodi fuaviiatem fruflra eonfe&ari, poetas imitari ftatuerunt, et in primis Trafimacusi, et Gorgias numerofam orationem in medium attulerunt, qux quia ambitu artificiofe comprehenfa, dimenfa membris, partibufque finita, mira fuavitate aures, animumque auditoris afficiebat, obviis ulnis ab omnibus fuit excepta. Sed quia circuitum orationis Arifloteles periodum appellavit, de hac nobis hoc loco agendum eft. De Periodo. Periodus definitur: Continuatio quadam commatum, et membrorum, ita apte inter /e, et rotunde connexorum, ut et plenam fententtam, O" conclufionem referant. Arift. vocat orationem 4 qua principium, et finem /c, licet paulo utilius attingam. Methaphorx igitur hauriri poliunt. A coelo, et a rebus divinis, ut fi princeps dicatur lumen majrjlatis, regni Sol. z. Ab clementis, ut flumen ingenii. 2. A quinque lenfibus, ut a vilu Jplcndor glori, e, claritas vita: ab auditu Sonus eloquentia, concentus orationis: ab olfattu odor San&itatis, fator vitiorum; a guflu dulcedo fermonis, morum acerbitas: a tatlu durities ingenii, afper it as orationis. Ab artibus, ut a re ruflica fruSus virtutis, colere tnge libet oric# Prcecepta. at ingenium: a militari certamen liter arum, dimicare cum vitiis: ab equeliri calcar honoris, frxnare cupiditates: a. medica vulnus animi, ulcera Rei publica: a nautica portus (alutis, difficultatum vortices: a elementaria, xdtficium orationis, panegeum orationis. Ab epithetis, vox ferrea, Ingenium plumbeum, cor lapideum. d. Si res animata pro alia animata aflumatur, ut Aquila pro ingeniolo, canis pro maledicente. Referuntur hqc omnes ilis translationes, cum dicimus hominem dentibus (cadere, rudere, rugire, pipdlare, volare, et fimilia, quæ cum fint irrationabilium animalium, ad rationabilia transferuntur. Si res inanimata pro inanimata, ut mentis caligo pro ignorantia. 8. Si res inanimata pro alia animata, ut flumen eloquentia pro viro eloquente. Si res animata pro inanimata; utrifus pratorum pro floridirate. Quatuor in Methaphoris vitanda funt, rerum diflimilitudo, turpitudo verborum, vocum afperitas, et diminutio fignificationis. De Synedoche. S Ynedoche latine intellectio, tropus eft ex parte totum fignificans ut Cic. Telia tpfa mi fera, qua difpari domino tenebantur j vel eft contra, ex toto partem, ut Virgilius. Ipfius ante oculos ingens a vertice Pontus In puppim ferit. Vel ex fpecie genus, ut Cic» Ne hic parricida civium-, vel ex genere fpeciem, ut idem Cic. Illud funejlum animal Clodius. Vel ex pluribus unum, ut Cicero de fe loquens. Nos, Nos oratores vifi fumus; vel ex uno plures ut Virg. Hoflis habet muros. Vel ex materie r#m ex ipfa confeCtam, ut Virg. B 3 Litore ah e na locant alii. Vel ex pra?c. dentibus fcquentia ut Cic. F«/>, fuit quondam ijla in Repubhca virtus. De Metonymia. M Etonymia five Hippallace, latjne tranfnominati>», tropus eft, qui fit Cum inventorem pro re inventa ponimus, ut Ter. Sine Cerere, et Bacco friget Penus. Cum ponitU' pratles pro re, cui praceft, utNcptunnus pro mare, Mars pro bello. Cum continens pro re contenta ufurpamus, ut Virg. Pateras libate &c. Cum res contenta pro continente fumitur; ut Virg. Crateres magnos Jlatuunt, et vina coronant. Cum ex effe&ibus caulas fignificantur ut Virg. Mejiumque timorem Mittite. Vel ex caufis efte&us ut Mart. Occubuit tandem cornuto ardore petitus. Cum nomina locorum proipfis incolis ufurpantur,fciUt Cic. Sicilia tota ft una voce loqueretur, hoc diceret. Cum ex adjun&is res lubjeftas inteliigimus, ut cum licet ex virtutibus, vel vitiis homines ipfos,feu bonos, feu malos fignficamus, ut Cicero: Quas res luxuries in flagitiis, crudelitas in juppltciis, avaritia in rapinis, fuptrbta in contumeliis efficere potui ffet. Cum lumimus ducem pro luis militibus, ut Tejlis Metaurum flumen, et Asdrubal dtv.Bus, vel auctorem pro opere, ut fi dicamus: Scmpcr habendus cjl prx manibus Cicero. De Antonomafia. A Ntor.omafia latine pronominatio ejl illa, qiue quodam externo cognomine demon flrat id, quod proprio non poffumus, aut nolumus dcmonjlrare. Fit autem tribus modis. Si ponatur nomen appellativum pro proprio, ut Philofophos pro Arillotele,latinus Orator pro Cicerone, Anpehcus Dottor pro Divo Thoma Aquinate. Proprium pro appellativo, ut Nero, pro crudeli, Sardanapalus pro luxuriolo, Irus p'o paupere. Patronimicum pro proprio, ut P elides, pro Achille, Anrhinades pro F.nea, Cytherea pro Venere. Tropus ille cum fit fumendo appellativum pro proprio, ita accommodari debet, ut Iit tantum proprium illius perfono, quam antonomadice explicamus; quod facile conlequemur, fi nomen appellativum limitetur aliqua circumdantia, quotantummodo conveniat eidem perfono, quam per Antonomafiam delcribimus, ut fi pro Scipione dicamus everforein Cartaginis. Hoc lemper obfervari debet, nifi aut paulum obfcure perfonam aliqua nominanda ellet in oratiooe, aut ex procedentibus antonomallicis nominibus fatis, fuperque incelligi eadem poffet, tunc etenim licet Oratotori ita Antonomafiam effingere, ut communis etiam fit aliis. Onomatopeja latine NOMINATIO ejl fiilio nominis; cum fcilicet nova verba condimus, et procipue cum in iis conciendis imitamur naturam rei, quam per ipla nomina de novo condita explicamus, ut Ennius; At tuba terribili fonitu taratantara dixit. Catacresis latine ABVSIO nominis efl licentior, et audacior Mcthaphora, in qua abutimur fignificatione ad aliu d fignificandum, ut Parrutda, pro Matricida, breves vires pro exiguo Armo parcus pro brevis. B 4 Huc pertinet acriologia, quse eit impropria locutio, ut fperare pro timere. Differt Catacrcfis a Methaphora, quia hscaccommooat vocabulum rebus proprium etiam non habentibus, quod fiepe non facit Catacrefis, ut G dicatur facies domus pro anteriore parte; infuper quia liberius, et audacius abutitur Ggnificatione alicu;us vocis, uc mox dicebam. Metalepsis latinc TRANSITIO tropus ejl ex alio in a liud gradati m conducens, ut Virg. Me quaterundenos fetat impleviffe Decembres et Ovidius. Ut fumus in Ponto ter frigore conflitit Ifier. Tropus orationis non in unius di&ionis mutatione, fed totius fermonis translatione fervatur; ita ut aliud ftnfu, aliud verbis Ggnificetur; Hujus generis primus eil, et facile omnium pulcherrimus. Allegoria larine inverfio, quje aliud verbis, aliud fenfu demonGrat, ut Horatius: Contrahes Vento nimium fecundo Turgida vela. Hoc eft, in rebus profperis re te infolenter efferas. Allegoria fecundum QuinCdilianum ornatur duobus, fimilitudine fcilicet, et translatione. Similitudinem adhibet Cic. pro Mil. Quod fatum, quem Euripum, tot motus, tantas, ac tam varias habere putatis agitationes fluBuum, quantas perturbationes, et quantos ccftus habet ratio comitiorum. Translatione utitur idem Cic. 7. in Verrem: Ipfc inflammatus Jcclere in forum venit, ardebant oculi, totoque ex ore crudelitas emicabat. Allegoria, vel eft pura, vel ed mixta. Pura ed, quæ condat perpetua methaphora, ut ORAZIO (vedasi). O navis referent in mare te novi FluElus. O quid agis ? fortiter occupa Portum, nonne videt ut Nudum remigio latus ? Et malus celeri faucius Africa Antennaque gemant, ac fine funibus Vix durare carina Poffmt imperiofus Equor &C. Mixta ed, quando methaphoricis verbis propria verba admifcemus, quæ methaphorica explicent, ut Cic. Ego meam Jalutem deferui, ne propter me civium r vulneribus Refpublica cruentaretur. Illi meum reditum non Pop. Rom. fuffragiis, fed fulmine fanguinis intercludendum putaverunt. Hic adnotandum opus eft, ut allegoria inhæreat afliimptæ methaphoræ, ne eum cæperit a tempedate, definat incendio. Ad allegoriam reduci poffunt æquivocus, ænigma, et ironia. Voces æquivocar illæ dicuntur, quæ duplicem habent fignificationem, ut Cic.: Jus Vertnum nequam; et hæc duplex fignifkatio dupliciter haberi poted in vocibus, vel cum eadem vox duplicem haber phyficam fignificationem, ut eam videre potuidis in exemplo aliato, vel cum idem vocabulum idem fignifieat, fed diverfo fenlu,hoced,idem in lenfu phyfico,& idem in fenfu morali, ut vita quæ fignificare poted, et vitam corporis, quæ cibo, et potu nutritur, et vitam animæ, quæ alitur Deo. Equivocus valet, tum ad copiofam, tum ad ornatam argumentationem in orationibus, et præcipue in heroum, feu in alterius laudibus, in quibus argumenta non egent tanta efficacia; fed fatis ed, ut habeant aliquam fpeciem veri. ENIGMA eft oblcurior allegoria, in qua duplici, fed paulo obicuriore verborum (enfu mentem audientium, (eu legentium decipimus. In componendo ænigmata aflTumi folet mahaphora, quæ fit fundamentum totius enigmaticæ textura?, eaque dum producitur, ornatur verbis, quæ faciant oppolitum fenfum, qux alio nomine dicuntur paradoxa, et mirabile quidquam prsfetertur. Hxc fundamentalis Metbaphora, quo obfcurior ed, eo venullius apparet ænigma. En vobis exemplum. Padre fon io di dodici figliali I quali ad un, ad un vado occidendo, Mentre l' un dopo C altro va najcendo, II ciel vuol poi che 1' ultimo m incoli. Ma non s) tofio fon di vita privo Che fon unato, e nova vita to vivo. Ironia latine SIMVLATIO – Grice: “He’s a fine friend” – “He’sa scoundrel” --, vel illufio deludit adverfarium, fuorumque argumentorum vim vertit in rifum Cic. pro Lig. Novum crimen C. Cxfar, et ante inauditum tulit, &c. Ligarium in Africa futjfe. Venufius ed hujus tropi contextus, cum pod ironica diida oratio gravis infurgit, vel prorumpit in inflammatas exclamationes. Cic. in Pif. At audijlis Philofophi vocem: negabit fe triumphi cupidum futjfe; O f celtis,* o pejlts ! o labet ! Hic tropus omnem vim habet in pronunciatione, qux debet ede amarulenta, et farpe adjuvatur iflis particulis, o, profe&o, equidem, fane, quidem &c. ex quo evenit, quod Ironia aliud verbis, aliud lienfu fignificat. Periphrafis latine circumlocutio tropus ejl, in quo, pluribus verbis explicatur, quod poterat uno, aut certe paucioribus; Fit autem pluribus modis. Primo pofito nomine Se&s, vel Patris loco proprio, ut voluptuaria Schola Princeps pro Epicuro: Venufimts Poeta pro Horatio. Secundo per definitionem dialeidicam, cum odenditur quod fit res per intrinfeca, et elTentialia rei, ut fi pro homine dicas animal rationis particeps. Tertio per ethimologiam, ut fi pro duce dicas: ille, qui prxejl Rei publica :, feu militibus. Quarto per definitionem rhetoricam, cum oftendi^ tur qualis fit res per extrinfeca, et accidentalia rei, vel quamcumque circumllantiam, ut fi pro homine dicas: animal ercElum, in plume, providum, plenum confilti &c. et fi pro ignaro dicas: ignorantia; tenebris obciccatus. Cavendum eft ne in perifologiam migret periphrafis, vertitur enim in vitium, quod eft virtus. Hiperbaton latine verbi tranfgrellio tropus ejl, quo tranfgredimur grammatici ordinis leges, ejus etenim ejl, nulla habita ratione grammatica: conftitutionis, ita vebra inter fe conne&ere, ut inde in oratione confonantia confurgat. Cic. pro L. Man. Fidem vero ejus inter joctos quantum exijhmari putatis, quam hoftes omnium gentium SanEiiflimam ejfe judicarint. Hinc nafcitur Tmefis, qua: ejufdem vocis compofitæ partes, interpofito vocabulo, feparat, ut per mihi gratum feceris, et Virg. Hac Tiojana tenus fuerit fortuna fequuta. Hiperbole latine SVPERLATIO – Grice: “Every nice girl loves a sailor” -- tropus eft excogitatus ad aliquid augendum, vel minuendum, ut Cic, Meile dulcior fluebat oratio; et Juvenalis de TigmeiS: Tota cohors pede non eft altior uno. Fit autem variis modis. Cum ponitur fubftantivum loco adje&ivi, ut peftis pro pefiilenti, fcelus pro fcelefto. Deducitur a fimilitudine, ut Caribid voracior, vitro fragilior. Ab exemplis, ut Sampfone fortior f Penelope caftior. De Verborum Luminibus, sunt quædam figuræ quæ habent fuum fplendorem, et lumen in verbis: ita ut verbis iis mutatis, quæ figuram effingunt, figura penitus deperdatur. Ea figuræ compreh.ndunt illis, quæ fiunt, vel ad/ettione, vel detratlione, vel fimilitudine.De Figuris, qua: fiunt per ' Adjectionem. Fiunt iftar figuræ repetitione alicujus vocabuli, quod ponitur in oratione, non ad necelfitatera, ied ad ornatum lermonis, qua: repetitio cum vocetur adjetlio, quia adjicit verbum non neceflarium; ideo ifix figuræ dicuntur figura adjectionis. Harum prima eft Epixeufis, latine duplicat o, qua: duplicat idem vocabulum, vel fiatim, ut Cic. Crux, crux, inquam, infelici, et xrumnofo parabatur j vel interpofita aliqua conjundione ad majorem vehementiam dicendi, ut idem Cic. Vivis, et vivis, non ad deponendam, Jed ad confirmandam audaciam; vel parenthefi, ut ditius Tullius 2. Phil. n. 64. Hajla pofita pro xde Jovis Statoris, bona ( me mi i erum, confumptis enim lacrimis infixus tamen animo h.tret dolor ) bona, inqi-am G. Pompei voci acerbiffimx præconis fubjcBa. Praterea non tantum verbum, fed etiam aliquando, fervefeente oratione, integrum fenfum congeminat, ut Cic. Nunc etiam audes in horum confpeSlum venire, proditor patrix, proditor, inquam, patrix nunc audes etiam tn horum confpeBum venire. Hæc figara fit tum ad vehementiam, tum ad dilucidationem orationis. Anaphora latine repetitio, in principio membrorum repetit idem vocabulum. Cic. 1. in Cat. Nihil ne te noBurnum prxfidium palatii: nihil urbis vtgilix; nihil timor populi; nihil confenfus bonorum omnium moverunt? Antiflrophe latine converfio, contraria ell anaphornt; nam repetit idem vocabulum in fine membrorum. Cic. Doletis tres exercitus P. R. ejfe tnterftBos} interfecit Antonius. Defideratis cives ? eos eripuit Antonius. Res affliBa cfl} afflixit Antonius. Com Audetque virn concurrere virgo. Hæc figura habet majorem venullatem, fi antithefis equilitate membrorum continuetur, e. g. Fatla juvenum, conjilia virorum, vota fenum; fi verba invertantur, e. g- Dum cogitas agenda, non agis cogitanda; vel fcmibovemque virum, femivnumque bovem; fi conjugatis ornetur, e. g. Divites odit, dividas amat\ aut ii idem fit agens, et patiens, c. g. Qj, omnibus repudiatis melius totum concluditur. Hæc maxime illufirat orationem, præcipue, cum aliquem interrogamus, et fubito nos ipfi per firmam fententiam refpondemus. Divus Hieronymus Epifi. xi. ad Ruffinum. J Quid agis, frater, in hoc feculo, qui major es mundo ? Paupertatem times ? beatos pauperes Chriftus appellat: pavore terreris ? j 4 t nemo Atbeleta fine fudore coronatur; de cibo cogitas ? fed fides famem non timet: fuper nudam metuis humum exafa jejuniis membra collidere ? Sed Dominus tecum f acet: Squali: di capitis horret inculta c a fanes? Sed caput tuum Chrijftus eft i te terret infinita eremi vafittas ? fed tu Pa radifum mente deambula: Delicatus es, fi et vis gaudere cum faculo, et regnare cum Chrifio. Fit etiam fine interrogatione. Div. Cyprianus Epifh, 77. Non fovetur in culcitris corpus molliter / fed refrigerio, et Chrifii folatio fovetur. Humi jacent feffa laboribus vi/cera ’, Jed pxna non ejl cum Chrifio jacere &c. Valet ad ornandum, h ortandum, dehortandum, docendum ac refellendum. Communicatio figura eft, qua caufx noftra confidentes, vel ipfos adverfarios confulimus, vel cum judicibus quid faciendum fit, quidve faBum oportuerit, deliberamus. Cic. 2. in Verrem. Nunc ego Vos confalo, judices, quid mihi faciendum putetis •, id erum confilti profeBo taciti dabitis, quod ego met mihi neceffario capiendum intelligo. Interdum communicationi conjun&a eft refponfio, et expeditio propofitæ dubitationis. Cic. pro Quin&il. Ego pro te nunc boc confulo, pofl tempus in aliena re, quod tu in tua, cum tempus erat confulere oblitus es. Qucero abs te C. Aquili,' L. Luculle, M. Marcelle, vadimonium mihi non oh jit quidam f ocius, et affinis meus, qui cum mihi neceffitudo vetus, controver/ia de re pecuniaria recens intercedit: Poftulante a Pratore, ut ejus bona mihi poffidere liceat ? an cum Roma domus ejus, uxor, liberi fint, domum potius denuncicml quid eft, quod hac tandem de re vobis poffit videri ? profetlo fi reBe vefiram bonitatem cognovi, non multum me fallit, fi confutamini, quid fiiis refponfuri: primum expeBarc: deinde Ji latitare, ac diutius ludificare videatur, amicos convenire, quarere, quis procurator fit, domum denunciare &c. Valet pjJ refellendum, efficax eft ad ftuporem, ad faciendam fidero, ad fedandam iracundiam, ad excitandam commiferationem &c. C 2 Con- :f a c•ctmufque, quid futurum fuiffet, fi fe res aliter habuiffet ». Sit e. g. demcnllranda infidelitas Hebræorum, qui negent in Chriitum credere, ex eo quod figna in Coelo viderint; fuppofitis fignis, ita eorum incredulita-' tem probabimus. Heja furfum dentur de coelo figna, quid inde? Fortajfc credent in Cbrijlum? Quid fecerint de iis, qua c alitus venerint ? Argumentum equidem fu ment pervicacioris incredulitatis, iifque refpondebunt, et Magos in JEgypto Signa multa de coelo feciffe. Partitio res plurimds i aut per fanas, aut negotia divU' dit, et quod fummatim dici poterat, accuratius, et fufius in fuas partes dijlribuit. Cic. pro Muren. commendans Catfaris clementiam: ut vero hujus gloria Ca rjar, quam es paulo ante adeptus, focium habeas neminem: totum hoc, quantumcumque eji, quod certe maximum ejl, totum efl, inquam, tuum. Nihil fibi eoe ifia laude Centurio: nihil prafeElus: nihil cohors: nihil' turma decerpit; quin etiam illa ipfa rerum humanarum domina fortuna, in ifiius fe focietatem gloria non offert; tibi cedit", tuam effe totam, et propriam fatetur. Huc refertur divifio, quæ difiribuit rem in fuas partes. Cic. pro Quin. Qua res in Civitate duce plurimum poffunt, ex contra nos ambx faciunt in hoc tempore fumma gea-’’ tia, et eloquentia, quarum alteram vereor, alteram metuo. Revocatur etiam fubdivtfio, qux divifa iterum di vidit. Cic. pro Quine. Juffit bona profer ibi ejus qui eum familiaritas fuerat, focietas erat, affinitas, liberis ijlius vivis, divelli nullo modo poterat j qua cx re ia telligi facile potuit, nullum effe officium tam fanEium, atque folemne, quod non avaritia comminuere, atque violare f oleat. Etenim fi veritate amicitia, fide focietas, pietate propinquitas colitur, ncccfie ejl ijle, qui amicum, foetum, affinem, /irma, ac fortunis fpoliare conatus ejl, vanum te, O' perfidiojum, impium ejfe fateatur. Subdivifioni additur redditio, qua finpulis divifionis, partibus fengula inferius rej pandent. Cic. pro Rab. Atqui videmus hac in rerum natura jutffe tria, ut aut cum Saturnino e[fet aut cum bonis, aut later: f y Latere mortis injlar erat turpiffima, cum Saturnino e[Je furoris, et [celeris, virtus, honejlas, et pudor cum confulibus effe cogebant. Placuit mihi huc referre expolitionem, qua commutatis verbis eadem fententia varie verfatur, et effertur quo gratior, clariorque fubjictatur oculis. Cic. pro S. R. Am. Vides Eruti, quantum di fiet argumentatio tua ab ipfa re, atque veritate: quod confuetudine patres faciunt, id quafi novum reprehendis: quod benevolentia fit, id odio facium criminaris: quod honoris cauf a Pater filio fuo conc effit, id eum fupplicii caufa feci ffe dicis. De Figuris aptis ad deleflandum, trita loquendi ratio perfsepe moleltiæ eft, et faftilio, unde confugiendum eft ad figuras, quoniam ex iis paritur delc&atio fermonis. Harum prima eft. Defcriptio, qua: definitur: perfpicua rerum, ac dilucida cum gravitate expofitio; fitque per colledf ionem proprietatum adjunctorum, et conlequentium rei ejufdem, qua: deferibitur. Varia: funt hujus fchematis fpecies, videlicet. Profographia latine nominatio, qua deferibit veram, vel falfam perfonam, expreffis animi, corporis, ac fortuna attributis. £thopa?ja dicitur h.rc figura, cum vitam, et indolem deferibit; ita ut in morum cognitionem aliquem adducant Cic. poli Red. in Sen. deferibit Gatinium mollem, et effæminatum hoc pa&o Primum proceffit, qua autloritate vir? Vini, fomni,/iupri plenus, madent i coma, cpmpcfito capillo, gravibus oculis, fluentibus buccis, prejja voce, temulenta. Defcriptio fiftæ perfonx, vel rei fit, fenfu, ac corpore carenti, fenjton, vel perfonam, € corpus affingimus j cujus rei exempla innumera apud poetas inveniuntur. Topographia e fi: veri loci defcriptio. Cic. 4. in Ver. defcribit urbem Syracufas hac methodo: Urbem Syra cujas, maximam ejfe gr ac arum Urbium, pulcherrimamque omnium Jape audijiis: ejl ita, ut dicitu r j nam et Jttu ejl communita, tum ex omni aditu, vel terra, vel mari praclaro ad afpeBum: et portus habet prope in xdijicatione, afpcbluque urbis inclufos; qui cum diverfos inter fe aditus habeant, in exitu conjunguntur, et confluunt. Ea tanta ejl Urbs, ut ex quatuor urbibus maximis conflare videatur, quarum una ea ejl, quam dixi, infula, qua duobus portubus cintta in utriufque portus oflium, aditumque projcfta ejl &c. Cronographia ejl defcriptio temporis qua fubjiciun tur, qua in tempore dicuntur, et accidunt. Vir. Cr. iEne. Nox erat, et terras animalia fejfa per omnes Alituum, pecudumque genus fopor altus habebat. Poflera Fhabea lujlrabat lampade terras, Hument emque Aurora polo dimunerat umbram. Hypotipofis deferiptionem rei ita exprimit, ut videri potius, quam audiri videatur, Cic. pro S. RofcioAn. Etiamne in tam perfpicuis rebus argumentatio quarenda, aut con/ftlura capienda fit ? Nonne vobis bac, qua audijiis, cernere oculis videmini? Non illum mi ferum ignarum caJus fui, redeuntem a cana videtis ? Nonpojitas infidi as? Non impetum repentinum? Non verfatur ante oculos vobis in cade Glaucia ? Non adefl i fle Rofcius ? Non fuis manibus in curru collocat Automedontem illum, qui&c.? Eft alia Hypotipofis, qux fit per Dialogifmum. Per hanc exprimuntur geftus perfonarum; quæ futura funt, tartique prsefentia exhibet, et tandem in maximis affe&ibus dominatur, fitque conglobatis affe&ibus rerumque adjungis; vel ex comparatione majorum, minorum, et parium. Hypotypofis quemadmodum, et reliquat defcriptionis fpecies, fimilitudine illuflratur non parum. CICERONE (vedasi) 6. lib-. in Verr. Jlrtagathum, et argentum in UElica cubans ad mare injra Oppidum expeSlabat. Quem concurfum fa flum in Oppido putatis ? Quem clamorem ? Quem porro fletum mulierum? Qui viderem, equum Trojanum introduclum, urbem captam effe dicerent. Profopoparja ejl perfonx fiblio, qua rebus mutis aut fenfu carentibus fermonem accomodamus; vel vita funblos, tamque fpir antes, et viventes loquentes inducimus: hæc tunc dicitur Hydolopatja. Profopopæja exemplum fuggerit Cic. i. in Cat. cum eo loquentem Rempublicam inducens his verbis. Qua tecum Catilina fic agit, et quodammodo tacita loqui tur. Nullum jam tot annos facinus extitit ni fi per tet nullum flagitium fine te: tibi uni multorum civium neces: tibi vexatio, direptioque f ociorum impunita fuit, ac libera. Tu non folum ad negligendas leges, et quxfiiones, verum etiam ad evertendas, perfringenda) que valui fit Hydolopæja facit idem Cic. pro Catcin. Exi fiat igitur ex ifia familia aliquis, ac potiffimum cæcus ille ? Nimium enim dolorem capiet, qui ifiam non videbit, qui profeblo fi extiterit fic aget, et fic loquetur. Mulier quid tibi cum Ccelio? Quid tibi cum homine adolefcentulo ? Qjiid cum alieno ? Cur, aut tam familiaris huic fuifli, ut aurum commodares ? fiut tam inimica ut venenum timeres ? Patrem tuum non videras ? Non patruum, non atavum audieras Confules fuiffe ? Non denique modo te Metelli matrimonium tenuiffe f ciebas, clariffimi, et fortijfimi Cfc. Huc fpeftat Pathopatja, qua* adhibetur ad exprimendos, majores motus, ut indignationis, doloris &c« Ethopteja vero utimur ad minores affe&us, iit pudoris, benevolentiæ &c. Alterum Profopopeja genus eft. DIALOGISMVS, qui definitur fitla perfonartm collocutio, et in hoc differt a Sermocinatione, quod per illam orator recitat verum fermonem, vel unius tantum, vel duorum inter fe, vel unius, qui inter alios quafi fequefter fit. Cic. pro Plan. At ego cum cafu diebus illis, itineris faciendi caufa, decedens e Provincia Puteolos forte veni Jf em, conci di pene, judices, cum ex me quidam quafijfct, quo die Roma exiffem, et numquid in ea effet novi ? cui cum refpondiffcm, me e Provincia decedere: etiam mehercules, inquit, ut opinor ex Affrica. Huic ego jam flomachans faffidiofe, immo ex Sicilia inquam, tum quidam, quafi qui omnia fciret, quid ? Tu nefeis, inquit, hunc Syracufis quæftorem fuiffe.^ Hæc figura movet, et delebat. Obfervandum eft, quod in hujufmodi collocutioni* bus confentanea perfonis vox, et oratio tribui debeat, effet etenim maximum vitium, fi a moribus perfonarum difereparet oratio. Quare ridiculum effet, orationem probi affingere improbo, ffultoque fapientis. Apoftrophe convertit fermonem, aut ad Deum, aut ad hominem, aut vero ad res inanimes, quas veluti per fonas quafdam compellat. Cic. in Cat. Tu, Tu, Juppiter qui iisdem, quibus hac Urbs, aufpiciis a Romulo es confiitutus, quem Statorem hujus Urbis, atque imperii vere nominamus, hunc, et hujus f ocios a tuis aris, ceterifque templis, ac teclis urbis, ac manibus, a vita, fortunifque civium omnium arcebis:& omnes inimicos bonorum, hofles patria, latrones Italia, fcelerum fadere inter fe, ac nefaria Jocietate conjunftos at emis fuppliciis vivos, mortuofque mælabis. Hæc figura urget, increpat, com- mendat, cohortatur, commiferatur, monet, vituperat. Obfervandum primo in reprehenfionibus, cum ad judices, vel auditores fermonem habemus, qui gravis fit auditu, ad alium quempiam orationem efle convertendam, ut ipfi in aliena perfona, quid peccent, intelligant, et quid faciendum, fentiendumque fit, in aliis edifeant. Notandum fecundo, hanc figuram tantam habere vim, quantam accipit ab aliis dicendi luminibus, ea vero nihil cfTe ineptius, fi vel immodice ufurpetur, vel fine dcleftu verborum, vel fine gravitate fententiarum. Servandum tertio, quod licet apud oratores non deljeat eflfe frequens ad res inanimes Sermo, qui fæpiflime poetis permittitor, valet tamen plurimum, tum in orationibus panegiricis, quando appellantur loca, in quibus aliquid infigne geftum fit; tum etiam in aliis, quibus concitandi tunt animi motas. Comparatio, vel fimilitudo ejl cognata quadam inter res dijfimiles affeftio; cum Icilicet duæ res inter fe ob quamdam fimiTitudinem componuntur. Hæc figura, et animum audientis fuavitate, et orationem dicentis gravitate perfundit, maximcque accommoda eft ad fuaves motus, tum ad exornationem, tum ad perfpicuam dicendi methodum. Fit autem tribus modis. x. Similitudo petitur ex rebus bere paribus, ut fi conferatur orator cum oratore, Philofophus cum Philofophos Sen. Epift. 44. Nec rejicit, nec elegit quamquam Pbilofophia. Patritius Socrates non fuit. Clot antes aquam traxit et rigando hortulo locavit manus. Platonem non accepit nobilem pbilofophia, fed fecit. Quid ejl, quare defperas, his te po ffe fieri parem, Deducitur ex re difpari, cum Icilicet res alioquin diverfas in aliqua re fimiles efle offendimus. Seneca de ira: Ut furentium certa indicia funt audax, minax vultus, triflis frons, torva facies &c. ita irafeentium eadem jigna funt flagrare et micare oculis, vultu et ore toto rubere. Trahitur ex rebus fi&is. Cic. pro leg. Man. Primum ex fuo regno fic Mitridates profugit, ut ex eodem Ponto Medea illa quondam profugi ff 'e dicitur, quam prxdicant in fuga fratris fui membrain bis locis, qua fe parens ptrfequeretur, diffipavtffe, ut eorum colleElio difperfa, mxrorque patrius celeritatem perfequendi retardaret. Sic Mitridates fugiens maximam vim auri, atque argenti, pulcherrimarumque rerum omnium, « majoribus acceperat, £?* ipfein ponto reliquit &c. e manibus effugit. Huc pertinent parabola?, Apologi, fabula;, et exempla. Comparationum duæ funt fpecies; aliæ enim funt fimplices, aliæ compofiræ. Simplices unam tantum complebuntur fimilitudinem. Compofitæ in duo genera dividuntur. Primum efi, cum res una pluribus fimilitudinibus illuftrarur,- alterum cum res multæ multis comparationibus exprimuntur. Primum variis modis fieri poteft. Cum fingulis membris fingulæ fimilitudines referuntur. Cum fimilitudines in modum definitionis colliguntur. 3. Cum frequentia adjunba, five epitheta congeruntur, quæ fimilitudinem contineant. Cum ex eadem re, fimilitudinis membra deducuntur, quod fit per defcriptionem. Alterum genus multas res fingillatim multis compararationibus illufirat. Obfervandum efi breves fimilitudines plurimum habere ornamentum, fi per totum orationis corpus fundantur: longiores aptas eflfe ad docendum, et probandum. Apologos, et fabulas infrequentes efle debere, fed plurimum recreare animum, et audientiam excitare. Dc Figuris aptis ad permovendum. T? rgura», qua; majorem vim habent ad permovenJL dum, funt qua; fequuntur. Exclamatio, quæ definitur a Cic. Schema conficiens SIGNIFICATIONEM DOLORIS, indignationis per compellationem hominis, aut rei cujufpiam quadam expre[fa, aut tacita inter jeSlione: inventaque e fi ad augendum re? magnitudinem, fitque per elationem fermonis; Cic. a. Philippica. 0 audaciam \immancm. Tu ingredi illam domum aufus es 1 Tu illud SanBiJJimum limen intrare ? &c. Sive per fignificationem iracundiæ. O pejlis. O labes. O tenebra. O lutum. O for des. O portentum in ultimas terras deportandum. Vel miferationis.Cic. pro Sylla: O miferum t et infelicem diem illum, quo conful omnibus centuriis P. Sylla tenunciatus erit'. o falfam fpem\ o volucrem fortunam ! « exeam cupiditatem', o prxpofleram gratulationem'. Vel admirationis .Cic. in Cat. O tempora, o mores, Senatus hoc intelligit: Conful videt; hic tamen vivit. Vel per ironiam gravitate temperatam. CICERONE (vedasi) in Pif. O finitos Camillos, Curios, Fabricios, o amentem Paulum ! Suaviflima efl hæc figura, cum poft fingulas fententias brevem exclamationem fubneflimus. Tertull. in Apol.: Empodocles totum fe fe at n ais incendiis donavit. O vigor mentis ! Aliqua Carhaginis conditrix rog o fe pojl fecundum matrimonium dedit. 0 praconium ca (litatis ? Regulus me unus pro multis hojlibus viveret, toto corpore, cruces patitur. 0 virum fortem, et in captivitate vittorem ! Huic fimilisefl ea figura, quæ licet exclamatione non fiat, in brevi interrogatione judicium de re pofita fubneflit e. g. Dominus Omnipotens templum efl cale/lis illius domicilii; quid San&ius? Hæc Civitas non eget Sole neque Luna; nam lucerna ejus efl agnus. Quid fplendidius? Utimur exclamatione, cum res maximas perfuaferimus, et grave aliquod fa&um propofucrinau, vel illatum, vel acceptum. Habet locum in amplificatione, et epilogis, fed in minimis controverfiis frigida efl, et puerilis. Acclamatio, sive epiphonema e/l oratio, qua rei narrata, aut probata fubjicitur gravis quadam diSlio ex fuperioribus rubus exprejfa. Cic.poflquam docuit oportere legibus, et judiciis vitam tueri; leeum'.vim vi repuifunda fubdit pro S. 'IulL Hoc fentire prudentia, facere re fortitudinis, fent ire vtrt, nones. 1. /''XUalis eft ifte finis, five bonus, five malus, talis eft res, qua: ad ijlud finem per fe ordinatur. Si honefta eft Icientia, honeftum erit et illius ftudium. Hoc tamen dicitur, cum res per fe mala non eft, tunc enim non honcftatur a fine bono, ut patet in furto, quod fiat ad ferendum fubfidium pauperibus. 2. Cujus finis bonus eft et id bonum: cujus optimus eft, et id optimum tft: Si eloquentiæ finis melior eft, quam juris prudentiæ, etiam eloquentia melior eft, quam juris prudentia. Qui finem expetit, eadem et ample&itur media, quæ ad ilium obtinendum conducunt, fi pace frui volumus, vel fcedus eft ineundum, vel bellum cum hoftibus eft conficiendum. A fine removenda funt contraria media. Ex negatione caufæ finalis, fequitur effedlus negatio. Si Milo occidit Clodium, his tantum occidit de caufis; vel quod eo adverfante non poterat effe conful, vel quod ipfe conful erat eligendus; neutrum verum fuit, ergo Milo Clodium non occidit. Sic Cic. defendit Rofc. de parricidio his verbis: Vita hominum cjt 1 ut ad maleficium nemo fine fipe, ac emolumento conetur accedere', oftendens deinceps nullum non foluro emolumentum evenifle Rof. exparentis nece, fed etiam graviflimum detrimentum ex ea reportafle. A fine non acquifito, varia infertur caufa; Dux non eit aflecutus viftoriam; ergo inepte; ergo incaute; ergo infeliciter pugnavit. De effectibus E Ffefta definduntur a CICERONE (vedasi) qute sunt orta de caufiu; quapropter ex omnibus causis educuntur, ii que causas qua ( cumque probamus. Princeps deleftum habet militum, confcribit legiones, duces convocat, ergo bellum meditatur. Eadem quoque fi negentur de aliquo, de eo pariter negatur caula, cujus funt effetfa. Adolefcens non vagatur otiofe per urbem; non obiter, ac perfundorie res fuas agit :non ad multam diem fternit mens; igitur eum male nominas negligentem. EfFt&a cum magna oieendi copia tra&ari poliunt in omn>bus caufarum generibus; in fuafionibus, et difluafionibus, in accufationibus, et defenfionibus: in laudibus, et vituperat ion bus. Habent etiam iocutn, cum aliqua obiefla funt ab adverfanis, tunc etenim ea refelluntur oppofitis effe6 Iibus, quod venulle fiet ab oratore, fi interrogationibus frequenter utatur, fubjettionibus, repetitionibus, apodrophe &c. Huc revocantur Metonymiæ, qux caufam per effatum declarant, et contra, valerque hic dicendi modus, tum ad varietatem locutionis, tum ad numerum orationis, circumfcrtprionemque periodi. Prxterea amplificant, et deferibunt, quod prædari debet per longam effe&uum congeriem, five laudemus, five vituperemus. F 4 Canones hujus duo funt. "C Xpofito effeSu, necefle eft prarfuiffe caufas ad JLj efferus neceftarias. Homo eft conditus, eft igitur ad sternam felicitatem corpore, et anima compofitus. 2. A bonitate, f«i pratftantia efferus, bonitas caufa: arguitur, et prsftantia. Sic Cic. pro Mur. demonftrat effetlibus ad confulatum adipifeendum plus valere virtutem militarem Murena: quam C. Sulpitii juris prudentiam. Comparatio ea efl, per quam duo, vel plura in aliquo tertio conferuntur quod illis commune fit e. g. Catoni licuit fequi bellum civile; ergo et Ciceroni licebit; ubi fequi bellum civile commune eft ambobus, Ciceroni fcilicet, et Catoni, qui in eo conferuntur. Quoniam vero in triplici genere res quatpiam conferri poteft, ideo triplex eft comparatio. Kes etenim alis majores funt, hoc eft verifimiliores, et quibus id, de quo agitur, potiori jure conveniat; aliæ insquali gradu veritatis funt pofitse, ut non fatis agnolci poftit, utrum res potius conveniat iis ne, quæ conferuntur; an iis, cum quibus conferuntur. Hinc nafeitur triplex comparationis genus, a majori fcilicet ad minus, a minori ad majus, et a pari. A majori ad minus argumentamur hoc pafto; cum fcilicet ex eo, quod verifimilius eft, et convenientius, et tamen nec convenit, nec verum eft; aliud, quod verifimile, minufque conveniens fit, nec convenire, nec verum efle colligimus. Cic. pro dom. fua docet Deos immortales domum fuam non concupiffe, quod ne Homines quidem fceleratiflimi illam expetiverint, Qua in re vobis eft advertendum, quod in comparatione id non eft majus, quod majus eft, fed quod verius, et convenientius eft. Præterea in hoc argumenti genere, tum id, fitione fidem conciliat; amplificatio fubtiliter enucleando fingula, lucem rebus addit. Illa ftilo concilo fua explicat argumenta: illa fententiarum pondere, orationis ubertate, ambitus magnitudine, et ingenti quadam vi comprehenfionis eadem impellit. Itaque tribus rebus ab argumentatione diferepat amplificatio: materia fcilicet, traflatime, &fine. Materia quidem: nam argumentatio adhibetur ad omnia quxftionum genera; amplificatio non nifi ad magnas, gravelque caufas, in quibus debeat oftendere orator aliquid effe calamitofum, indignum, lætum, trille, tnilerabile, amabile, deteflabile, formidandum, optandum, fugiendum. Tra&atione; nam argumentatio preffe, et argute proponit; amplificatio fule, et graviter exponit. Ilia ad pugnam le>iter procurrit, fa&aque plaga confefiitn fe fubducit; illa in apertum, ac patentem campum procedit, tela, et tormenta omnia excutit, donec fatigatus holtis, et pene fra&us concidat. Fine; nam finis argumentationis eft cognitio; amplificationis motus; quare hxc non adhibetur, nifi cum perlpefta rei veritare, dignitas, amplitudo, gravitas, aut contra indignitas, vel atrocitas per motum eft demonftranda fervit farrun et fidei faciendæ; quod ubi motus fuerit auditor, multo firmius rebus creditis adhærelcat, quam anrequam moveretur. Exemplum aliquod a Cic. petitum clarius illuftrabif, quee hucufque de amplificatione locuti fumus. Qui igi H ter tur diceret ejiciendum a Repubiica Antonium, ilium >er argumentationem patriæ diceret proditorem; Tulius vero ita eum per amplificationem urget, et confligit Phibppica 3. Hanc vero teterrimam Belluam quis fare poffet, aut quomodo? Quid ejl in Antonio prater libidinem y crudelitatem, petulantiam, audaciam, ex his totus conglutinatus eji; nihil apparet in eo ingenuum, nihil moderatum, nihil pudens, nihil pudicum. Quapropter 9 quoniam res in id diferimen addatta efi\ utrum ille poenas Reipublica luat, an nos ferviamus; aliquando per Deos immortales P.C. patrium animum y virtutemque capiamus y ut aut libatatem propriam Romani genatSy et nominis recupæmus, aut mortem fervituti anteponamus. Multa qua in Ubera Civitate ferenda non ejfent, tulimus, et perpeffi fumus, alii fape recuperanda libertatis y alii vivendi nimia cupiditate; fed fi illa tulimus, qua nos neceffitas ferre coegit j qua vis quadam pene fatalis; qua tamen ipfa non tulimus i e tum ne hujus impuri Patronis referemus teterrimum, crudelijfimumque dominatum ? Quid hic faciat; fi potuerit, iratus, qui cum fuccenfere nemini poffet, omnibus bonis fuerit inimicus l Quid hic viElor non audebit, qui nullam adeptus viElo riam, tanta fcelera pofi Cajaris interitum fecerit > refertam ejus domum exbauferit, hortos compilant, ad fc omnia ex his ornamenta trandulcrit, cadis, et incendiorum caufam quafierit ex funere. Et ea quam plurima, qua in hoc loto videre poteritis. Qu.t res amplificationem admittant, quæque fint ejus fedes in oratione. Rerum, quæ in fermonem cadere poffunt, aliæ graves funt, ali* exiles, aliæ mediæ; quod graves amplificationem admittant, ex di&is fatis colligi poteft. Quæ funt mediæ magnam oratoris ©peram re quirunf, ut amplificationem recipere poffmt; iri exilK bus vero nihil eft, cur allaboremus, ut amplificatione illuflrentur; oleum enim perdemus, et operam. Locus amplificationis in oratione proprius eft peroratio, in qua confertim opargit, quæ figillatim emiferat; et licet inter argumenta fingula fpargenda fint amplificationis femina; tamen ubi ad extremum orationis ventum fir, ea omnia recolligi folent; ut vehementioribus arfeftibus in fine motus auditor, palmam oratori cedat, ac vi&oriam. Unde fumantur amplificationes. D Uplici ex fonte profluit in oratione amplificatio, ex verbis fcilicet, et rebus. Verba, qua: amplificationi deferviunt ea funt, qua; illufiria dicuntur; de quibus multa fatis diximus in exordiis hujufce noftræ pratceptionis. Illuc vos remitto. Amplificandæ autem rei 4. fontes aperuit Quinft. Incrementum fcilicet, comparationem, rationem, conriem. Congeries duplex efl, una verborum, da que plura admodum diximus, altera fententiarum, in qua fentcntiæ plures ejufdem fignificationis componuntur; cujus ufus triplex efl; vel ut iis, qua; minus apta funt, lucis aliquid afferamus, priora pofterioribus explicando; vel ut orationem pleniorem, et modulatiorem, expleto numero, reddamus; vel ut inflandi, honorandi, vel exprobandi criminis caufa exagerationem aliquam faciamus. Qua in re cavendum maxime efl, ne multis verbis quamlibet fententiam pueriliter oneremus; videndumque, ut pofteriores fententiæ, vel aliquid lucis prioribus afferant, vel plus acrimonia: contineant, incendantque vehementius orationem. Quæ ufque diximus, non fatis explicarunt ad propofitum quid fit rerum congeries; ne igitur quidquam omittamus. Rerum congeries efl, cum ad inflandum, Ha augendumque, a nobis variæ adiones, refque enumerantur et io unum quafi acervum congeruntur, fublatis aliquando conjundionibus, ut acrins inflemus. Adhibetur, cum incalefcit oratio ad amplificandum, quæ bene, quæ male gefta funt. Multæ enim virtutes fimul collatoe admirationem, et amorem, plurima vero vitia faftidium et odium conciliant. Congeries adeft etiam definitionum, partium, caufarum, effedorum, concomitantium,&confequentium, contrariorum, et adjundorum. Quæ definitionum eft, naturam rei explicat, vel per partes, vel per caufas, vel per effeda, vel per adjunda, five accidentia, vel per fimilia, vel per negationem. Exempla omittuntur, ne paulo fufiores fimus, quam par eft. Incrementum alter vi amplificanda: modus fit, cum per gradus crefcit oratio, et ad furumum pervenit. Differt a congerie, quod hæc coacervat multas fententias, et voces; In incremento femper crefcit oratio. Hoc fit duobus modis. Primus eft, cum citra diftinftionem graduum, in ipfo contextu, et curfu orationis, femper aliquid priore majus infequitur. Cic. pro S. R. Am. Petimus a vobis Judices, ut quam acerrime maleficia vindicetis; ut quam fortijfimi hominibus audacijfimis refijlatis, ut hoc cogitetis, nifi in hac caufa, qui vefier animus fit, ofiendetis, eo prorumpere omnium cupiditatem, et ficelus, et audaciam / ut non modo clam; verum etiam hic in foro, ante tribunal tuum M. Fanni, ante pedes ve Jlros, judices, inter i pf a fiubfiellia cades futura fimt. Secundus, cum fingulos gradus dividimus, et infingulis commoramur; et tunc ea, quæ minora funt, magna facimus, ut quod ultimo loco ponitur' maximum effe videatur. Si velis ergo martyris alicujus fortitudinem efferre, per fingulos fortitudinis gradus ab imo ad fummum affurgas. Huc pertinet illud amplificandi genus, quod dicitur extenuatio, quæffiperiori oppofita, fif, cum procedentia, quo vere maxima funt, et videntur, omnibus elevamus; ut quod fequitur, minus appareat. Ratiocinatio fit cum ut aliud crefcat aliud augetur; unde ad id quod extolli volumus, ratio deducitur. Uc fi quis Annibalis virtutem amplificet, ut major gloria Scipionis, quicum debellavit, eluceat. Comparatio diverfa inter fc, et majora cum mi* noribus comparat,- non eo tantum, ut rem probet; fed ut exageret, et majorem vim faciat, ut fi quis obedientiam Chrifii cum illa Abrami conferat, ut alterius prxftantia magis emineat. Vel fi qui amplificandum alTumeret alterius calamitatem, eam comparare deberet cum priflina illius calamitate, vel cum aliis calamitatibus, ut offenderet hanc efle graviorem. Notandum in hujufmodi comparationibus, utriufqite partis circumftantias, quæ rem augere poffunt, diligenter efle excutiendas,, neque folum virum cum viro, faftum cum fa&o, rem cum re; fed partes etiam lingulas cum aliis partibus efle componendas. Cic. pro Dom. fua Caflium Cenforem cum Clodio comparat his verbis. Quuefo Pontifices, et hominem cum homine, et tempus cum tempore, O* rem cum re comparetis. Ille erat fumma modejiia, et gravitate Cenfor; hic tribunus plebis fcelere, et audacia fingulari: tempus illud erat tranquillum, et in libertate populi, et gubernatione pofitum Senatus: tuum porro tempus libertate populi Romani opprejfa, Senatus auEloritate deleta: res illa plena juflitis, fapienthe, dignitatis; Cenfor enim &c. et cetera quamplurima fequuntur &c. Quod di&um eft de exemplo, dicitur de illuftriqaadam fimilitudine, qua res interdum vilis multofit magnificentior. Qua in re advertendum eft, ne rempropofitam ita fuperet fimilitudo, ut convenire cum ea pulchre non poflit. Sed quoniam nihil in oratione erit decorum, quod fuis non illuftretur figuris, in eadem nonnullas fibi peculiares, et proprias expofcit amplificatio. iEdem funt hypotipofis, profopopæja, exclamatio, optatio, imprecatio, commonitio, et aliæ fim.^ qua» motum faciant. Affectus illi funt, quorum vi ftc auditorum animi, voluntate/que mutantur, ut aliud, quam ante de rebus propofitis judicium ferant. Secundum alios affettus efl animi quidam impetus, quo ad appetendum, averfandumque aliquid vehementius, quam pro quieto mentis flatu, impellimur, Alii vero ita definiunt: Effetius efl animi fentientis ex alicujus rei bona, vel mala opinione rata commotio. In his permovendis totus efle debet orator, ut enim ex definitionibus patet, auditorum animos, nunquam ille triumphabit, etfi validiflimas afferat probationes, nifi motum faciat. Unde inquit Fabius: Probationes efficiunt fane, ut caufam noflram meliorem effe Judices putent: affettus pr a flant, ut etiam velint. Sed id, quod volunt, credunt quoque j nam cum Judex fuerit occupatus affettibus, omnem inquirenda veritatis rationem amittit. Antequam vero numerum affefluumftatuamus, &de fingulis difTeramus, opportunum erit præmittere, qua: in hac re de fe ipfe prædare debet orator. Motum excitaturus ille debet efle, vel faltemfefingere, iifdem affe&ibus incitatum, quos parat in aliis movere. Prudens fit, ut tempori inferviat; in dicendo acer fit, nervofus, difertus, voce plenus. Præterea confideret, apud quos dicat, et quibus moribus informati auditores fint j qua educatione inflituti $ quibus opinionibus imbuti, et quibus rebus moveantur, an pietate, an ira, an odio, an amore, et hujufmodi, quarum rerum conje&uræ colligi poflunt ex qualibet cujufque natione, ex corporis drufiura, et temperie, et tandem ex iis, quæ de auditoribus prædicet fama. Cujus rei occafione obfervandum, quod dofli homines refpuunt molles affc&us, ac dolore incenfos, quos tamen admittunt fimplices. Apud feros, &agreftesopus eft lateribus firmis, voce truci, iracunda, et formidabili; in curia ritus fit vividus, et acer. Ut igitur ad pertra&andos dcfcendamus affcftus, omitlis variis illorum divifionibus, quas varias varii au&ores a dignant, hos tantum placuit enumerare, et funt, qui fequuntur. cn Amor. Defiderium Gaudium Spes Metus Ira Mifericordia Invidia Pudor Odium Fuga Dolor Defperatio Audacia Manfuetudo Indignatio Æmulatio Gratia. Amor definitur ab Arift. 20. Rhef. cap. 4. Affcttus, quo volumus alteri, qua bona funt, idque ejus, qui diligitur, »0» no (Iri caufa, et in illis rebus comparandis pro virili elaboramus. Amor multiplex est, Divinus, Angelicus, intelleftualis, animalis, et naturalis. Amor Divinus eft, quo Deus omnia creavit, tuetur et fubflentat, fine quo ntc ipft Angeli vitam habere poffunt. Angelicus eft, quo Angeli Deum amant, et illius imperio hominibus famulantur, t 9 “ creata fervant. Intellectualis eft, quo humana mens quaque bona, et honcfla defiderat, et inquirit. Animalis est, quo voluptuarii appetunt, et hic brutis quoque communis efl. Naturalis eft, quo res fe mutuo dilidunt, fibique naturalis dileUionis vinculo coharent,* et hic dicitur etiam Sympathia, cui opponitur Antypathia, qua res naturali odio fe fe expellunt. Hinc fiunt miranda illa natura arcana, ut magnes attrahat ferrum, Elitropium le vertat ad Solem, penna Aquilæ aliis admixta pennis, ab illis evolet, effugiatque. Quia vero in tra&andis affectibus oratoris eft, eos aliquando excifare, aliquando reprimere, aliqua de lingulis attingemus, quibus et ii excitentur, et ii reprimantur. Amorem igitur excitant honeftum, utile, jucundum. Ad Honeftum pertinent virtus, et probitas, vitæ æquitas, modefta pulchritudo, comitas, et manfuetudo, innocens, et fimplex urbanitas, conflantia, fidelitas. Ad utile fpeCtant beneficia, grati animi fignificatio, liberalitas, communicatio bonorum, et confiliorum. Ad jucundum revocantur amor ipfe, bonorum, et malorum communitas, morum, ftudiorum, et periculorum fimilitudo, fiducia, familiaris, et domeftica confuetudo, aliens virtutis commendatio, injuriarum oblivio. Præterea amorem in aliquem conciliabis,* fi eum oflenderis natura lenem, facilem, popularem, dignum, cui fe credant alii, cui arcana fua committant, apertum tandem, et candidum moribus. Adverte quod in amore intelleCluali excitando judicio, et prudentia opus eft,* quare eligendæ funt illas res, quæ maxime argumento fufeepto conveniant. Amor non folum excitatur illum commendando, fed etiam deferibendo; pro quo multiplices ejus vultus, variaque illius effe&a enarranda funt. Nos igitur ut aliquid de illis dicamus, turpi amore deje&o, divinum. educemus in medium, quem modo lacrymantem inducimus, modo extra fenfum raptum, modo fævientem in fefe, modo pauperem, modo divitem, modo flammarum inftar ardentem, modo liquidi fluminis inftar gaudio colliquefcentem, modo velat piftorem, modo velut oratorem. Non eft, cur reprimi debeat amor honeftus /"fi tamen reprimendum aliquando arbitremur, idonea funt ea quæ in contrariam partem fumi poliunt ex iis, quæ ilium excitant, et aliqua pariter, quæ amorem improbum reprimere poffe dicemus. Reprimemus igitur amorem improbum, fi offendemus vitia, et deformitatem rei, quæ male diligitur, fi infamia eX illa redundet, fi fufpicionem injiciamus amanti, aut perfidiæ, aut doli, aut frigidioris animi, aut injuriæ ex re amata profe&æ: fi adducamus amantem in defperationem rei exoptatæ; fi ponamus ob oculos nihil utilitatis, aut jucunditatis, fed damni plurimum, ac moleltiæ ineffe rei, quæ diligitur: fi affirmabimus puerilis efie naturæ, quem amamus, inqonftantem fcilicet, erraticum; faftidiofum: fi dicemus miferam fervire fer.vitutem, qui legibus amoris obfequitur; fi tandem infinuabimus peffime in rebus fædis collocari temporis illud quod aliqui majori cum fruftu voluptatis, et gloriæ confumere poffunt. Amor, five ille bonus fit, fi ve malus, multiformis exprimi potefl, five ut defcribatur, five ut excitetur, five ut reprimatur; et primo amatæ rei fibi femper reprehenfentat imaginem, habitum, incertum, motum; verba, geftus, vultum, femperque eft in peftore; et in rebus ipfis, qua: amantur; fecundo imitatur omnia, quæ in amico intuetur:’ idem cum eo lentit, idem loquitur: idem probat: dolet cum dolenfe, cum ridente ridet; negat cum negante; 3. focietate gaudet, ac præfentia amici, reditu gaudet, eoque abfente afpernatur omnia, cibum, fomnum &c. 4. in amicum liberaliter effundit omnia; 5. laudat, miratur, extollit fa£la, di£U, fpeciem, et dignitatem; 6. audet viribus, mente agitatur, doloribus, et curis anxius, et inquietus eft; 7. quæ fluita funt, et inepta facit, huc, et illuc volitat, has illafque ineptias facit; 8. vigil efl, et infomnis; 9. modo loquax eft, et garrulus, modo mutus; 10. timet non fua fed amici caufa; 11. nihil arduum, aut difficile reputat, fed pericula fubit intrepidus, fi quid forte aggrediendum fit, rei amatæ caufa 12. fufpicax eft, et carnifice cordium Zelotypia agitari folet 15. fui contemptor eft, proque re amata luperbus, et magnanimus mortem negligit, et pericula quantumvis formidanda, immo etiam te ipfum 14. conftans eft, ac firmus in amicitia 15. ftudia, exercitationefquc omnes oblivifeitur 16. fui oftentator eft 17. blandus eft erga amicum, contemptus vero ardet iracundia, exprobat vehementius, cbjicitque beneficia 18. ad lacrymas valde facilis eft 19. defperans eft, et ubi definit fperare, finem doloris eligit mortem. Quemadmodum amor animi motus eft, quo fertur in bonum, quatenus bonum eft; fic ODIVM eft animi affeElus, quo fe avertit ab eo, quod malum eji, vel certe malum exijiimatur. Odium inflammant, quæ amori, et benevolenti* adverfantur; quemadmodum virtutes, et eæ præcipuæ, quse fummam aliquam Reip. afferant cum utilitate dignitatem, vehemens funt incitamentum amoris; ita e contra ad inflammandum odium, admovent faces vitia omnia, et illa præfertim, ex quibus calamitates oriantur, tum in fingulos, tum in Rernp. uni erfam. Verum, ne omnia generatim dicamus, præcipua capita proponamus, per quæ vis odii gravioris in animis exardefeat. Odium igitur inflammabunt 1. incommoda, feu jaftnræ five futuræ fint in animi dotibus, five in bonis corporis, five in fortunæ donis 2. calumniæ, quibus maxime læditur nominis exiftimatio, atque hominum opinio 3. contemptus, quo non parva fit homini injuria, qui honoris retinens fit. Ex hoc capite odium vehementius incalefcet, fi perfonæ, quæ injuriam intulit, fpeciem indignam exprimemus; fi virtutem, et dignitatem ejus, qui læfus eft cum fcelerc, et indignitate comparemus ejus, qui Ixferit; fi tandem utemur comparatione minorum, et colligemus exempla magnæ cujufdam injuria:, qua: cum hac improbitate eollata, longe minor videatur. Quod etiam felicius prxftabit orator, fi fublimes quafdam adhibebit figuras, Hypotipofim prxfertim, qux injuriam ob oculos ponat, exclamationem, et Apoflrophen, quæ acrioreta faciant fermonem. Præterea ad inflammandum odium peridonea eft vitiorum expolitio, qua: in aliquo fint, ut libidinis, audaci*, et impudentia:, injuftitix, fuperbiæ, crudelitatis, avaritiæ, animi ingrati, nimia: potentiæ, et impietatis. Odium reflinguitur, fi in animo exulcerato lætitiæ fenfum aliquem ingeneremus, aut generofum quemdam impetum ad magna, et honorifica incitemus. Sed ad particularia remedia deveniamus. Odium igitur emollitur, fi res Ixtas, ac profpere fluentes proponas illi, quem ex hofle amicum habere volueris. Confert etiam plurimam ad fedandum odium, quod orator fciat, quibus de caufis fufeeptum fuerit, &quid fit illud, quod oderit hoftis in hofle. Quare fi vitiofum fibi perfuadeat, delenda eft hæc opinio ex ejus animo, fed occulte, et quali aliud agendo / ita ut in principio ei alfentiri videaris, et mox alterius laudes fubjicias/ Si odium proficifcatur ex injuria illata, tum ifta minuenda erit; vel fi qui læferit in repentinam aliquam calamitatem irrepferit, hæc erit deploranda, et fulis lacrymis profequenda. Poterit etiam ofiendi dolor, et pænitentia perfonx illius, qux lxferit. Denique quoties odii caufas fufluleris, toties et abfolveris odium. Dicas in alinm mutatum elfe, qui in odium venerat, vel propinquum efle, autneceflarium, ve) aliqua virtute nobilem fa&um, aut eruditione clariorem, et Reip. laboranti perquam utile, et neceffarium. Prxterea odium definiunt preces, et lacrytnx, quibus hominum animi facile emolliuntur. Rurfus fi dices, ipfum fibi nocere, qui alterum odit, levia effe illa, quas odii caufa fuerint, fapientem hominem do* Iere potius, quam odiffe fortem illius, qui cascus animo, et voluntate deerrans, caufam odii fecit; ad inclinatam, jacentemque fortunam, a florente, et erefta cecidiffe illum, qui odio dignus fit, odium facile remittes. Ut autem fciat Orator optime fe gerere, tum in concitando, tum in defcribendo odio, aliqua illius ef*. fefta enucleanda videmur. Odium igitur hofli malum imprecatur'; perniciem infert, et ulcifcitur; eam exprobat, quæ pudorem inferre poffunt, conviciis impetit, minatur; aperte fefe odiffe jprofitetur; ut crudelius noceat aliquando tegitur; ubi hofli perniciem attulit, plenum lætitia triumphat; ut hofli noceat, et fibi nocere non reformidat; adeo crudele efl, ut quafcumque pænas fumat, leves femper fibi videantur fempcrque acerbius aliquid excogitet; ita immortale,* ut ad nepotes tranfire peroptet; ita inflexibile, ut in bonam partem neminem velit, ita prasceps et furibundus, ut abeat in omnia fcelera,& veneficia; aliquando indignatur, queritur, gemit, defperat, fi decidat a fu is conatibus cum hofli perniciem expetit: aliquando folatur vindi&æ fpe; alterius confpe&um, confortiumque devitat, et exeeratur; importat denique omnia, quas amori contraria funt. DESIDERIVM efl appetitus boni dclcElabilis, fed abf entis. Affe&us ifte variis explicatur nominibus { >ro varietate rerum, quas defiderantur ? nam auri deiderium dicitur avaritia, honoris ambitio, voluptatis libido, inutilis fcientias curiofitas et fic de aliis. Cum autem tot, fere fint hominum defideria, quot homines, oratoris erit diligenter confiderare quo cujufque natura maxime feratur. Apud mercatores lucrum, et utitatem propones, apud imperatorem, et nobiles gloriam, et laudem, et apud alios alia, pro ut hominum, apud quos egeris, defideria mutantur. FVGA, qua: ex odio proficifcitur, quemadmodum ex amore defiderium, ajfeBus e/i, qui conatur recedere a malo illud fugiendo, Jeu dctcjiando. Orator in auditorum animis defiderium accendet, fi ea revolverit, qua: difta funt de amore, fugam excitabit, fi qua: de odio docuimus, mente recogitaverit. Ne autem omnino prattereamus, qua: ad exprimendos, reprimendofque afreftus hofce pertinent, aliqua, qua: defiderium tangunt, explicabimus, ut ex illis, qua: fuga: funt, facile colligere poflfis. Defiderium accendendum eft, cum aliquem excitare volueris, vel ad optimum flatum capiendum, vel ad ardua quxdam perficienda; et tunc ut affe&um iflum inflammes, rei præflantiam, ac magnitudinem exprimas oportet; laudem, ac gloriam commemorare poteris, vel illius, quem adhortaris, vel illam, qua: ex re optime perfe&a fibi certe proveniat, fpem eriges feliciter nancifcenda: rei; demum proponere tibi licebit difficultates, refque adverfas qua: obvia: efle poflunt in tanta re, fed adverte omittendum non efle majorem inde gloriam, et laudem fore nafeituram.' Ad coercendum defiderium ea omnia percommoda funt, quK de defperatione dicentur inferius, illud tamen facile reftringes, fi probes haberi non pofle illud, quod ab auditoribus expetitur; fi damnum multiplex, et varium, fi duram ex hoc defiderio nafeituram fervitutem defcripferis; fi in cohibitione defiderii pofitam efle vitæ felicitatem oflenderis, fi vilia efle, et inania, qua: appetantur, docueris; denique fi bonum non efle, fed tantum apparenter efle, quod defideratur edixeris. Qua: in defiderio poflunt defiderari ad deferiptionem illius, eadem funt qua: in amore; fed quia affeftus ifle ex bonitate rei defiderata: voluptatem habet, ex absentia vero dolorem, prxeipue illiu effefta ex i (lis nafcuntur: Qui igitur defiderio, ac frequenti angitur rei concupitæ cogitatione, (omnians habet ejusdem imaginem inter lomnum excitatam, cum re defiderata colloquitur, cum fylvis, et rupibus, iifque rebus omnibus, e quibus folatium fperat: erumpit inardentiora vota, querelas, et nuntios votorum fuorum zefiros optat: teftes quoque locos appellat; ad preces etiam humilis defcendit,& obteftatur; per quidquid rei amatæ gratum eft: dolet ex ablentia rei exoptatæ, in fufpiria erumpit, tetrofqfie gemitus fxdium rerum aliarum experitur quæ minus jucundæ funt, macie conficitur; narrare folet ambitiofius quid vldefideri i patiatur, ait fe diu, no&uque m illis cogitationibus effe, vias, &veftigia, et litora, et loca omnia relegere, ut aliquid dicere poffit et audire, unde cxpe&ationis fuæ fallat faftidium, afpirat, et anhelat in rem, quam expetit, mors impatiens eft, longiores fibi videntur dies, et breviflimum tempus annum putat; alas fibi addere vellet, ut ad rem amatam velocius accederet: vana, et impoffibilia interdum defiderat, nihil denique arduum, et difficile reputat, reperitque, dummodo optata re fibi liceat frui. De Gaudio, feu Lartitia. L iEtitia eft opinio recens boni prafentis, in quo efferri retium effe videatur: five fenfus boni prxfentis quatenus prxfens eji, cujus effetius ejl deletlatio\ boc efl tranquillitas animi in bono prxfenti Juavitcr acquiefeentis. Ad concitandam lætitiam duo fervare debet orator, fiilum fcilicet, et materiam. Stilus is effe debet, ut perpetuam quamdam feu occultam voluptatem ingeneret; quare utetur Orator argumentis exquifitis, novis, et ingeniolis; fermo occultus fit, et floridus, numerus fuavis,[& mollis i oratio tota figurata, plena acutis fententiis. Materia ea fit oportet, ut in ipfa habeatur ratio geniorum, quibus aguntur auditores; et quia aliis alia placent, ea funt afferenda, quæ cuique funt in delitiis. Sunt tamen quædam, quæ in nominum animis communem habent fenfum voluptatis, eaque funt commutatio malæ fortunæ in meliorem, comparatio propriæ cum aliena, bonum infperatum, novitas, et irrfolentia rei alicujus, confcientia virtutis, et innocentiæ, deferiptio rerum lætarum, ut viftoriæ, alicujus triumphi, ludorum, et hujufmodi; præterea locorum amznitas, florum, gemmarum, veftium, odorum. Infuper ipfa lætitiæ deferiptio animum excitat, fpeque fua oble&at; jdenique caufa lætitiæ calamitas eft improborum; cum fcilicet illos deprimi videmus, atque opibus, et honoribus fpoliari, quos przter jus, et æquitatem obtinuerunt. Ad reprimendam lætitiam reprehefentanda eft boni, unde oritur lætitia, aut turpitudo, aut brevitas: exponendi funt rerum futurarum incerti eventus, fortunæque dominantis arbitria, quæ nihil conftans, ac perpetuum pollicetur fuis; fed eos fallit afTiduis, et frequentibus mutationibus, afferendum videtur voluptati, et lætitiæ mærorem femper adhzrere, et triftitiam. Præterea coercebis lætitiam, fi in auditorum animis timorem ingerere fatages. Denique majoris boni fpc, aut cupiditate, voluptatem minoris imminues, vel potius abforbebis, et quibus dolorem excitare didiceris, iisdem lætitiam remittes. Ut autem lztitiam noveris pro rerum opportunita* ' te in aliquibus f aliquando reprehefentare: Hæc funt ejus effefta, et primo ciet lacrymas, deliquiis artus relaxat, mortem infert, corpori gratum colorem, floridamque venuftatem conciliat, ad choreas excitat, ad tripudia, et convivia, animum refolvit, et abjicit curas, timorem, et fenfum doloris; fucum detrahit, et Hmulationcm, Spem excitat, et amorem; facit, ut in gratulationes erumpamus, et alios ad hilaritatem in citemus, provocat defuieriutn earum ? rerum, quæ gSu* dium augere (olent, cietque nos, ut Optemus foles fulgeie melius, terram luxuriare floribus, mella fundere flumina, montes fudare balfama, præterea qui lætantur, cum aliqua delegatione præterita pericula enarrant, erumpuntque iit votaV optantque eamdem diem voluptatis caufam fa-pe redire, verlantur in cogitatione, ac delegatione boni, quo fruuntur, gaudentque libi prorogatam vitam, ut ea videant, ex quibus voluptatem capiunt. Affe&us ifte exprimi folet in epitalamis genetliacis, et orationibus, quæ fiunr in adventu virorum, et Principum in triumphis, feftis diebus, aliifque hujufmodi argumentis, quorum exemplis artificium exprimendæ lætitiæ nos docebit antiquitas. Dolor, feu trifiitia fenfus efl ex opinione preftntis mdlt. Affe&us ifte exprimitur iifdem fere rebus, quæ odium concitare foient, valentque plurimum hipotipofes, qux caulam doloris exprimant, oculifque fubjiciant; Sunt enim quædam præcipua, quæ dolorem vehementius acuunt, ut confanguineorutn vincula, irortds, funera, bonorum amiffio, vexatio rerum, quæ funt nobis invita charifiimæ, et jucundiflfimæ. Dblorem ler.iet Orator; fi naturam mrii (peftaverit, unde oritur dolor, alia quippe dicenda funt, fi de exilio agatur, alia, fi de morte, alia, fi de bonorum jacfura, ceteiilque fortunæ acerbis cafibus: funt autem communia hæc capita mitigandi doloris, innocentia affli&i, qua orator oftendat, innocentiam non pffnam fteleris fubire,fed ob facinus aliquod egregium, vita£ conditio, quæ patiendi neceflitatem affert inexplicabilem, fortunæ inconftantia, quæ fuos muneribus ampliffimis orna os flarim ex alto præcipites agit: exempla virorum illufirium, qui eadem immo, et «lamna multo graviora fortiter tolerarunt r gloriæ mef izp fis, quæ ex conftantia colligi poteft. Infuper triftitix lenimentum dabis; fi docueris fortis efie viri nec adverfis frangi, nec profperis infolefcere; fed ubique parem animi conftantiam retinere; fi dixeris præmeditatum fuifie malum, quo quis dolet; fi perfuaferis inutiles efie lacrymas, nec tales,, quæ malum repellere pofiint; fi animum itfbcaveris a rerum cogitatione, qua: horrorem excitant; fi monueris ex divinx voluntatis arbitrio femper et ubique vivendum; five lenitur, et blande nobifeum agat; five ad virtutis exercitationem, et præmium afpera, et dura nobis evenire permittat; fi animum ad ftudia litterarum convertas; fi earumdem miferiarum focios habere pronunciaveris; Sin autem de vita funbis agatur, dolorem de illis minueris, et ex fiatu melioris vitse quam funt confecuti, et ex commendatione rerum ab illis prxclare geftarum. Trifiitia prxoccupatus homo hos fentit fui doloris effebus .* effufus eft' in lacrymas; nullis delebatur, nifi trifti rerum imagine, fquallore corporis, vefte fordida, neglebo capillo, genarum, et capillorum laceratione, percuffione peboris, et foemoris, contrabione frontis, dejebione luminum, folutione membrorum, ac potifiimum brachiorum.* dolorem fecum oftendit: odit lucem, et confpebum hominum; in folitudinem, et fylvas fe abdit, et cum ipfa interdum loquitur folitudine; filens obllupefcit, et ad lacrymas impotens quafi lapideus torquet: in querimonias abit; calamitatem fuam, ut inopinatam, deplorat; fi dolor ingens fit, diuturnitas temporis dolorem confirmat, augetque, fi levis, imminuit.* mollis eft et viribus frabus, ac mericulofus: prxfentem calamitatem cum felici fuperiore fortuna componit; eumque dolet, et queritur; profitetur animum fibi præfagum fuifie calamitatis; læta omnia fpernit; velletque in focietatem lubus fui, non modo homines trahere, fed etiam fylvas, et bruta; invehitur acerbius in eos, qui fibi caufa fuerunt mæroris, et lubus, conliliumque omne refpuit: defperat ex impatientia mali; fuperos crudeli I tatis Deprimitur audacia propofitis periculis, et virium imbecillitate: commemorando nimiam virtutem plus fæpe nocere, quam prudeffe: fidendum non effe fortunæ, fi lemel faverit; fragile totum eflfe, quidquid in hominibus, aut in rebus, efi, robur, fanitatem, opes, dignitates, potentiam,* neque in iis reponendam fpem. Audax homo, fi quem defcribere occurrat, periculum nullum reformidat, aut rejicit; fed ad omnia paratus eft; periculum elevat, illudque ridet, et infultat; armorum afpe&um gaudet, atque equorum fremitus, bellique avidus hofiem ad pugnam iaceffit; materiam quærit exercendæ virtutis, qua; fi non adfit, ludicram pugnam fingit in animo, et in fomnis bella meditatur; fuperbia elatus in fe uno fpem omnem figit, nec ab incepto revocari fe patitur: gloriæ (limulis incitatus cupiditatem incendit, et ardorem mentis acuit ad ardua.- magnifice dc fe loquitur: Superiora facinora repetit,'doletque., parum fibi credi: fibi fpondet omnia ^ felicemque rerum exitum pollicetur; fc votis fuis potitum extfiimat, cum alii fpem nullam vident: Ii per ægritudinem, vel grave Senium, aut rem alum non poflit, quod antea, dolet ademptam fibi facultatem agendi, optatque redire vires priftinas in pefruantur optatis; fi eum, in quem iram accendere vultis» dolo, fraude, ac verborum integumentis uti dicatis. fi ingratum, ac beneficiorum immemorem efie: ii cum offenfione id beneficium negare, quod fibi deberi arbitrantur.* fi obtre&ationibus horum aures præbere, quos angi putant oportere; fi de illorum honore detrahere, vel apud eos, quibufeum de honore contendimus, vel apud eos, qui nos magni faciunt, vel apud eos, qui nos verentur, et obfervant. Nota ad amplificationem injuria: referenda efie verba, geftus, a&iones, omnia ad contumeliam compofita; lubjicicnda efie oculis per hypotipofim, et Ethoparjam; opus efie indignatione, et epiphonemate, et fimilibus figuris; virtutes ejus, qui læfus eft, cum vitiis ejus, qui lieferit, præferendas; variis exemplis exagerandum faftum; fifoli, fi primo evenerit; fubjiciendum damnum, quod inde fufpicatur.* dicendum turpe efic non ulcifci, et fine ultione æftimationem penitus perituram: deinde docendum fpem efleulcifcendi, eamque juxta præcepta incitandam: fiudiofe captandam temporum, et locorum occafionem, ut fi doleat animus; fi cupiat; fi corpus male affe&um fit; fi laboret aliqua fufpicione, tunc etenim promptiores fumus ad iram &c. Cavendum Oratori, ne crudelior appareat in puniendo; ne majores ex atquo pamas repofeat: ne denique intemperanter furere ipfe videatur. Sed decorum fervet, incenfus fit, et grandiori orationis genere utatur. Mitigatur ira iifdem ferme rebus, quibus mifericordia excitatur; orator vero amorem in dicendo præfeferat, et venerationem ejus, quem mitigare contendit, doceatque nullam illatam efie injuriam, vel culpam non fuifle voluntariam; moneat eum, in quem iræft, potentiorem efie, et dignum omni veneratione, et cultu, nec tutum efie cum illo habere inimicitias; abeo prius difceffiflfe injuriam; eum, qui lzferit, demitto anino mifericordiam Suppliciter implorare, jam depreffum, viftumque hortem efle; injuriam latam tuifle non per contemptum, fed per dolorem, et iram impotentem in eo, qui lzfus eft, eumdemefledefeftum, propter quem in alium irafeitur: proprium fortis animi cfle iram vincere; enumeret damna omnia, quæ ex ira accidunt irato: excufet perfonx lædentis conditionem; ut et imminuat contumelias: deferibat irati hominis turpitudinem; dicat iræ primum nafcenti e fle occurrendum, ne in perniciem noftram adolefcat; perfede enucleat, optimeque cognofcendam det illatam contumeliam; proponat, quæ illa fit, et quo animo fada, ne ira perturbatæ rationis major videatur; rurfus infinuet gloriofius cfle hortem fervare, quam perdere morte, ad vitam revocare, quam licet meritum ad mortem damnare; eam efle veram de horte viftoriam, quæ nulla venia, dignos clementia fuperat, ac bonitate; ad Deum propius accedere, qui dat falutem immeritis, dum vitia profligantur; denique ad fle&endum iratum exoptanda ert opportuna temporis ratio, expe&andumque tantifper dum fe fregerit impetus iræ, eligendumque potiflimum tempus illud cum honore, aut lucro aliquo recens affe&us fit .* cum judicio vel armis hortem vicit, cum ludis, vel conviviis, vel hujufmodi vacat. Ad deferiptionem hominis irati, irx effe&a funt hzc; rationem perturbat, et ob mentis inopiam cæco, ac przcipiti motu ad furorem inflammat; totum adeo corpus deformat, ut in alium mutatus homo videatur; oculos, et vultum in ignem accendit; hominemque præcipitem agit; ulcifcendi fefe flagrat cupiditate: inferendæ ultionis diligenter occafiones obfervat, eoque periculoflus, quo fimulatius; in defperationem abit, fi potertas ulcifcendi non detur.* prorumpit in contumelias, et imprecationes; excandefcit, et indignatur, quod Dii non ulcifcantur injuriam; terrere gaudet eos; in ipfos irafeitur, et minas addit maledi Rb et oriæ P recepta &is; voluptatem capit fi dc inimico ulcifeatur; eoo* temnit eos, in quos commovetur, et contemptu contemptum ulcifcitur,* contemni fe dolet, graviterque patitur fefe interdum fperni > dum minas fonat, et fupplicia; amplificat, quantum poteft, contemptum fui; commendat fe pluribus, ut ex eo capite augeatur contemptus, et ex contemptu ira .* eludit eorum refponfa, qui eum placare volunt: poli contumelias, et injurias incufat fe quod occafionem ultionis oblatam non arripuerit, eamque revocat defiderio multo gravius irafeitur, et (e magis excruciat, fi fpes ultionis adempta fit; pznaro non concupifcit, quam non fperet, fortunæque inconfiantiam ingerit, quæ pofitos in fupremo dignitatum faftigio, deturbet præcipites. Mansuetudo ab Arift. definitur deprejfio, atque fedatio ira. Ab ira ad Manfuetudinem animos traducet Orator, fi fufpicionem contemptus ab illis tollat, doceatque fentirc de ipfis, ac dici magnifica; fi moneat per impudentiam, vel aliquo alio cafu,non certo confilio lapfos effe, qui eos offenderunt, vel præter voluntatem deliquiffe humano errore deceptos, et necefiitate coaftos; fi oftendat culpam cum dolore fateri, qui eam admiferunt; fi afferat fupplices fedemittere, et puniendos ultro permittere, qui offenderunt, fi beneficia commemoret ab eo fufeepta, de quo eft contemptus fufpicio; fi fub orationis initium non pauca dicat, quibus qui læfus-fuit, intclligat fe diligi ab eo, qui læfitj fi pronunciet eos, a quibus læfus eft, graviores pænas pependiffe, quam ipfemet exegiffetjfi virtutes, et res pratclariffime geftas ab co prædicet, qui læferit; fi fenfim metum ei injiciat, in quem exardefeit; fi fupplicem, ac deprecantem, qui fecit injuriam, inducat; fi proponat cumdem femper effe cum omnibus i fi adferat, exemplifque probet, non exguam gloriæ mertem manere eos, qui iram manfuetudine vincunt, miferumque erte crudeliora meditari, ac facere: fi tandem affirmet, feveritatem cum lenitate mifcendam; licet enim iracundia inftrumentum fit virtutis; inclinandum tamen eft in mitiorem partem; et fi peccandum, remirtione quam crudelitate, melius, aut tutius peccandum. Manfuetudo defcribitur moderatione vultus, et Termonis; orationis illecebris, et fuavitate; modeffia totius habitus: et demum iis omnibus chara&eribus, quibus poetæ pacem adumbrant. Claud. omnia Martis infirumenta, fub Clementis pedibus fubjicit. Misericordia eji motus animi, [eu dolor quidam fufceptus ex cogitatione mali alterius, quo fe, vel fuos affici pojfe videt, qui miferetur. Hinc elt, ut ad miferationem moveatur; qui adduci poreff, ut ad femetipfum, vel ad res fuas revocet, quæ de altero deplorantur,- non autem ille, qui nihil tale fe pati poffc credit. Ad commovendam mifericordiam plurimum valet augere extra modum calamitates, et incommoda, ex qumus eam natam volumus, quod potirtimum fieri poteft comparatione intur prioris fortunæ felicitatem, et fequentis mi feriam.Movet etiam hunc affeSum affli&a, calamitate feneftus, et adolefcentia, fi recordatione fui fuorumque auditorum fenfus leviter pertentet Orator, ut prsffat Cic. in Pif. Mors præterea propinquorum, et orbitas, corporum vexatio, morbi inopia, exilium; quarum calamitatum comitem præ miferatione feipfum Orator offerat, ut mifericordiam vehementius accendat. Attingat Orator fingulas circumrtantias: perfona: quæ cruciatur, aut crucianda ert; videatur, fi fuerit innocens, fi præcellens aliqua virtute, fi litteris exculta; fi fortis an imbecillis in tormentis; fi florenti, an tenera xtate; fi tandem iis valeat, qua folent in generare fcnfum doloris molliorem ætatis; fi in adoleicentiæ flore, fi in cadente feneftute excrucietur; et hujufmodi; loci, fi coram iis patiatur quos calamitatis teflesminime vellet; temporis, fitum exitium patiatur, cum laborum mercedem fibi pollicebatur et præmia; caularum; fi aliorum injuriis non propria culpa calamitas fibi obvenerit; finis; fi virtutis caufa infelix repente extitit; modi: fi quis nobilis, fi quis fapiens, fi quis in dignitate conftitutus fubiturus fit idem fupplicium quo plebei homines folent animadverti; fi perpetuam quamdam malorum feriem patiatur; fi nihil unquam boni percipiat, fed unius mali finis gradus fit ad lubfequentia graviora. Præterea modefle petet Orator, quæ pro fuis vult ab auditoribus, oflendatque; occulte tamen leve efle, quod petit homini calaraitofo, ærumnas cum aliis comparet, dicatque calamitatem fuperiorem, tametfi graviflima fit, levem tamen etiam cum graviore præfenti comparatam; utatur obfecratione,depreceturque auditores per quidquid eis gratiflimum efl; fermocinatiojiem adhibeat, et per Dialogifmum loquentes inducat, tum eis qui acceperunt injuriam, tum qui intulerunt, figna doloris palam exhibeat: ita Erutum confodiam Lucretiæ corpus, Antonius interfe&i Cæfaris togam adhuc cruore flillantem P. R. produxit; videat tamen ut id prudenter, non frigide fiat. Rurfus fenlum hunc auditorum animis injiciat, quod nihil acerbum fit in vita, quod non ducant evenire pofle fibi, aut amicis, aut ceteris hominibus, doceatque nihil magis decere hommem, quam efle humanum: Denique caveat, ne muliebres unquam Nænias habeat, fed femper graviter doleat; cum procul abeftalacrymis, non dicat ab illis fe retinere non pofle, gemitufque vocem intercludere; hoc etenim puerile efl: non ambitiofe conferetur tropos, figuras, et periodos, fed ita orationem fuam contemperet, ut non videatur parata, fed dolore potius elicita. Mifericordia reprimitur; et iis, quibus inflammari diximus iram; et iis, quæ de invidia dicenda fuperfunt. Quod fl auditorum animos jam firmiter occupaverit mifericordia, fenfim, et quali aliud agendo, erit remittenda; quod femper obfervandum erit; cum vehemens aliquis affc&us erit extinguendus. Præterea mifericordiam infirmabit orator / fi rerum calamitate, qua quis premitur, dignum probet; fl doceat nulla miferatione dignum effe, qui judicesad mifericordiam deprecatur; fl dicat juflumefTe, utmalismaleveniat, fl offendat fe de eorum fupplicio gaudere / fl tandem efficiat, ut judices, aut invideant bonis adverfarii, aut de ejufdem malis lætentur, aut indignationem aliquam concipiant ob vitæ pravitatem. Qui miferatione tanguntur, faciunt, quæ fequuntur. In lurorem, et jnfaniam vertuntur, eaque admittunt omnia, quæ dolentis conveniunt/ triflitiam vultu, lacrymas oculis, gemitus ore præfefcrunt, fpiranti fimiles: funt taftis fæpius deliquiis: corpore, et corporis indumentis fquallidi funt, et fordidi; infortunia repetunt, etfi ea ab aliis audiant, fuis lacrymis, et fuo dolore pafcuntur: fenfum præferunt alieni doloris, ac profitentur; non minus aliorum infortuniis, quam fuis, tangi, optantur accidiffe flbi, ut faltem illorum aliquam partem cupiunt. Indignatio, quæ locum habet in genere deliberativo, J[ et judiciali dolor efi perceptus ob res fecundas alterius, qui illa fortuna judicetur indignus. Difcrepat ab invidia, quæ bona digni etiam hominis infeftatur; et quemadmodum mifericordia refpicit malum; fle indignatio bonum refpicit immerentis. Bona vero hoc loco non intelliguntur, quæ animi funt, nec quæ naturæ; feu fortunæ, ut funt divitiæ, opes, potentiæ, honores, amicorum copia, et hujufmodi. Indignatio concitatur; fi vita: prioris forditas, ac vilitas cum pra:fentis temporis opibus, ac potentia conferantur; fi quam dicamus per vim appetere ea, quæ illi minime competunt, ut abutatur iis ambitiofe prodigus, in aleis, conviviis, et commefTationibus; fi eumdem inferamur, quia infolens, et improbus alicujus bona effufis largitionibus diffiparit, vel in profundum libidinum fuarum gurgitem immerferit; fi inferiorem doceamus, cum fuperiore contendere in eodem ftudio, vel honoris æmulatione; fi divitias, fi honores alicui præter meritum contigifle adferamus; quod tamen cum diftin&ione agendum videtur, ut hæc apud eos dicantur, qui fibi eadem mereri videantur; fingula tamen apud fingulos juxta cujufque meritum. Sedatur indignatio, fi cui indignantur; cum dicas virtute, ac rebus præclare gefiis bona fibi comparaffe, non recens ascepiffe; fi probes ingeniofum, ac nobilem nunquam degenerem animum habuiffe, ac proinde naturam ei femper favifTe; fi moneas jampridem bona illa poffediffe, nec iis unquam ad fcelera, velinReipublicæ aliorumque perniciem abufum fuiffe; fi doceas non arrogantem, et fuperbum in meliori fortuna fc prsebuifle, fed modefium, et communem, eumque de aliis magnifice, de fe humiliter locutum fuiffe. Indignatio deferibitur admodum libera, quæ amplificet vitia, vel in malam partem virtutem detorqueat, nec fortem, fed temerarium, neque prudentem, fed ignarum eum dicat, in quem indignatur furens, et amens, quæ fibi interdum violentas afferat manus; irreligiofa, qua: in ccelefie numen obftre&etur; exprobrans, qua: recenfeat ea, qua: recenfeat ea, qua: ab ingrato fafta funr, et alterius improbitati cum aliqua eorum exageratione beneficia opponit. Denique indignationis cffe&a eadem pene funt, qux in iracundia. Invidia, quæ locum habet in genere judiciali poti (fimum, ejl dolor de profpera forte, qua alicui prope pari evenerit, non quod, qui invidet, commodum ex eo percipiat; fed quod nollet eos, quibus invidet, bona illa polfidere; quia fuam putat immunui dignitatem. Invidiam concitaveris; fi doceas homini improbo vel citra laboris, ac periculorum aleam turpi quadam gratia contigiffe bona, ut dignitates, opes, honorum titulos, quæ ceteris non nifi fummo diferimine cottfequi poliunt, li dicas eum ob divitias, fecundamque fortunam ita infolefeere, ut prx fe alios arrogantius contemnat; fi commemores eum celeriter aut nullo labore, vel parvo fumptu confecutum fuiffe, quod alii magnis fumptibus aut tarde, aut plane nunquam alfequuntur; fi ofiendas alienæ laudis æmulum, ambitiofum, multa molientem, nocentem, tum auditorum, tum aliorum glorix, cumdemque dedecus ex aliena fortuna quxrere: fi in auditorum animis laudis imprimas (ludium, et ardorem glorix retinendx; fi proponas antiqux familix decora, et ipforum proprias virtutes, vulgique honorificam de iis mentionem ;& contra, fi vulgi recites honorificam mentionem; de eo, in quem movere invidiam fatagis; fi exageres populi in illum animi voluntatem, et propenfionem; fi deferibas multitudinis voces, et prxeonia, modo tamen laus illa fuptrari facile poflit, et impediri. Prxterea ad concitandam invidiam profuerit nofle mores eorum in quibus excitare volueris; quare eam concipere folent, pares loco, gente, cognitione, xtate,lcientia, dignitate, fortunis, qui denique pufillo funt animo, ut opifices, foeminx, rullici. Reprimitur invidia capitibus contrariis, ac excitatur. Quare bouum minuas, cui invidetur .• merita illius ollen oftendas, qui illo potitur nullam tailam efte injuriam demonftres, ac doceas illum fortuna: bonis, atque honoribus, honefte, ac moderate uti: dicas non fuis, fed aliorum commodis bona illa adhibere, quæ invidis funt incitamenta; parta fuifie laboribus, ac mife* riis; adferas ingentis animi ede, fi magna in aliis quis fpedet, nec virtuti, nec felicitati invideat j aperias damna, qua: invidiam fequuutur; ipfa etenim partim lædit eos, ad quos intenditur, dirius vero, a quibus procedit, quippe qui fua fine fine fubllincnt fupplicia. Invidis delcriptio præclara eft apud OviJ. met. 2. fab. 12. at eadem fere habentur apud Scaliger. inAppend. Virg. Ceterum fsvit ipfa in parentem ejufque interiora in modum tineæ depafeitur: fimulat gaudium: non vult videri invidere: trillatur, fi invidis nota. afficiatur .• Unum expedat mali folatium, fi cui invidet, ex alto prscipitem datum adverterit Virtuti inimica eft olfentat fe magnifice, virtutifquefus prsco nobilis; alios facile contemnit 5 qua poteft animi vocifque contentione rivalem fuum infedatur et quantum poteft veteras commendat, et extollit, ut.recentes deprimat, cum rivali eod. timida femper, et querula veretur ne fi quis honorem confequatur, gloriam fuatn ille fplendore fuo obfcuret; aliens felicitatis inimica eft, in odium, et ultionem inflammatur, vitiorumque omnium radix eft. Enulatio eft dolor ex aliena bona fotte fufeeptus, / l i non quod id alteri contigerit, fed quod nos illa careamus. Differt ab invidia, qus fi pollet, aliqua ratione fpoliaret bono, quod in alia perfona animadvertit . Æmuiatio autem fieri talis defiderat, qualis dida perfona eft; &ficex amore, et ftudio virtutis hsc oritur: Illa e contra ex malevolentia, et odio. Concitatur smuiatio majorum virtute egregie fa K dis cum jam fatis multa di&a fint ubi de elocutione fuperius. N Rerum dilpofitio duplici modo fieri poteft, aut ex arte) aut ex tempore. Si ex arte ) eum ordinem habeat oratio, quem fibi præfcribit ars, ut fcilicet primam ejus partem complettatur exordium, fecundam narratio, tertiam confirmatio, quartam epilogus. De argumentorum dilpofitione paulo ante di&um eftj hic (atis erit annuere, quod ea præcedere debent, ex quoram intelligentia cetera pendent. Ceterum quid primum, quid poftremum effe debeat in oratione, quid adhibendum fit in fingulis caufis, non facile definitur. Unum, quoad fieri poteft, nafcatur ex alio, fitque mutua quædam inter orationis membra connexio, quod fiet, lilervetur ordo propofitus, et in divifione promiflus. Ad hanc rem commodæ funt tranfitiones, quibus ab uno vel argumento, vel orationis capite devolvimur ad aliud; in delenfionibus cum refpondendum eft adverfario, fequi illum ordinem debemus, quem ille tenuit. Ceterum hæc difpofitio tota pendet ex prudentiæ methodo, quæ quid locus, quid auditor, quid caufa pollulet, oratorem docebit. De difpofitione paflim difta funt multa inter has rhetoricæ præceptiones; unde nihil ultra progrediar, utfiatim agatur. Memoria adeo neceflaria eft oratori, ut ex Ciceronis mente omnia præclariffima in eo peritura fint, nifi inventis, et excogitatis adhibeatur memoria, ex qua tamquam ex thefauro, et pcenu dicenda promanant. Duplex eft, alia a natura, alia ab arte. Quæ eft a natura, exercitatione augetur adudua mentis agitatione, et frequenti rerum meditatione adjuvatur;, fi per partes edifcatur oratio; (i delicatis herbis vefcamur, fi optima ciborum digeftio; fi cibi 9 potufque parfimonia, et a crapulis abftinentia confervetur. Quæ eft ab arte parum prodeft, ni fuam vim accipiat a natura. Adjuvatur tamen quibufdam imaginibus, quibus reroinifcentia excitatur; quare proderit lingulas periodos lingulis a capite inlcriptis numeris apponere; rurfus quæ pars orationis e. g. de navigatione, ea connotari poterit anchora; quæ de bello armis; quæ de re ruftica, ltgone, et fic de aliis; tandem proderit, nullo affeilu vehementiori concitari, et cogitationum multitudine minimi diftrahi. Pronunciatio inter orationis partes ordine poftrema, fed prima poteftate, oratoria artis totius omnem in fe continet vim; omnis enim oratio languet, evanefcit, emoritur, nili eam aftio animet varietate vocis, motu corporis, mutatione vultus. Idcirco nemo inter oratores fummos adfcribendus, qui voce infuavi, et immoderato geftu oculos auditorum, et aures male afficiat. Patet igitur bona: pronunciationis elfe, vocem moderari et geftum. Vocis duplex eft proprietas, quantitas, et qualitas, e quibus tum vitia, tum virtutes illius eveniunt. Vitiofa igitur erit vox primo fi fit pufilla, qualis eft eorum, qui pipire magis, quam loqui videntur. Angufta quæ non implet auditorum animos. Si fubfurda, qua: non exprimit verba, fed in faucibus emoritur. Si confufa, qua: non diftinguit fonis, et articulis, quæ dicit. 5. Si rudis, et intra&abilis, qua: magno negotio fuum peragit curium. Si alpera, quje flrepitu aures offendit; fi difcer pta, quæ imparibus fpatiis, et fonis dilaniat orationem; fisenea, qua? vehementi Velut aris tinnitu, ferit aures; fi acuta, quæ fonantius quam par efi, eaidcm penetrat.Vox fuas habebit virtutes. Si erit alta, quæ firmis fparfa lateribus aures impleat pleniffime. Si eicelfa, quæ et plenios audiatur, et durabilis fit. Si clara, qua; clare perfonet. Si prægrandis, qua; admixta fuavitati laudatiflima efi. Si fuavis, flexibilis, culta, rotunda, traftabilis, volubilis, dulcis, canora, et plena. Advertite vocem accommodandam effe rei, de qua agitur; ficuti enim non convenit in frigidis exclamare; ita ridiculum foret in gravibus languefcere. Proferatur perpulfa animi motu, ut ex perpulfis fidibus profertur fonus. Lætitia lenem, hilarem, tenuem poflulat vocem; metus demiffam, abjeftam, timebundam, exhitantem, commiferatione plenam, flebilem, interruptam, ira acutam, incitatam, incidentem; mceftitia gravem, et fono depreffam y et demum tot fiant vocis mutationes quot erunt animi affe&iones. Illud infuper univerfis præcipitur, quod depreffa vox adhibeatur in exordiis y ita tamen ut poflit audiri, necnon verecunda, temperata, venufta, et lenis. In narratione aliquanto elatior, et quodammodo familiari fermoni proxima fit. In expofitione validiorum argumentorum vehementior, acrior, et levior, et juxta naturam rei nunc attollatur, nunc deprimatur, nunc arrideat, nunc abhorreat. In conclufione attenuata fit, et æquali fono probata, fi hortamur, fi conquerimur depreffa, et dillin&a crebris intervallis: fi enumeramus, quadam incitatione gravis. Geflus, quem mutam eloquentiam appellavit Tullius, tanti eft ut moderetur, ut quoniam per illum animi fenfus dignofeuntur, fatis inepta fe gereret, qui iis, qua: profert, geftum non accomodaret. De eo multa priecipiuntur/ en vobis magis neceflaria.Vitanda: funt leves, et hiftorica: gefticulationes, quæ fingulis verbis geftum efformant j quare Orator meminerit, fe faltatorem non efle, et ad fenfum magis, quam ad verba geftum accommodet. Componendus eft vultus decenti eompofitione, ita ut refla fit facies, non detorqueantur, non mordeantur labia, non corrugentur nares, non immodicus hiatus difiendat riftum, non fupinus fit vultus, non dejefti in terram oculi, non inclinata cervix, non elata, aut deprefla fupercilia, non rigidi, non extenti, non languidi, non torpentes, non lafcivi, non mobiles, non pofcentes, poUiccntefque aliquid oculi eife debebunt Peftus ad ventrem projicere indecorum eft, variare fupra modum extando, deforme j quibus, fi motus accedat, prope obfccenum. Vultus Sententiarum fenfum præjudicare debet j quare cum ridentibus rideat, cum triftibus mæreat, cum iratis itetur. Oculi, caput, facies tali geftu conformentur, ut fenfum exprimant j brachium, et manus aflionis potiorem partem fibi vindicant, habentque plures fignificationes: brachium tamen tanquam telum adhibetur in contentione potiflimum, in narratione non nimium, fed cum decore movetur. Manus hinc inde extentæ difponantur intra fuggeftum, dextra incipiat motum a medio peflore, tendatque in latum dexterum mediocri diftantia, aliquando reflo, alias flexuofo duftu, prout membrum uno, aut pluribus conftabit incifis j geftus enim uti cum voce inchoandus, ita protrahendus ad finem vocis, et fenfus. Si periodus conftabit tribus, vel quatuor membris, fecundum, vel tertium occupet finiftra, qua: cum dextera ultimam, totamque claudat fententiam, iterumque deponenda manus hinc inde intra fuggefti limbum, Rbetoric H iEC oratio habetur in natalitiis hominis alicu jus. Ejus exordium fumitur. Ab aliqua circumflantia loci, vel temporis, aut perfonarum. A publicis votis, precibus, et facrificiis, qus ante nativitatem, et poft illam fafta funt. Ab antiquorum ritibus. A fabulis. Ab aliqua hifloria, feu fa£lo infigni Ab exclamatione, et larto plaufu futurorum bonorum. Confirmatio multipliciter abfolvi potefl; nam fi nativitas fatis uberem fuggerat rerum copiam ad juflatn orationem, his poterit efle contentus laudator. Sin minus, incipiendum erit a Patria, parentibus, fplendore natalium, prodigiis, fiquæ præcefferunt; rurfus attingere poterit Orator nativitatis circumflandas, locum, tempus, antecedentia, confequentia, auguria, di£la, oracula, fomnia, concurfus rerum variarum in id tempus. Item auguria fiqus puer ipfe det futuræ virtutis, et fortunæ; quæ quidem divinatio peti potefl, vel ex iis, quæ nativitatem, aut puerum ipfum nafcentem attingunt, vel ex genere, facie, futuraque apud parentes infantis inflitutione. Peroratio vota continet, fauflafque precationes puero, et parentibus, ut ille ad multum tempus felix vivat, et fuis, et Patris ornamento aliquando futurus. Item provocabit ad lætitiam, defiderabitque, utcrefcat infans ad cos honores, apud quos patus efl; divos aliquando, feu virtutes producet contendentes inter fe, cui potiflimum fit ille puer primum natus. Oratio Genethliaca, quæ dicitur adulto, partim coalefcit ex fuperioribus præceptis, partim non jam tigna, et prsfagia futura: virtutis attingit, fed Virtutes N a ipfas recenfet, aut amplificat, dicitque aufpiciis, et ominibus jam fatis refpondiffe virtutes. In peroratione optandum, ut fxpe diem illum natalem celebrare contingat, utque lætior femper recurrat, illiufque ortu ita gaudeamus, ut nunquam audire velimus interitum. De Oratione Luftrica. H iEC oratio dicitur Lufirica, quod dies ille, quo nomen infantibus imponebatur luftricus apud veteres appellabatur, habeturque in nominum impofitione. Exordium ducitur, vel a circumfiantiis, vel ab aliquo ritu antiquo in imponendis nominibus, vel a lætitia communi, vel ab honoribus, quos ille prius retuliffet, cui nomen imponitur, vel certe dubitando exquirere poterit orator, quo præmio tam præclara: res geltte donari potuiffent, et ad nomen defeendens nulJum inventum docebit majus ipfo nomine, dequo breviter dicet præmium effe virtutis. Confirmatio, vel una, vel duabus contineri partibus poterit; fi una, eam inllituat Orator ab iis locis, quæ in commendationem nominis cadere poffunt; a compofitione fcilicet cum aliis præclaris nominibus; acaufis propter quas impofitum fuit, et ab ipfa nominis fignificatione; fi aut omnes virtutes ea complebatur, aut omnium maximam, aut omnia, quæ in omnibus nominibus effe poffunt. Si duabus, in prima ponantur tes gefiæ, ac virtutes, propter quas nomen fuit impolitum; in fecunda nominis excellentia laudetur, inftiruaturque collatio tum perfonarum, tum hominum, tum caularum, propter quas aliis etiam aliud nomen impofitum fuerit, five hoc fiat per fimplicem comparationem, qua paria omnia effe dicantur, five per contentionem, qua qui laudatur probetur effe fuperior. ^pilogus occupatur in votis, et faufiis precationibus, gratulationibus, et adhortationibus, ut tanti nominis gloriam fubfiineat, ac tueatur. De Epithalamio, feu Nuptiali Oratione, Epithalamium habetur in nuptiis. Ejus exGrdium inchoabitur, vela lætitia, fefiaque diei celebritate, vel ab argumenti difficultate; vel a caufis, curO* rator ad dicendum acceflerit, vel a commodis, optimaque conjugii æflimatione. Confirmatio i. per modum panegyris laudes fponforum continebit; five a Patria, parentibus, aliifque laudationis locis, five per comparationem unius cum altero, ut nullus alterutro dignior eft potuifTe offendatur, five per collationem nuptiarum hujufmodi cum felicibus antiquorum nuptiis, five per certamen aliquod, aut inter divos, aut inter homines, aut inter virtutes contendentes invicem in conferendis variis muneribus recenter nuptis. Juverit etiam comparationem inflituere inter genus utriufque fponfi, ut ex illa confiet fimilem fimili conjungi, quam quidem comparationem ornare aliquando poterunt fymbola quædam ab antiquorum ritibus accepta, puta a floribus, feu frondibus, quibus, nuptorum coronæ antiquitus intexebantur, ut fponfum uno fponfam altero exprimamus fymbolo. 2. Poft celebratam fponfi, fponfæque affinitatem, qua: ex illo matrimonio contrahitur, commendari nuptiæ poffunt ex iis, quæ inde creduntur proventura, aut ex aliis felicioribus matrimoniis, quæ inter eafdem familias olim intercefferunt; laudantur fponforum parentes, ad laudes quoque eorum excurritur qui ad nuptias celebrandas convenerunt, et ad commendandum thalamum, domum, urbem, ubi nuptiæ fatis funt. Finguntur liberi coram parentibus lufitantes, five a?ta N 3 te crelcente maxima meditantes. Ad nuptam, et virum cum laude convertitur fermo, utrumque ad lætitiæ fenfum excitando, et in fpem adducendo fobolis virtutis non imparis. Epilogus vota facit pro liberorum felici proventu, ut parentes thalami pignora cito confpiciant, diu felicem vitam degant, et diem videant, quo et ipfi liberorum nuptiis interfint. Itidem ad mutuum amorem, et fidelem concordiam conjuges adhortabitur .Legantur Claud. de Nupt. Honorii, et Maria», Statius lib. i. in Epithal. Stellæ Maxim, in Nupt. Conftantini. De Epinicio feii Oratione Gratulatoria. E Pinicium adhibetur in quovis eventu felici, ut iis gratulemur, quibus ille feliciter contigit. Exordium hujus maxima parte eflfe poteft rei obtentæ gravior amplificatio, et defumi potell, vel a communibus locis publicz lætitiæ, aliarumque circumftantiarum, vel ab ipfa mutatione, et incremento fortunæ melioris. Confirmatio variari poteft pro rerum varietate, qua: ad gratulationem nos excitant, fi etenim alicui vi&oriam gratulamur, dicendum erit non tam pares gratias, quam dignam gratulationem haberi polle illi, qui debellatis hoftibus tantis incommodis patriam liberavit. Hujui rei caufæ mox afferendæ; fubjicienda inde viftoriæ narratio, qua: explicetur ex adjunflis, et amplificabitur perHypotipolem, diftributiones, deferiptiones, et per comparationes præfentis fortunæ cum fuperiori. Licet nonnunquam vifforiam conferre cum ipfo duce, ejufdem merita amplificare, in quorum fidem aliqui nominandi erunt, quorum egregia facinora fuerit æmulatus. Si dignitatem acceptam gratulemur, illius magnitudo erit demonftranda: commemorandum adeptam meritis, et virtute, dicendumque dignitatem eam efle, ex qua immortalitatem confequi ille poflit, quxque a multis expetita, paucis admodum obtigerit. Obliqua oratione interdum alicui gratulamur, cum dicimus nolle nos amico, qui dignitatem obtinuit, fed Reipublicæ quæ tantum virum in ea dignitate (ibi adepta eft, gratulari; quod Reip. utilitas ab amici honore acceflerit; qui fi junior fit, dicendum hunc diuturniorem, et Reip. utiliorem fore; fi fenex, (pecimen virtutis amplum dediffe/ fi eruditione confpicuus, florentem, ac beatam fore Rempublicam. Epiiogus continet preces pro imperii diuturnitate, felicitate, gloria, incremento. [Optat, ut qui ad dignitatem afeendit, opinionem de fua virtute conceptam faftis fuperet, neque cum aliis, fed fecum ipfe certet, ut ad majores gradus poflit afeendere. Cohortatur ad amorem, et patriæ defenfionem, ut eam ita compenfet. Commemorat, qui reges, et præclari viri eam ornarint, et auxerint. Monet tandem, ut et Deo, et largitori Principi gratus fit. De Oratione Lamentatoria, H iEc oratio fuperiori contraria eft, majus tamen requirit artificium, ut dolore potius, quam arte videri debeat fa&a. Duabus omnino partibus abfolvi poteft. In prima fignificetur, quantum fit malum illud*, in quod incidimus, tum ad levandum dolorem, tum ad excitandam in amicis mifericordiam, et odium in inimicos, fi ex iis tantum matum obtinuerit. In feeunda metus aliis injicitur quafi et illis poflit idem contingere. Epiiogus fuperos orat, ut a cervicibus omnium tantam depellant tempeftatem. Postulatoria oratio adhibetur, cum quid debitum, aut tamquam debitum a Deo, vel ab homine peti oportet. Exordium, fi petitio oblique fiat, per infinuationem benevolentiam conciliet, ad excitandam nedum attentionem, fed etiam liberalitatem; quæ quidem infinuatio peti debet ab illius laude, a quo beneficium expetatur, maxime vero a laude liberalitatis. Quod fi res, qua: poftulatur, difficilior obtentu fit, majore infinuationis artificio, fin minus difficilis, minore opus habet i Si vero reta petitio fit, aperte exordiendum, non tamen procul ab arte. Confirmatio fi de liberalitate benefatoris nihil ditum fuerit in exordio, ab ea inchoari poterit. Petitio proponenda, explicanda,. exornanda erit, attenta perfona, a qua petitur, et re ipfa quæ petitur; nam fi petitur ab homine gloria: cupido, dicendum erit virtutem ineffe maximam in re conferenda; fi ab alio aliter agendum. Si qui petit, benemeritus fit, enumerare poterit, modefte tamen, fua beneficia. Si nullum habeat meritum, narret, quomodo immeritus tantum beneficium petere audeat, caufamque petendi afferat, dantis liberalitatem. Si res, qua: petitur magna fit, inque ea obtinenda laboreiur, recurrendum ad locos deliberativi generis, a poffibili fcilicet, ofiendendo nullo difpendio conferri poffe beneficium; ab utili probando, utile efTe Reip. ab honefio oftendendo honorem, et gloriam inde futuram. Proderit parentum laudes, et majorum utriufque rccenfere, qui fi in neceffirudine conjunfti fuerint, addendum erit eos, qui fubfequuntur, non tam paternarum opum, quam amicitia: harredes efle debere. Preces adhiberi poffunt, et obtefiationes per res, aut perfonas, quibus nihil charius haberi confiet. Docendum erit, petere nos rem honestam, piam, juftam, et nobis neceffariam, quam, ut obtineamus, ciendi funt mifericordiæ motus ab indigentia noftra. Epilogus promittit animum gratum, et deficiente facultate referendi gratias, fummam animi propenfionem, et voluntatem. De Oratione Enchariftica, feu in gratiarum aftione. E Xordium bene contextum, fplendidum, grave, ac ferium effis debet, fine ulla fufpicione fimulationis, feu affentationis, in quo amorem profiteatur Orator, magnifice beneficium acceptum enarret, cum rerum enumeratione} præterea exordiri potefi Orator, nunc ab ea virtute, quæ maxime lucet in, beneficio collato, modo a perfona largientis, et ab adjuntlis, (i Rex, fi Senatus fit, qui dedit, fi cito datum, ficum verborum ornatu, et vultus hilaris fignificatione ;nunc reddendo rationem, cur tot ante beneficiis acceptis, nunc tantum agere gratias incipiat. Confirmatio, vel inftitui poteft per panegyrim, ia qua infifiendum erit commendando virtutem a qua profeftum elt beneficium, vel tripartita effe debebit, quæ primo occupetur in laudibus bencfa&oris, mox in beneficii magnitudine amplificanda, et exornanda, ex adjun&is, et circumfiantiis, per multas comparationes, inquirens caufas beneficii, tempus, locum, et hujufmodi; demum in explicando modo, quo datum efi beneficium. Epilogus officii recordationem pollicetur, fpondet, memorem animum, rogatque Deum, ut cum nos ob virium imbecillitatem id minime poffimus, ipfe gratias beneficio pares rependat. Si gratiarum a&iones ob falutem fient, obfervandum erit, incolumitatem reftitutam, mala adverfa, miferias, et morbos procul amandatos, magnam dicendi copiam fuppeditare. Ideo exageranda tunc erit prxdi&otum maiorum gravitas, a quibus fuimus liberati > ut tanto majus beneficium collatum eluceat. De Oratione ad inaugurationem. H iEC oratio dici folet in un£Iione regum, aut creatione magiftratuum, vel Gubernatorum. Exordium fumitur a votis bonorum, qui optabant, a gratulatione populorum, a meritis iplius ele&i, a pompis, quibus elucent viæ, forum, templa, palatia, a reliquis denique circumflantiis, vel etiam condolere dignitatem novo Principi Orator poterit, quod eam fubeundo, novas caulas, laborefque fubire cogatur. Confirmatio fefe effundet in laudes novi Principis, a fontibus, quos fupra monuimus, a laboribus pro patria exantlatis, a clementia in cives. Differet de corona, de fceptro, de purpura, de ftemmate, deque ceteris omnibus, quæ peauliares fint illius pompæ; adhibebit defcriptionem iplius Principis, a quo effulgeat amor, et raajeftas; neque omittet oracula, prodigia, et fiquid aliud infigne evenerit, et honorificum, qua: omnia ad laudem Principis referenda funt. Epilogus erit idem, qui in gratulatoria oratione. Præclara eft Sidonis Panegyris ad Auguftum Romæ di&a, et optime etiam Claud. in Conful. Manlii Theodorcti etc. u I De Stemmate Praxin. S Temmata, quæ familiæ infignia efTe dicuntur, ad laudes heroum plurimum conferunt, quorum encomia inde petuntur, quod fint, et figna quadam ad ornamentum, et difcrimen familia; dedu&a, et præmia virtutis, ac poderis incitamenta laborum, et fuavis, et grata re£te fa&orum recordatio, et documentum aliquod artis, et officii, et amoris, ac infitæ virtutis argumentum. Rurfus ad laudem conlideratur materia, ut aurum, vel argentum; color ut cæruleus, rubeus; forma, vel figura, ut ancile, palma, clypeus; pi&ura, ut rofa, oliva, globuli, arma, cruces, Leo, Aquila, et hujufmodi, e quibus fiudeat Orator magnam copiam laudum haurire, &c. De Paranimphara; five in Creatione Doctoris. Exordium petitur a circumftantiis perfonarum, vel a ritibus veterum, cum laude illius fcientiz, ad quam initiatur Doftor. Confirmatio tres partes habet; prima rationes continet, ob quas mox promovendus, honore dignus videri poffit; altera rituum expolitionem; tertia ad dolorem panegyrim inftituit. Ritus effc folent, traditio libri ad legendum Quidquid officii fui fit; pileoli, infignia veritatis, ac fan&itatis; anulus, qui fidei, veritatis, et conflanti cft argumentum; Zona aurea, qua utatur, tanquam cingulo fidei, et fortitudinis, modeflixque vinculo, quo animi motus cohibere poffit • Epilogus multa libi promittit de inaugurando Dolore, clauditurque in ejufdcm gratulatione. Exordium inchoabitur ab ipfos juftitite templo, in quo Prarfes admittitur, vel ab ipfo tribunali, in quod afeendit, unde promant: oracula coelo digna, hominique metuenda, quod quid ornari poteft aliqua, fimilitudine deiumpta e Salomonis throno, autaliunde. Confirmatio vagabitur per locos communes laudis in Prsefidem, eleftum, et quserer, cur purpura induatur, an quta ea regiam induat au&oritatem, an quia in legum 'violatores infurgere debeat tanquam elephas, qui a rubro in bella accenditur; commendabit fapientiam præfidis, ex qua, velut ex trypode promentur oracula jufla, veneranda, et patriæ falutaria. Epilogus gratulatur, non tam præfidi, quam urbi, quæ fe regendam commifit tanto viro, cujus fapientia, vigilantia, prudentia quæque* optima fibi polliceri poffit. De Oratione in dedicatione, H iEC oratio contexitur, cum alteri opus aliquod nuncupandum occurrit: ejus artificium tribus veluti gradibus affiirgit, primo occafione dedicandi, qua: fumitur vel a dedicantis officio, vel a dignitate lilius, cui dedicatur, vel ab opportunitate aliqua, ut fi devi&is hoftibus tribmphet, et cetera quamplurima; fecundo rei dedicata: vel explicatione, vel excufatione. Tertio commendatione, et obfecrationc, addito fidei, arrernique obfequii Sacramento. De Oratione ad receptionem Principum, aut ma- f giftratuutiK O UI orationem hanc contexendam aggreditur prius animadvertere debet, quæ fuerit caufa regis adventus in urbem. Si ut eam per fe invifat, vel ut (i in ea Princeps exterus fit, luas celebret nuptias, et hujufmodi; et talis erit oratio, qualem, eam exigit caufa: adventus. Si caufa adventus fit, ut per fe Princeps urbem illam invifat tunc Exordium ducetur ab expedatione, et votis totius Civitatis, vel a defiderio communi videndi Principem, vel ab exukatione, qua geftieruot emnes, cum primum acceperunt- nuntium, vel ab ipfa regum providentia quorum eft, non per legatos tantum, fed per fe quoque fuis regnis confulere, a thefi ad Bypotefim mox defeendendo. Confirmatio per laudes regis excurrat, providentias præcipue per aliquas comparationes, et fymbola, poteritque recenfere antiqua ejus beneficia in urbem illam collata, ea conferendo, cum prxdeceflorum ipfius beneficiis. Immo differere etiam poterit multa de urbis Felicitate, et meritis, eaque omnia uni regi accepta referre. Neque erit inconveniens, fi ad publicum apparatum defeeudat, in quo deferibat, vel civium concurfum, vel regis ingreffum magnificum ad triumphum, aut modefium, ne gravis populis eflet. Oicet relida ab eo fuifle clementiæ, fortitudinis, liberalitatis, ceterarumque virtutum, quam ille tranfierit, veftigia. Epi logus ejus armori, et tutela: commendabit urbem, ipfuroque tutelaribus Diis; vota faciet pro ejus felicitate; vovebit, ac dedicabit animas, pedora, fortunas, opes. Populorum explicabit lætitiam, et amorem, et fi quid petendum erit, obfecrando id efficere poterit. Legatur Oratio Pacati ad Imperatorem Theodofium, in qua ille magnifice. Exordium tefiabitur non levem doloris fignifica* tionem ex illorum difceffu, quibus familiariter urebamur,• mox moderationem adhibebit aliquam ex honefia difceffus caufay et fi orator fit ille, qui difeedat, diuque a patria extorris abire debeat, mifericordix ciet affe&um» Confirmatio commendabit multi populi, apud quem vixit Orator, fidem, humanitatem, pietatem, et cetera, quibus conciliantur animi, tum urbem, a qua ille difcedit, dilaudabit, loci nimirum naturam, fitum falubrem, et amoenum, facra ejus fefia, facrafque ceremonias. Epilogus beneficiorum, qua; ifiic acceperit, memorem Oratorem pollicebitur, uxores, liberos, affines commendabit plurimis, iifque bene precabitur. Si alius fit qui difcedat, ifque vel mul&atus exilio, vel acerbiore coa&us fortuna, Exordium petendum erit ex querimonia, vel indignatione in fortunam ipfam. Confirmatio queratur quod abire parantem non retinuerint non frequens virorum illuftrium concurfus, non deambulationes, non amæna loca, non cetera, qux urbem exornant. Revocat promifta; quod alter ab altero nunquam effiet difceffiuruS, confert priorem felicitatem cum praffienti miferia, dicit, fe, qui jam in amico folatium, nunc prseter follicitudines, et curas, nihil in eo habere, conqueritur nimis longam futuram ejus abfentiam, commemorat pericula itineris.difficiles navigationes, et vita: infclicioris incommoda, eoque dolet abeunti. Modo tamen folatur Te, fpe expeftati felicioris reditus. Si vero qui difcedit, legatus vel imperator difcedit, Exordium illi gratulatur. Confirmatio dilaudabit, et cum ipfum, et collegas fuos, comitefque, a genere, virtutibus, fama nominis, ac rebus antea feliciter geftis: deprecabitur eundem quoque, ut memoriam noftri abfens non deponat, locorum amamitate delinitus, ac fociorum humanitate, urbiumque nobilitate, qua iter eft habiturus, quas ca occafione proderit laudare. Epi logus continet preces, et felicia omnia difcedenti defiderat. De Oratione poft reditum, Exordium vel fuperis gratias aget, quod incolumem patria, civefque omnes tantum virum receperint; vel defiderium exprimet, quo cives ejus re-‘ dit^im affe&abant, votifque, et precibus accelerabant; vel circumftantiam quamdam temporis continebit, uc ii Sol ferenior effullerit, quafi tanti hominis reditum fibi fuerit gratulatus. Confirmatio deferibet hominis indolem, dilaudabitque virtutes, eas potiffimum per enumerationem recenfendo, quibus acceptus fuerit iis, apud quos dum abefTet, eft commoratus, qua in re optima* erunt comparationes conglobata: hominum ilJuftrium, qui apud alias nationes magni habiti fuerint. Inducet exteras urbes, apud quas diutius fuerit, qua: partim invideant patria: illius, partim cives fuos cum eo conferant, minorefque eo arbitrentur, et partim fecum ipfc doleant, quod hofpitem non retinuerint abire cogitantem. Reditum amico gratulabitur, gratiamque referet, quod apud illum valuerit plus Patriæ charitas, quam ceterarum gentium benevolentia: teffificatio, oblati honores, locique amoenitas, et delicis. Exponet tandem quid commoditatis, et privatiTh, et publice tanti viri afferet reverfio. Epilogus hortabitur, ut diu cum fuis maneat, redibit ad preces, orabit coelites,• ut quemadmodum ia profe&ione, et reditu ita fofpitent in Patria. De Oratione in funere. Exordium occupabitur in deploratione, ac gemitibus, ordieturque vel ab indignatione pro eo, cujus mortem dolemus, quafi indignemur ereptum nobis effe, aut nos fupcrftitcs ad dolendum rtli&os; vel ab aliqua exclamatione, vel ab inve&iva, in mortem maxime, fi in ætatis flore ille obierit, vel a deploratione cum indignatione mixta, humanam conquerendo conditionem, quæ nos ad tantam miferiam vix natos dejecit, vel a circumflarttiis qaibufdam, ut funtoftenta, prodigia, alisrque quamplurimæ, quæ in hac re meffe poffunt, vel ab aliqua figura, dubitationem puta, quafi ambigat Orator loquine, an filerc debeat, ciere lacrymas, an confolari, et hujufmodi, autexcufationem quamdam, quafi non audeat vulneris memoriam refricare, et affligat domus fpeciemdefcribere; vel ab aliquo gravi difto præfertim, fidolorem lenire velimus, vel a lugubri exequiarum apparatu, vel ab aliquo lymbolo, vel a diverfis gentium ritibus, vel a luftus deferiptione, præfertim fi luftuofo cafu obierit ille, cujus mortem dolemus. Denique exordium dabunt affinitas, dignitas, et hujufmodi, quæ fubihneat ille, cui onus dicendi impofitum fuit, tamquam ea caufæ fuerint, cur loquendi partem fufeeperit Confirmatio duabus potiffimum partibus abfolvi poteft, laude fcilicet, et lamentatione*, ea demortui vitam commendamus . hac mortem dolemus; quare omnes .inveniendi funt fontes laudis, locaque omnia ciendi mæroris motus; quibus addi potefl et tertia, folatium fcilicet ad parentes, vel ad fuperflites documentum. Interdum tamen una pars tantum ponitur, eaque occupatur in laudatione; ita tamen conftru&a, ut referatur ad excitandum dolorem/ in crdum adhibe» tur et fecunda, quæ aut dolorem movet, aut confolatar, aut adhortatur ad mortui imitationem: melius autem ifla fparfim per totam orationem diffundentur, ita tamen ut in epilogo perficiantur. Epilogus æternam felicitatem mortuo deprecatur, vel lacrymas in auditoribus movet, vel„ad debitos honores deferendos, aut ad recordationem beneficiorum ab eo acceptorum, vel ad virtutum ejus imitationem, vel ad impendentis omnibus certe mortis memoriam hortatur. Si filius fuperfit paternæ virtutis hæres, auditores Colabitur, proponens iis, parentem in filiis fuperflitem efTe. Tandem claudi poterit celebri quodam epitaphio, quod concifutn efTe convenit i et paucis verfibus continere genus, vit® feriem, geftos honores, facta præcipua, mortis genus, et monitum aliquod viatori. Egregixfunt Orationes funebres Nyffeni in morte Pulcneriæ, D. Amb in Theodofii fenioris, Naziazeni in Athanatis etc. Exordium, quod quidem furoitur a perfona regis, et ejus, a quo mittitur, et ejus ad quem mittitur legatus, affinitates, foedera, amicitia, negotia inter illos ante id tempus habita, et cetera hujufmodi occupabunt; vel etiam fumi potellaritu, et jure gentium in mittendis legatis. Confirmationis nulla certa præcepta efTe poflfunt, cum enim tot, et tam vari® poffint efferes, quas legatus agere debeat, talem muituat confirmationem. Orator, qualem exiget res, de qua agitur. Quare cum legatus mittitur, vel ad gratulationem, et amicitiæ O offi- lio 'Rhetorica Pracepta. officia, vel ad excipiendum aliquem alterius nomine, vel ad aliud petendum, vel ad repetendum, et expofiulandum aliquid propter acceptam injuriam, vel ad (uadendum aliquid, recurrere ille debebit ad lingulares oraticfieS cuilibet caufat conformes. Epilogus pariter caufis, quæ traftantur, accomodabitur. Consecratio apud antiquos Idolatriat cultores ea dicebatur, qua vel aliquem hominem in numerum Deorum referebant, vel templum, aut aram numini alicui confecrabant. Sacrilegus ifte cultus cum ipfa fuperftitione jam exfolevit, eique fan&ior fucceffit, coefuetudo fcilicet piorum hominum in numerum, albumque Sanftorucn referendorum. Quare hæc oratio adhibetur a nobis in alium ufum abeo, in quem ab antiquis adhibebatur -, cum nempe non jam fceleftiflimis hominibus divorum nomen tribuitur, led cum homines vere pii maturis Ecclefia* Catholicæ fan&ionibus inter Beatos, Sao&ofque adferibuntur. Artificium hujus orationis idem eft, ac orationis in funere, præterquamquod exordium, et epilogus, ipfaque confirmatio ad hilaritatem penitus compafti cfFe debent. Poterunt et aliqua recenfcri de ritibus, qui in /Ethnicorum confecrationibus adhiberi folebant, vel eos afliimendo, vel rejiciendo. Etiam epilogus continebit exhortationem, qua excitentur auditores ad venerationem Sanfti hominis, et ad vota illi facienda; poterit pariter vel nobis, vel noftris a Divo illo aliquid jjoftulari. Si ha?c oratio habenda fit in confecratione templi cujufdam, ilia fota occupabitur in commendandis ritibus hujufmodi confecrationis, nec non templis iif dera ut dem fibi a Deo electis tanquam in propria sede ad habitandum in terris; curabitque, ut venerationem, religionemque, et cultum in illud ipfum in auditoribus excitet, quod ut melius prædet, ornanda erit aliquibus imaginibus ex Sacra Scriptura defumptis. Genus hoc nedum deliberativum, fed& fuaforium dicitur, et difluaforiura, difceptatorium, concionatorium, et confultorium. Ejus materies poflibilia funt, et non neceflaria, non tamen omnia, fed ea tantum, quæ ed in nodra potedate, ut aut dant, aut omittamur, et ad nos ipfos pertineant, hæc vero eadem publica funt, vel privata, de quibus difceptari poted. Finis utilitas ed, ac detrimentum i officium fuadere, et dififuadere. De Inventione Generis deliberativi, triplicem hujus generis fontem aperit Quintilianus, cum inquit: fuadendi partes quidem honedum, utile, necedarium. Neceditas tamen non ideo ed pars deliberationis, quod in deliberationem cadat, fed quod fi quid neceffarium probari poflit, fidem afferat deliberationi. Cum autem CICERONE (vedasi) in partition. &c. ha?c habeat: Suafori proponitur Jimplex ratio, fi et utile ejl t et fieri poteft, ut fiat: diffuafori duplex: una, fi non xjl utile, ne fiat: altera fi fieri non potefl, ne fufeipiaturj cumque idem dividat utile, inutile honedum, et utile commodum, condat tres eflfe fontes inventionis generis deliberativi; honedum fcilicet, utile, et poffibile. Ad honedum ea referuntur omnia, quæ proficifcnntur a virtutibus, quæque funt laudabilia ipfa per fe, qualia funi animi bona, quibus et additur materies fubjefla hon. flati, qua? maxime fpeflatur in amicitiis; amici autem charitate, et amore cernuntur. Quare cum nobis honedum proponimus materiem deliberationis, illud attinui potett. Si bonum, quod fuidemus, cum virtute conjunflum demondremus; tunc etenim honedum illud probaverimus; ideoque faciendum. Si offendamus cum re, quam fuademus, conjungas ede virtutes, ita ut qui, quod fuademus, fufceperit, prudens, juftus, clemens habeatur. Quod fi jam iile hifce virtutibus fuerit inflruftus, alia ratione erit impellendus, ut nempe fuis virtutibus opera refpondeant. 3.- Si metu dedecoris, et infamia? aliquid fufefpiendum ede fuadeamus, qui modus efficax ed, et dicitur cum contrario. Notandum oratori ed, quibus affeflibus auditores maxime ducantur, et quantum apud imperitos adhibendus ed ad fuafionem ignominia? metus, tantum apud Sapientes gloria? propofitio, et honedatis, apud quos nunquam illius jaflura. Ad utilitatem, ut inquit CICERONE (vedasi), ea revocantur, quæ funt in corporis, aut fortunæ bonis expetenda; quorum alia funt quafi quodammodo cum honedate conjunfla, ut honos, et gloria; alia diverfa, ut vires, forma, valetudo, nobilitas, divitiæ y clientelæ, de quibus fatis multa in genere demondrativo. Igitur multiplici ratione ea ad fuafionem deflefli pofiunt, et •» - rf» - k 1. Cum nobiles avidi funt honoris, et gloria?, di gnitatum, et fama?, divitiarum, dominationis, et imperii; fi probaverit orator in re, quam fuadet 3 ida contineri. Apud eos, qui aut lucri cupidi funt, aut fuffl*mum decus ponunt in reflo divitiarum ufu, ut hofce per- Peti orias Præcepta. at} perfuadeat, his liberalitatem divitiarum ornamentum, illis fpem lucri proponet.. ublica. Tertio ab auditorum perfona cognolcendo ilorum inditura, mores, Reipublicæ adminidrationem, ut omnia nodra accommodemus tpforum ingenio, ex eorum opinione ducamus argumema utilitatis, et honeflatis, declaremufque nos id perfefturos, quod ii maxime in votis habent. Quarto abi pfa re, magnitudinem, dignitatem, momentum, aut proprietatem auditoribus odendendo, ut eos ad audiendum excitemus. In diffuafionibus nonnunquam. longius principium requiritur præfertim, fi quæ diduadentur, utilia ede auditoribus videantur. Cavendum in hifce exordiis, ne abrupta fint, nec concitatam femper orationem, et in verbis effufionem, cultumque affe&ent. Narratio ut plurimum non ufuvenit in hoc genere; funt tamen duo tempora, quibus adhibere eam occurrit, yel cum aliqua habemus exempla rerum ante gedarum, quibus utamur tamquam argumenta ad fuadendum; vel cum auditor docilis fieri debet, fi nondum fatis præcepit, in quo fit tota controverfia, unde orta, quomodo terminari poflit, aut fi periculum rei, difficultatem, et magnitudinem ignorat. Quod fi nulla narratio occurrat, datim ab exordio fubjicienda erit propofitio, quam explicare copiofe, et fumma cum au&oritare conveniet. Contentio, leu confirmatio eo major effe debet, quo minor fuit narratio; itaque pod jam ditia probatio in certa qua?dam capita didribui debet ; qua: traftentur ab honedo, utili, podibili, neceflario, ut fupra monuimus. Ad majorem copiam poterit Orator per alia genera excurrere, vel eos accufando, qui funt contraria; opinionis, vel eos laudando, qui nobifeum confentiunt. Inventio generis judicialis tum ad accufationem, tum ad defenfionem, pendet ab affumptis locis faftorum, et rerum ; ii autem continentur omnes in adjunftis, antecedentibus &confequentibuscaufis,& in locis omnibus extrinfccis ; cum diilin&ione tamen, ut alii faciant ad flatum conje&urar, alii ad flatum definitionis, alii ad flatum qualitatis. De illis fatis diximus, cum de locis oratoriis, ea huc referatis. Exordium artificiofum effe debet quam maxime, inquo femper auditor docilis, attentus, et benevolus reddendus efl, et ea quidem ratione, ut flatim a principio, vel attentus, vel docilis, vel benevolus fieri debeat. Benevolentiam captabit orator primo a propria perfona, fi vel extenuet virtutes fuas, et eloquentiam, vel oflendat fe non leviter angi difficultate agendi, et officio ipfo accufandi; vel doceat fe quodammodo opprimi auftoritate, gratia, potentia partis oppofita; vel dicat fe ad dicendum veniffe, ut exiflimctur fufcepifle illam caufam duplus officio cognationis, et amicitiæ j aut alia ex caufa, feu honefla ratione, ux femper videtur neceffario afferenda, z. ab adverariorum perfona, feu eorum, qui eum illis conjun&t funt, quod ita tra&ari debet, ut in invidiam, et odium adducantur, detegendo eorum fraudes, crimina, corruptelas, et hujufmodi. A perfona Judicum, vel cos commendando vel declarando, quam fpem concepimus de ipforum integritate, vel obfequendo, vel mitigando eorum naturam, ad quod necefTe erit eorum mores cognofcere, vel liqua de eorum officio attingendo cum Iaude r leviter ramen ne tam doceri, quam exorari, et laudari videantur. 4. A caufa, vel ex ea defumendo aliquod grave di&um, feu fententiam maxime probaram a Judicibus, vel ejus magnitudinem exponendo, ut fi dicamus conjun&am habere ftbi Reipublicæ, aut civium falurem, vel aliqua confiderando de ipfius conditione, eumque affe&um movendo, quem ipfa poftulat, ut fi in ea gravi aliqua affefti injuria $ mifericordiam in nos, invidiam, et odium in adverfarios concitemus. Ab adjun&is, temporis fcilicet, loci, aliarumquecircumftantiarum. Attentio aptatur vel fi rem novam, atrocem, et magnam, atque ad exemplum pertinentem agere dicamus, vel fi jpauca nos di&uros, eaque tantum, quæ ad caufam pertinent, promittamus. Docilitas comparatur clara partitione, rerumque dicendarum divifione, tunc maxime cum caufa videtur involuta multis rebus \ at cum judex nimium adverfario attendit, ab illa nimia attentione avertendus erit, quædam imminuendo, vel elevando. Narratione non opus eft, ni forte accufator, cujus eft faftum exponere, minus fideliter illud narraverit, vel aliquid omiferit, quod reo favere poflit. Cum illam adhiberi oportuerit, fi quando perfpicua, et probabilis effe debuerit, maxime in hoc genere efle debebit. Præterea ita componenda eft, ut caufæ noftræ æquitatem, nequitiamque adverfariorum fubjiciat oculis, conformandaque judicum moribus, et auditorum, ut oftendamus adverfarios maxime in eo peccafte, a quo omnes potiffimum abhorrent, quod quidem ultimum pluribus modis præftare poteft; t. oftendendo propenfionem cujuslibet ad vitia, et virtutes, qua impulfus aliquis hoc vel illud prælegit. 2. expvmendo ea, quæ ab illis moribus oriuntur, ut incedat hoc, vel ilJo gradu, furens, anhelans, titubans, et hujufmodi. 3. Si res videatur incredibilis, caufas proferendo, quæ ad eam impulerunt, quod fi nulla legitima caufa inveniatur recurrendum erit ad primam illam libidinem, quæ cæco impetu huc, vel illuc homines proripit. Si res aliqua crudelis, et atrox apponatur, tunc concitandi funt motus animorum graviores per exclamationes, objurgationes, reprehenfiones, comminationes, increpationes, et hujufmodi. Sunt etiam narrationes quædam totæ flebiles, quibus atrox alicujus maleficium, naturæque immanitas, aut innocentium pæna exponitur. Quia duplex narratio, altera, quæ fumraas rerum colligit tantum, altera quæ lingula exponit: hæc fecunda adhibenda eft, quotiefcumque permovendi funt auditores, prima vero cum rei geflaf feries, aut nobis non multum favet, aut ingrata eft auditoribus, aut communis, et trita. Confirmatio, vel fimplex eft, quæ crimen unum, vel conjunfta, qux plura compleftitur. Si fimplex eft, qux firmiflima funt, partim in principio collocentur, partim ad finem referventur, quæ autem mediorra, in mediam turbam conjiciantur. Si conjun&a, et accufemus, quo ordine crimina reo commiffa funt, eo a nobis referantur, fi vero, quæ poftremo fafta funt, leviffima fint, ea nunquam in fine collocanda. Tunc etenim notanda tempora, dignitates, et officia', in quibus fefe reus exercuit, et crimina, qux quoquo tempore, aut officio fufceperit, quorum graviffima quxque primum, et poftremum locum obtineant, cetera vero medium. Notandum unumquodque crimen probandum cffe ex locis, qui pertinent ad llatum, in quo caufa verfatur, ut fingula argumenta vehementer proponantur, hoc eft, nt ftatim initio conglobatione criminum omnium utamur, qua reus obruatur, et judex obftupefcat. Ubi crimina conglobata fuerint, erunt comprobanda, et confirmanda tabulis, decretis, teftimoniis, accuratiufque in fingulis commorandum i quod certe fiet, fi vehementiori aliquo motu crimen augeaxqus. Aliquando inflandum eft, acriufque urgendum, interrogandum, minandum, blandiendum, et cgreftto1 nes Rbetoric* Prcecepta. 223 nes etiam adhibendas funt. Nonnunquam propofitis rationibus in amplificationem graviorem exardefcit Orator, laspe lenta gravitate pondus adjungendo iis, quas dicuntur. Si defendimus eodem ordine utemur, quo ufus eft advcrfarius, quem tamen mutare polfumus, et leviffima primo refutare, partim ad extremum remittere; firmiflima in medium locum conje6fa, aut obfcurare dicendo, aut digreffionibus obruere. Denique optimi oratoris erit, quid judices, quid res poftulcnt, iemper advertere. Peroratio fi accufemus, iras prascipuas, et indignationis motus, fi defendamus, conqucfiionis, fcu miferationis funt excitandi / tametfi cum defendimus, iram movere polfumus ininjuftos accufatores, dum accufamus, mifericordiam in alium. Praster hofcc affe&us alii etiam pro rerum opportunitate excitantur, ut odii, pudoris, amoris, miferationis, doloris, lenitatis, mjfericordias per frequentes hypotipofes, Apoftropbes, deferiptiones, profopopejas, contentiones, de quibus ad fatietatem luperius. Hasc funt generalia prascepta, quas pertinent ad artificium orationis in genere judiciali ; ea monenda lupe r funt, quas ad particulares quafdam orationes fpe6fant, et primo dicendum. De Oratione accufatoria. I N qua modefiiam prasfeferre debet Orator, et molliter, ac frigide profiteri necelfitatem a&i I Nvediva ad hominum mores ftringendos accommodata duplex eft, una in homines, quas non eft ufurpanda temere, nifi publica notentur infamia, vel nullum bonas fpei locum relinquant: Altera in hominum corruptos mores invehitur, et prima longe hasc melior eft. Quascumque ilia fint, cavendum, ne liberius frarna maledicentias laxemus. Exordium ducitur, vel ab admifto fcelere, quod explicari debet: vel a caufa magni momenti, et adftatum Reipublicæ pertinenti ; vel a perfona, in quam invehit, qua; defcribenda eft; vel a circumftantiis loci, temporis, et hujufmodi. Narratio, vel vitam omnem a Puero incipit, fingulaque momenta percurrit cum verborum apparatu, vel certa quædam capita defumit ex pluribus, quas fibi proponat exagitanda. Confirmatio vitii perniciofos effedus expendit, contraque pietatem, leges divinas, humanas, Patriæ mores, majorumque inftituta' efte, contendit. Per amplificationem recenfet incommoda, quas inde vel fequuntur quotidie, vel in pofterum fequi poftiint, nifi judices fasviant in audores. Per Comparationem multorum, qui ob fimilia, vel etiam minora crimina graviter affedifunt, urget hujufmodi hominem, dignum efte extremo fupplicio, exilia, et hujufmodi. Nonnunquam in invidiam, et odium perditum hominem vocat,- fi prsfertim beneficiorum immemor', quam tueri debuerat, Rempublicam everterit. Tradatur interdum per argumenta, et figuras, quæ ad intimos tenlus percellendos pius habeant virium. Epilogus graviores affe&us ciet, iræ, odii, invidiæ, pudoris, et aliorum effe&uum, quibus criminis atrocitas urgeatur, et judices ad pænas repetendas accendantur. Objurgatio, quæ eft fuperioris ad inferiorem reprehenfio, dicitur, quæ fibi proponit emendationem ejus, qui contra officium, et honeftos mores aliquid peccaverit. Quare cum duræ cervicis hominibus ea debet efle intonans, minax, intenranfque pænas, cum illis vero, qui mollis animi funt, pavidique ingenii, fruflra laboratur, fi feveritas induatur. Exordium peti poteft: vel a vituperatione perfonæ, feu facinoris admifli ; vel a rei turpitudine, criminis atrocitatem explicando, cui etiam adjungi debet tif moris motus, et oppofitio vehemens i vel ab admiratione, quæ et rei novitate, atque infplentia nafcatur, ubi et exprobari poterit ja&antia inanis, et fiducia, præfertim, fi ignaviæ fcelus reprehendatur ; vel a (pe virtutis ejus, cui tradita fuerat Reipublica (alus, quam tamen (ubftinere non potuit: vel a dubitatione, quando dubius erit Orator, quo nomine fcelus, quod arguitur, appellet. Interdum etiam caufam, cur queramur, expendit,- nempe quod res acerba contigerit ex fa£lis ejus, quem verbis emendamus; quod inapertum diferimen homines, et negotia per imprudentiam, aut animi demiffionem adduxerit. Narratio non tam objurgationi neceffaria eft, quam commoratio quadam in reponendo crimine, quod per hypotipofim fubjici oculis debet, ut ejus gravitate, vel feritate moveatur js, quem reprehendimus; Obfervandum tamen eft, ne alio nomine crimen vocemus, quam convenit. Confirmatio exagerationem criminis continet, qux et fit pene tota per adjun&a loci, temporis, perfooarum, et hujufmodi. Epilogus acrimoniam orationis verborum lenimento mitiget, quod facile fiet, fi noflram objurgationem ab amore proficifci viderit is, quem objurgamus. Proderit rejicere culpam in aliam, fciiicet in fubitum furorem, vel in alios, qui ad id excitaverint, quibus fubjici poterit vernæ- promiffio, totiufque injuriæ oblivio ; quod fi aliquid fupplicii fit imponendum, id fieri non tam ad repetendas pænas, quam ad eos in officio retinendos, et ad poenitentiam adducendos dicetur. Nonnunquam atrocior efle potefi Epilogus, et tunc ex ante ditiis exagerabitur turpitudo contradi dedecoris. Addi aliqua poterunt ad excitandos motus fpei, metus, amoris, præfertim ab honelto. Poflunt et minis admifeeri preces, ut ii fiedatur aut terreatur illis; ita tamen, ut omnia magis ad amorem, et lenitatem infledantur. Tandem ^propofitæ emendationis finem confequemur, fi eam quam concepimus, bonam de reo fpem aperiamus, et fateamur. EXPOSTULATIO dicitur gravis quædam quærimonia. Cavendum ne fiat ob leves caulas, et fi rem damnamus, voluntas cll excufanda. Infuper habenda efl ratio eorum, apud quos, et ob quas injurias fiat expoitulatio, ufendumque in Omnibus prudentia, ut non ulceremus plagam, quam fanare cupimus; præfertim fi a.pud fuoeuorem potelfatem conqueramur. Exordium duci poteft a laude, et commemoratione beneficiorum, quæ in eos contulimus, apud quos querimur; vel ab ipfis injuriis', quas patimur, præfertim cum noftro jure utimur, nec jam precari opem, et auxilium poftub mus ; vel a quadam excufatione, qua profiteatur Orator fe non fua caufa, fed honeliatis, aut alienæ voluntatis expofiulationem aggredi. Interdum libet oric ce Præcepta. zig dum etiam malevolentia suspicionem amovet, et per dubitationem eruditam nititur de amico queri; aliquando fimulat dolorem, ut gravior fiat conqueftio. Narratio exponit injurias, aliquando etiam prius venia petita, et conquerendi facultate. Confirmatio poft injuriarum expofitionem amplificat eorum magnitudinem, et cum læfar perfonæ patientia confert, cujus rei teftes nonnunquam producit ; Defcriptiones adhibet, profopopasjas, hypotipofes, et alia dicendi lumina, quas motum ammorum excitant. Epilogus precibus ad eos confugit, a quibus folis remedium expeftari porefi, quo in loco affeftus excitat mifericordiaj, clementiæ, ac metus. Si expoftulatio privata fit, nudam, et apertam narrationem poflulat, et nonnunquam excufationem potius, quam accufationcm adhibet. Tamen inexpofitione injuriarum amplificare poteft earum gravitatem, fi præter merita, atque adeo contra jus oilendantur acceptæ. Confirmatio, aut brevis, aut fere nulla efle potefi, in qua per præteritionem profiteri debet Orator, fe generofo filentio multa fupprimere. Qui tamen confirmatio tum eft adhibenda, cum tales funt injuriæ quæ ultra diffimulari nec poflint, nec debeant, pnefertim, dum majora timentur. Conclufio vehementem excitat dolorem cum interpofitis minis, quibus etiam • aliqua deprecatio adjungi potefi, habita femper dignitatis ratione. De Exprobatione, hoc genus orationis exprobat beneficia in alios collega j quod quidem fieri debet opportune, et e re illius, qui beneficium accepit. Exordium tefiatur et appellat confcientiam illius, qui labem ingrati animi contraxit, eamque grandibus fententiis ob oculos ponit, ut vitii turpitudi- nem primo afpedu cognofcat, et cum dolore conde- mnet. Narratio rem totam artificiofe proponit, in qua et noflra in illum beneficia, et ingratum illius in nos animum amplificamus. Confirmatio duas habet partes; in prima benificium commemorat, fed ex acceptarum injuriarum impulfu $ in altera exponit, et amplificat alienum maleficium, quod fiet, ex hypothefi defcendendo ad thefim. Epilogus timoris, et verecundis motus excitat. De Comminatione, In hac Oratione totus eflfe debet orator, ut timorem inferat ei, cui minitatur. Exordium abruptiflimum effe debet, ut velut ex ino- pinato feriat. Oratio tota concifa erit, concitata, minax, gravibus fenteotiis, et axiomatibus redundans, non tamen af- fe&ata, et puerilis. Adhiberi folet vehemens amplifi- catio fceleris, autfacinoris, cui fupplicium intentatur, in qua longiori verborum traftu fefe efferat Oratio. Fingere poteft orator, vel ipfam fceleris cogitationem, et memoriam adeo atrocem effe, ut ad eam vel gra- viffimi viri perhorrefeant. Interdum etiam ne motus langucfcat, utetur communicatione, et pedetentim progredietur. Præterea rem ipfam, ac futurum incommo- dum ita clare defaribet, ut jam non dici, fed cerni oculis videatur. Conclufio' optationem, et adhortationem continebit, ue orajtio cx odio, et malevolentia videatur profetta. DEPRECATIO similis est defensioni in hac tamen fupplex venit Orator, cujus erit, obfervare prudenter circumdantia temporis, ac perfonarum, ne incongrue deprecetur. Exordium fumi potefl, vel a qualitate criminis, cui veniam precamur, vel perfonx, pro qua petimus . t Narratio non efl, cur crimen exponere debeat, ni- fi forte occupemus eos, quos offendimus, et tunc om- nia funt narranda, ac verbis amplificauda, deinde fubjicienda deprecatio. Confirmatio in eo confumi debet, ut per vim argu- mentorum dandam effe veniam fuadeat, quod quidem prædari debet primo a perfona lxfa, vel lædentis, de quibus ea dicenda funt, quæ cuique convenient, fpe- ftata cujufque conditione . .Sciatis tamen prodeffe fem- per, ut dilaudetur, qui læfus eft, præcipue a laude clementis, et ut commendetur, qui Isferit, cum ab ante aifa vita nulla vitiorum labe refperfa meritifque ejus in Patriam, et alios, tum a fpe nempe eum fore perutilem Reipublicx; A crimine ipfo una cum fuis circumdandis, quæ crimen minuere poflfunt, ut fi di- catur errorem admilfum, vel aliorum fuafione, vel im- petu aliquo iracundis. Quod fi hac aftione nainus excufari poterit, odendendum nocere illum duntaxat Au£fori, et illi fatis effe fupplicii cogitaffe, aut fecifle crimen. Si vero crimen fit occultum, orator dicat non prodeundum illud in vulgus, quia ejus tupitudo ad vin- dicantem redibit; A fupplicio inferendo, de quo quaeri poteli, cur inferatur, et cum certum fit inferri illud, ne reus amplius peccet; polliceri debuerit Ora- tor ex illius bona indole fpem vits melioris, fuam- que au&oritatem interponat, et pro eo reconeiliando, fi opus fuerit, fpondeat, oftendat quoque jam odium eoncepiffe in fcjeius, ut fupplicii ad emendationem non opus videatur. Ad Clementiam excitandam dicateum, qui peccavit, fic affligi dolore, et concuti metu, ac timore, ut milericordia dignus videatur meminerit tandem fervandum eflfe decorem. Epilogus vehementiflimos motus contineat, et fi ad parentem agat, orabit, ut meminerit in filium agi, non in fervum, obfecretque, per majorum cineres, per clara facinora. Si vero ad fuperiorem agat, im* ploret ejus Clementiam aliis exhibitam in atrociori et- iam flagitio, proferat exempla majorum ejus in re fi- wili, fidem et obfequium perpetunm polliceatur, ca- ptet interdum benevolentiam, dicatque, quidquid ac- cidit, fc contentum fore ejus judicio etc. AdLaudem Dei, femperque Virginis Mariae, et Reliquorum Sanftorum. Santucci. Luigi Speranza, “Grice e Santucci.” Santucci.

 

Luigi Speranza -- Grice e Santucci: la ragione conversazionale dell’idealismo – scuola di Mira – filosofia veneta – filosofia veneziana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mira). Mira, Venezia, Veneto. Filosofo italiano. (quarto da sinistra) con Pedrazzi, Battaglia, Matteucci e Contessi. Muore a Bologna. è stato un filosofo italiano. È stato docente di Storia della filosofia all'Università di Bologna.  Socio dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, è stato tra i fondatori della casa editrice il Mulino. Studioso di Hume, dell'illuminismo scozzese e del pragmatismo americano, ha indagato inoltre le varie forme in cui positivismo ed esistenzialismo e, più in generale, il rapporto con le scienze hanno orientato il pensiero italiano tra Ottocento e Novecento.  È sepolto alla Certosa di Bologna.[1]  Opere principali Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, 1959. Il pragmatismo in Italia, Bologna, il Mulino, 1963. Sistema e ricerca in David Hume, Bari, Laterza, 1969. Introduzione a Hume, Bari, Laterza, 1971. Storia del pragmatismo, Roma-Bari, Laterza, Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana, Bologna, CLUEB, Eredi del positivismo. Ricerca sulla filosofia italiana fra '800 e '900, Bologna, il Mulino,, 1996. ISBN 88-15-05178-3. L'età dei Lumi. Saggi sulla cultura settecentesca, Bologna, il Mulino, 1998. ISBN 88-15-06712-4. Filosofia e cultura nel Settecento britannico, 2 voll., a cura di A. S., Bologna, il Mulino,, 2000. Comprende: Fonti e connessioni continentali, John Toland e il deismo. Hume e Hutcheson, Reid e la scuola del senso comune. ISBN 88-15-08098-8. Ricerche sul pensiero italiano fra Ottocento e Novecento, Bologna, CLUEB, 2004. ISBN 88-491-2232-2. Note ^ Fonte: totem informativo di Bologna Servizi Cimiteriali. Collegamenti esterni Santucci, Antonio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Santucci, Antonio, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Antonio Santucci, «Pragmatismo» la voce nella Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1980. Addio al filosofo Antonio Santucci, da Il Mattino di Padova, Archivio.Portale Biografie   Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloNati nel 1926Morti nel 2006Nati il 26 settembreMorti il 20 gennaioNati a Mira (Italia)Morti a BolognaMembri dell'Accademia delle Scienze di TorinoSepolti nel cimitero monumentale della Certosa di Bologna. Antonio Santucci. Santucci. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Santucci”. Santucci.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sanzo: il deutero-esperanto e la ragione conversazional tra natura ed artificio – la filosofia lizia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Insegna a Brindisi, Milano, e Salento. Fonda “Apollo Licio” o Lizio. Sube il fascino dell’esistenzialismo e il orazionalismo. Rivolve la propria attenzione ai rapporti tra filosofia, scienza e società. Si occupa di filosofi quali Becquerel, Boutruox, Corbino, Couturate Curie, Enriques, Fermi, Frola, GEYMONAT, PEANO, VAILATI. Sui fondamenti della geometria” (Brescia,  La Scuola, Collana "Il Pensiero"); “L’artificio della lingua, -- Grice: “I like that: it’s my Gricese, a language I invent and which makes me the master; there’s the arbitrary and there’s the artificial, and Sanzo, reconstructing Peano’s project, fails to distinguish this” -- Milano, Angeli, Collana di Epistemologia, Cimino; Sava, Il nucleo filosofico della scienza, Galatina, Congedo, Collana di Filosofia, Scritti di fisica-matematica, Torino, POMBA, I Classici della Scienza, Poincaré e i filosofi” (Lecce, Milella); Corbino, Scienza e società, Saggi raccolti e commentati, Manduria, Barbieri, Collana di Filosofia Hermes/Hestia, Scritti di fisica-matematica” (Milano, Mondadori, "I Classici del pensiero", Unione Tipografico, Torino, Scientia, Rivista di sintesi scientifica, “Apollo Licio”, Museo Galilei, Firenze. 1. I PRODROMI  Il problema della comprensione internazionale nel campo della scienza inizia, come è noto, con i primi testi scientifici scritti in lingue nazionali. Il latino, che per secoli era stato lo strumento della cultura scientifica dell'Occidente, si era estinto nella parlata comune e si andava lentamente estinguendo anche nella sua funzione di unica lingua comune ai dotti. Trattati scientifici in lingue volgari appaiono già alla fine del Duecento e la matematica commerciale è sempre più frequentemente scritta in volgare; in italiano la prima trattazione di algebra è di Jacopo da Firenze e appare nel 1307; nel 1344 appare un vero trattato di algebra del Maestro Dardi da Pisa . Il Seicento è comunque il secolo di passaggio, nel quale i testi scientifici scritti originariamente in lingue nazionali cominciano ad essere molto numerosi, benché a qualsiasi pubblicazione scientifica in italiano, inglese o francese segua quasi immediatamente la traduzione in latino. Le menti più attente cercano di trovare uno strumento che possa sostituire il latino, che tuttavia vive ancora un lunghissimo tramonto: tesi di laurea o lavori scientifici di matematica o di filosofia saranno scritti in latino ancora nella seconda metà dell'Ottocento, ma si tratterà ormai di casi sporadici . Per ovviare a questo rischio di mancanza di comunicazione tra le persone colte, rischio che cominciava a diventare molto concreto, numerosi pensatori del Seicento, tra i quali Cartesio, Mersenne, Comenius, Leibniz, Kircher avevano dedicato tempo e sforzi all'idea di una lingua universale ; sulla storia di questi tentativi e di tutti quelli che li precedettero e li seguirono, la letteratura è vastissima . Difficile dire chi fu il primo ad ideare una lingua completa ed effettivamente usata al di là di qualche progetto e di qualche prova. Comenius presenta ampiamente e con molta lucidità la necessità di una lingua universale nella Via lucis . L'opera fu scritta in Inghilterra negli anni 1641-42 e circolò manoscritta per un quarto di secolo; fu poi pubblicata ad Amsterdam nel 1668. Lo scopo del grande pedagogista moravo è una riforma della scuola, la quale dovrà uniformarsi ad una luce universale. I quattro requisiti della "via universale alla luce" sono i libri universali, le scuole universali, il collegio universale e una lingua universale . A questi quattro requisiti Comenius dedica cinque dei ventidue capitoli della sua opera, e il più esteso è quello dedicato alla lingua universale. In superamento di Luis Vives, del quale egli cita la propensione all'adozione del latino come lingua universale dei dotti, Comenius propone con coraggio una lingua del tutto nuova, e cita a sostegno di questa idea varie ragioni: la prima è che   […] con la lingua universale si provvede a tutti nello stesso modo, mentre con la latina provvederemmo soprattutto a noi che già la conosciamo, non ugualmente, invece, ai popoli barbari (per i quali, in proposito, c'è una ragione in più, perché essi costituiscono la parte maggiore della Terra), ai quali la lingua latina, come le altre, anzi, ancor di più, è ignota e difficile.    Le complicazioni delle lingue sono opera degli uomini, e alle confusioni della comunicazione si deve ovviare tramite una lingua nuova:  Auspichiamo, quindi, una lingua assolutamente (1) razionale, che nella sua struttura materiale e formale non abbia nulla (nemmeno il più piccolo apice) di non significativo, analogica, che non contenga di fatto nessuna anomalia, armonica, che non inserisca discrepanza alcuna tra le cose e i loro concetti, così da esprimere con la stessa parola la natura e la differenza delle cose, divenendo così quasi un imbuto della sapienza.   Alla domanda su quale sia il modo migliore per costruire tale lingua, Comenius indica due possibilità: o perfezionare le lingue più note, o perfezionare le cose stesse. Questa seconda ipotesi è quella che Comenius preferisce, perché più realistica, "anche se talvolta, per esprimerle esattamente, sarà necessario riordinare tutto". Comenius cita le menti illuminate che già hanno pensato a questo: è noto l'interesse di Mersenne che scrive sia a Cartesio che a Comenius stesso sull'argomento. Comenius non costruisce una lingua universale, ma dice quali dovrebbero essere le sue caratteristiche; egli pensa che sia possibile costruire una lingua dove le singole parole stiano "al posto delle loro definizioni, perché composte secondo le esigenze delle cose stesse". Nella lettera che gli scrive Mersenne (22 dicembre 1640) viene citato un "carattere universale" elaborato per circa venti anni da Maire, un gentiluomo della corte di Luigi XIII. Il "carattere universale" è un sistema di segni che ognuno può leggere nella propria lingua, e che sono posti in corrispondenza delle cose stesse. Si tratta quindi di una specie di alfabeto piuttosto che di lingua, e certamente non usabile oralmente. Le Maire aveva anche inventato una nuova forma di notazione musicale. I tempi sembrano maturi per l'effettiva costruzione di un linguaggio universale .  Un altro scienziato che si dedicava in quel tempo al problema è Leibniz. Matematico, diplomatico, storico, egli ha armonizzato antiche idee con progetti nuovi al fine di creare una lingua universale. Tutti gli ideatori di lingue universali del XVIII e del XIX secolo sono stati sotto l'influsso di Leibniz, che a sua volta aveva studiato ed ereditato idee da Bacone, Cardano, Kircher, Raimondo Lullo e, soprattutto, da Dalgarno  e Wilkins . Leibniz, slavo di origine e tedesco-orientale di nascita, viaggiò molto; scrisse principalmente in francese e in latino, progettò una unione di cattolici e protestanti, studiò e incoraggiò a studiare lingue dell'Asia allora sconosciute, ebbe corrispondenza col re di Francia e con lo zar di Russia, e progettò di fondare una società mondiale di missionari. Scienziato universale ed enciclopedico, fu fondatore di una filosofia dell'armonia, secondo la quale "l'universo è regolato da un ordine perfetto" e "l'anima e il corpo si incontrano data l'armonia che c'è in tutte le sostanze, perché tutte sono rappresentazioni del medesimo universo". Nella matematica fu il fondatore nell'Europa continentale del calcolo differenziale, e ancora oggi si usano le sue notazioni; può considerarsi un precursore dell'informatica, in quanto fu l'ideatore del sistema binario. Da idee piuttosto diverse, come crittografia, ideografia, geroglifici, Leibniz concepì l'ispirazione di una lingua universale, o piuttosto di un complesso universale di segni che potesse esprimere il pensiero umano, espresso così nebulosamente con le parole. "Dio creò la lingua" era la credenza degli indiani antichi; "Adamo creò la lingua" credevano i saggi dell'Europa medievale. In entrambe le filosofie la lingua si presentava come un prodotto artificiale, in principio perfetto e unico, e in seguito degenerato, frantumato, rotto a causa dell'imperfezione e limitatezza umana. Già da adolescente Leibniz aveva sognato una lingua universale: la sua Ars combinatoria fu scritta quando non aveva ancora 19 anni, ma i suoi studi più intensi sul problema si pongono attorno al 1679 . Leibniz non scrisse un'opera specifica sulla lingua universale, ma le sue idee sono sparse in vari suoi scritti, dei quali molti ancora inediti: nella biblioteca di Hannover esistono ancora manoscritti non pubblicati, in francese, in latino, in tedesco. Per quanto finora è stato pubblicato, due sono stati i suoi progetti sull'argomento: uno è un sistema di calcolo logico sotto il nome Characteristica universalis, che ricalca la classificazione di Wilkins e che dovrebbe essere applicabile a tutte le idee e a tutti gli oggetti del pensiero:  Tutte le idee complesse sono combinazioni di idee semplici, come tutti i numeri non primi sono prodotti di numeri primi. La composizione delle idee tra loro è analoga alla moltiplicazione aritmetica, e la decomposizione di un'idea nei suoi elementi semplici è analoga alla decomposizione di un numero nei suoi fattori primi. Ammesso questo, è naturale rappresentare le idee semplici con i numeri primi e le idee composte di questi o quei numeri primi tramite il prodotto dei numeri primi corrispondenti.   Il secondo progetto è una vera lingua internazionale pratica su base latina con una grammatica semplice e regolare, nella quale Leibniz descrive dettagliatamente la derivazione dei verbi dai sostantivi. In un altro manoscritto Leibniz dice che in questa lingua universale verranno scritti poemi e inni da potersi cantare. Altrove Leibniz sogna un "Ordo caritatis” e una ”Societas Pacidianorum", una società di teofili che celebri le lodi di Dio e si opponga all’ateismo . Questa società di saggi raccoglierà tutto il sapere dell'uomo, elaborerà una lingua opportuna e organizzerà missioni tra i popoli selvaggi per diffondere tra questi l'idea della cultura. È dunque proposta una vera operazione culturale mondiale. E scrive ancora:   Questa lingua sarà il maggiore strumento della ragione. Oso dire che questa sarà l'ultima fatica dello spirito umano, e quando il progetto sarà realizzato, dipenderà solo dagli uomini la loro felicità, perché avranno uno strumento che servirà per entusiasmare la ragione non meno di quanto il telescopio serva per rendere più acuta la vista. Sono certo che nessuna invenzione sarà importante quanto questa, e nulla potrà rendere del pari famoso il nome del suo ideatore. Ma ho motivi ancora più forti per pensare ciò, perché la religione, che seguo fedelmente, mi assicura che l'amore di Dio consiste nell'ardente desiderio di raggiungere il bene comune e il mio intelletto mi dice che nulla contribuisce maggiormente al bene di tutti gli uomini quanto ciò che lo perfeziona.   Leibniz pensa di usare numeri per tradurre le lettere dell'alfabeto di qualsiasi lingua e costruisce una tavola di corrispondenze a questo scopo; egli annota sulla sua copia della Ars signorum di Dalgarno un commento relativo a suoi contatti con Robert Boyle ed Enrico Oldenburg riguardanti la scrittura universale, ed annuncia una propria relazione su tali tentativi ; tuttavia di questa relazione non si ha poi notizia.  La costruzione di un linguaggio universale si prospettava dunque principalmente sotto due aspetti, e con due proposte di soluzione: la scelta di una lingua basata sul latino, che pur sempre era conosciuto e studiato dalle classi colte, ma più facile, oppure la scelta di una lingua logica, senza, o quasi senza, connessioni con una lingua esistente; una lingua che potesse far riferimento a figure, o a suoni, o ad altri segni ritenuti universali. BELLAVITIS  Leibniz non fu mai professore all’Università di Padova, ma nel primo ventennio del 18° secolo ebbe una forte influenza sulle chiamate alla cattedra padovana di matematica. Tale influenza fu effettuata tramite lettere e colloqui e condusse alla chiamata di Jakob Hermann e quindi di Bernoulli, entrambi ginevrini . Tra i successori di Leibniz nell’idea di un linguaggio universale si colloca il matematico bassanese Bellavitis. Appare un suo lungo scritto, Pensieri sopra una lingua universale e su alcuni argomenti analoghi, nelle «Memorie dell'I. R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti» . Bellavitis è, all'epoca, professore ordinario di geometria descrittiva all'Università di Padova, cattedra assegnatagli nel 1845, dopo due anni di insegnamento di matematica elementare e meccanica al Liceo a Vicenza, dove era subentrato a Domenico Turazza, chiamato alla cattedra di Geometria Descrittiva all’Università di Pavia. Figlio unico, Bellavitis non aveva seguito corsi scolastici regolari perché la famiglia temeva che potesse frequentare cattive compagnie; era stato istruito in casa da un maestro e principalmente dal padre, ragioniere municipale del comune di Bassano. Estremamente desideroso di apprendere, aveva letto fin da ragazzo moltissimi libri, spesso presi in prestito, perché le finanze della famiglia, nobile ma decaduta, non consentivano molti acquisti. A quindici anni già conosceva ed usava il calcolo differenziale e integrale, aveva appreso il latino, il tedesco e il francese, e ancora giovanissimo aveva compilato un dizionario di tedesco organizzandolo non alfabeticamente, ma per radici fondamentali, attorno alle quali si raggruppavano le parole derivate; scriverà poi per il figlio quattro vocabolari di tedesco, dei quali il secondo è ordinato per consonanti, che costituiscono gli elementi immutabili della radice, mentre le vocali possono mutare. Successivamente si dedicherà anche ad altre lingue: inglese, spagnolo, portoghese (di cui scriverà un dizionario nel 1878), danese, russo. Nel 1825 fu per tre mesi a Padova, dove ascoltò alcuni corsi di matematica all'università. Nel 1826 tentò un inizio di carriera universitaria nell'ateneo patavino, ma la mancanza di titoli di studio gliela precluse. Quindi fu impiegato del comune del suo paese natale, Bassano, come "alunno" senza ricevere uno stipendio per buoni dieci anni, fin quando non fu nominato "cancellista", carica pagata che tenne per altri dieci anni fino al 1843. Veniva a Padova spesso, con viaggi a piedi che duravano una decina di ore. Di matematica è semplicemente un autodidatta, copia testi e impartisce lezioni private; costruisce la sua teoria delle equipollenze dal 1832 a casa dell'amica carissima Maria Tavelli, che sposerà appena avrà uno stipendio stabile, e dalla quale avrà l'unico figlio, Ernesto. Pubblica articoli di matematica, fisica e chimica e la sua fama comincia a diffondersi; nel 1832 viene nominato membro dell'Istituto Veneto; escono due suoi importanti lavori sulle equipollenze, che preludono allo sviluppo del calcolo vettoriale ; nel 1840 l'Istituto Veneto lo nomina membro pensionario, posizione alla quale è annesso un emolumento. Bellavitis partecipa ad un concorso per una cattedra all'Università di Corfù, per la quale viene invece scelto il fisico Mossotti; tre anni dopo è proposto come professore all'Università di Malta, ma rifiuta. Data la mancanza di laurea e di diplomi, all'assegnazione della cattedra all'Università di Padova una “sovrana risoluzione” dell'imperatore d'Austria del 4 luglio 1846 lo promuove “dottore in matematica” senza domanda e con dispensa dagli esami . All'Istituto Veneto dedica una non piccola parte della sua vastissima attività: negli «Atti» escono, in quarantadue dispense, delle rassegne commentate di giornali scientifici nazionali ed esteri dal 1859 al 1880. In tali commenti egli risolve ben 857 questioni matematiche: 228 proposte da 94 matematici italiani e 629 di 247 scienziati stranieri. Le pubblicazioni al termine della sua vita sono 223, e altre 24 sono ancora manoscritte. Nei suoi scritti usa abbreviazioni varie, mostrando una grande tendenza alla sintesi e all'organizzazione gerarchica di concetti e parole.  All'idea di una lingua universale Bellavitis aveva pensato fin da giovane. Già il 18 ottobre 1818, cioè a nemmeno quindici anni, egli scriveva in un libriccino legato in pergamena alcuni appunti sull’argomento sotto il titolo Principi di una lingua universale . Il libretto raccoglie suoi pensieri fino al 1826, e nelle prime quattro pagine vi è un compendio di grammatica. A pagina 6 sono esposti dei "principi di grammatica universale per tutti i filosofi", principi ispirati alla geniale nomenclatura degli elementi chimici dovuta al Lavoisier. Bellavitis è attratto da questi principi generali, nei quali vede una grande possibilità di semplificazione della conoscenza e della sua divulgazione. Alla teoria sono uniti due esempi completi. Vengono trattate lettere dell'alfabeto, sillabe, nomi, generi (viene introdotto il neutro), aggettivi, verbi; ma solo quando è già scienziato largamente affermato Bellavitis esce con una proposta, invero del tutto teorica. All'inizio della citata comunicazione del 1862 egli allude con rammarico alla decadenza della lingua latina:   È antico desiderio quello di una lingua universale, che almeno servisse pei dotti: si tentò di rendere tale la lingua latina; ma sia insufficienza di una lingua condannata a rimanere stazionaria in tanto progresso di idee, sia uso di trasposizioni poco conformi alla schietta esposizione di cose scientifiche, sia desiderio degli scrittori di rendere a tutti accessibili i loro pensieri, l'uso della lingua latina, anche nelle opere puramente scientifiche, fu quasi del tutto dismesso. I matematici s'intendono facilmente tra loro, e ben di rado hanno opinioni differenti; per lo contrario i filosofi difficilmente s'intendono, ed ancor più difficilmente si accordano nei loro sistemi; forse è precipua ragione il linguaggio preciso e chiaro di cui si servono i primi, mentre i secondi sono costretti a servirsi di una lingua che creata dal popolo è tutta basata sugli oggetti fisici, e soltanto mediante traslati giunge ad esprimere imperfettissimamente quelle idee astratte, quegli enti d'immaginazione, che formano l'oggetto della filosofia. […] Mi pare non infondata supposizione che l'uso di una lingua filosofica spargerebbe una luce affatto inattesa sulla filosofia e sulle scienze che hanno con essa qualche affinità; sicché quella lingua sarebbe di grande vantaggio, anche indipendentemente dall'universalità che essa potrebbe acquistare fra i dotti, e quindi del legame che stabilirebbe tra tutte le nazioni.   Il Bellavitis sembra non conoscere né gli scritti di Comenio né quelli di Leibniz e questo era certamente comprensibile all'epoca dei suoi primi appunti di ragazzo. La grande opera del Comenio - i sette libri della De rerum humanarum emendatione consultatio catholica (spesso abbreviata nelle citazioni in Consultatio) - non fu scoperta che nel 1935 ad Halle da Dimitri Cicevskij, però il Bellavitis maturo avrebbe dovuto conoscere l'articolo, di una certa ampiezza, sulla lingua universale apparso sulla Encyclopédie di D'Alembert e anche la citata lettera di Mersenne a Cartesio sullo stesso argomento. Invece egli menziona soltanto opere precedenti con parole vaghe e permeate di un certo scetticismo:  Parmi che alcuni lavori pubblicati al principio del presente secolo intorno ad una lingua filosofica tendessero piuttosto a complicare che a semplificare il meccanismo del linguaggio, il che sarebbe, io credo, tutt'altro che opportuno. I suggerimenti che il Bellavitis dà per la costruzione di una lingua filosofica sono divisi in paragrafi riguardanti sezioni diverse: etimologia, grammatica, pronuncia, scrittura. Nella sezione dedicata all'etimologia egli propone che un letterato faccia la scelta delle idee fondamentali e vi attribuisca un termine derivato dalle lingue più conosciute: egli vede nel sanscrito la madre "delle lingue di popoli, a cui noi riserbiamo il nome di civilizzati; così i materiali sono tutti pronti per la grande opera". È attento all'eufonia, prevedendo un alternarsi di vocali e consonanti, ma con un'indeterminazione delle vocali per poter poi utilizzarne una possibile modifica per esprimere parole derivate. La scelta dei concetti fondamentali sarà necessariamente una scelta di concetti materiali, ma dovranno anche considerarsi "i principali esseri od azioni morali", dato che la lingua è concepita come una "lingua filosofica". Attorno ad un concetto base si raccoglierebbero altre parole derivate che hanno somiglianza di significato, e queste verrebbero create con delle preposizioni (probabilmente si tratta di quanto attualmente si dice "affisso"); una tale idea era già presente nei suoi primi appunti, e ricalca, senza una esplicita citazione, le idee base di Wilkins. Una proposta interessante è che venga costituito subito un vocabolario con la corrispondenza delle principali lingue europee, "notando per ciascuna parola di più significati qual è quello in cui essa s'intende presa." Bellavitis suggerisce quindi un'uscita della lingua già come universale, mentre le altre lingue che concretamente verranno proposte dopo qualche decennio, come il Volapük o l'Esperanto, usciranno con dizionari, peraltro estremamente limitati, in una lingua europea per volta. Bellavitis è ben conscio della grandiosità dell'impresa, ma ha fiducia che anche solo una realizzazione parziale, come la traduzione in una sola lingua e la classificazione metodica di tanti concetti, possa essere utile indipendentemente dalla realizzazione dell'intero progetto. Egli suggerisce anche una riduzione del vocabolario, ritenendo tante parole ormai cadute in disuso. Una certa sua diffidenza si nota quando parla del lessico attinente alla filosofia: ritiene infatti che con l'obbligo di definire con precisione i concetti filosofici apparirà palese che i "pensamenti di alcuni filosofi sieno non solamente non dimostrati, ma eziandio senza un preciso significato." La terminologia matematica invece sarebbe facile ad idearsi data la sua limitatezza, in quanto si tratterebbe soltanto di quelle poche parole che accompagnano le formule.  Un interessante suggerimento è quello di derivare aggettivi da sostantivi o viceversa, o verbi da sostantivi o viceversa, e di costruire quindi parole riferentisi ad alcuni concetti centrali, attorno ai quali altre parole si aggregherebbero, distinte soltanto per una vocale o per una consonante di suono affine. Le "voci radicali", che dovrebbero essere costruite come somiglianti a quelle delle lingue viventi, sarebbero abbastanza poche, data l'ampia capacità di formare derivati tramite particelle prepositive (oggi si chiamerebbero preposizioni o affissi) e di comporre parole composte come in tedesco. L'Esperanto, il cui primo embrione è del 1878 e la cui uscita in pubblico si ha a Varsavia, seguirà molto da vicino questi principi, per quanto sia da escludersi che il suo iniziatore, il polacco Zamenhof, legge il lavoro di Bellavitis . A sua volta il Volapük da Schleyer, sembra una trasposizione concreta dei principi di Bellavitis, anche per quanto riguarda le parole composte e la presenza dell'aspirazione in principio di parola; ma anche in questo caso è da escludersi una conoscenza del lavoro del Bellavitis da parte di Schleyer. Il Bellavitis propone poi un singolare vocabolario in un ordine alfabetico che consideri soltanto le consonanti, dato che le vocali avrebbero valore diverso a seconda della loro posizione all'interno del vocabolo. Ogni parola che cominciasse per vocale sarebbe preceduta da un'aspirazione. Bellavitis si ispira al tedesco, dove l'apofonia vocalica interconsonantica indica funzioni diverse (ad esempio nel verbo, dove in voci come sprechen, sprichst, sprach, gesprochen il cambiamento di vocale indica un cambiamento di funzione della voce verbale). Egli dice di aver trovato molto comodo un dizionario tedesco basato solo sulle consonanti, dove la vocale della radice era sostituita da un punto, nonché un dizionario inverso limitato alle desinenze. La grammatica proposta dal Bellavitis è piuttosto astrusa e non basata su nessuna lingua esistente, e certamente di fruibilità concreta difficile, se non impossibile. Egli propone varie possibilità opzionali che renderebbero la lingua non rigida e sostiene che una lingua basata sui precetti, come la sua lingua a priori, piuttosto che sugli esempi, come sono le lingue etniche, avrebbe una maggior semplicità. È prevista una declinazione con quattro casi, ma anche le desinenze di questi non sarebbero fisse, ma variabili a seconda che la parola si legasse come significato al termine seguente o a quello precedente. Sugli articoli (nei quali il Bellavitis comprende anche gli aggettivi e pronomi dimostrativi) vi sarebbe un'ampia variabilità. Questa così vasta libertà, che davvero sembra sconfinare nell'anarchia, appare non tener conto della difficoltà di imparare una tale lingua: il rendere non obbligatorie certe forme o certe desinenze, o certe congiunzioni, non semplifica la lingua, in quanto la scelta tra tante forme non aiuta chi scrive, che si troverebbe senza un criterio di scelta, e ancor meno chi legge, che dovrebbe tenere a mente tutte le possibili varietà di espressione. Le opzioni che il Bellavitis dà per le successive evoluzioni della lingua sono tutte di possibili estensioni, che sembrano essere così vaste che ognuno sembra poter costruire la lingua a suo piacimento. Anche per i pronomi egli prevede una lista assai più ricca di quelli attuali: essi si diversificherebbero anche a seconda del caso del nome a cui si riferirebbero, e a seconda del fatto che si riferiscano ad un oggetto collocato vicino o lontano non già dal parlante, ma nella proposizione (un po’ come nell’italiano l’uso di “questo” e “quello”). Un suggerimento interessante riguarda i tempi dei verbi, che si potrebbero fissare una sola volta per ogni paragrafo: quando un racconto fosse al passato, basterebbe mettere il segno del passato all'inizio tramite un avverbio, e tutte le voci verbali assumerebbero nel seguito un significato passato.  Come esistono i pronomi, così esisterebbero i "proverbi", termine che va inteso come "parola al posto del verbo" per evitare una ripetizione di questo, così come il pronome evita la ripetizione del nome. In questo il Bellavitis dice di aver preso ispirazione dall'inglese, e infatti l'inglese a volte usa le voci del verbo to do al posto del verbo precedentemente espresso. Interessante è la proposta dei suffissi, per indicare il diminutivo o il peggiorativo, unitamente alla possibilità di usarli entrambi in successione, come se in italiano si potesse dire cavallinaccio; tale possibilità sarà codificata poi sia nel Volapük che nell'Esperanto. Si noti tuttavia che il succedersi di più suffissi, ancorché lecito in queste due lingue, rimane poi, nella pratica, estremamente limitato proprio perché non comune nelle lingue etniche, che sono comunque una buona immagine del pensiero umano, dove la sintesi che porta all'uso dei suffissi e alla loro combinazione è temperata dalla impossibilità di tenere a mente una serie troppo lunga di particelle. Bellavitis auspica nella lingua universale la possibilità di indicare con suffissi all'interno della stessa parola le varie età o le varie qualità della persona, riprendendo alcune possibilità della lingua araba. Sui verbi matura l'idea che numeri e persone non abbiano bisogno di distinguersi tramite una desinenza diversa, principio applicato poi nell’Esperanto, e tuttavia egli caldeggia un ulteriore pronome personale, oltre ai sei usuali, per indicare l'unione dell'io con il tu, e un altro per indicare l'unione del tu con una terza persona. Un atteggiamento singolare il Bellavitis lo ha nei confronti dei tempi verbali, che gli sembrano di poco vantaggio: nelle scienze e in moltissime altre circostanze ciò che si asserisce fu, è, sarà sempre vero, e la distinzione del tempo od è un imbarazzo o si adopera in significato alcun poco differente, come quando si pone in futuro la conseguenza delle asserzioni esposte in tempo presente. La distinzione dei tre tempi passato, presente e futuro è quasi sempre insufficiente, occorrono degli avverbi per indicare qual sia il tempo passato o futuro, e quanto ristretto sia il presente: ora dal momento che si pongono tali avverbi riesce affatto inutile modificare il verbo; così per esempio il dire: ieri lessi, oggi riposo, domani scriverò non è niente più chiaro di: ieri io leggere, oggi (il nominativo si sottintende) riposare, domani scrivere.   Altre semplificazioni il Bellavitis propone nei modi verbali, ricalcando un po' una lingua nella quale il verbo è sempre all'infinito e la forma morfologica diversa verrebbe sostituita da avverbi: se oggi tu venire, domani io partirebbe. E tuttavia ad una semplificazione dei modi indicativo, congiuntivo e condizionale si aggiungerebbe invece un arricchimento con i modi potenziale e dubitativo, mentre non si darebbe luogo all'ottativo. Del pari verrebbe abolito il passivo, dato che ogni frase passiva può essere volta all'attivo, e, se si vuole dare risalto a chi riceve l'azione ponendolo al primo posto nella frase, esso viene contrassegnato dall'accusativo che indica l'oggetto. La costruzione diventa così più libera e si presta ad una maggiore espressività rispetto alle lingue che non hanno declinazioni e che quindi sono costrette nella massima parte dei casi ad utilizzare la struttura soggetto-verbo-oggetto.  Una sistematica critica Bellavitis la rivolge ai grammatici, che vogliono studiare una lingua secondo i principi di un'altra, e quindi nell'italiano riconoscono forme e differenze che invece in italiano non esistono e sono proprie del latino. Sulla poesia il Bellavitis esprime posizioni contraddittorie. Da una parte egli sente che nessuna lingua può esistere senza poesia, e che la ricchezza di immagini si potrà trovare anche nella lingua filosofica; dall'altra egli dichiara:  Debbo però confessare che non so scorgere qual sia la vera cagione del diletto che recano nella poesia il metro e la rima: quelle artificiose canzoni, in cui si succedono a lungo periodo le stesse misure di versi e lo stesso concatenarsi di rime; quei sonetti architettati in alcune speciali maniere; quelle terzine che si seguono in modo sempre uniforme e terminano con un primo verso;… sono desse belle soltanto perché difficili?   La critica che egli successivamente muove alla rima, che ritiene stucchevole, menziona il fatto che la rima non è sempre stata una componente essenziale nella poesia, dato che la letteratura latina non la conosceva neppure e che lo spagnolo preferisce le assonanze. Nella pronuncia Bellavitis segnala la necessità di una grande attenzione, ma non cura l'importanza delle vocali, essendo state quelle le prime a trasformarsi con il passare dei secoli nella lingua greca stessa, che pure è rimasta fino ai giorni nostri abbastanza uguale come grafia a quella classica. Sulla scrittura egli propone come unica soluzione plausibile una scrittura fonetica, cosa che sia l'Esperanto che il Volapük applicheranno come ovvia base; le vocali sarebbero sette, cioè quelle italiane compresa la "o" aperta e la "e" aperta. Ma egli rifiuta i vari caratteri corsivo, tondo, o il tutto maiuscolo, nonché l'uso delle maiuscole per l'iniziale dei nomi propri, ritenendo che questi si possano rendere riconoscibili in altro modo. D'altra parte caldeggia un sistema che consenta di leggere con senso a prima vista, con dei segni particolari al principio del periodo, come il punto interrogativo rovesciato dello spagnolo, o dei segni che consentano di indicare il modo di recitazione, dove alzare e dove abbassare la voce, e pensa che anche le lingue etniche potrebbero introdurre questi segni, una volta che fossero stati studiati e decisi nella lingua universale. La parte didascalica di un colloquio orale è magnificata rispetto alla lettura di un testo scritto, perché appunto il tono della voce può far risaltare la parte fondamentale del discorso rispetto ad altri elementi inessenziali. La scrittura potrebbe anche effettuarsi tramite un sistema di segni corrispondenti a numeri e parole, così come avviene nell'alfabeto Morse. I segni fondamentali sarebbero tre: il punto, la lineetta e la linea (più lunga). Ogni lettera verrebbe espressa da tre di questi segni, che darebbero 27 combinazioni, e le cifre da 1 a 9 verrebbero indicate con due di questi segni. Si potrebbe inoltre costruire un dizionarietto di frasi già fatte e numerate, per cui sei segnali consecutivi potrebbero indicare il numero d'ordine di ciascuna di queste frasi, e si potrebbero riunire sotto lo stesso numero anche frasi diverse che avessero significato simile. Bellavitis propone quindi, pur senza menzionarlo esplicitamente, un frasario utilizzabile durante i viaggi, con frasi di prima necessità. A questi tre segni fondamentali si potrebbero sostituire tre gesti, la mano chiusa a pugno oppure stesa orizzontalmente o verticalmente: si potrebbe così comunicare, oltre che con le lettere, con le mani, e anche le mani potrebbero essere usate per indicare i numeri corrispondenti alle frasi del dizionarietto. Una significativa attenzione il Bellavitis la dedica alla possibilità di evoluzione della lingua filosofica proposta. In più punti egli indica come il lessico non debba restare ingessato, ma debba consentire un adeguamento che segua l'evolversi della scienza. Per la numerazione egli suggerisce di fissare un termine ogni due potenze di dieci, per cui dopo il cento come 102 verrebbe il miria come 104 e il milione come 106, e la potenza corrispondente al mille diventerebbe dieci centi. La giustificazione di questo modo di contare egli la vede nel fatto che spesso nella lingua parlata i numeri molto lunghi vengono letti a coppie di cifre: 30472308,02157 verrebbe letto trenta milioni quarantasette miria ventitré centi otto e due centesimi quindici miriesimi e sette decimi di miriesimo. Già CARDANO (vedasi), nel suo trattato De numeris, aveva proposto una nuova scansione della numerazione utilizzando le miriadi; singolarmente il Bellavitis propone "centi" come forma plurale di "cento", e rifiuta il "mille" che non si adatta alla scansione ogni due potenze di 10. La nota termina con la proposta di un alfabeto per le segnalazioni in mare, di fatto una semplificazione del semaforico, come pure di un alfabeto per ciechi, anch'esso basato su triadi di segni. Alla lingua universale il Bellavitis applica anche una stenografia. Giunti al termine della lunga nota del Bellavitis ci si chiede se una lingua così a priori, alla quale peraltro manca ancora tutto il lavoro riguardante il lessico, possa essere appresa facilmente. La risposta è fatalmente negativa. Altri progetti di lingue a priori proposti nello stesso periodo, come il solrésol del Sudre, non uscirono mai dalla fase di proposta. Il solrésol era un progetto di lingua universale basata sui "sette segni" della musica, cioè sulle sette sillabe che costituiscono i nomi delle note. Maturato da una prima idea del 1817, tale progetto fu presentato all'Accademia francese delle Scienze nel 1827; un testo completo vide però la luce soltanto nel 1866, dopo la morte dell'ideatore. I segni musicali, veramente universali, almeno nella musica del mondo occidentale dell'epoca, offrono varie possibilità di espressione: la lettura vocale dei segni stessi, la loro cantabilità, la scrittura su un pentagramma, la trascrizione in cifre arabe, la presentazione tattile toccandosi con l'indice della mano destra le falangi della sinistra. Il contrario di un'idea si indicava invertendo i segni: mi-sol = il bene, sol-mi = il male; do-mi-sol = Dio, sol-mi-do = Satana. I gradi di un aggettivo erano indicati con un aumento del sonoro, il femminile con la ripetizione (e quindi, foneticamente, con l'allungamento) della vocale finale. Il progetto incontrò anche consensi tra persone importanti, come Napoleone III, Victor Hugo, Humboldt, Lamartine. Probabilmente il Bellavitis aveva avuto notizia del solrésol, in particolare poteva aver apprezzato l'idea di una utilizzabilità e di una possibilità di forme di espressione così ampie, per quanto, come abbiamo visto, egli fosse piuttosto critico nei confronti di progetti precedenti. Ma la logica non è l'unica caratteristica della nostra mente, e un linguaggio puramente logico che non avesse agganci a lingue esistenti non ha mai avuto un benché minimo numero di parlanti. Il Bellavitis non propone nulla di concreto, non la scelta di una radice, non un esempio di applicazione. I suoi discorsi si mantengono teorici e non trattano minimamente della fatica necessaria per imparare una serie di corrispondenze tra le parole delle lingue etniche, a cui l'uomo è già abituato, e le parole, o le successioni di segni, della nuova lingua ancora del tutto sconosciute. La conclusione è un lungo elenco di cose che i costruttori di tale lingua filosofica dovrebbero fare, senza nessun suggerimento pratico. Il Vailati  vede in queste semplificazioni proposte dal Bellavitis un concetto di linguaggio "suscettibile di venir compreso indipendentemente dalla conoscenza di qualsiasi regola grammaticale" . In realtà è arduo aderire a questo giudizio: la mancanza di regole grammaticali fornisce una lingua estremamente povera dal punto di vista espressivo, il che fa dubitare della sua possibilità di funzionamento. La totale mancanza di scelte lessicali, che costituiscono pur sempre la parte più impegnativa di un qualsivoglia apprendimento di una lingua, rende non verificabile qualsiasi possibilità di applicazione pratica. Il Bellavitis spesso esprime i suoi concetti con una certa foga. Le recensioni che egli fa dei lavori che sistematicamente appaiono nelle riviste sono talvolta laudative, talvolta fortemente critiche; è abituato a dire il suo pensiero senza remore. Critica i cultori di geometrie non euclidee, considerandole "false". Uomo anche politico, Senatore del Regno dall'anno in cui il Veneto fu annesso al Regno d'Italia, nelle Utopie  egli disquisisce di politica e di rapporti sociali: propone una anagrafe elettorale con una tessera (cosa che in Italia ha trovato realizzazione solo da pochissimi anni), e dice, a proposito di elezioni indirette: "Io credo che le donne che sanno scrivere possano scegliere gli elettori più opportuni tanto bene quanto gli uomini" (in Italia il voto alle donne si è avuto ottant'anni dopo quello scritto). In tema di successione ereditaria propone considerazioni su figli legittimi e naturali che hanno trovato applicazione soltanto nel diritto di famiglia di oltre cento anni dopo. Nelle Reminiscenze della mia vita  ricorda le conquiste tecnologiche e sociali di cui è stato spettatore: la litografia, la distribuzione dell'elettricità, la decomposizione dello spettro luminoso, il magnetismo, la posta, il telegrafo; e non manca il patriottismo nel pieno senso risorgimentale nelle parole con le quali conclude le Reminiscenze: "Quando vidi entrare in Padova Vittorio Emanuele II liberatore, e quando in Roma udii proclamare dall'augusto labbro che l'unità Nazionale è compiuta potei dire: ho vissuto abbastanza."  Bellavitis si colloca quindi in una posizione con lo sguardo rivolto al futuro, ma con una corretta percezione del passato e dell'evoluzione della tecnica. Riguardo alla lingua universale aveva colto nel segno al tempo giusto: il problema da lui indicato stava esplodendo, e in varie altre parti del mondo si proponevano soluzioni. Nei primissimi anni del Novecento si andò costituendo un forte movimento di accademici, filosofi e matematici favorevole all'adozione di una lingua internazionale per la scienza.   3. GLI SVILUPPI SUCCESSIVI E LA PARTECIPAZIONE DEI PADOVANI  La recente uscita del carteggio tra i due logici Giuseppe Peano e Louis Couturat  offre un interessante spaccato sul problema della lingua internazionale come fu visto non solo dai due protagonisti, ma dalla comunità scientifica del primo Novecento. Purtroppo nel carteggio, che è di 101 lettere, abbiamo quasi soltanto le lettere di Couturat a Peano, ben novantasette, conservate nell'Archivio Giuseppe Peano di Cuneo; delle risposte sono conservate invece soltanto quattro minute del matematico torinese, ma non gli originali, di sicuro molto più numerosi, che, giunti a Couturat, sono poi andati perduti. Il volume termina con un'interessantissima Appendice che contiene altri 15 pezzi: lettere scambiate da Peano e Couturat con altri matematici e il necrologio di Couturat scritto da Peano. L'apparato critico, consistente di un'ampia introduzione, di una completa bibliografia di entrambi gli autori e di un vastissimo corpus di note colloca il volume tra le migliori pubblicazioni sull'argomento. Il carteggio fornisce tutta una serie di elementi finora poco noti sul pensiero e soprattutto sulle attività organizzative dei due scienziati. L'epistolario edito inizia già a scena aperta, in quanto la prima lettera registrata è del 30 ottobre 1896, e in essa Couturat ringrazia Peano dell'invio del suo Formulaire, che Couturat apprezza come raccolta sommaria di proposizioni e come repertorio bibliografico, riservandosi ancora un commento sull'utilità della logica matematica e del linguaggio simbolico di Peano.  A Padova era nata la geometria a più dimensioni di Veronese, con il quale Peano ha una feroce polemica. Infatti il Veronese nei suoi Fondamenti di Geometria  lamenta che Peano, nella «Rivista di Matematica» di cui è direttore, critichi gli iperspazi intesi nel senso di Veronese. La risposta di quest'ultimo è contenuta in una nota a p. 613 dell'opera citata:   Il sig. Peano ha torto nella forma e nella sostanza, ma per quanto non sia difficile rispondere alle sue affermazioni, siccome egli accusa di mancanza di buon senso quei geometri che non possono pensare come lui […] è resa così impossibile ogni amichevole e dignitosa discussione. Io sono convinto che le questioni sui principi della matematica e specialmente della geometria siano già di per sé abbastanza difficili senza che vi sia bisogno di aggiungervi nuove difficoltà di altra natura con polemiche appassionate e intolleranti, come sono altresì convinto che certe critiche pel modo con cui son fatte portano chiaramente in sé la loro condanna.   Il Peano continuerà la polemica nella sua recensione dei Fondamenti di Geometria del Veronese, che appare nella «Rivista di Matematica». La stroncatura è netta e addirittura Peano scende dalla confutazione scientifica all'ironia. Vengono menzionate "sgrammaticature, abituali all'autore", e viene fortemente evidenziata la poca chiarezza logica: successioni di insiemi che diventano sempre più grossi, tautologie evidenti presentate come postulati. Peano si lascia andare a frasi come: "Le conseguenze di questo principio assurdo sono evidenti", e conclude: "E si potrebbe lungamente continuare l'enumerazione degli assurdi che l'A. ha accatastato. Ma, questi errori, la mancanza di precisione e rigore in tutto il libro tolgono ad esso ogni valore."  In realtà i concetti del Veronese, in particolare quelli sugli infiniti e infinitesimi, avevano ricevuto critiche da più parti, e Veronese scriverà a difesa parecchi articoli, confutando le critiche, ma non quelle di Peano, con cui non ebbe più rapporti. Tuttavia nel carteggio tra Peano e Couturat, che riguarda un periodo posteriore, compare il nome di Veronese. Vediamo in quale contesto. Nel 1900 Léopold Leau, un matematico francese, compagno di studi di Couturat all'École Normale Supérieure, pubblica un opuscolo sulla necessità di una lingua internazionale a scopi puramente pratici, invitando gli uomini di scienza e di cultura ad aderire all'idea . Egli lancia anche la costituzione di un comitato che sensibilizzi al problema l'opinione pubblica; Couturat dal canto suo pone la questione al primo Congresso di Filosofia che si tiene a Parigi nella prima settimana di agosto del 1900. A questo congresso partecipano vari matematici italiani, in particolare i logici collaboratori di Peano: tra questi Alessandro Padoa, un veneziano che aveva studiato ingegneria a Padova e che venne poi attratto da argomenti più teorici, laureandosi infine in matematica a Torino. Padoa è un logico matematico: tiene molte conferenze in varie università, tra cui Padova, partecipa con relazioni a congressi, ma non ha un cattedra universitaria. Insegna nella scuola media, dapprima a Pinerolo, poi a Roma e a Cagliari, e infine in un Istituto Tecnico di Genova. Nel 1934 vincerà il premio dell'Accademia dei Lincei. È conosciuto tra i matematici e tra i filosofi: al congresso di Filosofia di Parigi tiene una conferenza sulla teoria algebrica dei numeri, preceduta da un'introduzione logica a una qualsiasi teoria deduttiva.  Il congresso di Filosofia approva l'idea di Couturat e all'unanimità lo nomina suo delegato al Comitato lanciato da Leau e in fase di costituzione. Il secondo congresso dei Matematici si tiene a Parigi immediatamente dopo quello di filosofia, e vi è quindi una parziale continuità di presenze. Ancora ci sono i collaboratori di Peano, e ancora figura Alessandro Padoa. Al congresso dei Matematici viene di nuovo proposta la questione della lingua internazionale, ma, a differenza di quanto era successo tra i filosofi, si fronteggiano due linee di azione: quella caldeggiata da Leau, che insiste per la formazione concreta del Comitato al quale partecipino i matematici con cinque delegati, e invece una mozione proposta da Vasilev, che demanda alle accademie il compito di esaminare il problema del proliferare delle lingue ed eventualmente di restringere soltanto ad alcune lingue la produzione scientifica. Padoa si dichiara esplicitamente a favore della mozione di Leau, ma la maggioranza si colloca sulle posizioni di Vasilev. I matematici quindi respingono l'idea di una lingua unica e in particolare una lingua artificiale, mentre Couturat e Leau sono fautori di una lingua unica, che non può essere altro che pianificata, ritenendo che nessuna lingua nazionale abbia la possibilità di essere imposta a scapito di altre: quale scienziato si sottoporrebbe a una simile diminutio? Peano dal canto suo sta elaborando una lingua internazionale artificiale basata sul latino, che verrà presentata nel 1903 nella «Revue de Mathématiques» sotto il nome di latino sine flexione. In realtà i matematici scelgono di non scegliere: il demandare la decisione ad un altro organismo è una tattica chiaramente dilatoria. L'Associazione Internazionale delle Accademie, che raccoglieva diciotto accademie tra cui quella italiana dei Lincei, si era creata nel 1900 e tenne la prima assemblea generale il 9 aprile 1901. Couturat e Leau ritengono la strada indicata dai matematici non percorribile e nel frattempo iniziano ad agire, raccogliendo, da diverse associazioni e congressi, un gruppo di delegati. Questi escono in pubblico con una dichiarazione sugli scopi e i metodi del loro lavoro: una lingua internazionale unica è necessaria; essa dovrà essere di facile apprendimento anche per persone di cultura elementare, non dovrà essere nessuna lingua nazionale, e dovrà essere usata in tutti i campi, dal commercio ai rapporti culturali. Nasce così La Délégation pour l'Adoption d'une Langue Auxiliaire Internationale, di cui Couturat è il tesoriere e Leau il segretario generale. La Delegazione dovrà pertanto scegliere la lingua artificiale più adatta e quindi sottoporla alle Accademie europee per un riconoscimento. Qualora l'Associazione delle Accademie dovesse ricusare tale compito, la DALAI avrebbe dovuto a sua volta costituire un apposito Comitato elettivo composto di personalità internazionali che perseguisse tale fine.  Nell'aprile 1901 si riunì dunque per la prima volta l'assemblea dell'Associazione delle Accademie, e qui Hippolyte Sebert  presentò una petizione per inserire la questione della lingua internazionale nella successiva assemblea dell'Associazione, che sarebbe stata nel 1904. I tempi iniziarono quindi ad allungarsi, anche perché l'elaborazione e l'approvazione dello statuto della DALAI non fu semplice: esso comunque prevedeva che la Delegazione si prodigasse affinché le singole accademie proponessero ai propri governi il riconoscimento della lingua e il suo insegnamento nelle scuole. Il tempo per queste azioni era definito in tre anni, in previsione del secondo congresso di filosofia. Il tempo tuttavia non è sufficiente perché si concludano i lavori e pertanto l'azione della DALAI si sgancia dal collegamento con il congresso di filosofia. Couturat nel frattempo pubblica un ponderoso saggio sulla logica di Leibniz, in cui riconosce una sostanziale unitarietà tra i progetti di Leibniz sulla lingua universale e la scienza universale. L'opera suscita l'approvazione incondizionata di Russell e, con qualche riserva, della scuola di PEANO (vedasi). La scuola francese invece espone alcune critiche di fondo. Ancora, nella sua intensa opera di studioso, Couturat, insieme a Leau, pubblica nel 1903 la già citata Histoire, che diventa l'opera fondamentale dell'epoca sulla questione. Tuttavia non conosce la nota del Bellavitis, e ne apprende l'esistenza soltanto da Peano: a lui domanda se si tratta dell'ideatore della teoria delle equipollenze . Couturat ha conosciuto e provato vari progetti di lingue universali, come il Volapük, creato dall'abate tedesco Schleyer, ma ne è rimasto deluso per l'estrema complicazione nella formazione delle parole, la cui riconoscibilità era fortemente ridotta. Couturat diventa quindi un appassionato fautore dell'Esperanto, che egli per il momento considera la migliore delle lingue artificiali, soprattutto per il numero già non piccolo di parlanti, che costituisce un'ottima dimostrazione della sua capacità di adempiere al compito di una lingua internazionale. Non vuole tuttavia che i giochi sembrino già fatti, e la Délégation si ripromette di prendere in considerazione anche altri progetti. I progetti di lingua internazionale hanno sempre oscillato tra il tentativo di una massima regolarità di formazione delle parole derivate da una radice, come proposto anche da Bellavitis, e il polo opposto, cioè la comprensibilità quasi immediata da parte degli europei colti: per ottenere questo secondo scopo una lingua internazionale avrebbe dovuto presentare parole formate con quelle irregolarità di derivazione che si trovano nelle lingue nazionali. Come emerge dal carteggio tra Peano e Couturat, il matematico torinese, pur fortemente interessato alla soluzione del problema tramite una lingua artificiale, non si fa coinvolgere dagli entusiasmi del filosofo francese: ritiene che l'apprendimento di una lingua a livello tale da poter essere parlata da tutti sia impresa ardua, e cita il fatto che anche dell'italiano stesso larghi strati della popolazione non sono sicuri padroni, nonostante che la lingua standard sia insegnata in tutte le scuole del Regno. Peano conosce l'Esperanto e Couturat lo incoraggia a partecipare ai congressi: lui stesso vi ha partecipato ed è rimasto sorpreso di come la lingua funzioni bene e metta in comunicazione senza nessuna difficoltà persone di provenienze e lingue molto diverse. Sulla stessa lunghezza d'onda è il matematico Charles Méray, dell'università di Digione. Tra Méray e Peano erano intercorse due lettere nel luglio del 1900: il giorno 14 Méray scrive una lunga lettera che magnifica le qualità e la semplicità dell'Esperanto, e Peano gli risponde il giorno 27 con un tono piuttosto scettico e facendo una critica puntuale all'Esperanto, pur riconoscendo che questo est plus scientifique que toutes les autres langues artificielles. Il nome di Peano figura tra i partecipanti al secondo congresso mondiale di Esperanto nel 1906 a Ginevra, ma non vi sono altre notizie sulla sua partecipazione.  La DALAI spinge perché il problema dell'adozione di una lingua internazionale venga posto all'ordine del giorno della terza assemblea generale dell'Associazione delle Accademie, da tenersi a Vienna nel maggio 1907, e cerca di acquisire consensi di accademie e associazioni scientifiche; pertanto Couturat chiede l'intervento di Peano per ottenere appoggi di scienziati italiani ad una petizione in tal senso. In particolare egli segnala come desiderabile il consenso della Association Géodésique Internationale e ne elenca i membri italiani: tra questi vi è Lorenzoni, astronomo e ingegnere, direttore dell'Osservatorio di Padova. Giuseppe Lorenzoni era entrato come assistente all'osservatorio astronomico nel 1863 ancora prima di laurearsi (si laureò in ingegneria nel 1864) e dieci anni dopo era professore. Nominato direttore dell'Osservatorio, contribuì a fare di Padova un centro di insegnamento dell'astronomia; si occupò di gravimetria, di spettroscopia, di stelle cadenti, di ottica. Autore di oltre un centinaio di pubblicazioni di astronomia e geodesia, fu membro dell'Accademia dei Lincei e dell'Istituto Veneto. Il suo appoggio era quindi da considerarsi di estremo prestigio. L'attività frenetica del Couturat raggiunge qualche risultato concreto: l'Accademia di Vienna proporrà una mozione a favore della lingua internazionale e l'Accademia di Copenaghen voterà a favore. Per tale mozione vengono raccolte firme di associazioni e di singoli, e il conteggio finale dà 307 associazioni e 1251 scienziati, tra i quali vari italiani. Nel dicembre 1906 Couturat e Leau inviano una circolare per definire l'azione dell'Associazione in vista dell'assemblea e la circolare riporta una decisone della DALAI che esclude dalla DALAI stessa gli inventori in prima persona di lingue artificiali. Couturat non si illude che le accademie si incaricheranno di risolvere la questione e comincia un'azione per costituire il Comitato elettivo di personalità scientifiche previsto dallo statuto della DALAI; infatti il 29 maggio 1907 l'Associazione delle Accademie respinge la mozione. Couturat ritiene quindi che non siano più differibili i tempi per la costituzione del Comitato, nel quale devono essere rappresentati tutti i paesi culturalmente avanzati, ciascuno con un singolo membro, e si adopera per invitare scienziati autorevoli ad entrare nel Comitato. La sua ricerca parte da quelli che avevano già firmato la mozione che chiedeva che l'Associazione delle Accademie si occupasse del problema della lingua internazionale. Peano è escluso a priori dalla DALAI e quindi dal Comitato, perché Peano è l'ideatore del latino sine flexione, ma in una lettera del 30 marzo 1907, scritta da Parigi, Couturat chiede a Peano di adoperarsi perché un italiano di prestigio entri a far parte del Comitato. Peano è membro dell'Accademia dei Lincei, e può parlare con altri membri. Couturat elenca alcuni nomi che gli appaiono adatti, tra i quali anche Giuseppe Veronese, professore di grande fama, deputato, senatore del Regno d'Italia dal 1904 per meriti scientifici, schierato tra i radicali. Veronese era succeduto a Bellavitis sulla cattedra padovana di geometria descrittiva. Siamo ormai nel 1907, le polemiche tra Peano e Veronese sono di un quindicennio prima, ma forse non del tutto sopite . Non ci sono testimonianze del coinvolgimento di Veronese nel costituendo Comitato, ma si può ragionevolmente supporre che Peano non gli abbia fatto nessuna proposta. Un rappresentante italiano che aderisse al Comitato non fu trovato: per acquisirne uno fu violato lo statuto, in quanto fu cooptato proprio il Peano, ancorché autore di un suo progetto di lingua internazionale. L'azione del Comitato fu certamente seria e minuziosa, ma la probabilità che ne conseguisse la scelta di una lingua con reale possibilità di essere accettata da accademie e governi andò rapidamente scemando.  Nel frattempo i sostenitori dell'Esperanto erano cresciuti di numero e nel 1905 avevano avuto il loro primo congresso internazionale a Boulogne-sur-Mer, dove avevano dichiarato immutabile la struttura della lingua, codificata nell'opera Fundamento, consistente nella Grammatica, in un Eserciziario e nel Vocabolario in cinque lingue. L'Esperanto dunque veniva sottratto alla tentazione di continue modifiche e miglioramenti: i suoi utenti ritenevano che la lingua andasse abbastanza bene così, e che qualsiasi tentativo di miglioramento avrebbe soltanto portato ad una destabilizzazione. Gli esperantisti avevano già rifiutato delle proposte di miglioramento nel 1894, e ormai, a venti anni dall'uscita della prima grammatica della lingua, erano diventati fortemente conservatori. Il Comitato scelse formalmente l'Esperanto, ma con una notevole quantità di proposte di cambiamento nell'alfabeto, nella fonetica, nella morfologia, nelle preposizioni: alcuni si illusero che questi miglioramenti sarebbero stati gli ultimi e definitivi, e quindi aderirono a questa nuova forma dell'Esperanto, che prese il nome di Ido (che in Esperanto significa "discendente"); ma la gran parte degli adepti restò fedele all'Esperanto già consolidato. La nuova lingua fu oggetto di successive modifiche e alcuni membri del Comitato produssero a loro volta altri progetti, nella supposizione che la mancata diffusione di una lingua internazionale dipendesse dalle qualità della lingua in sé, piuttosto che da motivi di sociopolitica, come le vicende successive dimostreranno ampiamente. Couturat aderì pienamente all'Ido, convinto che la scelta del Comitato fosse la migliore, e ne fu un propagandista entusiasta come prima lo era stato dell'Esperanto; Peano, che pure aveva partecipato ai lavori del Comitato, ma non all'ultima votazione perché era impegnato in esami a Torino, non rispettò le conclusioni del Comitato e continuò a usare e propagandare il latino sine flexione. Ciò causò un rapido raffreddamento dei rapporti con Couturat, che lo accusava di tradimento; seguì tosto un'interruzione definitiva: l'ultima lettera di Couturat. Il filosofo francese morirà in un incidente stradale: la sua automobile verrà investita da un camion militare che porta alle truppe francesi la notizia che la Germania aveva dichiarato guerra alla Francia. È il secondo giorno del primo conflitto mondiale. PEANO ne scriverà un commosso necrologio in latino sine flexione, pur ricordando anche i dissensi . La lingua caldeggiata da Peano assume nel 1909 il nome di Interlingua ; il matematico torinese fonda anche una Academia pro Interlingua, che rileva una precedente accademia volapükista, la Kadem Volapüka . Negli anni Peano scrive vari vocabolari di Interlingua e altre lingue; i suoi adepti si raccolgono intorno alla rivista «Schola et Vita», una rivista fondata e diretta a Milano da Nicola Mastropaolo; vi scrive anche, in Interlingua, un illustre docente dell'ateneo patavino, Tullio Levi-Civita . Peano viene contattato per redigere alcune voci dell'Enciclopedia Italiana, ed egli accetta di scrivere voci sulla logica matematica e sulla lingua internazionale; la voce “Esperanto” sarà invece scritte da Stefano La Colla sotto la direzione di Bruno Migliorini, entrambi partecipi per molti anni del movimento esperantista. Peano muore nel 1932 e la rivista cessa le pubblicazioni nel 1936.  Sia l’Ido che l’Interlingua avranno i loro adepti e le loro pubblicazioni ; tuttavia l’idea, originariamente unitaria, di una lingua pianificata si divide in rivoli che appoggiano l’una o l’altra delle varie soluzioni, spesso con polemiche molto accese. Il movimento esperantista, più forte per numero e per tradizione consolidata, subisce la scissione degli idisti, scissione sensibile più a livello di dirigenti che a livello di singoli fruitori; tuttavia l’Esperanto resta, ancora e certamente più oggi, la lingua pianificata con il maggior numero di adepti e di realizzazioni in tutti i campi . Ciò è dovuto anche allo spirito diverso con cui certe soluzioni al problema linguistico erano nate: il latino sine flexione, poi Interlingua, era iniziato come mezzo per gli scambi scientifici e per persone colte del mondo occidentale, e tale sempre rimase. L'Esperanto invece era stato pensato per una dimensione assai più vasta, si era già diffuso in ambienti di lavoratori, ed erano in piena vita parecchie associazioni di vario genere, da quelle cattoliche a quelle socialiste. All’Esperanto fu rimproverato dagli idisti e dagli adepti dell’Interlingua di avere gravi pecche dal punto di vista linguistico e di essere stato prodotto da un singolo dilettante, e a questi fatti veniva imputata la sua scarsa diffusione; ma l’Ido incorse nel difetto opposto. Esso nacque dal lavoro di un comitato di linguisti, che, andando alla ricerca della perfezione teorica, persero di vista un fatto fondamentale: l’affermarsi di una lingua ha bisogno di tempi lunghi, e per tali tempi è necessaria la stabilità. Stabilità che non significa immobilismo o fossilizzazione, bensì possibilità di evoluzione alla stessa stregua e con gli stessi tempi con i quali si evolvono le lingue etniche. A Padova fu un convinto assertore della necessità di una lingua internazionale il cristallografo Ruggero Panebianco, professore di mineralogia all'Università. La sua attività presso il nostro Ateneo durò oltre quarant'anni e segnò alcuni momenti importanti: nel 1883 si ebbe con lui la costituzione del Museo di Mineralogia come entità a sé stante, con la divisione amministrativa dei Gabinetti di Mineralogia e Geologia. Il Museo di Mineralogia andò poi rapidamente ingrandendosi dall'originaria collezione del Vallisneri che ne aveva costituito la base, acquisendo doni e lasciti di importanti collezionisti e studiosi del tempo. Nel 1923 Panebianco ne lascerà la direzione ad Angelo Bianchi. Ruggero Panebianco usa l'Esperanto in pratica e partecipa anche attivamente al movimento per la sua diffusione. Lo troviamo attivo dirigente nel Circolo Esperantista di Padova. Sulla «Rivista di Mineralogia e Cristallografia Italiana», che egli fondò e diresse troviamo alcuni articoli scientifici in Esperanto, ripubblicati poi come opuscoli a sé stanti dalla Società Cooperativa Tipografica di Padova. Il primo di questi è un opuscolo di 50 pagine e tratta di un problema al quale Panebianco dedicherà sempre grande attenzione: la validità dell’approssimazione numerica dei risultati quando si opera su dati aventi approssimazioni diverse. Il libretto, edito dapprima in Germania, ha un’interessante introduzione che termina con queste parole:  L’apparenza copre la scienza con un mistero, e il mistero scientifico è, come il mistero comune, una superstizione; ma la superstizione scientifica è forse peggiore della superstizione comune. Un altro lavoro è anch’esso piuttosto corposo e tratta di leggi della cristallografia verificate con i raggi X ; ad esso seguono alcune pagine sul problema che darà luogo ad una lunga polemica: se certi indici dei cristalli siano oppure no numeri razionali. Il Panebianco sostiene giustamente che tutti i numeri con cui si tratta praticamente sono razionali, anzi, decimali finiti, e sostiene che la legge fondamentale della cristallografia debba a ragione denominarsi "legge di Haüy", e non, come altri dicono, "legge degli indici razionali", come se altri indici non fossero razionali. Interessante per quanto riguarda la lingua è la prefazione a questo lavoro (scritta in Esperanto, inglese, francese, tedesco e italiano): in essa Panebianco cita Leone Tolstoj e il suo giudizio sull'Esperanto, sulla sua facilità e sull'opportunità di fare, almeno, lo sforzo di provare ad impararlo. Quindi menziona le basi essenziali dell'Esperanto, citando come particolare vantaggio l'esistenza dell'accusativo, in quanto consente libertà nella costruzione della frase; in nota, egli critica l'abolizione dell'accusativo, operata da altri linguisti che hanno voluto riformare l'Esperanto, e cita specificamente l'Ido, che, come abbiamo visto, era il risultato di una modifica dell'Esperanto effettuata dalla DALAI. La parte scientifica di questo lavoro è molto interessante perché Panebianco diventa anche un creatore in Esperanto della terminologia specialistica della cristallografia. Sulla precisione della determinazione di certi indici Panebianco obbietterà ancora una volta che non ha senso spingere il calcolo fino ad una certa cifra decimale quando i dati sono approssimati con un ordine di precisione minore, e ripeterà questa sua tesi in un lavoro, sempre in Esperanto, dell'anno successivo . Altri lavori sono rifacimenti di lavori in italiano. Panebianco fu un militante socialista fin dai suoi anni giovanili. Del 1893 è la sua traduzione dall’inglese in italiano di un capitolo di un'opera di William Morris, Un paese che non esiste; il capitolo appare sotto il titolo La futura rivoluzione sociale, ed è edito a Milano dall'Ufficio della Lotta di Classe, Tipografia degli operai . Si tratta della descrizione di un paese senza capi e senza leggi. Nella prefazione il traduttore critica gli anarchici, dicendo che la loro rivoluzione è quella stessa dei borghesi, e termina con queste parole:  Soltanto le generazioni dello Stato socialista - Stato che, occupandosi solamente della produzione e dello scambio dei beni, è la negazione di quello attuale - potranno forse realizzare quella negazione assoluta di organizzazioni, anche socialiste, che per ora è un sogno, un bellissimo sogno: quello descritto dal Morris.  E come socialista Panebianco interviene in maniera molto discreta in una polemica sulla lingua internazionale apparsa sull'«Avanti!» agli inizi del 1918. L'edizione del 24 gennaio riporta una lettera di Vezio Cassinelli che si inserisce in uno scambio di opinioni riguardante la fondazione di un Istituto di Cultura Socialista. Cassinelli si qualifica "umile operaio" e sostiene l'opportunità di tale istituto. Nei rami della sua futura attività Cassinelli propone di inserire anche l'insegnamento dell'Esperanto, come strumento funzionale a risolvere il problema dell'incomprensione tra i lavoratori che parlano lingue diverse. A commento redazionale di tale lettera appare, senza firma, un parere drasticamente contrario: "La lingua internazionale è uno sproposito, scientificamente. " Il commento continua con argomentazioni che oggi farebbero sorridere, ma che allora sembravano ancora avere qualche credito in alcune scuole di pensiero: le lingue sono fenomeni naturali e non possono essere create artificialmente, e "le nazioni si sono formate per le necessità economiche e politiche di una classe: la lingua è stata solo uno dei documenti visibili e atti alla propaganda di cui gli scrittori borghesi si sono giovati per suscitare consensi anche fra i sentimentali e gli ideologi." Due giorni dopo, il 26 gennaio, compare un trafiletto, anche questo senza firma, ma probabilmente del direttore Serrati, che comunica come il commento dell'anonimo redattore alla lettera di Cassinelli abbia sollecitato una quantità di proteste. Nel trafiletto si dice che l'Esperanto è utile anche se non è artistico, e che una guerra contro gli esperantisti da parte del partito socialista è proprio fuori luogo. Il giorno successivo esce una lettera di Ruggero Panebianco che approva la posizione equilibrata del direttore, ma garbatamente contesta che tale lingua non sia "artistica": quando non si conosce qualcosa non si ha diritto di giudicarla. Panebianco riporta un fatto accadutogli realmente e racconta di come un suo collega, che credeva a priori che l'Esperanto non fosse artistico, si fosse ricreduto quando gli fu fatta leggere, lentamente e spiegandogliela, una bella poesia tradotta in Esperanto. Sull'«Avanti!» seguì poi una replica ancora più insistita a firma del "Redattore torinese anti-esperantista", una nuova risposta del Direttore, e quindi la polemica si chiuse con un intervento di Angelo Filippetti, un medico che sarebbe diventato di lì a poco sindaco di Milano. Il Filippetti esponeva quanto la linguistica stava chiaramente elaborando allora, e cioè che "anche le attuali lingue ufficiali sono più o meno artificiali, imposte dalle convenienze consolidate dall'uso." E concludeva:  Noi sentiamo che lavoriamo, sia pure in un campo secondario e modesto, per l'attuazione dell'unione internazionale dei lavoratori; noi vogliamo rovesciare una barriera, e non delle minori, che dividono l'unica classe lavoratrice mondiale. Noi lavoriamo per il Socialismo.    La polemica sull'«Avanti!» terminò, ma il "redattore anti-esperantista" riprese le sue tesi in un lungo articolo sul settimanale socialista «Il grido del popolo», questa volta firmandosi con le iniziali: A. G.; si trattava di Antonio Gramsci . Qualche anno dopo troviamo che Panebianco non usa più l'Esperanto, bensì l'Interlingua di Peano, ma la sua passione politica è sempre il socialismo pacifista. Nel suo opuscolo, pubblicato nel 1921, Adoptione de lingua internationale es signo que evanesce contentione de classe et bello, egli esprime la convinzione che l’adozione di una lingua internazionale possa eliminare i conflitti di classe e la guerra. Panebianco usa l’Interlingua anche per alcuni suoi lavori scientifici, e il suo primo lavoro in tale lingua è del 1921, su un minerale della Valsesia . Nell'introduzione egli scrive: "Nostro Interlingua es etiam plus facile de sympathico lingua Esperanto que es plus facile de lingua de Schleyer, et, que, pro suo diffusione, substitue isto, jam mortuo." Dell'Interlingua è magnificata la facile comprensibilità "quasi de primo visu" per ogni persona dotta che conosca una lingua europea. Un altro suo lavoro scientifico tratta la legge di Haüy, mentre altri articoli trattano temi più generali . La funzione della lingua internazionale fu sempre intesa sotto due aspetti: da una parte, la comprensione a scopi esclusivamente pratici, senza nessuna componente ideale; dall'altra, la supposizione che una maggiore conoscenza reciproca avrebbe favorito la pace e la fratellanza tra i popoli. Un giudizio positivo, specie sulla possibilità di favorire questo secondo scopo, fu espresso nel 1914 da Roberto Ardigò, professore di filosofia nel nostro ateneo dal 1881 al 1920, che rispose ad una richiesta di parere rivoltagli dal Circolo Esperantista di Padova con il seguente messaggio:  Il sottoscritto ringrazia di gran cuore del dono prezioso delle pubblicazioni esperantiste fattegli tenere, onde ha occasione della riflessione, che soggiunge. I progressi, in modo mirabile sempre maggiori, nella facilitazione e nell'aumento delle comunicazioni, ognora più agevoli, più rapide, meno costose, per terra, per mare, per l'aria stessa, quanto hanno già giovato e in seguito viepiù gioveranno all'affratellamento delle genti più varie, più discoste, più riottose! Ma l'affratellamento verrebbe poi fino a formare dell'umanità intera proprio una sola famiglia quando si riuscisse (e giova sperarlo) a farvi diffondere e generalizzare, almeno pei commerci e la cultura scientifica, un semplice, facile, razionale linguaggio comune, come certamente è da ritenere l'Esperanto. Nobilissimo dunque e lodevolissimo è l'intento del Circolo Esperantista di Padova, al quale per ciò è da augurare, e auguro fiducioso, vita e seguito sempre maggiori. Dev.mo Prof. Roberto Ardigò   Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra e nel periodo tra i due conflitti l'Esperanto fu insegnato in Padova e provincia in numerosissimi corsi presso istituti scolastici pubblici e privati (ad esempio l'Istituto Magistrale "Fuà Fusinato" e il Liceo "Tito Livio"), con centinaia di allievi; il provveditore agli studi di Venezia, RENDA (vedasi) diramò circolari in favore dell'istituzione di corsi nelle aule scolastiche, corsi che furono tenuti al liceo "Marco Polo", al liceo "Marco Foscarini", al Liceo Scientifico, all'Istituto Magistrale; si formarono gruppi esperantisti a Rovigo, Cittadella, Este, Venezia, Legnago, Piazzola. Alcuni corsi dovettero essere sdoppiati per il grande numero di allievi, altri dovettero essere rimandati essendo l'insegnante già troppo impegnato in altri corsi. Negli "anni del consenso" per il regime fascista l'Esperanto fu visto dalle autorità principalmente come strumento di italianità, in quanto simile all'italiano (ma non tanto quanto si voleva far credere) e in quanto mezzo per arginare la prepotenza delle cosiddette "grandi lingue". Una lingua internazionale che propagandasse all'estero le bellezze d'Italia per attirare il turismo e che facesse conoscere gli scopi e le realizzazioni del regime fu vista a lungo con occhio molto benevolo da parte delle istituzioni statali. In una situazione di apprezzamento reciproco, anche nel movimento esperantista, come in vari altri di ispirazione e aspirazione internazionale, divenne vincente la linea che proponeva di "esportare il fascismo". L'Esperanto fu quindi largamente utilizzato per pubblicazioni turistiche e di propaganda politica, come pure nelle trasmissioni radio a onda corta . I vari podestà figuravano come presidenti dei congressi nazionali di Esperanto, che si svolgevano ogni anno in una città diversa. Nel 1931 il congresso si svolse a Padova, alla Sala della Gran Guardia, e come presidente del Comitato Organizzatore figurava istituzionalmente il Podestà, dapprima il conte Francesco Giusti del Giardino e poi il suo successore, nob. Ing. Lorenzo Lonigo; tuttavia l'anima dell'organizzazione effettiva fu Giovanni Saggiori . Il congresso, tenutosi dal 26 al 28 luglio, ebbe una vasta risonanza sulla stampa e vi furono numerosi saluti e telegrammi di apprezzamento anche di alte autorità: il Re, il Principe di Piemonte, il Ministro per l'Educazione Nazionale, vari podestà, il Touring Club, la Croce Rossa Italiana, l'Università per stranieri di Perugia, l'Università di Trieste e numerose altre autorevoli istituzioni. È tuttavia da segnalare che, stranamente, l'Università di Padova non partecipò affatto, neanche con un semplice messaggio di saluto. L’Esperanto è presente alla Fiera di Padova. L’assise mondiale esperantista si svolge a Roma, "con l'alto assenso del Duce". Corsi di Esperanto vengono tenuti alla Scuola Superiore di Commercio a Venezia, dove insegna Gino Lupi, assistente di romeno e poi insegnante di lingue a Padova. Tuttavia presso l'Università di Padova non risultano essersi tenuti corsi. Con il montare del nazionalismo e l'allineamento alla politica nazista, che liquida le organizzazioni esperantiste – e deutero-esperantista -- in Germania, cominciano le difficoltà anche in Italia – Grice: “Mamma mia!”.  Il congresso a Roma è l'ultimo evento in cui il movimento esperantista e il regime fascista sono in sintonia. Il congresso nazionale si svolge a Vicenza ed ha come tema ‘L'Esperanto come strumento di propaganda turistica.’ Ma la stampa esperantista viene messa a tacere per risparmiare carta. Il fatto che l'iniziatore dell'esperanto – ma non del deutero-esperanto -- è un ebreo divenne un marchio di infamia, le aspirazioni internazionaliste divenneno un atto d'accusa. Alla via Zamenhof di Milano viene cambiato il nome. Il movimento esperantista, come tutte le attività internazionali, subisce un arresto. Di lì a poco lo scoppio del conflitto mette in secondo piano ogni idealismo e costringe ad urgenze e priorità diverse. Dopo la seconda guerra il fortissimo aumento delle relazioni internazionali rende sempre più acuto il problema linguistico. Si sviluppano i primi consistenti studi sulla traduzione automatica, in particolare quelli legati al progetto Eurotra, che coinvolge decine di ricercatori di quindici università di tutta Europa e produce parecchie pubblicazioni . C'è anche un interessantissimo studio portato avanti nel Distributed Language Translation (DLT), un progetto di traduzione automatica in rete in varie lingue, sostenuto dalla ditta olandese BSO e dallo stato olandese: il sistema è "a linguaggio intermedio", cioè la traduzione da una lingua all'altra si basa su una lingua ponte. Il DLT ha scelto come lingua ponte l'Esperanto. Tale progetto dura dieci anni, dal 1980 al 1990 e produce un prototipo di sistema di traduzione di ottime potenzialità, che viene illustrato all'Università di Padova il 31.8.1990 da Dan Maxwell, uno dei principali collaboratori. L'attività dei gruppi esperantisti è nuovamente vivace. Nel 1954 si svolge a Verona il congresso mondiale dei ferrovieri esperantisti, con oltre 500 partecipanti. A Padova il Gruppo è sempre sotto la guida di Giovanni Saggiori, e negli anni Sessanta il luogo istituzionale dove imparare la lingua diventa l'Università Popolare.  Il nostro Ateneo partecipa all'attività riguardante la lingua internazionale con i primi anni Settanta nella sua sede di Verona. Lì, in via dell'Artigliere, viene ospitata per oltre dieci anni la segreteria dell'Istituto Italiano di Esperanto, organizzazione che presiede ai corsi di insegnamento della lingua. Ancora presso la sede di Verona il nostro Ateneo ospita il congresso nazionale, con la partecipazione in prima persona del prof. Gino Barbieri, rappresentante a Verona del Rettore di Padova. Il prof. Barbieri è un vecchio esperantista, attratto alla lingua da MIGLIORINI (vedasi). FORMIZZI (vedasi), professore di pedagogia presso la sede di Verona, poi resasi ateneo autonomo, si avvicina all'Esperanto e lo insegna all'interno del suo corso di Storia della Pedagogia . Del pari un cultore di Esperanto è BERGAMASCHI (vedasi), professore di Pedagogia anch'egli nella sede veronese dell'Università di Padova e poi presso l'università autonoma di Verona. Questi due professori, insieme a chi scrive, sono stati oratori ufficiali della celebrazione del centenario dell'Esperanto nel 1987 da parte della Federazione Esperantista Italiana, celebrazione tenutasi alla Fondazione Cini a Venezia.  Nel 1983 nasce a San Marino, per volontà del Congresso di Stato e con decisione del Consiglio dei XII, l'Accademia Internazionale delle Scienze (AIS) San Marino, un'istituzione universitaria di insegnamento e di ricerca. Le lingue di insegnamento sono l'italiano, l'Esperanto, l'inglese, il francese, il tedesco, a cui si aggiungeranno successivamente altre lingue, data l'espansione dell'attività specialmente nei paesi dell'Europa orientale. L'Esperanto resterà comunque fino ad oggi, per statuto, la lingua privilegiata, in cui devono essere scritte, e difese oralmente, le tesi dei vari livelli, corrispondenti ai titoli italiani odierni di laurea, laurea magistrale, dottorato di ricerca, oltre a un titolo superiore corrispondente al "doctor habilitatus" tedesco. I primi sostenitori di questa iniziativa sono professori universitari tedeschi e italiani, e troviamo qui ancora dei docenti veneti: Fabrizio Pennacchietti, un orientalista torinese che ha insegnato a Ca' Foscari, Mario Grego, abitante a Padova e docente di inglese anch'egli a Ca' Foscari, il già citato Giordano Formizzi e due professori dell'università di Padova: Marino Nicolini, farmacologo di cittadinanza sammarinese, e, successivamente, l'autore di queste righe, matematico. In particolare il primo e l'ultimo dei docenti citati, oltre che tenere corsi in Esperanto, hanno ricoperto e ancora ricoprono incarichi organizzativi di alto livello. I professori dell'AIS vengono da molte università di tutto il mondo, creando un contesto internazionale estremamente proficuo per gli studenti; tra essi ci sono il premio Nobel per l'economia Reinhard Selten e membri di varie accademie nazionali . Tra le prime opere scientifiche edite sotto gli auspici dell’Accademia Internazionale delle Scienze San Marino vi è un interessante lavoro di biologia. Fino ai primi anni ’80 non esisteva un testo completo per il riconoscimento dei licheni europei, pur esistendo testi e cataloghi in varie lingue europee, italiano e latino compresi. I francesi G. Clauzade e C. Roux pubblicarono allora un testo illustrato in Esperanto per la determinazione dei licheni dell’Europa occidentale . Il testo fu dapprima considerato una stranezza, dato che il mondo scientifico non era portato a vedere testi in lingua diversa dall’inglese; tuttavia per il suo valore divenne indispensabile in ogni laboratorio che si occupasse di riconoscimento dei licheni. Il testo, che era corredato da un piccolo glossario esperanto-francese, fu utilizzato anche all’università di Padova dal prof. Giovanni Caniglia; con la collaborazione degli studenti interni il glossario originario fu elaborato ed arricchito fino a diventare un piccolo dizionario di esperanto, che fu in seguito diffuso presso i soci della Società Lichenologica Italiana . Il testo è attualmente un po’ superato, dato il progredire della scienza negli ultimi decenni, però fu un evento significativo nell’intento di trasmettere la scienza anche in una lingua internazionale non etnica.  Nel 1990 il nostro Ateneo è fortemente impegnato in alcuni eventi connessi alla lingua internazionale. Il Dipartimento di Matematica Pura ed Applicata pubblica, come suo rapporto interno, una ricerca sui contatti culturali tra l'Italia e l'Ucraina, originariamente redatta in Esperanto . Quindi alla fine di agosto viene ospitato al Liviano il 61° Congresso italiano di Esperanto. Si tratta della manifestazione più significativa della comunità esperantista mai svoltasi a Padova: precedentemente c'era stato, come già visto, il 16° congresso nazionale e quind si era svolta, alla Sala della Gran Guardia, una giornata esperantista che metteva insieme la celebrazione del centenario della nascita della lingua e quella dei 75 anni di vita del gruppo.  Il Congresso si giova del patrocinio della Regione Veneto, della Provincia di Padova, dell'Assessorato alla Cultura e ai Beni Culturali del Comune di Padova, dell'Azienda di Promozione Turistica della Provincia e della Sezione Ricerca e Istruzione del Consiglio d'Europa. Il Comitato d'Onore è imponente, come assai raramente succede per iniziative al di fuori degli organi istituzionali: vi figurano il Presidente della Repubblica Cossiga, il Presidente del Consiglio Andreotti, il Presidente del Senato Spadolini, il Presidente della Provincia Toscani, il Questore di Padova Romano, i Presidenti delle Regioni Valle d'Aosta e Trentino-Alto Adige, i sindaci di Padova, Firenze, Bologna e Reggio Emilia, i Rettori delle Università di Padova, Bologna e Ferrara, il Rettore dell'AIS San Marino, oltre a vari parlamentari e autorità locali. I congressisti sono oltre 300, dei quali un centinaio provenienti dall'estero. All'inaugurazione alla Sala dei Giganti, il 25 agosto, intervengono il sindaco Paolo Giaretta e il prof. Ezio Riondato in rappresentanza del Rettore Mario Bonsembiante. Il tema del congresso riguarda i problemi linguistici degli immigrati in Europa e il discorso inaugurale, tenuto dallo storico tedesco Ulrich Lins, ha titolo: Verso un'Europa multiculturale. Durante l'inaugurazione si celebra il gemellaggio dei gruppi esperantisti di Padova e Friburgo e la mattinata si conclude con un saluto di Marco Pannella; l'intero congresso viene messo in onda in diretta da Radio Radicale.  Le conferenze e i programmi musicali del congresso si svolgono nella Sala dei Giganti, gli spettacoli sono all'Antonianum; i corsi di Esperanto attivati per l'occasione si svolgono nelle aule della Facoltà di Lettere, poste cortesemente a disposizione dal preside Vincenzo Milanesi. All'inaugurazione e nelle serate si esibisce, insieme alla cantante Giusy Irienti, il pianista Aldo Fiorentin, allora giovane già affermato, oggi professore al Conservatorio di Adria, vincitore di vari premi nazionali e internazionali; i due solisti si alternano con una rappresentazione di pupi del Teatro di Stato di Budapest ed un recital del chitarrista polacco Jerzy Handzlik. La Sezione teatrale del Club Studentesco Esperantista dell'Università di Zagabria, porta in scena la versione in Esperanto della commedia ruzantiana Il Parlamento, e il testo ha la prefazione di Marisa Milani, anch'ella docente del nostro ateneo . In altra serata viene presentata un'antologia in Esperanto di poeti del Novecento  (per i contatti con i poeti collaborarono i professori padovani Armando Balduino e Silvio Ramat). Il congresso ha ampia risonanza sui giornali, dato che vari eventi del programma sono aperti al pubblico: la tavola rotonda sul tema "L'Europa e gli immigrati: il ruolo dell'Esperanto" viene effettuata all'aperto di fronte al Bo', mentre lungo il porticato di via Oberdan un maestro internazionale di scacchi, il cecoslovacco L. Fiala, effettua dieci partite in simultanea con appassionati locali. La serata "Musica in piazza" si svolge in Piazza dei Signori sotto la direzione artistica di Franco Serena e vi partecipano due complessi padovani ("The Beat Shop" e "Serena") e il complesso vocale "Eterna Muziko" di Leningrado.  In coda al congresso si ha, sempre ospitata al Liviano, una giornata di studio dell'Accademia Internazionale delle Scienze San Marino sulla modellizzazione matematica del linguaggio; gli atti, redatti in italiano, esperanto, deutero-esperanto, e inglese, escono come Rapporto Interno del Dipartimento di Matematica Pura ed Applicata . In concomitanza con il congresso e nello stesso periodo la galleria della Sala dei Giganti accoglie l'esposizione "Vita e cultura in lingua Esperanto", sponsorizzata dalla Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e curata da Giorgio Silfer, del Centro Italiano di Interlinguistica. La mostra è organizzata in varie parti: espositiva, recitativa, teatrale, musicale e vuole far conoscere come la comunità che parla la lingua internazionale abbia una forte autocoscienza e sia molto ricca culturalmente, pur partecipando ognuno anche alla cultura del proprio paese. Nel 1996 esce un dizionario italiano-Esperanto, presentato al pubblico padovano da Alberto Mioni, ordinario di glottologia, in una giornata alla Sala della Gran Guardia; a tale giornata partecipa anche, con un messaggio di saluto, Antonio Lepschy, ordinario di controlli automatici. Ha trascorso periodi di studio presso l'Università di Padova (come ricercatore e anche come correlatore di tesi di laurea in Psicologia) il chimico Luigi Garlaschelli dell'università di Pavia, tra i fondatori del gruppo esperantista di Pavia, il quale si occupa anche di indagini sui presunti fenomeni paranormali.  In varie università italiane vengono fatti studi sulla lingua internazionale; in particolare, all'Università di Torino opera un validissimo gruppo di storici della matematica che si occupa di Peano. Tesi di laurea su questi argomenti sono state discusse molto recentemente a Torino, Roma, Genova, Venezia; nell'ateneo torinese vi è un corso istituzionale di "Interlinguistica ed Esperantologia"; all'Università Statale di Milano una parte del corso di Storia della filosofia contemporanea è stata dedicata ai linguaggi artificiali ; la biblioteca della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM a Milano ha una consistente sezione dedicata all'Esperanto. All'Università di Padova l'interesse per la lingua internazionale non riveste semplicemente un ruolo collaterale: presso il Dipartimento di Matematica Pura ed Applicata, come ricerca istituzionale nell'ambito del finanziamento ministeriale ex-60%, è stato elaborato un analizzatore morfologico dell'Esperanto ; nello stesso ambito sono stati pubblicati uno studio di statistica linguistica su un corpus in Esperanto, una traduzione dal latino in Esperanto di un brano del De numeris di Cardano  e, in collaborazione con l’Università Industriale Statale di Mosca, un testo in Esperanto di storia della scienza e della tecnica . In particolare Carlo Minnaja, professore a Padova dal 1965 e professore onorario all’Università statale “Lucian Blaga” di Sibiu (RO) dal 2002, ha svolto un'intensa attività nelle organizzazioni esperantiste ed è membro dell'Accademia di Esperanto; per la diffusione della cultura italiana tramite traduzioni gli è stato assegnato il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri . Non solo professori, ma anche studenti del nostro Ateneo usano nei loro studi lingue pianificate. È stata discussa una tesi di laurea in matematica sulle serie di Chebyshev, tesi tradotta poi in Interlingua . Opera di studenti o ex-studenti del nostro Ateneo è la traduzione in Esperanto dei Malavoglia, presentata al congresso mondiale a Firenze  : dei tre traduttori, Paola Tosato e Giancarlo Rinaldo sono stati studenti-lavoratori, mentre Anselmo Ruffatti si è laureato a Padova in medicina. Del pari allievo dell'Università di Padova per il conseguimento del titolo di Direttore Didattico è stato Filippo Franceschi, che, sotto lo pseudonimo di Sen Rodin, è un apprezzato autore di novelle in Esperanto. La nostra università quindi continua nella sua opera di produzione e diffusione della cultura anche attraverso la lingua internazionale.Un validissimo lavoro in italiano su lingue "universali" e poi "internazionali" proposte da matematici è: ROERO, I matematici e la lingua internazionale, «Bollettino Unione Matematica Italiana. Esso tuttavia, per quanto riguarda l'Italia, si focalizza quasi soltanto su Giuseppe Peano e la sua scuola, con particolare riguardo agli eventi del primo decennio del secolo scorso; si arresta quindi con l'estinguersi, nel 1936, della rivista ispirata dal Peano «Schola et Vita». Qualche informazione sulla matematica in Esperanto si trova in un sito dell'università svedese di Uppsala, math.uu.se/~kiselman/mathesp.html; numerosi articoli di matematica in Esperanto si trovano in «Scienca Revuo», rivista che esce ininterrottamente dal 1949; gli indici delle annate sono disponibili al sito ais-sanmarino.org/publik/sr/index.html. Sull'algebra medioevale, vd. FRANCI, Una traduzione in volgare dell'Al-Jabr di al-Kwarizmi, in FRANCI, PAGLI, SIMI (a cura di), Il sogno di Galois, Siena, Centro Studi della Matematica Medioevale - Università di Siena. In Francia ancora alla fine dell'Ottocento le tesi in filosofia erano obbligatoriamente in latino. In Italia l'obbligo di far lezione in italiano nelle università (con eccezione per Teologia ed Eloquenza latina) si ha con il Regio Decreto per il Regno di Sardegna, esteso poi con l'unificazione a tutto il Regno d'Italia; vd. ROERO, I matematici.   Nome latinizzato del pedagogista e riformatore moravo Jan Amos Komenský (1592-1670). Sui progetti di lingua internazionale di Comenius vd. FORMIZZI, La lingua pansofica di Comenio, L'Esperanto. Formizzi, professore di pedagogia all'Università di Padova e poi all'Università di Verona e all'Accademia Internazionale delle Scienze San Marino, ha tradotto in italiano altre opere di Comenius: la Panglottia, La via della luce e l'Angelus pacis, edite dalla Libreria Editrice di Verona, nonché la Panorthosia, edita a Verona da Gabrielli. In quest'ultima opera Comenius propone un progetto di riforma del mondo che include la proposta di una lingua universale.   La raccolta più completa di lingue immaginarie, inventate o pianificate, corredata di ampio commento, è: ALBANI, BUONARROTI, Aga Magéra Difura, Bologna, Zanichelli. Più recente è un'edizione francese: PAOLO ALBANI, ALIGHIERO BUONARROTI, Dictionnaire des langues imaginaires. Paris, Belles lettres. Di spirito diverso, quasi ludico, che si può leggere come un romanzo è: ALESSANDRO BAUSANI, Le lingue inventate, Roma, Ubaldini.  Con valore storico, ma di notevole completezza per l'epoca, è un'opera in Esperanto: PETER E. STOJAN, Bibliografio de internacia lingvo, Genève, Bibliografia Servo de Universala Esperanto-Asocio. Sulla storia delle lingue inventate, o pianificate in maggiore o minore misura, citiamo, a puro titolo di esempio, in italiano: UMBERTO ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza; il testo più recente è in Esperanto: ALEKSANDR DULIČENKO, En la serĉado de la mondolingvo, aŭ interlingvistiko por ĉiuj (Alla ricerca di una lingua mondiale, o interlinguistica per tutti), Kaliningrado, Sezonoj, traduzione dall'originale russo che ancora non è apparso a stampa. Di valore storico è COUTURAT, LEAU, Histoire de la langue universelle, Paris, Librairie Hachette, con il suo aggiornamento: COUTURAT, LEAU, Les nouvelles langues internationales, Paris, Hachette. Una edizione è uscita presso Olms, Hildesheim-New York.   Il titolo intero è Via lucis, Vestigata et Vestiganda, h. e. Rationabilis disquisitio, quibus modis intellectualis animorum LUX, SAPIENTIA, per omnes omnium hominum mentes et gentes iam tandem sub mundi vesperam feliciter spargi possit. Nempe ad intelligenda melius illa Oraculi verba Zachariae 14, v. 7: Et erit, ut vespere fiat lux. Il termine ‘universale’ attribuito ad un linguaggio per esprimere qualsiasi concetto in maniera comprensibile a popoli di lingue diverse muta poi in ‘inter-nazionale,’ quando sarà riferito soltanto ad espressioni linguistiche. Vives, filosofo e umanista, sostiene la necessità di una lingua unica e universale nella sua opera De tradendis disciplinis. Ne esiste una traduzione italiana commentata di GALLINARI (vedasi), uscita a Cassino, Ed. Sangermano. KOMENSKY, La via. Di Comenius non esiste ancora un'edizione completa delle opere; un progetto, affidato a Praga, la prevede in una trentina di volumi, ma l’edizione si è arrestata ben prima del completamento. L’ultimo volume edito è uscito in occasione del centenario della nascita di Comenius (comunicazione all'A. di FORMIZZI (vedasi). Dalgarno, pedagogista, è tra i primi ad occuparsi dell'istruzione dei sordo-muti, elaborando un sistema di segni, che espose nell'opera “Ars signorum: vulgo character universalis et lingua philosophica” e nel “Didascalocophus.” Wilkins, vescovo di Chester, tra i fondatori della "Royal Society" londinese, cognato di Cromwell. Pubblica l'opera An Essay Towards a Real Character and a Philosophical Language. In essa tutte le idee di natura più semplice sono classificate in un sistema gerarchico e collocate in una tabella. C'è un elenco primario di quaranta generi, ciascuno suddiviso in sei "differenze", e ciascuna differenza è poi suddivisa in specie. Vengono così raccolti e classificati 2030 concetti. Ad ogni genere corrisponde una coppia di lettere iniziali, ad ogni differenza una consonante maiuscola, ad ogni specie una vocale o gruppo di vocali minuscole. Vengono così ad essere costituite le radici, alle quali poi si aggiungono le derivazioni e la flessione pertinente alla morfologia. Le parole sono quindi costituite da successioni di lettere che corrispondono al posto del termine nella tabella. Questa lingua viene presentata da Wilkins alla Royal Society, che ne demanda lo studio ad una commissione di esperti, tra i quali gli scienziati Boyle, che diventerà famoso per una legge sui gas perfetti, e il suo assistente Hooke, che pure resterà famoso per una legge sull'elasticità dei corpi. Non si è trovata tuttavia una relazione sulla questione.   Così in COUTURAT, LEAU, Histoire; va detto tuttavia che al tempo dell'uscita di tale opera molti degli scritti di Leibniz erano ancora sconosciuti.   Così presentato in COUTURAT, LEAU, Histoire, p. 23 (trad. dal francese dell'A.).   Il nome è derivato da Pacidius, pseudonimo sotto il quale Leibniz voleva pubblicare la sua Encyclopedia; vd. LOUIS COUTURAT, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Paris, Felix Alcan.   Cfr. STOJAN (trad. dall'Esperanto dell'A.). LEIBNIZ, Scritti di logica, Roma-Bari, Laterza, Vd. ROBINET, L’empire leibnizien, Trieste, LINT, Per una biografia estesa vd. LEGNAZZI, Commemorazione di Bellavitis, Padova, Prosperini. Per una biografia più succinta vd. NICOLA VIRGOPIA, Bellavitis, Giusto, in Dizionario Biografico degli Italiani, 7, Roma, Ist. Enc. It., BELLAVITIS, Pensieri sopra una lingua universale, «Memorie dell'I. R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti; un'edizione a parte è apparsa presso la Segreteria del detto Istituto. BELLAVITIS, Saggio di applicazioni di un nuovo metodo di geometria analitica - calcolo delle equipollenze, «Annali delle Scienze del Regno Lombardo-Veneto»; BELLAVITIS, Memoria sul metodo delle equipollenze, «Annali delle Scienze del Regno Lombardo-Veneto», LEGNAZZI, Commemorazione. Il libretto citato fu esibito al pubblico durante al commemorazione citata. Attualmente non è noto il  luogo dove sia conservato.   BELLAVITIS, Pensieri. Zamenhof nacque nella cittadina polacca di Bjałystok, che per il trattato di Tilsit era allora sotto la Russia. Dalla fine della I guerra mondiale è in Polonia.   BELLAVITIS, Pensieri. BELLAVITIS, Pensieri, p. 57-58. Sudre, musicista, professore a Sorèze, un collegio dei benedettini, riorganizzato  dai domenicani. Sudre si dedicò anche alla telefonia, scrivendo un codice per la trasmissione a distanza di segnali fonici che fu adottato in Francia per impieghi militari.Vailati, laureato in ingegneria e quindi in matematica, si dedica successivamente alle lingue e alla filosofia, in particolare alla logica; assistente di Peano, insegnò poi in varie scuole medie e fu uno dei promotori dei primi congressi internazionali di filosofia, nei quali, come vedremo, fu posto il problema di una lingua internazionale per la comunicazione scientifica. A Crema, sua città natale, esiste il “Centro Studi Giovanni Vailati”.   La citazione proviene dalla recensione ad opera di Vailati del libro di Couturat e Leau Histoire, citato precedentemente, in Scritti di VAILATI (vedasi), Leipzig-Firenze, Johann-Ambrosius-B. Seeber, BELLAVITIS, Utopie del socio ordinario Giusto prof. Bellavitis, Padova, G. B. Randi. BELLAVITIS, Reminiscenze della mia vita: lettura accademica, Padova, G. B. Randi, LUCIANO, ROERO (a cura di), PEANO (vedasi) - Couturat: Carteggio, Firenze, Olschki. L’opera contiene una bibliografia molto estesa.   Padova, Tipografia del Seminario, Rivista di Matematica. Vd. il pregevole lavoro: GHEZZO, VERONESE (vedasi), Matematico dell'Università di Padova, Padova, Dip. Matematica Pura ed Appl., LEAU, Une langue universelle est-elle possible? Appel aux hommes des sciences et aux commerçants, Paris, Gauthier-Villars. Per la storia della lingua internazionale e in particolare delle vicende qui riportate si possono utilmente vedere: UBALDO SANZO, L'artificio della lingua, Milano, Angeli; ROERO, I matematici. Sebert, generale di artiglieria dell'esercito coloniale francese, fece numerosi studi di balistica; ritiratosi dall'esercito, fu consulente industriale e si occupò di impianti di distribuzione dell'elettricità. Le sue iniziative per rendere disponibile su larga scala la bibliografia scientifica lo portarono, negli ultimi anni dell'Ottocento, ad interessarsi di una lingua internazionale. Adepto dell'Esperanto, fu poi un grande organizzatore e finanziatore dell'attività esperantista. COUTURAT, La logique de Leibniz, Paris, Alcan; ripubblicato poi presso Olms, Hildesheim. Nella sua opera De l'Infini mathématique Couturat aveva utilizzato la memoria del Bellavitis sul calcolo delle equipollenze. Schleyer, parroco cattolico in una cittadina tedesca sul lago di Costanza, fu nominato "cameriere segreto" da Leone XIII. La lettera, già citata come inedita in SANZO, L’artificio, è ora comparsa nel citato carteggio tra Couturat e Peano. COUTURAT, LEAU, Conclusions du rapport sur l'état présent de la question de la langue internationale, Coulommiers, Brodard, PEANO, Prof. Louis Couturat, «Revista Universale. La «Revista Universale» era un periodico sulla lingua internazionale edito a Ventimiglia; per le collaborazioni di Peano a varie riviste vd. il cd-rom ROERO (a cura di), Le riviste di Giuseppe Peano, Torino, Dipartimento di Matematica. Con tale nome verranno poi indicati vari altri progetti di lingua internazionale, in particolare quello sostenuto dalla International Auxiliary Language Association (I.A.L.A.), fondata da Morris, la quale, entusiasmatasi dell'Esperanto per le sue idee filantropiche di fratellanza universale, fonda una specie di seconda Delegazione per l'adozione di una lingua ausiliaria internazionale. Dopo tentativi infruttuosi di diffondere l'Esperanto, ostacolati da alcuni linguisti, la I.A.L.A. propone una nuova lingua internazionale elaborata da Gode, che si chiama anch'essa Interlingua e che godrà per un periodo limitato di un certo successo nelle riviste scientifiche. Sulla sua diffusione attuale, vd. il sito della Union Mundial pro Interlingua: www.interlingua.com.   Couturat in una lettera a Bertrand Russell del 30 dicembre 1912 contesta la validità scientifica di tale accademia, poiché vi si entra con il semplice pagamento di una quota, e nega che essa sia la prosecuzione dell'Accademia volapükista. Per la citazione esatta vd. SCHMID, Bertrand Russell, Correspondance sur la philosophie, la logique et la politique avec Couturat, Paris, Kimé, riportata in LUCIANO, ROERO,  Peano. LEVI-CIVITA, Programma de cursu de Mathematica superiore in Universitates italiano, «Schola et Vita.   Vd. ad es., per l’Ido, LUSANA, Vocabolario moderno Ido-Italiano ed Italiano-Ido, Biella, Tip. Magliola. L’Ido, che continua a definirsi “Esperanto reformita”, ha tuttora adepti e un’organizzazione che ne promuove la diffusione; vd. http://idolinguo.org.uk. Per l’Interlingua vd. CASSINA, GLIOZZI, Interlingua, Milano, Villa, 1945.   Per l’attività del movimento esperantista e la pubblicistica in Esperanto vd. esperanto.it.   Attualmente il Gruppo Esperantista Padovano, erede del Circolo Esperantista, aderente alle Associazioni di base della Regione Veneto, è intitolato a Giovanni Saggiori, che ne è stato animatore per oltre sessant'anni, ed ha sede in Via Barbieri PANEBIANCO, Fizika proksimigo, verkita de Roĝero Panebianco, Profesoro de Mineralogio en la Universitato de Padovo (Approssimazione fisica, scritto da Ruggero Panebianco, Professore di Mineralogia nell'Università di Padova), Berlino, R. Friedland kaj filo (e figlio), 1914; è da notare anche l'esperantizzazione del nome in "Roĝero".   Trad. dall’Esperanto dell’A.  PANEBIANCO, Gravokristalaj X-radileĝoj kaj L' aserto ke la kristaledrindicoj estas racionalnombroj ne estas naturiste kaj ne difinas ilin (Importanti leggi cristallografiche basate sui raggi X e L'asserzione che gli indici di spigolo dei cristalli sono numeri razionali non è naturale e non li definisce), «Rivista di Mineralogia e Cristallografia Italiana», di Aldono post linio (Aggiunta dopo la riga). RUGGERO PANEBIANCO, Proksimigo de la refraktigindicoj (Approssimazione degli indici di rifrazione), Padova, Società Cooperativa Tipografica, Presso la Biblioteca Universitaria di Padova vi è una copia di tale opuscolo con la dedica autografa del traduttore a Roberto Ardigò; segnatura: Bibl. Ardigò, D. Ba 8/5.   I corsivi sono nell'originale. FILIPPETTI, Ancora sull’Esperanto, «Avanti!», 7 Gramsci, La lingua unica e l'Esperanto, Il grido del popolo. Gramsci riaffermò anche successivamente le sue posizioni, vd. ad es. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, vol. II, Quaderni 6-11, Torino, Einaudi. Tali posizioni furono in seguito ritenute da rivedere anche all'interno del suo partito: vd. CARANNANTE, Gramsci e i problemi della lingua italiana, «Belfagor. Una replica riassuntiva si trova in GIORGIO SILFER, Gramsci e l'esperanto: storia di un malinteso, «Lombarda esperantisto». PANEBIANCO, Thulite de Varallo in Valsesia, Padova, Soc. Coop. Tip., 1921.   Si tratta del Volapük.   RUGGERO PANEBIANCO, Lege de Haüy et lege de Symmetria, Cuneo, Un. Tip. Ed. Prov. PANEBIANCO, Hypnotismo et Necromantia (spiritismo); nota de naturalista R. Panebianco, Torino, Acad. Pro Interlingua, 1923; RUGGERO PANEBIANCO, Regula de Camaro de longa et sana vita, «Schola et Vita, Revista in Interlingua; ripubblicato a Milano, Inst. Pro Interlingua, Riportato in «L'Esperanto», Le trasmissioni radio dell'EIAR in esperanto durarono; esse furono riprese a cura della Presidenza del Consiglio e durano tutt'ora. Saggiori, ufficiale del genio, radiotecnico, sindaco di Fossò, fu presidente del Gruppo padovano per oltre sessanta anni. Esperto di toponomastica padovana, fu autore del volume Padova nella storia delle sue strade, Padova, Piazzon.   Ancora oggi il Gruppo Esperantista è presente ogni anno alla fiera di Padova con un proprio stand.   Il progetto Eurotra si riprometteva di ottenere una "Fully Automatic High Quality Translation" da una all'altra delle lingue europee, che erano sette alla fine degli anni '70 per arrivare a nove quando il progetto fu dichiarato terminato. Per quanto fortemente finanziato dalla Commissione della Comunità Europea, esso fallì completamente nel suo intento, effettivamente troppo ambizioso, ma gli studi che stimolò servirono come base per un notevole numero di sistemi di traduzione automatica aventi scopi molto più limitati. Attualmente l'Unione Europea si giova del sistema SYSTRAN, che è disponibile per un certo numero di coppie linguistiche. Sono disponibili oltre una decina di moduli con l'inglese come lingua di partenza (L1) e di arrivo (L2); per l'italiano sono disponibili soltanto i traduttori automatici con il francese e l'inglese. Le prestazioni offerte da tale sistema sono tuttavia ancora parecchio lontane da quanto può offrire un traduttore umano, che però spesso non è disponibile. La comunicazione all'interno delle strutture dell'Unione Europea resta comunque deficitaria: sui suoi costi vd. SELTEN (red.), The Costs of European Linguistic (non) Communication, Roma, ERA.Formizzi è stato presidente della Federazione Esperantista Italiana. Sull’attività dell’ AIS San Marino vd. www.ais-sanmarino.org.. Successivamente nascerà anche l'Università della Repubblica di San Marino, istituita con la legge-quadro n. 127 del 31.10.1985, e che oggi ha come rettore Giorgio Petroni, professore di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali alla Facoltà d'Ingegneria di Padova. CLAUZADE, ROUX, Likenoj de Okcidenta Eŭropo, «Bulletin de la Société Botanique du Centre-Ouest», CANIGLIA, Dizionario di esperanto, «Notiziario della Soc. Lichenologica Italiana», MATVIJIŜYN (a cura di Minnaja), La cultura e la scienza, con particolare riguardo alla matematica, nei rapporti tra Italia e Ucraina, Padova, Dip. Matematica Pura ed Appl. (Rapp. Int.BEOLCO, Interparolo (tr. C. Minnaja), Pisa, Edistudio. Milani, all'epoca professore di Letteratura delle tradizioni popolari all'Università di Padova, fu una apprezzata studiosa del Ruzante. MINNAJA, Enlumas min senlimo (M'illumino d'immenso), Prilly, LF-koop, MINNAJA (a cura di), Modellizzazioni Matematiche per le Scienze del Linguaggio, Padova, Dip. Matematica Pura ed Appl. (Rapp. Int.), MINNAJA, Vocabolario italiano-Esperanto, Milano, Cooperativa Editoriale Esperanto, 1996.   Vd.: VALORI, Materiali per lo studio dei linguaggi artificiali – incluso il deutero-esperanto di Grice --, Milano, CUEM, MINNAJA, L. G. PACCAGNELLA, A Part-of-Speech Tagger for Esperanto oriented to MT, International Conference MT Machine Translation and multilingual Applications in the new Millennium, Exeter, MINNAJA, Statistika analizo de la paroladoj de Ivo Lapenna (Statistical Analysis about Speeches by Ivo Lapenna), «Grundlagenstudien aus Kybernetik und Geisteswissenschaft CARDANO, Pri la noblo kaj utilo de ĉi arto kaj pri la malklaraj notacioj (Della nobiltà e utilità di quest'arte e delle notazioni oscure, da "De numeris", tr. C. Minnaja), «Literatura Foiro. MINNAJA, A. ŜEJPAK, Elektitaj lekcioj pri historio de scienco kaj tekniko - Избранные лекции по истории науки и техники (Lezioni scelte di storia della scienza e della tecnica), Mosca, Московский Государственный Индустриалъный Университет Tra le traduzioni si segnalano C. GOLDONI, La gastejestrino (La locandiera), Pisa, Edistudio; MACHIAVELLI, La princo (Il Principe), Pisa, Edistudio. Per l’attività e una bibliografia di Carlo Minnaja, vd. math.unipd.it/~minnaja.   Il laureando era Alberto Mardegan; vd.. http://www.interlingua.fi/marathe.htm   G. VERGA, La Malemuloj (I Malavoglia, tr. Giancarlo Rinaldo, Anselmo Ruffatti, Paola Tosato), Pisa, Edistudio. L’autore ringrazia Sassi e Caniglia di Padova e Formizzi di Verona, nonché Montagner, bibliotecario presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, per le preziose notizie fornite. Ubaldo Sanzo. Sanzo. Keywords: apollo licio, trovato al ginnasio liceo di Atene, figgurante il dio in atto di riposo dopo un gran sforzo. natura ed artificio, l’artificio della lingua, convenzionalismo, filosofia della lingua.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sanzo” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Sarapione: la ragione conversazionale al portico romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of the Porch imprisoned by the Romans, Grice: “for no other reason than the Romans deeply detesting the Porch!" Sarapione

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sarlo: la ragione conversazionale dell’idealismo – la scuola di San Chirico Raparo – la scuola di Firenze – la scuola di Potenza – la scuola della Basilicata -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Chirico Raparo).  San Chirico Raparo, Potenza, Basilicata. Filosofo italiano. Muore a Firenze. Filosofo e psicologo italiano. Vince la cattedra di filosofia teoretica presso il Regio Istituto di studi superiori di Firenze. È in questa città che frequenta i seminari tenuti da Brentano presso la biblioteca filosofica. Nel 1903 fonda a Firenze il "Laboratorio di psicologia sperimentale" che fu inizialmente annesso alla Facoltà di Lettere e Filosofia del Regio Istituto di studi superiori. Allievi di S. sono, tra gli altri, Aliotta, Borgese, Bonaventura, Lamanna, che sposa sua figlia, Garin e Marzi. S. si trova in aperto contrasto con Croce e Gentile che ritenevano si dovesse separare il metodo della filosofia da quello della scienza. Per S., invece, il metodo conoscitivo doveva essere comune in quanto sia il filosofo che lo scienziato si occupano dello stesso campo d'indagine. Per questo considera come unico metodo quello rigorosamente sperimentale di Wilhelm Wundt e quello esperienziale di Brentano. Nello stesso anno pubblica, nel capoluogo toscano, il saggio: I dati dell'esperienza psichica. La novità introdotta da De Sarlo è il concetto che i fenomeni fisici esistono in quanto diventano fenomeni psichici, contenuto della nostra coscienza. Dunque, l'oggetto di studio della psicologia doveva essere l'esperienza intenzionale del soggetto. L'unica vera esperienza diretta è quella psichica. Esperienza interna ed esperienza esterna vanno così a configurarsi come due aspetti dello stesso fenomeno; non c'è un'esperienza più vera dell'altra poiché nessuna delle due è indipendente dall'altra. Per De Sarlo è imprescindibile studiare la coscienza: a suo avviso, gli "oggetti" arrivano necessariamente alla nostra coscienza attraverso gli organi sensoriali. Essi vengono ordinati, studiati, usati, catalogati sia dal singolo nella sua esperienza quotidiana sia dalle varie scienze che ne approfondiscono lo studio. Siccome tali "oggetti" sono complessi, cioè pieni di proprietà, attributi etc., S. si chiede come accada che si compongano nella coscienza dell'individuo e stabilisce che due sono le modalità: o l'oggetto equivale al contenuto della coscienza oppure che la percezione del soggetto dipende dalla relazione del soggetto stesso con l'oggetto percepito. Nel primo caso S. parla di "esperienza con carattere statico", nel secondo di "esperienza a carattere dinamico". In entrambi i casi non si può prescindere dal ruolo del soggetto. La differenza tra esperienza psichica ed esperienza pura è l'aggiunta del significato ai dati primitivi. Per De Sarlo sono possibili solo due modi di studiare tutto questo: il metodo sperimentale e il metodo introspettivo. Fonda il periodico La cultura filosofica, che darà spazio alla discussione di problemi psicologici e presterà attenzione a quanto avviene in campo psicologico ed epistemologico negli altri paesi. L'impostazione filosofica di questa rivista fu più volte criticata da Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Tra il 1912 e il 1915 è tra gli autori della rivista fiorentina Psiche, il cui redattore capo è Roberto Assagioli: altri redattori sono Agostino Gemelli, E. Bonaventura. Le teorie di S. sono influenzate molto dalla concezione della conoscenza scientifica e dalle teorie di Brentano. È tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali anti-fascisti redatto da Croce. Nello stesso anno pubblica, per i tipi Le Monnier, Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un superato. Nel sagio S. prende atto della sconfitta culturale dell’idealismo italiano, ma al contempo rivendica le ragioni della sua prospettiva filosofica. L'obbiettivo polemico sono senza dubbio sia Croce che Gentile, ma a quest'ultimo sono dedicate le pagine più aspre. Infatti S. e Croce erano legati dal comune sentimento anti-fascista e convinti della necessità di misurarsi con ricerche concrete, quali quelle di Croce in ambito storico che S. aveva sempre apprezzato. Non a caso Croce fece passare sotto silenzio questo testo mentre sul Giornale critico della filosofia italiana, fondato e diretto da Gentile, apparvero varie recensioni critiche del volume. Opere S., I dati dell'esperienza psichica, Galletti e Cocci, Firenze, S. e Calò, Principi di scienza etica, Sandron, Palermo, S., Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un «superato», Firenze, Le Monnier, . F. De Sarlo, Introduzione alla filosofia, Ed. Dante Alighieri, Milano . F. De Sarlo, Il metodo naturale nella ricerca scientifica, Ed. Dante Alighieri, Milano 1929. F. De Sarlo, L'uomo nella vita sociale, Laterza, Bari S., Vita e psiche: saggio di filosofia della biologia, Le Monnier, Firenze. V. Russo, Filosofia e psicologia nell'attività psichiatrica di Francesco De Sarlo, Il Mulino, Bologna . Studi per Luigi De Sarlo, Giuffrè, Milano . L. Albertazzi, G. Cimino, S. Gori-Savellini (ed.), Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia, Laterza, Bari 1999. G. Sava, Francesco De Sarlo e la psicologia filosofica, «Il Veltro», Guarnieri, fupress, Firenze University Press, Firenze S. su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Sarlo, Francesco, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana S. su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Patrizia Guarnieri, DE SARLO, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . FS., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Francesco De Sarlo, su MLOL, Horizons Unlimited Portale Biografie Portale Filosofia Portale Psicologia Categorie: Filosofi italiani Psicologi italiani Nati a San Chirico RaparoMorti a Firenze [altre] Sarlo, nato in un paesello della Basilicata, San Chirico Raparo, venne alla filosofia dalla medicina filosofica. E ve Io condusse intima vocazione, oltre, e più, che esterna vicenda di casi. Già durante gli studi universitari, a Napoli, si compiace di frequentare, colle lezioni della facoltà cui era iscritto, quelle di filosofia: ed è, tra l’altro, uditore di SPAVENTA negli ultimi anni del suo insegnamento. La stessa sua prima pubblicazione — un volumetto di saggi su Darwin attesta la tendenza di lui a studiare, anche nel campo delle scienze biologiche, le questioni più generali, quelle che sono poi stimolo e offrono motivi alla speculazione filosofica. Questa tendenza divenne in lui sempre più consapevole durante gli anni che passa, come medico, nel manicomio di Reggio Emilia, dove compì ricerche psichiatriche che, mettendolo a contatto più diretto con i problemi dell’anima, determinarono il suo passaggio alla psicologia e alla filosofia. In questo campo non ha maestri. È un autodidatta: dove cercar da sè, come a tentoni, la sua strada, ed è naturale che la trova solo attraverso deviazioni, incertezze, ritorni. La sua educazione naturalistica e l’influenza dell’ambiente culturale del tempo, impregnato di positivismo, lo portano dapprima a seguire questo indirizzo di filosofia: e in uno degl’organi della filosofia positivistica, la rivista d’ANGIULLI (vedasi), SARLO fa le sue prime armi. Ma non tarda ad allontanarsi dal positivismo, a mano a mano che venne acquistando coscienza delle deficienze di quella dottrina cosi in ordine all’interpretazione del fatto conoscitivo come in ordine alla fondazione della moralità e religiosità umana: deficienze, che illustra poi in quelle Note sul positivismo in Italia, pubblicate in appendice ai saggi sulla filosofia, una delle critiche più penetranti e conclusive che della gnoseologia positivistica siano state fatte in Italia. La sua coscienza filosofica si venne formand. Concorsero a questa formazione lo studio di SERBATI, i rapporti personali o spirituali con alcuni dei più cospicui rappresentanti italiani dello spiritualismo e del criticismo, come FERRI (vedasi), MASCI (vedasi), e, in particolare, BONATELLI (vedasi), e, più specialmente, lo studio diretto delle correnti più significative della filosofia, alcune delle quali egli per primo, o tra i primi, fa conoscere in Italia. E di questa sua attività sono frutto due saggi su SERBATI: La logica di SERBATI e i problemi della logica e Le basi della psicologia e della biologia secondo SERBATI, considerate in rapporto ai risultati della scienza, Roma, poi rifusi in altri lavori; volumi di Saggi filosofici, Torino, Clausen, posteriormente anch’essi rielaborati e rifusi; studi su filosofi sparsi in varie riviste, alcuni dei quali furono poi, con altri di epoca posteriore, raccolti nel volume Filosofi, Firenze, La Cultura Filosofica; saggi di psicologia; il volume Metafisica, Scienza e Moralità, Roma, Balbi, e il volume già ricordato Studi sulla Filosofia : La filosofia scientifica, Roma, Loescher. L’esigenza che si rivela come fondamentale in questi studi di SARLO (vedasi), è quella di mostrare le vie per le quali le scienze positive, e più particolarmente quelle naturali, sboccano, per una necessità imposta dalla logica a loro immanente, in una concezione filosofica nella quale il naturalismo è superato, cosi per il riconoscimento dei poteri originari e irriducibili dello spirito quale soggetto conoscente e quale persona morale, come per il coronamento del sapere filosofico in un’interpretazione teistica della realtà universale; mentre, dall’altro lato, la filosofia stessa, come sistemazione e critica del sapere, riceve dalle scienze particolari continuo alimento e stimolo. E la necessità di questo connubio fecondo, nella loro reciproca azione, della scienza e della filosofia, è rimasta come uno dei motivi principali della filosofia di SARLO, anche quando, nel periodo di piena maturità della sua attività di studioso, tratta i principii del suo filosofare non più dal criticismo, di cui si sente l’influsso neghi scritti sinora citati, ma dallo sperimentalismo, da Locke a Mill; dall’intuizionismo, specie per il rilievo costantemente dato agl’assiomi così gnoseologici come etici, costitutivi dello spirito umano, e apprensibili con evidenza immediata nell’esperienza e infine dal realismo dell’Herbart e del Lotze. Conseguita la libera docenza in filosofia a Roma, insegna questa disciplina nei licei di Benevento, di Torino, di Roma, quando ottenne per concorso la cattedra di filosofia teoretica a Firenze, cattedra ch’egli ha tenuto e tiene ancor oggi con l’autorità e l’efficacia di un maestro. Fonda un gabinetto di psicologia sperimentale, il primo del genere in Italia, e che è rimasto anche oggi il più ricco di apparecchi. Molte e importanti ricerche vi sono state compiute sotto la sua direzione, sebbene, in questi ultimi anni, la potenzialità scientificamente produttiva del gabinetto sia stata assai ridotta per le condizioni materiali veramente miserevoli nelle quali si è venuto a trovare. Sarlo diretto la Cultura Filosofica, una Rivista che ebbe un programma ben definito e, specie nei primi anni, fu vivacemente battagliera cosi contro il positivismo ormai declinante, come, e più, contro il risorgente idealismo. La sua operosità di studioso ha dispiegato con assiduità e intensità instancabile nel campo della psicologia, dell’etica, della filosofia generale, pubblicando poderosi volumi, ai quali specialmente noi ci riferiremo nella esposizione e caratterizzazione della sua filosofia. Il valore della sua opera ha avuto riconoscimento ufficiale nel premio Reale per la filosofia, conferitogli nel 1920 dall’Accademia dei Lincei, della quale egli è, dal 1921, socio nazionale. Elenchiamo qui le opere principali del De Sarlo, escluse le prime già citate che poi sono state rifuse nelle successive: Metafisica Scienza e Moralità. Studi di Filosofia morale. Roma, Balbi, , 1 voi. di circa 250 pagg. in 8: [Contiene: Il naturalismo Il telismo L’idealismo e la moralità Il socialismo come concezione filosofica — Vita morale e vita sociale]. Studi sulla Filosofia contemporanea. — Prolegomeni : La « Filosofia scientifica ». — Roma, Loescher. Sarlo d’ordinario è presentato come un teista e uno spiritualista. Tale egli stesso ha sovente dichiarato esplicitamente [Contiene : Du Boys-Reymond, Helmholtz, Darwin, Il positivismo contemporaneo in Italia ]. I dati dell’esperienza psichica. Firenze, Pubblicazioni del R. Istituto di Studi Superiori, 1903, 1. voi. di pagg. 430 in-8. L’attività pratica e la coscienza morale. Firenze, Seeber, 1907, 1 voi. di pagg. in-16. Principii di Scienza etica, con un’Appendice su La patologia mentale in rap- perto all’etica e al diritto. Palermo, Sandron, [1907], 2 voi. di circa pagg. 500 in-16 (in collaborazione con Q. Calò). II Pensiero Moderno. Palermo, Sandron, [1915], 1 voi. di pagg. 410 in-8. [Contiene: a) Tre studi che possiamo dire introduttivi : La formazione della coscienza filosofica odierna — Uno sguardo alla filosofia. I compiti della filosofia. Altri tre studi che costituiscono come la parte centrale del volume, la più vasta per il contenuto che abbraccia e per l’estensione che ha: ! problemi gnoseologici nella filosofia contemporanea. Lo psicologismo nelle sue principali forme. I diritti della metafisica, nel quale ultimo specialmente sono sottoposti a un rapido e vigoroso esame critico i principali indirizzi della filosofia. Altri studi su particolari problemi o correnti filosofiche. Il significato filosofico dell'evoluzione. Filosofia e scienza dei valori. Stillo spiritualismo. Filosofi. Firenze, La cultura filosofica. Contiene saggi su Paulsen, Hodgson, Ward, OXONIAN Bradley, Reitike, Hartmann, Zeller, e BONATELLI – l’uniico italiano. Psicologia e filosofìa. Studi e ricerche. Firenze, La cultura filosofica. Contiene: Alcuni saggi di filosofia generale, importantissimi pella comprensione della posizione di SARLO nel campo filosofico, e della concezione dei rapporti tra filosofia e psicologia: Psicologia. La psicologia e le scienze normative. L’esperienza psichica. L’individuo dal punto di vita psicologico. Il soggetto. La causalità psichica. Sensazione e coscienza. Ampi saggi di psicologia metafisica – o psicologia filosofica, come la chiama Grice: il concetto dell'anima nella psicologia. Idee metafisiche intorno all’anima. Saggi contenenti la materia per un organico trattato sulle funzioni psichiche. La classificazione dei fatti psichici. L’attività conoscitiva. L’attività immaginativa. Vita affettiva ed attività pratica, con i quali saggi è strettamente connesso un amplissimq saggio intorno alle determinazioni formali della vita psichica, e più particolarmente all'azione dell’esercizio e dell'abitudine su tutte le funzioni fisiologiche e psichiche. Appartengono a questo gruppo altri saggi. Sulla teoria somatica delle emozioni. Sullo studio dei sentimenti nella psicologia. Sulla percezione delle forme. Saggi di psicologia fisiologica e patologica. Cervello ed attività psichica. L’attività psichica incosciente, Sulla psicologia della suggestione. Le alterazioni della vita psichica. La psicologia degl’animali. di essere. E tale, certo, egli si rivela nei suoi scritti, dai più antichi ai più recenti. Ma, è da aggiungere subito, non è data così la caratteristica più saliente della sua figura di pensatore: sfugge a quella designazione gran parte, e forse la più significativa, della sua opera filosofica; viene, comunque, lasciata cosi nell’ombra quella concezione della filosofia e del metodo di filosofare che, meglio d’ogni altro elemento, vale a individuare la sua posizione personale nel movimento filosofico italiano contemporaneo. Uno dei suoi primi lavori, anzi il primo veramente organico che l’ulteriore sviluppo del suo pensiero abbia lasciato immune da quelle rielaborazioni più o meno sostanziali cui, come abbiamo già detto, egli ha sottoposto altri suoi scritti di quel tempo, voglio dire il volume Metafìsica, Scienza e Moralità, è tutto una riaffermazione dei princìpi fondamentali della dottrina teistica cosi contro il naturalismo come contro l’idealismo assoluto. La concezione di Dio quale Ragione che si esprime continuamente ed eternamente nel mondo, e non come legge o ordinamento astratto, bensì come soggetto concreto e vivente, è in quel libro svolta e presentata come la sola concezione metafisico-religiosa, che, gravitando sulle esigenze morali più profonde della coscienza umana, sulla considerazione del valore assoluto della persona, contenga di queste esigenze il riconoscimento e la giustificazione più piena, e fornisca per ciò stesso il principio di quella sistematica unificazione di tutta la realtà, a cui la mente umana tende per sua natura, e in cui possono essere inverate le particolari connessioni di frammenti di realtà che le scienze della natura stabiliscono mediante le serie causali dei fenomeni. E tra gli scritti meno antichi, due saggi, dei più elaborati e ricchi d’idee, I diritti della Metafìsica (nel volume « Pensiero Moderno ») e Idee metafìsiche intorno all’anima (nel II voi. di « Psicologia e Filosofia »), giungono, attraverso l’analisi dei concetti di causa e di sostanza, alle medesime conclusioni teistico-spiritualistiche intorno a Dio e all’anima umana. Dio è la Causa prima, la causa che non è effetto, postulata qual condizione essenziale della comprensibilità di qualsiasi fatto particolare in quanto anello di una serie causale: causa la quale non può esser concepita, se non come analoga alla sola causa vera a noi nota, che è la nostra stessa volontà in quanto libera, in quanto costitutiva d’un cominciamento assoluto; non può quindi esser concepita se non come volere essa stessa, e quindi come causa finale. E Dio è la Sostanza Assoluta. l’Essere nel quale trova compiuto soddisfacimento l’esigenza del pensiero a cui risponde il concetto di sostanza: che è il concetto di essere che non è in altro nè per altro, ma è essere per sè, condizione e presupposto di ogni altra determinazione, principio e unità reale di ogni molteplicità. E anche per questo rispetto esso non può venir concepito se non in analogia con quella che è per noi l’espressione più immediata e genuina della sostanzialità, ossia la coscienza, che è appunto esistenza per sè, l’io che è immediatamente percepito come principio unico di una molteplicità di funzioni e di atti, in cui manifesta la sua realtà. E le sostanze finite possono anche esser considerate come pensieri di Dio, e quindi come atti di quest’Essere per sè per eccellenza, purché però l’atto e la funzione di Dio siano intesi come tali che il termine di essi abbia un essere almeno parzialmente indipendente e sia fornito della capacità di esistere per sè, di spontaneità e di libertà. Appunto queste proprietà degli esseri finiti rileva e illustra il De S. nel tentativo di determinare cosi l’origine come il destino delle anime. L’origine dell’anima la quale implica, per un lato, la produzione di qualcosa di nuovo e, per l’altro, la conformità a un ordine di leggi immutabile, può, secondo il De S., esser posta in rapporto con l’azione divina, purché questa s’intenda appunto come sostrato reale in cui ha il suo sostegno quell’ordinamento di leggi, per il quale, in date condizioni, nuovi fatti accadono o nuovi fini e valori vengono realizzati. E poiché quell’ordinamento è eterno, anche delle anime può dirsi che esistono ab aeterno, come principi potenziali, i quali aspettano che i destini si maturino per poter divenire attuali. E una volta divenuti attuali, i centri reali di vita e di coscienza sono, secondo il De S-, indistruttibili, appunto in forza del pregio intrinseco che essi posseggono come sostanze: onde l'affermazione dell’immortalità di tutte le anime. È innegabile, dunque, che del problema metafisico per eccellenza SARLO presenta costantemente una soluzione conforme, nei suoi principii fondamentali, al teismo e spiritualismo tradizionale. Ma bisogna subito aggiungere che nella trattazione di questo problema della realtà egli è sempre consapevole del carattere meramente congetturale di quella soluzione, quantunque questa gli sembri meno inadatta delle altre a dare dei fatti e della realtà conoscibile una certa quale interpretazione sistematica. Egli non si nasconde mai le oscurità che si oppongono alla piena intelligibilità dell’Assoluto: non dissimula le antinomie tra le quali la ragione umana si dibatte ogni volta che pretende di dare della realtà ultima una definizione esauriente. E’ troppo persuaso dello scarso valore dimostrativo che possono avere le analogie in base alle quali noi trasportiamo dal finito all’infinito o estendiamo da una ad altra sfera di realtà i nostri concetti, perchè si possa credere che egli s’illuda sulla portata effettiva di quelle ipotesi, anche se l’intimo convincimento suo della preferibilità di quelle ad altre ipotesi dia talora alla sua trattazione un tono che può parere alquanto dommatico. Le riserve prudenziali che spesso interrompono la sua trattazione di tali problemi potrebbero anzi indurre a ritenere ch’egli sia in fondo un agnostico in fatto di metafisica: ed egli non disdegnerebbe certo questo epiteto, se per agnosticismo s’intende la persuasione che il mistero dell’universo è e rimarrà ineluttabilmente un mistero per la mente umana. Agnosticismo, che ben si concilia in lui con la fede — questa, si, veramente dommatica nel senso migliore delia parola con la fede sulla validità assoluta dei princìpi razionali, con l’affermazione che nel fondo della realtà è la Ragione : si concilia, perchè, data appunto l’ind'pendenza relativa delle coscienze finite dall’Essere assoluto di Dio, possono da ognuna di quelle essere colti soltanto frammenti della razionalità in cui questo si rivela come immanente all'universo. È uno dei caconi della maniera di filosofare del De S. questo, che l’esigenza dell’unità, la quale è essenziale alla ragione e si esprime nel suo grado più alto nella posizione del problema metafisico, non può e non deve essere sodisfatta con l’eliminazione delle differenze che la realtà presenti e la ragione stessa riconosca come irriducibili, anche se non riesca poi facile o possibile alla mente umana stabilire come questa molteplicità irreduttibile possa esser ricondotta o comunque messa in relazione con quel principio reale di unità assoluta che è Dio. Cito due esempi caratteristici, relativi al concetto fondamentale di sostanza. Della sostanza, come s’è visto, noi abbiamo, secondo SARLO., una conoscenza immediata nell’apprensione del nostro io, in quanto questo è un essere per sè e si manifesta nei fatti psichici come in atti suoi, senza esaurirsi in nessuno di essi. Da ciò parrebbe lecito dedurre che il mondo sia costituito di sostanze omogenee, ossia di esseri che siano per sè come unità di coscienza, anche se tra le varie sostanze si debba stabilire una differenza di grado: parrebbe cioè giustificato il monismo spiritualistico. Invece il De S. dedica due saggi ad una critica stringente di questa soluzione del problema metafisico, che pur parrebbe la più conforme ai suoi supposti spiritualistici (// monismo psichico e Sullo spiritualismo odierno, nel volume « Pensiero Moderno »). È vero, egli dice, che tutto ciò che esiste, per il fatto che esiste, agisce in una data maniera, e noi non possiamo rappresentarci codesta attività che facendo uso di nozioni attinte alla nostra esperienza intima, e che quindi in ultimo siamo sempre spinti a identificare l’esistenza con una forma, per quanto attenuata, di psichicità. Ma l’analogia non deve far perdere di vista le profonde differenze esistenti se non altro tra il modo di comportarsi degli obietti e fatti costituenti la natura esterna e quello degli esseri e processi psichici. Anzi, per il De S., a rigore non basterebbe opporre al monismo, sia esso materialistico o immaterialistico, il dualismo : sarebbe più logico parlare di pluralismo senza aggettivi, esprimente una pluralità di energie e di attività tanto differenti tra loro,' che a rigore non possono essere accomunate nè sotto la rubrica spirito né sotto qualsiasi altra rubrica. Come e perchè esista quel dato numero di principii, cornee perchè esistano quelli e non altri, non è possibile dire: è un fatto che va constatato, e non si può e non si deve spiegare; come vanno indagate, constatate e descritte le varie maniere di agire e reagire reciprocamente di questi vari esseri, ma non si può presumere di spiegare, nel vero senso della parola, come e perchè si stabilisca la connessione reciproca di tali esseri che sono esistenti per sè, sebbene nelle maniere speciali di agire e reagire essi affermino e rivelino la loro esistenza. Ma vi ha di più: la sostanza vivente e, più in particolare, la sostanza psichica esiste ed agisce in quanto si sviluppa. Ora uno dei saggi più penetranti del De S. (Il significato filosofico dell'evoluzione, nel volume Il Pensiero) è dedicato all’analisi del concetto di evoluzione, ed è uno dei più significativi per dimostrare come nella concezione metafisica del De S. si conciliino un temperato razionalismo e un prudente agnosticismo. Il concetto di evoluzione, lungi dall’essere — come vuole, ad es., l’hegelismo — un principio esplicativo, e lungi dal dare un’espressione compiuta della realtà ultima, ha bisogno esso stesso di venir reso intelligibile. E l’analisi critica di tal concetto rivela la presenza in esso di vere e proprie contradizioni, che non possono essere eliminate se non considerando lo sviluppo non già come il prius della realtà, ma come qualcosa di accessorio e di secondario. Il processo evolutivo, mentre implica necessariamente il tempo, esige l’illusorietà del tempo; mentre vuol essere creazione, implica già la preesistenza del termine a cui arriva; si può leggere in esso, almeno post factum, la rispondenza a un ordine razionale, ma chi dice razionalità, dice estra- temporaneità. Ogni evoluzione implica dunque qualcosa di assoluto, di perfetto, di stabile, che rappresenta il principio vero dell’evoluzione. Ecco il risultato, positivo, certo, cui conduce l’analisi del concetto di evoluzione: ma è una certezza che fa sorgere nuovi interrogativi: allora, ci si domanda, come e perchè i reali concreti e finiti sono cosi fatti da dover attuare i fini solo mediante il processo evolutivo, come e perchè l’ordine si realizza per gradi e attraverso lo sviluppo? Il che equivale a domandarsi come e perchè esistano esseri finiti che si trovano con l’assoluto in quegli speciali rapporti. E a questi interrogativi non è possibile rispondere: ed ecco come, conclude il De S., l’evoluzione è un aspetto del « my- sterium magnurn » della realtà. Il problema dell’evoluzione reale conduce al problema del tempo, e come questo resulta dalla connessione del flusso con la permanenza, della successione con la durata, così l’evoluzione poggia sul rapporto del divenire o variare con ciò che è immutabile, permanente e eterno. Compito df;fa filosofia, dunque, di fronte al problema più propriamente metafisico sembrerebbe essere, per SARLO, quello di rendere chiare e in un certo senso acuire e dimostrare insuperabili, piuttosto che superare, le difficoltà che quel problema offre alla mente umana; di illuminare i limiti di essa, piuttosto che additarle un varco alla conoscenza piena dell’Assoluto. Ma non è questo, per il De S., l’unico compito della filosofia: o meglio, per assolvere questo stesso compito, per condurre la mer*e umana appunto a queste posizioni che sono al margine del mistero, a queste che possono dirsi frontiere della conoscenza umana, e per dimostrare che sono frontiere invalicabili, la filosofia deve, secondo il De S., percorrere il dominio stesso che innanzi alla conoscenza si stende, di qua da quelle frontiere: ed è il dominio dell’esperieza nel senso più pieno e più ampio di questa parola. Prima della dialettica trascendentale e quindi prima della critica della ragion pratica con i suoi postulati, vi è e vi deve essere una « Estetica » e una «Analitica», per servirci della terminologia usata da Kant, a designare un atteggiamento di pensiero analogo, per questo rispetto, a quello criticistico, anche se, come vedremo, muova da supposti e segua un. procedimento e giunga a risultati profondamente diversi. L’attività filosofica di SARLO ha avuto sempre, sin dalle sue prime manifestazioni, un’impronta di positività, disdegnosa di ogni audacia speculativa, derivante così dalla tempra del suo spirito come dalla sua educazione scientifica, oltre che dal convincimento del valore nullo di ogni concezione che non sia un portato necessario della critica della conoscenza positiva e non abbia quindi una larga base empirica. Ma questo convincimento, si può dire, si è venuto in lui sempre più radicando col maturarsi del suo pensiero, sino a divenire il motivo fondamentale sempre più insistente del suo filosofare; sì che con questa designazione appunto di filosofia dell'esperienza egli ama contrassegnare la sua dottrina e il suo metodo, in recisa opposizione alla speculazione idealistica dei neo hegeliani, che si è andata sempre più affermando in Italia. Si direbbe che il diffondersi di quell’antiempirismo dialettico ch’egli considera un vero « contagio » delle menti, l’abbia indotto ad accentuare sempre più la necessità di ricorrere a cautele immunizzatrici, in un contatto sempre più stretto, e più esclusivo, della filosofia col sapere empirico; di ricondurre la filosofia, come in rifugio sicuro, in quei confini entro i quali essa possa mantenere il carattere di scienza, essere, ai pari delle altre scienze, un prodotto dei processi logici comuni della mente umana, anziché l’espressione — mistica o lirica che sia, notevole quanto si voglia per novità e originalità, ma non suscettibile d’una dimostrazione razionale — l’espressione, dicevo, di una coscienza e quasi d’un temperamento individuale traverso il quale la realtà si rifranga. E inaugurando, nello scorso ottobre, l’ultimo Congresso italiano di filosofia a Firenze, giunse alle affermazioni estreme che le attuali condizioni della cultura filosofica in Italia esigono un più o meno lungo periodo di astinenza dall’alta speculazione, e che non il problema filosofico, quello metafisico intorno alla natura della realtà ultima e assoluta, ina / problemi filosofici particolari, o meglio questi prima e con più fiducia e anzi con più sicurezza di successo che quello, e come condizione per la stessa impostazione non che per ogni tentativo di soluzione di quello, meritano di essere oggetto dell’indagine filosofica. Ma con ciò, si può osservare, non è stato sacrificato proprio quello che è il carattere distintivo del sapere filosofico rispetto alle scienze particolari, e che è appunto la determinazione della relazione dei distinti, il riferimento della molteplicità delle distinzioni a un principio unitario? SARLO risponde che la filosofia è aspirazione alla unità dell’Essere, senza che perciò il filosofo debba trasformarsi in un allucinato dell’unità. La varietà e la inconciliabilità dei tentativi compiuti nella storia della filosofia per unificare i reali e-le conoscenze e per dedurre la complessità dei fatti da un unico principio, sta a dimostrare, secondo lui, che all’unificazione si giunge colmando con l’immaginazione le lacune della conoscenza certa e dimostrabile. Gli si può replicare con l’obiezione consueta, che la vanità di quei tentativi risulta dall’aver cercato la unità nell’oggetto invece che nel soggetto, nella natura (o in Dio, che è lo stesso) invece che nello Spirito. Ma il De S. ribatte che anzi appunto attraverso quel riferimento degli oggetti al soggetto conoscente, appunto attraverso quella unificazione, diremmo, metodologica e gnoseologica, di tutto il reale nell’io — che è propria del sapere filosofico —, si rivela la irriducibilità, diremo, ontologica degli oggetti e dei valori. Infatti, per il De S., se da un lato la filosofia non può non scindersi in una molteplicità di discipline, fondate su principii irriducibili (essere e valere, p. es.), dall’altro lato queste hanno caratteri comuni, che valgano a fare di esse appunto un unico gruppo, quello delle disciplini; filosofiche. E questi caratteri comuni sono: I) determinazione dei concetti universali, attraverso i quali la realtà può essere razionalizzata; 2) riferimento di tutta la realtà allo spirito del soggetto, in cui e per cui l’esperienza in ogni sua forma si costituisce. Due caratteri, questi, che sono per il De S. strettamente uniti e come interdipendenti: perchè le idee universali — ossia le nozioni metafisiche fondamentali — intanto assurgono a quel grado di fecondità per cui rappresentano i mezzi di razionalizzazione della realtà, in quanto o sono il risultato della giustii.jata estensione a tutta la realtà di concetti che abbiamo direttamente appreso nella coscienza (sostanza, fine, causa), ovvero sono il prodotto della riflessione sui modi in cui la realtà diviene intelligibile e acquista consistenza nella mente umana. Lo spirito, in quanto termine comune di riferimento di tutti gli elementi e fatti della realtà, viene ad occupare una posizione centrale nel mondo, e la psicologia, come scienza dello spirito, costituisce il terreno di incontro delle diverse discipline filosofiche. Si è detto, la psicologia come scienza dello spirito : e di questa determinazione v’è bisogno per non cadere nei facili equivoci cui può dar luogo la parola psicologia o psicologismo. Già nei 1903, nel suo poderoso volume I dati dell'esperienza psichica, il De S. insisteva sulla profonda differenza esistente tra la psicologia come scienza empirica e la psicologia coinè scienza filosofica. La prima, quale si è venuta costituendo negli ultimi decenni, studia l’anima umana come un « obietto» tra gli altri obietti della natura, ha aspetto e procedimento di una scienza naturale e non mira che alla spiegazione causale dei fenomeni. Per essa la vita psichica è un complesso di « stati » di coscienza: i quali, sì, implicano tutti una certa coscienza dell’io (in maniera che per il De S. non è possibile una psicologia « senz’anima », anche se sia psicologia empirica): ma il soggetto non è còlto, da questa, in funzione, ossia nella sua attività tendente a determinati scopi. Si tratta di una considerazione statico di dati, a cui il concetto di atto è necessariamente estraneo; di una considerazione che tende a fissare i rapporti condizionali dei vari ordini di stati psichici e a ridurre il complesso al semplice. La psicologia empirica deve quindi limitarsi all’«analisi morfologica» della coscienza, escludente qualunque funzionalità e quindi qualunque dinamismo. Ora « lo spirito — dice Sarlo — non è una cosa tra le altre cose, ma è il mezzo di rivelazione della realtà. Come tale lo spirito è universale: universalizza sè stesso nelle sue funzioni ed universalizza per ciò stesso l’obietto a cui è rivolta la sua attività ». Ecco perchè lo spirito può considerarsi come in una posizione centrale rispetto a tutte le cose: e la scienza che lo studia, ossia la psicologia come “ fisiologia „ dello spirito, è necessariamente scienza filosofica. Nella considerazione funzionale dello spirito s’impone il concetto di valore e quindi di fine. Le funzioni dello spirito mercè i loro atti oggettivano i dati e stati soggettivi; perchè sono determinazioni che qualificano, sì, il soggettò, ma lo qualificano in rapporto all’oggetto, e danno quindi luogo a ciò che è universalmente valido, a quelli che sono i valori oggettivi. La verità, il bene, il bello non sono dei dati o dei fatti: sono degl’ideali, sono appunto valori, distinti da ogni altro valore unicamente soggettivo per questo carattere, che sono forniti di una speciale necessità che è la necessitàdi diritto ben diversa dalla necessità di fatto degli stati psichici. Quest’ultima denota soltanto che uno stato è inevitabilmente determinato, nella sua insorgenza, da certe condizioni, una volta che queste siano date, cioè siano determinate da altre condizioni, e così via; denota cioè che uno stato o un fatto psichico ha sempre la sua ragione d’essere in altro. Ma è indifferente al valore di quello stesso stato o fatto, se per valore s’intende ciò che ha la ragion d’essere in sè e non in altro ossia un valore incondizionato e assoluto, ciò che deve essere anche se le condizioni dell’essere non sussistano e quindi la realtà non sia ad esso adeguata. La necessità psicologica abbraccia indifferentemente nella sua spiegazione così il valore come il disvalore, così il vero, il bello, il bene, come l’errore, il brutto, il male. Una tale distinzione di valore, come distinzione obiettiva e universale, non si può avere se non mediante il riferimento alle leggi costitutive delle funzioni originarie ed essenziali dello spirito, leggi non meccaniche, superiori anzi al meccanismo psichico, perchè essenzialmente teleologiche, indicanti cioè la maniera in cui quelle funzioni agiscono ogni volta che raggiungono il termine che è costitutivo della loro natura spirituale, leggi rivelanti la loro natura attraverso una forma di evidenza che è indizio della loro necessità e universalità. Le leggi logiche e gnoseologiche definiscono la natura del pensiero, le leggi etiche quelle della volontà, le leggi estetiche quelle della fantasia. Sono principii o assiomi i quali significano che il pensiero, il volere e la fantasia in tanto meritano veramente questo nome e in tanto raggiungiamo il termine che ad esse è proprio, in quanto si esplicano nel senso indicato da quelle leggi piuttosto che in altro senso. La distinzione tra psicologia empirica, come scienza dell’anima — morfologica, naturalistica e la psicologia come scienza dello spirito — funzionale e filosofica, così nettamente affermata dal De S. nell’opera su citata del 1903, è forse stata successivamente attenuata in altri scritti, nel senso che, a suo giudizio, la conoscenza del meccanismo psichico risulta utile alla determinazione dei modi in cui lo spirito si eleve al di sopra di esso r e reciprocamente la conoscenza dei fini dello spirito è indispensabile per l’apprensione esatta del meccanismo che serve di mezzo al raggiungimento di t'°i. Ma l’attenuazione si riferisce ai rapporti tra le due considerazioni dell’anima e non elimina con ciò la distinzione. E comunque il De S. non ha mai cessato di differenziare nettamente ed energicamente il suo psicologismo da quello naturalistico, che considera i valori dello spirito come « o applicazioni di leggi psicologiche già operative in altre direzioni, ovvero particolari, originarie manifestazioni dell’attività psichica, le quali però attingono il loro significato dall’essere effetti necessari di certe cause psichiche o risultati inevitabili di processi mentali naturali, e non già dal rispondere a certi fini od esigenze valide anche se non mai realizzate». Si leggano specialmente, in proposito, i saggi Lo psicologismo nelle sue principali forme (nel voi. < Pensiero Moderno »), Vecchia e nuova psicologia, La psicologia e le scienze normative, e La classificazione dei fatti psichici (nel I voi. di « Psicologia e Filosofia »). Lo psicologismo di SARLO . non è dunque naturalismo, ma non è neppure immanentismo: offre anzi a lui il mezzo per affermare e dimostrare, contro ogni forma d’idealismo immanentistico, il suo realismo gnoseologico. Se nella determinazione di ciò che è l’essere e, in genere, di ciò che è oggetto di conoscenza, il De S. ritiene di dovere attenersi ai criteri generali su esposti del suo psicologismo, non è già perchè egli ritenga che la psiche e i processi psichici costituiscano la stessa realtà, anzi lo stesso essere, ma è solo in considerazione delle prerogative che, in ordine alla conoscenza, sono proprie dell’esperienza psichica di fronte ad ogni altra forma di esperienza. E queste prerogative sono due: 1) innanzi tutto la così detta esperienza estèrna si rivela e acquista consistenza sempre attraverso l'interna, perchè ciò che è direttamente percepito, anche in quelli che sono comunemente detti oggetti esterni, è sempre il contenuto d’un atto psichico; l’esperienza interna presenta la nota dell’evidenza (evidenza di fatto) derivante dalla coincidenza del percepire col percepito; e perciò l’esperienza psichica rappresenta il vero fondamento per la constatazione di qualunque esistenza reale, e quindi di ogni sapere empirico. 2) In secondo luogo, l’esperienza psichica è il solo tramite attraverso il quale tutto ciò che è (reale o pensabile che sia), l’essere in generale ci si può rivelare. L’io distinguendosi da tutta la realtà traspare a sè medesimo, e insieme tutta la realtà diviene trasparente attraverso di esso. Nulla esiste che sia propriamente nell’io, tranne l’io stesso, e insieme, in un certo senso, nulla di cui si può discorrere esiste al di fuori dell’io, perchè la cosa, per essere affermata e riconosciuta, deve in qualche maniera esser presente alla coscienza. In questo consiste ciò che si può chiamare funzione rappresentativa della mente. Ma proprio da questo carattere essenziale alla mente il De S. deriva la necessità di affermare la trascendenza dell’oggetto rispetto alla mente che lo afferma e lo pone. Noi, egli dice, arriviamo, è vero, al concetto di essere e di obietto solo mediante la riflessione sull’atto di riconoscimento: ma questo in tanto è tale, in quanto è provocato da qualcosa di diverso da sè. La mente, non contenendo la realtà come tale, nè identificandosi con essa, non può giungervi se non attraverso qualcosa che rappresenti o sostituisca la realtà medesima. Le rappresentazioni mentali forniscono i segni in base a cui l’intelletto costituisce la realtà. La realtà, si può anche dire che sia « percipi « e « intelligi », purché con ciò non si voglia significare che l’essere si esaurisca nel fatto di essere percepito e inteso, ma solo che non si ha modo di definire quest’essere prescindendo dalle sue rivelazioni nella coscienza individuale. La conoscenza vale sempre per altro, si riferisce sempre ad altro. Non che si tratti di una specie di corrispondenza tra l’obietto trascendente e la rappresentazione mentale — come grossolanamente si ritiene da molti critici di tale concezione —, quasi fosse ammissibile un’apprensione dell’oggetto qual’è in sé al di fuori della coscienza e quindi un confronto tra la Cosa e 1 idea- L affermazione della trascendenza è imposta dal bisogno di dare un senso alla funzione conoscitiva qual’è còlta in atto, al fatto conoscitivo nel suo significato e nell’intendimento che lo anima. Certo, per il De S., non si deve con Jiò pregiudicare la soluzione del problema metafisico della costituzioile intima della realtà ultima. La metafisica può anche giungere alla conclusione che la realtà, divelta da qualsiasi rapporto con la coscienza, è un non senso, che tutto ciò che esiste, esiste in quanto è connesso con una coscienza. Ma questo rapporto metafisico non può essere identificato col rapporto gnoseologico tra obbietto e coscienza in quanto conoscente. La coscienza nel riferimento alla quale può farsi consistere la realtà di tutto ciò che è, non è certo la coscienza individuale del soggetto che conosce questa realtà e la conosce riferendola a sé come altro da sè: anche quando si sia ridotta metafisicamente la realtà a coscienza, tale coscienza rispetto al soggetto conoscente, a questo o quel soggetto, è sempre un reale, un oggetto, è sempre appresa da esso come altro da sè. Il quale ultimo punto non potrebbe essere negato se ì.'in dimostrando che la distinzione delle singole coscienze è illusoria e che i rapporti tra gli obietti costituenti l’universo sono identici ai rapporti tra i fatti psichici di ciascuno. Questa dimostrazione, per il De S., non può essere data: e ne vedremo il perchè, tra poco, a proposito della natura del soggetto come reale. E, comunque, allo stesso modo che la soluzione del problema gnoseologico non deve accogliersi come tale da contenere o assorbire in sè la soluzione del problema metafisico, cosi questa — che, d’altronde, può essere solo punto d’arrivo dell’indagine filosofica, e irta, come s’è già detto, di difficoltà e oscurità d’c^ni sorta —, non può e non deve pregiudicare la soluzione del problema gnoseologico, sino a eliminare ciò che è costitutivo del fatto della conoscenza, la dualità di soggetto e oggetto. L’esperienza psichica — l’abbiamo già detto — è, per il De S., costituita di atti : e perciò anche il pensiero è atto. Ma chi dice atto, dice qualcosa che accade nel tempo, qualcosa che sorge e si dilegua in un determinato punto della durata. E allora, secondo il De S., non si può sfuggire a questo quesito: se tutta l’esperienza psichica si risolve in un complesso di atti e se in conseguenza tutto ciò che può essere conosciuto non lo può che attraverso atti, come é possibile arrivare al concetto di ciò che non è atto, al concetto, poniamo, di una relazione universale e necessaria tra idee, com'è possibile arrivare al concetto del mondo della pensabilità, che esclude qualsiasi elemento di efficienza, di azione reale, e che non è nel tempo? Appunto per rispondere a questo quesito, occorre negare l’immanenza o l’inclusione dell’oggetto nell’atto psichico corrispondente. Mentre vi sono contenuti di coscienza i quali si moltiplicano come si moltiplicano i centri di coscienza, ve ne sono altri che, pur essendo in speciale rapporto con i primi, rimangono unici e anzi non sono concepibili che come unici. E anche quando agli obietti in quanto parvenze non è attribuibile nessuna consistenza reale, non è lecito affermare che essi si identifichino con gli atti stessi, giacché anche in tali casi è sempre necessario presupporre ddle condizioni indipendenti atte a provocare l’esplicazione dell’attività psichica riconosciuta poi come illusoria. L’esistenza di siffatte condizioni è un presupposto ineliminabile : o l’attività psichica ch’esse hanno provocata è adeguata alle condizioni medesime, e allora si è autorizzati a identificarle con obietti reali, aventi un’esistenza indipendente; o tale esplicazione è inadeguata, e allora s’impone la necessità di ricercare quale forma di realtà e di esistenza possa essere attribuita a quelle condizioni. Ma come si può decidere se vi sia o no adeguazione dell’atto all’oggetto? Qui il De S. insiste sulla distinzione tra i due ordini di oggetti conoscibili: gli obietti concreti e individuali (con le loro qualità) da una parte, e gli elementi ideali o intelligibili, dall’altra. L’esistenza è fornita sempre dall’esperienza: o è dato sensoriale, o è dato della coscienza, e non può non occupare tempo ; l’intelligibile, invece, è sempre formulabile per mezzo di un rapporto o di un complesso di rapporti, ed è estraneo alle vicende del tempo. E il fondamento della cognizione, in rapporto a questi due ordini di obietti, è da un lato la percezione dei fatti psichici e di ciò che è relativo ad essi, e dall’altro la conoscenza di certi principii e assiomi costituenti come l’ossatura della ragione; da un lato, cioè, l’evidenza di fatto, fornita, come si è già accennato, dalla diretta esperienza che abbiamo di noi stessi, e, dall’altro, la necessità razionale, qual’è còlta nei principii logici. Questa distinzipne, però, non è da intendere, secondo il De S., nel senso che l’apprensione dell’esistente e della sua qualità possa farsi indipendentemente dal pensiero logico. Il fatto individuale non è caratterizzabile che mediante nozioni universali; e 1 intelligibile, se può essere considerato per sè (astratto) solo per opera della mente, è tanto intimamente connesso (consubstanziale) con resistente, col puro fatto, che questo non può formare oggetto di conoscenza se non per ciò che contiene di inttj ligibile. È il pensiero che deve in certo modo investire di sè i dati'dell’esperienza psichica per og- gettivarli affermandoli, facendone cioè termini di atti giudicativi, e trasformarli così in reali conosciuti. Più in particolare, è il pensiero che fa di quella sfera dell’esperienza psichica che è la sensibilità, il tramite di una realtà trascendente la coscienza, e fa delle qualità sensoriali non soltanto contenuti psichici — aventi la realtà stessa di altri contenuti psichici, come sentimenti, volizioni ecc., aventi cioè resistenza che è propria degli stati o atti di quel prototipo di realtà individuale che è l’io —, ma fenomeni d’una realtà trascendente. Il pensiero pone e risolve il problema della realtà di un correlato obiettivo delle q alità sensoriali, in quanto da un Iato queste non sono meri contenuti di coscienza o creazione del soggetto — come dimostrano la coerenza e permanenza che presenta l’esperienza sensibile e le variazioni a cui questa può andar soggetta indipendentemente da qualsiasi rapporto con la coscienza individuale — ; e dall’altro lato non sono cose in sè — come dimostra la loro relatività alle condizioni subiettive, per cui è impossibile dire chiaramente in che cosa consistano, per sè prese. D’onde risulta che esse hanno una forma di esistenza speciale che è appunto l’essere proprio dei fenomeni. Ora questo correlato obiettivo delle qualità sensoriali può essere raggiunto solo per opera del pensiero e non è determinabile nei suoi tratti essenziali che in base ai principii razionali. Il pensiero rappresenta, pertanto, il solo mezzo per distinguere l’apparenza dalla realtà, anzi il solo mezzo per attribuire un significato a tale distinzione. Le parvenze sensoriali, i puri fenomeni e le forme intuitive dello spazio e del tempo non possono non essere constatati, e quindi come pseudo-esistenze, non possono non divenire obietti di conoscenze immediate, nella forma di giudizi percettivi (pensiero tetico, immediato, concreto). E quando i dati così affermati si trovino in contrasto col sistema delle conoscenze organizzate intorno ai principii razionali, il pensiero medesimo è chiamato a decidere in ultima istanza su ciò che va affermato come reale e ciò che va riguardato come apparenza, è chiamato a decidere intorno all’obbiettivo e al subbiettivo. Se già l’esistenza come tale esige, secondo il De S., l’intervento del pensiero logico, s’intende che anche l’essenza del reale non possa, e con più forte ragione, esser determinata che dal pensiero. Essa consiste in relazioni, nelle quali la mente traduce ciò che dapprima è soltanto sperimentato e vissuto (somiglianza e differenza, nesso di dipendenza, rapporti quantitativi, rapporti di azione e passione, rapporti spaziali e temporali atti a fornire le coordinate per l’individuazione). L’intelligibile, distrigato dal reale per mezzo dei processi intellettivi, finisce per assumere l’ufficio di segno rispetto a ciò che è posto come indipendente dal soggetto e come sussistente. E il progressivo sviluppo della conoscenza è determinato dal bisogno di fissare ciò che nella realtà vi ha di conforme alla ragione e quindi di assimilabile da essa mediante la traduzione della realtà stessa in rapporti razionali. La credenza che l’obietto sia sempre risolubile in elementi intellettuali è il presupposto e anzi l’anima di qualsiasi conoscenza. La realtà esistente, dunque, non può essere posta che dal pensiero in quanto giudizio tetico; e non può essere conosciuta nella sua struttura se non nella misura in cui il pensiero la traduce in un complesso di rapporti intelligibili. Ma — e con ciò Sarlo riafferma il carattere nettamente realistico del suo razionalismo — i termini di questi rapporti e il contenuto di quelle « tesi » non sono risolvibili in pensiero.Vi è sempre distinzione, secondo il De S., tra lo sperimentare e il pensare, nel senso che quello non è derivabile da questo, anche se non possa divenire sperimentare «obiettivo », e quindi conoscere, che per mezzo dell’attività del pensiero; vi è distinzione tra il pensiero come oggetto di conoscenza, come pensabile o pensato, e il pensiero come attività d’un soggetto, volta a raggiungere la verità — sia questa un dato di fatto o un’idea —, come pensiero pensante. È questa la natura dei rapporti, il cui complesso costituisce la pensabilità del reale: da un lato essi sono il risultato di atti (riferimento) compiuti dal soggetto, sì che, come tali, parrebbero immanenti a una mente e quindi il prodotto di un soggetto. Ma dall’altra parte non sono posti arbitrariamente; sono, più che suggeriti, imposti da esigenze obiettive. Nè l’inlelligibiiità dei rapporti viene ad essere facilitata dal riferimento di essi ad una Mente universale. Con ciò i rapporti vengono consideratifcome creazione arbitraria di tale Mente ? E allora ogni analogia di questa con la mente umana verrebbe ad essere cancellata, e il ricorso ad essa diverrebbe inutile allo scopo. Vengono, invece, i rapporti considerati come espressione di una necessità intrinseca alla natura delle cose? E allora la Mente universale non è che il nome per esprimere la coerenza logica, l'intelligibilità nel suo aspetto obiettivo; i»/telligibilità che può condurre la mente ad ammettere un’Intelligenz.l! assoluta, senza che però questa sia assunta a principio esplicativo della razionalità: la razionalità vale per sè, indipendentemente dall’essere insidente in una mente. Quel che noi possiamo dire, conclude in proposito il De S. t è che i rapporti, quali possono essere studiati dall’intelletto finito individuale, suppongono obietti (termini) nella cui proprietà hanno il loro fondamento, e che le relazioni, realizzate in questa o quella coscienza mediante gli atti di riferimento, sono il riflesso delle relazioni obiettive. Il problema gnoseologico, s’è visto, non può, secondo il De S., essere convenientemente trattato se non quando si tenga presente che il soggetto a cui, nel fatto conoscitiva, vien riferito l’oggetto, è il soggetto individuale; e la soluzione réalistica ch’egli ha dato al problema potrebbe essere compromessa esclusivamente nel caso che si fosse riusciti a dimostrare, in sede metafisica, non solo che la realtà non può esser resa intelligibile che quando sia considerata come il pensiero di una Mente Universale, ma anche che la distinzione delle coscienze individuali tra loro e dalla Mente Universale sia illusoria. La dimostrazione di questo secondo punto è per il De S. impossibile. Intanto l’aver riconosciuto che l’esperienza psichica è costituita essenzialmente di atti, non significa per il De S. affermare che il soggetto dell’esperienza psichica si risolve in null’altro che in un complesso di atti. È il concetto e l’esperienza stessa di atto che rinvia per necessità al concetto di soggetto come di un reale distinto da ogni altro reale e quindi da ogni altro soggetto. Certo, non è possibile determinare la natura del soggetto (unità reale) senza riferirsi agli atti ch’esso compie: ma alla variabilità degli atti non corrisponde la variabilità dell’unità del soggetto. L’individuo non può non aver coscienza di essere in rapporto con altro da sè per mezzo di atti da sè stesso compiuti; ma se esso non distinguesse sè (come principio degii atti) dagli atti stessi, e questi dagli obietti a cui gli atti sono rivolti, non potrebbe parlare di atti suoi numericamente distinti da quelli degli altri individui. Inoltre il soggetto si fa, si crea con i suoi atti, ma perchè possa farsi e crearsi, occorre che vi sia un principio reale, un dato iniziale e quindi qualcosa di già fatto. La creazione non è ex nihilo; e la stessa potenzialità o capacità è concepibile soltanto come inerente a qualcosa di attuale, come funzione possibile di un essere. Non può, dunque, la coscienza essere ridotta al mero complesso degli atti e fatti psichici. Ma non può neppure, d’altra parte, — sostiene il De S., confutando in svariatissime occasioni la tesi idealistica —, non può neppure essere ridotta a una mera equazione di pensante e pensato, alla pura relazione formale d’identità tra conoscente e conosciuto. L’idealismo afferma che la suicoscienza è il grado supremo dell’evoluzione d’un principio ideale, d’una legge, d’un universale; quello in cui la realtà, che negli stadi inferiori si presenta come scissa dall’idea, come essere distinto dal pensiero, come oggetto opposto al soggetto, rivela invece la sua più intima natura, che è appunto unità e identità di soggettivo e di oggettivo, di pensante e di pensato, di essere e di pensiero. Quest’affermazione è per il De S. risultato d’una confusione derivante dal significato equivoco EQUIVOCO GRICE della parola coscienza. Quando si parla di coscienza e di suicoscienza, egli dice, bisogna distinguere tra la suicoscienza vera e propria, fondata sulla capacità che ha l’io di ripiegarsi su se stesso e di percepire il complesso dei fatti psichici come incentrantisi in un punto; e la coscienza, in senso largo, come espressione dello speciale rapporto che può esistere tra l’oggetto e l’io come conoscente. Quanto alla prima, l’equazione di pensiero e di pensato non è che l’espressione, in termini intellettuali, d’una esperienza vissuta sui generis, di un fatto che può essere indicato ma non definito, perchè per sè preso oltrepassa il pensiero, e non può assumere carattere di necessità razionale. E quanto alla seconda, la identificazione dei due termini del rapporto conoscitivo non può ottenersi se non sostituendo all’io empirico il cosi detto io universale o coscienza in generale o io trascendentale. Ma osserva il De S., o con ciò s’intende quello che è comune alle menti individuali ; e allora non si vede come si possa distinguere il soggettivo psicologico dal soggettivo gnoseologico. 0 s’intende qualcosa che vale indipendentemente da questa o quella coscienza empirica, che esprime il modo come lo spirito deve operare perchè sia veramente tale, le esigenze dell’intelligibilità significanti veri e propri compiti impditi da ciò che è indipendente dal soggetto; e allora non v’è più ragione di parlare di io, di soggetto, quando la soggettività si è identificata/con la razionalità, con l’intelligibilità, che è anzi l 'oggetto della conoscenza e del pensiero pensante. Ma da tale concezione della coscienza come di categoria delle categorie, questo solo, secondo il De S., si ricava, che la realtà in tanto può essere conosciuta ed essere compenetrata dal pensiero, in quanto è concepita essa tessa come implicante pensiero. Il che poi significa che la realtà è fcosì fatta da imporre certe esigenze alla mente individuale, ossia che nell’obietto vi è qualcosa atto a provocare il riconoscimento. Ma il passaggio dalla intelligibilità in quanto esigenza del riconoscimento da parte del soggetto, alla riduzione della realtà a un processo di autocoscienza, all’affermazione che nella realtà stessa non si trovi niente di più di ciò che è in noi stessi quando giungiamo a identificarci e a riconoscerci, non è affatto giustificato. L’autocoscienza, piuttosto, è già nel fondo della realtà, indipendentemente da noi: non è dunque l’autocoscienza, quale si presenta negli individui singoli, l’espressione genuina e compiuta della realtà. Nè vale ammettere l’autocoscienza come potenzialmente esistente ab aeterno e attuantesi poi negli individui: si riaffaccia allora quella suprema difficoltà contro cui, come già si è accennato, urta sempre il pensiero umano, la difficoltà d’intendereA:ome da ciò che è puramente pensabile, ideale, estratemporaneo, uno, si passi a ciò che è reale, attuale, temporaneo, contingente, diverso, mutevole. Non è possibile considerare soggetti molteplici che sono nel tempo e hanno uno sviluppo e sono direttamente impenetrabili e incomunicabili, come determinazioni, differenziazioni o sezioni dell’Uno, sol perchè essi hanno il potere di superarci limiti del tempo idealmente e di elevarsi al mondo della pura razionalità. E una riprova di questo è l’esistenza dell’errore logico, etico, estetico che dimostra, come già si è visto, la possibilità d’una discrepanza fra le funzioni psichiche e le categorie o principii ideali, di qualunque ordine siano, tra la necessità psicologica e quella deontologica. Questa distinzione tra la necessità di fatto e la necessità di diritto, tra ciò che è ed è per opera di un soggetto reale e quel che dovrebbe essere in virtù di principii razionali, è il presupposto da cui, è naturale, muove più particolarmente il De S., nelle sue indagini di etica (per cui v. specialmente VAttività pratica e la coscienza morate e i Principii di scienza etica). Per lui tutta la vita morale ha il suo fondamento in certi principii valutativi che si rivelano alla coscienza come forniti d’evidenza immediata analoga a quella logica: veri e propri assiomi morali, la cui azione pervade le particolari contingenze della vita pratica. Compiti dell’Etica sono perciò questi: a) determinare la natura del- Vevidenza pratica (necessità e universalità) e- il contenuto di queste condizioni essenziali nella vita morale (e per il De S. tali principii si riducono a quelli della dignità e della perfezione personale, della giustizia e della benevolenza); — b) porre in luce lo svolgimento storico di tali principii, in quanto, pur essendo stati sempre operativi, hanno dispiegato variamente la loro efficacia in relazione con il variare delle condizioni della civiltà; — c) considerare tutte le istituzioni — per qualunque via primamente sorte — alla luce degl’ideali etici, come organi dell’attuazione di essi. II De S., nella trattazione di questi problemi, afferma l’autonomia dello spirito nel senso che il soggetto è tratto dalla sua stessa natura a dare l’assentimento a principii superiori al suo io empirico. Egli quindi ammette una forma di esperienza morale specifica e distinta da ogni altra forma di esperienza spirituale, scientifica, estetica, religiosa ecc. La specificità di questa esperienza è la condizione che rende possibile una scienza etica: della quale egli insiste nel rivendicare l’autonomia e la priorità rispetto a qualsiasi concezione propriamente metafisica. La Metafisica ha nell’etica una delle sue basi più solide — e a tal principio è ispirato, come abbiamo visto, tutto il volume del De Sarlo "Metafisica, Scienza e Moralità „ — ; ma nessuna teoria morale può, secondo lui, essere costruita alla luce di una determinata concezione generale dell’universo, piuttosto che sulla base dell’analisi dell’esperienza morale. Come si vede, di fronte al problema etico il De S. mantiene fermo quello stesso atteggiamento — che abbiamo più particolarmente illustrato a proposito del problema gnoseologico — di stretta aderenza all’esperienza, come tramite traverso il quale soltanto ci si rivela nella sua efficienza e nella pienezza del suo contenuto ciò è che universale e razionalmente necessario. A coloro che trovassero troppo modesto il compito cosi assegnato alla filosofia, il De S opporrebbe volentieri le parole che Kant scrisse all’indirizzo dei «metafisici» del suo tempo: «Il nostro disegno può mirare a costruire una torre alta fino al cielo: ma il materiale è appena sufficiente per una casa, spaziosa tuttavia abbastanza per le occupazioni nostre sul piano dell’esperienza e alta a sufficienza per abbracciare questa d’uno sguardo ». E comunque « le alte torri e i grandi metafisici simili ad esse, intorno a cui (sia le une che gli altri) generalmente spira molto vento, non sono fatti Der me. Il mio posto è la feconda bassura dell’esperienza. SAGGI DI FILOSOFIA La Vecchia e la Nuova Frenologia. La nozione di Legge L’origine delle tendenze immorali. Il senso muscolare. L’ohbietto della Psicologia fisiologica. La filosofia dell’attività : Paulsen. TORINO CLAUSEN Roma. Tipografia di G. Balbi Via Mercede. La vecchia e la mura Frenologia Fatto psichico e fatto fisiologico o fisico sono denoaminazioni esatte, precise e intelligibili, meglio che le parole spirito e corpo, le quali, come già ebbe a notare il Renouvier, peccano per la loro indeterminatezza e pre.suppongono già un’opinione formata sulla natura del sostrato dei fatti psichici e di quelli fisiologici. La distinzione tra detti fatti porta con sè la ricerca della relazione esistente tra loro: nè può essere altrimenti, data l’intima connessione di entrambi. Non deve quindi far meraviglia se da vari punti di vista, sia stata indagata tale relazione e mentre dapprima sì fissò l’attenzione sull'azione che lo spirito in genere può esercitare sul ‘corpo preso nel suo insieme e viceversa questo su quello, negli ultimi tempi in seguito al progresso delle scienze positive e della critica della conoscenza si è badato massimamente alla relazione tra singoli fatti psichici e de‘terminati fatti e processi fisici (1). In ogni modo la relazione esistente tra l’anima e il corpo può formare oggetto d'indagine da due diversi Chi voglia avere un esatto, comunque riassuntivo, ragguaglio .delle varie maniere con cui successivamente è stato considerato dai filosofi, il rapporto tra spirito e corpo, può consultare il volume del Bain L'esprit et le corps. Paris, Germer et Bailliére. LA VECCHIA E LA NUOVA FRENOLOGIA punti di vista: i° Si può considerare il rapporto esistente tra determinati stati di tutto il corpo coi suoi vari organi e dati fatti psichici, si può in altri termini considerare l'azione che il fisico esercita sul morale e viceversa il morale sul fisico: esempi di tale trattazione ci vengono forniti dai classici lavori del Cabanis e dell’Hack Tuke; 2° si può limitare l’indagiue al rapporto esistente tra il fatto psichico e la corrispondente variazione dell'organo rivelato dall'esperienza in precipna connessione colla psiche (sistema nervoso). La prima indagine non ha interesse. particolare e decisivo per la soluzione del problema filosofico concernente la natura dello spirito : ed infatti l’azione reciproca, come si dice, tra fisico e morale non è negata da nessuno in tesi generale, comunque: possa essere variamente interpretata, ed aggiungeremo che le descrizioni che di quella possediamo sono pressochè complete e definitive. Per l'opposto la seconda indagine riguardante il rapporto tra sistema nervoso e fatti spirituali non solo costituisce un elemento importante per poter risolvere il problema capitale della psicologia che è quello della natura e del modo di esplicarsi dell’attività spirituale, ma è causa delle maggiori discrepanze tra i vari filosofi. È nostro intento di fermarci appunto su questa seconda indagine per vedere se nello stato attuale della fisiologia e della psicologia sia possibile venire ad una soluzione definitiva e razionale. Bisogna risalire al secolo XVII per trovarele prime indagini fatte allo scopo di cogliere il rapporto esistente tra il cervello e l’anima: e ciò sì comprende dileggieri, se si pone mente al risveglio delle scienze naturali caratteristico di quel tempo: già il sistema copernicano aveva portato una trasformazione nelle idee generali riflettenti l'universo; la meccanica aveva ricevuto da Galilei ‘una base solida, donde la tendenza a ridurre i fenomeni fisici a fenomeni meccanici; e Harvey colla scoverta della -circolazione sanguigna aveva presentato il principale motore della vita, il cuore, come una pompa aspirante e premente. Non è quindi a far meraviglia se agli occhi di Cartesio, il quale cercò di formare un sistema completo delle cognizioni naturali del suo tempo, la natura .sî sia presentata sotto l'aspetto meccanico, il corpo animale come una macchina naturale e il cervello come un congegno atto a contenere in un dato punto l’anima -di natura semplice ed inestesa. Non bisogna però credere che prima del XVII secolo non fosse stata messa in alcun modo in chiaro la connessione esistente tra il cervello e l’anima: non poteva non fermare l’attenzione di chiunque il fatto per sé ovvio che animali sd uomini, dopo aver ricevuto una lesione al cervello, mostrano un mutamento notevole nelle loro condizioni psichiche, C’è stato chi è arrivato a Democrito, Eraclito, Areteo, Ippocrate, ecc., i quali avrebbero fissato in astratto che ad ogni manifestazione e modificazione della natura corrispondesse una pacticolare organizzazione cerebrale. Aristotele nel :onfrontare la intelligenza deli'uomo con quella degli animali, vedendo nell’uomo la testa più piccola che negli altri animali, ne inferì che fra gli uomini la intelligenza è in ragione del minor volume del capo. Gregorig Nisseno faceva il seguente paragone del cervello umano: È una città, in cui tante strade di andata e ritorno pegli abitanti non fanno confusione, perché ciascuna ha il suo punto di partenza e di arrivo determinato . È un antichissimo accenno alla divisione delle funzioni. Ma le prime ricerche sperimentali che si conosca essersi fatte sul cervello umano, sono di Galeno, il quale disse che la forma del cerebro era quale con‘viene, e quale sarebbe se, prendendo una palla di cera in forma rotonda perfetta, la si premesse leggermente ai lati per modo che rse-atasse la fronte e la calotta con un po’ di gobba. In conseguenza colui big isdihy SAGGI DI FILOSOFIA. La Vecchia e la Nuova Frenologia. La nozione di Legge. L’origine delle tendenze immorali. Il senso muscolare. L’ohbietto della Psicologia fisiologica. La filosofia dell’attività: Paulsen. TORINO CLAUSEN Roma, Tipogratia di G. Bulbi. Via Mercede La vecchia e Ta nova Freologa. Fatto psichico e fatto fisiologico o fisico sono denominazioni esatte, precise e intelligibili, meglio che le parole spirito e corpo, le quali, come già ebbe a notare il Renouvier, peccano per la loro indeterminatezza e pre.suppongono già un'opinione formata sulla natura del sostrato dei fatti psichici e di quelli fisiologici. La distinzione tra detti fatti porta con sè la ricerca della relazione esistente tra loro: nè può essere altrimenti, data l'intima connessione di entrambi. Non deve quindi far meraviglia se da vari punti di vista, sia stata indagata tale relazione e mentre dapprima sì fissò l’attenzione sull'azione che lo spirito in genere può esercitare sul corpo preso nel suo insieme e viceversa questo su quello, negli ultimi tempi in seguito al progresso delle scienze positive e della critica della conoscenza si è badato massimamente alla relazione tra singoli fatti psichici e determinati fatti e processi fisici. In ogni modo la relazione esistente tra l’anima e il -corpo può formare oggetto d'indagine da due diversi Chi voglia avere un esatto, comunque riassuntivo, ragguaglio delle varie maniere con cui successivamente è stato considerato dai filosofi, il rapporto tra spirito e corpo, può consultare il volume del Bain L'esprit et le corps. Paris, Germer et Baillière essere adempiute con scrupolo nei loro più minuti particolari. Se nou che tutto questo, a dire il vero, piuttosto che ai tempi primitivi dell'umanità si riferisce a quelli in cui gli uomini si sono già organizzati in gruppi più o meno vasti con capi politici e religiosi. Questi capi sì finsero o si credettero effettivamente ispirati da esseri sovrannaturali e legiferarono: e le loro leggi furono varie secondo le condizioni dei popoli e i criteri politici e religiosi, dai quali i detti capi furono guidati. Riassumendo, nell’inizio, in qualsiasi aggregazione umana non esiste dritto nè legge nel vero significato della parola’ ma bisogni umani che possono essere sentiti e riconosciuti di necessaria soddisfazione. Se per comune volontà la soddistazione di quei bisogni con talune modalità o limiti riconosciuta legittima, viene conseguita, si hanno allora alcune consuetudini che non possono a rigore dirsi giuridiche, perchè manca un potere tutelatore, ma preparano l’apparizione delle forme giuridiche, dei dritti, iniziando la trasformazione dei rapporti bio-etici in rapporti giuridici. Se poi quelle consuetudini si formano sotto la direzione di colui che sta a capo dell'associazione, allora esse meritano il nome dì giaridiche. E posto che il dritto, subbiettivamente inteso, sia la facoltà di operare in una maniera determinata, riconosciuta legittima e necessaria dall'autorità sociale, obbiettivamente sì presenta sotto questi due aspetti: 1° sotto quello della garentia o protezione che ha vita appunto con le disposizioni legislative, con leleggi; 2° sotto quello di un insieme di azioni umane, svolgeutisi nei limiti e con le modalità stabilite da queste leggi. Di guisa che il dritto è il complesso delle norme generali dell'operare umano necessarie al conseguimento dei fini sociali ed individuali dell'uomo. Se non che qui giova notare che non è perfettamente conforme al vero affermare sic et simpliciter che le consuetudiri sì fissino nelle leggi giuridiche, ma invece occorre dire che dopo la separazione delle consuetudini propriamente dette dal dritto, quest’ultimo si vale dei mezzi di obbligazione esterna, mentre le prime adottano i mezzi più blandi dell’imitazione e del ri. spetto dell'opinione pubblica. Le consuetudini ed il diritto hanno però per lungo tempo questo di comune che il valore delle loro norme è fondato tutto sull'uso e sull’abitudine. La /egge (lex) espressamente ‘formulata e quindi letta e quella scritta (Vorschrift, prescrizione) sono di origine molto più tardiva ed anche dopo che sono sorte, abbracciano in modo molto incompleto il diritto che vige nella società: dritto che si differenzia dalle pure consuetudini per la costrizione fisica di cui effettivamente si serve. Presso i Romani queste leggi non scritte, da cui però attingeva la legislazione scritta, queste consuetudini si dissero 120res per accennare all'assenza in esse di ogni forma di promulgazione esterna reputata caratteristica della legge vera e propria (lex da legere). Presso di noì moderni la differenza tra consuetudini e leggi s'è andata sempre più accentuando per il fatto che le prime sono andate perdendo di valore a misura che si è lasciato maggior campo alla esplicazione della libertà ed iniziativa individuale e che in riguardo ad esse è venuto meno ogni mezzo di costrizione. Per contrario è divenuto molto più sensibile il carattere obbligatorio delle norme giuridiche basato appunto sui mezzi di costrizione esterna. Come si vede, nel concetto originario di legge non era incluso per niente il significato che oggi si dà alle leggi naturali, quali rapporti costanti esistenti tra dati termini, ma bensi, quello di norme o regole dirigenti l’attività umana. In questo senso Empedocle considera il divieto di uccidere gli esseri viventi quale legge applicabile fin dove si estende la luce del sole e lo spazio infinito e Sofocle fa dire ad Antigone che i comandi divini non scritti, ma imprescindibili, hanno valore non da ieri o da oggi, ma ab aeferno e nessuno sa da quando sono stati rivelati. In Eraclito troviamo solo un accenno a concepire la legge divina quasi come una legge naturale, quando dice, che tutte le leggi umane tendono ad avvicinarsi a quella divina, in quanto questa è onnipotente e forte abbastanza per dominare tutte le altre leggi ; qui la legge divina non solo è considerata come una norma dello svolgimento dell’attività umana, ma come fattore essenziale dell’ armonia universale chiamata anche da Eraclito col nome di Dike. Decorse però molto altro tempo prima che la nozione di legge fosse libera dagli elementi ad essa inerenti nel suo significato originario: basta pensare che i sofisti riguardavano il Nomos ela Fise, la legge e la natura delle cose come antitesi inconciliabili, per convincersi che in quel tempo il concetto di legge (intesa questa quale forma dell'ordinamento naturale) non poteva in alcun modo prendere consistenza ed acquistar valore ed anzi va notato che gli autori di quel tempo ponevano ogni cura a differenziare la legge dalla natura, osservando che la legge era stata data dagli nomini, mentre la natura di tutte le cose era stata ordinata dagli Dei. E quei filosofi che riconoscevano le leggi naturali nel senso moderno si guardavano bene dal chiamarle con tal nome: Democrito, per esempio, chiaramente espresse il concetto che niente di casuale avviene nel mondo, ma tutto ha la sua ragione necessaria; se non che egli non parlò mai di leggi naturali, bensi d ella necessità di ogni evento, anzi fu egli che pose la legge di rincontro alla natura delle cose. Del pari Platone ed Aristotele parlarono della necessità a cui sottostanno tutti i fatti della natura, comunque la subordinassero poi all’ attività finale di questa, ma non ci fu caso che essi considerassero tale necessità quale legge della natura. Questo nome fu da essi conservato esclusivamente per designare le norme dell’operare umano, distinguendo le leggi particolari dei singoli stati, suddivise poi alla lor volta in leggi scritte e non scritte, dalla legge morale universale per cui gli uomini son tratti istintivamente a giudicare (uivtevovta:) del giusto e dell’ingiusto. Teofrasto più precisamente disse che per tale via tutti gli uomini, in forza dell'unità della loro natura, sono spinti a considerarsi come affini o aventi una medesima origine. Tale legge, diciamo così, naturale però sta a significare soltanto un'esigenza pratica della natura umana, non una necessità incorabente al modo di agire delle forze naturali: e se Aristotele una volta si avvicina ad un tale concetto, non tralascia di osservare che è solamente in senso improprio che si può parlare di legge naturale (1). Bisogna arrivare a Zenone per trovare adoperata la (1) V.a tal proposito, Zeller: Philosophie, der Griechen, Vol. I, pag. 1005 e segg., Vol. II pag.865 e segg.; V. inoltre Zeller: Vortrige u. Abhandlungen. Dritte Sammlung. Leipzig prima volta la nozione di legge ad esprimere l' ordinamento della natura, il che parrà logico a chiunque conosce la struttara del sistema stoico. Dagli stoici infatti fu affermata la necessità di ogni evento, l'inviolabilità dell’ordine naturale tanto più decisamente in quanto Epicuro aveva ammesso l’arbitraria declinazione negli atomi e il libero arbitrio nell'uomo. Se Democrito ed Epicuro rifuggirono dal designare il corso necessario degli eventi naturali col nome di legge, perchè ciò poteva far considerare l'ordinamento della natura quale opera di un volere superiore e di un'intelligenza plasmatrice dell’universo, gli stoici avendo ricondotte tutte le cose ad una sola causa riguardata non soltanto come sostanza materiale, ma come Forza creatrice o Ragione, furono spinti a considerare il concatenamento delle cause naturali e il necessario svolgimento dei fatti come mezzi per cni la Ragione universale potesse attuare i suol fini. Da tai punto di vista tutto l’ordinamento dell'universo sì presentò come un prodotto del volere di detta ragione, in altre parole come la legge che essa aveva dato ; ed anzi essa stessa fu chiamata legge naturale, e se qualche volta la natura piuttosto che la ragione figurò come legislatrice, | se sì parlò di leggi della natura a cui tutto doveva sottostare, compreso l’uomo, ciò avvenne perchè la natura nella sua intima essenza era fatta coincidere colla ragione universale (divinità) (1). In tal guisa è giustificato il detto di Zenone che la legge naturale è una legge divina. Quid enim aliud est natura quam Dcus et divina ratio toti mundo ct partibus cius inserta ? Seneca, De Benef. La legge universale fu riposta nella Ragione somma, la quale penetra da per tutto, onde Cleanto nel suo inno, dopo aver detto che Giove tutto regola in conformità di una legge, chiama le esigenze morali egualmente leggi. Qui non troviamo differenza notevole tra la legge naturale e la legge morale. Del resto tutta la dottrina morale stoica è fondata appunto sul principio di dover vivere in conformità della natura, principio, il quale non dice altro. che la legge morale è legge naturale dell'’operare umano. La nozione di legye naturale qui nor appare delimitata in modo netto da non poter essere confusa per l’origine e per la forma colla legislazione positiva e per il contenuto colla legge morale, essendo guidato il volere divino dal fine di procacciare il maggior bene agli esseri ragionevoli. Sembra adunque che fosse dalla scuola stoica che l'espressione di legge naturale passasse nell'ordinario linguaggio, tanto più che l’indeterminatezza del suo significato rimase immutata per il resto dell'evo antico e medio. Le leggi governanti la natura al pari di quelle obbligatoriamente regolanti le azioni umane figurarono come comandi divini : e senza badare se tutti gli enti avessero la capacità propria dell'uomo di dare ascolto ai detti comandi, le leggi naturali furono presentate quali ordini positivi provenienti necessariamente da una Volontà superiore. A questo punto giova notare che il sentimento mitico della natura per cui i fenomeni di questa furono riguardati espressioni di impulsì e di tendenze interne, trovò il suo appoggio nell’analogia esistente tra il corso invariabile dei fatti naturali e l’indirizzo, regolato da norme fisse, degli atti della vita umana; indirizzo alla sua volta fondamentato almeno in parte sul succedersi ritmico dei bisogni fisici. Alla costrizione esterna si sostitni l'esigenza interiore emotiva per cui si fu tratti a conformare il proprio modo di operare all’operare della natura. Il divino dall’uomo posto nella natura si riverberò sull'uomo stesso quando gli atti divini (fatti naturali) furono posti come modelli della condotta umana; cosi l'ordine della natura divenne esemplare dell'ordinato svolgersi delle consuetudini umane e la nozione di legge che ricevette la sua prima determinazione nella società umana e che fu trasportata allo studio della natura in seguito ad una tardiva riflessione, appare derivata nei suoi fondamenti primitivi ed originarii dalla natura stessa (natura fisica dell’uomo). Del resto il nesso esistente tra l’ordine naturale e quello delle consvetudini si rende manifesto nelle intuizioni religiose degl'indiani. Negli atti simbolici religiosi di questi è espresso il sentimento di regolarità fissa e immutabile dominante dapertutto nell'universo. In alcuni sacrifici sono ‘simboleggiati i fenomeni celesti svolgentisi con regolarità costante. I sacrifici fatti ad Agni corrispondono ai fenomeni naturali (dappriina adorati essi stessi come divinità) in cui per così dire, quel Dio s’incorpora. E i detti fenomeni son reputati atti religiosi compiuti dalla divinità. Di qui il rispetto pauroso per la natura che raggiunge il massimo grado presso i Greci, come provano i miti di Prometeo, di Icaro, di Fetonte, e il riguardo usato agli animali, i quali rappresentano un elemento dell'ordine e del sistema della natura. | In tal guisa, dallo stadio mitico primitivo in cui sono confusamente rappresentati l'ordinamento naturale e morale dell'universo si passa allo stadio estetico in cuì l’ordinamento esterno delle cose è presentato come simbolo o manifestazione dell'ordinamento morale interiore, stadio che coincide colla trasformazione degli dei della natura in potenze morali. La natura è sempre riguardata come qualche cosa di divino, ma i singoli obbietti naturali cessano di essere considerati come dèi, simili agli uomini (V. il Timeo di Platone). Col suddetto stadio coincide l’inizio della conoscenza delle leggi fisiche dell'universo, in quanto la contemplazione estetica non considera più i fatti naturali come prodotti puri e semplici del capriccio e dell’arbitrio di esseri divini simili in tutto all'uomo, ma bensi come segni, accenni a qualcosa d'elevato, di razionale, di assoluto, di necessario e quindi di permanente che è degno di essere conosciuto ed indagato, per quanto si celi all’occhio volgare. Di qui l’inizio e l'avviamento alla comprensione razionale dell’universo, la quale giunta al suo completo svolgimento menò allo sconoscimento di ogni valore etico obbiettivo nella natura, sia perchè questa non fu più contemplata nel suo insieme, data l'esigenza della divisione del lavoro, sia perchè gli effetti emotivi suscitati dalla detta contemplazione essendosi rivelati variabili e incostanti, furono riguardati un prodotto del soggetto, da questo trasportati nella natura. Bisugna arrivare ai secoli XVI e XVII per trovare delimitato nell’ultimo modo anzidetto il contenuto della nozione di legge naturale, per la quale s’intese appunto il rapporto costante di dati termini, la relazione fatalmente necessaria esistente tra condizionato e condizione. Talchè la nota caratteristica della legge naturale fu allora riposta nel suo valore assoluto, universale, privo d’eccezioni. E la conoscenza di essa si rivelò tanto più perfetta quanto più chiara appariva la conoscenza degli eventi e delle loro condizioni determinanti, raggiungendo il massimo grado di perfezione colla possibilità di esprimere matematicamente il rapporto implicato nella legge in modo da poter senza fallo prevedere un dato evento, una volta note le rispettive condizioni. Che si riuscisse per la via induttiva o per quella deduttiva a fissare e ad enunciare determinate leggi, ciò che sopratutto si ebbe di mira fu che la legge avesse ‘n valore assoluto e incondizionato ; il che poteva avvenire solo - nel caso che tra le circostanze accompagnanti un dato evento e quest'ultimo fosse riconosciuto un nesso causale, comunque la conoscenza di una legge naturale potesse essere indipendente da quella delle cause determinanti il nesso espresso nella legge stessa. Molte leggi empiriche furono infatti fondate su ipotesi scientifiche. Il modo di comprendere la causalità in genere esercitò però sempre una grande azione sulla maniera d'intendere l’assolutezza delle leggi naturali. Fu notato poi che per poter ammettere la possibilità di strappi alle sudette leggi, per poter ammettere in alcun modo delle deviazioni dal corso naturale delle cose, per poter accettare in altri termini i miracoli, occorreva implicitamente od esplicitamente tornare a considerare le leggi naturali quali leggi positive derivanti dall'arbitrio di una forza saperiore. Una volta infatti affermato che intanto si può parlare del corso regolare degli eventi naturali, in quanto sotto date condizioni sempre si presentano fatti identici non è più possibile risguardare come naturali eventi, i quali si sottraggono ad ogni spiegazione naturale. Le leggi naturali interpretate secondo i concetti dominanti nella scienza in stato di progresso e di svolgimento, appaiono assolutamente inconciliabili e irriducibili a quelle precettive o normative, in quanto le prime hanno il carattere precipuo di essere necessarie in sè stesse e prive di eccezioni, mentre le altre esprimono delle regole, dei precetti a cui si può sempre derogare. ]ua necessità nell’ultimo caso è sempre relativa ad un dato scopo da conseguire. Dicemmo di sopra che lo svolgimento della nozione di legge e la sna formale enunciazione e introduzione nel dominio della scienza andavano differenziate dal fatto reale ed obbiettivo formulato ed espresso in un periodo tardivo nella legge stessa. Invero fin da quando fu riconosciuto un rapporto ‘costante e necessario tra due fatti (Matematica e Astronomia), fin da quando sì cominciò ad enunciare un giudizio universale ed a ricavare da date premesse date illazioni ordinando il tutto in modo chiaro e preciso, fin da quando fu riposta la ragione dei vari eventi in un processo matematico-meccanico svolgentesi in modo incondizionatamente necessario, fin da quando il mondo in tutte le sue manifestazioni anche le più esigue, fu considerato come wn organismo governato da un concatenamento di cause, fin da quando pose radici Ia convinzione che conoscere equivale a determinare e che pertanto conoscere un oggetto equivale a ricercare in che modo questo nella sua essenza ed esistenza dipende da un altro, fin da quando adunque la scienza intesa in senso lato ebbe la sua prima origine, il contenuto .reale della nozione di legge s'imponeva alla considerazione dello spirito. Dal momento che lo spirito senti il bisogno di distinguere il permanente e l'essenziale dal contingente e dall’accidentale, attribuendo al primo maggior valore e significato, dal momento che andò in traccia dell'unità al disotto della varietà, pose perciò stesso la necessità della ricerca della legge. Questa ha radice in una necessità del concepire umano, in quanto nel fondo del nostrointelletto, è insita la tendenza ad andare in cerca di qualcosa di assoluto, d'immutabile e d'identico : ond'è che dagli antichi filosofi Ionici, o meglio dagli antichi matematici ed astronomi dell’oriente fino a noi fu un continuo affaticarsi del pensiero umano per fissare gli elementi invariabili di tutte le cose e per sostituire alla concezione mitica, e antropomorfica quella della connessione necessaria e incondizionalmente regolare dei vari eventi. Ed è cosa degna di nota che parallelamente all’interpretazione teleologica della natura si conservi con un numero maggiore o minore di variazioni e di ondeggiamenti la tendenza a ricercare i puri rapporti causali tra le cose e gli eventi. Chi segue lo svolgimento storico della scienza in genere constata subito che la corrente che potremmo dire materialistica decorre parallela a quella idealistica, attraverso tutto il mondo antico e tutto l’evo medio fino a che nel rinascimento s’iniziò quel movimento che ebbe per esito l'abbandono di qualsiasi veduta teleologica nel dominio della scienza vera e propria. Se non che qui si presenta la questione: Se il fatto reale espresso mediante la legge è antico quanto la scienza, perchè la nozione di legge vera e propria sorse così tardi ? Al concetto di necessità naturale che cosa si deve aggiungere perchè si abbia il concetto di legge ? Finchè la conoscenza umana sì portò, per così dire, in modo diretto ed immediato verso il suo obbietto che d'ordinario era la natura, senza curarsi di determinare l'essenza generale, il concetto dei fenomeni, senza ferinare l’attenzione sulle relazioni stabilite mediante l’intelletto umano, era impossibile che sorgesse la nozione di legge, la quale è resa possibile piuttostochè dalla considerazione delle cose per sè stesse, da una veduta esatta in ordine alla natura della nostra conoscenza. Finchè i principii delle cose furono riposti nelle cose e non nei concetti, ognun vede che di leggi non era possibile parlare. Ma tostochè per opera segnatamente della filosofia stoica, la ragione fu reputata immanente al mondo e fine a sè stessa, e il mondo nel suo progressivo svolgimento fu reputato la manifestazione di una logica che sta nella sua stessa essenza, anzi fu reputato la ragione stessa che si determina, per ciò stesso fu posta la base del principio fondamentale delle leggi della natura. Queste, infatti, esistono, sono necessarie e sono intangibili, perchè sono la natura stessa; non possono esser tolte alla natura, perchè non furono poste alla natura. Se fossero tolte, sarebbe tolta la natura, il mondo. L'esistenza è la giustificazione di quello che esiste; esiste perchè non può non esistere. Ora è questa idea la garanzia della scienza, la quale non può reggersi quando si ammetta la possibilità dell’arbitrio: l’azione di una volontà esterna al mondo. Senza il concetto o palesamente affermato o inscientemente ammesso di una logica immanente, il pensiero brancola nel vago e nel buio e la nozione di legge, che implica ordine, regolarità, e fissità, non può prendere origine. In conclusione perchè si arrivi a concepire la legge, all'idea della necessità naturale si deve aggiungere quella della logica immanente: la nozione della necessità interiore o logica, ecco il presupposto dell'insorgenza della nozione di legge. Una volta entrata nella mente degli scienziati la persuasione che pensare è fissare in forme costanti la cangiante materia delle rappresentazioni, è cercare, come il saggio di Schiller, den ruhenden Pol in de Erscheinungen Flucht, una volta ammesso che, giusta l’espressione dell’Helmholtz, das erste Product des denkenden Begreifens ist das Gesetsliche, è chiaro che i filosofi dovettero essere spinti a penetrare per vie differenti la natura intima della legge la quale appariva come il risultato ultimo delle varie forme d'indagine scientifica, come l’espressione pi esatta e completa del lavoriointellettuale intorno ad un dato contenuto. Noi crediamo chetutte le idee emesse dai filosofi su tale argomento possano essere raggruppate in tre principali categorie, contrassegnate coi seguenti tre nomi: concezione intellettualistica, concezione animistica e concezione dualistica delle leggi in genere. Se non che qui si potrebbe obbiettare: stando a tale divisione, parrebbe che le leggi, le quali in sostanza non sono che il risultato ultimo della conoscenza umana e quindi un prodotto dell’intelligenza, possano essere inter pretate anche non ricorrendo all’attività intellettuale; a fianco alla concezione intellettualistica, infatti, si pone quella animistica ; ora, non racchiude tale affermazione una contradizione? A ciò si risponde che senz’alcun dubbio la semplice determinazione ed enunciazione di una legge è già un fatto intellettuale; il quale però può essere valutato e interpretato diversamente a seconda che esso vien rapportato alle funzioni semplicemente intellettive e quindi ricondotto sotto il dominio esclusivo dei principii supremi del pensiero puro (principio d'identità, ecc.), ov| vero viene considerato come implicante un elemento che non ha a che fare coll’intelligenza pura e semplice. A. tal proposito giova far distinzione tra la natura propria delle leggi (il loro significato reale ed obbiettivo) e la conoscenza di esse. Riguardo a quest’ ultimo punto tutte le leggi a qualunque categoria appartengano figurano, si, comes trascrizioni in termini intellettuali (in giudizi universali) di rapporti reali, figurano cioè come il risultato dell’applicazione dei processi intellettivi agli obbietti reali; ma a seconda che i detti giudizi universali enuncianti le leggi sono ridotti tutti a giudizi d'identità o analitici, ovvero (almeno in gran parte) a giudizi di dipendenza o sintetici, irriducibili ai primi, si avranno due forme fondamentali d’'interpretazione delle leggi. Riguardo al primo punio a seconda che l'essenza delle leggi è riposta tutta in un processo di equazione obbiettiva tra ì due termini della coppia legge, ovvero in una determinazione dell’attività propria delle cose e nell'azione reciproca delle stesse, si avranno del pari due forme principali di concezione della legge. Va notato qui che d'ordinario le dette quattro forme si corrispondono in modo che l’interpretazione, diciamo così, analitica coincide con quello dell'equazione obbiettiva e la sintetica con quella dell'attività. Sicchè noi ci siamo creduti autorizzati a partire per prima in due grandi categorie le concezioni circa la natura delle leggi in genere, dando loro i nomi di concesione intellettualistica, e di concezione animistica, nomi che filologicamente considerati non hanno alcun valore e sono delle semplici denominazioni atte a contrassegnare due forme di concepire le leggi. Siccome poi si hanno delle concezioni miste in cui le leggi sono interpetrate, per una parte intellettualisticamente e per un'altra parte animisticamente, così noi abbiamo creduto di ammettere una terza forma di concezione detta dualistica. Aggiungiamo infine che in questa terza categoria vanno compresi quei casi in cui tra le leggi esplicative e quelle normative viene ammessa, una differenza essenziale e fondamentale. A seconda che è ammesso adunque il concorso di uno piuttosto che di un altro elemento per la genesi della nozione di legge, a seconda che il valore di questa si fa o no dipendere esclusivamente da un fatto di conoscenza e a seconda che la causalità è riposta semplicente nell'essere, ovvero nell’identità dell'essere e dell'agire, si avrà un vario modo di concepire l’essenza delle leggi. E la concezione meriterà il nome di intellettualistica ogni qualvolta le leggi o sono considerate come legami per così dire estrinseci alle cose (veduta meccanica), ovvero come enunciazioni di rapporti d’identità. Meriterà invece il nome di animistica ogni qualvolta le leggi vengono considerate come determinazioni primitive e originarie dell’attività delle cose, o come espressioni di ciò che vi ha d’interno in queste ultime. Meriterà infine il nome di dualistica ogni qualvolta la natura delle leggi viene interpretata per una parte intellettualisticamente e per un'altra parte animisticamente. Sui particolari concernenti queste tre concezioni c'intratterremo in seguito, quando tratteremo partitamente di ciascuna di esse. Secondo la concezione intellettualistica, o meglio secondo la forma predominante di essa, chi dice legge dice rapporto, dice, cioè, legame esistente tra due caraiteri generali, i quali non sono mai staccati l'uno dall'altro in natura e si richiamano, o tendono a richiamarsi a vicenda; ed anzi si può dire che i due caratteri, dei quali ora il primo richiama il secondo, ora il secondo richiama il primo, formano una coppia, che è poi una legge. Pensare, formulare una legge equivale a legare insieme due idee generali; e formare un giudizio generale, è enunciare mentalmente una proposizione generale. Ogni pezzo di ferro esposto all'umidità si arrugginisce : tutti i corpi immersi in un liquido perdono una parte del loro peso eguale al peso del liquido spostato ; ecco delle leggi, ciascuna delle quali consiste in una coppia di caratteri generali ed astratti collegati tra loro: da una parte la proprietà del ferro d’essere esposto all'umidità, dall’ altra l'origine del composto chimico detto ruggine, da una parte la quantità del peso perduta dal corpo immerso e dall'altra la quantità eguale del peso di liquido spostato. Niente di più utile allo spirito umano di questa struttura delle cose, giacchè una volta scoverta la legge, il primo carattere appare l’indice del secondo. Prima però di considerare le leggi in sè stesse e nelle loro applicazioni, giova ricercare la natura di detti caratteri generali o astratti, sempre secondo i detti intellettualisti. Lungi dall’essere creazioni della nostra mente, semplici mezzi di classificazione o strumenti di mnemotecnica, quelli esistono di fatto al difuori dì noi, al di là della portata dei nostri sensi e delle nostre congetture; sono efficaci, anzi sono gli agenti più importanti della natura, in quanto ciascuno di essi trae seco uno o più altri, sono la porzione fissa ed uniforme dell’esistenza per sè frammentariamente dispersa e successiva, giacchè allo stesso modo che vi sono dei caratteri comuni la cuì presenza continua collega tra loro i diversi momenti dell’esistenza individuale, così vi sono dei caratteri comuni la cui presenza moltiplicata e ripetuta collega tra loro i vari individui della classe. Senza i caratteri comuni e le idee generali ed astratte che loro corrispondono nell’intelligenza umana non solo non sarebbe a parlare di scienza (cosa già notata da Aristotile), ma non esisterebbero nemmeno individui, i quali in sostanza sono come obbietti particolari che durano, che serbano nel tempo e nello spazio qualcosa di comune e di permanente, una data forma, cioè a dire un gruppo di caratteri fissi aventi importanza capitale e costituenti la parte essenziale. Abbiamo detto che ai caratteri comuni obb'ettivamente esistenti fanno riscontro nell’intelligenza le idee o i concetti, 1 quali lungi dal confondersi colle rappresentazioni sensoriali o cogli schemi fantastici o rappresentazioni generali che sono un fatto semplicemente concomitante, vanno riguardati come nomi di classe, nomi significativi ed atti ad essere compresi, in modo che essendu questi uditi, svegliano la rappresentazione sensibile più o meno chiara e circoscritta d'un individuo della classe e esistendo invece la rappresentazione sensibile di un individuo della classe, appare subito sull’orizzonte psichico l'imagine del suono del nome di questa e la tendenza a pronunziarlo. Talchè i caratteri astratti delle cose sono pensati per mezz di nomi astratti (idee astratte) che sono specie di sostitutivi dell'esperienza sensibile che noi non abbiamo, nè possiamo avere del carattere astratto presente in tutti gli individui simili. Essi lo sostituiscono, adempiendo al medesimo ufficio. L'origine di tali nomi astratti e generali va ricercata in una forma particolare di associazione tra un dato suono e la rappresentazione o l’immagine non solo di individui assolutamente simili, ma anche di individui a volte differenti in tutto, trannechè in un carattere. Il potere di trovare analogie tra le cose più o meno disparate, il potere di cogliere dei rapporti è appunto la caratteristica dell’intelligenza umana e insieme ciò che rende possibile la formazione di nomi astratti e generali. L'idea nasce col segno, ma perchè sia adattata in modo completo all'oggetto, perchè risponda al carattere comune, è necessario che sia rettificata a gradi, giacchè nel linguaggio ordinario e nella esperienza volgare è incompleta e vaga: è soltanto per mezzo dell'osservazione attenta, dell'esperienza variata ed estesa e della comparazione ripetuta, che noi riusciamo, tralasciando tutti i caratteri inutili e accidentali, a conservare quelli essenziali e permanenti. Non tutte le idee generali vengono formate con detto processo: vi sono, infatti, quelle che agiscono come modelli, perchè hanno per obbietto non il reale, ma il possibile, ed esse piuttostochè adattate all'oggetto, vengono costruitte, E il carattere comune di tutte le idee che noi costruiamo è che esse si riducono a schemi, a cornici in cui può venire inquadrata la realtà, comunque esse siano formate senza tener presenti determinati oggetti reali. La conformità delle costruzioni mentali colla realtà può e non può aver luogo: in ogni caso essa non è lo scopo a cui si mira. Lo adattamento non è sempre esatto e vi sono dei casi in cui è soltanto approssimativo; e ciò perchè il fatto reale è molto complicato, mentre la costruzione mentale relativamente semplice: sbarazzato dei suoi suoi elementi accessori e ridotto a quelli principali il primo si presenta come una copia della seconda e tanto più entrambi coincidono quanto più o mediante l’astrazione praticata sulla realtà tutto ciò che è accessorio vien tralasciato, rimanendo conservato ciò che è primitivo ed essenziale, ovvero mediante il processo contrario, la determinazione, tutto ciò che manca agli schemi mentali vien loro attribuito dall'immaginazione. Tre condizioni sono richieste perchè le costruzioni mentali abbiano un certo valore obbiettivo : 1° bisogna che gl’elementi mentali di esse siano calcati esattamente su quelli delle cose reali: 2° che gli stessi elementi siano generali e possibilmente universali: 3° che le combinazioni mentali siano le più semplici possibili. Tale processo costruttivo si può applicare alle varie classi di obbietti, giacchè in tutti noi possiamo riscontrare e isolare i caratteri generali atti ad essere combinati tra loro. Tra i tipi mentali per tale via costruiti ve ne sono di quelli che c’interessano in modo particolare e aì quali noi vivamente desideriamo che le cose si conformino, tanto che il bisogno e l'esigenza di tale conformità diviene stimolo all’azione. Noi costruiamo l'utile, il bello e il bene e operiamo in modo da far coincidere, per quanto è possibile, le cose colle nostre costruzioni. Avendo noi scorto ora in uno, ora in un altro degli individui che vivono in società con noi e con cui noi siamo in continuo rapporto dei segni esterni che sono l'espressione di qualità interiori atte a svegliare la nostra attenzione, perchè benefiche all'individuo o alla specie, quali l'agilità, il vigore, la alute, l’energia ecc., siamo tratti a mettere insieme i detti segni, affine di potere contemplare un corpo umano in cui siano appunto manifestati i caratteri da noi giudicati i più importanti e pregevoli: ond'è che se un artista giunge ad avere la visione interiore, la immagine viva e intensa dell’insieme di queste note, egli prende un blocco di marino e v'imprime la forma ideale che la natura non era riuscita a mostrarci per l’innanzi. Del pari essendo dati i vari motivi del volere umano, noi constatiamo che l’individuo opera più di frequente in vista del suo bene personale e quindi per interesse, molte volte per il bene di un individuo da lui amato e quindi per simpatia e rarissimamente in vista del bene generale senza altra intenzione che di essere utile alla società presente o futura di tutti gli esseri forniti di sensibilità e d'intelligenza. Noi isoliamo quest'ultimo motivo e desideriamo vederlo preponderante in ogni deliberazione umana, lo lodiamo tanto da raccomandarlo a tutti gli altri e da fare ogni sforzo per dargli il predominio in noi medesimi. Formatosi così l’ideale del carattere morale, noi cerchiamo ogni mezzo per adattare a tale modello il nostro carattere effettivo. Di guisa che le opere d’industria, d’arte e di virtù sorgono allo scopo di colmare o discemare l'intervallo che separa le cose dalle nostre concezioni. Vediamo ora in che consistono, sempre stando alla concezione intellettualistica, i rapporti o i legami esistenti tra due caratteri comuni (leggi). Notiamo subito che essi sono di varie specie: a volte i due caratteri collegati insieme sono simultanei e allora due casi si possono presentare o il primo carattere trae seco il secondo senza che l’ultimo tragga seco il primo: così ogni animale fornito di mammelle ha vertebre, ma non ogni vertebrato è fornito di mammelle (legame unilaterale o semplice): ovvero la presenza del primo carattere trae s eco quella del secondo e alla sua volta la presenza del secondo trae seco la presenza del primo; in ogni mammifero i denti incisivi accompagnano sempre un tubo digestivo breve e lo svolgimento di istinti carnivori e reciprocamente (legame bilaterale e doppio). Altre volte dei due caratteri collegati, l'uno, chiamato antecedente, precede e l’altro detto conseguente segue; al primo si dà il nome di causa ed all’altro quello di effetto. E anche qui due casi si possono presentare o il primo carattere provoca colla sua presenza l'insorgenza del secondo e alla sua volta il secondo per prodursi, esige la presenza del primo : ogni mobile al quale s'applicano due forze divergenti di cui l’una è continna, descriverà una curva; ed ogni mobile per descrivere una curva richiede l'applicazione di due forze divergenti di cui l'una è continua (legame bilaterale o doppio): ovvero il primo provoca colla sua presenza il secon:lo senza che il secondo per prodursi esiga la presenza del primo le vibrazioni di una certa celerità trasmesse al nervo acustico provocano la sensazione di suono, ma quest’ultima può prodursì in noi spontaneamente nei centri sensitivi (legame umilaterale o semplice, nesso di causa ed effetto) (1) Ma in che consiste il legame esistente tra due caratteri ? Vi è qualche virtù o ragione segreta che risiedendo in uno di essi, trae, provoca l'altro? Su questo punto i filosofi fautori della concezione intellettualistica non sono d'accordo, come si dirà in seguito; per ora basterà notare che per la più parte dei filosofi e scienziati moderni intellettualisti le parole provocazione, legame, produzione, esigenza non sono che metafore abbreviative. La sola nozione dice Stuart Mill sulla traccia di Hume, di cui a tal proposito noi abbiamo bisogno può esserci fornita dall'esperienza, la quale c’insegna che nella natura regna un ordine di successione invariabile, e che ogni fatto vi è sempre preceduto da un altro fatto. Noi chiamiamo causa l’antecedente invariabile, effetto il conseguente invariabile. La causa reale è la serie delle condizioni, l’inTAINE -- De VPIntelligence. sieme degli antecedenti, senza i quali l'effetto non può aver luogo. Sicchè la causa è la somma delle condizioni positive e negative prese insieme, la totalità delle circostanze e contingenze di ogni specie che una volta date, sono invariabilmente seguite dal conseguente. E la volontà produce i nostri atti corporei come il freddo produce il ghiaccio o come una scintilla produce un'esplosione di polvere da cannone; vi è li del pari un antecedente, la risoluzione, che è un carattere momentaneo del nostro spirito, e un conseguente, la contrazione muscolare che è un carattere momentaneo di uno o più dei nostri organi; l’esperienza collega insieme i due fatti in modo da render possibile la previsione che la contrazione terrà dietro alla risoluzione, non altrimenti che l'esplosione della polvere segue il contatto della scintilla - In modo più preciso si può dire che qualunque siano i due caratteri, simultanei o successivi, momentanei o permanenti, la forza colla quale il primo trae, provoca o suppone il secondo come contemporaneo, conseguente o antecedente, si riduce ad una particolarità del primo considerato solo e separatamente. S'intende dire con ciò che esso ha per sè la proprietà di essere accompagnato, seguito o preceduto dall'altro. Del resto niente di meraviglioso in tale costituzione delle cose, se si riflette che non è più strano trovare delle concomitanze, dei precedenti e dei conseguenti rispetto ed un carattere generale di quello che sia il trovarne rispetto ad un individuo particolare o ad un fatto attuale. Non alrimenti che gl’individui e i fatti particolari, i caratteri generali sono forme dell’esistenza non ditferenti dai primi, se non perchè sono più stabili e più diffusi. La difficolta è tutta nel poter osservare separatamente un tale carattere che si riscontra sempre frammisto a molti altri c-ratteri. Due metodi ci conducono allo scopo, a seconda che si tratta di caratteri generali reali o possibili. 1 primi essendo formati per estrazione vera e propria vengono stabiliti con processo graduale: e i rapporti intercedenti tra loro sono scoverti per via induttiva e formano l’obbietto delle scienze sperimentali. I secondi essendo costruiti per combinazione, sono come a dire delle forme, degli schemi in cui possono essere inquadrate le cose reali. I rapporti esistenti tra loro sono rintracciati mediante il processo deduttivo e formano l'oggetto delle cosidette scienze costruttive. Il metodo induttivo nelle sue varie forme è un processo molto lungo, perchè suppone la raccolta, la scelta e la comparazione di più casi. Va notato poi che più una legge è generale e più richiede del tempo per essere scoverta, presupponendo essa l'acquisto di diverse leggi parziali : come anche che al di fuori della cerchia ristretta dell’esperienza compiuta, una data legge ha soltanto un valore di probabi lità. Le proposizioni delle scienze costruttive, o deduttive invece sono contrassegnate da caratteri di natura opposta. In ciascuna di queste scienze, infatti, vi sono certe idee primitive che una volta presenti allo spirito si collegano istantaneamente tra loro e con un vincolo necessario ed universale. Tali giudizii primitivi, fondamentali, irreducibili si dicono assiomi,la cui validità può essere dimostrata mediante un processo lento, approssimativo, sperimentale (induttivo), ma d’ordinario la è mediante un processo breve, esatto ed analitico (deduttivo). Qnesta seconda specie di prova è resa possibile per questo, che i cosidetti assiomi sono in fondo delle proposizioni ANALITICHE – cf. Grice, Method in philosophical psychology --, in cui il soggetto contiene l'attributo o in modo molto appariscente, il che rende l’analisi inutile (1), o in modo molto implicito, il che rende l’analisi pressochè impraticabile. In ogni istante noi sentiamo l’efficacia di dette proposizioni analitiche (idee latenti regolatrici): cosi affermiamo che una data persona non ha potuto agire così, ovvero che tale condotta non mena allo scopo, che tale atto è lodevole o biasimevole, senza che il più delle volte noi possiamo assegnare la ragione di tuttociò, comunque questa giaccia nascosta nel fondo del nostro animo. Tali sono per taluni (Mill, Taine ecc.) i principii d’identità e di contradizione “ Le premier, dice il Taine (De l’Intelligence, Vol. 2°, Lib. 1V, pag. 336), peut s’exprimer ainsi: si dans un objet telle donnée est présente, elle y est présente. Le second peut recevoir cette formule; si dans un objet telle donnée est pr':sente, elle n’en est point absente: si dans un objet telle donneé est absente, elle n°’y est point présente. Comme les mots présent et non absent, absent et non présent sont synonymes, il est clair que dans l’axiome de contradiction aussi bien que dans l’axiome d’identité, le second membre de la phrase repète une portion du premier; c'est une redite; on a piétiné en place. De là un troisibme axiome metaphysique, celui d’alternative moins vide que les précedents, car il faut une courte analyse pour le prouver; on peut l’enoncer en ces termes: dans tout objet telle donnée est présente on absente. En effet supposons le contraire, c'est à dire que dans l’objet la donnèe ne soit ni absente, ni présente. Non absente cela signifie qu’elle est présente, non présente cela signifie qu'elle est absente: les deux ensembles signifient donc que dans l’ohjet la donnée est à la fois présente et absente, ce qui est contraire aux deux branches de l’axiome de contradiction, l’une par laquelle il est dit que si dans un objet telle donnée est présente elle n’en est pas absente et l’autre par laquelle il est dit que si dans un objet telle donne est absente elle n’y est pas présente. Maintenant, reprenons l’axiome d’alternative et observons l’attitude de l’esprit qui le rencontre pour la première fois. Il est sousentendu dans une fonle de propositions; c'est parce qu'on l’admet implicitement qu’on l’admet explicitement. Par cxemple quelqu’un vous dit: Tout triangle est équilateral ou non; tout vertebré est quadrupede ou non, Sars examiner aucun triangle ni aucun vertebré vous réconsono tali che il primo racchiude il secondo, e questo è come parte di quello, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro connessione. EÉ=si non sono che una cosa sola considerata sotto due aspetti, onde l’ universalità assoluta del loro legame. Le proposizioni che esprimono quest'ultimo, comunque in fondo ipotetiche in quanto aftermano soltanto che data l'esistenza della prima idea ne consegue l’esistenza dell'altra, non sono passibili di dubbi, di limiti, o di restrizioni. E qual'è l’ essenza delle leggi scientifiche che formano l'oggetto delle scienze sperimentali? qual'è la ragione dei rapporti esistenti tra le cose e tra le corrispondenti idee del nostro spirito ? La ragione di ogni legge è riposta in quel qualcosa che essendo comune ad entrambi i dati (intermediario esplicativo di Taine), forma il loro legame vero ed essenziale. Tale intermediario o mezzo termine esplicativo in qualunque modo si presenti, semplice o multiplo composto alla sua volta d’intermezzi successivi o simultanei, di mezzi termini differenti o d-llo stesso mezzo termine ripetuto con elementi dissimili, sì mostra sempre come carattere o insieme di caratteri più generali (e considerati separatamente) racchiusi nel primo elemento della coppia detta legge. S'intende che i detti caratteri sono separabili coi nostri processi ordinari di isolamento e d' estrazione Allo stesso modo che nelle scienze costruttive, ogni teorema enunciante una legge è una proposizione analitica; e dei due dati collegati insieme, il secondo è in rapporto col primo in modo oscuro o chiaro, diretto o indiretto per mezzo di un terzo dato detto ragione, o mezzo termine esplicativo che contenuto nel primo elemento, contiene esso stesso una serie d’intermediari racchiusi gli uni negli altri; per modo che se si cerca la ragione ultima della legge, il perchè ultimo dopo di che la dimostrazione è completa, si trova che esso si riduce ad un carattere compreso nella determinazione dei fattori o elementi primitivi, il cuì insieme forma il primo dato della legge, così in ogni legge sperimentale il primo dato è, come a dire, un contenente più grande che attraverso una serie di contenenti sempre più piccoli racchiude come contenuto ultimo il secondo dato. Va notato però che nella legge sperimentale non basta, come nel teorema matematico, metter la mano ogni volta sul contenente per trovar ciò che si cerca (intermezzo esplicativo), ma è necessario uscir fuori dal proprio spirito e andare a ricercare il detto intermedio nella natura e trarnelo fuori a furia di reiterati esperimenti ed induzioni. Anche le scienze sperimentali a forza di generalizzare arrivano a formulare delle leggi fondamentali che fanno riscontro agli assiomi delle scienze deduttive, ma vi è questa ditferenza che nelle ultime gli assiomi essendo ottenuti per costruzione, possono, mediante l’ analisi, sempre essere ridotti a qualcosa di più semplice e di più generale fino ad arrivare al principio d'identità che è la loro sorgente comune, mentrechè nelle prime, essendo le luggi fondamentali ottenute per mezzo dell'induzione, non si può risalire più in alto che col seguire un metodo analogo, fino ad arrivare anche per questa via ad un assioma ultimo o principio supremo; cosa che potrà verificarsi solo in un avvenire più o meno lontano. Tanto nelle scienze di esperienza quanto in quelle di costruzione l' intermediario esplicativo e dimostrativo è un carattere o un insieme di caratteri differenti o simili inerenti agli elementi del fatto complesso. Qualunque siano le proprietà di questo, è sempre sulle particolarità dei suoi fattori.che devono vertere le nostre osservazioni e congetture. È chiaro pertanto che ogni nostro sforzo deve tendere a trovare gli elementi generatori di ogni fatto, per poterne considerare i loro caratteri e dedurre da questi le proprietà di ciò che ne risulta. Ed anche per risolvere le questioni di origine occorre andare in traccia del mezzo termine esplicativo e dimostrativo, in quanto la maniera di riunirsi degli elementi ha anche la sua ragione di essere. Quella non è che un risultato e trattandosi di un fatto storico, racchiude un elemento dippiù, cioè l'influenza del momento storico, ovvero delle circostanze e dello stato antecedente.. Si domanda: Vi è una legge universale e d'ordine superiore che, per così dire, regola ogni altra legge? Dopo tutto quello che precede, la risposta non può esser dubbia: essa esiste ed è il principio d'identità che non è un semplice prodotto della struttura del nostro spirito, ma è valido in sè, avendo il suo fondamento nelle cose: proseguita l'analisi fino all'estremo limite, si trova che il composto (effetto) non è che l'insieme dei suoi elementi ultimi disposti in un dato modo, onde è evidente che ogni efficacia ed attività appartiene ai detti elementi o alla loro disposizione. Il detto principio può ricevere i nomi di principio di ragione esplicativa (ragione sufficiente) e di causalità a seconda che si considera come principio e regolatore supremo della conoscenza ovvero della realtà. Ammesso (e non si può non ammetterlo, perchè equivarrebbe a negare il principio d'identità) che la presenza delle condizioni genetiche di un dato fatto trae seco il fatto stesso, è chiaro che ogni alterazione, nel fatto presuppone un mutamento nelle condizioni: di qui il principio che ogni evento ha una causa, la quale è alla sua volta un altro evento. Tale è il modo di concepire la natura delle leggi in genere da parte di quei filosofi che non essendo disposti ad accordare alcun potere originario, alcuna spontaneità all’intelligenza umana, fanno coincidere la realtà coll’intelligenza, l'essere col pensiero, in modo che il principio d’ identità figura come il principio supremo della conoscenza e dell'’esistenza. Ora, si domanda: Tale veduta intellettualistica è atta a soddisfarci in modo completo? Nel caso negativo, dove è manchevole e per che via si può rimediare al suo difetto? (l’intellettualisti considerando Je leggi come nessi di caratteri o proprietà comuni ad oggetti molteplici, ai quali nessi corrispondono poi nello spirito coppie di idee generali, mostrano di attribuire maggior valore alle astrazioni che alla realtà concreta : e infatti essì a più riprese ripetono che i caratteri comuni, e quindi astratti, costituiscono ciò che vi ha di più stabile e di più solido nelle cose: ciò mostra che essi confondono l’universale coll’ astratto. L'universale è per sna natura obbiettivo in quanto la validità obbiettiva di un determinato contenuto della coscienza è data dal fatto che esso si rivela identico a qualsivoglia coscienza simile; ed è per mezzo dell’evidenza della percezione o del pensiero che l’universale si stabilisce. L'universale riguarda la forma, non il contenuto delle idee e dei giudizi, il quale riducendosi ad un complesso di proprietà, esistenti solo nella mente del soggetto per mezzo delle nozioni corrispondenti, figura effettivamente come qualcosa d’astratto. Dal che consegue che trovare il carattere ola proprietà comune ad una serie di oggetti non equivale ad acquistare cognizione perfetta della natura stesa degli oggetti, come classificare le cose non equivale a determinare le leggi che le regolano. Se noi in seguito alla comparazione di molti caratteri e di molte nozioni riusciamo a significare con un'espressione astratta ciò che essi presentano di comune, non possiano dire di aver formato con ciò un nuovo concetto nello stretto. senso della parola. Per mezzo della comparazione delle leggi naturali fra loro e dell’astrazione logica di ciò che esse offrono di comune, noi non scovriamo nessuna legge naturale nuova, ma abbiamo semplicemente un nuovo nome generico, un segno mnemonico riassuntivo delle leggi che noi già per altra via conoscevamo. Pertanto va distinta la interpretazione induttiva dei fenomeni dalla generalizzazione della interpretazione stessa; e la definizione data dal Mill e dai suoi seguaci dell'induzione, che questa si riduca ad un processo per cui sì conchiude da ciò he è vero di alcuni individui di una classe ciò che è vero di tutta intera la classe, o da ciò che avviene in un dato tempo ciò che avviene sotto circostanze eguali in tutti i tempi, non può non rivelarsi assolutamente insufficiente. Il metodo induttivo nelle sue varie forme si fonda da una parte sul principio di ragione sufficiente che sarebbe vero ancorchè nella natura non sì presentassero neanche due casi eguali, e dall’altra sul principio dell’eguaglianza della causalità o dell’uniformità della natura che, come il primo, da una parte esprime un'esigenza del nostro pensiero e dall’altra nn dato di fatto fornito dall'esperienza; dato di fatto che non sarebbe mai stato constatato se la natura propria del nostro pensiero non avesse per tale via indirizzato il processo sperimentale. I caratteri comuni e le idee generali corrispondenti non possono dunque costituire la struttura della realtà, giusta l’atfermazione ‘egli intellettualisti. Già i caratteri o proprietà comuni e le idee generali vanno profondamente differenziate tra loro; i primi riguardano il contenuto delle nostre rappresentazioni e sono null'altro che astrazioni del nostro spirito: le altre non sono che dei giudizi potenziali e quindi implicano in sè le leggi, anzi sono le leggi espresse e riassunte in un segno o simbolo che è la parola. Il nome significativo pertanto lungi dall’essere un semplice prodotto l'associazione tra date rappresentazioni e moti corrispondenti (associazione che non si saprebbe dire come e perchè nata) è un prodotto della collettività, i cui membri sono legati tra loro dai vincoli della simpatia e dell'attività comune. Le prime parole espressero atti compiuti în società, e 1 primi nomi i prodotti di detti atti quali furono percepitt e rappresentati dai vari individui. Onde consegue che le parole non sono da considerare quali semplici SEGNI O SEMBOLI d’associazioni di rappresentazioni, ma bensi come SEGNI O SIMBOLI del modo di prodursi di una data cosa, delle maniere di operare di una data forma di attività; è chiaro quindi il nesso esistente tra concetto, legge e parola: il primo è una legge o giudizio potenziale in quanto è il centro delle relazioni che congiungono una data cosa colle altre che agiscono su di essa, la seconda è il concetto esplicato in forma di giudizio e la parola il simbolo esterno del concetto e insieme della legge. E qui giova notare che al di fuori della mente che concepisce e ragiona non è lecito parlare nè di proprietà, nè di loro legami: è nel soggetto che hanno la loro radice questi fatti. Nell’unità della nostra coscienza noi abbiamo il tipo e il presupposto di ogni unità empirica, sia questa dell'universo nella sua totalità, sia di una cosa singola. Ogni forma particolare di esperienza, ogni legge dei fenomeni porta in sè l'impronta della natura sintetica del nostro pensiero. A parlare propriamente le leggi della natura esistono soltanto per la ragione che pensa la natura stessa. É la ragione che per prima riduce la stabilità e l'uniformità dei fenomeni a premesse generali e quindi a leggi da cui conseguono ì tatti singoli. Parlare di leggi naturali al di fuori. dell’intalletto equivale a cadere in un antropomorfismo logico che non è meno irrazionale di quello teleologico. Certamente il concetto dell’universalità delle leggi naturali é occasionato e rafforzato dall'esperienza in quanto senza il corso regolare dei fatti constatabile empiricamente non sarebbe stato mai possibile applicare la nozione di legge alla natura e la ragione sarebbe rimasta una potenza vuota, ignota a sè stessa; ma d'altra parte la medesima nozione di legge non sarebbe mai potuta provenire dalla semplice osservazione esterna, giacchè la natura accanto aì fatti succedentisi regolarmente ne presenta di quelli che in apparenza non seguono nel loro accadere alcuna regola. La nozione di legge è un portato del riflettersi del nostro stesso pensiero, applicato di poi alla natura. Gli antichi infatti chiamavano /ogos della natura ciò che noi diciamo legge. E per convincersi come la struttura della realtà quale viene presentata dalla scienza, sia una elaborazione del nostro spirito, basta pensare che a seconda del predominio che in un'età viene assegnato ad una facoltà psichica piuttosto che ad un'altra, si ha un concetto diverso del corso naturele dei fatti e della costituzione intima della realtà. A ciò si aggiunga che noi in fondo in fondo scovriamo nella natura quelle leggi che in certa guisa vi abbiamo poste: nelle interpretazioni scientifiche le leggi da principio assumono la forma di anticipazioni che vengono soltanto appoggiate dai fatti piuttosto che esserne addirittura derivate o, come si dice, estratte. La percezione non ci mostra mai casi perfettamente eguali e noi passiamo dall'esperienza sensibile a quella intellettuale, riducendo eguali i casì col pensiero e coll’esperimento allo scopo di trovare una conferma ai postulati logici riflettenti l'universalità delle leggi regolanti il corso dei fatti, e l'uniformità della natura. Un altro errore della concezione intellettualistica è quello ‘diaver fatt o delle leggi tante ipostasi. Gl’intellettualisti, infatti, presentano le leggi come premesse a cui, a guisa di conclusione, sono subordinati i fatti particolari, dando a quelle più o meno celatamente una sussistenza, ed una priorità rispetto ai fenomeni che assolutamente non hanno. Quando si dice che il rapporto di causalità si riduce alla proprietà che ha un carattere di essere preceduto, accom pagnato o seguito da un altro, in fondo si atterma appunto che una legge esistente per sè possa dominare e regolare le cose. L’ espressione differente non deve porre ostacolo alla giusta valutazione delle cose, giacchè dire che un carattere è fornito della proprietà di essere in un dato rapporto con un altro carattere equivale a dire che la legge determina il corso dei fatti. Soggiungiamo che per quel che concerne i rapporti delle cose, l’azione reciproca che e=se esercitano tra loro (dati di fatto innegabili), o noi ci contentiamo di constatarli semplicemente, di descriverli e allora non è lecito parlare d’ interpretazione dei fatti, giacchè in tal caso l’esigenza propria del pensiero d’indagare il perchè delle cose rimane insoddisfatta, ovvero si procede alla ricerca delle cause ed allora la semplice constatazione del modo di operare delle cose si rivela insufficiente ed occorre trovare un nuovo termine in cui sia riposta la ragione del detto modo d’agire. E chiaro poi che la concezione intellettualistica presentandoci la realtà come un mosaico di caratteri e proprietà comuni cuì l'intelligenza sì deve contentare di riprodurre e di descrivere, è nell'assoluta impossibilità di spiegare il cangiamento, il divenire, il moto delle cose e l’azione che queste reciprocamente esercitano fra loro : è vero che parecchi di talì filosofi negano l'esistenza di questi fatti o li dichiarano prodotti illusori della mente, errori di prospettiva mentale ; ma chi vorrà appagarsi di simili affermazioni sfornite come sono di qualsiasi fondamento ? Inoltre tali filosofi che, come si è visto, dànno un'importanza ed un valore speciale ai caratteri astratti, non dicono donde verrebbe a questi la proprietà di presentarsi moltiplicati e ripetuti nei fatti particolari. Se si vuol negare loro qualsiasì attività, se non si vogliono essi considerare come energie, e ciò facendo, si ritornerebbe a qualcosa di simile alle idee platoniche, non è giocoforza confessare che una simile struttura della realtà, non ci spiega la realtà stessa? Le interpretazioni scientifiche, affinchè siano esatte, devono essere contrassegnate dalle note dell’universalità e della necessità; ora l’universale, non l’'astratto, in tanto ci può dar ragione del particolare in quanto contiene le condizioni genetiche dei reali (es.: l'attività rispetto agli atti singolì); l’astratto invece può essere un indizio, una manifestazione dell’universale, ma non mai la stessa cosa di questo. I filosofi intellettualisti per dar ragione dei rapporti delle cose espressi nelle leggi non hanno saputo far di meglio che ridurre queste a giudizi analitici o d'identità più o meno manifesti; in tanto il secondo termine della coppia legge, essi hanno detto, è connesso col primo, in quanto più o meno direttamente, più o meno implicitamente vi è contenuto. Allo stesso modo che la realtà non fa che ripetersi continuamente esplicando in una data forma ciò che era implicito in una forma antecedente, così le leggi non fanno per cosi dire, che distendere ciò che era involuto in uno dei caratteri del primo termine della legge. È ciò ammissibile ? Noi sappiamo che i rapporti fondamentali che possono intercedere tra i concetti sono due, quello di identità e quello di dipendenza (spaziale, temporale, condizionale): ora essi sono irriducibili l’uno all’altro e se a taluni logici è sembrato facile riguardare la dipendenza come un'espressione diversa dell’identità, ciò è avvenuto perchè in virtù di una interpretazione speciale data alle formole matematiche e logiche si sono considerati come equivalenti i rapporti d'identità e di dipendenza: ma è chiaro che il mutamento di una espressione simbolica quale A F (funzione) B in A f B non può avere la virtù di rendere identici i concetti di A e B. Nella seconda formola il simbolo della funzione cela il rapporto di dipendenza. Non è lecito considerare il rapporto di dipendenza intercedente tra A e B come equivalente all'affermazione di una identità parziale di A e B, giacchè il simbolo dell’eguaglianza in tal caso piuttosto che voler significare che una parte di A coincide con B vuol dire che una parte dei casi in cui A si presenta è uguale all'insieme dei casi in cui si presenta B. Ciò che noi effettivamente poniamo come parzialmente eguali non sono A e B, ma i casì del loro apparire. Ed ogni eguaglianza matematica che pone come identiche due relazioni funzionali è valida soltanto sotto la condizione di un analoga interpretazione logica. È solamente l’attività sintetica del nostro pensiero che può generare in noi le convizione della verità della tesi che gli angoli di un triangolo equilatero sono eguali e che due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra loro: in tutti questi rapporti noi abbiamo a che fare con dati irriducibili ad identità, sia questa parziale che totale: l'eguaglianza degli angoli di un triangolo è la condizione dell’eguaglianza dei lati, ma si può dire che i due fatti siano identici? Il giudizio condizionale o ipotetico Se À è B è , può indicare una dipendenza unilaterale, onde può venire espresso in termini di sussunzione – cf. Grice, reductive/reducctionist -- e d'identità parziale; tutti i casì in cui À si presenta sono eguali ad alcuni dei casi in cui B sì presenta : come può indicare nna dipendenza reciproca ed in tal caso il suddetto. giudizio condizionale può essere trasformato in un giudizio d'identità totale del seguente tenore: tutti i casì in cui A si presenta sono eguali a tutti i casi in cui si presenta B : dal che si desume che tutt’ e due le volte non si tratta dell’ identità propriamente di A e B, ma bensi dell'identità dei casi del loro presentarsi. Appenachè A e B sitoccano nello spazio, nel tempo o nel nostro intendimento è lecito affermare che il loro apparire coincide, con che sì esprime soltanto la dipendenza nella sua forma locale, temporale o condizionale. La dipendenza lungi dall’essere distrutta, ha assunto un’atra forma. D'altra parte il giudizio d'identità parziale A è una parte di B si può trasformare nel giudizio ipotetico Se A è questo è B come quello d’ identità totale Ax-B nell’ipotetico Se A è, questo è Be se Bè questo è A: in entrambi i casì l'identità espressa già nel collegamento dei due membri del giudizio di identità, è passata nel conseguente del giudizio ipotetico, nel quale il soggetto è sostitituito dal pronome dimostrativo. L'identità parziale diviene così una semplice sussunzione e quella totale una sussunzione doppia, che è poi equivalente nel fatto. In ciascuna comparazione di A e di B l'esistenza di questi è già presupposta e mediante la trasformazione del giudizio d’idenità in giudizio condizionale ciò che era sottinteso viene messo in evidenza: invero a fianco ad ogni identità è da ammettere il pensiero implicito di una condizione come a fianco ad ogni condizionalità un'identità totale o parziale. Nell’un caso è l’esistenza o la posizione dei concetti sottintesa come condizione del loro rapporto, mentre nell'altro ad ogni rapporto di condizionalità -corrisponde la frequenza della coesistenza dei dati condizionantisì, frequenza che può essere significata soltanto con un giudizio d'identità totale o parziale Una delle caratteristiche principali della concezione intellettualistica è data dalla maniera con cui essa dà ragione delle leggi normative e quindi delle costruzioni ideali che ne sono l’espressione. Noi conosciamo perfettamente per che via siè giunti a all’enunciazione delle principali leggi normative logiche, estetiche e morali e in base a ciò possiamo affermare con tutta sicurezza che come esce non ebbero la loro radice nell'adattamento dell’intelligenza,del senso estetico e della volontà a determinati rapporti esteriori, cosi non furono prodotte dalla semplice combinazione e costruzione di elementi ricavati dal di fuori; tanto è cio vero che i fatti esterni sono giudicati alla stregua delle dette norme, le quali quindi devono essere considerate come aventi un’ esistenza propria indipendente. D'altra parte i principii della Logica, dell’ Estetica e dell’Etica non sono innati, ma vengono appresi, e richiedono uno sforzo per esser seguiti e ciò perchè essi non sono l’espressione di leggi naturali dello spirito, come sarà più am. piamente svolto in seguito, ma di leggi normative. E lo stesso va detto delle nozioni fondamentali della matematica, la quale ha questo di comune colle scienze normative, che non ha per oggetto ciò che è, ma ciò che ha da essere, che quindi può o deve essere: così il concetto della retta è un prodotto puro dell’attività del nostro pensiero che invece di esser derivato da molteplici rappresentazioni particolari, serve come norma per valutare le intuizioni sensibili. Gl'ideali di qualunque genere siano, a qualsivoglia dominio appartengano, non vanno considerati quali estratti dalla realtà, giacchè servono all'opposto per misurare, regolare, apprezzare questa. Per formarsi un chiaro concetto della natura delle leggi normative o precettive, giova tener presenti i caratteri che contradistinguono le regole estetiche, in cui salta dippiù agli occhi da una parte la differenza esistente tra le leggi naturali e le precettive in genere, e dall'altra quella esistente tra le precettive ricavate da un complesso di fatti (regole dietetiche, igieniche, ecc.), e le leggi che hanno la loro origine in una determinazione primitiva della volontà e dell’emotività dell'anima umana. Una regola estetica ancorchè ricavata, mediante l’astrazione, da tutte le opere artistiche esistenti non è valida in modo incondizionato : un’opera sola che si mostri felicemente superiore ai dettami della detta regola può limitare il valore di questa: non è il numero di date produzioni artistiche, non è la frequenza con cui esse si presentano che le rende belle : ogni opera artistica porta con sè la regola, la stregua con cuì deve essere giudicata. Sicchè ogni valutazione estetica presuppone qualcos'altro che non siano le regole astratte, e questo qualcosa è il gusto estetico (che corrisponde al senso morale nella valutazione morale). Se non che non bisogna credere che l'opera d’arte vada giudicata alla stregua pura e semplice del gusto individuale, il quale per contrario dev'essere basato sulle norme richieste dalla natura propria di una data produzione artistica, natura propria che non è in rapporto coll’attività spirituale di questo o quell'individuo, ma dell’uomo in genere. Il gusto estetico non è la fonte, ma l'indice della bellezza, la quale emerge dalla concordanza dell’opera d’arte coll’ideale estetico, che, come tutti gl'ideali, è un prodotto della collettività e varia al variare delle circostanze. . Der wahre Kunstrichter , diceva Lessing, folgert keine Regeln aus seinem Geschmack, sondern hat seinen Geschmack nach den Regeln gebildet, welche die Natur der Sache fordert . Ogni creazione artistica, come ogni prodotto spirituale è un fatto originale che va considerato per sè e che in opposizione all’uniformità del corso della natura ha motivi e fini propri. Ond'è che essa non può essere valutata in modo giusto che rapportandosi ai detti motivi e fini. Sicché il giudizio estetico come quello morale non può limitarsi a considerare semplicemente il prodotto spirituale opera d'arte o azione morale , ma deve tenere il dovuto conto della natura propria dello spirito umano, delle sue tendenze ed esigenze. La valutazione estetica e morale non può essere fondata soltanto sugli effetti degli atti spirituali, ma segnatamente sulle determinazioni primitive della volontà e dell'emotività che diedero loro origine. E qui occorre fare un'altra osservazione della più alta importanza. Se i risultati delle costruzioni compiute dalle scienze che hanno per obbietto il possibile, possono essere presentate in forma di giudizi, nel cui soggetto è già implicito il predicato, si può sempre domandare, a quali esigenze risponda (e con quali norme e criteri) la formazione originaria di tali costruzioni ideali, quali appaiono nel soggetto dei sumentovati giudizi. Se il principio d'identità può essere valido a farci scomporre sussecutivamente e secondariamente ciò che è già composto, non può mai valere a darci la chiave per intendere la costruzione degl'ideali, per spiegare i processi sintetici primitivi. Per convincersi della differenza esistente tra i prodotti della conoscenza e le costruzioni ideali basta riflettere che mentre ì primi sono veri o falsi, reali o non reali, le altre sono rispondenti o pur no ad un dato scopo, onde includono un apprezzamento, possibile soltanto col riferirsi ad un ideale che funge da pietra di paragone. Si dicono vere o false bensi anche le costruzioni matematiche, come d'altra parte le costruzioni logiche, ma la verità o falsità in tal caso non sta a significare la rispondenza di un dato processo mentale a qualche cosa di già esistente come accade nella conoscenza della realtà, ma esprime la rispondenza di una data costruzione alle norme generali del pensiero. La caratteristica della concezione animistica è riposta nella tendenza a penetrare nel cuore delle cose: mentre la concezione intellettualistica nella sua forma più diftusa si arrestava alla classificazione degli obbietti, andando in traccia del carattere generale, astratto e comune a più individui, mentre essa quindi cercava di presentare delle ‘ormule, degli schemi in cui potessero essere compresi molteplici fatti concreti, mentre faceva giungere la sua analisi tanto in alto da arrivare al principio d'identità, senza curarsi della genesi dei fatti diversificati e particolari, mentre essa poneva all'origine delle cose l’ universale senza darsi pensiero del principio del movimento, mentre insomma essa si contentava di catalogare la realtà, la concezione animistica ha l'intento di esaminare i vari presupposti delle nozioni tanto adoperate nella scienza, di legge, di rapporto, di necessità, ecc. ha di mira di non fermarsi alla considerazione della superficie delle cose, ma dì spingere lo sguardo nella loro interiorità per arrivare alla conchiusione che le leggi sono niente altro che determinazioni di questa. Nel linguaggio ordinario, quando si vuol dar ragione di una cosa se ne formula la legge, mostrando di considerare questa come una potenza, una forza, la quale posta al di fuori o tra le cose costringa queste ultime a presentarsi in un dato modo; ora nulla di più falso; come possono le leggi, come può qualsiasi forma di necessità atta a regolare il corso delle cose, esistere per sè ? Niente è concepibile al di fuori o tra gli esseri, non una forza costruttrice, non una potenza ordinatrice antecedente o staccata dalle cose da ordinare. Si crede di poter dar ragione delle azioni che le cose esercitano tra loro, considerandole coie effetti di determinate proprietà esprimenti la loro natura, colla cooperazione di determinate circostanze: ma, se ben si riflette, vi è ragione a convincersi che vuoi il rapporto reciproco delle cose, vuoi gli effetti particolari che in ogni singolo caso sì notano in seguito alla coincidenza di varie cause rimangono misteri inesplicabili senza la presnpposizione di un potere sostanzialmente unico, il quale in luogo di una legge o formula (che, si noti, non può non essere inattiva data l’impossibilità di spiegare la maniera in cui agisce sui fatti ad essa sottoposti e da essa regolati), colleghi le varie cose in modo che la modificazione di una possa riflettersi sulle altre. L'attività unica del principio supremo, fondo dell’ universo, svolgentesi in maniere e con tendenze determinate, dà ragione della corrispondenza e delle molteplici relazioni esistenti tra le cose. L'unità della vita del Tutto spiega il nesso delle sue varie parti costitutive. I fatti reali e le leggi che non sono separabili tra loro, essendo la medesima cosa considerata sotto due punti di vista, non sono chè determinazioni interiori, momenti dalla vita universale. Non è più a parlare quindi di necessità estrinseca alle cose, ma bensi di spontaneità interiore, non di leggi costrittive, o di rapporti o di legami congiungenti le cose, esistenti per sè, ma bensi di modi di operare o di processi aventi origine nell’interiorità del Tutto. Non si tratta più di moti o di urti trasmessi dall'esterno, ma d’impulsi, di tendenze interne, di forme dell’attività interiore. Per formarsi un chiaro concetto della veduta animistica, giova tener presente che essa non fa distinzione tra leggi fisichè è leggi precettive o normative, riguardando le prime come riducibili alle ultime. Allo stesso modo chele leggi regolanti i rapporti sociali, dicono gli animisti, non vanno considerate come esistenti in modo indipendente, al di fuori o tra gli uomini, come potenze atte a costringere e a guidare questi in date maniere, ma cone esistenti solo nella coscienza degl’ individui, come aventi valore e forza solo per mezzo degli atti degli esseri umani, così le leggi naturali vanno risguardate quali particolari direzioni della vita interiore dell’universo. In entrambi i casì le leggi sì riducono all’ indirizzo assunto in modo concorde dall'attività dei vari esseri, indirizzo che all'osservazione esterna e posteriore appare come effetto di un potere superiore regolante estrinsecamente i fatti singoli. A convincersi della necessità di riguardare le leggi in genere quali determinazioni o forme dell’ attività interiore degli esseri, è bene (sempre secondo i fautori della concezione auimistica) tenere a mente che ogni specie di rapporto in tanto realmente esiste in quanto ha radice nell'unità della coscienza che l’apprende, o meglio, che lo stabilisce, formu landolo, la quale coscienza passando appunto da un termine all’altro li abbraccia insieme entrambi, e li congiunge intimamente colla sua attività sintetizzatrice : onde consegue che ogni ordinamento, ogni disposizione, ogni legge che noi poniamo nelle cose indipendentemente dalla nostra conoscenza, non ha la sua origine e base che nell’ Unità del Reale, che tutte cose comprende, e che per tale via si presenta come il vero mezzo termine esplicativo di tutte lc leggi, di tutti i rapporti e legami esistenti nell'universo. Come nell'anima individuale la relazione reciproca dei vari stati interni dipende dalla base comune in cui tutti hanno la loro radice, cosi l’' azione reciproca delle cose è fondata sulla loro comune natura : ciò che fa e produce ogni singolo elemento non lo fa e produce in quanto è questo e non altro, in quanto é formato così è non diversamente, in quanto è fornito di queste note e proprietà e non di altre, ma in quanto è parvenza, simbolo, espressione dell’ Uno-Tutto. Ogni forza e attitudine ad agire emerge non da determinate proprietà delle cose che non si sa donde provengano e su che poggino, ma dal fondo interno che per loro mezzo si manifesta, 1’ intima verità, ragionevolezza e salda struttura del Reale, si esprime nella concatenazione, nella coerenza e costanza dei fenomeni richiesta dal significato che la serie fenomenica ha appunto come momento della vita interiore universale. E molti di quegli assiomi, di quei giudizi universali reputati per sè evidenti, lungi dall’ essere delle necessità del pensiero, lungi dall'essere fondati sull'intima organizzazione dello spirito, sono un prodotto dell’ esperienza, la quale col presentare in modo costante dati rapporti finisce coll’ ingenerare nella mente la convinzione che si tratti di rapporti logici: così il principio dell’indistruttibilità della materia sì crede a torto fondato sulla categoria mentale della permanenza della sostanza. I dati dell'esperienza però stanno ad indicare le particolari direzioni in cuil’attività dell’Uno-Tutto tende a svolgersi per rispondere alle esigenze inerenti alla sua natura. E chi crede di poter stabilire le leggi regolanti il corso dei fatti naturali, basandosi esclusivamente sull a imperfetta cognizione del finito, senza considerare questo quale espressione della Realtà universale, somiglia a colui che volesse formare una teoria dei movimenti delle ombre, facendo astrazione dal moto dei torpi, da cui quelle son proiettate. Se gli animisti. pongono l’esseuza della legge in genere nel diverso modo di determinarsi dell’attività interiore del Tutto nei suoi vari momenti, non è a oredere che essi intendano di affermare che le leggi singole quali vengono formulate ed enunciate dalle scienze particolari vadano senz'altro considerate come espressioni complete, esclusive ed immediate dell’interiorità dell’ Uno-Tutto. È da tenere a mente che le le leggi generali, le classificazioni, gli schemi della scienza se servono come mezzi di riproduzione e di richiamo delle cose concrete, non valgono ad esaurire la natura del reale, tanto è ciò vero che a seconda del vario punto di vista degli scienziati, un medesimo gruppo di fenomeni può dar origine a leggi ed a classificazioni di ordine diverso. Nessuna delle forme e delle leggi presentate dalla scienza può essere considerata come perfettamente corrispondente al reale ordinamento delle cose, le quali si rivelano come una totalità atta ad essere rappresentata nei modi più diversi a seconda del punto di vista da cui la si considera. Spetta alla filosofia di riguardare l'insieme valendosi delle vedute parziali offerte dalle scienze particolari. (1) Secondo una delle forme della concezione animistica, le leggi in genere vanno considerate come funzioni dei principii reali ed insieme come norme, come tipi, come modelli a cui i fenomeni tendono a conformarsi; beninteso che tali norme non sono al di- fuori, ma immanenti nei reali stessi. In altri termini ogni cosa deve avere un dato ufficio, deve rispondere ad una data esigenza nel sistema universale, deve essere in un dato rapporto col Tutto : ora CITAZIONE IN TEDESCO DA SARLO: DER WANDERER, der einen Berg umgeht,, nota molto 2a propoSito il Lotze (Microcosmus, dritt. b. 217), “ sieht, wenn er wiederholt vor-und zuciick, auf-und abwirts gcht, eine Anzahl verschiedener Profile des Berges in voraussagbarer Ordnung wiederkehren. Keines von ihnen ist die wahre Gestalt des Berges, aber alle sind giltige Projectionen derselben. Die wahre Gestalt selbst aber wilrde eben so wie alle jene scheinbaren, in irgend einer Lagerung aller seiner Punkte zu einander bestehen. Diese eigene Gestalt, der wirkliche innere Zusammenhang der Dinge lisst sich vielleicht auch finden, und gewiss wirrde man dieses wahre objective Gesetz der Wirklichkeit allen abgeleiteten und nur giltigen Ausdriicken desselben vorziehen. .in questo legame dell’elemento singolo del Tutto consiste appunto la legge, la quale considerata per sè assume la forma di una regola astratta e quindi di qualcosa di universale, di eterno, d'immutabile, capace d'avere un'attuazione ed una concretizzazione più o meno complete (1). Di leggi o di forme se ne possono poi distinguere tre diversi gruppi: 1° quelle che hanno la loro piena ed Teichmiiller, Philosophie u. Daricinismus, Dopart. Qu sorge spontaneo un quesito della più alta importanza : le leggi o norme considerate nella loro universalità hanno la prima origine nell’ intelligenza umana, ovvero presuprongono un’altra intelligenza d’ordine superiore ? Se le leggi sono un prodotto dell’ intelligenza umana, non si vede come possano essere considerate quali norme, tipi, modelli a cui i fatti particolari e concreti tendano a conformarsi. D'altronde se la legge vien considerata obbiettivamente come una funzione del reale, non può essere più riguardata come norma o tipo, a meno che non si vogliano identificare tutti i reali collo spirito umano quale si presenta in un grado avanzato di svolgimento, quando cioè ha acquistato l’attitudine ad operare secondo principii o rappresentazioni di leggi. Non si vede poi come le leggi normative concepite quali funzioni, quali disposizioni specifiche, possano essere considerate modelli o tipi dei fatti reali. Un fatto può essere modello rispetto ad un altro fatto, ma non lo può mai una funzione o un’esigenza che in tanto è reale in quanto è in azione, in quanto riceve la sua completa esplicazione dal concorso di svariati fattori. Eppoi come si fa a conciliare l’assolutezza, l’eternità, l’ immobilità delle leggi normative col fatto che esse vengono riguardate quali modelli atti ad avere un’attuazione più o meno completa? La concretizzazione di un tipo, la realizzazione di un ideale racchiude necessariamente un processo reale nel tempo, tanto più se si considera la norma, il tipo come un’esigenza immanente nella realtà concreta; diversamente bisognerà ammettere la disgiunzione dell’ idea dal fatto: concetto codesto che implica una quantità di problemi insolubili: p. es. l’idea come, dove e perchè esiste disgiunta dall’esistenza concreta ? Il fatto è che le leggi nel loro significato reale sono funzioni dei reali e come tali non avendo alcuna esistenza separata da questi, non sono modelli o norme determinanti i fenomeni: è solamente il pensiero umano che riesce a separarli dall’esistenza e a riguardarli per sè come elementi intelligibili e quindi nenessari, universali, eterni (su) specie aeternitatis) della realtà, assoluta attuazione nei fenomeni (leggi fisiche e chimiche), perchè non sono che funzioni semplici dei reali; 2° quelle che si presentano solo come regole che non hanno un'applicazione necessaria (leggi biologiche, etiche, ecc.), in quanto presuppongono la co-operazione di molteplici reali determinantisi vicendevolmente in svariate funzioni rispondenti ad uno scopo in rapporto alla loro dipendenza da un principio unico, centro della sintesi; 3° quelle forme della realtà che d'ordinario si chiamano accidentali risultanti dalla cooperazione. di molteplici fattori non sottoposti però ad alcuna regola o norma. Onde sì hanno forme necessarie, normative ed accidentali. Da tuttociò consegue che la legge presupponendo l’azione reciproca dei reali, presuppone per ciò stesso il loro nesso, la loro unità reale che è concepibile soltanto come sistema, e quindi come coordinazione di elementi diversi in vista del conseguimento di un fine unico. Accennavamo già disopra al modo di considerare il rapporto esistente tra leggi naturali e normative da parte degli animisti: giova ora insistere su ciò, notando che il modo di concepire l'essenza della legge in genere ha spesso il suo riflesso nella maniera di valutare la differenza esistente tra ì vari ordini di leggi. La concezione animistica pone su una stesssa linea le leggi fisiche e quelle morali o precettive dando ad entrambe uno stesso valore. Il rapporto di causalità (sempre secondo tali filosofi) è il fondamento delle regole pratiche nella Morale, nel Dritto, come lo è delle leggi sperimentali: rapporto di causalità che nelle sue modalità sta ad esprimere la natura propria delle cose. Le leggi non devi rubare; non devi mentire (leggi morali): ovvero: chi ruba, chi mentisce è punito (leggi giuridiche) poggiano sul seguente rapporto causale che non differisce in nulla da qualsiasi legge naturale : il rubare, IL MENTIRE, ecc. RENDONO IMPOSSIBILE LA CONVIVENZA SOCIALE E CIVILE [argomentazione trascendentale debole]. Si dice d’ordinario che le leggi precettive o normative a differenza di quelle naturali esprimono il DOVER [Grice on the dullness of the IS versus the rationalist interestin of OUGHT] e non l'essere e possono soffrire eccezioni – CAETERIS PARIBUS -- GRICE. Se non che, rispondono i fautori della concezione animistica, approfondendo l'analisi delle leggi pratiche o precettive – o MASSIME O DESIDERATA – GRICE -- , seguendone Jo svolgimento storico, è agevole persuadersi che il dovere, il precetto è in ultimo fondato sulla cognizione anteriore di dati rapporti tra le cose, sugli insegnamenti forniti dall'esperienza in antecedenza compiuta. Infatti, nota Paulsen, si pensi a ciò che accade nelle regole grammaticali – cf. Austin/Grice, rule, SYMBOLO -- , il cui carattere normativo attuale si presenta come l’espressione dell'evoluzione storica del pensiero e della lingua. Il grammatico considera le forme grammaticali antiquate (le quali un tempo erano anche normative), non in modo diverso da quello in cui il paleontologo studia le forme fossili. Quanto alle eccezioni, queste si presentano nelle leggi precettive con una frequenza maggiore che non nelle fisiche, perchè le prime esprimendo rapporti senza confronto più complessi, lasciano adito all'intervento di numerose condizioni pertarbatrici; il che si può constatare anche nelle leggi biologiche, rispetto a quelle fisiche o chimiche. Non va dimenticato che, anche queste soffrono degli strappi dovuti a condizioni atte a neutralizzare l’azione di date cause; si pensi al modo di comportarsi dei corpi più leggieri dell'aria rispetto alla gravità. La ragione ultima per cui la concezione auimistica non ammette differenza di sorta tra le leggi esplicative e quelle precettive va ricercata in ciò che per essa tanto i fatti naturali quanto gli atti umani non rappresentano che forme dell’attività o spontaneità interiore, e mentre il fondamento prossimo di entrambe le specie di leggi va riposto nell' esperienza, quello ultimo risiede nel significato che hanno per lo Spirito universale date forme di attività. L’imperativo delle leggi precettive è dovuto al fatto che esse si rapportano in modo immediato e diretto all'attività pratica umana e solo in quella forma apportano vantaggio allo sviluppo umano, mentre le leggi dichiarative esprimono dei rapporti estrinseci a noi ed hanno l’obbiettivo di constatare semplicemente dati di fatto. Le prime insomma considerano gli eventi dal punto di vista del valore pratico, lasciando nell'ombra le basi di questo; le altre si fermano sulle premesse, trascurando ciò che ne consegue; le prime mirano a porre sott'occhio i mezzi senza curarsi dello scopo ultimo, le altre invece fondate segnatamente sulla conoscenza, esaminano la ragione e la base di quei mezzi. Trattando della concezione animistica merita una particolare menzione l'opinione sostenuta dal Trendlenburg Citeremo tra i fautori della concezione animistica, Lotze, Fechner, Teichmiller Paulsen. La discussione critica di essa sarà fatta in seguito, trattando della concezione dualistica che è la più completa e comprensiva, comunque non risponda a tutte le esigenze, come vedremo. È qui notiamo che non bisogna aspettarsi di trovare in ciascun autore l’interpretazione della natura dei vari ordini di legge nel modo tipico e quindi schematico da noi tratteggiato, giacchè è facile comprendere come ciascun filosofo abbia un modo proprio di considerare e di risolvere i problemi. Si tratta solo di cogliere il concetto dominante e il principio direttivo. Trendlenburg, Logische Studien. Leipzig che sia soltanto per via della nozione di movimento che s’intendono le varie forme di rapporto esistente tra le cose, l’azione reciproca che queste esercitano tra loro e sopratutto il nesso dicausalità in cui propriamente è riposta l'essenza della legge. Il movimento per il filosofo tedesco è per sè stesso attività creatrice, tanto è ciò vero che da esso provengono lo spazio, il tempo, la figura e il numero : ora nel rapporto dell'attività produttrice colla grandezza prodotta consiste appunto il nesso di causalità ; il movimento genera delle forme e in tale azione si rivela primitivamente causalità. E la necessità del rapporto causale trae la sua prima origine dalla coscienza dell’ identità e continuità della nostra attività produttrice. Il nesso causale estendendosi poi fin dove arriva il movimento, e un certo movimento trovandosi in ogni forma di pensiero, non è a meravigliarsi che la causalità appaia una legge del pensiero a cui fa riscontro il moto di generazione e di attività che si lascia constatare nella realtà esterna. Del resto la Fisica riduce l'essenza della causalità a movimento, il quale colle sue molteplici trasformazioni può dar ragione delle più svariate potenze della natura: ed è mediante il movimento che noi intendiamo la formazione di qualcosa a sè che è considerata come effetto: questo invero è concepito quale moto arrestato, quale prodotto esistente per sè e a parte dal flusso dei fenomeni da cui ésso proviene e che d’altro canto ad esso fa seguito. Riassumendo, per il Trendelenburg l'essenza della legge va ricercata nel moto del farsi o di prodursi di una cosa, quasi diremmo nel cammino che percorre l’attività generatrice del reale e per lui la conoscenza delle leggi in tanto è possibile in quanto l'intelligenza rifà mediante i giudizi il medesimo movimento, dando origine ad un prodotto intellettuale esprimente l'essenza o ciò che val lo stesso la legge della cosa: tale prodotto logico è il concetto vero e proprio o universale concreto. Nulla vi ha di dato nel mondo, ma tutto si fa, tutto si costruisce in vista di un fine: ond’'è che tale movimento di costruzione nel cui fondo giace sempre un pensiero, è la legge obbiettivamente considerata, mentre che il medesimo moto o attività costruttrice formulata in un giudizio ci dà la legge quale viene enunciata dal soggetto pensante. E il concetto è un sistema di giudizi mediante i quali lo spirito pensa fuse e compenetrate tra di loro tutte quelle condizioni che rendono necessaria l’attuazione del processo. Se una di quelle condizioni si pensa in sè e come capace ad unirsi con condizioni diverse di gruppi diversi, cioè capace d'intrecciarsi in altri processi egualmente necessari, si ha, secondo il Trendelenburg, l'universale della reale condizione. Ciò che non va dimenticato è che lo spirito non giunge alla vera conoscenza scientifica, al regno della necessità, prima di esser pervenuto al concetto (legge); stantechè in esso non solamente egli informa l'essere della sua universalità, ma scorge il processo necessario per cui questa universalità si pone, si attua e sì svolge. Ond’è che non basta avere la rappreseniazione, la percezione o anche la nozione astratta di una cosa qualsiasi per dire che se ne ha una notizia scientifica, ma occorre averne il concetto, vale a dire occorre conoscerne la legge o l’essenza. Così io dopo aver percepito la rugiada posso averne la nozione, pensando la rugiada quale è da sè a prescindere dalle determinazioni accidentali di spazio o di tempo: in tal caso nel puro pensiero non ci sarà quella data rugiada, ma la rugiada in generale di cui posso dare una definizione nominale, buona per tutte le specie di rugiada: ma me ne manca ancora la notizia scientifica, il concetto: per il che devo ridurre quel fenomeno particolare alla categoria dei fenomeni affini e che provengono da un disquilibrio di temperatura, conoscere il limite della quantità di vapore acqueo che può contenersi nell'atmosfera, e come esso limite vada restringendosi a misura che la temperatura vada abbassandosi; come dallo intrecciarsi di queste condizioni con l’altra della gravità per la quale i corpi non sostenuti cadono, riceva il fenomeno della rugiada compiuta spiegazione. Ciò che vi ha di vero, secondo noi, nell'opinione del Trendelenburg è che se si vuo] dar ragione del divenire delle cose, del loro modo di farsi e di generarsi non è possibile astrarre dal fattore dell'attività, la quale si può estrinsecare in vari modi e tra gli altri per mezzo del movimento. Questo anzi si può considerare come l’estrinsecazione per eccellenza, la forina intuitiva dell’attività stessa. Noi però non possiamo per nessuna via considerare col Trendelenburg il movimento come qual cosa di primitivo e di originario, giacchè esso non è che una rappresentazione complessa derivata dai rapporti di spazio e di tempo delle nostre sensazioni, onde non è lecito invertire i termini at‘tribuendo a ciò che è sussecutivo e derivato l’ufficio di principio atto a dar ragione di ciò che almeno relativamente è originario. Per poter considerare il movimento in sè © per sè, bisognerebbe poterlo osservare o sperimentare, senza ricorrere all’azione dei sensi, il che è assurdo: ed anzi vi ha dippiù: a seconda delle varie formé di sensibilità si ha di esso una notizia diversa: p. es. al senso tattile esso si rivela con proprietà diverse da quelle con cui si rivela al senso della vista. E ciò che noi percepiamo mediante l’azione di uno, o di un altro senso non è il modo con cui un oggetto in moto inizia e prosegue il passaggio da un sito all’altro dello spazio, ma bensi il fatto che l'oggetto stesso è già passato in un altro posto: percezione codesta che ci vien fornita dalla constatazione dei nuovi rapporti in cui l'oggetto si trova. In tanto è possibile considerare il moto come qualcosa di primitivo e di originario in quanto ad esso vengono meta foricamente e simbolicamente attribuiti i caratteri propri della nostra attività interiore. I caratteri che contradistinguono la concezione dualistica sono due: 1° stando ad essa le leggi sono una elaborazione anzi sì potrebbe dire addirittura una produzione dello spirito sulla base dei dati provenienti dall'esperienza, dati che son sempre qualcosa di profondamente diverso dall'attività intellettuale capace di apprenderli, trasformandoli ed enunciandoli in forma di leggi. E qui va notato che a seconda che si ammette o pur no affinità o identità tra le forme del pensiero e quelle della realtà si avranno, come si vedrà più tardi, delle suddivisioni nel seno stesso della concezione dualistica. Ciò che in ogni caso forma il tratto caratteristico di detta concezione è che secondo essa il contenuto dell’esperienza, la costituzione intima del reale essendo inaccessibile all'intelletto, non può per ciò stesso essere espresso ed intrinsecato nelle leggi, le quali ci danno così nelle loro enunciazioni la forma del reale, ma non mai la sostanza. Così mentre per la concezione intellettualistica e per quella animistica le leggi figurano come dei semplici riflessi di fatti e nessi reali nell’intelligenza umana, perla concezione dualistica le stesse si presentano come vere costruzioni e creazioni dello spirito. 2° Stando alla medesima concezione, vi sono due categorie fondamentali di leggi irriducibili l’una all'altra, le leggi esplicative (leggi naturali) e le leggi normative (leggi pratiche): le prime esprimono l'essere, le altre il dovere, e mentre quelle sono delle formule, degli schemi che ci aiutano a richiamare in mente i casì concreti e a catalogare la realtà, il cui contenuto è impenetrabile, le ultime indicano le direzioni, o meglio, le esigenze della nostra attività. É naturale che se il contenuto obbiettivo delle leggi esplicative rappresenta un'incognita per lo spirito, non sì può dir lo stesso del contenuto delle leggi normative, le quali riferendosi alla nostra attività figurano come l’espressione di ciò che è intimo a noi ed ha la maggiore realtà. Il primo sostenitore della veduta dualistica, la quale, come si è veduto, implica in fondo il distacco del dominio dell'intelletto da quello dell'attività e il riconoscimento della spontaneità interiore che appropriandosi dei dati dell'esperienza, li elabora e li trasforma in determinate guise, fu E..Kant. Ogni cosa, disse Kant, è regolata dalle leggi che nell'apprenderla e nel conoscerla vi ha impresse l'intelletto umano, ma solainente un essere ragionevole opera secondo rappresentazioni di leggi, ossia secondo principii ed ha quindi un volere. Ora il volere può essere deterininato d_lla ragione in modo assoluto e imprescindibile, ovvero no: nel primo caso le azioni riconosciute come obbiettivamente necessarie, diventano pur tali subbiettivamente, perchè allora il volere sta nella sola facoltà di eleggere ciò che la ragione riconosce come buono, nel secondo caso, il quale ha luogo quando il volere può esser mosso da impulsi soggettivi e quindi non è interamente conforme a ragione, le azioni sono obbiettivamente necessarie e subbiettivamente contingenti; cioè la legge obbliga e rivolgendosi al volere di un Essere ragionevole gli prescrive una determinazione conforme a ragione, ma senza costringervelo. Però i precetti che la ragione porge al volere e quindi le formole che li esprimono e che vengono da Kant chiamati Imperativi, possono essere di due maniere. La ragione cioè può prescrivere un'azione come buona per se s‘essa, e quindi come obbiettivamente necessaria senza aver riguardo ad alcun fine e allora l'imperativo che formola questo precetto è un imperativo categorico; oppure la ragione può prescrivere un'azione come praticamente necessaria ad ottenere un fine reale o possibile e allora gl'imperativi che ne formulano i precetti si dicono Iporetici; (potetici problematici, se il fine è possibile, cioè può soltanto avvenire che l’uomo se lo proponga, ipotetici assertori, se il fine è senz'altro e sempre voluto. È facile il vedere come, secondo il pensiero di Kant, sebbene non sempre chiaramente espresso, al solo Imperativo categorico debba propriamente attribuirsi la facoltà di obbligare, di prescrivere un dovere, mentre gli altri non ci dànno propriamente che delle regole e dei consigli. Gl’imperativi ipotetici assertori prescrivono i mezzi ai fini svariatissimi (moralmente buoni o cattivi) che un Essere ragionevole può proporsi: questi imperativi non sono propriamente che regole e potrebbero chiamarsi gli imperativi dell’abilità (Geschicklichkeit). Se non che tale veduta kantiana fu fatta segno ad obbiezioni di varie sorta. I)a una parte Schleiermacher, Paulsen e in genere i fautori della concezione animistica, opposero che tra legge naturale e legge normativa non esistono differenze apprezzabili, ma a ciò fu risposto che l’affermare una tal cosa equivaleva a confessare di non aver un’idea chiara di ciò che sia nè una legge naturale, nè una legge precettiva. Una legge naturale infatti esprime solamentu ciò che sotto date condizioni accade sempre senza che sia possibile il presentarsi di una eccezione : è naturale che le condizioni divengano complesse a misura che dalle leggi naturali di ordine generale si scende a' quelle speciali: ma non vi è caso che un dato fenomeno enunciato in una legge naturale si presenti immutato o costante se le condizioni corrispondenti o non si presentano del tutto, ovvero sl presentano in modo variato o imperfetto. Ora è lecito porre sopra una medesima linea le deviazioni degli obbietti singoli dal loro tipo generico (ammesso pure che le dette deviazioni possano essere identificate colle deviazioni dalle leggi naturali, il che non è) e gli strappi fatti dalla volontà individuale ad una legge precettiva ? O nella nozione generica s’introduce una forma di valutazione, intendendo per quella l'ideale verso cui gl'individui di una data specie tendono, date le condizioni favorevoli, e reputando o gni allontanamento dall’ideale come qualcosa che non doveva essere, come una imperfezione, e in tal caso si avrà il perfetto riscontro colle deviazioni della volontà individuale dalla legge normativa, ma ci si troverà agli antipodi della legge naturale: ovvero si considera il tipo generico come l’insieme di quelle proprietà che in una pluralità d’individui, data l’uniformità e la relativa immutabilità delle loro condizioni d’origine e d'esistenza, sì presentano in modo costante, ed in tal caso le variazioni del tipo generico prodotte dall'azione di date cause hanno un certo riscontro colle apparenti modificazioni delle leggi naturali, ma sono agli antipodi delle deviazioni della volontà della legge precettiva. Per considerare le leggi naturali come identiche in fondo a quelle morali, bisogna ridurre queste ultime a pure descrizioni del modo come gli uomini si conducono sotto date condizioni, ma con ciò il concetto vero del dovere viene ad essere tolto via, giacchè le azioni umane in tal caso come i fatti naturali vengono ad essere sottratte al giudizio valutativo vero e proprio. Il difetto della concezione animistica sta tutto qui: nell’aver creduto di poter cancellare qualsiasi differenza tra le leggi esplicative e quelle norinative che invece sono controdistinte da caratteri diversissimi: le prime esprimono le condizioni sotto cui la realtà diviene pensabile e intelligibile, stanno a significare le peculiari maniere in cui la ragione umana reagisce di fronte all’apprensione del reale, nulla dicendo della natura intima e del significato del reale, mentre le altre sono esigenze proprie dello spirito rivelantisi immediatamente alla coscienza ed esprimenti la natura propria di quello ; le prime pur accennando necessariamente a qualcosa d'interno, non l’estrinsecano in alcun modo, arrestandosi alla considerazione della parte formale della realtà, le altre invece esprimono le direzioni dell’attività umana: le prime infine possono far pensare ad una forma di attività che è il riflesso di quella interiore, mentre le altre sono le determinazioni immediate di tale attività. Confondere le leggi dichiarative colle precettive è come confondere la causalità esterna (trasmissione di movimento) con quella interiore (motivazione dell’attività). Dall'altra parte fu obbiettato a Kant: se la necessità obbiettiva si differenzia da quella puramente subbiettiva per questo che la prima fondata com'è sulla natura delle cose, é valida egualmente per tutti gli esseri, mentre l’altra fondata su particolarità individuali e subbiettive è valida soltanto per i soggetti che son forniti di queste, come mai può avvenire che tutto ciò che è necessario per gli esseri forniti di ragione, non è poi più necessario per una parte di essi? Ciò accade, risponde Kant, perchè l’uomo risulta di varî elementi per modo che ciò che è necessario per l’uno di questi, può benissimo essere accidentale per l'altro. È necessario così l'adempimento della legge morale per l’uomo considerato come essere ragionevole, il quale colla ragione appunto conosce la necessità della legge stessa ; ma all'opposto non è necessario per l’uomo considerato solo come essere fornito di volere, perchè come tale non è spinto all’azione solo dalla ragione, ma anche da altri impulsi. E la legge morale è appunto una legge della volontà, in quanto pone come necessario che l’uomo segua col suo volere una determinata direzione. Riconoscere questa necessità e insieme affermare che la volontà umana non concorda necessariamente con la legge morale non include nient'affatto contradizione, se sì pensa che nel primo caso si tratta di una necessità diversa da quella del secondo caso: donde la distinzione della necessità obbiettiva della esigenza morale da quella subbiettiva basata sul rapporto della volontà con la detta esigenza. Se non che tale distinzione, si è notato dagli oppositori, non regge in quanto la neeessità obbiettiva si riferisce appunto alla voloutà e quindi abbraccia la necessità subbiettiva. In seguito a ciò, pure ammettendo che il concetto li legge sia suscettibile di due interpretazioni diverse a seconda che si tratti di leggi esplicative o precettive, si è cercato altrove il fondamento della detta distinzione. Si è cominciato col notare come non soltanto nel campo della morale, rua in tutti i dominii dell'attività umana, nessuno escluso, accada che gl’individui in casi numerosissimi non seguono leggi, che pure si presentano col carattere più accentuato dell’universalità. Così per quanto incondizionatamente valide si presentino le leggi logiche e matematiche, ciò non impedisce che conclusioni false ed errori di cali colo abbiano luogo : e lo stesso si può dire delle leggestetiche, grammaticali, ecc. V'ha dippiù : ciò che si rileva in opposizione alle leggi normative generali, non solo è possibile e reale, ma è in un certo senso necessario : come al fisiologo sembra naturale la sanità allo stesso grado che la malattia, così al psicologo l’errore e il male sembrano naturali come il vero e il bene. Del resto le leggi precettive non esprimono tutto ciò che è possibile, ma bensi ciò che è giusto o rispondente ad un dato scopo. È evidente che la parola neccesità non ha un valore eguale trattando di leggi esplicative o di leggi normative: nel primo caso la necessità implica che un dato fenomeno risulta necessariamente dal complesso delle sue cendizioni, nel secondo caso invece indica ciò che si deve fare perchè l'obbiettivo di una data forma d'attività, la conoscenza del vero, la produzione del bello o la pratica del bene, sia raggiunto. Dall’un canto la necessità serve a contrassegnare il nesso del conseguente colle sue condizioni quale sì presenta partendo da queste ultime come da ciò che è dato; dall'altro canto la necessità serve a contrassegnare lo stesso nesso quale si presenta dal punto di vista del conseguente, partendo cioè come da ciò che è dato dalla rappresentazione dell’intento da conseguire, per mostrare sotto quali condizioni, con quali mezzi ciò è reso possibile. Ora mentre colle cause son dati sempre e necessariamente anche gli effetti, non si può dire che col fine o meglio colla rappresentazione del fine sia dato sempre e necessariamente l’impiego di dati mezzi e le modalità dell’impiego stesso, onde consegue che le leggi naturali hanno un valore universale, mentre quelle pratiche dicono, sì, che incondizionatamente certi scopi possono essere raggianti solo con un dato ordine di mezzi, e in tale rapporto, se esse sono giuste, non temono smentita dai fatti; ma dell'applicazione effettiva dei detti mezzi nulla ci dicono, per modo che non è esclusa la possibilità che i mezzi non siano applicati e che per conseguenza lo scopo non sia neanche lontanamente raggiunto. Le leggi dichiarative dicono: date queste condizioni deve necessariamente conseguire questo effetto: quelle pratiche invece: se un dato scopo deve essere raggiunto, bisogna operare in tale maniera e non diver samente. Se poi nei casi particolari si procederà effettivamente così e se quindi l’obbiettivo corrispondente sarà aggiunto non è certo appunto perchè ciò dipende dal modo in cui sì determina l’attività individuale ed è tale incertezza che trasforma la legge in una forma di esigenza umanae. la necessità che l’esprime in dovere. Qui si presenta une questione: É giusto mettere tutte in un fascio le leggi normative o precettive? Noi crediamo di no, in quanto alcune di esse si presentano come regole dedotte da determinati rapporti offerti dall’esperienza, mentre altre figurano come l’espressione della natura propria del soggetto e quindi vanno considerate come funziori di esso : così le leggi precettive igieniche, dietetiche ecc. in tanto sono valide in quanto sono fondate su determinati nessi causali constatabili per mezzo dell'esperienza e quindi contingenti, per contrario le norme logiche e morali sono anteriori a qualsiasi esperienza, s0no esigenze dell’attività umana e stanno a significare ciò che vi ha di proprio nella natura del soggetto pensante sia dal punto di vista teoretico che pratico. Ma di ciò sarà trattato più diffusamente in seguito. Dicemmo di sopra che Emmanuele Kant va considerato come il vero fondatore della concezione dualistira, avendo egli ammesso, dopo aver profondamente differenziato le leggi normative da quelle esplicative, che ì giudizi necessari ed universali intorno alla realtà occasionati dall’esperienza, in tanto sono possibili, in quanto lo spirito umano è fornito della capacità di apprendere i fatti concreti per mezzo di forme a priori o appercettive, le quali servono ad universalizzarli e ad obbiettivarli. Sono queste nozioni appercettive, o predicati universalissimi o categorie, o forme a priori, o funzioni dell’intendimento umano che unite, mediante giudizi di ordine speciale (giudizi sintetici a priori) coi dati percettivi concreti, rendono possibile .la scienza, cioè a dire la trasformazione del fatto subbiettivo del sentire in qualche cosa di obbiettivo esistente in modo ordinato nello spazio e nel tempo e insieme l'enunciazione in formule universali delle varie sorta di azioni e di relazioni esistenti tra le cose. Non è nostro intendimento ora fare la storia e la critica delle vedute kantiane intorno alla possibilità dei giudizi sintetici a priori, in quanto ciò ha formato oggettò di svariatissime e importantissime ricerche il cui risultato è stato la trasformazione del primitivo kantismo. I mutamenti che ha subito il pensiero kantiano, passando attraverso ia mente dei vari Logici moderni sono stati molteplici e non sempre si fu d'accordo intorno al modo d’interpretare, di completare e di svolgere il pensiero del maestro: tuttavia non è impossibile collegare insieme le varie opinioni emesse, considerandole da un punto di vista superiore. Per quanto numerose e rilevanti siano le discrepanze tra i filosofi criticisti intorno alla estensione ed al significato dall’a priori kantiano, vi sono dei dati ammessi da tutti e su cui non cade alcun dubbio o disparere. Così tutti concordano nell’ammettere il corrispettivo obbiettivo dell'elemento formale di ogni conoscenza, vale a dire la cooperazione della realtà nella genesi delle forime appercettive, in modo che questo lungi dall’esser considerate come semplici funzioni o obbiettiva trai zioni dello spirito umano, sono ritenute il risultato della cooperazione di due fattori, del fattore subbiettivo e di quello obbiettivo. D'altra parte si è d'accordo nel riguardare le forme appercettive (le nozioni di uguaglianza e di differenza, di tutto e parti, di grandezza, di rapporto causale tra i fatti successivi e di connessione reciproca tra fatti coesistenti e di fine) come acquisti dello spirito umano avvenuti sotto la guida di alcuni principî supremi comuni al pensiero ed all'essere, quali il principio d'identità, quello di contradizione e quello di ragione, ecc. E qui va notato che non tutti i filosofi son disposti ad attribuire un egual valore ai suddetti principii, giacchè per taluno, come per il Riehl, il principio regolatore supremo è quello d'identità, mentre per altri è quello di contradizione colla cooperazione però più o meno valida degli altri principii : questione codesta che a noi non compete di esaminare. Conchiudendo, possiamo dire che il neo-kantismo non considera più le varie leggi scientifiche quali giudizii sintetici aventi il loro fondamento ultimo nei giudizii sintetitici a priori, costituenti poi i veri principii delle scienze, ma come il risultato della trasformazione dei nessi e rapporti puramente sperimentali in nessi e rapporti logici. Non è dunque riposta l’essenza della legge nell’applicazione di determinate categorie ai fatti concreti, ma nella trascrizione dei fatti o processi sperimentali in fatti e processi aventi organismo e struttura logica. Tra i filosofi criticisti quegli che più e meglio di tutti ha trattato la quistione della natura e delle forme della conoscenza scientifica è certamente il Riehl], il quale nella sua pregevole opera // Criticismo filosofico, ha emesso delle vedute degne di essere conosciute. Egli comincia coll'’ammettere una profonda differenza tra le leggi normative e quelle esplicative in quanto le prime esprimono il dovere in rapporto al conseguimento di un dato scopo, mentre le altre esprimono l’essere; in base alle prime giudichiamo del valore, dell'importanza di una data cosa, mentre in base alie altre della realtà o della verità : le prime denotano tendenze e s’indirizzano all’avvenire, le altre dati di fatto e vertono su ciò che è ed accade: le prime infine sono una determinazione del gusto, del sentimento e della volontà umana, mentre le altre sono emanazione della ragione e dell’attività coroscitiva. Dal che consegue che la scienza, la quale si può considerare come l'ordinamento razionale delle leggi esplicative, presenta l’uomo quale un prodotto della natura, quale risultato delle leggi generali di essa, mentrechè la filosofia pratica riferendosi al possibile e all’ideale, risguarda l’uomo nella natura come causa, come un essere cioè che in base alla conoscenza delle leggi natarali può proporsi dei fini e mettere in opera tutta la sua attività per raggiungerli. Ma se la filosofia pratica può avere il suo punto di partenza nella conoscenza della natura umana fornita dalla scienza (Antropologia, Pisicologia, Storia ecc.), rapportandosi poi a ciò che deve essere, esplica la sua azione, ponendo sempre nuove esigenze al sentimento, al volere ed alla coscienza umana. Nell’approfondire la natura della conoscenza scientifica il Riehl nota che la legge esplicativa che è sinonimo di rapporto necessario, esprime l’azione esercitata sulla ragione dalla stabilità ed uniformità del corso dei fenomeni. La relazione esistente tra la realtà e il pensiero costituisce l'esperienza propriamente detta: e le leggi scientifiche sono il prodotto da una parte della regolarità con cui sotto condizioni eguali si presentano fenomeni identici, o della stabilità delle proprietà fondamentali delle cose, e dall’ altra dell’ attività concscitiva del soggetto. Onde la legge è per l'intelligenza ciò che è il fine per il volere e il bello per il senso estetico : in tutti e tre i casi i due termini s'implicano a vicenda; tanto é ciò vero che le cosidette leggi naturali lungi dall'essere in rapporto, come a dire, accidentale colle leggi del pensiero, sono il risultato, quanto alla loro forma, di queste ultime. Pertanto l’affermazione che in natura tutto av. venga in modo meccanico è falsa, se s'intende dire che per tale via si riesce a comprendere la natura propria, e le qualità intime del processo naturale; il meccanismo delle cose lungi dal manifestare l'essenza di un qualsiasi fatto naturale, rappresenta la forma di questo; e la meccanica ricercando l'equivalente dei cangiamenti svolgentisi nella natura, non svela nient’affatto la natura propria delle cause dei detti cangiamenti. É per questo che le leggi esp imenti i rapporti delle cose devono presentare i termini connessi in modo continuo e immediato nel tempo e in maniera intelligibile per l'intendimento, vale a dire congiunti secondo il rapporto dell'uguaglianza quantitativa, riducibile al principio d'identità. E a che ai riducono le leggi del pensiero, le categorie logiche, che applicate alla realtà, rendono possibile la formazione delle leggi scientifiche ? Le condizioni logiche dell'esperienza, dice il Riehl (1), le categorie della Rienc, Der philosophiscrie Kriticismus. Zw. B. Leipzig. sostanza, della causalità e dell’unità sistematica della natura, non sono, come insegnò Kant, forme primitive diverse e irriducibili del nostro intelletto, ma derivano da un unico principio saperiore, da quello dell'unità e conservazione della coscienza in genere, il quale dà loro origine quando viene applicato ai rapporti generali presentati dall'intuizione. L'Io è cosciente della suna unità e della sua identità con sè stesso, condizione prima di ogni altra conoscenzà, sia che scompone una molteplicità simultanea di impressioni (la cui forma intuitiva è lo spazio), sia che connette una serie successiva di impressioni, sia finalmente che scompone e congiunge insieme, vale a dire che unisce i due atti precedenti, affinchè emerga il concetto dell’unità sistematica del tutto. Noi possiamo quindi distinguere tre diverse funzioni pertinenti alla coscienza (una ed identica con sè stessa), una funzione analitica (che ci dà la categoria di sostanza), una sintetica (che ci dà la categoria di causalità) ed una sintetica ed analitica insieme (che ci dà la categoria dell'unità sistematica); mediante la prima è differenziato il permanente dal mutevole, mediante la seconda è collegato il cangiamento colla sua causa, mediante la terza finalmente tutto il reale, cose e processi, viene considerato come un sistema organico composto di varie parti. È questa l’espressione più completa e più perfetta della concezione dualistica; e non si può non convenire che essa segna un notevole progresso rispetto agli altri modi d’interpretare la natura delle leggi; ma possiamo noi dichiararci soddisfatti appieno ? Notiamo subito che il difetto di tale veduta sta tutto nel ritenere che la natura propria della legge si riduca all’affermazione di un rapporto di natura quantitativa; ora la legge oltreché l’espressione di una equivalenza, è l’espressione dell'attività di una cosa sull'altra. L'ideale verso cui tende la scienza nel fomulare le sue leggi non è l'affermazione esclusiva dei rapporti quantitativi, ma l'indagine delle condizioni determinanti dati fenomeni, condizioni che diventano spesso visibii all'intendimento e vengono fissate per mezzo dei rapporti quantitativi non altrimenti che in un quadro è pel colore che diventano visibili le linee, i punti e fino la mancanza perfetta di linee, il nero, la tenebra. É evidente però che l'essenza della legge non può essere riposta in un momento subordinato ed ausiliario, per quanto necessario. Con le sole leggi della meccanica, con le sole ridistribuzioni della materia e del movimento non s’in'ende come si possano produrre forme così diver:e della realtà. La concezione meccanica, come quella che è solamente quantitiva, non soddisfa al bisogno che la conoscenza ha del sistema, non rende ragione della Zinitazione e direzione delle forze. Con la materia e col movimento soltanto noi abbiamo una possibilità affatto indeterminata, la possibilità di mondi innumerevoli diversi: che cosa determina la genesi del mondo della nostra esperienza ? Ciò posto, come mai si può affermare che la scienza abbia per compito essenziale d' indagare la costituzione meccanica del Reale? La scienza tende invece a conoscere la natura propria delle cose quale sì manifesta per mezzo delle loro azioni o funzioni e per mezzo del numero maggiore o minore di attinenze (delle quali le quantitative sono una sorta soltanto) che esse hanno col rimanente della realtà. L'essenziale della conoscenza scientifica non sta nel delineare semplicemente le variazioni spaziali e temporali di una cosa, ma nel cercare di studiare le proprietà, le qualità e le relazioni di essa, tanto è ciò vero che la scienza seria ed esatta lungi dall’abbandonarsi a ricercare la spiegazione e la ragione di tutti i fatti nei semplici spostamenti spaziali e temporali, studia ciascuna categoria di fenomeni separatamente senza lasciarsi fuorviare dalle analogie o somiglianze astratte e va in traccia sempre delle condizioni peculiari concorrenti a determinare una data classe di fenomeni. E tutte le ipotesi scientifiche non hanno la loro ragione di essere nella esigenza imperiosa della scienza di approfondire la natura propria delle cose, prescindendo dalla esclusiva considerazione della grandezza e della quantità ? L'errore del Riehl è di aver identificato ogni forma di cansalità con quella esterna o meccanica (1), chiudendosi cosi la via di interpretare i fatti di cristallizzazione, di coesione, ecc. ecc,, buona parte dei fatti chimici e biologici e tutti i fatti spirituali, ove vige in modo evidentissimo ‘0 principio dell’ aumento dell’ energia ; ora si (1) La causalità fisica è profondamente diversa da quella psichica, in quanto ciò che è causa nella prima e quindi fa essere una cosa diviene motivo nella seconda, cioè, giustifica la cosa, ciò che in quella è azione meccanica proveniente dall’esterno (causa ed effetto son considerati come l’una fuori dell’altro) ed è quindi accessibile alla osservazione esterna e alla comparazione quantitativa, nell’altra è azione interiore proveniente, anzi da ciò che vi ha di più profondo nell'essere ed è accessibile soltanto all'osservazione interiore. La causa agisce per ciò che è in sè, mentre il motive per il valore che gli vien dato dall'insieme della vita spirituale, valore che può variare moltissimo, donde la varietà delle determinazioni volontarie nei varii individui e le reazioni subbiettive diverse ad un medesimo fatto, Da tutto ciò consegue che è una conpuò affermare che in tutti questi casi non è a parlare di leggi, vale a dire di maniere costanti ritmiche di operare, di rapporti necessari e universali, di funzioni determinate, quindi di scienza? Aggiungiamo che se il principio di identità fosse l'esclusivo principio supremo della intelligenza e se quello di ragione non fosse inerente alla natura propria dell'intelletto, non si vede come e perchè la cosidetta identità sintetica potrebbe entrare in azione. Secondo il Riehl, infatti, noi siamo tratti a identificare sempre ciò che è straordinario o inusitato con ciò che già sappiamo: ora in questo caso l’identificazione non rappresenta che il messo di poter rispondere all’esigenza di ricercare la ragione di ciò che ci sì rivela come nuovo e irriducibile al resto. Il fatto prinitivo è sempre il principio di ragione e l'identificazione non è che un mezzo, nè necessario, nè universale. Noi potremmo riferire numerosissimi esempi per provare come la essenza della legge non vada riposta nell’enunciazione di un rapporto quantitativo. Citeremo qualche fatto soltanto tolto dalla Biologia, Così è noto che il ricambio materiale se può ra ppresentare una delle condizioni indispensabili al funzionamento degli organi, non ne è la causa determinante ed essenziale, la quale deve essere ricercata nell’ organizzazione, tradizione parlare di leggi naturali della volontà in quanto questa opera, trasformando le cause in motivi, rendendole cioè un fatto interno. L’operare in seguito a motivi non rende possibile l’operare secendo leggi, m a l’operare secondo norme e regole, dal seguire le quali è agevole sottrarsi una volta ammesso che la forza dei motivi dipende dal valore che vien loro dato dal complesso della vita psichica, la quale essendo diversa per ciascuno individuo, produrrà diversità anche nel modo di operare dei motivi e quindi nella maniera di attenersi alle dette norme, nella morfologia dei tessuti: quand’anche conoscessimo e sapessimo determinare quantitativamente tutte le innumerevoli reazioni chimiche che si svolgono nel nostro organismo, ci resterebbe a conoscere come l’ energia che esse sviluppano si trasformi in funzione, come nei complicati ingranaggi dei nostri tessuti la stessa possa estrinsecarsi sotto forma di calore, di elettricità, di moto, di secrezione, di attività nervosa, ecc. Nell’atto chimico si deve riconoscere la causa dell’energia disponibile, ma la funzione si determina trasformando quell’energia, plasmandola in mille modi, presentandola sotto diversissime manifestazioni. E qui giova notare che non selo i risultati delle reazioni chimiche che avvengono in un organismo, ma anche le condizioni che le determinano hanno qualche cosa di speciale e di e clusivo agli esseri viventi, all’organizzazione, cioè ed ai suoi prodotti. Noi possiamo infatti riprodurre alcuni di quei processi chimici che si svolgono nella trama dei nostri tessuti, ma per ottenere gli stessi risultati dobbiamo impiegare delle altissime temperature, delle enormi pressioni, delle correnti elettriche assai potenti o l’azione di reattivi di tale violenza da distruggere qualunque organismo, Negli esseri organizzati invece si hanno gli stessi effetti ad una temperatura egnale o di poco superiore a quella del''ambiente, alla pressione atmosferica ordinaria, sotto l'influenza di correnti appena dimostrabili ed approfittando di debolissime affinità. Ora forse dal fatto che la vita non può ridursi al ricambio materiale puro e semplice, determinabile quantitativamente, deriva l'impossibilità di pailare di leggi fisiologiche o biologiche ? Tali leggi saranno indeterminate dal punto di vista quantitativo, ma sono determinatissime dal punto di vista qualitativo. L'essenziale non è la fissazione quantitativa, ma quella qualitativa delle condizioni genetiche di un fenomeno. L'opinione di Kant che si possa parlare di scienza soltanto nei casi in cuì sia applicabile il calcolo ha ormai fatto il suo tempo, perchè anche i rapporti qualitativi formando obbietto d'indagine, possono essere formulati in leggi. Le leggi intese in largo senso non rappresentano soltanto il prodotto della fusione del fattore subbiettivo dell’ unità ed identità della coscienza (e categorie logiche che ne derivano) con quello obbiettivo dell’ uniformità e rego larità dei fatti esterni, ma figurano anche come il rifiesso o meglio l'applicazione delle varie forme di attività psichica (tra le quali merita particolare attenzione l'esigenza della ragione e del fondamento delle cose e la tendenza a rintracciare la loro reciproca dipendenza) all’azione reciproca che presentano le cose. La scienza naturale, è vero, s'arresta alla valutazione dei rapporti quantitativi, che sono quelli accessibili alla misura, perchè i suoi obbietti quali determinazioni spaziali e temporali e quali limitazioni di qualche cosa d’identico e di continuo sono paragonabili quantitativamente, ma ciò non toglie che una forma di conoscenza superiore e più completa debba tener conto delle varie forme di azione esercitate dalle cose tra loro. Ed anche nelle scienze che hanno per obbietto la natura, le leggi puramente descrittive e basate esclusivamente su rapporti quantitativi tendono a divenire genetiche e condizionali, segno che l'esigenza della scienza non è quella di trovare semplicemente dei rapporti di equivavalenza, ma di mostrare come le cose sussistenti solo in quanto sono attive, operino nelle varie contingenze. Ciò che ha il maggior interesse per l’intelletto umano non è la pura fissazione di rapporti quantita‘ivi, ma la determinazione dei rapporti di condizionalità e di causalità, rapporti che se sono resi visibili per mezzo delle variazioni concomitanti quantitative, non implicano nient'affatto l'equivalenza dei termini dei detti rapporti. D'altra parte le varie funzioni di analisi, di sintesi, e di analisi e sintesi insieme non s'intende come possano esser ascritte all'unità della coscienza che è sempre un concetto puramente formale e quindi vuoto : è necessario la sostituzione di qual cosa che dia ragione della possibilità di differenziare e diidentificare i vari fatti psichici e insieme della possibilità di scomporre e successivamente comporre i singoli fatti per poter fondere in ultimo i due processi in uno. Ora il concetto che risponde a tali requisiti per noi è quello dell’altività, la quale può divenire sorgente di atti molteplici; atti che mentre da una parte si differenziano tra loro, sono però congiunti per questo chehanno un'origine comune. Di guisa che la funzione analitica della (1) RieuL: Op. cit. Fr. B. Schluss Qui è bene riferire un passo del medesimo Riehl: “ Es kinnte in der Natur nichts auch nur relativ Selbstindiges geben wenn es in ihr nicht wahre, sondern immer nur ùbertragene, mithin scheinbare Thàitigkcit gàbe. Nicht bloss im Moralischen, auch im Physischen wurzelt die Selbststindigkeit in der Selbsthiitigkeit Obgleich wir uns die Elemente nicht auf psychische Art wirkend zu denken haben, also nicht als Monaden vorstellen, so weist doch, “ie FErscheinung der physischen Thiitigkeit auf eine wahre von den Elemznten ausgehende, nicht blos denselben 4usserlich eingeprigte Action zuriick. Nur was fàhig ist zu wirken ist und heisst wirklich. In d r Empfindung, die nicht blosse Receptivitàt ist. sondern Reaction gegen den empfangenen Reiz haben wir den Typus der Wechselwirkung auck in der nicht empfindenden Natur vor uns, coscienza è resa possibile dall'avvertimento dei molteplici atti emergenti dall'attività psichica, quella sintetica dall'’avvertimento della loro identità d'origine e quella sintetico-analitica dalla fusione dei due processi o dal congiungimento dei due momenti del medesimo fatto. Da tal punto di vista l'essenza della legge in genere è riposta nel tentativo d’interpretare l'azione reciproca delle cose presentateci dall'esperienza, basandosi sul modo d'operare della nostra attività interiore. Del resto ciascun individuo nell'’enunciare una legge, per quanto non l’esprima, sottintende tale concetto fondamentale dell'attività. Ed è questo il sulo mode di poter comprendere l’unità delle cose. Il detto fattore dell’attività non trova espressione adequata, perchè ciò che è qualitativo e interno non può essere obbiettivato e insieme universalizzato come i rapporti quantitativi, spaziali e temporali che rappresentano il contenuto della coscienza intesa in senso universale e non di quella individuale soltanto. Al di fuori del Criticismo, la concezione dualistica della legge assunse una forma particolare nel Wundt, la quale merita di essere mentovata (1). Il filosofo di Lipsia dopo aver messo in sodo che il concetto di legge in genere originariamente derivò da quello di norma, riconobbe che esso sì andò sempre più allontanando da questo a misura che i fatti costituenti l'oggetto delle scienze esplicative non furono più considerati quali estrinsecazioni d’ impulsi interiori, a misura cioè che furono presi in considerazione dalla scienza le relazioni formali delle cose e non Wundt. Etk:k, Stuttgart, Id. Logik. il loro contenuto e significato obbiettivo. Pertanto la nozione di legge-norma divenne estranea da un pezzo alle scienze naturali, contrariamente a ciò che accadde nelle scienze psicologiche e storiche. Il processo delle scienze esplicative, nota il Wundt, s’intreccia spesso con quello delle scienze normative, per modo che in queste si hanno delle leggi dichiarative a fianco alle normative e viceversa: ciò che non va dimenticato è che spesso il punto di vista esplicativo è anteriore e quindi presupposto da quello normativo, il quale ha soltanto in esso la sua base. In ogni caso le scienze normative si differenziano profondamente da quelle dichiarative e descrittive per questo che nelle prime predominando le leggi-norme, alcuni fatti sono differenziati da altri per mezzo del momento valutativo, in base al quale i dati sono riguardati come conformi o contrari alla norma. La contrapposizione del normale all’anormale mena alla differenziazione del dovere dall'essere. Ora il punto di vista esplicativo conosce semplicemente l'essere, onde le scienze che hanno per obbietto la natura considerano ciò che è già dato e se esse accolgono anche la nozione di norma e di dovere, l'essere in tal caso coincide col dovere per modo che non vi può essere contradizione tra i due: il so/len diviene mdassen. Col toglier via adunque ogni forma di valutazione viene ad essere tolta ogni possibilità di differenziare i fatti in regolari e irregolari, in normali e anormali. Ma la valutazione in tanto è possibile in quanto gli atti singoli che sono obbietto della valutazione, sono considerati come un prodotto del volere umano, ond'è che essi vengono distinti in atti conformi o non conformi alle esigenze (norme), alle direzioni fondamentali del volere stesso. Ed è su ciò che è fondata anche la distinzione del dovere dall’ essere. D'altra parte la norma di fronte alla volontà può assumere la forma di comando, di regola riferentesi non soltanto alla valutazione di atti già compiuti, ma alla produzione di fatti avvenire. Però ogni uorma è originariameate una forma d’attività, una determinazione, una regola del volere, e come tale, una prescrizione; è solo secondariamente che può divenire una specie di stregua, di misura indispensabile all’apprezzamento di a'ti già compiuti. Qui va notato che il carattere normativo non sì rivela identico e costante in tutte le così dette scienze normative : così di tutte le norme o regole grammaticali, una sola conserva il suo carattere obbligatorio ed è che le forme grammaticali delle varie lingue devono esser conformi alle leggi logiche del pensiero. Tutte le altre regole grammaticali figurano coine il risultato di svariate condizioni psicologiche e fisiologiche. In modo analogo, mentre la più parte delle norme giuridiche hanno la loro origine nelle mutevoli e particolari condizioni storiche della società, alcune soltanto indipendentemente da queste cause posseggono forza obbligatoria dovuta alla natura morale dell'uomo. Anche nelle norme estetiche va distinto l'elemento transitorio prodotto dalle influenze storiche della moda e delle consuetudini da quello permanente, a cui noì siamo disposti ad attribuire il massimo valore. Dalle molteplici radici del sentimento estetico emergono le norme estetiche che prendono due direzioni diverse : da una parte quella riferentesi ai principii della regolarità, della simmetria, dell'armonia, dell'ordine che sono un prodotto del pensiero logico: e dall'altra quella relativa alle bela Li et e i e "e _m..{i-_ b-°’’ _ieccosieliani esigenze ed emozioni etiche, per il cui mezzo il bello parla al. cuore, assumendo le forme più elevate. Logica ed Etica, ecco le due scienze normative vere e proprie: formando la prima la base normativa delle scienze teoretiche, la seconda quella delle pratiche (1). Le norme della Logica possono estendersi a tutto ciò che ci è dato dalla intuizione e dalle nozioni da questa derivate ; ma nella loro applicazione non involgono un giudizio valutativo intorno agli oggetti del pensiero logico ; può solo tanto il soggetto considerato in rapporto alla sua attività cogitativa costituire la base di un apprezzamento valutativo; le norme dell'Etica si riferiscono immediatamente agli atti volitivi dei soggetti pensanti ed agli oggetti solo inquanto questi debbono la loro origine agli stessi atti volitivi: come si vede, in tal caso è il soggetto agente che nello stesso tempo forma oggetto della nostra valutazione. Onde è chiaro che il subbietto del pensiero logico in tanto può essere in qualche modo apprezzato in quanto è insieme obbietto etico : il pensiero logico infatti come libero atto volontario può essere subordinato all'attività morale. E la Logica avendo fra gli agli altri compiti anche quello di trattare e di esaminare i criterî del pensiero vero e il valore dello stesso, può benissimo essere chiamata Etica del pensiero. Di guisa che il concetto del dovere non ha un significato eguale nella Logica e nell’ Etica, giacchè per questa il dovere emerge dall'obbietto stesso della sua considera (1) Teoretica è la ricerca scientifica vertente sul nesso reale dei dati di fatto; pratica quella che ha per obbietto le produzioni della volontà umana e le creazioni dello spirito. zione, mentre che nella Logica il dovere nasce soltanto quando il processo logico è sottoposto ad un giudizio valutativo, vale a dire quando è annoverato tra le azioni etiche. In tal guisa per il Wundt la sorgente ultima della nozione di norma è nella moralità, e la scienza normativa per eccellenza è l'Etica. Dipoi l’idea di norma prende due direzioni, da una parte è applicata a quei dominii scientifici che per le loro condizioni d'origine subbiettiva (atti volontarii) sono più affini ai fatti morali, dall’ altra parte è applicata a tutti gli oggetti dell’esperienza esterna ed interna, i quali sono apparsi sottoposti ad una costante regolarità riguardo al loro modo di presentarsi, di svolgersìi ecc. Si comprende agevolmente che la prima trasformazione ed applicazione dell'idea di norma ha preparata la seconda, giacchè il pensiero logico, è stato tratto con molta facilità a trasportare il suo proprio carattere normativo agli obbietti ad esso sottoposti. D'altra parte il carattere normativo del pensiero logico non avrebbe mai potuto svolgersi completamente senza la corrispondente costanza e regolarità degli obbietti, la quale però, giova tenerlo a mente, non sarebbe mai stata appresa senza il concorso dell'attività del pensiero sottoposta a date norme: sicchè possiamo ben dire che i due indirizzi presi dall'idea di norma, intrecciandosi, sì sono aiutati a vicenda nel loro svolgimento, l’azione preponderante pur essendo esercitata dal carattere normativo del pensiero logico. E qui si potrebbe osservare che considerando la norna quale regola della volontà, quale determinazione primitiva di questa, non si spiega come essa possa assumere la forma di comando, senza implicare costrizione, necessità subbiettiva. Se la norma rappresenta una determinazione della volontà, perchè si può e uon si può seguirla? Donde la scissione, lo sdoppiamento del dovere dall'essere, dell'ideale dal reale ? Ogni difficoltà sul riguardo viene a sparire, se si tien conto del fattore sociale nella genesi della norma. Questa è, sì, una determinazione della volontà, una forma d'attività, ma una determinazione della volontà sociale, una forma dell'attività collettiva, rispetto alla quale la volonta individuale si può benissimo trovare in antitesi per svariatissime ragioni. Il carattere normativo ha la sua sorgente nell’intima relazione esistente tra i varii individui (soggetti pensanti e volenti) componenti una società, i quali sono come parti organiche di un Tutto d’ordire superiore. È il volere e la coscienza sociale che si può imporre al volere dei singoli individui (1). Tutte le norme e regole che hanno un valore obbligatorio sono da considerare quale prodotto della coscienza e della volontà sociale. Invero le varie forme di società (1) Recentissimamente taluno ha affermato che i prodotti della collettività sono inferiori alle opere compiute dagli individui isolati: riunite insieme, si è detto, i più grandi ingegni, in modo che tutti cooperino alla produzione di un’opera collettiva, e vedrete che ne verrà fuori qualcosa d’ imperfetto. Se ciò sia vero o no, non importa discutere qui: ciò che voglia no mettere in evidenza è che le produzioni collettive naturali non vanno identificate colle produzioni artificiali, arbitrarie di una qualsiasi riunione d'’ individui, giacchè in quest’ultimo caso la collettività lungi dal presentare i caratteri dell'organismo assume l’aspetto di qualcosa di meccanico. È per questo che le note antagonistiche presentato dai vari individui invece di essere armonizzate in un’unità superiore, si elidono a vicenda. umana, costituiscono delle vere e proprie .unità organiche, le quali hanno delle funzioni determinate, superiori a quelle degl'individui, adempiono ad uffici più elevati e rispondono ad esigenze, per cui sarebbe inefficace l’attività individuale. La connessione degli spiriti, l’azione reciproca, la solidarietà vera, perché fondata su rapporti spirituali, dei varìl membri delle società è un fatto che ci dà la chiave per spiegare taluni prodotti psichici complessi, che altrimenti rimarrebbero un mistero. Così il lavorio intellettuale dei diversi individui componenti la società umana ha avuto per effetto di fissare lo scopo ultimo, l'ideale della conoscenza, togliendo dalle direzioni particolari dell’ attività spirituale tutto ciò che vi era dì accidentale, di subbiettivo, d’incoerente, d’inefficace e determinando una direzione unica e consistente, atta cioè a connettere insieme i varii momenti del processo cogitativo e a stabilire il rapporto del pensiero individuale con quello universale. La volontà e la coscienza sociale hanno universalizzato il pensiero, fissando l'ideale e quindi le norme a cui si deve conformare il prodotto psicologico individuale, affinchè possa adempiere al suo vero ufficio. Tutto ciò che non può essere messo in rapporto col sistema di relazioni stabilite dalla vita storica e sociale dell'umanità non ha consistenza, e quindi non è reale nello stretto senso della parola, nè vero: e le norme o le leggi del pensiero non rappresentano che il modo, la via da tenere per poter connettere il fatto singolare col sistema universale; sistema che d'altra parte alla conoscenza riflessa si rivela come generato appunto da quei postulati della conoscenza. Ciò non toglie che si possa presentare un fatto psichico il quale, pure essendo un prodotto naturale e quindi fornito di una certa realtà, non possa però essere messo in connessione col sistema di relazioni fissato dallo spirito sociale, cnde proviene che esso è rigettato come erroneo, come falso, come non rispondente all' ideale della realtà e verità. Con questo, intendiamoci, non sì vuole escludere la parte che la costituzione psichica individuale ha nel determinar: le norme logiche ; così l’unità e l'identità della coscienza rispetto alla molteplicità e diversità dei suoi atti e del suo contenuto, la cos‘anza della sua attività rispetto alle varie direzioni di essa concorrono a far considerare come norma e legge dell’attività psichica un determinato modo di operare che sembra sottratto a variazioni arbitrarie e accidentali. Onde consegue che ammesso il caso che l’unità e l'identità della coscienza non sia conservata o che il sistema di relazioni tra i varii fatti psichici, costituente la continuità di tutta la vita mentale non siasi peranco formato (bambini, stati particolari dello spirito, sogni, ecc.), sì potrà avere un prodotto psichico naturale si, ma non logico, e quindi una violazione delle leggi che furono dette costituire l'ossatura del nostro essere spirituale. Ma la nozione completa di norma coi caratteri che la controdistinguono, tra i quali primeggia l'obbligatorietà, non si sarebbe potuta avere senza la cooperazione del fattore sociale. Da qualunque punto di vista si voglia considerare la natura dello spirito umano, lo si faccia pure identico nella sua origine all’assoluto e al divino, il certo è che a questo spirito il sapere costa sforzo e fatica e che sulle cose a noi bisogna pensarci e ripensarci su, prima di intenderle, La cosa fuori di noi, se reale, diversa essenzialmente da noi, se ideale sta da una bande, il pensiero nostro sta dall'altra. Questa opposizione, almeno immediatamente nella esperienza ordinaria, è innegabile, quando pure si accordi che la speculazione possa perimerla ed annientarla. Ora in un tal distacco della cosa dal pensiero, a questo non riesce d'’acquistare tutta la cognizione della cosa per un atto d'intuito o per una deduzione continua da un intuito primigenio o da una qualunque astrazione ultima. Il pensiero tenta e ritenta, cerca e ritorna a cercare, prova e riprova. La cosa sta lì come a dire immobile; il pensiero, come nota un arguto filosofo contemporaneo, le si agita intorno per ghermirla e farla sua: il che vuol dire per pensarla tutta e rendersela intima. Il prodotto di questo moto del pensiero intorno all'oggetto è la scienza. Un fatto si complesso non è a meravigliarsi che dia origine a problemi diversi. Infatti, si può ricercare : Quali sono i presupposti psicologici e logici di tale movimento del pensiero ; Che cosa nell'oggetto occasiona il detto moto del pensiero ; 3° Come il pensiero riesce a rendersi suo l'oggetto e a pensarlo qual'è; 4° Che cosa è il pensato: che cosa, cioè a dire, è in sè il prodotto mentale di questo moto del pensiero intorno all'oggetto. E dalla soluzione di questi problemi che dipende la de terminazione dell'essenza della legge, Cominciamo dalla discussione del primo. È evidente che il primo presupposto psicologico della scienza è l’esistenza dell'intelletto o facoltà di pensare esplicantesi nel riunire o separare mentalmente i fenomeni secondo certi rapporti (potere di sintesi o di analisi). Come il senso ci presenta il risultato di operazioni aritmetiche e geometriche inconsapevoli sui movimenti esterni, così il pensiero, il quale fu detto la facoltà di confrontare le cose e di vederne i rapporti, con un secondo lavoro ordina ed elabora le sensazioni; la qual cosa fu espressa metaforicamente dicendo che il senso fornisce la trama con cni l'intelletto tesse la stoffa del pensiero. I rapporti stabiliti dall’intelletto sono stati distinti in semplici e composti: come l’analisi chimica ha mostrato che il numero infinito dei corpi naturali si riduce a combinazioni di una sessantina di corpi semplici, i quali potranno forse ancora ridursi ad un numero minore, così l’ analisi psicologica ha trovato che le nostre idee possono ridursi a poche idee elementari. Talchè se i rapporti composti sono in numero infinito, quelli semplici sono pochi: si riducono ai seguenti: rapporto di spazio e tempo (forme dell’intuizione), rapporti di numero (unità e pluralità), di qualità (identità e differenza, di sostanza e di causalità. Come si vede, i detti rapporti si riducono in parte alle categorie. A noi ora non compete di passare a rassegna ì tentativi fatti dai vari filosofi per ridurre il numero di essi e per dare a ciascuno un valore determinato in rapporto alla sua genesi; a noi basta di aver messo in sodo che il pensiero non potrebbe intendere la realtà, se non avesse l’attitudine a stabilire dei rapporti fonda:nentali tra gli oggetti e ad ordinare e classificare questi in date maniere. Un secondo presupposto psicologico della conoscenza scientifica è l’esistenza della ragione propriamente detta, dell’attitudine cioè del pensiero a riflettere, a ripiegarsi su sè stesso, è l'esistenza della coscienza di secondo grado per cuì il fatto psichico concreto viene idealizzato. Mentre gli animali non riescono a distingnere il caldo dalla sensazione del caldo, l’uo.no distingue la parola dal pensiero e il pensiero dalla cosa pensata. Ora ognuno comprende che l’astrazione e la generalizzazione che sono i due principali istrumenti di cui lo spirito umano si serve per fissare l’essenziale e il permanente in mezzo agli accidenti, in tanto sono possibili in quanto esiste la coscienza di $econdo grado. Cosi facciamo un’astrazione quando separiamo mental nente le cose dalle loro qualità : p. es. pensiamo al tringolo facendo astrazione dal corpo triangolare e pensiamo al corpo (cioè ed una estensione tangibile), facendo astrazione dalla sua figura e dalla materia di cui è composto : e facciano una generalizzazione quando riuniano mentalmente in un'idea sola delle cose che hanno delle somiglianze, ossia delle qualità comuni: coll'idea di corpo ci rappresentiamo in qualche modo tutti i corpi nello stesso tempo. Ora è evidente che queste operazioni non si possono fare sulle cose sensibili, ma bensi sulle idee delle cose, sui pensieri; per compiere queste operazioni dunque bisogna sapere che pensiamo. Si aggiunga che è mediante l’astrazione e la generalizzazione che noi possiamo pensare le cose per via di concetti veri e propri, i quali sono come a dire delle presentazioni di cose non imaginabili; infatti sì può immaginare un dato color rosso, ma ciò che pensiamo colla parola colore non è imaginabile, perchè non è nè bianco, nè nero, nè di alcuno dei colori dello spettro. Un terzo presupposto di pertinenza della psicologia e insieme della logica è quello riflettente il criterio dell'evidenza e della verità obbiettiva. Se lo spirito umano non avesse la capacità di far distinzione tra il pensare obbiettivamente necessario e quello non necessario mediante la coscienza immediata dell’evidenza, se esso non potesse differenziare in modo sicuro un giudizio necessariamente ed universalmente valido da uno subbiettivo ed individuale, se insomma il pensiero umano non potesse elevarsìi al disopra dell'esperienza e in base alla permanenza, alla unità e identità della coscienza e in base alle norme che da queste derivano andare in traccia del concatenamento logico delle varie leggi regolanti lo svolgersi dei fenomeni dell’universo, la scienza non avrebbe mai potuto esistere. Ora un tale criterio si trova in ultima analisi nel peculiare sentimento di evidenza che accompagna un dato modo di pensare, nella necessità subbiettivamente sperimentata, nella coscienza che noi abbiamo di non poter pensare diversamente in date circostanze. La fede nella giustezza e nella validità di una determinata maniera di pensare è la base di ogni certezza, onde chi non ha una tal fede non può ammettere veruna scienza, ma solamente un npinare. Sicchè l'universalità del nostro pensiero poggia in ultimo sulla coscienza della necessità, e non viceversa. È evidente quindi che solo il pensiero possiede da una parte la capacità di conoscere e dall'altra la regola per valutare la realtà di ciò che non è prodotto dal soggetto, ma figura come esistenza extramentale. La validità obbiettiva del contenuto del nostro pensiero scientifico è l'effetto della concordanza criticamente stabilita tra le forme del pensiero e quelle della realtà, la quale non è prodotta dall’ attività dello spirito (realtà esterna): da tal punto di vista la verità non figura come concordanza iniziale, primigenia del pensiero coll'essere, sopratutto non figura come armonia tra un atto del soggetto ed una qualità dell’ oggetto, ma bensi come concordanza criticamente giustificata del contenuto del nostro pensiero, reso subbiettivamente certo, con una realtà che almeno in parfe oltrepassa l'attività puramente subbiettiva. Non dalla molteplicità accidentale, dice il Sigwart, del contenuto su cui si affatica il nostro pensiero, ma dall’attività del pensiero stesso deve emergere il criterio della verità . Dall'esame critico che il pensiero fa di sè stesso emerge la convinzione della verità di ciò che è posto necessariamente come reale dal pensiero, la fede nella verità obbiettiva, e invero quale fatto psichico particolare potrebbe condurci al concetto della realtà se non il pensiero che pone sè stesso? L'identità e l’immutabilità delle determinazioni logiche foudamentali rispondono all'unità della coscienza, la quale unità sparirebbe, se le funzioni nelle quali sì esplica non si compissero sempre nello stesso modo. Dopo aver parlato dei presupposti psicologici passiamo a quelli prettamente logici. Questi son dati da quei postulati, da quei principii indimostrabili che se possono essere violati di fatto non lo sono mai di dritto nella coscienza e nella riflessione umana, da quei principii riconosciuti anche dalla logica veri per una forza intima, per un sentimento. Se rifiutiamo infatti i detti principii noi rinneghiamo il nostro stesso pensiero, struggiamo noi stessi come esseri pensanti. Essi fanno la loro comparsa nel pensiero, allorchè questo di fronte al prodotto delle leggi psicologiche (meccanismo interiore) s'accorge che l’ultimo è manchevole, incompleto, non quale dovrebbe essere in rapporto sempre all’ideale dell'attività cogitativa. Ond'è che essi si mostrano dapprima sotto forma negativa e relativa, ossia come esigenze di ciò che manca al prodotto psicologico, di ciò che è ne. cessario per renderlo accettabile. Il processo psicologico, poniaino, ha addotto nel nostro pensiero una contraddizione ? Noi non possiamo accettarla e in questo rifiuto di riconoscerla apparisce la legge logica dell'identità. Tra i detti postulati merita anzitutto menzione quello dell'unità razionale del tutto. Noi nello svolgere le nostre cognizioni procediamo come se tutti gli oggetti si potessero e si dovessero ridurre ad una sistematica unità, comunque non sia lecito asserire dogmaticamente che tutte le cose stiano realmente sotto principii comuni ed abbiano una ragionevole unità. Questa non è richiesta dagli oggetti come condizione assolutamente necessaria e determinata, ma vi è solo presupposta da noi. Però se con un principio trascendentale, come Kant lo chiama, noi non presupponessimo questa unità sistematica come esistente negli oggetti stessi, allora questa non sarebbe nemmeno più possibile, o almeno perderebbe ogni valore anche come principio logico. Nè tale principio trascendentale si può derivare dall'esperienza, poichè la ricerca di quell’unità è per la ragione una legge necessaria: e senza di questa non vi sarebbe più ragione, senza ragione nessuna attività connessiva dell'intelletto, e senza quest'unità niun criterio sufficiente della stessa verità empirica. Per il che noi dobbiamo rispetto a questa considerare quell’unità sistematica come obbiettamente valida e come necessaria. Questa presupposizione dell'unità della natura si trova, notò già Kant, nascosta in molti principii dei filosofi senza che essi talora se ne siano accorti. Cosi il principio logico che ci fa ridurre la varietà degli oggetti a generi determinati, si fonda naturalmente sopra un principio trascendentale, in forza del quale noi presupponiamo sempre una certa uniformità nei variì oggetti dell’esperienza, perchè senza di quell’uniformità non sarebbe possibile nessun concetto e quindi nessuna esperienza. E qui è necessario accennare al postulato dell’ uniformità della natura, il quale si può formulare cosi: in circostanze uguali gli stessi antecedenti sono seguiti dagli stessi conseguenti e reciprocamente. In fondo esso afferma che tutta la natura è soggetta a leggi. Passiamo ora a dire degli altri principali postulati della conoscenza, quali quello d'identità, di contradizione, del mezzo escluso e di ragione sufficiente. La legge d'identità significa in ultima analisi che è possibile fare dei giudizi, i quali abbiano un significato e siano veri : essa quindi, nonostante le differenze riscontrabili nel contenuto di un giudizio, enuncia l’identità o l’unità reale di questo : stabilisce, in altre parole, che l'affermazione sintesi delle differenze riferita alla realtà, è vera. La legge d' identità esprime l’ unità della realtà, in quanto ogni affermazione esclude la discontinuità nel mondo reale, per modo che un giudizio non può essere vero da un lato e falso dall'altro, ciò che è una volta vero è sempre vero senza riserva; la quale può però sempre rapportarsi al contenuto del giudizio. L'affermazione come tale è incondizi onata, cioè non è limitata da condizioni differenti dalla determinazione del proprio contenuto (in relazione al tempo, p. es.), il quale se è vero, è vero senza riserva. Non vi è una realtà di cui una data affermazione sia vera, ed un'’altra di cuì sia falsa. La legge di contradizione è il complemento di quella d'identità, giacchè essa pone la realtà come unità consistente, vale a dire come unità che poggia su sè stessa e le cui parti od elementi si mantengono a vicenda. Ciò che è vero non solo rimane sempre vero applicato alla realtà, ma ha una sfera d'azione estesa, giacchè produce effetti attì a limitare cose che sono prima facie al di fuori della verità enunciata. Inferire dall’affermazione A è B che A non è nox B equivale a dire che A è determinato da B rispetto a C e D. . La legge del terzo escluso è il principio essenziale della disgiunzione, la quale implica l'alternativa assoluta tra due O più membri positivi e significativi. Un dato giudizio e la sua negazione non solo non possono esserè entrambi veri, ma o l’uno o l’altro dev'essere vero e quindi significativo; dunque la negazione implica conseguenze affermative. In tal guisa il principio del medio escluso afferma che la realtà non solo è unità consistente, ma è un sistema le cui parti si determinano reciprocamente. Dicendo che una negazione può menare ad una conseguenza determinata ed esplicitamente positiva, e non soltanto, come afferma la legge di contradizione, che una verità può trar seco conseguenze definite negative, la legge del medio escluso presenta la realtà come un tutto avente la sua ragione in sè stesso. La legge di ragione sufficiente emerge, per così dire, dal punto di vista da cui è stata considerata la realtà mediante le sudette leggi negative del pensiero. Essendo, infatti, la realtà un sistema di parti determinantisi reciprocamente, è chiaro che ogni elemento può essere considerato come conseguenza, effetto, prodotto di uno o di più altri elementi e in ultimo del tutto preso nel suo complesso. Ogni fatto, dice la legge di ragione sufficiente, ha un fondamento o ragione da cuì necessariamente deriva. La necessità però non significa altro che una volta dato l’antecedente, la causa, la ragione è perciò stesso dato il conseguente o l’effetto. Qui è bene notare che l’assoluta necessità è una contradizione în adjecto, perchè ogni necessità è condizionata ex hypothesi all'esistenza del fatto. La necessità di cui si vuol parlare qui è quella reale, che ha il suo fondamento ultimo nel dato di fatto elaborato. dal pensiero, elaborazione che si riduce a porre in relazione un fatto particolare col tutto. Che cosa nell'oggetto occasiona quel moto del pensiero che costituisce la scienza? ecco il problema che ci tocca ora di esaminare dopo aver rapidamente passato a rassegna le varie condizioni subbiettive. É necessario che noì qui facciamo una distinzione tra le scienze che hanno per obbietto il reale, e quelle che hanno per obbietto ciò che può essere o che deve essere, le prime costituendo le scienze esatte o sperimentali, le altre le scienze normative o costruttive, quali la Logica e la Matematica, l' Etica e l'Estetica;e ciò perché il suddetto moto del pensiero è occasionato in modo differente nei due casi : nel primo è in funzione la variazione successiva in qual cosa di unico, il modo costante e regolare di operare di determinate cause, il ritorno ritmico di dati fenomeni sotto date circostanze, nel secondo la constatazione di fatti interiori presentantisi con una forma di necessità che manca ai dati sperimentali. Come si vede, il fatto obbiettivo che agisce, quasi diremmo da stimolo del processo scientifico è diverso a seconda che si tratta di scienze puramente esplicative, ovvero di scienze normative; nè può essere diversamente se si pensa al profondo divario esistente tra i due ordinidi sapere. Il primo ha la sua base nella costanza e regolarità dei fenomeni ed esprime il rapporto di causalità quale si offre all'osservazione e alla sperimentazione esterna, rapporto giustificabile unicamente coi fatti e non significante altro che il modo costante con cui i medesimi fatti avvengono: ed a tal proposito notiamo che anche le cosidette scienze pratiche in quanto prescrivono i mezzi necessari, perchè un dato scopo sia raggiunto, hanno la loro base obbiettiva nella costanza e regolarità dei fatti, giacchè esse in fin dei conti enunciano le regole con cui certi fatti si debbono compiere, regole fondate sopra un ordine particolare di fatti; tale è il caso dei precetti dell’ Igiene, della Dietetica, ecc. L'altro ordine di sapere, che lungi dal rappresentare la semplice generalizzazione. ricavata da un complesso di fatti empirici, esprime l'ideale verso cui tende la conoscenza e l’attività umana, deve necessariamente avere il suo punto di partenza obbiettivo da una parte nelle tendenze, nelle aspirazioni, nelle esigenze primitive dell'anima umana e dall'altra nell’ esperienza scientifica, artistica, storica e sociale dell’ uman genere tutto quanto. Cosi, ad esempio, il carattere proprio dell'obbligazione morale non può esser derivato dalla pura esperienza, dal fatto p. es., che taluni uomini e siano anche molti, si son prefissi questo o quello scopo, ma da una necessità interna indipendente da qualsiasi esperienza e risiedente nella natura propria del soggetto volente, 1n altri termini va derivato da leggi o funzioni a priori dell'essere umano, la interpretazione delle quali può essere ricercata dalla psicologia, ma il cui valore ne dipende così poco come quello delle leggi matematiche o logiche. È vero che recentemente si è cercato di derivare tutte le determinazioni etiche e giuridiche dai cosidetti rapporti bio-etici, dai bisogni sociali e quindi dall'esperienza e non dalla nozione formale della volontà; e non v'ha dubbio che in realtà ogni determinazione giuridica concreta risponde ad uno scopo particolare e che ogni forma di dritto piuttesto che esser sorta originariamente da riflessione filosofica, è sorta dalla necessità di regolare le azioni di una parte grande o piccola della società umana: ma la trasformazione di tale necessità in fatto di dritto, il riconoscere come cosa conforme al dritto e come necessariamente giusto ciò che l’esperienza mostrò rispondente ad uno scopo, e ciò che l’abitudine, mediante le consuetudini, fissò, è cosa che può essere compresa soltanto, tenendo presente la natura morale dell'uomo in genere e non dell'individuo singolo. Il contenuto delle leggi giuridiche e morali, lo scopo a cui esse servono è determinato dai bisogni dell'individuo e della società, ma la loro forza obbligatoria può essere fondata solo sopra una necessità interiore ed universale risiedente nella costituzione propria dalla ragione umana:ragione umana che non si può ridurre ad una funzione dell’individuo, ma va considerata come l'espressione dello spirito umano inteso nella sua universalità, come il riflesso della connessione intima delle anime umane. Le esigenze morali sono una emanazione di quell’elemento della nostra natara che c’innalza al disopra della sfera individuale o subbiettiva. Tale elemento è appunto ciò che chiamiamo spirito, in quanto con questo nome vogliamo ntendere ciò che ci rende atti a riflettere sulle cause e natura delle cose, a godere del bello per sè, e a porci davanti dei fini diversi da quelli riguardanti il nostro benessere individuale. E il sentimento di obbligatorietà, non può sorgere insino a tanto che il ben operare non è stimato qualcosa di necessario all'uomo come uomo, qualche cosa di richiesto dalla sua propria natura e d’implicito in essa, qualcosa che, trascurato, mette in contraddizione l’uomo con sè stesso, insino a tanto cioè che non prende origine in qualsivoglia forma la coscienza della necessità morale. Quello che abbiamo detto delle leggi normative morali può esser ripetuto, mufatis mutandis di tutte le altre leggi normative (logiche, estetiche, matematiche, ecc.) : ond' é che crediamo più opportuno passare al fattore obbiettivo delle leggi esplicative. Queste in quanto causali hanno principalmente il loro fondamento obbiettivo nell’ azione che una cosa esercita sull'altra; azione che in principio è ammessa soltanto quando si osserva continuità spaziale e femporale di movimenti o di altri cangiamenti. La semplice successione di due fatti non esaurisce il significato del concetto di azione, il quale implica il passaggio dell'atto, dell'agire da una cosa in un'altra, producendo in quest'ultima un cangiamento che senza di ciò non si sarebbe mai prodotto. L’idea primitiva vaga e indeterminata che vi possa essere qualche cosa come causa, atta cioè a produrre qualcos'altro ha il suo fondamento in tale concetto dell'agire. Se noi esaminiamo con attenzione le particolarità dei fatti fra i quali intercede in modo chiaro una reciproca azione, noi troviamo che la continuità spaziale e temporale dei cangiamenti svolgentisi nelle cose porge la prima occasione a considerare queste come parti di un unico fatto o processo. Se la vanga penetrando nella terra rimuove le parti ad essa vicine, se la scure divide un pezzo di legno, se la mano, premendo, spinge un corpo innanzi, nol non possiamo rappresentarci l'uno dei movimenti senza l'altro, giacchè per l'assioma che dice che in uno stesso luogo non possono trovarsi simultaneamente due cose, ogni movimento di un corpo richiede lo spostamento dell'altro: e poichè l'impulso e lo spostamento si presentano in intima connessione, è chiaro che l’imagine complessiva del processo è ciò che primitivamente si rende evidente Di esso poi vengono separatamente considerati, in rapporto alla duplicità delle cosein movimento, due fatti, il moto del corpo che spinge e quello del corpo spostato. Emerge chiara così l'idea che l’atto del primo corpo va considerato come continuantesi nel cangiamento del secondo attraverso lo spazio e il tempo insino a che tutto il continuo dei cangiamenti sì arresti. Nell'’azione va ricercato adunque il fondamento reale delle connessioni che la nostra coscienza continua nel tempo e comprensiva nello spazio stabilisce tra due fatti che si congiungono spazialmente e temporalmemente. E allo stesso modo che rispetto ai cangiamenti delle cose singole, noi troviamo che la continuità del cangiamento non permette di considerare cessata d'un tratto l'esistenza di una cosa e iniziatane un'altra, l’avvicendarsi continuo delle sensazioni presupponendo anzi un fondo unico, così la continuazione ininterrotta delcangiamento di una cosa in quella di un'altra è indizio sufficiente che l'atto della prima passa nella seconda, e che quindi in quella risiede il punto di partenza dell’azione. Oltre l’azione reciproca delle cose, in seguito alla continuità spaziale e temporale, fanno parte del fondamento reale ed obbiettivo della legge naturale esplicativa il corso mutevole delle cose, il presentarsi ritmico di un fenomeno, specialmente se questo, non potendo essere riferito all'attività interna della cosa che sì muta e si muove in modo ritmico, deve essere riguardato come prodotto da qualcosa d'esterno ; il cangiamento insomma nelle sue varie forme e colle sue molteplici caratteristiche da una parte e la regolarità e costanza dall'altra. Si aggiunga infine la necessità esistente nella concatenazione dei mutamenti, la quale nell’ inizio si presenta sotto la forma di costringimento esterno subito dall'obbietto dell’azione e poi come necessità interiore proveniente dalla natura propria delle cose. 3° Il terzo problema verte sulla maniera in cui il pensiero riesce a rendersi suo l’ oggetto e a pensarlo qual’ è.. Se l’uomo fosse fornito di una coscienza di infimo ordine i cui atti non avessero continuità psichica nel tempo, ma fossero come chiusi nell'istante nel quale accadono, è chiaro che il pensiero vero e propriò sarebbe impossibile. L'intelletto in tanto può impadronirsi dell'oggetto che gli sta davanti in quanto, distaccato il fatto psichico dalla sua matrice reale, che è poi l’atto del sentire e del percepire, lo trasporta nel campo dell’idealità, vale a dire lo pensa nella” sua essenza o possibilità o quiddità: ora come può avvenire ciò? Quale è il processo per cui un fatto psichico concreto diviene pensabile ? Se l’oggetto è semplice, irriducibile, esso viene afferrato con un atto elementare, e tutto è finito ; non si potrà tutt' al più che ripetere un numero di volte quella medesima percezione; ma se l'oggetto sopra un fondo identico presenta una molteplicità di aspetti, se le variazioni successive di qualcosa di unico si presentano in modo ritmico o in guisa da descrivere un ciclo ripetentesi necessaria- ‘ mente, occorrerà che anche la coscienza né percorra a cosi dire il contorno e lo segua nei suoi scompartimenti e mutamenti. Questa operazione che il Trendelenburg, come si vide a suo luogo, figura come un movimento del pensiero il quale riproduce il movimento generatore dell’ oggetto, rappresenta appunto il processo con cui il pensiero fa suo l'obbietto : processo che da una parte suppone l’azione delle leggi fondamentali del pensiero che sono le forme primitive della coscienza, e dall'altra l'esame dei vari caratteri costituenti il contenuto dell'obbietto stesso. Sicchè il pensare un oggetto equivale a fissarne e a connetterne i caratteri per mezzo delle leggi del pensiero, dal che risulta la determinazione della forma o della legge dell'oggetto stesso, giacchè la legge non è che la forma considerata come mezzo di riproduzione della cosa che ha quella data forma. In altri termini, noi per pensare una cosa, di cui abbiamo avuto una percezione, dobbiamo obbiettivarla, universalizzarla, tra. sformarla in idea, il che può avvenire soltanto, se noi la facciamo divenire centro di un sistema di relazioni fisse e determinate, cioè a dire di relazioni logiche e non puramente empiriche e psicologiche. È per questo che è stato detto che la conoscenza è data dall’appercepire un dato contenuto per mezzo di date forme, dette categorie. La conoscenza in tanto è possibile in quanto una data rappresentazione è messa in rapporto (e di qui la necessità dell'unità della coscienza) con qualcos’ altro, che vale come misura, regola, stregua. Così noi volendo pensare un oggetto, cominceremo dello studiarne i vari caratteri e proprietà, azioni e relazioni, per vedere se attraverso la varietà delle circostanze, la molteplicità dei mntamenti, ci vien fatto di cogliere qualcosa di identico, di stabile e di permanente che valga appunto come misura delle apparenze fenomeniche e che in tal guisa renda possibile la pensabilità dell'oggetto stesso, giacchè non va dimenticato che obbietto dell'intelletto è appunto il fissare l'unoe il permanente attraverso il molteplice e l’ accidentale. Se le cose non presentassero nulla di uniforme, se il modo di aggrupparsi di dati caratteri non fosse costante, se la maniera di succedersi di dati eventi giammai si ripetesse, se insomma le funzioni e le relazioni di ciascuna cosa sì mostrassero dipendenti soltanto da contingenze empiriche e casuae il permanente attraverso il molteplice e l’ accidentale. Se le cose non presentassero nulla di uniforme, se il modo di aggrupparsi di dati caratteri non fosse costante, se la maniera di succedersi di dati eventi giammai si ripetesse, se insomma le funzioni e le relazioni di ciascuna cosa sì mostrassero dipendenti soltanto da contingenze empiriche e casua li, non sarebbe a parlare nè di pensiero nè di scienza. Noi dunque possiamo rappresentarci il processo con cui il pensiero s' appropria l’ oggetto come un moto tendente a determinare ciò che vi ha di fisso in un complesso di fenomeni; per il che i mezzi che devono esser posti in opera saranno quelli di scomporre o analizzare il complesso fenomenico per differenziare l'essenziale dall’ accidentale, unendo insieme l’identico e il simile e sceverando il diverso. È chiaro poi che ciò che agisce come nozione appercettrice (che è sempre una funzione della coscienza variamente eccitata da dati empirici) può divenire in una ricerca posteriore essa stessa obbietto d'indagine, per cuì avrà bisogno di una forma appercettiva di ordine superiore, fino ad arrivare alle forme logiche supreme, oltre le quali il pensiero non può andare. Anche queste però possono formare oggetto di riflessione, tanto è ciò vero che sono considerate quali regole o norme logiche e ciò per il ripiegarsi perpetuo che il pensiero fa sopra di sè medesimo, sicchè al sopravvenise di ogni nuova riflessione pare che quello che ne forma l’oggetio entri allora per la prima volta nel dominio della coscienza. È naturalè che a seconda dell’obbietto verso cui l’intelletto si volge varierà il processo con cui vien conseguito lo scopo che è l’intellezione delle cose. Cusi mentre nelle cosidette scienze normative lo spirito tenderà ad isolare, mettendoli in forma di giudizi, gli elementi intelligibili che sono a così dire incorporati nelle tendenze primitive dell'attività logica, etica ed estetica, nelle scienze esplicative si cercherà di mettere in evidenza sotto forma di giudizi universali i rapporti costanti e regolari in cui si trovano gli oggetti. Nel primo caso si avrà di mira di obbiettivare, di universalizzare, di idealizzare le direzioni fondamentali dell'attività umana, il che può avvenire staccando mediante la riflessione dal fatto concreto la rappresentazione o la forma dell'attività stessa, mentre nel secondo caso si tenderà ad idealizzare, ad obbiettivare ciò che le cose presentano d’identico e di permanente (le loro azioni e relazioni), considerando questo come la causa generatrice dei vari fenomèni appartenenti ad una data categoria. Cone si vede, nel primo caso si universalizza effettivamente il modo di farsi delle cose, mentre nel secondo caso solamente il modo di presentarsi a noi delle cose stesse. Vi è stato chi ha sostenuto che il processo per cui il pensiero può effettivamente far suoi gli oggetti, segnatamente nelle scienze naturali, sia da ridurre al processo con cui vengono stabiliti dei rapporti di eguaglianza, per modo che, stando a tale opinione, allora soltanto si può dire di comprendere una cosa quando può essere stabilito un rapporto di equazione tra quella cosa e qualcos'altro di già noto. A noi sembra che non soltanto per mezzo del rapporto d'identità, ma anche, e sopratutto per mezzo del rapporto di dipendenza si riesca a riconoscere le forme e ì caratteri che valgono a fissare le leggi di dati fenomenf, Riassumendo, noi diremo che il processo con cui il pensiero riesce a far suo un obbietto è quello di andare in traccia delle condizioni genetiche dell'oggetto stesso, mediante la determinazione delle relazioni essenziali (logiche) che esso ha cogli altri obbietti. Pensare un oggetto equivale a considerarne la sua possibilità, la quale è data dalla rappresentazione od obbiettivazione non didati caratteri o di date funzioni, ma dall’obbiettivazione del modo costante di presentarsi dei medesimi caratteri, dall’obbiettivazione della forma regolare permanente che essi presentano. Dal che consegue che effettivamente ogni conoscenza è puramente formale : solamente va tenuto presente che la forma della conoscenza non può ridursi a quella esclusiva dell'equazione. La conoscenza di un obbietto, giova ripeterlo, è data dalla conservazione ed obbiettivazione, mediante la riflessione di tutti i rapporti logici fondamentali considerati a sè, a preferenza dei fatti particolari tra cui intercedono, giusta la determinazione fattane dall'intelletto. Lo spirito umano iu tanto può compenetrare e far sua la realtà in quanto fissa gli elementi costanti e regolari (vale a dire ripetentisi in modo ritmico) in essa contenuti come quelli che valgono a misurare e a valutare gli elementi variabili e accidentali. Quanto più di costanza e di regolarità si riscontra in una cosa tanto più vi ha di essenziale e di razionale, onde si è tratti a considerare l’elemento fisso ed immutabile come ciò che rende possibile, condiziona, genera la realtà concreta e varia nelle sue manifestazioni ed estrinsecazioni. Se non che va notato che se l'intelletto nmano si arrestasse qui non potrebbe dire d’essersi veramente impadronito dell'oggetto, giacchè mancherebbe ancora la prova della necessità dell'elemento costante quale generatore della realtà, prova che si può ottenere soltanto ricorrendo all'esperimento come mezzo appropriato a mettere in evidenza le condizioni essenziali della produzione di un dato fenomeno. Co:ne sì vede, la mente umana per conoscere una cosa deve determinare la natura propria di questa mediante le relazioni d'identità e di condizionalità ; deve dunque cercare nelle cose il corrispettivo delle relazioni logiche, il che può avvenire soltanto determinando e fissando le azioni reciproche delle cose in funzione di quei dati obbiettivi che presentano delle proprietà logiche evidenti, quali lo spazio, il tempo, la quaatità, ond'è che la scienza enuncia le relazioni delle cose da essa rintracciate in funzione di spazio, di tempo, di numero che contengono insieme i due momenti della identità e della differenziazione, dell’attività continua e degli atti per sè esistenti. S'intende che il suddetto processo è proprio delle scienze esplicative, giacchè quelle normative non fanno che estrinsecare, anzi trascrivere in forma di giudizi (massime) le determinazioni dell’attività ed emotività umana, obbiettivando mediante la riflessione e la parola ciò che dapprima è soltanto sentito. È naturale che si possano ricercare i fondamenti e le ragioni delle determinazioni primitive della volontà ed attività umana e in tale indagine le scienze normative non si allontanano dalle altre scienze esatte, in quanto non fanno che dedurre conseguenze da dati di fatto o da principii. Il risultato del moto del pensiero intorno all’obbietto costituisce la scienza propriamente detta, la quale è un sistema logico di leggi, ossia di verità generali. La legge, ecco il prodotto del pensiero riflesso, ecco il mezzo con cui l’uomo pensa e ragiona.Che cosa è la legge? La legge può essere definita nna forma logica, atta a fare appercepire nna data categoria di oggetti non da questo o da quell’individuo, ma dalla coscienza in genere. La legge rappresenta ciò che vi ha d'intelligibile nell'universo, in quanto si considera la possibilità per sè e nonl'esistenza, il was e non il dass. Il rapporto del fatto concreto colla sua legge può essere schematizzato mediante un giudizio il cui soggetto è il fatto concreto e il cui predicato esprime il sistema di relazioni o di condizioni genetiche atte a spiegare e a dare ragione del fatto concreto stesso. Una ragione nota poi è nello stesso tempo una spiegazione ed una premessa, o piuttosto prima una spiegazione e poi una premessa; trovar per induzione la spiegazione di un fatto è trovare quella premessa dalla quale si poteva dedurre il fatto, se non l’avessimo saputo prima. Così la causa del movimento d'un pianeta è nella sua posizione rispetto al sole; la legge del suo movimento è il modo costante con cui si muove; la ragione del suo movimento è una legge generale scoperta da Keplero, mediante la quale (come premessa maggiore) si può argomentare dalla posizione del pianeta rispetto al sole (come da premessa minore) in che modo esso si muove, anche se non lo sappiamo dal telescopio. Le leggi formulano i rapporti esistenti tra le cose, espri mendo le modalità dell'azione di queste e la maniera di connettersi tra loro. Esse però in tanto hannc valore (contrariamente a ciò che gli scienziati specialisti e i dilettanti credono) in quanto simboleggiano, accennano alla natura propria, all'essenza delle cose. Le leggi insomma hanno bisogno di un fondamento reale che le giustifichi e le renda valide, e quanto più esse riescono a manifestare in qualche modo e a far intravedere tale base, che è riposta in fin dei conti nell’interiorità delle cose, tanto più rispondono alle esigenze dello spirito umano, che tende a comprendere e a compenetrare la realtà. Le leggi adunque sono nient'altro che mezzi di espressione dell’intimità dell'essere, ed hanno l’ufficio da una parte di farci orientare in mezzo al continuo divenire ed alla instabilità delle cose facendoci classificare, ordinare e prevedere gli eventi, e dall’altra hanno l’ufficio di rendere possibile la comunicazione e l’intendersi reciproco degli uomini nella ricerca del vero. E quanto più le leggi figurano come segni delle determinazioni primitive dell'attività interiore delle cose come nel caso delle norme logiche, etiche ed estetiche, tanto più esse perdono il carattere di puri schemi per divenire mezzi acconci a farci penetrare nel fondo della realtà. Le leggi naturali, infatti, che d'ordinario s'arrestano a formulare i rapporti esistenti tra le cose senza curarsi dei presupposti di tali rapporti e senza quindi curarsi di penetrare nell’interiorità di quelle, sì presentano come qualcosa di estraneo allo spirito, come qualcosa di manchevole e di provvisorio che esige un completamento. Pertanto le leggi normative appagano il nostro spirito, perchè fondate in modo diretto sull’intimità dell'essere, mentre che quelle esplicative non avendo -un legame evidente coll’ interiorità delle cose, ci lasciano insoddisfatti. Non intendiamo con ciò di scemare il valore o l’importanza delle leggi naturali, giacchè queste hanno sempre l’afficio di schematizzare il corso degli eventi, ma vogliamo soltanto affermare che esse per sè sono insufficienti, onde presuppongono qualcosaltro, un certo concetto intorno alla natura propria del reale. Affermare che accumular fatti e formular leggi debbano costituire gli obbiettivi esclusivi dell'attività dello spirito umano equivale a confessare di non avere un'idea chiara nè della realtà, nè dello spirito e insieme di non aver mai riflettuto sulla natura della legge in genere. I giudizi leggi, costituendo i soli punti fissi in mezzo al fluttuare continuo ed ai cangiamenti molteplici e svariati delle cese, sono i veri legami per cui è resa possibile la solidarietà intellettuale umana, e sono in intima relazione non soltanto colla condotta dell’individuo, ma eziandio colla vita sociale dell'umanità. Per darsi ragione del fascino che le leggi in genere esercitano sulla mente dell’uomo, ‘nonostante la loro manchevolezza nell’esaurire e nel manifestare il contenuto del reale, è bene tenere a mente la profonda analogia e l'intimo legame che esiste tra legge e linguaggio, in quanto questo serve ad esprimere gli elementi della realtà, mentre quella i rapporti tra i detti elementi. Le legge è come a dire una formazione (naturale collettiva, possiamo dire) simbolica, schematica della realtà di second’ordine che completa il linguaggio, formazione di prim'ordine. A tale uopo giova ricordare l'ufficio della denominazione e della parola che trovano il più perfetto riscontro nella determinazione e fissazione delle leggi. La denominazione invero è il mezzo più acconcio affinchè lo spirito passi dalla sfera del particolare a quella dell’universale, stantechè quando la cosa è determinata pel suo nome, essa si colloca per lo spirito nel luogo assegnatole nel gerarchico conserto degli esseri, cioè si subordina alla categoria in cui è inchiusa e si rivela per le attinenze che la collegano agli altri esseri, in una parola apparisce nella sua universalità. Riproduciamo sul proposito le seguenti parole del Lotze: Anche dopo avere osservato un oggetto e le sua proprietà sotto tutti gli aspetti, dopo essercene formata dentro di noi una imagine completa non ci pare ancora di conoscerlo perfettamente, finchè non ne sappiamo il nome. Il suono di questo, (come il semplice formulare una legge a proposito di un fatto, soggiungiamo noi) sembra dissipare tutto a un tratto quell’oscurità E donde mai questa meravigliosa virtù della parola? Non ci basta che la cosa sia obbietto della nostra percezione, essa esiste a buon diritto solo quando fa parte di un ordinato sistema di cose, il quale ha un proprio valore e significato indipendentemente affatto dall’averne noi contezza o no. Se noi non siamo in grado di determinare effettivamente il posto che un avvenimento occupa nel tutt’insieme della natura, il nome (come la legge) ci accheta. Esso è almeno un indizio che l’attenzione di molti altri nomini si è fermata su quell'oggetto che ora viene a colpire i nostri sguardi. Esso ci assicura almeno che la intelligenza universale si è occupata di assegnare anche a questo oggetto il suo luogo determinato in un tutto maggiore. Perciò un nome imposto da noi a capriccio non è un nome: non basta che la cosa sia stata denominata da noi comechessia, bisogna che essa sì chiami proprio così. Lotze, Mikrokosmus. Il linguaggio supplisce in parte all’inevitabile limite dell'’umana attività, stantechè ci agevola a maneggiare e ad adoperare come fossero compiuti e perfetti certi prodotti del pensiero ancora incompiuti ed imperfetti e che non possono giammai uscire da tale incompiutezza e imperfezione. Avvegnachè gli è certo, nota il Bonatelli, da un canto che noi si pensa e si ragiona assai volte con perfetta dirittura e sicurezza per mezzo dei vocaboli senza che ci occorra di svolgere nei loro elementi, ossia di pensare esplicitamente i concetti che a quelli corrispondono e dall'altro è pure un fatto innegabile che il più delle volte non son quei con| cetti, per così dire, se non abbozzati in noi. Il che se è un vantaggio inestimabile per l’uorao, rendendogli agevole e breve un'operazione che altrimenti tornerebbe lentissima e penosa, non è men vero che può essere eziandio fonte di superficialità, di sofismi, di errori e sopratutto di quella vacuità di pensare che è vizio funesto non meno dei filosotanti che dei saccenti volgari che si atteggiano a dottori dei popoli. E qui è il luogo di domandare : Che cosa corrisponde nella realtà alle leggi? In altre parole, le leggi in genere sono un prodotto esclusivo dello spirito umano, ovvero il riflesso di qualcosa di obbiettivo? L'universo è realmente razionale, come lo mostra la scienza, ovvero quest’ultima è da considerare come una fantasmagoria del cervello umano ? È evidente che se le leggi fossero interamente soggettive, mancherebbe ogni criterio della loro applicazione all’esperienza e ogni delimitazione del loro dominio ; non resta dunque che ammettere le leggi quali segni, trascrizioni di: qualcosa d’obbiettivo. E questo non può consistere che nel nesso essenziale esistente tra le varie parti costituenti la realtà, la quale va concepita come qualcosa di organico nel senso che gli elementi costitutivi sono mezzi e fine nello stesso tempo. Dal che consegue che l’intima ragionevolezza che anima il tutto non soltanto tiene connesse le varie parti, ma le fa agire in modo determinato, costante e regolare. Le leggi obbiettivamente considerate si presentano come funzioni di vari ordini di reali aventi un’ estensione maggiore o minore. Non altrimenti che accanto allo spirito individuale si ammette lo spirito collettivo, il quale ultimo senza alcun dubbio determina l'altro, così si devono ammettere nella realtà tutta quanta diversi ordini di unità collettive le cui funzioni costituiscono poi il corrispettivo obbiettivo delle varie leggi, a cominciare da quelle particolari ad andare a quelle universalissime che contengono in sè tutte le altre come loro casi concreti o momenti di differenziazione. Le leggi infatti sì mostrano tra loro in ordine logico, per modo che quando fossero trovate tutte, si potrebbero disporre in tale maniera che partendo dalle più generali si dimostrerebbero deduttivamente tutte le altre. É naturale poi che le varie forme di relazione in tanto sono possibili in quanto in ultimo sono per così dire assorbite in una unità suprema armonica e insieme comprensiva. A misura che le dette unità collettive crescono in complessità e che la vita psichica mediante la coscienza e la riflessione diviene predominante, le dette funzioni perdono i loro caratteri di necessità e d'immutabilità per acquistare quella spontaneità e quello sdoppiamento dell’essere e del dovere che caratterizza le forme dell’attività umana. Sicchè possiamo conchiudere che la legge-essenza ha il corrispettivo obbiettivo nella funzione; ma si potrebbe domandare : nella funzione di chi ? giacchè la funzione, come l'atto, l’azione e la qualità suppongono qualcosa a cui ineriscono o di cui sono una produzione : ebbene, noi rispondiamo che le essenze delle cose vanno appunto considerate come funzioni, atti di un reale d'ordine diverso (d’ ordine più elevato) e questo va alla sua volta considerato come funzione di un reale di ordine ancora più elevato fino a giungere al Reale che tutto in sè contiene e di cui l'universo è funzione. Obbiettivamente l' elemento intelligibile è una cosa sola coll’ elemento esistenziale, il was è inseparabile dal dass, l'ideale è nel reale, sicchè legge e funzione, pensiero ed azioue (se possiamo cosi dire) coincidono; ma mediante l'intelletto umano avviene la disgiunzione, onde è resa possibile la formazione delle leggi esistenti per sè nella mente umana. Dopo aver esaminato i fattori che concorrono alla formazione della nozione di legge, ci sembra opportuno porre sott'occhio un tentativo di classificazione delle varie sorta di legge che nello svolgimento del sapere umano ci si presentano. Noi già per lo innanzi accennammo alla divisione fondamentale delle cosi dette leggi esplicative o dichiarative da quelle normative; ora scenderemo a maggiori particolari, ricercando le principali forme che le suddette categorie alla lor volta possono assumere. E per prima è necessario chiarire il significato logico delle parole osservazione ed induzione, giacchè pare che quando sì dice osservazione si dica esperienza, che tutto quello che è obbietto dell'una sia anche obbietto dell'altra, dal che deriverebbe l'esistenza di una sola specie di leggi qualunque fosse l’obbietto della conoscenza umana. Ora ciò non è nient’affatto esatto, in quanto vi sono delle osservazioni alle quali non è possibile attribuire la qualità di essere empiriche nel senso in cui questa qualità si considera come opposta all'essere 4 priori. Empiriche sono senza dubbio tutte le osservazioni che ci rivelano le proprietà e leggi delle cose esteriori, empiriche quelle che ci mostrano il nascere lo sviluppo e l'intreccio dei fenomeni psichici, empiriche quelle dalle quali apprendiamo la realtà dei fatti storici: epperò la scienza della natura esteriore, la psicologia e la storia sono scienze a posteriori o empiriche, comunque i metodi di dette scienze variino in rapporto alle particolarità presentate dagli obbietti e in rapporto alle difficoltà di esaminare questi ultimi. Ma non sarebbe giusto qualificare come empiriche quelle scienze delle quali sono oggetto o il pensiero, o l'intuizione, o la volontà o l’emotività, diremmo così, in azione, La dimostrazione e l'induzione scientifica in casi siffatti è l'esplicazione della stessa attività di queste funzioni e le conoscenze particolari coincidono coi prodotti particolari di queste funzioni. In tali scienze ha certamente luogo l'osservazione, ma nou si esercita sopra un obbietto estraneo, il quale sia bell'e fatto indipendentemente dall’ attività del soggetto: ogni osservazione in esse non è passiva, ma attiva; è una nuova produzione del fatto osservato che non è diversa dalla dimostrazione e dalla spiegazione scientifica. Ciò accade in quelle scienze che hanno il pensiero come oggetto, cioè nella logica e nel calcolo, in quelle che studiano le funzioni dell'intuizione costruttiva, cioè in quelle che hanno il tempo, le spazio, il movimento come oggetto e in quelle infine che hanno per oggetto le funzioni etica ed estetica dell'anima umana, in quanto ogni fatto etico ed estetico può essere studiato in modo esatto soltanto salendo alla categoria dall'effetto, mediante cioè l’analisi del fenomeno psicologico in cui quell’ effetto consiste. I fatti estetici ed etici non sono, come i fenomeni della natura esterna, indipendenti dal soggetto, ma accadono in esso, sono imaginì obbiettive si, ma passate attraverso il mezzo della coscienza, della fantasia e del sentimento umano. L' induzione etica ed estetica deve analizzare prima di tutto il fenomeno psicologico, perchè esso è il solo criterio sicuro, la sola base positiva per determinare e definire il concetto, In secondo luogo è bene intendersi sul significato della parola induzione. L'induzione scientifica è una sola : quella che da n casi sperimentati conchiude a tutti i casi omogenei possibili, in virtù del postulato della uniformità delle leggi naturali e del principio di causa. L' induzione scientifica non può dunque aver luogo se non per leggi causali, epperò è affatto estranea alla logica, alla atematicam, all’ etica, all’estetica ecc., le cui leggi non sono punto causali. Resterebbero l'induzione per semplice enumerazione e l’induzione descrittiva, ma la prima non ha valore al di là dei casi osservati e quindi è perfettamente inutile nelle summentovate scienze (matematica, etica, estetica ecc.),0 se è adoperabile, vale soltanto ad apparecchiare la materia delle costruzioni scientifiche, può talvolta indicare la via, ma è destituita di qualunque valore di prova. Per ciò che riguarda l’induzione descrittiva, essa è adoperata nella geometria elementare, allorchè la somiglianza di due figure si dimostra dalla loro congruenza; ma in geometria ha un valore diverso da quello della prova empirica; perchè la dimostrazione dell’ uguaglianza suppone la invariabilità e la congruenza dello spazio con sè stesso (come del resto i casi d' applicazione dell’ induzione descrittiva in etica, estetica ecc., suppongono una determinata natura dell'animo umano e la sua identità con sè stesso) che non potrebbero essere dimostrate empiricamente A ciò si aggiunga che le verità matematiche, logiche, etiche, estetiche non sono leggi della natura in quanto sarebbero vere anche se una natura hon esistesse e la loro certezza è indipendente dal numero delle esperienze, onde tutti si terrebbero autorizzati a correggere l’esperienza, se questa paresse in qualche mado loro contraddire. Infine va ricordato che l'induzione non è ritenuta mai prova sufficiente nelle scienze normative: così un teorema che si trovi vero praticamente per una serie di numeri non si ritiene per ciò solo dimostrato e non si estende al di là dei casi osservati. Non si può, come vuole il Mill, il Taine ecc. spiegare la certezza assoluta che hanno le verità del calcolo, col carattere ipotetico di questa scienza; perchè la perfetta eguaglianza delle unità elementi dei numeri non è un'ipotesi, ma una proprietà della natura puramente logica del numero, la quale rende possibile di riferirlo ad uua unità di misura che non è quella di nessuna grandezza reale avente questa o quella qualità, ma l'unità in senso puramente logico. Sicchè noi in base a ciò che precede siamo autorizzati a partire per prima le leggi in due grandi classi: Leggi funzionali (Leggi logiche, matematiche, etiche, estetiche). Leggi causali (Leggi naturali, psicologiche, storiche ecc.). Per formarsi un concetto chiaro delle differenze che controdistinguono le sudette due classi di leggi basta comparare le leggi logiche e matematiche con quelle naturali. L'oggetto della conoscenza, dagli elementi sensitivi in fuori, è una costruzione della quale le idee di sostanza, di causa, di numero sono gli artefici e il principio di contraddizione è la regola e la garenzia di verità: i sudetti principii costituiscono appunto le leggi logiche fondamentali o le categorie dell’intelletto umano. Diconsi infatti categorie quei concetti che sono determinazioni dell'essere perchè sono determinazioni del pensiero, e vieevecsa, che sono impliciti nel pensiero di qualunque ente reale perchè reale e non perchè è questo o quell’ente, cioè perchè sono le maniere necessarie di concepire la realtà. Tali forme del pensiero o categorie sono concetti, da differenziare però da quelli che vengono studiati dalla logica ordinaria e che hanno il loro corrispettivo nelle leggi empiriche o causali. Invero gli altimi sono essenzialmente concetti rappresentativi, mentrechè quelli sono giudicativi; e i concetti rappresentativi sono formati mediante la comparazione o l’analisi dei dati oggettivi delle percezioni e mediante l’astrazione, i giudicativi per contrario sono l'elemento soggettivo della percezione e delle forme così statiche che dinamiche del pensare. I primi sono concetti di oggetti, di classi di oggetti e di rapporti indifferentemente, i secondi sono concetti di rapporti intelligibili ; gli uni hanno un'estensione determinata, gli altri un'estensione indeterminata. L’universalità e necessità dei concetti rappresentativi è condizionata e limitata all’esistenza dei loro oggetti: quella delle categorie si estende quanto si estende l'essere e il pensare; quelli funzionano da soggetti e da predicati dei giudizi : questi possono funzionare soltanto da predicati. L'originalità poi delle leggi o funzioni logiche sì appoggia a ragioni logiche, non psicologiche. Noi conosciamo mediante i concetti, i giudizi e i raziocinii : la materia è data; ma il concepire, il giudicare, il ragionare sono funzioni. E queste funzioni debbono pure avere una forma, perchè una funzione senza una forma determinata è impossibile. Ora quali sono le forme di queste funzioni, cioè quali sono queste funzioni in loro stesse, prescindendo dalla forma logica che rivestono ? Evidentemente se pensare è porre una relazione, le funzioni saranno i pensieri di quelle relazioni, di.natura intelligibile, nelle quali e mediante le quali il pensiero sa e si muove, cioè le categorie. Ora sono questi da repntare daccapo concetti empirici? Se sono, qual'è la funzione mediante la quale sono formati? In breve, se il pensare suppone una materia e una forma, come si può intendere che la forma sia presa da fuori, cioè sia materia essa stessa? Non saremmo da cupo nella necessità di supporre una forma per la funzione di concepirla e così in infinito? Passando alle leggi matematiche, noteremo anzitutto che l’ idea di numero non sorge, come i concetti generali per un procedimento conscio e riflesso del pensiero, ma per un procedimento spontaneo ed inconscio. I teoremi sui numeri ed anche un sistema di numerazione sono, è vero, prodotti, riflessi, ma l'idea di numero pur nascendo all’occasione delle sensazioni e percezioni d'ogni maniera e non perdendo mai il suo significato oggettivo, non esprime mai, neppure per la coscienza più comune, una classe di oggetti reali, un genere sommo, ovvero una proprietà delle cose dello stesso genere di quelle che diciamo qualità. Ed è per questo suo isolarsi dalle cose in virtù di un procedimento non artificiale, bensì spontaneo, pur conservando un valore oggettivo, che si rende possibile alla riflessione scientifica di studiare il numero come un' entità a sè non solo separabile dalle cose, ma completamente indipendente da queste, come un' entità di tal natura che le sue proprietà e leggi si possono trovare e verificare indipendentemente da ogni constatazione che non sia quella stessa di pensarle e di produrre, pensando, tutte quelle analisi e sintesi in cui consistono lo studio che ne facciamo e la scienza che per essa veniamo ad avere. E qui va notato che il fondamento del calcolo aritmetico, che è il sistema di numerazione, ha la sua radice nella funzione sintetica del pensiero formale, senza contenuto qualitativo. Il primo modo di formazione da esso espresso è una sintesi successiva indefinita ; il secondo è una sintesi con una certa norma, per gruppi uguali di unità; ma la norma è puramente arbitraria, perchè non c’è nell'esperienza niente che determini la composizione di un gruppo, per esempio la serie binaria o la decimale. Stabilita nel sistema di numerazione la maniera uniforme di formazione dei numeri, si possono deduttivamente trovare tutti gli altri. I modi composti sono innumerevoli, ma poichè essi sono combinazioni di più modi semplici, suse Pra A o ripetizioni dello stesso modo semplice, l'importante è di determinare questi ultimi. I quali rispetto ad un numero qualunque x sono riducibili alle forme segnenti : a zta,x- a, cr X_ a, x:x,2, Vi, 108.2 (alla base a). Difatti un numero è o somma o ditferenza di un altro numero, quindi le maniere semplici di formazione sono tante quante sono le maniere del sommare e del differenziare. Tutte le maniere di sommare si riducono a tre: addizionare numeri diversi (addizione), lo stesso numero un numero qualunque di volte (moltiplicazione), lo stesso numero un numero qualunque di volte, ma sempre ad esso uguale (elevazione a potenza). Similmente tre sono le possibili forme del differenziere: togliere da un numero un altro numero qualunque (sottrarre), togliere da un numero quel numero di volte che è possibile lo stesso numero dividere (divisione), togliere da un numero uno stesso numero un numero di volte a questo uguale e che lo misuri esattamente (estrazione di radice). Però l'elevazione a potenza e l'estrazione di radice non sono i soli modi possibili del calcolo delle potenze. Il primo risolve il problema di trovare la potenza, data la base e l'esponente; il secondo di trovare la base dato l'esponente e la potenza; resta un terzo problema; date la base e la potenza, trovare l'esponente (logaritmo), cioè dato il prodotto di un numero indeterminato di fattori uguali, e dato il loro valore, determinare il numero dei fattori. È evidente che ognuna di queste operazioni è una funzione e non un'esperienza. Ai sostenitori della teoria empirica si potrebhe chiedere con ragione d’indicare la testimonianza o base sensibile delle idee di radice e di logaritmo. Ma senza dubbio una prova anche più concludente della teoria del numero-funzione ci è data dalle estensioni dell'idea di numero, alle quali conducono le operazioni inverse. Giacchè taluni dei problemi che queste ci propongono si mostrano insolubili col concetto primitivo di numero reale. Cosi, allorchè il numero delle unità sottratte è eguale al numero delle unità dalle quali si sottrae, si ha lo zero, e se è maggiore, il numer negativo. Similmente, nella divisione, il quoziente può essere non un numero intero, ma corrispondere al concetto di un numero posto tra due numeri contigui. E poichè questo può non corrispondere nè a un numero intero, nè a un numero frazionario, nè a un intero unito ad un fratto, cosi rende necessaria un'altra estensione del concetto di numero, il numero irrazionale, il quale non esprime propriamente un numeco, ma il rapporto di due operazioni; la radice di 2 non corrisponde a un numero, ma indica un rapporto di due specie di calcolo, quello di formazione del numero 2, e quello di estrazione della radice. E questa può condurre in casì speciali ad una terza estensione del concetto di numero, perchè se il numero di cui si cerca la radice è negativo, sorge la nozione di numero imaginario, cioè di un numero che diventa reale mediante l'elevazione a potenza. Ora come potrebbero i numeri negativi, irrazionali, imaginari derivare da rappresentazioni empiriche? É chiaro che essi sono funzioni, o più propriamente rapporti di funzioni e che il loro concetto implica che la funzione è materia a sè stessa. Sicchè nel: calcolo il pensiero lavora su dati che sono suoi, come nella logica formale: per modo che il calcolo si potrebbe ben dire, la logica formale della quantità. Il còmpito del calcolo è di concepire la quantità, come abbiamo già visto, ma appunto perchè è rivolto soltanto alla quantità, il calcolo è un pensare estrinseco e meccanico. Hobbes ebbe dunque torto di ridurre il pensare a nume. rare; ed èillogico attribuire alle matematiche una illimitata potenza educatrice della mente. Esse servono soltanto per una parte alla educazione e disciplina della mente, perchè la quantità è la realtà nella sua parvenza esteriore, non nella sua essenza. Ora se noi consideriamo le leggi matematiche in rapporto a quelle propriamente naturali noi troviamo che i due ordini di leggi si presentano intimamente connessi tra loro; e ciò per parecchie ragioni: 1° perchè essendo la quantità una proprietà essenziale della realtà e il numero l'espressione logica della quantità, è naturale che quello che l'intelletto matematico determina col semplice discorso si trovi vero nella realtà; 2° le leggi indagate dalle scienze che hanno per obbietto la realtà essendo leggi causali e le stesse operando secondo leggi matematiche, è chiaro che il calcolo debba essere, astrattamente parlando, applicabile a tutta la scienza del reale. La proporzionalità dell'effetto alla causa, un corollario dell'assioma di causalità, importa che l’effetto è sempre una funzione della quantità della causa e per la realtà spaziale, anche della sua posizione, ond'è che se possiamo determinare con precisione gli elementi numerici dei fenomeni, il calcolo vale come mezzo potentissimo per discendere dalle cause agli effetti o per risalire da questi a quelle. Esso non solo formula Je leggi naturali, ma le connette altresi e non solo sintetizza le altre parti della matematica, ma anche le scienze della natura e non appena si può adoperarlo completamente cangia il carattere di queste, trasformandole di induttive in deduttive. Se non che qui va notato che in tale funzione sintetica si trovano due limiti, uno nella possibilità molto limitata finora di determinare gli elementi numerici dei fenomenìi; un altro nella piccola potenza sua rispetto alla crescente complessità dei medesimi. Non basta. Le leggi matematiche non possono essere identificate con quelle naturali anche per altre ragioni. Le leggi numeriche, essendo puramente formali, sono le più remote che si possano imaginare da ciò che diciamo natura ed essenza Per es. le leggi: la forza viva è uguale al prodotto della massa per la velocità; il momento statico della leva è uguale al prodotto del peso per la lunghezza del braccio di leva; la grandezza del moto uniforme è uguale al quoziente dello spazio per il tempo; nel moto accelerato gli spazi sono come i quadrati dei tempi, ecc., sono leggi di rapporto geometrico le prime, di rapporto di potenze l’ultima: ma in nessuna di esse la legge aritmetica vale a dare ragione del fatto, ma soltanto a formularlo nel modo più esatto. Non basta che il calcolo formuli e connetta le leggi della natura per dimostrare che la natura ha essenza numerica; la dipendenza che il calcolo dimostra trala egge di Coulomb sull’attrazione e repulsione dell'elettricità positiva e negativa, e la legge elettrostatica, secondo cui l’ elettricità nei corpi conduttori come i metalli si raccoglie tutta alla superficie : la splendida applicazione della teoria delle funzioni ellittiche nella meccanica e tutta la fisica matematica provano bensi che la natura obbedisce a leggi numeriche, e che conosciute queste, la scienza della natura si può cangiare da induttiva in deduttiva, ma non provano punto che le leggi della natura sono conseguenza delle leggi dei numeri. Se anche fosse realizzato quell’ideale di conoscenza scientifica che il Du Bois Reymond chiama astronomica, se cioè tutto quello che è e accade nell’universo fosse completamente rappresentato da uno sterminato sistema di equazioni differenziali simultanee, questo sistema sarebbe uno dei sistemi possibili e non avrebbe altra realtà che la realtà di fatto; sarebbe impossibile dedurlo dalla essenza numerica della realtà, epperò non ne darebbe la prova. La metafisica numerica non potrebbe trovare la sua prova sufficiente nella funzione sintetica che il calcolo esercita o può esercitare in ogni dominio di scienza se non quando il sistema delle idee numeriche e il sistema della realtà fossero affatto coincidenti, ovvero quest'eltimo fosse parte di quello e trovasse nel tutto considerato come sistema di entità numeriche, la ragione del suo essere non solo cume parte della scienza del calcolo, ma come realtà e natura. Ora è vero perfettamente il contrario : il calcolo spazia e può spaziare molto più largamente della natura; questa, ad esempio, non conosce né il sistema di numerazione dell’ aritmetica elementare, nè gli spazi ad ” dimensioni della geometria superiore. Verifica bensi sempre delle leggi numeriche, ma la ragione di verificarle non è nelle stesse leggi dei numeri, ma nelle proprietà e nell'intreccio delle cause del reale. Neppure una Raqione matematica assoluta alla quale tutte le proprietà e le leggi dei numeri, tutt il sistema compiuto delle verità numeriche fosse presente, potrebbe dedurre da questo assoluto sapere non diciamo il sistema della realtà, ma una sola legge reale. A. ciò si aggiunga che leipotesi ultime nelle scienze naturali hanno in sè sempre dell'arbitrario, del non ispiegato e che il carattere scientifico nella spiegazione dei fenomeni della natura consiste appunto nella riduzione e limitazione dell’arbitrario e del non ispiegato. Così l'inerzia e l’attrazione, le due propietà fondamentali della materia nella fisica moderna, sono esse stesse inesplicabili. Per ispiegarle e in generale per fondare una teoria fisica su principii che non solo non siano ipotetici, ma reali e necessari, bisognerebbe ricorrere ai principii e teoremi della logica e matematica ; se non che dedurre da principii puramente formali, come son questi, una dottrina fisica sarebbe come se un architetto intendesse innalzare un edificio con le sue cognizioni di meccanica pratica, senza il materiale occorrente. Di contro alle leggi logiche e matematiche sono quelle naturali o causali. Queste sono generalizzazioni esatte, non approssimative. appuntoin quanto hanno il loro fondamento in un rapporto causale. Fu detto che bisogna distinguere tra la necessità di una legge causale empirica e la necessità della legge causale in genere, la prima non essendo mai assoluta come la seconda: ora è vero bensi che di una legge empirica di casualità si può pensare che avrebbe potuto anche non essere o essere altra, ma solo in un altro ordinamento della natura. Poichè questa è intessuta e dominata nel tutto e nelle singole parti della legge di causa, tutto è in essa dipendente e determinato; onde per pensare che qualche cosa possa accadere diversamente, bisogna pensare che tutto l'ordine di natura muti. Se non si pensa questo e nondimeno si pensa come possibile un fatto contrario ad una legge, non è negata soltanto una legge empirica, ma la stessa legge causale logica che può essere appunto enunciata anche cosi: che cause simili producono in condizioni identiche effetti simili. Del resto l’éssenza della legge naturale viene abbastanza bene lumeggiata dal concetto del caso, il quale implica la negazione della legge vera e propria e non della causa. Il concetto della caso, infatti, non è in realtà così opposto al concetto di causa, come pare a prima vista. Nel pensiero comune pare che sia, perchè diciamo casuale quello che non possiamo ridurre ad una legge e ad una causa; nascendo dall’ ignoranza della causa, il caso sembra tutta un’ altra cosa da essu. Ma se si riflette, si vede che invece di essere una negazione, è una conferma della funzione necessaria dell’ idea di causa nella conoscenza: il principio ignoto sì sostituisce al principio noto che manca. In logica poi il casnale è definito come un fatto di coincidenza di fenomeni, che non si può elevare a legge. Taluno esce di casa e incontra un amico o gli casca una tegola sul capo, sono queste coincidenze casuali, perchè non si può dire che cosi avverrà anche pel futuro La teoria del caso come incidenza delle serie risale ad À ristotile che primo lo defini a quel modo. È infatti se una sola serie causale esistesse, il casuale non sarebbe possi bile; ma perchè le serie causali sono innumerevoli e sì svolgono contemporaneamente, è possibile che ue coincidano due o più. Così definito, il caso non è in contraddizione con la causa, perchè non soltanto ciascuna delle serie in: cidenti è determinata in ogni sua parte, ma è determinata anche la loro coincidenza. Difatti, perchè coincidano, le loro direzioni debbono formare un angolo, e perchè coincidano piuttosto in questo che in quel punto debbono formare determinati angoli. Dunque il casuale é effetto di un doppio rapporto causale, di quello che determina i fenomeni coincidenti ciascuno nella sua serie e di quello che determina la loro coincidenza. Questa seconda determinazione causale non è per lo più una costante e nonè mai una legge, non dipende cioè dalla natura e qualità delle serie, ma dal loro essere insieme. Adunque il casuale può definirsi: una coincidenza che non autorizza l’inferenza d'una uniformità che sia una legge causale . La definizione è dello Stuart Mill, il quale la spiega e chiarisce cosi. La coincidenza si dice casuale quando i fenomeni che coincidono non sono effetti l’uno dell'altro, nè effetti della stessa causa, nè effetti di cause collegate da una legge di coesistenza, (cosi le leggi di Keplero non sono casuali, perchè dipendono dall’azione combinata della forza contripeta e della tangenziale necessariamente coesistenti nel sistema solare); nè effetti di una determinata proporzione delle cause che i logici inglesi dicono collocazione (p. es. non è casuale la varia velocità dei pianeti per ciascun punto delle loro orbite, perchè dipende dalla varia collocazione o rapporto delle forze contripeta e tangenziale). È necessario aggiungere poi che vi possono essere delle coincidenze uniformi e prevedibili, le quali nondimeno sono casuali appunto perchè l’uniformità in tal caso non è l’espressione di una legge causale: es. i fatti umani coincidono l1 4 16 12 12 ©” 10 19 13 7 838 7 141 10 19 5 In ordine alle cause che determinarono la loro chiusura in Casa di custodia vanno distribuiti nel modo seguente: Per assassinio 1. Per incendio (10 volte) 1 individuo di 141 anni. Per ferimento 2 (uno involontario), Per atti contro il buon costume 1. Per furto 30, dei quali uno dell'età di 11 anni, recidivo per .7 volte. Per ozio e vagabondaggio 16. Per discolaggine 38. Gli 89 giovinetti ricoverati nell’Istituto di Beneficienza vanno distribuiti per età nel modo che segue: Di anni 10 11 bambini Di ann i15 10 bambini lil 8 16 13 12 14 17 7 13-- 7 18 5 2a 14-12 19 2 Di essi, 34 andavano a scuola e 55 passavano le ore del giorno in diversi opifici della città per apprendere ciascuno il mestiere che gli garbava. Per ciò che riguarda i caratteri fisici od antropologici diremo che quelli raccolti non ci autorizzano a trarre alcuna conclusione definitiva. C'è stato chi un pò affrettatamente ha negato ogni valore all'esistenza dei caratteri esteriori; e certamente il limitarsi all'esame di soli tali caratteri è un difetto, giacchè essi non sono che l’espressione, l'estrinsecazione delle anomalie interiori. La loro esistenza rappresenta un éulizio più 0 meno sicuro e non altro, di un disturbo nell’euritmia morfologica e fisiologica dell’organismo preso nel suo insieme e la loro mancanza certamente non autorizza ad affermare sane le condizioni morali e mentali dell'individuo; onde non è lecito destituire d'ogni valore la ricerca di detti caratteri esterni. Nei 178 giovanetti esaminati non riscontrai in alcun modo caratteri degenerativi speciali per numero, qualità o grado; non posso dire, in altr? parole, di aver trovato che la curva dei caratteri anormali morali e psichici in genere coincidesse perfettamente con quella dei caratteri fisici anormali, ma posso però asseverare con convinzione che l’esistenza di questi ultimi caratteri deponeva, accennava quasi sempre a particolari condizioni ereditarie, siano queste morbose semplicemente (pazzia, alcoolismo, turbecolosi, ecc.), o anormali dal punto di vista sociale (tendenze antisociali dei genitori p. es.) e per conseguenza ad una predisposizione generica allo sviluppo di uno stato psichico anormale. Passando all'esposizione dei risultati forniti dall'esame psichico diremo che la più parte di tali giovanetti pur essendo andati per parecchi anni a scuola, a mala pena sapevano leggere e scrivere. Pochi giungevano a fare una moltiplicazione. L'attività dell'attenzione era debole in quasi tutti. La debolezza della memoria del tempo era quella che sì constatava più frequentemente ; pochi, cioè, sapevano ripetere l'ordine di successione di avvenimenti loro occorsi da poco tempo. Il pudore difettava nella più parte di essi. Rarissimamente si trovava quel senso di soggezione che molti bambini bene educati mostrano al truvarsi per la prima volta dinanzi a persone di età maggiore. La più parte mancavano di volontà ferma e persistente. Una tendenza molto diffusa era quella di negare ogni cosa: il no era il monosillabo che più prontamente e più frequentemente veniva da loro pronunziato. Molti s'emozionavano facilmente, ma passavano con pari facilità dal pianto al riso come da qualunque emozione alla sua contraria. Il contegno appariva ordinariamente scomposto, prendevano le pose più strane e nei movimenti erano per lo più goffi e sgarbati. Erano in genere noncuranti della persona e della pulizia. Parlavano soventi in modo laido: spesso si lanciavano a vicenda delle amare invettive e si davano dei sopranomi. C'era una certa gerarchia fra di loro; ci erano i capi, i potenti e i seguaci, i deboli. Predominava lo spirito di ribellione a qualunque obbedienza. Il carattere però che spiccava sopra gli altri era indubbiamente l'egoismo inteso nel senso più stretto. Pur di fare il loro comodo, pur di fare paghe le loro brame erano pronti a tutto osare. Per loro l'io era il centro dell’universo: al di fuori del proprio io nulla poteva destare il loro interesse. Non solo non mostravano di sentire affetti oltre l'inclinazione al soddisfacimento delle loro basse voglie, ma rimanevano sordi a qualsiasi lamento, freddi a qualunque soffererenza degli altri. Avevano quindi ciò che d'ordinario si dice istinto della malevolenza, godendu dei dolori degli aitri, e mostrando di provare un intenso piacere a far dispetti ai compagni ed a martirizzare i più innocui. Appar.va, è vero, in loro, un certo spirito d’associazione, in quanto parecchi tandevano ad unirsi per forinare combriccole : ma il cemento di tali unioni non era l’ aftetto reciproco, disinteressato, non lo scambio di idee e di emozioni, non il sentimento dell'unità di natura su cuì soltanto può essere fondata qualsiasi forma di vera solidarietà, bensi la tendenza ad appagare le proprie voglie, il bisogno di dominare, la smania di usare prepotenze. Erano, infatti, i grandi, i forti che cercavano di circondarsi dei piccoli per poterli fare loro istrumenti e per potersene servire a loro agio. I piccoli e i deboli d’altra parte li subivano, perchè non avevano l'energia di reagire e di ribellarsi e perchè trovavano il loro tornaconto ad essere protetti, ed a rimanere sotto l'egida dei capi. E tale asserzione vien comprovata dal fatto significantismo che non fu mai possibile osservare un segno di generosità o di abnegazione. Erano capacissimi di accusarsi a vicenda presso il Direttore, sempre però di nascosto e in segreto, il che depone della loro vigliaccheria. E se si presentava il caso che per un fatto qualunque fosse minacciata di punizione una classe intera, dato che non si riescisse a conoscere il colpevole, non accadeva mai che questi si svelasse confessandosi reo, non fosse altro per non far soffrire i suoi compagni. Era sempre una massima quella che dominava : ciascuno per sè. Per ciò che riguarda i sentimenti estetici sì può dire, per quanto le condizioni miserrime in cui tali ragazzi sono ordinariamente mantenuti autorizzano a dirlo, che questi mentre presentavano poca attitudine per il disegne, con una certa frequenza mostravano invece attrattiva per la musica. Giova osservare che lo svegliarsi in essi delle tendenze estetiche, fossero pure elementarissime, coincideva col miglioramento del loro carattere morale. Dove si potè avere propriaraente il riflesso della loro anima fu nelle corrispondenze reciproche, avendo essi una straordinaria tendenza a scrivere delle lettere, dei biglietti che per mezzi svariati giungono a destinazione. Circa le caratteristiche della loro scrittura non fu possibile pronunziarsi in modo positivo, giacchè le ripetizioni, i tremori, ecc. provenivano da ignoranza. Qualche rara volta poì si notò la somiglianza della loro scrittura con quella dei vecchi. Si osservaruno molte cancellature, molti errori dipendenti da disattenzione. Erano rare le asteggiature dritte e decise, abbondavano le curvature e le paraffe; sopra uno stesso pezzo di carta spesso si notava la tendenza a scrivere la medesima cosa in diverse guise, prima in lungo, poi di traverso, prima con una specie di caratteri e poi con un'altra; e di frequente le parole, specie i nomi propri, erano circondati da ghirigori e nella scrittura erano imitate le lettere a stampa. Si notò pronunziata la tendenza a servirsi di simboli più o meno strani per non essere intesi, come anche di altabeti convenzionali. Qual’era il contenuto di quelle lettere? L’amore. Si è già di sopra fatto cenno della loro tendenza all’o. scenità, ma i casi di una degenerazione sessuale vera e propria sono in genere rari. Si direbbe a prima giunta che l'inversione sessuale formi uno dei caratteri che contradistingue i corrigendi, ma, per giudicare rettamente, bisogna tener presenti le condizioni strane, stranissime in cui sì trovano agglomerati tali giovinetti, proprio negli albori della loro vita sessuale. Se per un momento pensiamo a ciò che accade non raramente in taluni dei nostri collegi, ci convinceremo che non si può parlare nel maggior numero dei casi di una degenerazione sessuale congenita, ma di un vizio acquisito, transitorio, dipendente dalle condizioni di antigiene sociale in cui quei ragazzi sono allevati. I grandi vivono coi piccoli, i buoni coi cattivi: che cosa c'è da aspettarsi? La dilatazione della macchia del vizio. Del resto a questo proposito è bene notare che sulla natura e caratteri dei così detti vizii od appetiti congeniti bisogna intendersi bene, giacchè non sì deve credere (toltine i casi di malattia mentale e di degenerazione vera e propria) che l'individuo nasca con un determinato vizio : ciò che in realtà si eredita è la predisposizione, vale a dire il bisogno vago ed indeterminato di procurarsi un dato ordine di piaceri: ora tutto ciò non implica nulla di fatale e di necessario : fornite Je condizioni opportune, vale a dire un’educazione morale intesa a spingere l’individuo coll’esempio, coll’abitudine, colle suggestioni appropriate, a cercare l’appagamento di quel tale bisogno in modo lecito e voi avrete trasformato una tendenza al vizio in una tendenza alla virtù o almeno avrete arrestato lo svolgimento di quel germe che o dall’eredità o da altra influenza malefica era stato deposto nella psiche di un giovinetto. Citerò un esempio concreto per essere più chiaro. Un fanciullo, poniamo, perchè discendente da individui affetti da quel vizio funesto che è l'inversione sessuale, viene al mondo con una certa tendenza vaga ed indeterminata a compiacersi (nient'altro che compiacersi) della compagnia di dati individui del suo sesso: se verrà educato in modo che da una parte i suoi bisogni sessuali trovino la loro soddisfazione in maniera normale e che dall'altra l’azione del volere sociale su lui abbia per risultato di farlo rifuggire dal solo pensiero di ciò che è meno che conveniente in rapporto alla condotta verso i suoi compagni, come fatto oltremodo abbominevole, cosa accadrà? Che la primitiva attrattiva verso gl’individui del proprio sesso piuttosto che dar luogo al vizio, si trasformerà in un sentimento nobile ed elevato qual: quello dell'’abnegazione, dell'amicizia vera e profonda, della generosità e via di seguito. Lo stesso dicasi di tutti i vizi, di tutte le abitudini malsane: esse non vengono ereditate bell'e sviluppate, fisse e rigidamente conformate, ma quali predisposizioni, quali esigenze, quali tendenze che possono essere dirette al bene come al male. Come si vede, tutto ciò è da tenere a mente per formarsi un concetto esatto non solo della genesi dell’immoralità, ma anche della portata dell'educazione morale nei bambini. Notiamo fin da ora, comunque avremo agio diritornarvi sopra più tardi, che l'insorgenza e la fissazione delle tendenze immorali in tantosono possibili in quanto il volere sociale o non agisce o agisce in modo non appropriato sul volere individuale : il segreto dell'educazione morale sta tutto qui, nello stabilire la necessaria comunione dello spirito individuale con quello della società. E naturale poi che i caratteri psichici antisociuli in genere sì trovino riuniti nei cosi detti cattivi soggetti (pochi per fortuna, una diecina su 150), nei quali i germi dell’immoralità sono abbastanza sviluppati. Questi hanno tutti i vizi, son bugiardi, ipocriti, testardi, prepotenti, irruenti, maneschi, svogliati e formano la disperazione dei superiori. Uno di questi p. es. ha solamente 10 anni, ma già fin dall’età di 8 anni ne faceva di tutti i colori; non è buono a imparar nulla; va a scuola da 2 anni ed a mala pena sa leggere; non ha nozione dell'anno e del mese in cui siamo; passa da un'officina all'altra senza riescire a trovare un mestiere che gli garbi. Nè è a pensare che sia sfornito d'intelligenza, chè anzi si rivela abbastanza svegliato. Le punizioni e gli avvertimenti in qualunque maniera fatti non hanno presa sul suo animo. Un altro a 10 anni diede mentito nome alle guardie. Un terzo che presenta un aspetto di una dolcezza serafica ha percosso varie volte la madre. E mì fermo, perchè non vedo l'utilità di fare l’'enumerazione di tutte le deficienze morali che si possono riscontrare. Aggiungerò solo che tali tipi cattivi sì fanno conoscere fin dalla prima età. *# # * Esporrò ora i risultati ottenuti dall'esame psicologico praticato sugli 89 giovinetti chiusi nell'Istituto di Benificenza. Non mi fermerò molto sulle somiglianze che l'esame rivelò tra i caratteri psicologici dei corrigendi e quelli propri degli orfani per fissare l’attenzione massimamente sui caratteri differenti. Per ciò che riguarda le somiglianze dirò che negli 89 orfani riscontrai nelle medesime proporzioni e, direi anche, nel medesimo grado, se a ciò mi autorizzasse la circospezione di cui bisogna circondarsi ne'l'emettere giudizi circa l’intensità dei fenomeni morali, i caratteri della fisonomia, la tendenza al riso smodato e senza causa proporzionata, le tendenze all’oscenità, agli abusi del vino e del fumo, la frequenza nei disordini del l'attenzione e della memoria, l'indifferenza per la famiglia e la diminuzione dell’intelligenza. Con frequenza press'a poco eguale riscontrai la rapidità del passaggio da uno stato emotivo al suo contrario, la mancanza di pudore, la furberia, l'irascibilità, l'arroganza, la tendenza all’ipocrisia, ed a mostrare di comprendere più di quello che realmente comprendessero coll'apparire noncuranti della religione, degl'insegnamenti che venivano forniti dai preti, ecc. Accanto a questi caratteri simili sì possono porre dei caratteri differenziali, quali 1 seguenti: 1° il numero maggiore di quelli che coll’ età sogliono migliorare; molti che fino all’età di 15, 16, 17 anni erano giudicati cattivi, raggiunta tale età, divennero buoni: 2° la poca frequenza con cui sì nota il contegno scomposto e la trascuratezza nella pulizia della propria persona: 3° la mancanza di ogni tendenza alla ribellione, a fare delle combriccole, ecc.: 4° l’assenza di quell’egoismo ributtante che si notò nei corrigendi : tanto è ciò vero che non c'è caso di poter strappare una confidenza, una confessione ad uno di loro, sia pure il più semplice, a danno degli altri: 5° la tendenza meno pronunziata a cambiar mestiere, a mostrarsi svogliati ed a rimanere nell’ozio. Ora di questi caratteri dovendo ricercare l'origine, diremo che alcunì di essi evidentemente dipendono dall’organizzazione diversa del Ricovero di mendicità, rispetto alla Casa di custodia che pare costituita a posta per sviluppare le tendenze antisociali meno accentuate, ma altri dipendono dall’ indole propria dei corrigendi. Esistono adunque, sì può qui domandare, dei caratteri psicologici originari, primitivi, i quali controdistinguono il candidato all’immoralità ed alla delinquenza, facendone un tipo a parte, per modo che chi ha la sventura di sortire da natura caratteri psichici cosiffatti inesorabilmente, fatalmente è destinato alla delinquenza ? Per rispondere a tale domanda fa d’uopo tener presente l’enumerazione dei carat. teri psicologici già fatta, per vedere quali sono i più costanti, i.più universali ed anche i più importanti dal punto di vista cell’interesse della società. Ed in tale disamina fa d’uopo scegliere i caratteri anormali prettamente originari come quelli che sono del più alto significato : così gli atti di malevolenza per sè, senza tener conto dei motivi e della loro genesi psicologica non ci autorizzano a fare un tipo a parte dell’individuo che li compie. *% *% % Se noi ben riflettiamo sulla psicologia dei candidati, diciamo cosi, al vizio ed alla delinquenza e sulle cause che determinarono la loro chiusura in Casa di correzione, ci accorgiamo subito che le note psicologiche veramente caratteristiche si riducono alle seguenti : 1. Tendenze anormali (tendenza a rubare, a incendiare ecc. ). Deficienza dell’intelligenza. 2. Tendenza all’ozio. 3. Tendenza alla menzogna. 4. Deficienza della simpatia quale fondamento dello spisito sociale. | b. Assenza di spirito sociale. 6. Insubordinazione. Mancanza di disciplina e di rispetto e quindi impossibilità di apprendere. 7. Assenza di poteri inibitori e quindi debolezza della volontà. La discussione intorno all'origine di tali caratteri mostrerà fino a che punto possono essere considerati come congeniti o come acquisiti sotto condizioni determinate. Prima però di cominciare ad occuparci partitamente di cia scuno di essi notiamo che nei casi concreti lungi dal presentarsi isolati appaiono variamente intrecciati e fusì insieme; Non potendosi ridurre la psiche ad un fascio di facoltà e di attività giustaposte, non dobbiamo aspettarci di trovare l'alterazione isolata, poniamo, degli istinti o delle tendenze o dell’emotività e non dell’intendimento : gli stati e le modificazioni delle varie attitudini intimamente compenetrate tra loro si devono necessariamente influenzare reciprocamente, producendo soltanto un risultato complessivo differente a seconda della potenza psichica alterata in modo più accentuato. È indabitato che parecchi, molto precocemente e molto insistentemente, nonostante le punizioni loro inflitte, mostrano tendenze speciali al furto, all'incendio, al suicidio, all’assassinio : non altrimenti che molti altri mostrano una deficienza notevole nelle facoltà intellettuali. Individui di tal fatta sono certamente dei psicopatici e la ricerca accurata dell’ anamnesi individuale ed ereditaria, qui soprattuto necessaria ed indispensabile, ci darà dei lumi in proposito. Un individuo che all’età di 14 anni è già stato incendiario 10 volte, che interrogato sugli atti da lui commessi, risponde che ve lo spinse il diavolo, che si mostra impulsivo, dedito a tutti i vizii, svogliato, è giudicato molto presto uno psicopatico. Se non che individui siffatti, i quali si potrebbero dire candidati al manicomio, si presentano di raro: e le tendenze veramente morbose (cleptomania, piromania ecc.) non sì osservano con molta facilità nei bambini, ond'è che bisogna andare molto cauti nel pronunziare giudizi di tal fatta, tanto più se si pensa che i reati che più spesso vengono commessi dai bambini e per cui gran parte son chiusi in Casa di custodia, sono i furti. Ora, se la cleptomamia è indubbiamente morbosa e rientra nell’orbita della psichiatria, la tendenza ai furti ordinari (tra le due vi è un abisso, se si pensa ai caratteri differenziali esistenti, e basta accennare solo di passaggio all'assenza di qualsiasi veduta d'interesse nel caso della cleptomania) è in rapporto colla cattiva educazione e col cattivo esempio avuto nella propria casa e fuori o colla mancanza di qualsiasi forma di educazione, è in rapporto colla miseria e cogl’incitamenti a rubare che i bambini ricevono molte volte dai proprii genitori, dai compagni, ecc. Avendo io ricercato con molta cura le cause dei furti commessi dai minorenni corrigendi, mi son dovuto convincere che la più parte di quelli non sono imputabili ai minorenni stessi, ma alle loro famiglie ed alla società in cui sono nati ed educati. È indubitato che molte caratteristiche dei corrigendi trovano la loro origine e sono fondate sulla tendenza all’ozio e al vagabondaggio. Qual'è la base di questa ? Essa è una delle espressioni, uno dei segni di quella debolezza, di quella incoordinazione e di quel sussecutivo disgregamento dell’unità della vita psichica che costituisce il fondo su cui germogliano le varie tendenze immorali. Noi sappiamo che tutti gli organi normalmente costituiti sì trovano di solito, ma in modo senza confronto più accentuato prima della funzione, in uno stato di tensione che figura come l'esponente della forza ir essi accumulata; è chiaro che quanto maggiore e la energia in essi contenuta, tanto maggiore sarà la tensione in cui essi si troveranno, tensione che subbiettivamente si rivela come bisogno di mettere in opera le proprie risorse, come bisogno di lavorare. E tuttociò appare evidente non solo nel tono dei muscoli, ma eziandio in tutti gli apparecchi fisiologici e quindi anche nel sistema nervoso. Dato che questo si trovi in uno stato di debolezza dipendente da cause svariate, p. es. dalla insufficiente nutrizione, dal poco o inadatto esercizio ecc. : per modo che in esso sia di molto difficoltato l’accumulo delle forze da una parte e la possibilità dall'altra di dirigerle e di farle convergere tutte ad un dato scopo, si comprende agevolmente che in tali condizioni debba manifestarsi la tendenza all'ozio. La debolezza dell'organismo in gen ere e del sistema nervoso in ispecie si renderà palese massimamente call’impossibilità a persistere in un dato lavoro, coll’incapacità a fissare e a mantenere l’attenzione sopra nn dato obbietto. Gli oziosi sono distratti, svagati, disordinati, incostanti, perchè presto sì esauriscono. Volgarmente si ritiene che alcuni individui divengono presto stanchi perchè sono oziosi, ma è vero proprio l'opposto. La tendenza all’ozio adunque va riferita ad uno stato anormale dei centri nervosi per cai la loro capacità nutritiva non è tale da permettere l’accumulo di forza di tensione indispensabile al lavoro persistente e vantaggioso. Si può rimediare in qualche modo ad un tale stato di debolezza? Certo rafforzando l'organismo e segnatamente il sistema nervoso, e più di tutto, mettendo in opera i mezzi atti ad operare come potenti stimoli alla funzionalità intensa e insieme regolata dei centri nervosi stessi, si potranno ottenere dei vantaggi. Qui l'educazione bene intesa, l'esercizio, l'esempio, la rimunerazione equa, la messa in gioco dell’ amor proprio e il rendere le condizioni della vita tali che rendano possibile la nutrizione e lo sviluppo degli organi, produrranno senza dubbio il loro frutto. Se non che non bisogna troppo illudersi sui risultati che si possono ottenere, nè esagerare l’uso e la portata dei mezzi che si mettono in opera. Agire sui singoli individui puramente e semplicemente non basta: fa duopo ricorrere a mezzi di natura sociale, atti cioè a modificare l’ambiente sociale in genere e i rapporti sociali in ispecie, atti quindi ad esercitare l'influenza su tutti gl’individui componenti la società. Occorre cancellare dalla mente del comune degli uomini l’idea falsissima che il lavoro sia in sè un’infelicità o una maledizione e che quindi il minimo di lavoro coincida col massimo di felicità. Fa duopo per contrario ingenerare nell’anitno la convinzione che il lavoro è un elemento indispensabile e integrante del godimento umano e che senza alcun dubbio una vita tutta piaceri ed ozio renderebbe infelice l’esistenza che la parte più preziosa della vita umana è data dal lavoro stesso, il quale rende possibile lo svolgimento delle migliori facoltà umane in quanto ci è di sprone a sormontare gli ostacoli ed a sacrificarci, iniziandoci così alla vera moralità. Questa invero consiste appunto nel lavorare coroggiosamente per il bene di tutti, rinunziando, se ciò è necessario, volentieri e con piacere al proprio benessere e alla propria parte di felicità. Ma per che via si può ciò ottenere? Prima di tutto contribuendo coi precetti e coll’esempio a riformare i cattivi costumi esistenti nella società attuale e cercando soprattuto di colmare l’abisso artificiale che si è scavata tra le varie classi, donde la necessità di modificare i metodi educativi; si potrebbero citare una quantità di fatti validi a dimostrare che la tendenza all’ozio e l’abborrimento per il lavoro nella più parte dei casi riconoscono la loro origine nel dispregio che la gente altolocata in genere mostra per tutti i mestieri ed occupazioni ritenute d’ordine inferiore, circondandosi così di molte persone che potrebbero essere adibite alla produzione di lavoro più proficuo. Poi, facendo partecipare le classi lavoratrici alla vita intellettuale delle classi colte, il quale desiderato forse non rimarrà per sempre lettera morta, come ce ne fornisce l’esempio l'Inghilterra, dove si è iniziato un movimento tendente a colmare tale lacuna. Alludiamo al movimento di espansione delle università, allo sforzo compiuto da queste ultime per mettersi a contatto delle masse operaie, comunicar loro una parte del proprio patrimonio intellettuale, educarle moralmente e intellettualmente e spingerle ad acquistare il sentimento della dignità umana. A tal uopo anzi sono stati messi in opera due mezzi: da una parte vanno ad abitare dei giovani usciti dall'università nei quartieri operai delle grandi città manifatturiere, passando una parte del loro tempo in mezzo ai lavoratori e interessandosi dell’amministrazione e del miglioramento delle condizioni igieniche dei detti quartieri; dall’altra parte gli stessi professori d’università consacrano dei corsi speciali o delle lezioni agli operai, iniziandoli alla comprensione delle que=tioni che possono loro interessare. Infine ed è forse il mezzo più efficace e più importante mettendo in opera tutti i mezzi atti a dare all'operaio una cultura tecnica per modo che egli riesca a comprendere le condizioni generali della vita industriale e si renda conto della comunità sostanziale d'interessi esistente tra operai e padroni. A tale esigenza rispondono le associazioui sul tipo delle 7’rades - Unions, nelle quali il sentimento di solidarietà esistente nei membri dell’associazione, contribuisce a frenare l'egoismo e a tener desto il sentimento del dovere, dell'onore e della dignità. Le nostre conchiusioni sì possono ridurre alle seguenti. La tendenza all’ozio deriva massimamente, non esclusivamente dal poco valore attribuito al lavoro per sè, onde è necessario che gli sforzi della società siano intesi ad ovviare a tale inconveniente. A tal uopo sì richiede un sistema sociale d’educazione destinato a trasformare non soltanto ì padroni, ma anche gli operai, preparandoli ad una vita novella. Se è necessario combattere nei primi l’egoismo e lo spirito di dominazione, negli altri occorre fare scomparire la diffidenza, l'invidia, la cupidigia. A. proposito della menzogna è bene notare che molti dei caratteri psicologici riscontrati nei corrigendi, riconosciuti nocivi alla società, non sono loro patrimonio esclusivo. E già su questo fatto è stata richiamata l'attenzione da altri, specie da Lombroso. La tendenza alla menzogna p. es. è carattere che si trova con molta frequenze nei bambini; se non che nei corrigendì non solo raggiunge un grado massimo, ma può produrre gli effetti più disastrosi, trovandosi in connessione con condizioni che lungi dall’opporsi, ne favoriscano lo sviluppo, rivolgendola sempre a produrre del male. La tendenza alla menzogna, che certamente è favorita da un’educazione difettosa e non rispondente allo scopo e che per sè sola non costituisce un carattere distintivo del candidato al vizio, va tenuta in conto quale espressione di un'organizzazione mentale non perfetta. Donde proviene la tendenza alla menzogna, quale ne è il meccanismo di produzione? Che cosa sta essa a significare? Un giorno nel fare l’esame psichico di uno dei minorenni chiusi nella casa di custodia, intelligente abbastanza, invitai costui a leggere attentamente un periodo facilissimo ad intendersi, affinchè dopo potesse espormi a memoria ciò che ne aveva compreso. Ed egli pronto a leggere e dopo svelto a dirmene il senso. Nemmeno un’acca di ciò che effettivamente dice il libro: il suo discorso era del tutto differente. A domande improvvise riflettenti il contenuto vero del passo letto, a domande cioè intese a ricercare se effettivamente aveva compreso nella maniera in cui si esprimeva, rispose in modo da generàre in me la convinzione che in sostanza aveva interpetrato a dovere il senso generale, comunque l'esposizione dapprima fatta fosse totalmente diversa. Questo aneddoto mi pare significantissimo per l’interpretazione del meccanismo della menzogna, le cui essenza sta appunto nell'antagonismo, se così posso esprimermi, esistente tra ciò che è percepito e ciò che s'estrinseca : antagonismo che dipende originariamente dal perchè le vie e i modi di esprimersi non sono agevoli, data la mancanza di esperienza, ovvero dal perchè gli elementi mentali non sono ancora disciplinati per una regolare e coordinata funzione e questo è il caso dei bambini : e dipoi, da questo che la volontà individuale a ragion veduta, per un dato scopo cioè, fa da forza inibitrice, realizzando così le condizioni dell'impedita estrinsecazione di ciò che sé ha dentro. È la mancanza di corrispondenza tra il di dentro eil di fuori, è la difficoltà di esprimersi ciò che impedisce al bambino di dire quello che pensa, spingendolo a girare intorno alla verità. Una volta fatto il primo passo, una volta insorta quella tendenza, l’educazione e i motivi in genere che spingono a MENTIRE – Grice: “MENTARE, MENTIRE” --, come sarebbe quello di fuggire le punizioni e le minacce, fanno il resto. È indubitato però che, data un’organizzazione (sia fisica che psichica) debole, imperfetta a tal segno che le risorse, per quel che concerne l’estrinsecazione siano scarse, la tendenza alla menzogna dev'essere accentuata. È per questo che i degenerati, e i bambini in tesi generale sono oltremodo bugiardì; ed È TALMENTE FISSATA IN LORO L’ABITUDINE A MENTIRE – ‘cry wolf’ -- che molte volte è soltanto dopo che hanno detto la menzogna che ne acquistano la coscienza chiara. La tendenza alla menzogna a volte diviene un automatismo che funziona indipendentemente ed anche malgrado la volontà. In conclusione io credo che della tendenza alla menzogna oltremodo pronunciata nei giovanetti vada tenuto conto come d’un sintoma di debolezza dell'organizzazione mentale, in quanto in tal caso i fatti [Stando alle recenti indagini sull’origine del linguaggio, la parola e la rappresentazione, il SEGNO e l’imagine dell’oggetto si svolgono parallelamente, seguendo leggi proprie. Ia prima è un prodotto in via di formazione e di svolgimento, mutevole quindi, variabile in rapporto allo stato dell'animo individuale e sottoposto alla volcnià indivi. vali (‘n potestate nostra), mentre l'altra apparisce come qualcosa di già costituito e quindi di stabile e di rigido, È naturale che le due serie, quella delle parole e quella delle rappresentazioni non coincidano, essendo differenti la loro origine e le condizioni di loro svolgimento. Si aggiunga che la parola quale SEGNO è una semplice estrinsecazione dell’attività iteriore, estrinsecazione che si riferisce ad una sola forma di sensibilità (udito). La percezione sensibile invece rappresenta il prodotto di svariate forme di sensibilità, donde la sua maggiore stabilita e permanenza di fronte al flusso dei sunni vocali. V. a tal proposito l'opera di Noiré Log908 Ursprung und Wesen da Begriffe, Leipzi ig. interni non riescono a trovar la via per estrinsecarsi in modo giusto e deviano da una parte o dall’altra, provocando l'attività d’elementi che per condizioni particolari sono più disposti all’estrinsecazione. La tendenza alla menzogna intanto ha importanza in quanto accenna ad una coordinazione irregolare, o meglio ad una forma d’IN-co-ordinazione alla incompleta unità, identità e continuità di tutta la vita psichica, e quindi ad una forma d'incapacità a governare sè stesso. Non v'ha dubbio che l'educazione, l'esempio, specie se intesì a rimuovere qualsiasi forma di duplicità nella vita e i bambini hanno ben di sovente occasione di osservare due diverse maniere di condursi da parte dei GENITORI – cf. H. P. Grice, “The Genitorial Programme” -- e degli altri educatori a seconda che questi sono in famiglia, nel circolo degli amici, ecc., ovvero al di fuori della vita intima, nella società possono mettere un argine all’invadente tendenza alla menzogna. Vanno però sempre tenute d'occhio da una parte le condizioni che favoriscono lo svolgimento dell’energia individuale e del carattere e dall'altra i motivi che d’'ordinario spingono a mentire. Si è già detto che uno dei caratteri psichici dei corrigendi è il freddo egoismo, per cui essi non hanno altro di mira che il proprio utile. Non hanno amici nel vero senso della parola, nè sentono affetto pei pareuti. Ordinariamente sì dice che individui di tal fatta hanno il prepotente bisogno di far male agli altri e provano un intenso piacere a vederli soffrire. Ora per dar ragione di tali fenomeni, alcuni si sono arrestati all'affermazione che codesti individui sono sforniti del senso morale, quasichè questo fosse qualche cosa di semplice e d’irriducibile (press'a poco come qualsiasi senso percettivo, vista, udito, ecc.): ma, prima di tutto nei bambini in genere non si può parlare di esistenza di senso morale vero e propriu, ma di teudenze morali, presupponendo quello lo svolgimento completo della vita psichica sia dal lato della conoscenza che dell'attività, e poi esso è cosa tanto complessa che, per giustificarne e interpretarne la presenza o la mancanza, vanno prima considerati gli elementi di cui si compone. A me pare che le caratteristiche antisociali suesposte riconoscano almeno in parte la loro origine nella diminuzione della simpatia, intendendo per quest'ultima la proprietà che ha l’animo di un individuo di riflettere i sentimenti che sì rivelano nell'espressione del volto delle persone che lo circondano. Per essa, intesa in senso largo, la vista di un movimento. come l’assistere ad una sofferenza desta fenomeni analoghi nella psiche dell’ osservatore (1). Questa impressionabilità individuale che ha un fondo organico e corrispettivo fisiologico consistente nell’attitudine di taluni centri nervosi ad entrare in funzione anche se agisce da stimolo la percezione di date espressioni emotive (2), questa simpatia istintiva che (1) Maudsley ed altri notarono a tal proposito che l’uomo comincia il suo sviluppo colla sinergia (contagio dei movimenti, imitazione), poi arriva alla simpatia (contagio dei sentimenti) e infine raggiunge la sintess (comunione delle idee) Si è stabilita tale connessione intima tra determinate espressioni emotive e le emozioni che basta la semplice percezione delle prime come i1 altri casi la insorgenza delle stesse per richiamare le seconde, onde il proce-so nervoso espressivo che dapprima figura come conseguente o concomitante del processo nervoso costituente il corrispettivo fisiologico delle emozioni, diviene l’ antecedente. negli esseri forniti della medesima organizzazione provoca il simile col simile, fondata psicologicamente sull’associazione già stabilitasi in noi tra le manifestazioni espressive e il corrispondente sentimento altre volte provato per cui la percezione di quei segni provoca il fantasma del sentimento, fantasma che contiene già un iniziamento dsl processo reale di cui è l'immagine, questa disposizione che fa concentrare l'attenzione dei bambini sull’espressione del volto e perfeziona, come dice il Perez, il dono innato di leggere nelle fisonomie, è quanto vi ha di congenito, di originario e, diremo anche, di organico nelle tendenze sociali o antisociali che l'uomo presenta nel corso della sua vita. Noi possiamo simpatizzare con qualunque essere, il quale presenti qualche analogia con noi e tanto più quanto maggiore è lu rassomiglianza; quindi più facilmente e più fortemente cogli altri uomini e tra questi sopratutto coi parenti, coì connazionali, con quelli della medesima razza e cosi di seguito: poi via via in grado sempre decrescente cogli animali più simili all'uomo, scendendo fino a quelli in cui la differenza dell’organizzazione è tale che le loro manifestazioni ci riescono quasi affatto inintelligibili e cilasciano indifferenti. - Ora che i bambini in genere abbiano attitudine a simpatizzare non è a dubitare, come dimostrano i numerosi esempi riferiti dagli autori che si sono occupati della psicològia infantile e specialmente dal Galton, il quale ha soggiunto che i bambini sono più disposti a sentire la simpatia per gli animali che non gli adulti .(1). (1) Riferirò a tal proposito un esempio riportato dalla signora Mana. ceine, la quale racconta che mentre nel giardino zoologico di Pietroburgo una folla numerosa stava ad ammirare la destrezza e i giuochi eseguiti da un elefante e tra le altre cose una scena nella quale il guardiano si Vediamo qual'è l'origine di questa proprietà psichica congenita che abbiamo detto simpatia. Molti hanno messo in rapporto la simpatia collo sviluppo della riflessione individuale, ecc. : quasichè la simpatia nascesse nell'individuo dal semplice ricordo dei dolori provati e fosse quindi come il risultato di un calcolo egoistico o di un ragionamento. La vista di una data sofferenza in tanto desterebbe dolore in quanto provocherebbe il ricordo di una sofferenza analoga già provata dall’individuo o susciterebbe la paura di provarla. La simpatia sarebbe cosi un egoismo mascherato e poggerebbe tutta sulle emozioni già provate o imaginate o in qualche modo comprese. Ed è così che accade d'imbattersi non di raro in espressioni come queste: Noi non siamo veramente pietosi se non per le miserie che possiamo chiaramente comprendere. Le altre non cì ispirano che ribrezzo e dispregio. Per questo i fanciulli sono generalmente crudeli . Ora tutto ciò non è esatto; la più parte dei bambini nascono col dono della simpatia e non è necessario che comprendano in modo chiaro e cosciente i dolori, perchè in essi si desti la simpatia, e se con uua certa frequenza appaiono crudeli, è in grazia di un'educazione falsa loro impartita ed anche in grazia delle condizioni di debolezza in cui si trovano, per cui sono costretti a ricorrere necessariamente alla crudeltà per difendersi e vincere. Co ciò non s'intende negare l’azione che lo svolgimento dell'intelligenza e della coricava per terra e l’clefante si metteva a camminarvi per disopra, una bambina di due anni, seduta sulle braccia della balia cominciò a piangere tanto forte ed a protestare coi suoi gesti e col suo irregolare linguaggio infantile contro quella vista per lei ributtante, che non fu pos+Sibile renderla tranquiila pruma che il guardiano si levasse in piedi. riflessione può esercitare sulla simpatia, rendendola più fine, più squisita e più differenziata, ma si vuole affermare che la simpatia non è a considerare quale prodotto della ragione e dell'esperienza individuale. Finchè in psicologia dominò la veduta individualistica, finchè si credette di poter dare ragione di tutti i fatti spirituali per mezzo delle attitudini della psiche individuale e finchè questa fu considerata come qualcosa d’indipendente, di completo, di esistente per sè e di chiuso in sè stesso, non sì potè non considerare la simpatia come un prodotto sussecutivo e secondario. Da tal punto di vista il centro di ogni vita psichica essendo l'io individuale, questo non poteva figurare come momento e parte di una vita psichica superiore, nè la simpatia poteva esser riguardata come una attitudine originaria, In tale ordine di idee rimasero i psicologi darwiniani quando cercarono di determinare il tempo in cui la simpatia fa la sua coinparsa nell'anima umana (età di 5 mesi) e nella serie animale (/menotteri). Se non che qui è bene notare che gli scienziati su tale argomento non son punto d’accordo : così Sir John Lubbock ritiene le formiche da lui osservate sfornite di affezione e di simpatia almeno relativamente allo svolgimento delle emozioni di natura opposta, mentre altri naturalisti come Maggridge, Belt asseriscono di aver potuto constatare in talune specie di formiche un' attitudine particolare alla simpatia. Gli stessi dispareri s'incontrano a proposito delle api e di altri insetti (1). (1) Cfr. Romane8s, L'’intelligence des animaux, trad. fr., Paris, Alcan, 1887, Tom. I, pag. 41 e segg. e pag. 145. Cfr. anche Romanes, L’evolution mentale ches les animaux, trad. fr., Paris, Reinwald, 1884, pag. 352. Il s Il disaccordo esistente tra gli scienziati sta a provare la mancanza di consistenza del loro punto di partenza, avendo essi prese le mosse dal presupposto che la simpatia sia qualche cosa di secondario, di derivato e di accidentale che possa e non possa esistere, e che quindi possa sorgere in un dato momento piuttosto che in un altro; ora, nulla di più infondato. L'’attitudine alla simpatia è universale, primitiva, originaria in tutto il regno animale e sono soltanto le sue Romanes pone la benevolenza tra i sentimenti posseduti dagli animali, p. es. dal gatto, riferendo i seguenti esempi: “ Au sujet d’un chat domestique,, dice quest’autore, “ voici ce qu’écrit M. Oswald Fitch. Il dit que l’on vit ce chat “ prendre des arétes de poisson et les emporter de la maison an jardin: on le suivit et on le vit les déposer devant un chat étranger mistrablement maigre et évidemment affamé, qui les dévora; non satisfait encore, notre chat revint, prit une nouvelle provision et recommenca son offre charitable qui sembla étre acceptée avec autant de gratitude. Cet acte de bienveillance accompli, notre chat revint à l’endroit où il prenait d’habitude ses repas, près de l’évier où se lavent les assiettes, et mangea le reste des débris de poisson, (Nature, 19 avril 1883, pag. 580). Un cas presque identique m’a été communqué par le docteur Allen Thomson, membre de la Société royale de Londre. La seule différence est que le chat du docteur Thomson attira l’attention de la cuisinière sur un chat étranger affamé, en la tirant par la robe et en la menant à l’endroit cù se trouvait le chat. Quand la cuisinière donna è celui-ci quel jue nourriture l’autre se promena tout autur, tandis que le premier faisait son repas, en faisant gros dos e ronronnant bruyamment. Un autre exemple de bienveillance chez le chat suffira. H. A. Macpherson m'écrit qu’en 1876 il avait un vieux matou et un jeune chat de quelques mois. Le vieux chat qui avait longtemps été un favori, était jaloux du petit et lui témoignait une aversion notable. Un jour, on enleva en partie le plancher d’une chambre du sous-s0l pour réparer quelques tuyaux. Le jour qui suivit celui où le planches avaient été remises en place, le vieux “ entra dans la cuisine (il vivait presque entièrement è l’étage au dessus) se frotta contre la cuisinière et miaula sans tréve ni cesse jusqu’à qu'il eft attiré son attention. Alors courant de ci, de là il la conduisit dans la chambre où le travail avait été fait. La domestique fut très-intriguée jusqu'’ à ce qu'elle estrinsecazioni, le sue manifestazioni che variano a seconda delle circostanze e massimamente a seconda del maggiore o minore grado d’intensità dei sentimenti di natura opposta, dei sentimenti che potremo dire egoistici, i quali sono del pari originari e universali. È naturale che lo svolgimento diverso dei sentimenti dipende dalle differenti condizioni di vita: così s'intende da sè che negli animali in cuì l'ordine sociale è bene entendît un faible miaulement venant de sous ses pieds. On enleva une planche et le jeune chat sortit sain et sauf, mais è moitié mort de faim. Le vieux chat surveilla toute l’opération avec beaucoup d’interét jusju’à ce que le jeune fàt remis en liberté : mais s’étant assuré que celu-ci était sauf, il quitta la chambre aussitòt sans manifester la moindre satisfaction de le revoir. Ultérieurement, non plus, il ne devint nullement amical pour lui., Se il Rumanes e gli altri vogliono chiamare gli atti surriferiti atti di benevolenza, padronissimi, a patto però che tale banevolenza sia considerata come nient’altro che espressione di un sentimento di simpatia. Tra la benevolenza mostrata dai gatti e quella umana corre un abisso, giacchè la prima non include la coscienza dell’obbligatorietà del compimento degli atti di benevolenza, nè presuppone alcun principio o massima fondamentale come l’altra: gli atti provengono immediatamente, saremmo tentati di dire automaticamente da una tendenza, da un’esigenza, da un bisogno dell'organismo fisico-psichico e qui finisce tutto. Perchè gli atti compiuti dai gatti divengano identificabili coi corrispondenti compiuti dall'uomo, occorre che la coscienza dia loro le note di necessità e di universalità, occorre che l’individuo compiendoli sappia di compiere un'azione che deve essere compiuta, onde vi concorre con tutta la propria energia individuale. I gatti son tratti ad operare in tale o tale altro modo, mentre l’uomo opera così, perchè crede che così ss deve operare. L'’essersi i gatti adoperati a soccorrere i loro simili prima di appagare i loro appetiti lungi dal poter essere citato come una prova del loro rpirito di sacrificio s’interpreta benissimo al lume di quella nota legge psicologica, secondo cui i sentimenti e gli appetiti che si presentano fuori del consueto assumono un’insolita intensità e vivacità in confronto di quelli usuali, ordinari ed insorgenti ad intervalli fissi e determinati. Si aggiunga poi che dalla psicologia moderna gli animali non son più considerati come incapaci di qualsiasi iniziativa e sforpiti di qualsiasi forma di aitività individuale, organizzato, poggiando sul principio della cooperazione, i sentimenti di tenerezza e di affezione reciproca devono giungere ad un grado notevole di sviluppo, come quelli che stanno a significare l'accordo esistente tra l'interesse dell'individuo e quello della comunità. Del resto lo stretto e rigoroso individualismo non è più ammesso nemmeno in biologia, in quanto si è andata sempre più accentuando una reazione benefica alle vedute prettamente darwiniane colle ricerche compiute sulle varie forme di associazione presso gli animali. Basta ricordare qui le accurate indagini dell'Espinas, del Cattaneo e del Perrier, le quali tutte hanno mirato a porre in sodo che l'associazione, l'assistenza reciproca, la divisione del lavoro (la cui influenza fu dapprima in modo cosi evidente posta in luce da H. Milne Edwards) e la solidarietà che ne risulta hanno esercitato un'azione preponderante sulla formazione, sullo svolgimento e perfezionamento degli organismi. Se l'esistenza della simpatia nel regno animale quale fatto primitivo ed universale può formare oggetto di discussione trai naturalisti psicologi, ogni dibattito cessa di essere g'ustificato per quel che riguarda l'uomo. Noi conoscia:no questo soltanto come essere sociale e quindi come determinato nelle sue azioni ad uno stesso tempo dal suo proprio volere e dal volere della collettività a cui l’individuo appartiene: la relativa indipendenza e separazione del volere individuale appare solo come il risultato di uno svolgimento tardivo. Si pensi che il bambino diviene solo gradatamente cosciente della forza della propria volontà, mentre da principio a mala pena si distingue dall'ambiente da cui è come a dire trascinato. Del pari nello stato naturale I n= “© Redi a ee ; e e e i . @1’oo@-@ a e e il predominio e la preponderanza appartiene al sentire, volere e pensare collettivo. L’ uomo, per così dire, s' individualizza a poco per volta emergendo da uno stato d'indifferenza sociale, senza separarsi però mai completamente dalla sua comunità. Il dire che noi abbiamo bisogno della riflessione e del calcolo e dell'esperienza per poter agire a favore degli altri è tanto assurdo come voler dar ragione delle azioni egoistiche, ricorrendo agli stessi mezzi del calcolo, della riflessione, ecc. : in entrambi i casì la volontà agisce in modo immediato; ed anzi possiamo aggiungere che ogni complicazione avrebbe per effetto di paralizzare o di rendere meno pronto l'operare. Ogni forma di riflessione e di calcolo piuttosto che precedere segue gli atti. D'altra parte l'affermare che la simpatia nasce dal riflettersi dei sentimenti altrui nell'anima nostra in rapporto alla loro intensità, e in qualche maniera alla loro qualità, non . implica nient'affatto l'identità del sentimento originario e di quello riflesso. Tra la sofferenza o il dolore originario e la pietà, o la compassione vi è una profonda differenza dal punto di vista qualitativo : è lecito forse identificare rispettivamente l'angoscia di colui che sta per annegarsi o la sofferenza dell'operaio disoccupato che teme la fame coi sentimenti che producono in modo riflesso in chi osserva la coraggiosa risoluzione di salvare il primo e l 'atto di carità tendente ad alleviare la miseria del secondo ? Se così stesse la cosa, nota molto a proposito il Wundt (1), il sentimento riflesso perderebbe appunto quelle (1) Wundt Ethik, Stuttgart. proprietà che lo rendono un motivo di soccorso attivo. Insomma l’anima umana è cosiffatta che non rimane indifferente di fronte all'apprensione dei fatti psichici dei suoi simili, ma in certa guisa se li appropria, rendendoli parte del contenuto rappresentativo ed emotivo della sua propria psiche : i fatti psichici altrui però penetrando nella. nostra coscienza conservano qualcosa di proprio, come a dire un segno della loro provenienza estrinseca, per cui assumono uno speciale valore emotivo per il nostro spirito. Di guisa che da una parte i sentimenti altruistici sono originari allo stesso titolo degli egoistici e dall’altra ciascuna delle due categorie di sentimenti presenta delle qualità specifiche irriducibili per cui non può non fallire ogni tentativo di derivare gli uni dagli altri. Allo stesso modo che non v'è caso altro che nel sogno e in talune forme d'alienazione mentale che noi scambiamo la nostra propria personalità con quella di un altro, così non è possibile un'identità originaria dei sentimenti riferentisi a noi stessi e di quelli relativi ad altri soggetti. Da ciò consegue non solo che il conflitto degl’inpulsi egoistici con quelli altruistici è una delle forme più frequenti di contrasto tra i motivi della volontà, ma anche che in tale lotta vincono ora quelli di una specie, ed ora quelli di un' altra. Del resto se le tendenze sociali fossero qualcosa di secondario e di derivato non si vede come e perchè non sarebbero sempre vinte e superate dai sentimenti originari. Nessuna riflessione e calcolo avrebbe la virtù di produrre un tale effetto. Di maniera che l’ individualismo psicologico mena dritto all’ egoismo morale. Fortuna che la forza dei fatti è maggiore di quella delle teorie ! (Wundt). Il fondo dell’individualismo è una concezione meccanica del mondo morale ; esso isola l’uomo nel bene come nel male, facendo poggiar tutto sull’individuo e non vede in ogni associazione umana che un aggruppamento artificiale ed essenzialmente transitorio. La veduta collettivistica concepisce il mondo come un vero organismo, alla cui vitalità collabora l'individuo come membro e parte. La società in quanto produce e consuma non è più considerata come un aggregato d'atoii isolati, ma come un sistema organico nel quale la produzione e la distribuzione delle ricchezze rispondono alle funzioni di assimilazione e di circolazione proprie di ogni essere vivente. Onde la conservazione dell'organismo apparisce alla coscienza dell'individuo come il dovere più alto e imperioso, o alineno quest’ultimo dovere prende posto accanto al dovere di conservazione personale. È evidente che tale concezione dello spirito sociale racchiude l'idea più alta della moralità, la quale è una produzione della società di cui segue i progressi e le vicende. Del resto anche nell'individuo isolato la moralità non consiste soltanto nel verdetto interiore della coscienza (tanto è ciò vero che le buone intenzioni non bastano a sostituire una buona azione), bensi nella collaborazione reale all’organizzazione della natura secondo la ragione, o nella contribuzione al bene generale a cui l'individuo ha il dovere di sacrificare senza esitazione i suoi interessi ed anche la sua persona. La disfatta dell’individualismo e dell’egoismo per mezzo del principio morale, ecco adunque l’ideale: se non che vincere non equivale a distruggere completamente : l’io è l'io, e rimane tale necessariamente : e si trova da per tutto, anche, come sì è veduto, nei sentimenti di simpatia e di pietà che si provano per gli altri. Onde se si vuole che un individuo cooperi al benessere degli altri bisogna fargli occupare nella società il posto che gli compete; così egli potrà svolgersi interamente e spiegare liberamente, ma sempre legittimamente la propria attività. n'e Dopo aver determinato la natura e i caratteri della simpatia che va considerata come il fondamento organico dello spirito sociale e quindi della moralità, s'affacciano alla nostra mente parecchi quesiti: 1° E ammissibile l'assenza completa della simpatia o anche una deficienza notevolissima di essa, e nel caso affermativo, si possono porre in opera dei mezzi per accrescerla, o per produrla addirittura? Che significato ha la deficienza della simpatia e quali sono le cause determinanti di un tal fatto? In che rapporto si trova la simpatia colla morale vera e propria ? 4° La tendenza alla malevolenza è spiegabile solamente con l'assenza pura e semplice della simpatia, ovvero bisogna ammettere auche l'antipatia come determinazione originaria primitiva e positiva ? 1° Che l’attitudine a simpatizzare possa mancare del tutto non è ammissibile, almeno fino a tanto che non si esce dai confini del normale; è soltanto in stati morbosi o semplicemente anormali che si può riscontrare la preponderanza, e nemmeno allora assoluta, dell’egoismo. In casi determinati però sì può osservare una notevole diminuzione di detta attitudine, ed è impossibile negare che l'animo dei bambini alle volte non appare, giusta le parole di Heine, come lo specchio fedele dei sentimenti che si producono intorno a lui. Se non che qui occorre osservare che il contagio dei sentimenti può avvenire tanto nel s:nso buono quanto nel senso cattivo, onde da tal punto di vista tra i giovani chiusi in una Casa di custodia bisogna distinguere quelli che avendo attitudine alla simpatia e all’imitazione e che trovandosi a contatto dei tipi sfornitine completamente son divenuti malvagi anche loro, rotti al vizio e sordi alla voce di qualunque sentimento sociale, da coloro che effettivamente nacquero deficienti in fatto di simpatia e di attitudine ‘all’imitazione. Son questi ultimi i tipi che si potrebbero dire gli originali dal punto di vista antisociale. Essi non intendono conformarsi a nessun modello e a nessuna regola, il che non esclude che possano avere del talento. Sorge spontanea la domanda: Ci son dei caratteri differenziali tra chi è divenuto antisocievole in seguito all'esempio ed alla suggestione e chi è nato tale per deficienza di attitudine alla simpatia ? I dati anamnestici accuratamente raccolti possono fornire dei lumi a tal proposito, ma è l’esame psicologico fatto ripetute volte e l'osservazione diligente del soggetto fatto a sua insaputa che potranno fornire il bandolo della matassa. Un bambino che non ha nessuna tendenza ad imitare ciò che vede fare dinanzi a lui, un bambino che tende a starsene isolato in un canto e che non sente il bisogno di ripetere i giuochi e di trastullarsi, un bambino che rimane estraneo a tutti i sentimenti degli altri e che risponde alle osservazioni fattegli col silenzio o con frasi prive di senso, con repliche amare e con scuse false, un tale bambino deve destare sospetto, giacchè le note suesposte depongono per un carattere, il quale per natura ha poca attitudine alla simpatia. Bambini di questo genere, specie se in età precoce, nelle ore di allegrezza si gettano su di voi e magari vi stringono con furore, vi tirano le braccia con tutta la loro forza e vi tormentano in mille modi e sembrano d’ignorarlo ; se li avvertite si meravigliano . e se insistete perchè vi lascino in pace, continuano a molestarvi e nel caso che prolighiate loro delle carezze non sentono il bisogno di ricambiarvele. Del resto si può dire che il carattere persistentemente egoistico si riconosce da una quantità di nonnulla, dei quali ognuno preso per sè val poco, ma messi insieme difficilmente ingannano il pedagogo ed il psicologo sagace. Aggiungiamo che colui che è fornito del dono della simpatia naturale si mostra più passibile di miglioramento e di educazione. L'individuo, infatti, il quale in forza del contagio morale è divenuto cattivo, ma che ha l’attitudine alla simpatia e che perciò presenta un carattere modificabile può d'un tratto, date le condizioni opportune, presentare mutata la sua fisonomia morale, può divenir buono appunto perchè la sua psiche è organizzata in modo da sentire l’azione della suggestione e dell'esempio, mentrechè l'individuo in cuì predomina l'egoismo rimane sordo a qualsiasi stimolo, epperò si rivela incapace di notevole miglioramento, s'intende nelle ordinarie Case di correzione (1), giacchè la cosa muta sott A lui si possono rivolgere le parole di Mefistofele (GOtbc, Faust): Du b'st am Enda was du bist Setz dir Perruecken auf von Millionen Locken Setz deinen auf ellenhohe Locken Du bleibst doch immer, vas du hist . condizioni diverse, come vedremo in seguito, parlando del rapporto della simpatia colla moralità. S'intende da sè che di tipi siffatti fortunatamente se ne riscontrano pochissimi: ed è chiaro del pari che l’uducazione, l'esempio come tutti i mezzi atti a spiegare la loro azione sull'individuo si dimostrano inefficaci a produrre o ad accrescere quella disposizione psichica che, come abbiamo veduto disopra, ha una base organica e fisiologica molto manifesta ; non altrimenti che chi sorte da natura una qualsiasi deficienza organica, per quanti storzi faccia, non arriverà mai ad acquistare ciò di cui manca, così chi è nato manchevole in riguardo, diremmo quasi, del senso so.ciale, deve rassegnarsi a rimanere tale, senza sperare che in lui avvenga un radicale mutamento, s'intende sempre dal punto di vista della sensibilità sociale. Vediamo che significato vada attribuito alla deficienza della simpatia e quali ne siano le cause. Già Maudsle;- dichiarava che la posterità degli uomini le cui azioni durante la vita si ispirarono ad uno stretto egoismo manifesta maggior predisposizione alle malattie mentali che non la discendenza di uomini, i quali durante la loro vita ebbero degli ideali morali e sociali elevati. Stando allo psichiatra inglese, l'amore esclusivo del guadagno e per conseguenza una vita dedicata al conseguimento del proprio vantaggio esclusivo ha per effetto dapprima che le attidudini nobili ed elevate divengono rare e dipoi che i fenomeni della degenerazione cominciano a predominare. Ed il medesimo autore aggiunge che il cammino della degenerazione in certe famiglie attraversa le seguenti tappe: 1° sviluppo notevole, sotto l'influenza dell'ambiente sociale, delle passioni egoistiche ; 2° apparizione di qualche forma leggera di disturbo psichico che però può raggiungere anche il grado di una vera psicosi; 3° ulteriori passi della degenerazione che per lo più sono rapidi e funesti. Senza stare ora a ricercare la parte di verità contenuta in tale asserzione del Maudsley, noi ci crediamo autorizzati ad affermare che la deficienza della simpatia è indizio di un disordine abbastanza profondo dell'attività psichica e quindi anche del sistema nervoso o di tutto l'organismo addirittura. Essa rivela un'anomalia ancora più profonda che non le tendenze all’ozio ed alla menzogna, tanto più se si pensa che l'attitudine alla simpatia ed all'imitazione è un dono che noi abbiamo comune cogli animali superiori. Si comprende agevolmente che le cause, le quali hanno prodotto un tale effetto hanno dovuto essere persistenti ed oltremodo importanti. Per noi sono determinate condizioni d'esistenza sociale, le quali hanno imposto all’uomo civile di mettere in opera tutti i mezzi egoistici a sua disposizione per poter vincere nella lotta per la vita che accompagna l’individualismo. La scuola del successo non insegna altro che ad appuntare ed affilare le armi dell’egoismo. Non è in una forma determinata di degenerazione patologica del cervello, ma nelle condizioni d'’esistenza sociale, specie delle grandi città, che il delinquente può trovare la più forte, quantunque sempre incompleta, scusa. E le pene applicate nelle prigioni e nelle case di correzione sono, com'è noto, completa nente inefficaci a migliorare i colpevoli. E appunto perchè la miseria è la grande sorgente dell'immoralità e del vizio, la produttrice dei falli e dei delitti di ogni sorta, s'impone il dovere di combatterla e di farla scemare quanto più è possibile. La ricchezza, è vero, rende il cuore duro, si accompagna con l’'avarizia, la cupidigia, la lussuria, l’accidia e la superbia come d'altra parte la povertà ha le sue virtù proprie e la sua grandezza morale particolare, ma chi oserebbe negare che l'estrema povertà e la squallida miseria sono oltremodo favorevoli al rigoglio della delinquenza e che insieme costituiscono le più potenti cause per cui l'uomo si dà all'ubbriachezza, Ja donna alla prostituzione, onde il bambino, rimanendo privo d'educazione, d'istruzione, di assistenza, di buoni esempi, diviene precocemente ipocrita, mendico ed anche ladro? E chi oserà inoltre porre in dubbio che la cattiva azione compiuta nella prima generazione sotto l'impero della necessità e del bisogno passa con molta facilità sotto forma di tendenza nel sangue della seconda generazione, presso la quale si esplica anche spontaneamente e naturalmente ? E chi negherà infine che sopratutto nelle grandi città, date le orrende condizioni di abitazione, la perversità e il vizio entrano come elemento necessario e inevitabile della esistenza ? Da tutto ciò consegue che una ripartizione più equa della ricchezza, il miglioramento generale della vita di famiglia e dell’educazione infantile, l'aumento delle ore di libertà concesse all’ operaio e l'aumento del suo salario contribuiranno necessariamente a far decrescere il numero dei criminali e dei predisposti alla delinquenza ed al vizio. 3° Ma, si può qui domandare, chi non ha attitudine alla simpatia, è perciò stesso condannato alla immoralità, al vizio, è un candidato alla delinquenza ? A tal uopo prima di tutto bisogna ricordare quello che noi abbiamo detto di sopra, vale a dire che l’assoluta mancanza della simpatia è inammissibile, onde deriva che una delle basi naturali della moralità non viene mai a mancare del tutto e che la sua deficienza può essere compensata da una cooperazione maggiore degli altri fattori : poi è necessario intendersi snl significato esatto da dare alla parola simpatia: se questa è presa in senso lato, vale a dire come l'attitudine a ricevere qualsiasi influenza proveniente dal di fuori, di qualsivoglia natura questa sia, se essa è scelta a designare un rapporto qualsiasi, anzi la possibilità di ogni rapporto intercedente tra l'attività dell’individuo e quella della collettività in cui egli vive, opera e si muove, allora non vi è dubbio che il dominio della simpatia coincide perfettamente con quello della moralità, in quanto spirito sociale (simpatia) e spirito morale sono espressioni che si equivalgono. Ma la simpatia intesa così non può mai mancare: l’uomo sfornito di spirito sociale è un'astrazione bell'e buona, giacchè la caratteristica dell’uomo sta appunto nel suo essere intimamente collegato per natura coi suoi simili, come la caratteristica vera del folle è nell’essersi liberato dai vincoli che legano l'individuo alla società. Ed ancorchè lo spirito sociale si mostri alquanto affievolito, non mancano i mezzi per ratforzarlo, come si vedrà in seguito. Se invece la simpatia è presa in senzo stretto, vale a dire come l’attitudine dell'individuo a provare sentimenti analoghi a quelli dei suoi simili in seguito alla percezione dei segni o rlelle espressioni dei detti sentimenti, allora la debolezza della simpatia non trae seco l’immoralità : ed è la simpatia intesa così che se si sorte debole da natura, non può per nessuna via essere rafforzata con mezzi artificiali di qualunque genere questi siano. Insomma l’attività od il volere individuale può essere indirizzato al bene o perchè spintovi dalla percezione delle estrinsecazioni dei sentimenti esistenti negli altri, i quali per tale via si riflettono nell'anima dell'individuo, ovvero in virtù dell’azione esercitata sulla vita psichica individuale dal volere sociale. L'uomo più o meno consciamente, più o meno riflessivamente come più o meno intensamente si lascia influenzare dall'ideale umano, che rappresenta il prodotto della società presa nel suo insieme attraverso il corso della storia, anche quando l'attitudine a simpatizzare è deficiente nell'individuo. Nè può essere diversamente, se si pensa che ciascun individuo è legato all'umanità tutta quanta da comunità di natura, di vita, di bisogni, di tendenze, di principii. L'esistenza dell'individuo è così strettamente congiunta con quella della società che tuttociò che è favorevole ad essa torna a vantaggio dell’individuo, mentre soffrendo essa, una parte delle sue sofferenze ricade necessariamente su quest'ultimo. Interesse generale, maggior felicità per il più gran numero, bene supremo son tre espressioni diverse d'uno stesso principio. Ciascuno sente in modo più o meno vivo, più o meno chiaro che il bene supremo non ha la sua sede nell’individuo, ma al di fuori di lui nelle grandi opere collettive, nei grandi risultati sociali ai quali l'individuo deve collaborare, e su cui ha anche il dritto di prelevare la sua parte di benefici. Se non che il bene supremo non è per il genere umano una proprietà stabile, fissa e definitiva, un bene acquisito una volta per sempre, ma un ideale non mai totalmente attuato, che ciascun individuo, anche il più umile deve sforzarsi di far trionfare. Di qui la grande contradizione, l'eterna antinomia che, come dice lo Ziegler (1) nessun Dio, nessun miracolo faranno scomparire : l’antinomia dell'individuo e della collettività, della felicità individuale e della moralità. Da una parte l'individuo per sua propria natura tende alla felicità. dritto assoluto per lui e dall’altra il dovere sociale gli prescrive di sacrificare questa felicità al bene dei suoi simili. Ora ciò che va tenuto in considerazione è che il volere sociale ha efficacia sugli individui non solo in quanto havvi tra loro comunità di sentimenti per via della percezione reciproca delle manifestazioni di questi, ma anche e sopratutto perchè gl’individui son atti a sentire l’azione dell’ideale sociale per qualsiasi mezzo ciò intervenga. Da una parte adattare la propria vita individuale alle esigenze dell'esistenza sociale, compiere il proprio dovere equivale a salvaguardare nel miglior modo i proprii interessi e dall'altra separarsi dai suoi simili, voler brutalmente far trionfare la propria personalità a detrimento di quella degli altri (il che propriamente costituisce l'egoismo e la malvagità) equivale a non possedere nemmeno la felicità individuale, in quanto la vita di colui che si sente solo è necessariamente vuota e triste. Tale è l'ordine delle cose, quale risulta non da una legge esterna e trascendente, ma dail’essenza (1) Ziegler. La question sociale est une question morale trad. fr., Paris, stessa dell'uomo e della società umana. Tale è il fondamento sul quale poggia la fede ottimista nel trionfo del bene; trionfo che pur non essendo mai definitivo e completo, riceve sempre una conferma dalle lotte che si sostengono e dagli sforzi che si compiono in suo nome. È qui il luogo di accennare ai mezzi che devono essere messi in opera affinchè lo spirito sociale si svolga anche là dove il dono naturale della simpatia si presenta a mala pena accennato : e ognuno intende che il primo posto a tal riguardo tocca all’educazione, la quale deve essere tutta intesa a rafforzare i rapporti tra l'individuo e la società, per modo che questa agisca incessantemente e in modo preponderante su quello, deve essere intesa, cioè, a generare nell'animo individuale l’intima convinzione che al disopra del proprio volere havvi una volontà ed un potere d’ordine superiore a cui è impossibile sottrarsi, deve dunque mirare ad abituare l’individuo a sentire il proprio volere modificato e determinato da un altro volere superiore. À. tal uopo va ricordato che nella prima età è su tante piccole cose, su tante minuzie che si edifica spesso il carattere morale dell’individuo. Gli atti che si eseguono, le parole che si pronunciano in presenza dei bambini, tutto ha una importanza grandissima in un'età, nella quale propriamente avviene l’organizzazione della vita psichica e lo spirito acquista l'impronta propria (1). Magni interest, diceva Cicerone, quos quisque audiat quotidie domi, quibuscum loquatur a puero quemadmodum Bonfigli. Dei /attori sociali della pazzia in rapporto con l'educazione infantile. Roma 1894. Cicerone, De claris oratoribus. Id. De lege agraria od popul. VIN patres, paedagogi, matres etiam loquantur. Senza che l’intelligenza difetti, senza che vi sia la cosidetta anestesia morale, l'individuo, in virtù dell’ educazione si può rendere per abitudine moralmente insensibile, perchè nell'infanzia le di lui relazioni coi parenti e con la società non si son volute accompagnare con sentimenti piacevoli corrispondenti, nè sono state dirette a svegliare in lui interessamento per tutto ciò che varca il proprio io. Nei casi di mancanza di affetti, d’anestesia morale spesso l'organizzazione non ha coloa, ma si deve tutto a circostanze esteriori, delle quali tocca all’educatore tener conto. Von tngenerantur hominibus, diceva anche Cicerone, mores tam a stirpe generis et seminis, quam er its rebus, quae ab ipsa natura loci et a vitae consuetudine suppeditantur. La volontà, come tutte le funzioni psichiche, può essere coltivata e condotta a maggiore sviluppo mediante l’esercizio: onde nei bambini hanno un'importanza speciale gli esercizii di detta facoltà. Il Perez ha scritto pagine importantissime su tale argomento, insegnando al pedagogista come anche nelle più piccole circostanze questi possa trovare il modo di esercitare nel bambino questa nobile attività dello spirito. Noi non terremo dietro al citato autore nell’ indicare i varii mezzi con cui la volontà può essere ratforzata: diremo solo che egli molto opportunamente not a che le decisioni e ie convinzioni del bambino sono /ragilissime, non tanto per la sua inesperienza quanto per la sua impulsività (data la poca coordinazione, la diversità e il numero relativamente piccolo dei motivi che spingono all'azione) e per aL ansi rr iz _la debolezza relativa del cervello e dei muscoli, ond’è bene che gli esercizii della volontà siano fatti quando essa non è stanca e quando il bambino è fresco e vivace. Ciò sopra tutto riguarda gli esercizi della cosi detta volontà repressiva, in cuì si concentra la forza d'inibizione. Il fatto d'inibizione incosciente per cui i gridi di dolore di un bambino vengono arrestati da un rumore improvviso, c’insegna come si debba da noi esercitare nel miglior modo questa specie di volontà repressiva. Così potremo arrestare ì movimenti di collera in un bambino, producendo in lui un nuovo stato di coscienza, mercè una sgridata; e fra quei due stati si stabilisce un'associazione che rende più facile l'arresto nell’ avvenire. Nello stesso modo si può esercitare la volontà repressiva, facendo si che il bambino moderìi l’ istinto della fame e della sete col prestare attenzione ai preparativi che si stanno facendo pel desinare e così via dicendo. È cosi dice il Perez che la ‘ volontà comincia a poco a poco e dolcemente, a trionfare degli istinti più potenti ed a sopportare le punizioni più penose . Oltrechè con i mezzi che si possono dire derivatici e in certo modo preliminari, applicabili specialmente ai bambini di minore età, la volontà viene e rafforzata favorendo certi dati sentimenti, quali l’ amor proprio, l'amor dei parenti, l'orgoglio di far bene, ecc. e lo svolgimento di determinate facoltà quali l’attenzione e la riflessione. Il vivere nella famiglia, il conversare coi parenti e coi compagni, la società intera, le leggi civili ecc., debbono concorrere coll’esempio, coll’approvazione e disapprovazione, coi comandi, coi divieti, coi premi, coi castighi a produrre nel giovine la convinzione che la sua propria volontà è sotto l’azione di un'altra volontà d’ordine superiore. Importantissimo sotto questo rispetto è l’influsso della religione: perocchè il rappresentarsi certe azioni come approvate o disapprovate, prescritte o vietate, premiate o punite dal più alto e perfetto degli esseri, dal potere e dalla santità suprema, non può a meno d'imprimere nei sentimenti relativi una forza, una profondità, un carattere sacro ed inviolabile che senza questa credenza difficilmente a vrebbero. Se poi sì considera come la prima relazione morale che si presenta tra i genitori e il fanciullo è quella dell'autorità da un lato, della dipendenza, soggezione dall'altro, s'intende facilmente che il primo passo nella via di questo svolgimento è dato dall’obbedienza da parte dei bambini. Per ottenere tale virtù varî sono stati i metodi posti in opera dai filosofi. e pedagogisti. Così Locke aveva fiducia nell'amore e nella’ paura, Fénélon nell’ autorità, Rousseau nell’efficacia degli” ordini e delle proibizioni, fondati entrambi questi sulla necessità delle cose e sull’effetto morale prodotto dalla conseguenza naturale degli atti, Spencer parimenti nella teoria disciplinare delle conseguenze, Bain nella paura temperata dall’ affetto, nell’ autorità che s'impone persuadendo, e talora anche nella correzione e Perez ed altri nell'azione del piacere e del dolore adoperati insieme da chi presso il bambino gode di simpatica autorità. Noi crediamo che nessuno di questi mezzi sia sufficiente se adoperato in modo esclusivo; tutti devono esser messi in opera nei casì in cui la simpatia naturale si presenta debole; ma certamente la preferenza tocca a quello dell’autorità, purchè questa sappia mostrarsi fornita di pregio e di valore agli occhi del bambino. Il segreto sta tutto qui: nel sapersi imporre al bambino non con la semplice forza, ma con questa circondata da tutte le doti atte a suscitare l'ammirazione e l'interesse, ed anche la curiosità di lui. Sicchè nei casi suaccennati l’educazione morale ha bisogno del soccorso delle rudimentali tendenze estetiche ed intellettuali del bambino. È naturale che un individuo sfornito anche di queste non entra più nel dominio normale, ma in quello prettamente patologico. Chi pone una barriera insormontabile tra un individuo e l'altro dal punto di vista dello spirito e considera oghi forma di attività spirituale come esclusivamente legata al corpo dell'individuo ed anzi ad un punto dello stesso corpo si chiude la via per poter intendere la realtà dello spirito sopraindividuale che non riconosce la sua base negl'individui come tali, ma nelle associazioni di questi e insieme si chiude la via per intendere l’azione che può esercitare lo spirito collettivo nelle sue varie forme su quello individuale, Eppure è un fatto che dalla vita puramente organica si è svolta una vita sopra-organica, il cui primo grado è rappresentato dalla famiglia, composta di individui o membri che sono parti dello scopo a cui tende quella forma collettiva e insieme mezzi appropriati a raggiungere lo stesso. E questa associazione spirituale degli uomini non sì presenta come un‘ aggregato, nel quale l'individuo rimanga immutato nelle sue proprietà, ma come un sistema per cuì egli acquista caratteri che diversamente non avrebbe mai ottenuto. Le potenze superiori dello spirito della vecchia psicologia descrittiva (ragione, volere, ecc.) sono da riguardare appunto è quali facoltà psichiche acquisite solo per mezzo della vita sociale, a differenza di quelle inerenti propriamente all’individuo che sono di ordine inferiore (intendimento, appetito, ecc.). L'uomo pensa il suo istesso pensiero e lo sottopone a norme universali, come valuta il suo volere rapportandolo alle leggi morali; e ciò perchè egli ha, per così dire, una doppia vita interiore, una individuale ed una comune cogli altri uomini, la quale ultima è sopra-ordinata all'altra. Riassumendo, quando la simpatia (intesa in senso stretto) è debole, l'educazione morale può essere sempre compiuta a patto che il bambino venga abituato a sentire la sua propria volontà influenzata da una volontà d’ordine superiore. A ciò conseguire è necessario che sia lbene fissato un peculiare rapporto implicante autorità da una parte e soggezione dall'altra : rapporto che alla sua volta non può divenire stabile e regolare se non sotto la condizione essenziale che l’autorità, l'energia si circondi di una certa aureola atta a rispondere alle rudimentali esigenze este tiche ed intellettuali del bambino. È evidente però che l'educazione non potrebbe mai produrre simili etfetti, se non esistesse in ogni uomo (a prescindere dall’attitnnine alla simpatia affettiva) il germe della moralità, vale a dire l'attitudine ad avere ed a sentire la propria volontà in dipendenza di un'altra volontà : attitudine che, come si è visto, costituisce l'essenza propria dell’uomo qual’essere ragionevole e socievole. L'educazione non può creare la moralità allo stesso modo che l'educazione artistica non potrebbe creare il senso del bello e l'educazione del palato il senso del gusto in chi da natura ne fosse sprovvisto. Quello che noi abbiamo T Tr_r*0- T Da quando sì cominciò a riflettere sui vari poteri dell'anima umana, si notò che almeno due grandi categorie di attitudini passive o recettive le une, attive o appetitive le altre bisognava assolutamente distinguere. Nè poteva esser diversamente dato il fatto che ogni processo psichico realmente presenta due aspetti, quello recettivo da cui germogliano tutte le funzioni conoscitive e quello attivo da cui germogliano le varie fore dell’attività pratica. Lo spirito umano d'altra parte, spinto dalla tendenza a tutto unificare ed armonizzare, a misura che progredi nella riflessione e nella speculazione, cercò di isolare i caratteri e le proprietà comuni ad un complesso di fenomeni nella credenza che in questi prodotti della sua facoltà astrattiva potesse trovare i principii veri delle cose: nè si curò di vedere se i detti elementi comuni esprimessero altro che caratteri puramente formali. Onde avvenne che fin nella filosofia greca noì troviamo itentativi più audaci per porre il principio di tutti i principii in qualcosa di puramente formale : cosi per Aristotele il fondo dell’universo è il movimento, mentre per Platone, segnatamente nel Fedone, è il mondo delle idee concepite come forze, e in tutto il corso della storia della filosofia noi troviamo sempre ripe (1) Questo Saggio che ora rivede qui la luce con molte modificazioni ed aggiunte, fu pubblicato la prima volta col titolo “ Il fattore della motilità nelle dottrine gnoseologiche moderne, nei Rendiconti dell’ Accademia dei Lincei. tute queste due intuizioni in modo più o meno chiaro ed evidente. L'attività, ecco la formola atta ad esprimere la sostanza dell'universo. Ognuno vede che l’attività, la forza, il movimento essendo concetti puramente formali potettero essere applicati agli usi più disparati in rapporto al vario contenuto ad essi attribuibile. Da tal punto di vista gli assiomi logici furono considerati impulsi atti a muovere la mente in date direzioni, impulsi che se ostacolati producono un senso di disagio, il quale alla sua volta cessa coll'appagamento di quelli. Il pensiero adunque fu ridotto al tentativo di soddisfare ad un impulso speciale incitante ad una forma di movimento spirituale diretta a produrre appunto l'appagamento e quindi la quiete. È evidente che in tal caso le parole tendenza, movimento, impulso, ecc., hanno un significato differente da quello in cui sono ordinariamente adoperate per indicare mutamenti nelle relazioni spaziali, ovvero mutamenti nei rapporti della vita pratica. Ciò che va notato è che noi abbiamo degli impulsi, delle tendenze di natura differentissima, i quali vengono poi aggruppati in una sola categoria soltanto per mezzo di un carattere espresso dal nome, il che, è evidente, non basta per dichiarare identico e neanco affine il contenuto delle cose che si vogliono significare. Certamente voi potete esprimere il processo intellettuale per mezzo di una tendenza al movimento, ma in tal caso dovete ricordare che si tratta di un movimento di ordine speciale ; infatti l'imperativo logico può assumere la forma di opera così ma l’ opera così equivale in tal caso a pensa così e il pensa così significa è così >; l'imperativo pratico opera così invece non mira all'affermazione della realtà, ma solamente al raggiungimento dello seopo speciale prefissosi a cui è inerente l'appagamento. Se io non sono soddisfatto dal punto di vista teoretico, se io cioè non ho operato in conformità delle leggi logiche la cosa non sta in realtà come mi appare, ma se io non sono soddisfatto dal punto di vista pratico la stessa conchiusione è evidente che non è ammissibile ; in altri termini l'insoddisfacimento pratico non implica alcun giudizio sulla realtà, ma soltanto sul valore di essa. Quando adunque in filosofia si parla di attività, di forza, di energia, di movimento come di concetti atti a darci la chiave per risolvere i più ardui problemi, in sostanza non si dice nulla di concreto e di determinato; vi è sempre luogo a domandare in ogni singolo caso in cui una di tale parola è adoperata, di che sorta di attività, di che sorta di forza s'intenda parlare. E forse il fascino che spesso tali espressioni esercitano sui metafisici dipende appunto dal vago e dal nebuloso che esse contengono, onde ognuno vi può sottintendere ciò che vuole. In ogni modo l’analisi di dette nozioni, per quanto vaghe ed indeterminate, meritava di esser fatta; e in questi ultimi tempi la psicologia esatta, e la teoria della conoscenza hanno cercato di rispondere tale esigenza, col ricercare la loro origine e gli elementi concorrenti alla loro formazione. Il concetto che più degli altri ha attirato l'attenzione dei filosofi è stato quello di forza o di attività, la cui base psicologica è stata riposta nel cosidetto senso muscolare. Pertanto questo ha formato oggetto di studi accuratissimi da parte dei psicologi e dei fisiologi in modo che senza tema di esagerare si può affermare che tale ordine d’indagini forma una parte interessantissima della psico-fisiologia moderna. Noi ci proponiamo appunto di ricercare che valore abbia effettivamente il senso muscolare per sè considerato e in rapporto ai vari uffici che gli si vogliono attribuire per lo svolgimento della vita psichica in genere. Cominciamo dall’indagare la natura delle sensazioni muscolari. Le sensazioni muscolari. Esistono le sensazioni muscolari? Parrà strano, ma pur troppo è così; dopo tanto discutere sull'ufficio delle sensazioni muscolari nello sviluppo della psiche umana, ancora c' è bisogno di porre il problema circa l’esistenza di esse. È già da molto tempo che la questione delle sensazioni muscolari è dibattuta, sia in fisiologia che in psicologia ; e anche coloro che concordano nell’ammettere tali sensazioni sì scindono per quel che concerne la natura e la sede di esse: si ha così la teoria dell'innervazione centrale (Bain, Wundt, Ludwig ecc.) e quella dell’ innervazione periferica ovvero la teoria efferente o centrifuga e quella afferente o centripeta : secondo la prima, all'esecuzione del movimento precederebbe la coscienza dell'impulso dato e dello sforzo fatto per compiere il movimento stesso: e sostrato di tale coscienza sarebbero i centri e i nervi motori, la cui funzione precedente all’ esecuzione del movimento non potrebbe non rivelarsi alla coscienza. In favore di tale opinione parlerebbe massimamente la coscienza che si ha dello sforzo per muovere vn arto paralitico. Stando alla seconda opinione, il senso della forza sarebbe dato dai nervi sensitivi che dai muscoli e dalle placche esistenti tra i nervi e i muscoli trasmettono ai centri notizia delle varie condizioni in cui i muscoli si possono trovare prima e dopo la contrazione e dopo una fatica maggione o minore. In favore di tale opinione starebbero poi le osservazioni (Gley e Marillier) cliniche e sperimentali, le quali provano che con un arto paralitico non è possibile valutare nè il peso nè la direzione dei movimenti, nè la posizione degli arti, semprechè, bene inteso, gli occhi siano bendati. Qui dobbiamo notare che l'opinione del Wundt si è andata modificando ed ormai egli non ammette più la coscienza pura e semplice della innervazione centrale, ma per conciliare in certa maniera le due vedute, egli è d’avviso che il senso dello sforzo da principio fu di origine prevalentemente periferica, e come tale trasmesso e registrato nei centri cerebrali; ma poichè si trova connesso coll’immagine del movimento compiuto, è naturale che riproducendosi quest’ultima, si debba presentare anche l’imagine mnemonica delle sensazioni muscolari che l'hanno per l’innanzi accompagnata. In tal guisa sarebbe spiegabile come il senso dello sforzo e la misura della forza necessaria precedano l'esecuzione di un dato movimento. Del resto la questione non è definita in modo decisivo, ed anche oggi si pubblicano dei lavori in appoggio dell’ una e dell’ altra tesi. Parrebbe, ad esempio, dalle ricerche di Mosso e di Waller, che il senso della fatica non sia solamente di origine periferica, tanto più che volendo ridurre quella ad una forma di avvelenamento, è naturale che quel medesimo veleno, il quale agisce sulle terminazioni periferiche nervose, possa agire anche sui centri da cui deve partire l'impulso. Il Waller applica i risultati ottenuti dagli esperimenti fatti sul senso della fatica allo studio del senso dello sforzo, comunque questo sia una sensazione che accompagna l’ azione muscolare, mentre la fatica una sensazione chè segue l' azione muscolare : esse hanno però una causa ed una sede comune. La fatica, stando ai risultati offerti dal Mosso, si manifesta con segni tanto centrali che periferici : se l'attività volontaria di un muscolo è protratta fino al suo limite estremo, l'eccitazione diretta del muscolo può farlo agire ancora, il che prova che l’esaurimento centrale interviene prima dell’ incapacità ad agire da parte del muscolo : donde si è dedotto che se la fatica è dovuta ad ogni esaurimento tanto centrale che periferico, il senso dello sforzo del pari accompagnerà tanto l'attività centrale quanto quella periferica. Vi sarà un senso centrale d'innervazione motrice che aiuta e regola i movimenti muscolari. Al Waller però si è obbiettato che egli ammette come provati tre fatti, i quali effettivamente non lo sono: 1° i segni obbiettivi dell’esaurimento in un data parte non depongono sempre per il consumo di energia nella medesima parte: gli esperimenti del Mosso, infatti, provano che il lavoro intellettuale ol’ attività di alcuni muscoli fa scemare la forza dei muscoli in riposo ; 2° il senso subbiettivo della fatica non indica un previo sforzo nella stessa parte, come vien provato dal fatto che il senso di fatica e di peso nelle palpebre non è niente affatto proporzionato al lavoro che quest'organo ha compiuto, specie molte volte il mattino, dopo il completo riposo di quei muscoli; 3° i segni obbiettivi dell’ esaurimento non corrispondono per il sito della loro origine al senso subbiettivo della fatica, e lo stesso va detto dei segni obbiettivi dello sforzo rispetto al senso subbiettivo dello sforzo stesso. Il senso di fatica non accompagna necessariamente l'esaurimento obbiettivo, nè esso è localizzato dove questo ha luogo : lo stesso va detto del senso dello sforzo, il quale, sia mentale o fisico, non è localizzato negli organi centrali, ma in vari muscoli della testa e del corpo. Gli oppositori recisi alla teoria dell’ innervazione centrale vogliono che le sensazioni muscolari non siano per niente differenti dalle altre sensazioni speciali; il senso muscolare per loro è un sesto senso specifico proveniente dai muscoli che dà il sentimento dell’ attività, come l'’or| gano della vista dà il senso della luce e del colore. Non è ammissibile quindi che i centri e nervi motori entrino in simile meccanismo, come quelli che hanno una funzione diversa, ben definita da compiere. Il senso della forza e dello sforzo come precedente al movimento da eseguire, considerato come centrale, è un'illusione : è dai muscoli che quando già sta per incominciare il movimento, partono quelle eccitazioni, le quali danno il senso dello sforzo (1). Se non che molte obbiezioni sono state rivolte a coloro che hanno ammesso sen’altro le sensazioni muscolari periferiche. L'argomento che doveva presentarsi per il primo alla mente degli oppositori doveva essere quello dell’assen?a di ogni rivelazione della loro esistenza all’introspezione. Al che i sostenitori dell’esistenza delle dette sensazioni hanno risposto che essi ammettono solo la cooperazione, il concorso (1) V.atal proposito Bastian, “ L’Attention et la colonté,, Recue philosophique. di elementi muscolari nello svolgimento dei fatti mentali, in quanto i muscoli in contrazione (contrazione che accompagna i diversi stati psichici) agiscono come stimoli delle terminazioni nervose periferiche : la loro esistenza viene perciò mascherata dai molteplici fatti concomitanti. Allo stesso modo che, secondo James, la sensazione di rosso non si combina con quella di violetto per produrre il purpureo, ma i due stimoli agiscono nello stesso tempo in modo da dar luogo ad un processo cerebrale di una terza specie, il cui fatto concomitante è la sensazione purpurea, così noi possiamo benissimo avere una gran quantità di stati mentali, nei cuì processi organici concomitanti entrino degli elementi muscolari, mentre non possiamo dire di avere stati mentali che contengano sensazioni muscolari come parte della loro composizione. I processi nervosi derivati dagli stimoli della contrazione muscolare si uniscono coi processi nervosi provenienti da altra sorgente per produrre degli stati coscienti che sono irreducibili, come avviene della sensazione purpurea quando è considerata per sè. Gli atomi delle sensazioni, sempre secondo James, non possono combinarsi per produrre delle sensazioni più complesse, non altrimenti che gli atomi della materia non compogono i corpi fisici: è vero che quando essi sono aggruppati' in una certa maniera, n0: li chiamiamo questa o quella cosa, ma la cosa nominata non ha esistenza fuori della nostra mente . Qui si potrebbe obbiettare che noi possiamo otte. nere sensazioni separate del rosso e del violetto, e possiamo scovrire anche la somiglianza del purpureo con entrambi ì suol costituenti : ora come avviene che noi non percepiamo gli elementi muscolari come sensazioni separate ? Ma a ciò si risponde che uno stato mentale si può solamente analizzare e scomporre in quegli elementi che sotto condizioni diverse possono essere sperimentati come fenomeni separati; vi sono molte ragioni, perchè le sensazioni muscolari non possano essere sperimentate o solo con grande difficoltà. L' esplorazione colla vista e col tatto, che in altri casi aiuta e rende necessario il processo di localizzazione, qui appare impossibile. Noi impariamo, dice 1’ Hellemholtz, a dirigere l’' attenzione sopra quelle sensazioni separate, le quali servono come mezzi per stringere i rapporti col mondo esterno. Ora ognuno vede che non presenta alcun interesse pratico la distinzione delle sensazioni muscolari come tali, mentre è di grande importanza che le eccitazioni sensoriali provenienti dagli organi interni si combinino con quelle dei sensi specifici per formare quei processi nervosi complessi i cui concomitanti coscienti sono i sensi dello sforzo, della grandezza spaziale, ecc. D’ altra parte in casì speciali le sensazioni muscolari si rivelano all’introspezione : i crampi, la tensione muscolare giunta all'estremo, la fatica ecc. sono sensazioni localizzate nei muscoli. Infine Goldscheider ha mostrato che se lasciando passare per un muscolo anestesico una corrente elettrica, lo facciamo contrarre, abbiamo una certa sensazione somigliante a quella ottenuta colla pressione del muscolo, e localizzata non in tutto l’arto che si muove, ma solo nelle parti più profonde. Un secondo argomento degli oppositori è questo, che pur ammesso che nervi sensitivi esistano nei muscoli, questi serviranno solamente a darci notizia del grado di stanchezza dei muscoli stessi. Ma qui è facile rispondere che il senso di tensione è molto differente da quello di fatica e che taluni esperimenti fisiologici mostrano che l'attività muscolare diviene presso che impossibile senza la regolarizzazione apportata dalle sensazioni muscolari. Un'obbiezione fatta per prima da A. W. Volkmann dice che il senso muscolare può al più darci notizia dell’esistenza del movimento, ma difficilmente un’informazione diretta sulla estensione e direzione di questo. Noi non possiamo sapere se la contrazione del supinafor longus ha un'estensione maggiore di quella del supinator brevis ecc. Qui occorre ricordare che gli elementi muscolari essendo fusi con altre eccitazioni, non possono essere riconosciuti come tali e non possono essere localizzati nei muscoli, da cui traggono origine, ed è perfettamente vero che in molti casì è impossibile aver nozione dell'estensione e direzione del movimento muscolare; associati però con altri elementi sensoriali rappresentativi, possono essere di aiuto nella determinazione delle differenze esistenti tra i movimenti di varie parti del corpo. Miller e Schumann richiamarono l'attenzione sul fatto che ad un certo grado d'intensità dell’ eccitazione nervosa muscolare non sempre corrisponde una stessa posizione delle membra. Una stessa pressione sui nervi sensitivi dei muscoli può esistere nel caso di un grado notevole di contrazione, e di un grado leggero di tensione, come nel caso di un grado leggero di contrazione con: giunto con un grado notevole di tensione . A ciò si risponde che noi abbiamo imparato colla propria esperienza a distinguere esattamente tra una pura tensione muscolare non accompagnata da movimento ed un’ eccitazione capace di produrre il medesimo : e ciò perchè in ogni movimento le sensazioni sia mmnscolari, che tattili, visuali ecc. differiscono a seconda della resistenza incontrata da parte degli oggetti esterni o dei muscoli antagonisti; e tutte le combinazioni possibili di estensione, resistenza e rapidità sono associate con complessi di sensazioni differenti. Nel caso della semplice tensione la resistenza incontrata è minima, mentre è massima nel caso del movimento attuale: nei due casi le sensazioni concomitanti a quelle muscoluri devono per necessità essere differenti; e pur non considerando le sorgenti dei vari elementi sensoriali, l'impressione totale prodotta dalle loro differenti combinazioni è avvertita e differenziata Se moi avessimo solamente le sensazioni provenienti dai muscoli in contrazione l’obbiezione anzidetta reggerebbe, ma il nostro giudizio è sempre aiutato da elementi provenienti dai muscoli antagonisti e dalle parti connesse : pelle, tendini, ecc. Si è obbiettato che noi comparando i pesi paragoniamo in generale solamente la rapidità dei movimenti che ne risultano, e pensiamo che il peso leggero sia quello che più agevolmente sia stato alzato, come vien provato dal fatto che se un individuo è stato abituato per qualche tempo a sollevare alternativamente dei pesi di 600 e di 1200 grammi, solleverà con grande rapidità il peso di 800 grammi | sostituito a sua insaputa a quello di 1200 grammi, giudicandolo anzi più leggero di quello di 600 grammi. Tale fatto contraddice, a sentire. taluni, non solo alla teoria dell'innervazione centrale, ma anche a quella secondo cui le sensazioni muscolari c’informerebbero della resistenza, giacchè se così fosse, i pesi sollevati con impulso più energico dovrebbero essere maggiori. Se non che, come si è detto, é l’insieme delle sensazioni concomitanti che rende possibile la distinzione tra movimentoe resistenza: è la fissità di quelle associazioni che produce talune illusioni, quando le condizioni di esperimento non sono le abituali. Nel riferito esperimento il maggior adattamento all’ impulso può essere rivelato allo spettatore solamente per via della maggior rapidità che ne risulta, ma per la persona sottoposta all'esperimento la cosa essenziale non è la maggiore rapidità, nè l'impulso preparato, ma l’accomodamento maggiore dei muscoli nel momento di sollevare il peso minore. Si è notato ancora che la sensibilità muscolare non differisce nel caso che i movimenti siano prodotti attivamente da quando sono passivi. Bernhardt dapprima e poi Ferrier e Goldscheider stabilirono degli esperimenti facendo sollevare dei pesi per .mezzo della stimolazione elettrica dei nervi, e trovarono che la valutazione dei pesi è esatta ed accurata ogni volta che il movimento è prodotto da stimolazione elettrica o riflessa. Inoltre fu sperimentalmente provato che nel caso di movimenti passivi il minimum dell'escursione percettibile difficilmente differisce da quello dei movimenti attivi. Ma ciò non prova nulla contro la importanza delle impressioni muscolari nella percezione dei movimenti: pure ammesso che i movimenti attivi differiscano dai passivi non solo perchè l’immagine di essi precede e produce direttamente i movimenti, ma anche per molti fatti concomitanti periferici, in quanto nei movimenti attivi agiscono gruppi più estesi di muscoli, e vi è un maggior grado di tensione nei muscoli antagonistici e nei tendini, rimane sempre vero che nei movimenti passivi gli elementi essenziali per giudicare del grado e della direzione di quelli non mancano, ond’è che la ditferenza nei due casi non può essere grande. Si è cercato di spogliare quasi completamente di sensibilità i muscoli, attribuendola alle parti annesse, pelle, tendini, ecc., e Goldscheider sì è creduto autorizzato ad emettere formalmente una tale ipotesi, dopo aver constatato che nei casì di diminuita sensibilità delle parti an nesse la valutazione tanto dei movimenti attivi quanto di quulli passivi apparisce minore. Certamente la sensibilità delle parti annesse-è un fattore importante dell’accurata percezioné del movimento, ma non è il solo; e l’introspezione in dati casi ci rivela così l’esistenza di sensazioni localizzate puramente nelle parti annesse come delle sensazioni puramente muscolari. L'intervento delle impressioni provenienti dalle parti annesse può, secondo Delabarre, esser necessario per distinguere una pura tensione muscolare da un movimento attuale; ma taluni fatti provano che le medesime impressioni hanno poco o nulla a che tare con la valutazione dell’estensione del movimento: di due movimenti p. es. di eguale estensione è stimato più breve quello nel cui inizio i muscoli sono più attivamente contratti : ora le impressioni provenienti dalle parti annesse non possono spiegare questa illusione, giacchè esse non differiscono nei due casi, che il braccio sia più o meno contratto al principio del movimento. Miller e Schumann, essendo discesi ai particolari, hanno negato che le sensazioni muscolari provenienti dall'occhio possano spiegare le localizzazioni delicate ed. accurate che noi facciamo nel campo della vista. Noi certo non abbiamo coscienza dei movimenti oculari come tali, ma ciò era da aspettarsi riflettendo, che una tale notizia essendo di poco interesse per l'individuo non vale a svegliarne ed a fissarne l’attenzione. Le impressioni muscolari formano un insieme colle sensazioni della luce ; il che rende debole nella coscienza non solo la nozione dell'eccitamento di una data parte della retina, e la nozione della posizione o dei movimento del globo oculare, ma la nozione di una posizione particolare del punto di fissazione nello spazio a tre dimensioni. Altri autori finalmente per provare come le sensazioni muscolari non hanno niente a che fare colla nostra facoltà localizzatrice, riferirono il caso di un uomo, il quale era stato completamente cieco per sette anni: se a costui si volgeva la parola dalla parte destra, i suoi occhi si muovevano verso questa parte senza divergenza, ma se gli si parlava da sinistra, si notavano bensi degli accenni a movimenti associati in entrambi gli occhi, ma questi finivano poi col restar fissi nel mezzo delle orbite ; tuttavia il soggetto aveva l’idea che i suoi movimenti fossero della massima estensione verso sinistra. Ma i fautori delle sensazioni mascolari hanno interpretato tale fatto, dicendo che il citato individuo attribuiva il senso di tensione proveniente da altri muscoli a quelli oculari; cosa che può avvenire con molta facilità. Dopo aver mostrato per mezzo dell'esposizione e discussione delle principali obbiezioni fatte all'esistenza delle sensazioni muscolari, la possibilità teorica di ammetterle, è giusto ricercare se l’Istologia e la Fisiologia sul terreno dei fatti e degli esperimenti siano nel caso di dare una risposta decisiva, Nel tessuto connettivo superficiale che involge i muscoli furono scoverte delle fibre nervose sensitive, le quali terminano nei corpuscoli di Pacini; ma nella sostanza muscolare contrattile non sono state osservate finora fibre sensitive; ed ora nessuno crede più alla scoverta del Sachs. Golgi scovri un organo muscolo-tendineo situato nella zona di passaggio dul muscolo al tendine, connesso colle fibrille dell’uno e col tessuto dell’altro e fornito di nervi sensitivi. Il Cattaneo crede che questo sia l'organo della sensibilità muscolare. Anche le ricerche fisiologiche starebbero a provare l’esistenza di nervi sensitivi nei muscoli. Sachs afferma che molti dei nervi intramuscolari possono essere stimolati senza produrre contrazione, e che dopo la sezione dei tronchi motori solamente una parte dei nervi muscolari degenera. Francesco Franck avendo ripetuto i medesimi esperimenti, arrivò alla conchiusione che i muscoli contengono fibre centripete. Altri esperimenti mostrano che sì può aver paralisi tanto tagliando i nervi sensitivi che finiscono nella regione muscolare, quanto tagliando i nervi motori stessi ; il che prova che la sensibilità è indispensabile per regolare i movimenti. Bell, Magendie, ed ultimamente Exner arrivarono al medesimo risultato. Allo Chauveau però va attribuito il merito di aver provato in modo luminoso che le impressioni sensitive necessarie alla motilità provengono dal muscolo stesso ; egli infattì trovò nel cavallo due muscoli forniti di due branche nervose distinte, l'una sensitiva e l’altra motrice: A) un muscolo volontario striato, lo sterno mastoideo ; e B) un muscolo involontario striato, quello dell'esofago: ora la sezione della branca motrice produce paralisi in entrambe ; la sezione della branca sensoriale di A) non sospende la reazione agli stimoli volontari, essendo associata nella sua funzione motrice con altri muscoli forniti dei loro nervi sensoriali; la sezione delle fibre sensitive di B) produce disturbo delle funzioni motrici. La stimolazione elettrica delle fibre sensitive di A) e di B) produce tetanizzazione o contrazione. Da tutto ciò il Chauveau dedusse che i muscoli sono forniti di nervi motori e sensitivi, e che i filamenti terminali dei nervi sensitivi probabilmente non hanno relazione diretta cogli elementi muscolari, ma contribuiscono a formare le anastomosi preterminali o reti dei nervi motori, dove essi sono direttamente eccitati dalla corrente motrice: si verrebbe così a formare un completo circuito sensitivo motore necessario all'azione dei muscoli. Volendo riassumere, diremo che le questioni relative alle sensazioni muscolari si riducono principalmente a due, se esistano delle sensazioni muscolari e se esse vadano localizzate nella periferia o nei centri motori. Ora che esistano delle sensazioni muscolari capaci di farci valutare il peso, la pressione, la tensione, l'estensione e la direzione dei movimenti, ormai è fuori dubbio: una quantità di esperimenti lo provano, e d'altra parte è naturale supporre che la funzione muscolare si riveli in qualche maniera alla coscienza, come tutte le funzioni degli altri organi corporei in un modo più o meno vago e indeterminato. Certamente quando si parla di sensazioni muscolari non bisogna credere che esse provengano esclusivamente dai muscoli ; è più ragionevole pensare che secondo i casi, con esse si denoti un complesso di sensazioni provenienti da parti differenti. Già il Lewes notava che la sensibilità cutanea ha una parte importante nella coordinazione dei movimenti tanto che un'anestesia provocata nella pianta dei piedi può dar luogo (cosa notata anche dall'Heydt) a fenomeni d'incoordinazione muscolare. Ma anche senza seguire il Lewes, il quale ammetteva le sensazioni muscolari come provenienti: 1° dagli impulsi motori; 2° dalle intuizioni motrici; 3° dalle contrazioni muscolari vere e proprie; 4° dagli effetti di queste contrazioni sulla pelle; 5° dalle coordinazioni muscolari, cioè dalle sensazioni che suggeriscono o accompagnano i movimeuti ideali non eseguiti e quelli reali, è indubitato che quando si parla di sensazioni muscolari dobbiamo sempre intendere un insieme di sensazioni di origine diversa. D'altra parte è possibile ammettere senza alcuna riserva l'opinione di coloro che vogliono fare del senso della forza, come del senso della fatica un senso specifico proprio dei nervi centripeti muscolari? È ciò che vedremo orora passando ad esaminare i vari uffici attribuiti al senso muscolare. Per mezzo di questo infatti si è voluto dar ragione del senso peculare di energia interiore, della valutazione dell’intensità, della genesi psicologica delle rappresentazioni di movimento, di tempo, di spazio, e della percezione della realtà esterna. Si è tentato adunque per prima di derivare dalle sensazioni muscolari il senso di energia o la percezione dell'attività inferiore sotto qualunque forma si presenti. Si è detto: ad ogni sensazione e percezione segue in modo reflesso un movimento, ossia una contrazione muscolare, la quale di rimando trasmette al centro le notizie circa le modalità della sua contrazione, trasmette cioè le sensazioni muscolari afferenti o ceutripete: queste poi si associano intimamente colle sensazioni provocatrici dei movimenti conservandosi e registrandosi in appositi centri cerebrali. Da ciò consegue che al presentarsi di una sensazione o percezione identica o simile alla primitiva, per associazione si ridestano le immagini dei movimenti compiuti, immagini che, guidando i movimenti da ripetere, costituiscono l’essenza dello sforzo. Va notato qui che un tale schema ha subito molte variazioni da parte dei fisiologi e dei psicologi (1): recentemente, p. es., si è negato financo che nella corteccia cerebrale esistano dei centri psico-motori, la zona rolandica a cui era stato per lo innanzi attribuito tale ufficio, conterrebbe solamente i centri delle sensazioni muscolari. I centri motori, alla cui funzione è stato negato in modo assoluto (contro l'opinione segnatamente del Bain) la possibilità di divenire cosciente, sono posti nella base del cervello e Per una chiara e precisa esposizione dello stato attuale della questione v. Bastian, L’Attention et la Volonté, Revue philosophique. nel bulbo. C'è però chi (Ferrier), pur escludendo la coscienza (come tali scienziati dicono) dai centri motori, ammette nella corteccia l'esistenza di centri motori puri a fianco a quelli cinestesici. Questi ultimi poi per tutti non si troverebbero solamente in una determinata regione corticale del cervello ma frammisti ai vari centri sensoriali (1). Sicchè tali psicofisiologi credono di poter ridurre le funzioni psichiche fondamentali ai movimenti reflessi, senza punto dar importanza a taluni fatti che evidentemente contradicono alla loro opinione, come per es. l'insorgenza di taluni movimenti spontanei, che non si possono in alcun modo rapportare a stimoli esterni, e l'impossibilità di spiegare per via del puro meccanismo i movimenti reflessi rispondenti ad uno scopo, in mezzo ad una molteplicità di stimoli esteriori. A ciò sì aggiunga che voler dare ragione dell'attività psichica vera e propria, fondandosi sulla fisiologia, è impresa presso che disperata, giacchè senza l’osservazione interiore, quella sola del sistema nervoso non ci potrà mostrare che dei mutamenti molecolari, non mai psichici. Ma anche lasciando da parte tali considerazioni, il senso muscolare può dar ragione di quella forma di attività interiore che si esercita sul corso delle nostre idee ? Molti :1) L'origine della forza adoperata a produrre le contrazioni muscolari appropriate dovrebbe essere cercata, secondo tale teoria, nell’attività molecolare dei centri sensitivi e cinestesici. Ed in appoggio si riferisce il caso di persone, che volevano, ma non potevano eseguire con successo certi movimenti d’elocuzione in seguito alle impressioni visuali appropriate e tuttavia conservavano la facoltà di produrre questi movimenti in risposta ad eccitazioni uditive corrispondenti. D'altra parte si racconta di persone incapaci di effettuare i movimenti della scrittura quando lo stimolo era uditivo, mentre erano capaci di compiere immediatamente gli stessi movimenti in risposta alle impressioni visuali. tra i quali il Ribot, il Richet ed altri, non esitarono a rispondere in modo affermativo, ma altri più circospetti dovettero concedere che il senso muscolare non è un fattore costante dell’attività interiore, soggiungendo però che quest'ultima in tanto si rivela come tale alla coscienza, in quanto mediante la riflessione e la memoria è messa in rapporto con sensazioni muscolari in antecedenza provate. Ognuno' però vede l'errore che è in fondo a questa affermazione: la riflessione e la memoria non possono mutare qualitativamente nessun fatto psichico. Inoltre le sensazioni muscolari possono solamente essere un indice dell'intensità della volontà, allo stesso modo che in un atto di scelta la forza dei motivi in contrasto guida il nostro giudizio sull’intensità della volontà chiamata et scegliere : ma esse non possono mai dar ragione del caso semplicissimo in cui una rappresentazione per la prima volta ecciti l’attenzione. Coloro che hanno riposto l'essenza della volontà come di ogni attività psichica nelle sensazioni muscolari, non si sono mai domandati, perchè noi consideriamo (il che è un fatto) un'azione, un movimento, o una contrazione muscolare come voluta, ma non come parte essenziale della volontà, dal che sì deduce che le sensazioni che accompagnano la contrazione muscolare non possono essere comprese quali elementi della volontà : è ciò che precede ad esse che forma il nocciolo dell’attività. Non basta : Perchè alle rappresentazioni dei movimenti, si può domandare, non sempre tengono dietro i movimenti effettivi corrispondenti? È vero che Miinsterberg risponde che in tali casi un impulso più forte impedisce a quelle di effettuarsì : ma donde e in che consiste questo impulso più forte? E qui l'opinione del Miinsterberg si confonde con quella dello Spencer e dello Steinthal, i quali alla lor volta non possono dar ragione del disaccordo che si nota spesse volte tra la rappresentazione di un movimento e la sua esecuzione, del perchè anche nell’assenza delle condizioni di arresto, non sempre una rappresentazione di movimento produce un movimento reale, e del perchè fra molteplici rappresentazioni di movimento anche non contradicentisi fra loro, una sola riesca a produrre di preferenza un movimento effettivo. Senza dire poi che rimane sempre da spiegare in che propriamente consista l'arresto. Il senso di energia non rivela una qualità particolare del mondo esteriore come, poniamo, il suono, la luce, ecc., ma è essc stesso una qualità generale, applicabile a tutto il contenuto della vita psichica. E in ciò proprio, secondo noi, sta la ragione principale per cui il senso di forza non può avere un organo speciale, nè può appartenere alla proprietà della nostra mente che si chiama rappresentativa. Nessuno penserà mai di applicare una sensazione tattile o luminosa ad una sensazione sonora, ma tutti crederanno di poter applicare la nozione di forza ai vari elementi psichici: dal che si deduce che una tale nozione ha la sua base in una proprietà generale di tutta la psiche, la quale proprietà come la vita, si rivela immediatamente alla coscienza. Coloro che hanno creduto di poter ricondurre il senso di forza alle sensazioni muscolari, non hanno in alcun modo provato come queste possano ottenere il privilegio di divenire regola e misura di tutte le sensazioni. Se esse sono sensazioni come le altre, se esse hanno i medesimi caratteri, non potranno dare che effetti affini, vale a dire. una notizia più o meno precisa delle impressioni che si producono nelle parti periferiche, in cui vanno a finire le terminazioni nervose. Da ciò al poter salire al grado che occupa nella nostra coscienza e nel nostro sviluppo psichico il sentimento di energia molto ci corre: non basta che talune sensazioni variino in una certa maniera ed in minor grado rispetto ad altre con cui sono in stretta relazione, perchè le une diventino misura delle altre. Quelli che hanno attribuito alle sensazioni muscolari l'ufficio di divenire forma di tutto il contenuto psichico non hanno riflettuto che perciò stesso venivano implicitamente ad ammettere un'attività o spontaneità interiore, capace di ordinare e disporre in una certa guisa taluni fatti psichici rispetto agli altri. L'attività interiore non diviene cosciente solamente in seguito alle sensazioni muscolari, ma anche in seguito a tutti gli altri fatti psichici, dai più semplici ai più complessi, nei quali la contrazione muscolare non ha niente a che fare. La vivacità con cui irrompono nella fantasia di un artista le imagini di cui egli compone l’opera d'arte e le varie forme d'intensità con cui reagisce lo spirito agli stimoli esterni sono altrettante modalità con cui si rivela alla coscienza l’attività interiore. I’altronde la tendenza ormai accentuata a spiegare il senso dell'attività per mezzo delle sensazioni muscolari ha un fondamento solido, positivo, sperimentale, o non è piuttosto un'ipotesi comoda per velare la nostra ignoranza ? Oramai è notorio che taluni psicologi attribuiscono alle sensazioni muscolari tutto ciò che non è spiegabile per mezzo delle altre sensazioni periferiche e in ciò sono seguiti dagl'inesperti, i quali non si domandano se le sensazioni provenienti da organi come i muscoli possano dare tanti effetti strordinari. L'argumentum crucis di tali scienziati in fin dei conti è che se un individuo è reso privo della sensibilità nei muscoli di un arto, non’ può valutare nè il peso, nè l'estensione, nè la direzione dei suoi movimenti e nemmeno la forza necessaria per compiere questi ultimi. Ma, domandiamo noi, è lecito da un tal fatto dedurre che il senso della furza e dell'attività è dato dai muscoli senz'altro ? Un tal ragionamento non somiglia forse a quello per cui si considera il pensiero una funzione del cervello, sol perchè pensiero e cervello mostrano di essere in connessione fra loro ? Se ciò fosse esatto, si dovrebbe dire che l’idea è una funzione o un effetto della parola, sol perchè l’idea e la parola che l’esprime sono intimamente connesse fra loro. A noi sembra più positivo affermare che l’attività dello spirito, come la vita, lungi dall'essere riposte in una parie sola dell'organismo, compenetrano tutto quest’ultimo ed hanno bisogno di esso per attuarsi, deterininarsi e concretarsi, come l’idea dell’artista ha bisogno della materia (marmo, colore, ecc.) per tramutarsi in qualcosa di reale. Noi certo non possiamo dire, come credette Maine de Biran ed altri, di aver coscienza immediata dell’energia in quanto motrice, ma semplicemente in quanto mentale, cioè in quanto sforzo di volontà per produrre un mutamento di stato : sforzo mentale che si accompagna 1° con una scarica cerebrale di cui si ha un sentimento particolare (senso di sforzo cerebrale); con una corrente centrifuga attraverso l'organismo, della quale non abbiamo coscienza; 3° con movimenti muscolari che ci sono noti per via di sensazioni afferenti. E ciò che esiste nella coscienza non è il movimento come mutamento di relazione nello spazio, ma il principio reale del movimento, il suo fondo interno, cioè un'azione od una reazione che ha per conseguenza dei cambiamenti interiori e dei cambiamenti locali. Il movimento effettuato è una rappresentazione della memoria, la quale ha bisogno di essere interpetrata. Coloro che credono di poter fare a meno di ammettere una forma di attività originaria dello spirito, credono di poter spiegare l’azione che ha la volontà sul corso delle idee mediante le ordinarie leggi dell’associazione. Essi dicono p. es. : se noi intendiamo di modificare. o di mantenere o di sviluppare una serie di pensieri determinati, noi non dobbiamo far altro che richiamare per via di associazione quelle impressioni che ci sembrano utili al nostro scopo : impressioni di natura differente, se si tratta di cacciar via o d'interrompere un seguito di ricordi, della stessa natura quando noi desideriamo di fortificare e di sviluppare le associazioni, alle quali ci siamo fino allora applicati. Jl sentimento di sforzo per costoro è connesso col conflitto delle idee e dei motivi, il quale deve produrre la preponderanza di uno di essì. Tale sentimento di sforzo nou può che essere l’appannaggio dell'attività dei centri sensoriali e dei loro annessi concorrenti all'esercizio dei nostri processi intellettuali. Ognuno vede qual'è l'errore di ‘ coloro che ragionano nel modo sudetto ; essi elidono la difficoltà che è riposta appunto nel dover dar ragione della nostra capacità di richiamare in soccorso quelle impressioni che ci fanno comodo (1): essi ammettono come provato quello che era appunto da provare, la possibilità di dire io voglio , e quindi di interrompere un dato corso di idee e di cominciarne un altro o di sviluppare quello già esistente. Nel passaggio dallo stato di- distrazione a quello di attenzione vi è aumento di lavoro, vi è dunque trasformazione di forza di tensione in forza viva, di energia potenziale in energia attuale : ora è questo un momento iniziale molto differente dallo sforzo sentito che è un effetto. Il rapporto del desiderio colla sensazione piacevole o dolorosa costituisce la reazione della volontà ed in quanto noi riteniamo ciò che è piacere e respingiamo ciò che è dolore abbiamo un senso di sforzo volontario, di sforzo mentale che è ben altra cosa dello sforzo ordinariamente sentito. Tale momento iniziale è precisamente la volizione, la tensione del desiderio dominante, la vera attenzione : è qui la coscienza dell'attività; mentre il preteso sforso sentito non è che la sensazione della resistenza degli sforzi contrari al nostro e differenti da esso. La coscienza della passività o della resistenza subita risponde alle sensazioni venute dai muscoli. Cosi anche l’attenzione muscolare non è che quella, la quale, avendo incontrato una resistenza, è obbligata a riflettersi su sè stessa, divenendo più chiara, più distinta, come nota il Fouillée (2). Non ogni forma In tanto lo spirito, dice Emanuele Hermann Fi.:hte, può prenlere un dato in'lirizzo, in quanto può volgere il sorso dell: sue idse nel senso che maggiormente lo interessa ; ora l'interesse non è che una tendenza, una direzione dell'attività volitiva che se si trova in rapporto soltanto col g‘ado di chiarezza cosciente può essere chiamata attenzione volontaria dipendente dall’intenstà di dati fatti psichiri. Revue phlosoqhique. d'attività però si può ricondurre alla ripercussione dell'ostacolo. Non va dimenticato che l’attività di cui abbiamo coscienza in modo permanente in mezzo a’ tutti i mutamenti può essere rappresentata da noi solo dopo che è stata apapplicata a produrre determinati effetti, nel qual caso diviene tale o tal altro sforzo ; e di ciò si comprende la ra | gione: l’azione, rappresentando il fattore subbiettivo che concorre alla produzione di un fenomeno, è cosa soggettiva per sua natura e deve quiudi sfuggire alla rappresentazione propriamente detta. Volersi rappresentare obbiettivamente l'azione subbiettiva è come voler rappresentarsi l’attività sotto la forma della passività. Ferrier e Ward dissero già che non è esatto nemmeno affermare che noi ignoriamo i caratteri dell'attività, giacchè non vi può essere ignoranza se non di ciò di cui si può acquistare scienza: questo noi possiam dire, che abbiamo coscienza immediata del subbiettivo, dell’attività. Del resto valenti filosofi affermarono le mille volte che la critica della conoscenza riconosce due limiti, ciò che è troppo lontano da noi (Assoluto) e ciò che è troppo vicino a noi, troppo noi stessi per esser posto dinanzi a noi. Il soggetto è presente a sè stesso, ma non è rappresentato a sè stesso: noi siamo certi di esistere e di vivere, ma non possiamo rappresentarci in modo astratto e generale che cosa è esistere e molto meno che cosa è vivere. È Münsterberg, se non andiamo errati – Grice: “In fact, the first was Cicero!” -- , il primo ad emettere l'opinione che l’unico fondamento psichico delle nostre misure d’intensità è la sensazione mus colare, in quanto ogni misura riflettendo o la estensione, o la durata o la massa, la stessa non è possibile che sulla base della sensazione muscolare. Misurare è constatare l’esistenza in maggior quantità nel tutto, in minor quantità nelle parti di un elemento identico; ora in ogni percezione la sensazione muscolare è il solo elemento che quando si divide in parti l'oggetto della percezione stessa, sì ritrova in ciascuna parte, ma in minor quantità che nel tutto. Ciascun pezzo di carta rossa, p. es., dice il citato autore, resta tanto rosso quanto tutt’intera la carta, e però il rosso del tutto non può essere misurato per mezzo del rosso di un pezzo preso come unità. D'altra parte ogni sensazione provocando una reazione centrifuga muscolare, al solito s'associa con una sensazione determinata di tensione muscolare che vale a conferirle un dato grado d’intensità e nello stesso tempo a renderla misurabile. Solo la sensazione muscolare offre il carattere della sensazione debole contenuta nella forte, giacchè l’una e l'altra non sono qualitativamente differenti, ma differiscono solo per la durata ed estensione. C'è stato chi a tale teoria esclusiva e si può dire anche Minsterberg, Beitrige zur experimentellen Psychologie H. III.Freiburg. eccessiva del Miinsterberg ha rivolto delle obbiezioni, notando come anche per altre sensazioni si possa dire che la debole è contenuta nella forte (es. : gusto, odorato, senso terinico ecc.), tanto è vero che quando uno tocca l'acqua d'un bagno caldo con la mano prova una sensazione di calore molto meno forte che quando visi immerge tutto intero dentro. Inoltre, ed è questa l’obbiezione più seria, se veramente solo le sensazioni muscolari potessero essere misurate, ne conseguirebbe che le altre non lo potrebbero in alcun modo, il che non è; è innegabile, infatti, che vi è l’equivalente di una misura diretta del calore per mezzo del calore, come si verifiva quando noi paragoniamo diversi gradi di calore a cul ci troviamo sottoposti. Ora supponendo che nella pratica solamente le sensazioni muscolari associate alle altre potessero essere misurate, il principio che a ciù ci autorizzerebbe sarebbe il postulato che le variazioni delle sensazioni specifiche sono sottomesse alle medesime leggi delle variazioni muscolari a loro corrispondenti. In tal guisa si presuppone che gli aumenti di calore progrediscano secondo una legge identica a quella della progressione della dilatazione: si presuppone non solo la misura diretta delle dilatazioni, ma anche la misura diretta o la comparazione delle temperature fra loro. E poi, se i gradi d'intensità sono delle qualità, se le intensità delle sensanzioni muscolari si riducono a variazioni nella durata, se non vi è posto per le intensità delle sensazioni particolari, perchè anche nel linguaggio comune sono distinte nettamente le intensità, le qualità e le durate? Donde viene la nozione d’intensità e con qual diritto si può più parlare della intensità dello stimolo ? Si aggiunga che il Munsterberg non distingue sufficientemente l'intensità della sensanzione muscolare dalla percezione dell’ampiezza del movimento effettuato. Or tali divergenze non devono essere considerate come senplici opinioni contradittorie, atte a provare soltanto la difficoltà delle indagini psicologiche e la impossibilità di giungere a risultati positivi : esse per contrario di:nostrano come attualmente s’imponga alla mente del filosofo l'’esigenza di considerare e di valutare i rapporti esistenti tra i fatti psichici e l'a‘tività originaria dello spirito. Il Miinsterberg ha ragione fino a tanto che ricerca nella estrinsecazione della spontaneità dello spirito la misura comune di tutti i fenomeni psichici, i quali effettivamente in gran parte, com'è stato luminosamente provato dal Berg. son, presentano delle differenze di qualità più che d'intensità o di quantità. E se noi ci limitiamo a considerare la mente come una coordinazione di vari elementi psichici, di varie sensazioni rispondenti agli stimoli esterni, non ve. diamo realmente la possibilità di arrivare alla nozione del l'intensità di varie sensazioni appartenenti ad un medesima senso specifico e molto meno vediamo la possibilità di paragonare le intensità di sensazioni specifiche differenti. Ond'è che per noi il merito del Miinsterberg è di avere intraveduto due verità : 1° che la valutazione e la misura dei varî gradi d’intensità di una sensazione è possibile solamente ammettendo nel fondo un’unità coordinatrice che renda possibile il riferimento tra cose differenti; 2° che questa unità si rivela mediante la percezione immediata della propria attività. Ma il suo errore comineia quando crede di poter ridurre tutta l'attività psichica al movimento (senso muscolare), il quale non ne è che uno dei fenomeni concomitanti, ovvero consecutivi. Ciò non esclude però che qualche volta in via indiretta possa il senso muscolare esserci di valido aiuto nella comparazione dell'intensità di sensazioni provenienti da sensi diversi. Infatti, delle sensazioni di luce, di suono, di peso di un dato grado d'intensità sono state paragonate da una parte coi moviinenti del braccio e dall'altra coi movimenti degli occhi; e sì è ottenuto il risultato che l'aumento dei movimenti coincide con quello dell' intensità degli stimoli: vi è rapporto adunque tra l’accrescimento dell'intensità propriamente detta e quello della reazione muscolare concomitante. In ogni caso però non si può limitarsi a considerare le sensazioni muscolari come misura dell'intensità delle altre sensazioni, se non ponendo ‘ il postulato che ciò che è vero di esse sotto certi rapporti lo è anche delle altre sensazioni. La valutazione dell'intensità presuppone un'attività originaria differenziatrice e insieme assimilatrice la quale da una parte distingue qualitativamente gli effetti prodotti da varî stimoli sugli organi dei sensi e tutti i fatti psichici aventi come concomitanti fenomeni organici diversi, e dall'altra stabilisce, intuendoli, quei rapporti dati dall’identità o somiglianza della forma ed estensione della reazione psichica agli stimoli esteriori. Noi non potremmo valutare come gradi differenti d’intensità le sensazioni appartenenti ad un medesimo senso, nè potremmo stabilire dei rapporti tra le intensità di sensi differenti, se non fossimo in grado di avere una percezione immediata dell'attività psichica che pur essendo unica e identica nel fondo, spiega in guise differenti la sua azione a seconda delle numerose e variabili circostanze. Per la rappresentazione il movimento è fin da princinio un continuo cangiamento di luogo; quindi l'origine sur deve ricercarsi nelle sensazioni geometriche, visive e tattili, e specialmente in quelle che conferiscono ad esse la continuità, l’uniformità e la misura, cioè nelle sensazionmuscolari. Queste si dicono e sono sensazioni di movi mento; ma da ciò non si potrebbe conchiudere che il movimento sia una sensazione. Se esso è un'intuizione coordinata con quelle del tempo e dello spazio, che non sono sensazioni, se la sensazione muscolare per se stessa è una pura successione interna, il movimento non può essere il suo con tenuto immediato più di quello che possa essere il contenuto immediato delle sensazioni uditive, Le sensazioni muscolari diventano dunque sensazioni di movimento, come diventano sensazioni di spazio; e poiché esse sono anche il fattore psicologicn più importante delle percezioni di spazio, si vede come la coordinazione delle intuizioni dello spazio e del movimento risulti anche dalla loro origine psicologica. La quale, a volerla studiare più a fondo, si mostra dipendente da varie condizioni. Anzitutto, perchè ci sia percezione di movimento, occorre che il mobile e lo spazio (visivo o tattile) restino identici, almeno quanto è necessario, perchè sia conservato un punto di riferimento, dal quale si possa apprezzare il cangiamento di luogo. Se tutto mutasse nella stessa direzione, lo spazio e il mobile, non ci sarebbe percezione di movimento. Inoltre bisogna che il cangiamento di luogo sia insieme continuo e percettibile. Continuo, perchè se vedessimo una cosa ora in un luogo, ora in un altro, senza vedere il passaggio, non potremmo avere percezione di movimento, ma solo argomentarlo qualora avessimo già idea di quello che è il movimento. Percettibile, perchè se non ci riuscisse di vedere cangiar luogo, ma solo di vederlo cangiato, non ci potremmo formare la prima volta l'idea del movimento. Continuo e percettibile insieme, perchè la continuità senza la percettibilità sarebbe immobilità apparente, e la percettibilità senza la continuità sarebbe cangiamento di luogo senza transizione. E non basta, perchè nasca l’idea del movimento, il continuo e percettibile cangiamento di luogo d'un oggetto su un fondo invariabile; bisogna ancora che la coscienza ponga unità tra i luoghi, e tra essi e il mobile. Siccome il movimento è il rapporto di due o più collocazioni che si succedono con continuità, accade per esso quello che accade pel tempo, che la sua rappresentazione suppone la funzione unificatrice della coscienza o del sentimento dell'organismo. Queste sono le condizioni generali dell'origine della rappresentazione del movimento, ma ce n'è un'altra, costante anch'essa, ma che può subire piccolissime variazioni da individuo a individuo, ed anche nello stesso individuo per effetto dell’esercizio, e che possiamo designare col nome di limite della percettibilità. Cotesto limite dipende dalla misura individuale del movimento come rapporto del tempo e dello spazio, la quale è nna grandezza finita, che non può misurare qualunque movimento oggettivo, ma lascia senza misura, e quindi senza percezione corrispondente, tanto i movimenti estremamente lenti quanto gli eccessivamente rapidi. Non vediamo crescere il filo d'erba, nè volare il proiettile; e non avremmo nessuna percezione di movimento tanto se la nostra misura individuale fosse troppo grande quanto se fosse troppo piccola ; nel primo caso i tempi geologici ci parrebbero un istante, nel secondo qualunque successione ci parrebbe infinita. E poichè per apprezzare una successione, e quindi anche un movimento, è necessaria una certa continuità nella coscienza, così la nostra misura soggettiva deve avere una certa grandezza, che non corrisponde a nessuna misura che sia oggettivamente asso luta, ma che è rispettivamente somma o parte delle grandezze oggettive minori o maggiori. È facile intendere che quella che è un'unità di misura indivisibile per la sensibilità, non è tale oggettivamente o per l'intelligenza. In questa unità l'elettricità p. es., percorre uno spazio grandissimo, e l'accrescimento di una pianta secolare percorre uno spazio piccolissimo. Quindi noi giudichiamo che si è svolta nel primo caso una serie di unità obbiettive che sono parti dell'unità soggettiva, e che nel secondo caso questa è una frazione di quella. Di qui si vede che il movimento non solo non è una sensazione, ma non è neppure una conoscenza, una rappresentazione, la cui origine si possa riportare interamente all'esperienza. Certo la misura psicologica dipende dall'organismo, ed è impossibile che sia la stessa pel pachiderma 19ole e rmen = _r___ror _ rr m1r.rr E ::]5h5I:5D anch'esse il risultato di un processo in cui l'intelligenza e la cultura figurano come fattori determinanti. É notorio d'altra parte che le rivoluzioni compiute nel campo della scienza a lungo andare. finiscono per mutare anche il punto di vista morale e religioso. Il fatto è che in ogni religione va distinto l'elemento invariabile ed inalterabile da quello caduco e variabile, ma ì detti due elementi nello svolgimento della vita religiosa sono inseparabili e s'influenzano a vicenda: è soltanto la nostra facoltà di astrarre che viene a separarli ed a considerarli isolatamente. Così l'evangelo stesso, è vero, non involge alcun sistema cusmologico ; ma involge bene un giudizio intorno al valore della vita e dello spirito umano. L’ amore per il prossimo, lo spirito di sacrificio non son fondati forse sull’idea dell’eguaglianza degli uomini e sul concetto che l'io è nulla di fronte al Tutto ? Ora i concetti dell’eguaglianza degli uomini e della piccolezza dell'io non rappresentano per una parte un portato della Ragione e non poggiano sopra una base speculativa? Del pari chi vorrà più sostenere che la filosofia socratica non ha un fondamento metafisico, quando Socrate stesso ci parla della sua preparazione speculativa? Sicchè possiamo dire che è bensi vero che la religione ha la sua radice nel cuore uinano, ma ciò non implica che essa sia un prodotto esclusivo del sentimento: perchè il cuore abbia e riconosca in sè tracciate le vie da seguire, occorre bene l’azione dell'intelletto, in quanto quello non fornisce una specie di rivelazione immediata e prodigiosa, ma anch'esso si forma ed alla sua determinazione concorrono parecchi fattori, tra i quali l'intelligenza. Anche nel modo di concepire la finalità il Paulsen appare dominato dal preconcetto del sistema. Egli, infatti, afferma che la veduta teleologica è un prodotto del sentimento e della volontà e non dell’intelligenza : ora se egli intende dire con ciò che la concezione teleologica non è conoscenza nello stretto senso, ma contemplazione, ha ragione ; ma in tal caso, è necessario osservare che il bisogno del sistema della razionalità del reale, al quale risponde appunto la considerazione teleologica, è un bisogno eminentemente intellettuale, e non un bisugno puramente subbiettivo ed arbitrario. La veduta teleologica è la sola forma possibile di rappresentarsi il tutto e di superare l’infinità mostruosa del naturalismo meccanico che nega ogni natura ideale della realtà. Se l’esperienza ci presenta realmente un ordine di fenomeni che è un ordine di valori pel pen| siero, non c'è ragione di ritenere che quest'ordine non sia una cognizione, solo perchè non sappiamo determinatamente come l’ordine causale, effettuandolo, si subordini ad esso e gli serva. Possiamo noi forse pensare un'altra maniera di esistenza oltre quella che è soltanto, e quella che è e _ 8a di essere e vuole, e crea dal suo sapere e volere un mondo superiore a quello della semplice natura? Edè egli possibile di non scorgere un progresso dall'una all'altra forma d'esistenza, un progres;o che pone in ordine di valori razionali una serie di fatti e di forine naturali ? Questo valore dell'esistenza dipende forse dal modo di sentire di un individuo ? Non è piuttosto anch'esso un fatto, la cui constatazione (giacchè non è possibile la determinazione del modo d’operare della finalità) figura già per sè come una forma di cognizione ? Veramente qui le idee del Paulsen non sono chiare ed anzi in un certo senso sembrano contradittorie. Da una parte egli dice che la cone cezione teleologica è un prodotto delsentimento e del volere individuale (del volere e del sentimento del soggetto umano che si trova di fronte Dopo tutto quello ‘che precede non abbiamo bisogno di. spendere molte parole per discutere del rapporto posto dal Paulsen tra la filosofia e la religione, e tra la filosofia e le scienze particolari. Una volta che lo spirito umano è uno e che le sue funzioni non sono compiute maiisolatamente, quando si vuole determinare il compito della filosofia rispetto a quello della religione non basta affermare che quest'ultiina risponde alle esigenze dell’emotività, mentre la prima a quelle dell'intellisenza. Nella filosofia vi è il momento dell’emotività e del volere come nella religione vi è necessariamente il momento della conoscenza. Si tratta appunto di determinare fino a che punto ed in che senso il momento della conoscenza interviene nella religione e quello del sentimento nella filosofia. Ora noì di passaggio notiamo che mentre per la filosofia il fine ultimo è la conoscenza, ond’essa mira appunto a trascrivere in termini di conoscenza le esigenze emotive e le aspirazioni del volere, formando un tutto armonico intelligibile, per la religione lo scopo è di trovare un appagamento ai bisogni dell'animo per il che si serve della conoscenza come di mezzo appropriato a raggiungere il suo intento. Ciò che. all'universo) e dali’ltra crede di poter dare una certa idea del modo di operare del principio teleologi:0, riferendosi a ciò che ci presenta l’esperienza interna in quei casi in cui la nostra attività raggiunge un dato < risultato (fine), senza che esista alcuna rappresentazione dello scopo a cui inconsciamente essa tende (Zielstrebigkeit). Egli si riferisce ad una tale esperienza in forza del parallelismo psicofisico e dell’animazione universale da lui ammessa, Noi osserviamo che una volta ammesso che l’attività opera in modo cieco, non è possibile parlare di cognizione te leologica vera e propria, ma di contemplazione nel senso di Kant e di Lotze. in un caso vale come mezzo e come un momento subordi. nato, nell’altro diviene fine 0 momento essenziale. Quanto al rapporto poi della filosofia colle scienze particolari osserviamo che è impossibile confondere il compito della filosofia con quello delle scienze per due ragioni: 1° Non è vero che le singole scienze si possano e sì debbano occupare dei presupposti da cui le loro indagini prendono le mosse, che, p. es., la fisica si debba occupare della natura dello spazio e della materia. La filosofia bensi ha bisogno di fondarsi sulle leggi e propretà scoverte dalle scienze, ma elabora i detti risultati a suo modo, ed elaborandoli, li trasforma. Quel che è certo è, che si può essere . scienziati senza esser filosofi, ma non si può essere filosofi senza avere una base scientitica. 2° Il cultore di una scienza particolare non varca quasi mai i limiti della propria specialità e, se li varca, rimane sempre entro i limiti delle scienze vicine ; non mira mai a ricercare il nesso, il rapporto che esiste tra i vari ordini di sapere, sia di quelli che sono affini tra loro che di quelli che sono lontani; ora ciò fa appunto il filosoio. Ciò che vi ha di esatto nell'opinione del Paulsen è che il vero in ogni parte del nostro sapere sta in un processo di approssimazione indefinità ad un ultimo senso, ad un significato delle cose impossibile a conseguirsi da noi, e che i sistemi metafisici non sono, come direbbe il Barzellotti, che le cèntine immense su cui i grandi . architetti del pensiero voltano uno dopo l' altro l’ edificio ideale compiuto dal sapere del loro tempo. Notiamo infine che una volta ammessa quale parte della filosofia la metafisica, come si può dire che la biologia, la fisica e la chimica sono anche parti di quella? Ciò che LA FILOSOFIA DELL'ATTIVITÀ 453 vi ha di filosofico in dette scienze è preso dalla metafisica. Il compito della filosofia è sciogliere il problema nella sua totalità. La filosofia pertanto ha un obbietto proprio e non è più lecito affermare che essa sia una semplice sintesi riassuntiva del lavoro compiuto dalle altre scienze. Dall'impossibilità di derivare il fenomeno fisico dal fatto psichico e questo da quello il Paulsen fu tratto ad ammettere il parallelismo psico-fisico e quindi l’ animazione universale, con cui egli volle esprimere evidentemente l’unità fondamentale della natura e dello spirito. Ora si domanda: Vi è una vita psichica superiore, più elevata, più comprensiva, come ve ne è una di grado inferiore a quella d'ordinario ammessa ? Il Paulsen risponde di sì ed è questo, a noi pare, uno dei punti importanti, o almeno caratteristici, della sua metafisica. Per risolvere una tale questione occorre tener presenti i criteri che noi abbiamo per giudicare della realtà psichica. Noi sappiamo che tanto più di realtà una cosa ha quanto più di valore possiede e quanto più di forza, di efficaciaè atta a spiegare: così noi siamo disposti ad ammettere un volere ed una coscienza collettiva, perchè noi siamo in grado di constatare gli effetti che essi producono sulla vita degl'individui e sullo svolgimento della società: per contrario le unità psichiche d'ordine superiore, quali vengono ammesse dal Paulsen, che effetti psichici producono ? Per quanto sappiamo noi, nessuno. I fenomeni esterni che noi osserviamo nella vita degli astri in genere, avranno anch'essi il corrispettivo interiore, ma questo sarà di natura semplice ed elementare, come sono i fenomeni esterni (movimenti più o meno complicati) da essi presentati. Quale ragione noi abbiamo per ammettere una vita psichica differenziata, complicata ed insieme armonica negli astri? Se per lo svolgimento dello spirito è richiesto un sostegno esterno così complesso, se in tutta la distesa dell'esperienza la natura è giunta a maturare in sè il frutto dell’esistenza spirituale quale a noi attualmente e nel processo storico si presenta, se la vita spirituale ha bisogno di svariati istrumenti complessi (tra 1 quali basta citare il linguaggio che rappresenta una delle condizioni di essenziali ogni forma di esistenza psichica d'ordine elevato), con che dritto attribuiamo noi una vita psichica superiore agli astri, iquali si presentano cosi monotoni e indifferenziati nel loro modo di operare ? Notiamo in ultimo che l'argomentazione a cui è ricorso il Paulsena tal proposito è quella per analogia; ma ognuno sa che questa in tanto ha valore in quanto i caratteri riscontrati simili in due serie di fatti sono essenziali; ora tra i fenomeni presentati dai pianeti e quelli presentati dagli esseri spirituali veri e propri non si può in alcun modo dire che vi sia corrispondenza essenziale. Passiamo alla teoria della conoscenza. Si è veduto che la parte essenziale della (inoseologia del Paulsen è che in un punto solo conoscenza e realtà coincidono, vale. a dire nella coscienza, giacchè i fatti interni noh possono essere fenomeni, ma sono la sola e vera realtà. I fatti psichici, infatti, in tanto esistono in quanto sì rivelano alla coscienza; la loro natura sta tutta appunto nell' apparire nella coscienza la natura del pensiero è tutt’ una collo sperimentare e coll’avvertire il pensare, come la natura del sentire è tutt'una collo sperimentare e coll’ avvertire il sentire. È impossibile, in altri termini, separare la vita psichica dall’avvertimento della stessa, come è impossibile separarla da ogni forma d’'interiorità : togliete questa ed avrete per ciò stesso annullato la vita psichica vera e propria. D'ultra parte per poter affermare chei fatti psichici suno fenomeni bisogna ben sapere in rapporto a chi possono essere essi feno meéni; e per tal via non sì viene ad ammettere come a3sodato ciòche è un problema, vale a dire l’esistenza dell'anima come sostanza semplice ? Ma da ciò consegue forse che di reale nella vita psichica non vi siano che i singoli fatti psichici, quali le rappresentazioni, i sentimenti, come mostra di credere il Paulsen? A noì non pare: invero, ciascun fatto psichico, esso sia una rappresentazione o un sentimento o qualsiasi altro elemento, lungi dal rivelarsi qualcosa di semplice, d’ irriducibile, di primitivo e d'indipeudente, si manifesta come qualcosa di derivato dalla cooperazione di parecchi fattori, tra i quali primeggia il soggetto, intendendo per questo ciò che costituisce il punto di appoggio, il punto di riferimento, e quindi il fondamento e il sostegno di ogni singolo fatto psichico. L'esistenza del soggetto figura ‘come la condizione essenziale del prodursi di un fatto psi. chico. Ciò è stato riconosciuto anche da coloro che negano la realtà del soggetto; ma essi hanno cercato di eludere la difficoltà, dicendo che il punto di riferimento del nuovo fatto psichico è dato dall’insieme della vita psichica svoltasi per lo innanzi: se non che va osservato che si vada indietro quanto si vuole, bisognerà bene arrivare al punto in cui il primo fatto psichico si presenta: ed in questo caso è evidente che è presupposta del pari l'esistenza del soggetto, l'esisteuza di qualcosa d'interno che non può più consistere nell’ insieme dei fatti psichici antecedentemente svoltisi. Da tuttociò emerge chiaro che non è possibile considerare i singoli fatti psichici come i soli elementi reali, giacchè presuppongono necessariamente qualcosaltro che concorra alla loro produzione; in caso contrario si rimane chiusi in un circolo; per dar ragione dei singoli fatti psichici si ricorre ail'esistenza di un soggetto, all’ esistenza di un punto di riferimento, e dall'altra parte per dar ragione di quest'ultimo si ricorre ai sentimenti, alle rappresentazioni. Aminessa come innegabile la realtà del soggetto, si può domandare quale concetto dobbiamo noi formarcene : ora noi crediamo che tale questione non si possa risolvere altrimenti che ricorrendo a similitudini, ad analogie atte a farci intendere che la realtà del soggetto non deve essere ri posta in una sostanza semplice, in una sostanzaatomo, in un'ipostasi insomma, ma in quel qualcosa che rende possibile l’esistenza delle parti che costituiscono la vita psichica. Noi per denotare questo qualcosa siamo costretti a ricorrere ad espressioni vaghe ed indeterminate, come la parola sostanza, le quali sono soltanto valide a celare la nostra ignoranza. Allo stesso modo che la lingua non è reale come semplice aggruppamento di suoni e di parole, le quali, anzi, in tanto esistono in quanto vi è la funzione del linguaggio, ailo stesso modo che un organismo non figura come il puro risultato dell’ aggruppamento delle sue parti, le quali anzi presuppongono l’attività del germe da cui si svilappano, così l’anima lungi dal risultare dall'insieme dei fatti psichici va considerata come ciò che rende possibile l’esistenza di questi. La realtà vera e piena non appartiene agli elementi ultimi acuisi perviene mediante l'analisi, ma al tutto, o meglio, all'universale concreto e individuale, il quale può essere considerato come funzione di un universale concreto più elevato e questo di un ultro universale più elevato an‘cora fino a giungere alla Totalità che tutto in sè comprende. L'anima, si dice, è null'altro che la sintesi delle forze o potenze psichiche, vale a dire dei fatti psichici possibili; d'accordo: ma chi dice sintesi dice perciò stesso attività sintetizzatrice, perchè altrimenticome avverrebbe tale sintesi? E forse da sè stessi, ez /eye che gli elementi dei tatti psichici si riunirebbervo 2? Non basta : si dice inoltre: L'unità dei fatti psichici riferentisi l'uno all’ altro, richiamautisi, implicautisi a vicenda, ecco che cosa è l’anima: ma tuttociò non trae seco la conseguenza che l’anima è più che un semplice aggruppamnento di tatti psichici ? Perchè un fatto psichico possa richiamarne un altro, bisogna che vi sia qualcosa che colleghi entrainbi, bisogna che un'identità tondamentale sia il sostrato di entrambi: e per convincersi di ciò basta pensare che anche i collegamenti spaziali e temporali in tanto sono possibili in quanto vi è un soggetto capace di ordinare le rappresentazioni appunto secondo l’ordine spaziale o temporale. Dall'inerire di a, 6, c, ad A, domanda il Paulsen, conse gue forse la coscienza delle loro unità ? Certamente, rispondiamo noi, posto che A abbia la coscienza, comunque il’ rapporto intercedente tra i fatti psichici e il soggetto non sia nient' affatto un rapporto d'inerenza. Dire che cosa. è la coscienza è impossibile, essendo essa un fatto nltimo e irriducibile: dire che è attività, forza, sintesi, riferimento e distinzione ecc. equivale a metterne in evidenza delle note, ma non a significare che cosa in realtà sia. Osserviamo infine che il Paulsen sembra quasi che riconosca il suo errore, quando a proposito dell'anima esce. in affermazioni come questa: Il tutto precede le parti, l’Anima non è un Compositum ecc. Ora in tal guisa evidentemente abbiamo due’ concezioni dell'anima chenon possono per nessuna via concordare insieme : se essa. non è un aggregato, un compositum , non è lecito affermare che la realtà competa soltanto ai singoli fatti psichici, quali le rappresentazioni, iî sentimenti, ecc. Se il tutto precede le parti, come si può negare la realtà del soggetto, come si può asserire che l’Anima è un' ipostasi a seconda potenza? Per ciò che concerne l'Etica del Paulsen, cominciamo dall’osservare che il principio fondamentale di essa si trova. in contraddizione con l'essenza della moralità quale è in-. tesa dall'Autore, Se, infatti, la morale è una produzione del volere e del sentimento e non della intelligenza umana, come mai si può affermare che la valutazione degli atti” si riferisce sempre agli effetti da questi prodotti ? In tal caso l'essenza della morale è intellettualistica in quanto la considerazione degli effetti delle azioni è un processo essenzialmente intellettuale. Nè vale il dire che occorre far distinzione tra vita morale e scienza della vita morale, giac-chè prima di tutto la base della valutazione degli atti è un elemento della vita morale nella coscienza umana, in cui la riflessione, non si disse, agisce sulla volontà ; poi una delle due, o la considerazione del fondamento obbiettivo dell'imperativo morale, vale a dire la considerazione del tine ultimo verso cui tende lo sviluppo della moralità obbiettivamenie considerata, è da riguardare sempre ed in ogni caso motivo pressochè esclusivo dell'operare morale (nel qual caso è giusto fondare il giudizio valutativo sui risultati etfettivamente raggiunti mediante le azioni morali), ed allora non è più lecito parlare dell’ esistenza della vita morale indipendente dalla conoscenza, chè anzi in tal caso la moralità è fondata sulla conoscenza e sulla riflessione ; ‘ovvero la vita morale si è in certa guisa svolta indipendentemente dalla considerazione degli effetti delle azioni, ‘considerazione, la quale si è rivelata soltanto a chi si è posto a riflettere sull'insieme della vita morale, ovvero cioè gl’ individui hanno cominciato coll'operare in un dato modo per seguire gl’ impulsi del loro animo, senza aver di mira ‘alcun risultato obbiettivo che è divenuto evidente solo posicziornente, e allora ia veduta teleologica non ha nell'Etica un ufficio differente da quello che ha nella scienza in genere. In questo caso non è ragionevole fondare la valutazione degli atti morali sugli effetti obbiettivi. Ed anche qui la considerazione teleologica non è una conoscenza nello stretto senso della parola, ma è una forma di ‘contemplazione. L'Etica del Paulsen rimane impigliata nel suddetto dilemma. Il Paulsen ha ragione di respingere il puro formalismo kantiano, in quanto l'analisi dello spirito umano. mostra che la volontà non può entrare in azione se non avendo in vista un fine determinato e concreto, ma ha torto di affermare che la valutazione morale debba essere fondata soltanto sulla considerazione degli effetti consecutivi all’azione, senza tener conto della natura propria del volere (ovvero tenendone conto in modo secondario e subordinato). La volontà non è qualcosa di accessorio alla moralità, nè questa è fuori della volontà, allo stesso modo che il bello non è al di fuori dell'anima che lo sente e lo gusta. E mentre il prodotto artistico va giudicato alla stregua dell’ emotività estetica umana (sensoestetico), il fatto morale senza cessare di essere tale, non può essere considerato a parte dalla determinazione del volere che gli diede origine: e ciò perchè l'essenza del fatto estetico è nell’emozione estetica, mentrechè l'essenza di quello morale è nel volere. Un fatto staccato dal volere che l’ha determinato non può mai essere obbietto di un giudizio morale, come un bello che non è sentito non può essere oggetto di un giudizio estetico. In tanto è lecito parlare di moralità in quanto è in causa il volere che è quanto di più intimo abbia l'uomo, in quanto è in causa l’uomo stesso: e la considerazione degli effetti di un'azione in tanto può entrare nel giudizio valutativo degli atti umani in quanto gli effetti spesso, ma non sempre, sono: l’espressione del volere, sono il volere umano obbiettivato. L’Etica non si può limitare ad esaminare semplicemente la forma del volere e dell’ operare umano, ma deve anche prendere in considerazione il contenuto di questa, vale a dire il fine da raggiungere mediante il volere e l’azione. Ora lo scopo dell'attività umana non può essere determinato che con la guida della necessità morale e non può essere valutato che in base alle norme morali stesse. Per il che occorre che all'attività umana venga proposto non un fine qualsiasi, ma uno che sia in armonia colla naiura propria dell’uomo. Onde è che l’esperienza, il fatto cioè che questo o quell’individuo in questa o quella circostanza sì è proposto un dato fine e l’ha raggiunto, non ci autorizza niente atfatto a considerare senz’ altro lo stesso fine come morale e come degno di essere ricercato; è necessario per contrario che il detto scopo sia fondato necessariamente sulla natura dello spirito umano e derivato dalle leggi priori dello stesso. La psicuiogia potrà fornirci un'interpretazione adeguata della natura di queste leggi, ma nulla potrà dirci del loro valore e della loro importanza. In sostanza noi possiamo dire che ogni precetto morale O giuridico contiene ad uno stesso tempo elementi empirici ed a priori. Il contenuto particolare e determinato non può esser fornito alle norme etiche che dai bisogni e dalle contingenze in cui l’uomo si può trovare, mentre i caratteri dell’universalità, della necessità e della obbligatorietà non possono ad esse venire se non da questo che le varie forme dell'attività umana vengono considerate come processi e stati aventi la loro origine e il loro svolgimento in esseri ragionevoli e liberi. Non altrimenti che noi consideriamo come logicamente necessario solu ciò che, seguendo le regole del pensiero logico, deriva da dati presupposti, così diciamo moralmente necessarie quelle maniere di operare che per necessità logica derivano dai seguenti presupposti: che l’uomo è un essere ragionevole e che la parte spirituale della sua natura paragonata con quella animale, non solo ha un valore maggiore, ma ne ha uno incondizionato. Quanto più l'individuo riconosce tale necessità, tanto più squisito è il suo senso morale e quanto più la condotta di una persona si lascia guidare dal sentimento della medesima necessità, tanto più moralmente puro sarà il suo operare. L'adempimento del proprio dovere produce la pace dell’anima appunto perchè in tal caso la condotta è in accordo con ciò che all'agente sembra necessario alla conservazione: cd elevazione del proprio vaiore personale, di guisa che le leggi morali non esprimono chele condizioni nelle quali la nostra volontà è veramente funzione dello spirito ed è degna dell’appellativo di volontà ragionevole. È evidente che a misura che si va svolgendo la nostra vita spirituale e il suo valore ci si rende manifesto, acquistiamo coscienza delle esigenze che in rapporto a ciò ci si impongono e quindi acquistiamo chiara cognizione delle leggi morali. Fintanto che in noi non mette radici la persuasione che il comportarsi in un dato modo è da considerare come esigenza universale della natura umana, non è lecito parlare di moralità: onde consegne che l'uomo trae la nozione di ciò che deve fare non dalla esperienza, ma dalla considerazione di ciò che trova di più nobile ed elevato nel suo animo e dalle esigenze che una tale considerazione trae seco. Non si vede poi su che base si potrebbe costituire una norma fis:a ed universale per giudicare del valore morale di un’ azione, una volta che la determinazione del volere fosse considerata come unelemento accessorio e subordinato, tanto più se si pensa che la valutazione degli effetti è pressochè impossibile ad effettuarsi in modo esatto, tenuto conto delle svariatissime circostanze che possono concorrere a far variare l’importonza di essi; vero è che si dice che il giudizio morale ha come punto di riferimento gli effetti .che normalmente derivano da determinate maniere di operare, ma non si vede che in tal caso sono le maniere di operare, vale -a dire ledeterminazioni della volontà, che costituiscono la base vera dei nostri giudizi, mentrechè gli effetti figurano come una semplice conseguenza, unaspecie di estrinsecazione di quelle? Si obbietta che il giudizio morale fondato sull’intenzione dell'agente, è pressochè impossibile, tenuto conto delle insuperabili difficoltà che si oppongono ad un esatto esame psicologico, ma in tale asserzione vi è molto dell'esagerato. In ogni caso, una volta che si fa dipendere il giudizio morale esclusivamente dagli effetti consecutivi alle azioni, bisogna poi dire secondo quale norma noi valutiamo i detti effetti. Le idee del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto non si sarebbero mai potute formare, se nella natura propria dell'uomo e segnatamente nella sua ragione, non avesse radice il bisogno e la capacità di paragonarsi cogli altri uomini, di valutare i loro stati analogamente ai propri, e di estrarre dalla esperienza propria e da quella degli altri leggi generali aventi l'ufficio di regolarlo nei vari suoi atti; se insomma l'attitudine morale non avesse il suo fondamento ultimo nella ragionevolezza umana. Senza di questa condizione sarebbe stato impossibile trarre regole universali dai vantaggi o danni derivati da determinate azioni: ciascuno avrebbe evitato ciò che gli recava nocumento ed apprezzato ciò che gli giovava. Ancorchè sì voglia ammettereche l'esperienza delle conseguenze di dati atti abbia dato il primo impulso alla formazione delle idee morali, riman sempre da spiegare il loro completo svolgimento, giacchè ogni progresso morale ha come base la ragionevolezza umana. Da ciò deriva che i precetti morali, se traggono il loro contenuto dall'esperienza, devono la loro forza di obbligatorietà a leggi universali dello spirito umano indipendenti da qualsiasi esperienza. Ond’è che la scienza morale o l’etica non può avere altro obbietto che quello di rintracciare gli elementi della natura unana, dai quali deriva la tendenza ad anteporre a tutto gl'interessi spirituali e il benessere della società, nel che propriamente consiste la moralità. Come si vede, ciò che reude assolutamente difettosa la concezione morale del Paulsen è l'asserzione che basti l'esperienza per determinare i precetti morali. Infatti, si può domandare: Perchè ciò che è utile alla società deve essere praticato ? Perchè lo svolgimento delle varie attività e funzioni dell'individuo e dei suoi simili costituisce il fine umano? Si risponde: Perchè la coscienza sociale, perchè lo spirito collettivo così comanda; ma, si può domandare ancora: E perchè lo spirito collettivo dà di tali comandi ? Perchè esso è fatto cosi? E che dritto ha esso di dare dei comandi ? E che prove abbiamo della esistenza e della superiorità ci un tale spirito? E le domande non sono finite ancora: Perchè esistono quei tali istinti sociali che sono la radice di taluni costumi e consuetudini ? Da qualunque. lato sì consideri la questione, emerge chiaro che non è possibile trarre esclusicamente dall'esperienza il contenuto della moralità senza tener conto delle direzioni primitive ed originarie del volere umano illuminato e conpenetrato dalla ragione. È curioso che il Paulsen ammette che il problema della determinazione del fine ultimo della vita non possa esser risoluto dall’intelletto e quindi dall'esperienza, mentre quello riguardante i mezzi per raggiungerlo (virtù e doveri) sì. Ora se le virtù e i doveri sono insieme parti del fine ultimo della vita e mezzi per raggiungerlo, come mai possono essere determinati con metodo diverso da quello con cui è determinato lo scopo finale della vita ? L'esperienza non ci può presentare che fatti concreti collegati insieme, ma non potrà :nai darci la necessità per cui i dati fatti si collegano, nè il perchè così si collegano, come non’ può darci mai alcuna norma o regola, che abbia valor necessario ed universale. È innegabile che per quanto sì osservino fatti e si notomizzino, non sì caverà mai da essi una norina assoluta ed universale di operare. Convien dunque riconoscere in noi una facoltà o una disposizione primitiva per la quale, sotto l'impulso di alcuni fatti, sì. sveglia in noi l’idea del dovere, l'idea di un qualche cosa che si deve assolutamente fare. Questa coscienza del dovere considerata nella sua generalità quale coscienza d’un fine obbligatorio, superiore al nostro benessere individuale è, come abbiamo veduto, il fondamento comune e generale della natura morale degli uomini: ma a questo fondamento meramente formale si aggiunge necessariamente, nella coscienza di tutti, una determinazione materiale, varia secondo i popoli, i tempi e gli individui. Per ciò che riguarda la superiorità attribuita allo spirito collettivo nelle sue varie forme rispetto allo spirito individuale, giova notare che non ogni forma di collettività. è superiore all'individuo, come non in ogni caso l’indivi duo deve seguire i più. È da questo punto di vista che le idee emesse dal Paulsen sulla natura del dovere meritano d’essere completate. Le unità collettive che hanno un valore più elevato sono quelle che condizionano l’individuo, quali la famiglia e la società presa in senso lato. È evidente che senza la famiglia e la società non vi sarebbe nè individuo, nè cittadino, il quale dapprima è per cosi dire una cosa con esse, e se ne distacca soltanto in un tempo posteriore, quando il volere individuale ha acquistato tanta forza da poter vivere e svolgersi in modo autonomo. Le dette unità collettive condizionando la vita individuale, sono universali, nel senso che non vi è uomo, il quale non appartenga ad una famiglia, o ad una società. È chiaro che le stesse collettività lungi dall'essere un prodotto . dell'astrazione, sono quanto vi può essere di concreto, e vivono ed operano negli individui ; è evidente del pari che iascun individuo sì sente intimamente legato ad esse, ri flette nel suo animo le loro tendenze ed aspirazioni, e le ri . conosce come qualcosa di superiore. Una volta che l'individuo ha nella collettività il suo punto d'origine, il suo fondamento, @ il suo sostegno, non può non attribuire ad essa un po tere ed una forza stragrande. Non basta. ciascun individuo come elemento isolato, sente prepo:ente il bisogiio di com. pletarsi, congiungendosi col Tutto, onde il suo volere quanto. più è compenetrato dalla ragione tanto più è tratto a compiere quelle azioni che lo fanno sentire uno col Tutto, e che, togliendo ogni restrizione, contribuiscono ad allargare l'Io. Le forme particolari ed artificiali di collettività non sempre hanno un valore superiore e più elevato, in quanto non contengono ciò che vi ha di essenziale negl'individui. Le unità collettive naturali lungi dall’eliminare le differenze individuali, le armonizzano e le elevano ad una . potenza maggiore. Gl'individui possono (ed è bene che avvenga) fare a meno dal seguire i dettami della collettività quando questi non si riferiscono a ciò che vi ha di universale nella natura umana È soltanto a questa condizione che l'individuo, seguendo la collettività, si sente’ più che sè stesso, si sente parte di ciò che vi ha di meglio nel mondo, in modo da trovare un appagamento calmo e completo alle più profonde aspirazioni del suo cuore, e. alle intime esigenze di tutto il suo essere. Prima di finire noterò che chi si fa a considerare l'insieme delle dottrine morali del Paulsen, s'accorge subito che in esse si ha come il riflesso della psicologia quale venne trattata dal nostro Autore. Vedemmo, infatti, che per lui il fatto psichico primitivo ed originario è dato dall’attività, dall’energia, mentre tutte le altre potenze non rappresentano . che dei mezzi adatti a far raggiungere all’attività il maggior dispiegamento. Da tal punto di vista ciò che è pura-mente subbiettivo, quale il sentimento, figura come il semlice riflesso o come l’intertoriszazione del fatto obbiettivo dell’operare, che è l'essenziale. Una tale dottrina psicologica fondamentale trasportata nel campo morale che cosa. doveva darci? La trasposizione della base della valutazione, diremo così, dall'interno all'esterno. Infatti, una volta che l'essenziale è l’ attività, e che questa nonsi può misurare che dal lavoro che compie, dagli effetti che produce, è naturale che il giudizio valutativo debba . riferirsi agli effetti consecutivi alle azioni, invece che alle- determinazioni subbiettive del volere e dell’emotività, i - quali rappresentano qualcosa di accessorio, di sussecutivo . © di incidentalmente concomitante. L'importante per il nostro Autore non è la genesi subbiettiva dell’atto, ma . l'attività, per così dire, obbiettivata. Ma non è questa, domandiamo noi, una maniera di snaturare la moralità ? Non è l'essenza di questa riposta nel processo per cui l'ideale si attua, per cui ciò che non è ancora tende a tramutarsi in fatto? Non ha essa la sua nota caratteri. stica nel procedimento per cuiil mondo veramente uinano siva formando ? Togliete l’ideale dal dominio morale ed avrete annullato la moraità : ora, non si viene a destituire d'ogni valore l'ideale, una volta che si pone come obbietto della ‘ valutazione morale l’effetto che consegue all’azione, cioè a dire quella parte dell'ideale che è stata già tramutata in fatto? Bisogna ben tenere a mente che l’ideale è un pro. dotto del soggetto, prodotto che ha valore ed efticacia per sè, a prescindere dalla sua attuazione, la quale può essere arrestata o di molto diminuita per cause svariatissime. E la scienza morale si differenzia da tutte le altre scienze appunto per questo, che essa non sì riferisce a fatti, ma ad ‘idee ed a sentimenti che tendono a tramutarsi in fatti : in caso contrario la scienza morale quasi quasi non ha ragione di esistere. La classificazione, l'ordinamento ed anche la valutazione degli effetti di date azioni sono di spettanza di altre scienze. Aggiungiamo in ultimo che, ammesso il teleologismo alla maniera di Paulsen, si viene a destituire d’ogni valore la volontà, la quale è quasi considerata come una forza, le cui determinazioni per sè possono essere trascurate, tanto è ciò vero che il giudizio morale principale si riferisce .agli etfetti consecutivi all’azione, iquali possono essere maggiori o minori in rapporto a numerose circostanze che non hanno niente a che fare colla volontà vera ‘@ propria; per contrario le determinazioni primitive di questa e i loro motivi vengono lasciati da parte come qualcosa di superflno e quindi d'insignificante. Non si ha cosi una nuova forma di fatalismo, una volta che più o meno manifestamente viene ad essere ammesso che la volontà presa per sè non è degna di considerazione ? È degno di nota il fatto che i sistemi filosofici, ì quali pongono il volere come fondo e sostanza dell’ universo, sono costretti dalla forza delle cose a negare ogni efficacia al volere vero e proprio: diciamo al volere vero e proprio, giacchè il volere aminesso dai filosofi pantelisti è qualcosa di così chimerico e di così inconsistente che non può esistere, se non nella fantasia di quelli che ne hau fatto il doro Dio. Chi si fa a considerare tutto il movimento della filosofia contemporanea non può a meno di notare che le varie direzioni di questa hanno i loro nuclei di origine nella filosotia kantiana. I germi delle varie forme che ha assunto l’attività del pensiero filosofico nel secolo nostro si trovano tutti nel Kantismo, tanto è ciò vero che ciascun filosofo prende come punto di partenza qualche veduta kantiana, e non fa che trarre da essa tutte le conseguenze possibili, svolgendola nelle varie sue parti. Nè ciò deve far meraviglia, se si pensa che Kant piuttosto che darci un sistema filosofico vero e proprio, ci diede una critica della conoscenza e della metafisica anteriore, ond'egli, qua e là potette emettere delle vedute forse non perfettamente atte ad esser coordinate in un tutto armonico non atte cioè a divenire elementi di un sistema unico, ma atte a divenire punti di riferimento di concezioni posteriori. Non è nostro intendimento ora di passare a rassegna i vari sistemi filosofici che presero le . mosse da Kant: notiamo soltanto che tra le varie direzioni del pensiero speculativo contemporaneo due si possono segnalare in modo spiccato come germinazioni dirette del Kantismo: alludiamo alla filosofia critica propriamente detta o al cri. ticismo e alla filosofia dell'attività o pantelismo nelle sue varie forme. Le dette due direzioni presentano dei caratteri netti e delle note speciali, per cui non sì può non: considerarle separatamente: il criticismo, infatti, ha, per cosi dire, il suo centro di gravità nella teoria della conoscenza. che costituisce per esso l’obbietto speciale dell'indagine filosofica ; il pantelismo invece è concezione essenzialmente metatìisica e lungi dal limitare le sue ricerche alle discussioni gnoseologiche, ha di mira di penetrare la natura intima della realtà sia fisica che psichica. Entrambe queste direzioni del pensiero filosofico, dicevamo, si rapportano a Kant; ma mentre il criticismo cerca di dare il più ampio svolgimento alle vedute d'ordine teoretico, il pantelismo ha l'intento di accentuare e di esagerare il pensiero fondamentale della filosofia pratica del grande filosofo di Kénigsberg. É noto che mentre nella critica della ragion pura Kant, dopo l'esame e l’analisi del potere della conoscenza umana,. affermò l'impossibilità di oltrepassare il fenomeno, nella critica della ragione pratica ammise una sola via di penetrare nel regno del Reale e questa per lui era il volere umano. È del pari noto che si volle trovare un’antitesi tra il pensiero e il metodo della ragione teoretica e il pensiero e il metodo della ragione pratica, onde avvenne che alcuni seguirono Kant nella teoria della conoscenza, mentre altri nella metafisica che poteva esser dedotta dai presupposti della sua Etica. Avendo il grande filosofo tedesco proclamato il primato della ragion pratica ed avendo ammesso nel volere umano una specie di accenno all’Assoluto, era da aspettarsi che i filosofi, i quali non si appagavano delle semplici discussioni gnoseologiche, dovessero cercare di costruire una metafisica, dando svolgimento e trasformando pressochè completamente i postulati della ragion pratica. Tale fu il caso dello Schopenhauer. Non abbiamo bisogno di esporre la metafisica di questo filosofo per mostrare come essa abbia una delle sue radici nel pensiero kantiano. È necessario piuttosto domandarsi a questo punto se il pantelismo abbia in realtà interpretato e svolto il pensiero . kantiano: fa d'uopo, cioè, ricercare se in fondo i presupposti della filosofia morale e religiosa di Kant siano proprio quelli che formano il caposaldo della metafisica pantelistica. Ora a tale questione non si può che rispondore negativamente : chi ben considera, infatti, l'insieme della filosofia kantiana nota subito come l’antitesi tra la filosofia teoretica e pratica in realtà non sussista; giacchè in entrambe domina quella che si potrebbe dire veduta formaliatica, nel senso che tanto nella conoscenza quanto nell'attività pratica si distingue l'elemento a priori o formale, che dà le note essenziali della necessità e dell'universalità dall’ elemento materiale, il quale è empirico e quindi contingente, vario e relativo. Se non che Kant, intendendo di costruire un sistema di morale pura ed elevata, volendo dare alla morale un fondamento assoluto, comprese che bisognava ridurre al minimum l'azione dell'elemento empirico per riporre ìil carattere normativo della legge morale in qualcosa di fermo e di stabile; solo cosi il dovere era fine a sè stesso. In tal guisa fu indotto a porre l'essenza dell’imperativo categorico in una determinazione primitiva del volere umano, la quale non poteva non esser formale. Sicchè mentre egli aveva considerato l’ elemento formale della conoscenza (forme dell’intuizione e categorie), una volta separato dall'elemento materiale, come vuoto, nella morale, per timore di contaminare in qualche modo la purissima concezione etica, attribui un valore assoluto all'elemento formale considerato per sè separatamente da ogni determinazione derivante dall'esperienza. Da tal punto di vista è innegabile il divario esistente tra la filosofia teoretica e quella pratica di Kant, ma chi ben riflette sul principio dell'Etica kantiana s'accorge che il detto principio formale implica in fondo un contenuto materiale, giacchè l'universalità della regola nun può contenere per sè forza obbligativa, ma solo perle conseguenze buone che ne derivano, cioè per l’accordo generale degli animi e per lo svolgimento dei sentimenti disinteressati. In ogni caso il detto divario autorizza forse a considerare giusta l'opinione di chi sostiene che il pantelismo è niente altro che la continuazione e lo svolgimento di ciò che vi ha di essenziale nella filosofia di Kant? Per risolvere una tale questione fa d’'uopo ricercare quale sia l'essenza del pantelismo, affinchè dopo si possa vedere se le vedute kantiane realmente coincidano con essa. Ora il pantelismo .&fferma che fondo e sostanza dell'universo è il volere, ma, si noti, non il volere umano, il volere cioè intimamente <compenetrato dall’intelligenza, bensi il volere-forza, l’azione, l'operare per l’operare: ed afferma inoltre l’assoluta supre.mazia della attività di fronte all'intelletto. La fanzione ‘conoscitiva, infatti, nelle sue varie forme e gradi non è per esso che qualcosa di sussecutivo e di secondario, una specie di istrumento creato dall'attività. É evidente che questa seconda affermazione è una conseguenza della prima, nella quale propriamente sta il principio fondamentale del pantelismo. Ciò posto, chi conosce lo spirito della filosofia kantiana non può far a meno di constatare la profonda differenza esistente tra essa e il pantelismo, in quanto Kant ammette, si, il primato del volere, ma del volere che è tutt'uno colla ragione, tanto è ciò vero che egli parla di ragione pratica, onde non è lecito considerare come propria della filusofia kantiana l’ affermazione della separazione assoluta del volere e del sentimento dall'attività conoscitiva. Per quanti sforzi si facciano non si riuscirà mai a togliere all'etica kantiana la caratteristica sua propria che è quella di essere un'etica trascendente; ora chi dice ‘etica trascendente dice etica che ha un fondamento speculativo ; il che alla sua volta include l'affermazione dell’indissolubilità della morale dalla metafisica. Non è giusto adunque riferirsi a Kant quando si afferma l'indipendenza assoluta dellu morale e della religione dalla metafisica; in fondo il pensiero kantiano è questo, che la conoscenza e la ragione per sè isolatamente considerate non bastano a darci il fondamento assoluto dell’etica e della religione, per il che si richiede la cooperazione di altre funzioni dello spirito o di altri momenti della vita psichica (sentimento e volontà). L'etica e la religione però non possono esistere senza che sia ammesso, sia pure in forma di postulato, un qualche fatto d’ordine speculativo. Ciò che Kant ha affermato quindi non è la supremazia o anche l'indipendenza assoluta del volere cieco di fronte alla ragione, ma l'insufficienza della ragione isolatamente presa a farci penetrare nel regno dell'assoluto e quindi la necessità della cooperazione del volere. Dire adunque che il pantelismo è una conseguenza necessaria e legittima della filosofia kantiana e dire che la concezione etica e religiosa propria del pantelismo è nel fondo quella kantiana equivale ad affermare cose non perfettamente conformi al vero. Noi ci siamo alquanto dilungati nell'esporre il rapporto esistente tra il pantelismo ela filosofia kantiana in quanto le idee del Paulsen, le quali, come ha potuto vedere chi ci ha seguito nella esposizione analitica fattane, si riducono ad una forma di pantelismo, non possono essere considerate come una vera e propria germinazione della filosofia kantiana, ma vanno riguardate piuttosto come il prodotto della fusione di svariati elementi, ai quali brevemente accenneremo. Per sintetizzare in brevi termini il nostro pensiero intorno alla genesi storica delle vedute del Paulsen diremo che i germi deposti nella sua mente dallo studio delle opere di Kant e di Schopenhauer maturarono e si svolsero in modo particolare per la cooperazione di molteplici altri fattori, quali i lavori compiuti dai neocritici, i progressi delle scienze particolari, specialmente di quelle biologiche, e l'allargamento della cultura in genere avvenuto negli ultimi anni. Secondo noi, il Paulsen, spirito fornito di una grande potenza assimilatrice, ha preso da Kant la purezza dell'intuizione morale, e la profondità del sentiment) religioso, dallo Schopenhauer il concetto del primato dell’ attività di fronte alla conoscenza e dalla cultura contemporanea la tendenza a considerare la filosofia come la sintesi delle scienze particolari. Qui, si può domandare : Ha il Paulsen fuso questi vari elementi in modo armonico da formare un'opera sotto qualche rispetto originale ? È riuscito il Paulsen a presentarci una sintesi vera dei vari tentativi fatti dallo spirito umano per dare una spiegazione dell’enigma dell’universo ? A noi pare .che l'opera del Paulsen, notevole per larghezza di vedute € per chiarezza e perspicuità nell'espressione, sia più che una semplice introduzione o guida al filosofare, ma sia d'altra parte meno che una concezione filosofica originale e. meno che una sintesi nuova e prcfonda di sistemi anteriori. Sul modo di filosofare del Paulsen oltrecchè gli elementi accennati disopra esercitarono una grande azione le speculazioni di Teodoro Fechner. Questo filosofo (1), il quale è massimamente noto per aver fondato in compagnia di Weber la Psicofisica, ebbe un modo proprio di considerare e di Fechner, professore deli0’Università di Lipsia. risolvere i problemi filosofici che merita di essere conosciuto.. Ed è notevole anzitutto che la Psicofisica lungi dall'essere qualche cosa di estraneo, come a prima vista si potrebbe supporre, alle sue idee speculative, non è che una parte integrante di queste: il che apparirà chiaro dopo che avremo esposto ì punti principali del sistema fechneriano. Secondoil detto filosofo adunque dal lato interno e psichico,. la realtà piena e vera si trova nell’Unità suprema della coscienza divina, mentre dal lato esterno o fisico vanno considerati gli atomi quali elementi ultimi reali. L'Unita suprema della coscienza che tutte le altre unità di ordine inferiore contiene in sè, si deve pensare analoga a quella umana; ed allo stesso modo che vi sono delle unità di coscienza inferiori alla umana, come quelle degli animali, delle piante, dei cristalli, ecc., così ve ne sono di ordine superiore, intermedie quindi tra l’umana e la divina. Tali sono quelle delle stelle, dei pianeti e degli astriin genere. L'Uno-Tutto abbraccia colla sua coscienza tutte le unità di ordine inferiore, mentre queste non sanno di essere comprese nell'unità superiore. La nostra vita terminata quaggiù, entra a far parte di uua vita superiore e più elevata; non altrimenti che nella nostra psiche una intuizione, quando sparisce come tale, sì conserva, o meglio rinasce come ricordo in una sfera superiore dell'anima, così tutto il nostro spirito perdura in un'esistenza spirituale superiore. Nel mondo di là gli spiriti non sono più collegati mediante determinazioni spaziali, ma sono in un rapporto reciproco più elevato, più intimo e insieme più libero. D'altra parte l’atomo vero e proprio non può essere percepito, ma soltanto dedotto od astratto dal complesso dei fenomeni corporei, e figura come il punto di riferimento di tutti i nostri calcoli nelle scienze esatte. La prova della realtà degli atomi risiede nella necessità di farne uso; e noi intanto arriviamo a concepirli, in quanto l’analisi dei fenomeni corporei, spinta agli ultimi limiti, pone davanti alla nostra mente questi elementi assolutamente semplici, i quali appaiono condizioni essenziali dell’ interpretazione e del calcolo dei vari fenomeni svolgentisi nell'universo. Il Fechner chiamala sua concezione idealistica in quanto per essa è ammessa l’esistenza di una coscienza universale o totale, la quale è come la condizione im:nanente dell’esistenza della materia ; la chiama matertalistica in quanto con essa viene ad essere riconosciuto che non vi è attività dello spirito, sia umano che divino, che non sia accompagnata da un fenomeno materiale o di movimento ; la chiama dualistica in quanto per essa anima e corpo appaiono irriducibili l’una all’altro; la chiama finalmente concezione dell'identità in quanto per essa spirito e natura sono due modi differenti d'apparire di uno stesso processo fondamentale. Ciò che vale a controdistinguere la veduta del Fechner di fronte alle concezioni di altri filosofi del nostro tempo, quali l'Herbart, il Lotze, è che egli non ammette in alcun modo l’esistenza di sostanze finite, di reali indipendenti, ovvero anche in connessione reciproca tra loro, ma aventi valore per sè. Per lui la realtà è nel processo, nella vita, nell'attività universale ; le sostanze finite, o le monadi non sono che fatti o processi di un ordine inferiore, i quali devono la loro esistenza ad un processo simile, ma di ordine superiore. Una volta poi ammessa così dal Fechner la dottrina dell'animazione universale e quella della continnità e accrescimento graduale e ininterrotto della vita psichica e una volta riposta l’essenza di quest'ultima non nella qualità semplice di un reale o nella reazione di una sostanza inpenetrabile, bensi nello svolgimento del processo universale attraverso a una quantità di momenti di vario ordine, è chiaro che s’' imponeva l'esigenza non solo di mostrare la possibilità della esistenza di una vita psichica latente, ma anche di rappresentarla, diremmo, graficamente, andando in traccia delle condizioni, per cuì si rendono possibili quei centri concreti di attività psichica che nella loro ordinaria funzione ricevono il nome di anime. In altri termini, in base ai suoi concetti speculativi, il Fechner fu spinto a ricercare una legge, poggiata possibilmente sul calcolo e sull'esperienza, atta a dar ragione della discontinuità rivelantesi nella ordinaria vita psichica. A tale esigenza risponde appunto la legge psicofisica, colla quale viene enunciato il fatto che la sensazione non comincia con uno stimolo infinitamente piccolo, ma solo con il valore limite dello stimolo e che l'accrescimento della stessa cessa del tutto quando lo stimolo ha raggiunto il limite clell’altezza che è il suo limite massimo. E qui va notato che se si fa crescere l’ intensità dello stimolo, rimanendo fra il limite minimo e quello massimo, non ad ogni accrescimento di stimolo tien dietro un accrescimento di sensazione; lo stimolo deve crescere di un certo grado, cioè del limite della differenza, perchè noi lo avvertiamo. Codesto limite di differenza però non è una grandezza costante, ma dipende dal grado d'intensità già raggiunto dallo stimolo e relativamente dalla sensazione, per il che si può dire che il limite di differenza dello stimolo è proporzionale all'intensità dello stimolo stesso. L' accrescimento della sensazione rimane indietro all’ accrescimento dello stimolo, in maniera che l’intensità della sensazione cresce solamente nel rapporto aritmetico (come 1, 2, 3, 4, ....); laddove l'intensità dello stimolo cresce nel rapporto geometrico (come 1, 2, 4, 8, 16.....). | È chiaro che l’esistenza del limite inferiore ci guarentisce una certa insensibilità, e perciò anche una certa indipendenza dai piccoli ed innumerevoli stimoli, i quali, per così dire, senza posa ci vanno ronzando attorno e che altrimenti ci sarebbero cagione di continue molestie. Dall’altra parte il limite di differenza assicura alle sensazioni che entrano nella nostra coscienza una certa durata, in quanto le preserva dalle variazioni degli stimoli. L'impressione piacevole che si prova all'udire un pezza di musica si fonda essenzialmente su questo fatto, che noi non percepiamo le leggiere deviazioni dei suoni dalla consonanza e dalla partitura, giacchè esse sono al di sotto del limite di differenza. I valori dei limiti inferiori sono l’espressione della sensibilità per gli stimoli e per la loro distinzione, e come tali, mutano non solamente da persona a persona, ma anche da tempo a tempo, secondo il grado di stanchezza, di esercizio, di eccitamento o di paralisi. La concezione fechneriana ha un'importanza superiore a quella che d'ordinario le viene attribuita in quanto rappresenta uno dei più audaci tentativi fatti in questi ultimi tempi per coordinare i risultati delle scienze particolari con una costruzione quasi totalmente fantastica della Realtà. Il Fechner in sostanza dice: il meccanismo da qualunque punto viene considerato, figura come qualcosa di relativo; tutto ciò che é esterno in tanto ha valore in quanto appare a qualcos'altro: pertanto l'essenziale va ricercato appunto in questo qualcos'altro, l’esteriorità essendo semplicemente come un elemento fenomenico concomitante. Ammesso: il principio che a tutto ciò che è tisico corrisponde un lato psichico, è agevole pensare che a tutte le varie formazioni fisiche (astri, pianeti, ecc.) debbano correre parallele delle corrispondenti formazioni psichiche fino a giungere alla Coscienza universale che tutto in sè contiene e comprende. Ora si domanda: Il fatto di dover ammettere un lato interno, corrispondente a tutto ciò che appare meccanico o esterno autorizza a porre senz'altro l’esistenza di determinate unità di coscienza intermedie tra l’uomo e Dio? Che dritto abbiamo noi di credere che la coscienza universale diffusa sì sia, acosì dire, differenziata in tali unità di coscienza particolari, quando pur sappiamo che la formazione della nostra coscienza richiede condizioni e processi speciali e di ordine complicato? Noi crediamo che si possa é si debba accettare uno stato di psichicità o di interiorità diffusa, 0scura, ma non crediamo che ciò tragga seco la necessità di ammettere dei centri di coscienza distinti, intermedi tra l'uomo e Dio, giacchè i fenomeni presentati dai vari sistemi di astri non possono essere risguardati quali manifestazioni di coscienze determinate. Anzitutto notiamo che qualunque speculazione a tal riguardo appare priva di valore, sia perchè essa siriduce a un modo soggettivo e arbitrario di rappresentarsi ciò di cui noi non possiamo avere che conoscenza astratta e incompleta, e sia perchè la conoscenza dell’interiorità in tanto può aver significato in quanto giova al conseguimento di fini pratici, agevolando il rapporto e il nesso reciproco degli esseri e il perfezionamento che ne consegue. Quando per contrario l’interiorità figura come qualcosa d’indifferente, come qualcosa di sfornito d'importanza, quando insomma per poter utilmente agire sulle cose basta la conoscenza esterna fenomenica che di esse abbiamo, la ricerca dell’interno va posta a livello di qualsiasi altro gioco della fantasia. Noì in tanto ricerchiamo ed apprezziamo la conoscenza dell'interno degli altri uomini in quanto da tale conoscenza ci ripromettiamo dei vantaggi d'ordine teoretico (cognizione della natura dello spirito umano e delle sue leggi) e d'ordine pratico. È per mezzo di essa che noi possiamo utilmente agire sui nostri simili e su noi stessi, indirizzandoci a vicenda verso il fine a cui crediamo che il genere umano tenda. Il Fechner poi crede che ogni sistema di forze, che ogni determinato aggruppamento di elementi possa essere considerato espressione di una distinta unità di coscienza; ora ciò evidentemente non è ammissibile, giacchè occorre far distinzione fra quelle coordinazioni di elementi che sono indizi o estrinsecazioni di unità di coscienza realmente esistenti (unità di coscienza tn sé) e quelle coordinazioni di elementi che hanno il loro fondamento nella coscienza del soggetto che contempla i detti elementi. Così i vari sistemi in cui la mente umana ha ordinato l'immensa molteplicità dei fenomeni, non depongono per l’esistenza di unità di coscienza corrispondenti, ma hanno per presupposto l’esistenza di una coscienza, diremo cosi, estrinseca, la -quale li ha formati, contemplando i fenomeni: invece le coordinazioni presentate dagli organismi in genere sono forme di estrinsecazione di unità di coscienza distinte. Il Fechner, avendo identificato le due sudette maniere di coordinazione, si è creduto autorizzato ad ammettere un'’unità di coscienza in ogni sistema. Ma si può qui domandare: Vi è un criterio per distinguere quei sistemi che hanno per fondamento una unità di coscienza estrinseca da quelli che ne hanno una intrinseca? Ognuno vede la grave difficoltà di un tale problema; noi però crediamo di poterlo risolvere, ponendo il carattere distintivo nella pro| prietà che ha l’unità di coscienza veramente distinta (obbiettiva e di ordine elevato) di poter non solo produrre | ed avere vari stati, ma di poter agire su questi. Noi solo allora siamo autorizzati ad ammettere come espressione di un’ unità di coscienza distinta un sistema di elementi, . quando abbiamo degli indizi sicuri non solo che in tale sistema domina un'unità armonica e coordinatrice, ma che questa . produce e modifica i vari stati in cui il detto sistema sì può ‘trovare. In ogni altro caso si può parlare di coscienza universale diffusa, ma non di coscienza distinta e molto meno . di coscienza di ordine superiore. Ciò posto, se noi esaminiamo i fatti presentati dagli . astri, dai pianeti e da tutti quegli oggetti che, stando a Fechner, sono manifestazioni di unità di coscienza intermedie tra l’umana e la divina, noi troviamo che essi non presentano alcun indizio dell'esistenza di qualcosa di superiore e di elevato capace di agire sui propri stati; onde non è lecito estendere la coscienza distinta al disopra dell'uomo che presenta in modo evidentissimo la caratteristica suaccennata. | Concludiamo coll’osse rvare che la metafisica del Fechner, come quella del Paulsen, non sfugge al rimprovero che si fa atutte quelle metafisiche che sforzano la realtà, preten.dendo che l’ordine ideale di questa si realizzi per una via diversa da quella che l’esatta ricerca scientifica dimostra vera. Tutte queste metafisiche hanno in comune di esser modi di rappresentazione dell’incondizionato, onde il meglio è di considerarle come mere ipotesi che nei loro concetti e nelle loro linee più generali è bene tener presenti senza lasciarsene dominare, affidandosi al progresso lento, ma sicuro dell’esatta ricerca scientifica, la quale mentre da una parte insieme con tutta la cultura, influisce sulla loro formazione, è dall’altra atta a decidere, con la cooperazione. di altri elementi, del loro valore. La Vecchia e la Nuova Frenologia La Nozione di “ Legge, L'origine delle tendenze immorali . Il senso muscolare . L’obbietto della Psicologia fisiologica . La Filosofia dell’attività F. Paulsen SAGGI FILOSOFIA SAGGI DI FILOSOFIA. LA MORFOLOGIA DELLA CONOSCENZA IL PROBLEMA ESTETICO. IL PROBLEMA FILOSOFICO SECONDO BRADLEY TORINO CLAUSEN Chl 4225:2,3) HARVARD COLLEGE LIBRARY OC JACKSON FUND (1,49 2 / ro Li te nn a A SI, io ae i Pa e - & &__cse-@hctemurrr nd TARA sr AIA CI I TTI AT E I O A I I ZI I O i = 1° r_r_ it (i 7 E | vB8 AA ANI TE RE IE lr LA NOZIONE DI LEGGE. La Classificazione delle Leggi o la Morfologia della conoscenza 0. Si è concordi nell’ammettere distinzione tra la cono‘ scenza in generale e la scienza, in quanto la prima implica semplice qualificazione della Realtà, mentre la seconda include qualcosaltro ancora, include cioè la connessione necessaria degli attributi caratterizzanti il Reale. Se la conoscenza in generale verte sul particolare e sul concreto, la scienza si muove nell’ universale, nel necessario, nel. Per ragioni che qui non è necessario esporre, fui costretto ad anticipare di molti mesi la pubblicazione del 1° volume di questi Saggi, nel quale è contenuta la Nozione di Legge La trattazione di questo importante e difficile argomento rimase come strozzata; difatti l’ultima parte, da pag. 123 a 139, dove si parla di una classificazione delle Leggi, non è bene coordinata col rimanente e, più che una discussione ampia sul detto argomento, è l'eco di una serie di note prese per la più parte dalle Lezioni di Filosofia fatte dal Masci all’ Università di Napoli negli anni accademici 1890-91-92. Riprendo ora l'argomento interrotto, coll’ intento di dargli quello svolgimento che a me pare che meriti. permanente, avendo per obbietto non il dato puro e semplice, ma i concetti elaborati sul dato. Parrebbe adunque che la conoscenza esprimesse un rapporto o un contatto più immediato colla realtà, essendo come l’ apprensione diretta di questa, mentrechè la scienza fosse come una forma di appercezione mediata, compiuta, cioè, attraverso i concetti della nostra mente; parrebbe di conseguenza che tra conoscenza e scienza vi fosse una differenza sostanziale in modo da essere pressochè impossibile rintracciare, diremmo, la morfologia, o la figliazione dei vari ordini di caratterizzazione della realtà. Ora per veder chiaro in tale questione a noi pare opportuno determinar bene anzitutto in che propriamente consista la conoscenza. Questa in tutte le sue forme, a cominciare dalla semplice percezione a venire al concetto più astratto, lungi dal presentarsi come un contatto, diremmo, mistico, di due sostanze - il reale e la mente - poste l'una di fronte all'altra, figura come un processo di appercezione, mediante il quale ogni elemento nuovo viene come assimilato dagli elementi affini già esistenti nella psiche, di guisa che la legge della relatività è la legge psichica fondamentale. Ciò posto, noi vediamo che tra conoscenza pura e semplice e conoscenza scientifica non vi è differenza sostanziale, essendo due stadii di un processo fondamentale identico: conoscere equivale appercepire, assimilare, riferire l’ elemento nuovo ai già preesistenti ; se questi ultimi, distaccati dal processo psicologico e sottoposti ad un' elaborazione speciale, vengono considerati come simboli, come segni per riconoscere ogni elemento affine che sopraggiunge, sì avrà la scienza, in quanto i detti simboli sono appunto i concetti, gli universali che rendono possibile l’ appercezione del singolo e del particolare: se per contrario la forma appercettiva è incorporata nel processo psicologico si avrà la semplice conoscenza. Onde consegue che qualsiasi forma di conoscenza implica la cooperazione di un elemento universale (forma appercettiva), di un elemento intelligibile, di qualcosa che trascende il fatto concreto particolare attualmente in rapporto immediato col soggetto e insieme che non vi è e non vi può essere una esclusiva conoscenza di fatti singoli e isolati: questi son sempre appresi attraverso qualcosaltro che in certo modo li rischiara e li illumina, che, in altre parole, li rende intelligibili. E che cosa è questo universale attraverso cui noi appercepiamo qualsiasi fatto singolo? Se la sua funzione è quella di rischiarare, di rendere intelligibile il dato, idealizzandolo e in certa guisa universalizzandolo, esso si confonde con ciò che propriamente si chiama legge. Questa infatti, come fu ampiamente discusso altrove, è ciò che rende intelligibili i fatti singoli e concreti, o, ciò che torna lo stesso, rappresenta ciò che vi ha d'’intelligibile negli ultimi, è la loro stessa intelligibilità. Eccoci condotti adunque al risultato finale che il dominio della legge si estende fin dove si estende quello della conoscenza e che pertanto una classificazione razionale ed esauriente delle varie forme di legge in tanto è possibile in quanto le varie specie di conoscenza sono intimamente connesse tra loro da formare un tutto organico. Nè sembrerà inutile estendere in tal modo la nozione di legge , se si pensa che in tal guisa soltanto s' intende la natura vera del processo conoscitivo ed è resa possibile una vera e propria morfologia della conoscenza. E poichè lo spirito umano non ha soltanto la funzione conoscitiva, ma ha anche quella emotiva e volitiva, non è priva d'interesse la ricerca dei rapporti esistenti tra queste ultime e la funzione conoscitiva, per vedere fin dove estende il suo dominio il fatto conoscitivo e per ciò stesso la legge. Ora vi sono dei prodotti dello spirito umano, quali l'Arte, la Morale, la Religione, i quali sono da parecchi considerati come estranei assolutamente alla conoscenza: l'Arte, la Morale, la Religione, si dice, sono un prodotto del sentimento e della volontà e non già dell’intelligenza umana; rella vita estetica, morale e religiosa proviamo delle emozioni ed operiamo, ma non conosciamo. È vera l’affermazione di caloro che pressochè escludono il momerto conoscitivo dai succitati prodotti dell'anima umana? Noi crediamo che pur non essendo riducibili a meri sillogismi i fatti estetici, morali e religiosi, non cessano però di contenere come lero momento essenziale quello conoscitivo. Ed invero l'Arte e la Religione, esprimendo e simboleggiando, ciascuna alla sua maniera, il Reale, che cos’altro fanno se non qualificare lo stesso Reale? E la vita morale che sì esplica, mirando all'attuazione di un certo Ideale di perfezione, che cos'altro fa se non caratterizzare come progressiva e perfettibile la realtà stessa? L'Arte, la Morale, la Religione non sono certo un prodotto esclusivo del ragionamento reflesso, come credevano ì razionalisti, ma non sono nemmeno un prodotto esclusivo del sentimento e della volontà, come vogliono gli avversari della conoscenza, giacchè per poter significare e simboleggiare il Reale n i i it .$. + nm ©" - _ >= .,.>-bisogna aver una certa idea del Reale stesso, altrimenti l'espressione manca di ogni punto di riferimento e quindi di ogni significato. Ammesso anche che l’idea artistica, l’idea morale e l’idea religiosa sia come il portato di date tendenze ed esigenze dell'anima umana, ciò non esclude che qualsiasi determinazione estetica, religiosa, ecc. sia come una maniera di conoscere e di sperimentare il Reale, giacchè le dette tendenze ed esigenze (sentimenti e volizioni) involgono sempre un elemento intellettivo o appercettivo. L'Arte, la Religione, ecc. sono poi come vari punti di vista, come varie posizioni di prospettiva per poter ap-. percepire la realtà, per modo che attraverso le differenti forme che esse assumono noi possiamo comprendere i singoli fatti riferentisi alle rispettive sfere estetica, religiosa, morale. D'ordinario si crede che un fatto estetico o religioso sia qualcosa d’ individuale, di concreto, di singolare, qualcosa di chiuso in sè stesso; ora ciò mal si concilia colla funzione universalizzatrice, tipificatrice e idealizzatrice attribuita alla funzione estetica, religiosa e morale. Lo spirito umano quando crea il bello e foggia il simbolo religioso o pone l'ideale morale, attua i mezzi attraverso cui può intendere la molteplicità dei fatti concreti e particolari riferentisi alla sfera dell’arte, della religione e della morale. Nei casi suddetti adunque la mente umana da una parte conosce, ha un certo concetto (comunque formatosi) del reale, e dall'altra porge i mezzi attraverso cuì possono essere appercepiti una quantità di fatti singoli e concreti che si presentano nella vita ordinaria. Allo stesso modo che, perchè sia scoverta una legge scientifica occorre il Genio scientifico, perchè sia scoverto un punto di vista: nuovo da cui appercepire la realtà in ordine alla morale, alla religione e all'arte - punto di vista che fissa l'orientamento in ciascuna di queste orbite sì richiede l'influenza del Genio. In entrambi i casi il processo è sempre quello di appercepire e di fare appercepire in un dato modo la realtà, di ordinare la molteplicità caotica dei fatti singoli, il che equivale a dire che lo scopo è sempre quello di caratterizzare e qualificare la realtà. In fondo ad ogni opera estetica, morale e religiosa si trova poi un giudizio in cui vengono enunciate le diverse manifestazioni o differenze di un’ identità fondamentale, un giudizio in cui vengono esposte le maniere di articolarsi tra loro delle parti componenti un tutto e in cui infine vengono enunciate le determinazioni possibili o ideali e non attualmente reali. Si dice che mentre l'ipotesi scientifica è formata per spiegare i fatti reali che da essa conseguono, le costruzioni ideali dell'Arte, della Religione e della Morale sono prodotti arbitrari dello spirito, i quali hanno la loro ragione in sè stessi; ora ciò è vero entro certi limiti per il fatto che scopo dell’Arte, della Morale e della Religione non è quello di spiegare il dato, bensì quello di presentare sotto nuova luce il Reale, di mostrare cioè le varie direzioni entro cui lo stesso è concepibile. Sarebbe erroneo però supporre che le costruzioni ideali summentovate siano destituite di qualsiasi fondamento reale: esse poggiano invece sulla natura propria dell’ anima umana; e se non sono costruite in vista degli effetti che da esse conseguono, stanno però sempre ad indicare le maniere in cui i dati della realtà possono essere armonizzati tra loro. Anche l'Arte più spontanea e immediata ha l’ufficio di sistematizzare, di portare un certo ordine nel caos della realtà empirica. L'Arte produce un godimento più o meno intenso per il fatto stesso che è espressione armonica di ciò che la vita contiene. La realtà passata attraverso l’anima dell’artista assume una certa forma , per cui vengono ad esser tolte le asperità dei dati reali e vengono ad essere come smussati gli angoli presentati dal decorso delle cose. Non temiamo di metter fuori un paradosso dicendo che le contradizioni più stridenti dell'universo espresse dall’artista si trasformano in qualcosa d'armonico e di sistematico. Sta in ciò il vero incanto dell'Arte, la quale per esprimere le dette contradizioni, deve per forza renderle in qualche modo intelligibili, trasfigurandole e facendone intravedere l’unità armonica, Si dice inoltre che la scienza prova e dimostra, mentre l'Arte, la Morale e la Religione semplicemente costruiscono : ciò è vero ed ha la sua ragione nel fatto che la scienza vive e si muove nel mondo delle astrazioni e delle formule, mentrechè le altre produzioni dello spirito umano si muovono nel mondo dei tipi concreti, delle individualità. Ciò che è astratto e formale è immutabile e necessario, mentrechè ciò che è concreto, ciò che vive, sfugge sempre per una parte alla misura ed all'analisi quantitativa. A tal proposito giova ricordare che ogni forma di prova e di dimostrazione in fondo è riducibile ad un rapporto di identificazione. Provare, dimostrare equivale a valutare quantitativamente, equivale a ridurre e ad identificare tra loro gli elementi formali (le forme) di due cose o eventi. Può essere identificato solo ciò che presenta una medesima qualità variabile quantitativamente, non già ciò che presenta qualità differenti e irriducibili. Riassumendo, noi diciamo che in fondo ad ogni fatto estetico, morale e religioso, non altrimenti che in fondo ad ogni fatto scientifico, si riscontra un’idea, un concetto, il quale per essere accompagnato nel primo caso da sentimento (interesse) non permane quale concetto, ma col calore del sentimento si tramuta in fantasma, in rappresentazione concreta, e ciò perchè il sentimento tende al concreto, al rappresentabile e rifugge dall’astratto. Onde è chiaro che la diversità tra l’appercezione del reale fornita dalla conoscenza scientifica e quella che ha luogo nel processo estetico, religioso, etico sta in questo, che la scienza sia che muova dai fatti singoli, o da concetti (ipotesi) o da principii generali, mira a spingere o a far rientrare il particolare nel generale, mentre l'Arte, la Morale e la Religione tendono sempre ad obbiettivare in forma di tipi o di sistemi concreti, i concetti o i principii generali: tipi e sistemi che operano come ideali, a cui si deve rapportare la realtà empirica ordinaria. Va notato qui che la vita morale, estetica e religiosa da una parte e la scienza dall'altra, pur seguendo una via diversa nel loro modo di procedere, concordano in questo che in fondo tutte idealizzano l’esperienza o il dato e per tal via simboleggiano il Reale; l'idealizza la Scienza riducendo i fatti a concetti e l’idealizza l'Arte, la Religione e la Morale col presentare i concetti non incorporati in una data rappresentazione singola, ma in una rappresentazione generale, in una rappresentazione tipo atta a raccogliere ed a sintetizzare in sè molteplici dati particolari. Giacchè a tal proposito non bisogna dimenticare che l’Arte, la Religione o la Morale, se da una parte non volgono su concetti, dall'altra non volgono su dati di fatto (come fa la storia e in generale le cosidette scienze descrittive come la geografia, la cosmografia, la geologia), ma su tipi, su ideali, su fatti dunque concreti universalizzati, considerati sub specie ceternitatis. Per noi insomma la scienza elabora concetti (universali astratti), le scienze narrative o descrittive riproducono fatti concreti determinati col maggior numero di particolari possibili in modo da richieder però sempre un ulteriore complemento, l’Arte, la Religione e la Morale. hanno a che fare con tipi (universali concreti), con individualità. Possiamo conchiudere col dire adunque che non vi ha funzione dello spirito umano che non implichi il momento della conoscenza e che quindi tutte le produzioni dello spirito- umano ci forniscono qualche maniera di appercepire la realtà nelle sue svariate e molteplici determinazioni singolari. Alle varie forme di appercezione corrispondono le varie specie di leggi. Dal fatto che il processo della conoscenza è fondamentalmente uno e che esso si estende per tutto il dominio dell’attività dello spirito non consegue che esso non presenti delle notevoli differenze in modo da giustificare l'esistenza di varie categorie di leggi. E invero, vi sono delle forme appercettive, le quali agiscono come leggi nel senso che rendono possibile la comprensione e l'intelligibilità dei dati singoli concreti, ma non possono essere distaccate dal processo psicologico in seno a cui operano e quindi non possono assumere la forma di giudizi, come le leggi vere e proprie, per modo che esse mentre agiscono inconsciamente ed organicamente nella mente degli individui, non si rendono appariscenti che ad uno stadio tardivo della riflessione. Di tal fatta sono le forme appercettive inerenti agli stadii iniziali della vita psichica ed ai prodotti elevati dello spirito quali l'Arte, la Morale e la Religione. Volendo però presentare una prima (1) classificazione completa delle forme appercettive o leggi, le divideremo in quattro grandi categorie, in forme o leggi di riferimento o assimilative, in forme o leggi rudimentali, in forme o leggi relazionali e in forme o leggi sistematiche. Queste non possono essere formulate per via di giudizi, perchè sono anteriori alla formazione delle idee quali segni del reale, anteriori al linguaggio significativo, anteriori al distacco cosciente e voluto del significato dal fatto. Parrebbe a prima vista che questa classe di leggi non avesse ragione di esistere una volta che esse non possono essere enunciate, ed una volta che l'essenza della legge è stata riposta appunto nel was, nel significato, nell’ elemento intelligibile distaccato dalla realtà; ma, se ben si Diciamo prima classificazione, perchè, come vedremo in seguito, sì può fare una seconda classificazione delle forme appercettive, tenendo conto delle varie maniere in cui la conoscenza è acquistata. + s- n ®* re i fi n e ca riflette, nel caso delle leggi assimilative il processo d’idealizzazione esiste sempre, il was, pur non avendo ancora trovato un'espressione decisa, e pur non essendo stato staccato dalla matrice psichica, è attivo, è sempre in funzione, tanto è ciò vero che la conoscenza di nuovi fatti è resa possibile appunto da tale modo di operare dell’attività psichica. Se per legge si deve intendere ciò che rende possibile l’appercezione di un nuovo elemento, perchè non dovrebbe meritare il nome di legge ciò che rende | possibile qualsiasi forma rudimentale di conoscenza ? Siffatte leggi concrete operano in tanti modi diversi in quanti si può esplicare l’attività tipificatrice e assimilatrice della psiche. Lo studio di queste forme è di esclusiva spettanza della Psicologia, la quale dà ragione del nesso o delle relazioni esistenti tra i vari elementi psichici e della ricognizione, fondandosi sulla funzione identificatrice della mente. Per esprimere nel modo più chiaro il nostro concetto in ordine alle dette leggi, diciamo che esse non sono propriamente leggi, ma funzionano come le leggi. 2. Leggi rudimentali. Se il dominio della conoscenza coincide con quello della legge, se cioè ogni forma di conoscenza implica una certa universalizzazione del dato, è evidente che anche i giudizi enuncianti fatti singoli vadano considerati come leggi rudidimentali o iniziali universalizzazioni dei fatti percettivi. Ed invero, per convincersi come qualsiasi giudizio racchiuda come a dire, in modo rudimentale una verità universale, giova tener presente in che propriamente consista il giudizio. Molto si è discusso a tal proposito e non intendiamo far qui la storia critica delle varie teorie emesse : a noi basta richiamare l’attenzione su questo, che il giudicare non può ridursi all'affermazione o al riconoscimento di una relazione tra due idee, come non può ridursi senz’ altro all'affermazione di un dato nesso tra due cose. In entrambi ì casi viene ad essere sformata la natura vera del giudizio, in quanto, se ben si riflette, in tali casi le nozioni di verità e di falsità inerenti alla funzione giudicatrice non ricevono alcuna spiegazione. Il giudizio nasce dal riferimento di un contenuto ideale alla realtà, contenuto ideale che può essere o non essere appropriato ad un dato fatto (verità o falsità di giudizio), per il che il giudizio da una parte si eleva al di sopra dell’esperienza attuale e dall’altra non è tutto nella sfera delle idee, avendo un punto di contatto colla realtà. Il giudizio consiste nell’idealizzazione del dato. Rendere intelligibile il reale, ecco l'ufficio del giudizio. Ora la legge che altro ufficio ha se non quello di rendere intelligibile l’esperienza, estendendola e rendendola continua nelle sue varie fasi o stadi? Se non che si potrebbero fare due osservazioni: 1° non è chiaro come il giudizio che è costituito di termini ideali, possa riferirsi al reale, al fatto obbiettivo che è sempre qualcosa posto al di fuori della mente che giudica: 2° se si riesce perfettamente a capire l’identificazione dello leggi coi giudizii universali e ipotetici i quali poi sono ì più lontani dalla realtà concreta, in quanto si riducono a connessioni di attributi o di qualità, d'idee e quindi di astratti , non si riesce nient’affatto a capire come i cosidetti giudizii categorici (giudizii singolari, impersonali, dimostrativi, ecc.) possano essere considerati come leggi rudimentali, come fatti, diremo così universalizzati, considerati sud specie aeternitatis. | Esaminiamo le due suesposte obbiezioni. 1° Come mai ogni giudizio, sia percettivo o universale, può essere schematizzato nel modo'seguente. Il reale è tale che... 0, Il mondo reale è così qualificato che... +, come mai il giudizio si può ridurre ad un riferimento al reale, al reale indeterminato in un caso e designato per mezzo di idee nell’altro? Certamente, se noi consideriamo lo spirito umano come un’ entità a sè posta al di fuori della realtà che gli sta di rincontro, se noi imaginiamo la psiche e l'universo come due mondi staccati, estranei l’ uno all’ altro, non arriviamo a concepire come possa stabilirsi il contatto dell’io col reale: ed oltrechè appare incomprensibile la conoscenza quale peculiare relazione tra due mondi separati, perchè si introduce il concetto di spazialità e di estensione e di uno fuori dell'altro, dove non vi è ragione d'introdurlo, si è costretti poi a considerare i fatti spirituali, i processi psicologici come una reduplicazione del reale. Da tal punto dì vista il mondo ideale della psiche, pur essendo in corrispondenza col mondo reale, è come qualcosa d’autonomo, di chiuso e completo in sè, per modo che l'atto giudicativo p. es., lungi dal rappresentare la qualificazione del reale, il prodotto del contatto del reale col subbietto, è un processo del tutto ideale, avente soltanto il suo corrispettivo nel reale. Ora tale veduta è del tutto erronea: lo spirito non è posto al di fuori del reale, ma è, vive ed opera in esso: allo stesso modo che il fiore non è fuori dell'albero, e questo non è fuori dal terreno e dall'ambiente esterno, da cui anzi riceve nutrimento e tutto ciò che gli è necessario per la vita, così la psiche non è fuori, anzi è intimamente collegata col reale, dal quale essa trae la vita vera. Occorre aggiungere però che la mente, avendo per sua natura l'ufficio di dare un significato, di obbiettivare il reale, il quale vive nel soggetto, da una parte è contenuta nel reale e dall'altra lo contiene, in quanto ciascuno costruisce il suo mondo coi materiali forniti dall'esperienza, diremo così, psicologica, subbiettiva. Da tutto ciò consegue che il contatto del reale col soggetto non è qualche cosa di accidentale, e di temporaneo, ma rappresenta la condizione essenziale della vita di quest’ ultimo. L'individuo sente continuamente tale contatto e per quanto mostri di allontanarsene col qualificarlo, col determinarlo e specificarlo in varie guise mediante segni, ipotesi, ecc., che sono sempre in ultima analisi astrazioni, .con tali processi non ha altro obbiettivo che di trovare un’cspressione intelligibile e schematica della realtà che vive, agisce ed opera in lui. Se noi seguiamo il processo graduale con cui si passa dal soggetto (reale), quale è espresso in modo indeterminato nei giudizi rudimentali (giudizi impersonali), al soggetto espressu mediante indicazioni, ma sempre privo di qualificazioni e di specificazioni (giudizi dimostrativi), per venire al soggetto designato da un'idea (giudizi universali ipotetici), noi troviamo che lo scopo ultimo a cui sì mira è di illuminare la realtà a cui noi ci sentiamo legati mediante la nostra stessa vita. Con ciò non si vuol dire che la realtà consiste esclusivamente nel contatto che noi abbiano con essa nella percezio..e sensoriale: la realtà si estende in modo continuo oltre tale. punto; ma vogliamo affermare che il reale così sentito è come il punto di ritrovo per formare la base di operazione ideale che ha per risultato la concezione generale o la costruzione dell’universo. Noi possiamo conchiudere che la realtà, essendo primitivamente la realtà quale è pusseduta da ciascun di noi, in ogni giudizio è rappresentata da una data percezione o idea atta a designare il fondo reale, che così viene ad essere in qualche modo determinato. Se ciò non avvenisse, il reale rimarrebbe qualcosa d'inesprimibile e d’innominabile. Quando ciascuno di noi formula un qualsiasi giudizio, certamente non ha coscienza di fare delle distinzioni nel reale per riconoscere la loro identità fondamentale: quando io dico la neve è bianca , certamente non penso che il processo logico vero è questo : quella cosa, quel reale che è neve è bianco , oppure -la realtà è qualificata anche dall’idea complessiva neve-bianca ; ma ciò avviene, perchè noi fondiamo il reale con quella parte di esso, che noi in un dato momento riesciamo a distaccare dal fondo totale in virtù dell’ interesse che la detta parte suscita in noì. Se il nostro potere appercettivo non fosse limitato, e se il processo mentale non si riducesse in fondo ad una simultanea sintesi ed analisi, noi non formuleremmo i giudizii nel modo in cui facciamo. Noi, in sostanza, da un complesso percettivo per ragioni di varia natura, separiamo una parte e questa qualifichiamo col riferirle un dato contenuto ideale: ma la parte anzidetta non è un semplice aggettivo, un'idea qualsiasi, un universale ‘astratto, ma è come il sostitutivo abbreviato della realtà, è come la realtà contratta in punto, perchè ciò agevola la nostra operazione. In qualsiasi giudizio adunque ciò che forma il nerbo dell'operazione logica è l’idea, onde sorge la necessità di determinare in che consiste l’idea o contenuto ideale, che mediante la funzione giudicatrice vien riferito alla realtà. La vita psichica fin dall'inizio è controdistinta dalla tendenza a tipificare. Dal momento che il contenuto della psiche dapprima indistinto e indeterminato, comincia ad essere differenziato, analizzato e riconosciuto suscettibile di determinazioni di vario genere, degli elementi vengono, per così dire, staccati dall'insieme: e son questi elementi astratti ed universali che rendono possibile l’ apprendimento di nuovi fatti particolari e concreti, in rapporto all'eguaglianza od all’ identità che taluni elementi di questi ultimi presentano coi primi. Come si vede, fin dall’inizio l'attività psichica si esplica universalizzando, fissando, cioè, l'elemento essenziale, e comune ad una serie di rappresentazioni concrete diverse, ripetentisi un certo numero di volte, per servirsi di esso come mezzo di intelligibilità di altri fatti particolari. Non è a credere però che tale elemento universale e identico sia da considerare come qualcosa di sostanziale, come un fatto avente sede in un sito della psiche: una tale concezione mitica deve essere assolutamente bandita: siffatto elemento universale si riduce ad una funzione della mente, ad una forma di attività più facilmente esercitata, ad una specie di abitudine, ad una facoltà, ad una potenza viemaggiormente disposta ad ‘entrare in azione in seguito a dati stimoli ed a particolarizzarsi variamente secondo le condizioni. Ma finchè l universale contenuto nella mente non si fissa e sì determina in un segno (nome), e fin che questo colla imagine psichica (rappresentazione particolare) concomitante, non è risguardato qual simbolo avente un significato relativo a qualcosa di permanente, per sè esistente al di fuori della mente, non è a parlare di idea nè di funzione giudicatrice. Per modo che noi possiamo affermare che, affinchè si abbia l’idea e il giudizio (i quali sono inseparabili fra loro, giacchè l’idea in tanto è idea in quanto, mediante il giudizio, viene considerata come segno, come | qualità, come attributo riferibile al reale, in quanto, cioè, mediante la funzione giudicatrice l'elemento ideale viene consciamente riconosciuto separabile dal fatto), è necessario che l' universale, che dapprima operava inconsciamente nella mente, essendo per così dire incorporato nel fatto o processo psichico concreto, venga ad essere riflessivamente distaccato da questo e considerato per sè, venga ad essere riconosciuto mezzo appropriato a rendere intelligibili i fatti concreti. Tale universale è particolarizzato e concretizzato in un'imagine psichica (nome e rappresentazione particolare), la quale è riguardata come sostituibile da qualsiasi altra omogenea e quindi fornita di valore vicariante. Riassumendo, noi possiamo dire che l'idea si riduce a quell’elemento universale, astratto ed addiettivo (qualità o relazione) che, particolarizzato in un segno (nome o imagine psichica sostituibile per mezzo di una qualsiasi altra), vien considerato come simbolo avente un significato obbiettivo. È evidente che le idee come idee non possono esistere al di fuori della mente del soggetto: se esse sono degli astratti universali (aggettivi), non è possibile che esse abbiano un'esistenza indipendente. Lo spirito umano, non potendo penetrare nel cuore della Realtà, non potendo ‘vivere la vita del Tutto, sì contenta di analizzare e di determinare il contenuto di essa mediante qualità e relazioni, le quali se si riferiscono, se accennano, se simbo leggiano il Reale, non vanno identificate con questo. Sicché le idee da una parte non sono semplici fatti psichici e dall'altra non sono realtà, ma sono segni del Reale. Il fatto psichico concreto diviene idea logica non appena esso è fissato e riferito, il che può avvenire soltanto mediante la denominazione, denominazione che indica obbiettivazione, e che è da considerare piuttosto un segno dell'atto intellettuale (giudizio) che l’atto stesso. Vien data così la forma esplicita del giudizio a ciò che prima era soltanto un fatto psichico concreto, una rappresentazione forse persistente, perchè identica in sè stessa attraverso i mutamenti e le differenze, ma sfornita di qualunque riferimento cosciente a qualche cosa di obbiettivo. Da tal punto di vista idea e giudizio sono coevi e proce dono di pari passo, giacchè il secondo lungi dall’essere una combinazione meccanica di parti esistenti l'una fuori dell'altra (impressioni, idee, concetti), è l’espressione, forse la sola vera espressione, come dice il Bosanquet, dell'unità della coscienza ed è il generatore di ogni idea o concetto. Il giudizio può contenere idee complesse, ma in quanto giudizio, presenta il contenuto di una sola idea, la quale esiste solo nell’atto del giudicare. É l’astrazione che separa i due elementi intimamente compenetrati tra loro. E qui cade in acconcio notare che quando noi abbiamo dei dubbi circa l’esistenza di un giudizio vero e proprio (negli animali p. es.), il miglior modo d'assicurarsi è di ricercare se in ciò che sì suppone attività giudicatrice vi sia qualche cosa che possa essere in modo intelligibile negata (di cui sia possibile la negazione e la falsità); invero ciò che rende possibile .il giudizio è il distacco dell'ideale dal reale, del vas dal dass, si è la formazione dell'idea quale esiste nella nostra mente, idea che è vera soltanto se effettivamente compete alla realtà. Fino a tanto che noi non abbiamo ragioni per credere che nell’ intelligenza degli animali esistano delle imagini aventi un dato significato obbiettivo, dei fatti psichici atti ad essere riferiti a qualche cosa che trascende l'attualità psichica, noi non possiamo parlare di attività giudicatrice: niente, infatti, in tali casi. può essere intelligibilmente negato, non l’esistenza dello idee adoperate nel giudizio, non l'affermazione del loro significato. | 2° Passiamo ora alla seconda obbiezione. Come è possibile considerare i giudizi categorici quali leggi rudimentali? L’obbiezione a prima vista presenta delle difficoltà insormontabili: da una parte abbiamo i giudizi universali ipotetici, i quali effettivamente enunciano dei principii, delle verità d’ordine generale e possono essere considerate delle vere e proprie leggi, e sono quanto di più lontano si possa immaginare dalla realtà determinata e concreta , dall'altra abbiamo i giudizi categorici, i quali sono realmente qualificazioni del reale, ma esprimono verità contingenti, particolari. Per convincersi se e fino a che punto i giudizi che asseriscono semplici fatti (giudizi categorici) siano da considerare come leggi rudimentali, è bene anzitutto enumerarli rapidamente, affinchè possano essere resi evidenti i caratteri che li contraddistinguono. Qui, prima di andare innanzi cominciamo col notare che non esistono giudizi enuncianti la semplice esistenza del dato, ma sempre giudizi enuncianti qualche maniera di presentarsi di esso, enuncianti quindi qualche qualificazione, qualche attributo o relazione: anche i cosidetti giudizi storici non esprimono puramente l’esistenza dei fatti, ma, se non altro la relazione dei fatti in ordine al tempo ed allo spazio, per modo che questi figurano come forme appercettive atte ad ordinare ed a caratterizzare in qualche modo l'insieme dei fatti accaduti. Questi ultimi vengono riprodotti in maniera particolare in rapporto allo spazio ed al tempo, i quali così vengono a dare una rudimentale universalizzazione ai dati concreti. Occorre notare chie il sapere di una cosa di fatto è vero nel momento in cui si formula il giudizio: in un altro momento potrebbe cessare di esser vero, ma in tal caso il sapere che se ze aveva prima non sarebbe divenuto falso, pevchè esso si riferiva allo stato di cose che aveva luogo nel primo di quei momenti e rispetto a tale stato di cose il sapere che se ne aveva e che se ne ha è sempre vero, esprime un nesso, rudimentalmente quanto si vuole, ma sempre necessario ed universale tra il soggetto e l’attributo in quel dato punto del tempo e dello spazio. Dicevamo adunque che non esistono g.udizi puramente esistenziali e ciò si comprende agevolmente se sì pensa che l’idea della realtà o dell'esistenza, come l’idea del dato, del questo, non è un'idea come le altre, non è riducibile ad un ordinario contenuto simbolico, il quale, distaccato da una determinazione attuale del reale, possa essere adoperato senza tener conto più di questa, ed essere riferito, diremo così, a qualcosaltro. Le idee d'’ordinario sono per così dire estratte da un dato fatto o da una serie di fatti e poi possono essere riferite ad un nuovo fatto (simile, analogo o identico) che sopraggiunga: ora ciò per l’idea del dato non può avvenire, appunto perchè in tal caso l'idea è inconcepibile per sè presa: l’idea del dato non può riferirsi che a ciò che è dato: ma, si domanda, a quale dato? al dato con cui il soggetto si trova attualmente in contatto? ma questo è un processo ozioso, inutile e insignificante, perchè non vi è alcun bisogno di asserire che la realtà è reale quando io mì trovo a contatto della realtà: si può sentir bisogno di qualificare in qualche molo la realtà presente nella percezione, ma non di affermare che è reale. E, se ben si riflette, tutto le volte che si ricorre all’ enunciazione grammaticale di un giudizio esistenziale è sempre per asserire in modo più o meno celato e inconscio qualche attributo o qualche relazione del dato. È inutile aggiungere che l’idea del dato non può essere riferita a ciò che non è dato, perchè in tal caso si cadrebbe in contradizione. Da ciò emerge chiaro che l’idea di esistenza non è mai un vero predicato. I In altre parole, l’esistenza non è una nota, una qualità, una determinazione che si possa aggiungere idealmente ad una cosa. La realtà, il dato, l’esistenza è sostantivo e non aggettivo, vale a dire, non è elemento astratto ed universale atto ad inerire,. a caratterizzara qualcosaltro. La nostra niente può - formare anche l’idea della realtà, ma questa è infeconda, non può estendere nè ampliare il nostro sapere: essa non ha consistenza come elemento isolato e per sè preso, essendo inseparabile dal fatto da cui la nostra mente l’ha per un istante disgiunta. Vi sono delle note, delle determinazioni, degli universali astratti, delle idee che noi possiamo o non possiamo attribuire ad una cosa, e ve ne sono anche di quelle che non possono essere negate senza sformare la cosa, ma non ve ne sono di quelle che qualificano la cosa come cosa, come reale. L'essere cosa (l’esser reule) non è una nota come un’altra: tolta essa non rimane più nulla, non già che rimanga qualcosaltro che non sia quella cosa. Essa può essere per un istante considerata come nota, ma come nota d’un ordiae speciale, come nota sostanza che trae seco per forza il dato. Reale non può essere che l'aggettivo della realtà: l'essere una cosa non può essere predicato che di una cosa; mentrechè una qualsiasi altra idea può essere predicato di questa o di quella cosa. Nell’enumerazione dei giudizii somme ai semplicì fatti seguiremo lo schema di BOSANQUET – citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice” -Giudizio qualitativo propriamente detto, enunciante una qualità sensoriale: es. ‘COME’È CALDO’ -- sott’intendi l’acqua, la stanza, ecc.; giudizio interiettivo esprimente un'emozione, o meglio, l’idea di un’emozione, nei quali, dal fatto psichico emotivo è distaccata l’idea come SEGNO di esso: es. ‘Cattivo!,’ ‘Che dolore!’. Al giudizio propriamente interiettivo fa d’uopo aggiungere il giudizio o meglio, la proposizione imperativa, precativa, ammirativa, interrogativa, ottativa, ecc., con le quali espritiamo un comando, una pres -- Giudizio impersonale. Es. ‘Piove.’ Giudizio percettivo, enunciante un fatto presente che viene esteso per mezzo di idee, rappresentazioni, imaginì, ricordi riferentisi a ciò che non è attuale. Es. quando noi riconosciamo un individuo e lo chiamiamo per nome, not vediamo chi egli è , abbiamo la percezione di lui, Giudizio dimostrativo, il quale ha per soggetto questo ora qui . Es. ‘Questo è freddo’, ‘Ora piove’, ‘Quì è buio,’ Tutti questi giudizi presentano a prima vista la caratteristica comune di riferirsi direttamente al reale, qualificandolo variamente. Il loro soggetto esprime, in modo indeterminato, senza alcuna specificazione, cioè, per mezzo di idee, il contatto del reale col soggetto; dal che si sarebbe tratti a conchiudere che siffatto giudizo è agli antipodi di ciò che ordinariamente si chiama legge. Questa, infatti, è universale e astratta in quanto esprime la sintesi di attributi, di due aggettivi e viene formulata per mezzo di un giudizio ipotetico : il giudizio categorico della specie summentovata è invece individuale, concreto in quanto caratterizza, qualifica direttamente il dato e viene ad esser riferito a ciò che esiste per sè. Il giudiziolegge, come ordinariamente è inteso, non esprime che la ghiera, un sentimento di meraviglia e così via. Questi giudizi non vanno confusi con le espressioni emotive corrispondenti, giacchè essi sono resi possibili dal distacco dell'idea dal fatto psichico concreto. Il fatto psichico è individuale, soggettivo e affatto incomunicabile (è sentito), mentrechè l’idea formata mediante il giudizio, mediante il riferimento di una qualità od attributo comune ad un fatto psichico concreto sentito, è comubicabile, universale, obbiettiva (è intesa). conseguenza di una data supposizione senza dir nulla circa. la realtà dei suoi termini; che esista o no nella realtà un triangolo, che esista o no nel fatto in un dato momento e agisca o no nell'organismo un dato veleno, la legge matematica riferentesi al triangolo e la legge biologica relativa all’ azione di un veleno sull'organismo è sempre vera. Lo stesso non si può dire del giudizio categorico, il quale enuncia, qualificandolo, un fatto quale è attualmente, non nella sua possibilità, tanto è ciò vero che in esso il soggetto non può essere negato in modo intelligibile, vogliamo dire che il soggetto non essendo specificato e determinato in alcuna maniera, non può subire alcuna alterazione senza cessare di esistere del tutto, e non soltanto come tale e tale altro. A prima vista adunque si direbbe che tra i giudizi categorici summentovati e quelli ipotetici o leggi vi sia assolutamente un abisso: il che poi menerebbe alla conseguenza che mentre i giudizi, diremo così, rudimentali, esprimerebbero effettivamente delle qualificazioni del Reale, i giudizi ipotetici universali enuncierebbero soltanto delle relazioni tra idee. Ora è ciò vero? Prima di tutto richiamiamo alla mente qual’è l’essenza e l’ufficio della funzione giudicatrice. L'essenza e l’ufficio del giudizio è, per così dire, di simboleggiare il fatto, di trasformare il solido fatto (mi si passi la similitudine) nella volatile idea, di sostituire a ciò che non può essere oggetto di scambio un qualcosa che ha valore in quanto segno, e che è facilmente comunicabile : ora ognun vede che, affinchè ciò avvenga, è necessario che il fatto sia universalizzato : e che cos’ altro è mai la legge se non l’ universalizzazione e il processo ideale (astrazione) praticato sul fatto? Ciò non basta: noi abbiamo detto che il giudizio si riduce al riferimento di un contenuto ideale alla realtà, il che vuol dire che il giudizio non è la semplice espressione di una modificazione soggettiva sopravvenuta in seguito al contatto della realtà col soggetto, come sarebbe il grido erompente dalla bocca di chi sì trova in un stato emozionale, ma è un processo per cuì la modificazione del soggetto a contatto del Reale viene appercepita per mezzo di qualcosa di universale che mediante l’atto giudicativo stesso assume una certa configurazione per mezzo della parola, passando dallo stato di potenza o di funzione virtuale in atto funzionale. Ora l'importante è questo, che quando l'atto giudicativo più rudimentale si compie, non è a credere che il fatto rimanga, dopo che ad esso è stata riferita l’idea, sempre fatto inalterato: un tale modo meccanico di concepire il giudizio non è ammissibile, perchè non esiste il fatto da una parte e l’idea dall'altra : l’idea esiste in quanto si riferisce al fatto e questo messo in rapporto con l’idea, non è più un semplice fatto qualsiasi, ma è come a dire idealizzato, è alterato in rapporto al contenuto dell’ idea. Alcuni dei molteplici, innumerevoli elementi costituenti il dato vengono lasciati da parte ed altri vengono ad emergere, perchè armonici coll’idea. Insomma quando un qualsiasi giudizio si formula, il contenuto reale reagisce sul dato, trasformandolo in qualcosa di universale e di astratto, per modo che in ultima analisi si ha sempre una sintesi ideale di addiettivi. E del resto, se ben si riflette, si vede subito che, tolto al giudizio il carattere di universalità, esso non ha più ragiono di esistere, in quanto diviene un atto del tutto soggettivo, individuale e quindi qualcosa d'inesprimibile, d'incomunicabile e d’inintelligibile. Quando formulo un giudizio sensoriale qualitativo o interiettivo, quando io dico, ad esempio, ho dolore al dito , io in sostanza af-_ fermo un qualcosa d’universale, nè può esser diversamente, giacchè in caso contrario primamente non sarei inteso da nessuno e poi tale giudizio difficilmente potrebbe essere ripetuto, mentrechè è innegabile che esso viene enunciato innumerevoli volte nelle condizioni più diverse. Il mio dolore al dito non è quello di un altro: se ne differenzia per rapporti di tempo, di spazio e per una molteplicità di circostanze, per modo che io dall’ insieme della realtà quale mi è presente in un dato punto, astraggo un elemento per metterlo in rapporto con un'idea (segno). Tale elemento astratto è indeterminato; non è specificato o qualificato in alcun modo e quindi non è un’idea, ma d'altra parte non si può dire che sia senz'altro il fatto, il reale nella sua grande complessità di elementi; è piuttosto la configurazione della realtà quale è in me in un dato momento. Da ciò consegue che i cosidetti giudizi rudimentali in quanto sono manier e di rendere intelligibili i fatti concreti mediante idealizzazione ed astrazione, sono delle vere e proprie leggi. Con ciò non si vuol dire che il giudizio è fuori la realtà, giacchè esso anzi è impiantato in questa, ma, poichè al suo compimento è necessaria la determinazione e la configurazione del reale, esso, pur avendo le sue radici in questo, cresce, si ramifica, si svolge nell’ atmosfera dell’ ideale. In breve, noi crediamo che i giudizi categorici rudimentali siano delle leggi iniziali, perchè i loro soggetti pur indicando, per così dire, i punti in cui la realtà è presente all’individuo, non esprimono questi nella loro complessità e compiutezza, tanto è ciò vero che io adopero siftatti soggetti, anzi formulo gli stessi giudizi in condizioni diversissime: e non basta ; li adopero e li enuncio io come li adoperano e li enunciano gli altri uomini in circostanze disparatissime: il mio questo , il mio qui , il mio ora , non è quello di un altro, pur venendo denotati in modo identico. Ma da ciò si deve forse trarre la conseguenza che i giudizi categorici rudimentali e gli ipotetici universali siano perfettamente identici tra loro e che pertanto qualsiasi forma di giudizio sia una vera e propria legge scientifica? No certo: noì dicemmo che i giudizi concreti categorici sono da considerare come leggi rucimentali, val quanto dire come germi di leggi e non come leggi addirittura: ed infatti quando noi in tali giudizi poniamo in relazione un'idea con un soggetto indeterminato, siamo nell’impossibilità di indicare la natura, le condizioni e i limiti della sintesi del predicato col soggetto. E il compito della scienza è appunto quello di analizzare, di determinare e quindi di idealizzare il soggetto indeterminato, di andare in traccia e porre in evidenza quegli elementi di esso che formano un tutto indissolubile col contenuto ideale espresso nel predicato. Con tale processo è evidente che ci veniamo allontanando dal fatto concreto complesso, giacchè l’analisi, come la dissezione dell’organismo, mentre ci allontana dalla vita vera e propria, ci fa conoscere gli elementi dalla cui cooperazione la vita stessa risulta. Noi coi giudizi categorici di cui ci occupiamo, esprimiamo, si, una sintesi ideale fino ad un certo punto tra due universali, ma detta sintesi non è necessaria, non è permanente, non è generale, nè assoluta appunto perchè, essendo indeterminato il soggetto, questo può presentarsi sotto le forme e le condizioni più svariate, per modo che un medesimo contenuto ideale, una volta si trova connesso con un dato soggetto, ed un'alira volta con un soggetto molto differente. Un dato contenuto ideale una volta sì trova connesso con un questo , con un qui , con un ora >, ed un’altra volta con un questo , con un qui e con un ora , il cui contenuto è differente da quello del primo. Conchiusione: i giudizi qualitativi‘ in generale non sono leggi vere e proprie, non sono cioè giudizi universali astratti ed ipotetici, ma leggi rudimentali, giudizi implicitamente universali ipotetici, in quanto non volgono sulla realtà nel suo insieme, ma su alcuni elementi di essa che non hanno un'esistenza propria per sè considerati. La legge, come il giudizio, serve a qualificare ed a rendere intelligibile il reale: ora le leggi ed i giudizi di cui . ci siamo occupati finora hanno per compito di riferire, di attribuire una qualità al Reale: le leggi e i giudizi di cui c’ intratterremo al presente hanno l’ufficio di predicare del Reale una relazione. Una volta che il giudizio è tale un’ operazione logica che ha necessariamente per risultato l’azione reciproca del soggetto sul predicato e di questo su quello, è evidente che se i giudizi-leggi categorici sono intimamente connessi con i giudizi o leggi ipotetiche in quanto entrambe rendono intelligibile il dato, dall’altra si presentano con note distinte in quanto i primi attribuiscono al reale una qualità e gli altri una relazione di qualunque genere quest’ultima sia, sia, cioè, una relazione di quantità, di ragione o di causa. È in questa seconda categoria che vanno comprese tutte le leggi scientifiche propriamente dette, quelle connessioni necessarie ed universali che sono come la struttura di tutte le scienze speciali. | Prima di discorrere partitamente delle varie sottospecie delle leggi relazionali (leggi causali, leggi razionali e leggi puramente quantitative), analizziamole in ciò che hanno di comune, ponendole in rapporto con le leggi che potremmo dire ora qualitative, In queste ultime si attribuisce una semplice qualità al reale, per il che questo viene ad essere come limitato in un punto, viene ad assumere la configurazione del campo attuale della coscienza, del campo su cui è fissata l’attenzione in un dato momento: finchè noi non abbiamo che qualità da attribuire al reale non sentiamo il bisogno di fare distinzioni entro il contenuto della coscienza, e di stabilire in modo cosciente dei rapporti tra i termini distinti. Esso nella complessità ed indeterminatezza in cui appare al soggetto, è senz’ altro qualificato; e poichè nessuna distinzione, o determinazione sì è praticata, l'affermazione non può varcare ì limiti di tempo e di spazio in cui è fatta ed ha carattere prettamente categorico. Essa si rapporta in modo più diretto all'esistenza, perchè non compie alcun atto di astrazione su ciò che immediatamente si presenta al soggetto; il fatto, essendo semplicemente qualificato, non è per così dire allontanato dalla sua matrice reale, come avviene nel caso che molteplici operazioni logiche hanno contribuito ad idealizzare il dato, distaccandolo più o meno completamente dai rapporti di tempo, di spazio e dalle condizioni svariate che contribuiscono alla concretizzazione. Nelle leggi relazionali, al reale non è più riferita una qualità, qualcosa di semplice, un termine isolato, ma una relazione, val quanto dire un nesso di due termini, il che suppone che il dato sia stato obbietto di determinazioni e di distinzioni e quindi obbietto di un processo di astrazione ; per il che si è entrati nel dominio dell’universale, nel dominio di ciò che non si riferisce ad un punto determinato dello spazio e del tempo, ma ha valore sempre e dappertutto. E poichè l'attenzione è segnatamente fissata su ciò che ha il maggior interesse attualmente, vale a dire sulla relazione, sul nesso esistente tra i due termini in cui è stato distinto il contenuto ideale del dato, è chiaro che la detta relazione deve essere significata in modo da informare tutto l'atto giudicativo. Il centro di gravità della funzione giudicatrice si sposta, in quanto è una data forma di caratterizzazione, è la connessione che viene ad essere obbietto del giudizio : il dato, avendo perduto la sua concretezza, entra come nell’ ombra della coscienza, mentrechè il nesso, la relazione viene ad occupare il primo posto nella visione mentale. Il dato è come presupposto e la forza del giudizio si esplica nell’ affermazione del nesso, Se la legge dell’ economia non avesse vigore nelle funzioni spirituali e nelle espressioni del linguaggio, avremmo nel giudizio l’esplicazione chiara di tutto il processo nelle varie sue parti; si preferisce invece di tacere, di sottintendere ciò che non è assolutamente indispensabile di esprimere (il dato) e di significare in maniera completa il nesso in cui sta propriamente il nerbo del giudizio. Ma donde e come sorge tale relazione che vien riferita al reale? Perchè il contenuto ideale viéne analizzato e distinto in termini, tra cui è riscontrata una determinata relazione ? Il motivo per cui il contenuto ideale viene al essere analizzato nei suoi elementi o in termini tra cui poi intercede un rapporto fisso, è la percezione di un mutamento concomitante e coordinato nelle varie parti componenti il tutto qualitativo o il contenuto ideale. Finchè questo non presenta alcuna variabilità nei suoi fattori e finchè questi ultimi non variano in modo coordinato, in modo che la determinazione dell’ uno tragga seco quella dell’ altro, non ha luogo alcun processo di analisi, di distinzione di termini, nessuna relazione è riconosciuta e fissata, e quindi nessuna relazione può essere riferita al reale. In seguito a ciò sì comprende perfettamente come le leggi relazionali siano dei veri e propri giudizi ipotetici universali, coi quali si viene ad affermare la connessione del conseguente con l’ antecedente fondata sopra una qualità riconosciuta inerente al reale. E qui sorgono parecchie questioni degne di essere attentamente esaminate. Prima di tutto si nota: Siffatti giudizi ipotetici avendo per termini degli universali, sono lontani dalla realtà, sono come sospesi în aria e non asseriscono alcun fatio concreto: da tal punto di vista si sarebbe quasi tratti a dare il posto d’ onore ai giudizi categorici anche rudimentali, i quali esprimono il nostro immediato contatto con la realtà. Che i giudizi ipotetici non enuncino fatti è innegabile, ma da ciò forse consegue che siano più lontani dalla realtà di quei giudizi che vertono semplicemente su fatti? La realtà non è costituita da semplici fatti per quanto questi siano complessi e complicati, come non è costituita da termini isolati, per così dire, da elementi atomi o da qualità semplici, ma da qualità e da relazioni variamente intrecciate tra loro. Ogni qualità è riducibile a relazioni, come ogni relazione è fondata su qualità: dal che consegue che quando noì enunciamo delle relazioni lungi dal trovarci lontani, ci troviamo più vicini alla realtà in quantochè ciò che perdiamo in complessità, in concretezza, lo guadagniamo in estensione, in precisione. Con la determinazione delle relazioni necessarie ed universali vengono rimossi i particolari privi d'importanza e di significato. Noi siamo a contatto della realtà tanto se predichiamo di essa qualità, quanto se ne predichiamo relazioni, col vantaggio in quest'ultimo caso che le relazioni purgate di tutti gli elementi inutili, hanno un valore assolutò, perchè esprimono la struttura del reale quale può essere trascritta e delineata dalla mente umuna. Poi si osserva: i giudizi ipotetici esprimono delle semplici possibilità, non mai dei fatti reali. Con essi in sostanza si dice: supposto che una tale con:lizione si verifichi, l’ effetto ne conseguirà necessariamente, e di qui il carattere della relatività inerente a siffatti giudizi, ma nulla si dice intorno alla realtà della supposizione. Sono pertanto delle enunciazioni che non escono dal relativo e dall'arbitrario. Qui occorre fare due osservazioni. 1° La realtà della supposizione è presa, nor data nel giudizio ipotetico per questo che il processo di analisi ha sformato il dato, togliendone tutti gli elementi insignificanti. Con tale operazione la connessione affermata non viene ad esser più vera in un dato punto dello spazio e del tempo o in un dato complesso di condizioni, ma viene ad esser vera dovunque e dappertutto, per modo che la supposizione lungi dall’essera un prodotto arbitrario della mente, un qualcosa che viene ammesso senza nulla sapere se esso corrisponda alla realtà, figura quale elemento (si badi, diciamo elemento e non già fatto) eminentemente reale. Essa non si trova nella realtà come ‘elemento isolato e quindi non si trova in un dato punto dello spazio e del tempo, ma si trova commista con svariati altri elementi, si trova nei contesti più disparati a seconda delle circostanze. La supposizione non è una mera possibilità, ma è, per così dire, una possibilità reale, un elemento che è stato e che può divenire attuale ogni volta che noi ci mettiamo nelle condizioni di prospettiva necessarie alla percezione del detto elemento particolarizzato. Ognun vede del resto che il giudizio ipotetico se non avesse una base reale, se non esprimesse sub specie aeternitatit un nesso constatato e constatabile nell’ esperienza ogni volta che si vuole, verrebbe ad essere destituito di ogni valore. Una supposizione puramente arbitraria non val nulla: rappresenta un prodotto accidentale dello spirito individuale e null'altro. Il giudizio ipotetico lungi dall’ esprimere la possibilità come contrapposta alla realtà sta a significare la capacità, la facoltà che noi abbiamo di constatare il nesso, la rela zione esistente tra due termini semprechè lo vogliamo in condizioni determinate. Esso pertanto piuttostochè esprimere un qualchè di meno, esprime un qualchè di più del ‘reale attuale, un qualchè che è reale non ora e qui, ma ovunque e sempre. Allo stesso modo che l'idea che simboleggia il fatto, qualificandolo, non è un prodotto arbitrario e subbiettivo della mente, ma ha valore reale in quanto si riferisce al dato di cui esprime l’essenza e il significato, così il giudizio ipotetico è da riguardare come segno di un modo di essere del dato. L'idea e il nesso ipotetico non hanno valore per sè, ma in quanto si riferiscono al reale del quale sono simboli nella nostra mente. Il giudizio universale ipotetico pur non esprimendo alcun fatto particolare nella sua complessità concreta, è però sempre sostituibile da una molteplicità di fatti. Possiamo, è vero, fare delle supposizioni illegittime, come possiamo enunciare dei nessi necessari, ma non reali in quanto il supposto da cui muovono non è reale, ma i casi in cui ciò si verifica sono relativamente rari e son ben determinati. | L'antecedente dei giudizi ipotetici poi in tesi generali si rapporta più o meno direttamente ad un fatto: così una legge fisiologica o biologica che non enuncia nessun fatto reale esistente, ma semplicemente possibile, esprime però sempre un nesso constatato e constatabile nell’ esperienza. E mentre 11 giudizio ipotetico pone in vista le condizioni genetiche del fatto, il giudizio categorico enuncia semplicemente il fatto. L'enunciazione delle condizioni genetiche suppone già il fatto, anzi una seme di fatti dalla cui comparazione ed analisi esse sono state estratte. Riassumendo, diciamo che il nesso enunciato in una legge relazionale non soltanto esprime un nesso che è stato constatato nell’esperienza (leggi causali), ma esprime la coscienza della possibilità di constatarlo ogni qualvolta si vuole; dal che emerge che essa penetra nel cuore della realtà molto dippiù che la semplice enunciazione di un fatto isolato, 2® La connessione e relazione affermata per mezzo dei giudizi ipotetici non è, nè può essere una connessione arbitraria ed accidentale; il che vuol dire che essa deve avere una ragione, un fondamento: ora la coscienza di questa ragione e fondamento è necessariamente implicita nell’enunciazione di una legge razionale? È questo un problema della più alta importanza, ed è stato risoluto variamente dai filosofi: per non citare che i più recenti, mentre il Bradley ammette che la qualità del reale che rende possibile una legge di relazione può rimanere ignota, il Bosanquet è di parere che ogni giudizio ipotetico ha radici in un sistema, in un fatto, in qualcosa di categorico. Ora, tenendo conto della maniera in cui le leggi scientifiche sono state scoverte attraverso lo svolgimento del sapere umano ed insieme del modo come tuttora vengono rintracciate le condizioni genetiche dei fatti naturali, noi siamo autorizzati ad affermare | che effettivamente non solo un nesso, una relazione del genere di quelli enunciati nel giudizio ipotetico devono avere una base, devono cioè essere due elementi appartenenti ad un unico sistema, devono essere correlativi nel senso che emergano da un unità fondamentale (e altrimenti perchè sarebbero in rapporto di dipendenza reciproca? perchè l'uno varierebbe nella misura che varia l’altro, e perchè infine l'uno agirebbe sull’altro ?), ma tale base deve essere conosciuta o almeno in qualche modo intraveduta. Se ciò non avviene,le così dette leggi naturali lungi dall’ enunciare dei rapporti necessari ed universali, enunciano delle connessioni di fatto che hanno un valore empirico, provvisorio. Finchè non si arrivi a conoscere il perchè di una legge, finchè cioè una data relazione non sia considerata come prodotta da una qualità inerente al reale, per modo che la stessa entri in un dato sistema, essa non avrà niun valore assoluto. Ogni scienziato quando si pone a sperimentare e va in traccia di una legge muove sempre da un dato sistema, da un dato ordine d’idee che avrà un colore diverso a seconda dell’ obbietto di una data scienza - vi è un mondo chimico, come ve ne è uno fisiologico ecc.; e quando una nuova connessione constatata non si collega in modo chiaro col detto sistema, si possono presentare due casi: o il sistema fondato su basi solide e razionali, resiste e in tal caso la legge non è considerata come un principio universale e necessario, ma come l’ enunciazione di un fatto empirico che richiede ulteriore esame, ovvero il sistema cede e d allora è sostituito da un altro sistema consono alla nuova connessione osservata. Insomma noì crediamo che il punto di partenza sia sempre qualcosa di categorico, un sistema, un fatto, un dato ordine d'idee e che le connessioni che si vengono man mano mettendo in chiaro non siano che ulteriori determinazioni del detto sistema; e nel caso che ciò non avvenga è giocoforza costruire un nuovo sistema entro cui possano entrare le nuove connessioni. Dal sistema non possono e non devono essere dedotte a priori (dialetticamente) le leggi, giacchè esso è come un principio regolativo, nel senso che non vi può essere una vera e propria legge, la quale non faccia parte di un sistema. L'ufficio del giudizio ipotetico e della legge relazionale è appunto quello di mettere in evidenza alcune parti o differenze o determinazioni del sistema, lasciando da parte la considerazione dell'insieme, il che non toglie che l'insieme vi sia e operi attivamente attraverso le differenze; anzi si può aggiungere che se il sistema non esistesse non verrebbe nemmeno in mente di andare in traccia delle leggi. i ‘Ciò che sopratutto occorre ricordare è che non vi sono sistemi fissi ed immutabili, bensì progressivi nella misura in cui progredisce l’insieme delle nostre conoscenze, e che se da una parte la scoverta e il significato delle leggi di‘pende da vedute sistematiche, dall’ altra parte le leggi reagiscono sui sistemi, contribuendo alla formazione di questi e dando anche ad essi un'impronta ed un colore speciale. Concludendo, diremo che nell’opinione ordinaria le leggi vengono considerate come maniere di operare di date cause, maniere di operare che dipendono dalla natura delle stesse cause: ora, che altro è la natura di una causa, se non la sua posizione in un sistema? Pertanto nui possiamo affermare che ogni necessità e relatività è fondata in ultima analisi su qualche cosa di categorico, su qualche dato, sopra un fatto irriducibile. Aggiungiamo in ultimo che le leggi riguardanti un dato fatto esprimono sempre il ritmo della variabilità di una data cosa, il ciclo entro cui il fatto, la cosa, il dato si muove, esprimono, cioè, le parti o le articolazioni di un sistema. Le leggi appaiono in tal guisa comele funzioni di varie © forme d’individualità del reale: le leggi di gravità, le leggi di una data sostanza chimica vanno riguardate come le funzioni, le maniere di operare di quella data forma d'individualizzazione del reale che è il mondo della gravità, ecc. E le dette leggi esauriscono, per così dire, la natura, la essenza di una data cosa. Noi dicemmo che le leggi relazionali hanno l’ ufficio di qualificare il reale per mezzo di una relazione: ora si può domandare : Di che natura è questa relazione ? Per risolvere una tale questione è bene passare prima rapidamente a rassegna le varie forme di relazione che possono caratterizzare la realtà, per vedere quali sono le note differenziali di ciascuna di esse. La prima forma di relazione che viene attribuita al reale è quella che risulta dalla comparazione quantitativa, è quella intercedente tra le differenze, o gradi di una stessa qualità : noi formulando giudizi come questi: ora è meno chiaro d'allora , qui è più freddo di lì , questo è più rosso di quello , ovvero questo è più rosso ora che non fu antecedentemente , questo è più caldo in questa parte che in quella , questo è più chiaro qui che lì (nei quali ultimi giudizi, come nota il Bosanquet, i dimostrativi di altra specie assumono l'aspetto di condizioni), veniamo a qualificare il reale per mezzo del rapporto quantitativo (più o meno) esistente tra due termini, i quali pertanto si devono implicare a vicenda: dal momento che una data qualità è distinta nelle sue variazioni, nelle sue differenze S'intende agevolmente che un dato sistema può essere alla sua volta analizzato e scomposto in relazioni in modo da rientrare come parte in un sistema più vasto e comprensivo e così via. Ciò che in un caso figura come sostantivo può divenire aggettivo di un sostantivo d’ordine più elevato. o gradi, ciascuno di questi in tanto ha un significato in quanto è connesso con un altro, Come si vede, il giudizio comparativo qualifica il reale per mezzo della relazione esistente tra la parte e il tutto, il quale ultimo differisce dalla parte per mezzo di altre parti omogenee. Notiamo qui che secondo che l'attenzione è richiamata precipuamente sulla qualità variabile quantitativamente messa in rapporto coi vari punti dello spazio e del tempo variabili in modo continuo, ovvero è richiamata sulle variazioni quantitative delle qualità sensoriali (es. sensazioni muscolari) che determinano le costruzioni dello spazio è del tempo, il giudizio comparativo coopererà alla formazione della cosa e di una specie qualsiasi d’individualità, ovvero alla costituzione delle forme intuitive (spazio e tempo). La comparazione quantitativa precisata, resa esatta si trasforma in misura, la quale consiste nel considerare un oggetto come un tutto contenente un certo numero di unità : unità che viene fissata, riscontrandola identica nei vari aggregati in cui entra come parte. In tal modo dalle relazioni quantitative concrete si passa a quelle astratte e perciò stesso aventi significato generale e quando la misura degli oggetti è praticata, riferendosi ad unità di misura estrinseche ed è espressa per mezzo di giudizi generali, diviene una vera e propria proporzione in quanto essa è applicabile a casì in cui i terminì corrispondenti sono grandezze differenti. La proporzione, infatti, si riduce all'’eguaglianza di due rapporti. La semplice proporzione diviene poi una vera e propria legge proporzionale non appena viene introdotta nel soggetto una specificazione, un attributo (condizione), la cui esistenza sì mostra intimamente connessa con quella del predicato: es. questo pezzo di un metallo e questo pezzo di un altro metallo, che hanno lo stesso volume, stanno in rapporto al peso come 5 : 9 . Con la misura noi siamo entrati nel dominio della quan tità astratta; vediamo ora da tal punto di vista per via di quali relazioni il Reale è qualificato. In primo luogo vanno annoverate le relazioni numeriche. Il tutto riguardato dal punto di vista puramente quantitativo, è caratterizzato da ciò, che può essere costruito mediante la ripetizione ideale di unità o parti fisse. Tale ripetizione ideale costituisce l'enumerazione. Nella misura si muove dal tutto caratterizzato per mezzo delle sue differenze, mentre che nell’enumerazione si parte da un’ unità distinta, per arrivare a costruire una somma totale, o un aggregato. Nell’enumerazione il tutto, che è predicato, si presenta come una forma, diremo così, molto attenuata di quell’ individualità sistematica che nella misura fu da soggetto. Il tutto dell’ enumerazione poi è un vero aggregato; e la parte è ridotta al posto che, come unità, può occupare nella somma. È per questo che in un sistema numerico, la somma delle unità rimane la stessa, qualunque sia l’ordine in cui queste sono contate; due parti possono mutar di posto senza che consegua alcuna modificazione da parte del tutto. Va notato però che in ogni giudizio enumerativo sono impliciti i due elementi dell'unità e della comune natura o identità che fa da sostrato delle differenze rappresentate dalle parti enumerate. L'unità deve fornire la regola e insieme il limite dell'enumerazione, la quale si ridurrebbe ad un processo sfornito di significato, se fosse senza limite e sarebbe impossibile addirittura, se fosse senza regola. L'identità fondamentale d'altra parte è indispensabile in quanto, mancando essa, non si avrebbe uno degli elementi essenziali del giudizio; l'unità numerica, infatti, è nient'altro che la differenza o part: presa come distinta dall’identità fondamentale solo mediante un atto del giudizio. Ciò che noi contiamo nell’ enumerazione sono gli atti del giudizio, come atti di distinzione e di riferimento in una qualità continua, identica. Se il processo di enumerazione suppone necessariamente l’esistenza di una natura propria ben definita e jualitativamonte determinata nell’obbietto del detto processo, è innegabile d'altra parte che l'atto del contare tende ad assumere indipendenza, quasi che potesse avere un significato proprio a parte dalla qualità continua e identica delle unità componenti il tutto. É in forza di tale processo di astrazione che avviene ogni progresso nel calcolo. Lo svolgimento di questo, infatti, si compie col costruire totalità numeriche, mediante la sostituzione di relazioni di unità ideali a unità positivamente concrete; relazioni che formano un totale numericamente identico, ma generalizzato e ideale. L’unità quantitativa per sò, o piuttosto l’astrazione unilaterale dell’unità quantitativa, il solo posto numerico che non è collegato per mezzo di una qualità identica e continua (unità organica. o sistematica delle parti) cogli altri posti della serie, non può avere in sè alcun principio od esigenza di totalità, cioè a dire, non può avere alcuna ragione per finire in un punto più che in un altro. Vogliamo dire che l’'enumerazione delle unità come tali può esser continuata a piacere ed un tale processo ci conduce al concetto dell'infinito numerico. L'infinito numerico, trascurando il fattore della natura delle unità, omette l'elemento che può arrestare il computo ad un punto piuttosto che ad un altro. Chi può dunque trattenersi dal considerare l'infinito numerico come un prodotto soggettivo, a cui nulla di realmente obbiettivo corrisponde? Le relazioni numeriche e quantitative in genere sono controdistinte dalle seguenti note: 1° esse sono universali, necessarie o relative in quanto l'un termine in tanto ha valore in quanto è connesso con l’altro, per modo che rientrano nella formula del giudizio ipotetico. Se A è B allora è C ; 2° talì relazioni non sono unilaterali, ma reciproche, il Se A è B allora è C può divenire Sc 4 è C allora è B ; 3° la ragione di tali connessioni non si trova nell'esperienza, nel dato, comunque l’esperienza possa presentare delle applicazioni di tali connessioni: il valore di queste ultime però non .dipende dalla maggiore o minoreapplicabilità nell'esperienza. Ora tutte queste noto che cos'altro stanno a significare se non che la relazione attribuita in tal guisa alla realtà è un nesso o una relazione puramente razionale? Se il fondamento del nesso non fosse nella ragione, potrebbe il detto rapporto essere necessario, reciproco e valido indipendentemente dall’esperienza? Se non che dire che la relazione è puramente razionale, che il fondamento del nesso si trova nella ragione non è risolvere in modo completo il problema: rimane sempre da spiegare in che consista un nesso razionale e in che modo la razione possa essere fondamento di un nesso, Quando noi vediamo che tra due termini esiste un legame necessario, per modo che uno implica o trae seco l’altro, che cosa dobbiamo pensare? Qual'è il concetto che noi in tal caso ci dobbiamo formare della dipendenza o del nesso ecc.? Per rispondere a tali quesiti occorre tener presente che il nesso necessario, reciproco e indipendente dall'esperienza tra due elementi, non può esser dato che alternativamente da due condizioni principali: o dal fatto che i due termini sono perfettamente sostituibili in quanto | sono equipollenti, in quanto cioè sono espressioni diverse di una stessa cosa: in tal caso i due termini s' implicano a vicenda perchè sono termini di un’eguaglianza e di una identità: ovvero dal fatto che i due termini della connessione sono parti di un tutto organico o di un sistema: in tal caso gli elementi tra cui ha luogo il nesso non sono identici, ma si completano a vicenda quali fattori di una identità sistematica. Ora si domanda: il giudizio ipotetico tipico è espressione della prima specie di nesso, ovvero della seconda? Finchè non si esce dalla pura identità, da quella che si potrebbe chiamare identità formale, non è a parlare propriamente di giudizio ipotetico come non è a parlare propriamente di nesso, il quale involge sempre transizione da un contenuto ad un altro, rapporto di due. parti integrantisi a vicenda e non semplice tautologia: anche quando noi affermiamo 50 X 3 = 25 X 6, la ragione di tale connessione non va ricercata nella identità dei termini, ma nella costituzione propria del sistema numerico: è il sistema di numerazione che rende possibile la identificazione di 50 X 3 con 25 X 6: In fondo adunque ogni nesso razionale implica l'esistenza di un’ identità sistematica, di una totalità, le cui parti sono organicamente congiunte, perchè ciascuna di esse figura come differenziazione, come determinazione o come manifestazione dell’unità fondamentale. Qui però sorge il problema: Come è mai possibile la esistenza di una totalità le cui parti s’implicano a vicenda? Come è mai possibile l’esistenza di un sistema organico i cui elementi poi s’ implicano a vicenda? È evidente che ciò è possibile solo nel caso che il sistema figuri come un’individualità, come un fatto categorico fornito di un certo grado di assolutezza, avente quindi la sua ragione in sè stesso. Ora siffatte condizioni si riscontrano: 1° in quei prodotti dell'attività umana, i quali rispondono ad un fine cosciente. È in vista di questo che i vari elementi sono armonicamente coordinati tra loro. L'idea fine agisce come unità regolatrice ed organizzatrice dei vari elementi componenti il tutto; in tal caso le varie parti sono intimamente connesse tra loro, perchè si completano a vicenda e perchè sono funzioni determinantisi reciprocamente; 2° quindi anche in quelle costruzioni numeriche e geometriche che presentano uno spiccato carattere d’individualità in ragione della proporzionalità che si riscontra nelle loro relazioni interiori e in ragione della scelta arbitraria delle condizioni primitive e fondamentali determinanti poi l'andamento generale delle costruzioni stesse (1); e 3° in quei casi in cui dopo che è stata scomposta una totalità aggregato considerata quindi dal semplice punto di vista quantitativo nei suoi componenti, Vedi a tal proposito quello che noi, sulle tracce del Masci, scrivemmo intorno alle varie operazioni numeriche: Za mozione di Legge , vol. I di questi Saggi. ciascuno di questi si mostra dipendente dagli altri. Da tuttociò consegue che il nesso razionale qual'è espresso dal giudizio ipotetico tipico che non trae seco alcun rapporto di tempo, ha la sua base nel fatto che i due elementi tra cui intercede la relazione di dipendenza reciproca necessaria sono parti di un unico tutto, che questo sia considerato dal semplice punto di vista quantitativo, ovvero dal punto di vista sistematico o organico implicante un processo di differenziazione qualitativa. Ora chi uon vede che la totalità, il sistema, l’individualità vera, implicante una relazione necessaria tra le parti, non può essere che un effetto dell’attività costruttrice umana, giacchè è solamente ciò che è fatto, costruito dal soggetto umano che può da una parte essere completo in sè stesso e dall'altra avere una struttura prettamente razionale e quindi avere quel grado di assolutezza e di apriorità che guarentisce la necessità del nesso intercedente tra gli elementi contenuti nel sistema? Ma possiamo d’altronde affermare che tutti i caratteri suaccennati di un nesso razionale e necessario sì riscontrino nei prodotti umani? Come si vede, il punto essenziale da dilucidare sta qui: se il nesso razionale implica sistema, totalità e se questa non può aversi che da ciò che proviene dal soggetto umano, è necessario precisare se tutti e nel caso negativo quali i prodotti umani racchiudano una relazione necessaria tra i loro elementi o fattori. A ciò si risponde che una totalità, un sistema implica una relazione necessaria tra gli elementi solo in quei casi in cui questi elementi figurano come determinazioni essenziali del sistema o della totalità. I vari fattori o componenti di un tutto non hanno un valore eguale, in quanto alcuni di essi sono essenziali, indispensabili quasi si direbbe che in essi sotto varie forme è la natura stessa del sistema , mentrechè altri sono fino ad un certo punto indifferenti al sistema stesso: è evidente che tra i primi vi è una relazione necessaria entro il sistema dato, non già tra gli altri. Non basta. Non tutti i prodotti o le costruzioni sistematiche del soggetto umano hanno un valore ed un significato eguale: ve ne sono di quelle che si riferiscono ad una funzione primitiva, universale e costitutiva dell'anima umana in genere, e ve ne sono di quelle che si riferiscono a funzioni variabili ed arbitrarie della coscienza: ora è chiaro che i legami necessari si riscontrano in quei sistemi prodotti dall’esercizio delle funzioni inerenti propriamente alla natura umana. In questi ultimi casi il sistema a cuisi devono riferire i nessi necessari è sempre posto dallo spirito, mentrechè negli altri casi il sistema può e non può esser posto, può esser posto in un modoe può esser posto in un altro. La base dei giudizi ipotetici in quest’ultimo caso non viene ad esser fissa, ma mutevole in rapporto ad una quantità di circostanze. Concludendo, noi possiamo dire che ogni nesso razionale o necessario è fondato sopra l’esistenza di una totalità o di un sistema, per modo che i termini del nesso figurano come le parti o le differenze della totalità e del sistema. Due cose in tanto si possono implicare a vicenda in quanto sono parti di un tutto. Ora un tutto, una totalità non è mai data, giacchè tutto ciò che è dato è sempre relativo: il fatto stesso di esser dato fa sì che agli occhi del soggetto non possa apparire che come qualcosa che si riferisce a qualcos'altro, e ciò che è dato in tanto assume a volte l'aspetto di qualcosa d'individuale e di totale, in quanto noi proiettiamo, o riflettiamo in esso la nostra stessa attività, lo informiamo della nostra stessa vita. Solo ciò che è fatto, ciò che è costruito da nuvi è un tutto completo, è un vero sistema, ha la sua ragione in sè stesso. Sicchè il nesso razionale non si può trovare che tra gli elementi di un tutto, di un sistema costruito dal soggetto: il giudizio ipotetico tipico in tal guisa non soltanto ha una base categcrica, ma questa sua base è nell'attività del soggetto umano. Se non che va notato che non tutti i sistemi e le totalità prodotte dall'attività umana servono di fondamento a nessi universalmente necessari e quindi a giudizi ipotetici reciproci, ma soltanto quei sistemi derivati dallo esercizio delle sue funzioni costitutive. Tali sono i sistemi della quantità o della grandezza, dei numeri, dello spazio (1) che forniscono la base dei nessi razionali e dei giudizi ipotetici (leggi) di tutte le cosidette scienze esatte o formali. La realtà non è soltanto qualificata per mezzo di nessi razionali, ma è anche qualificata per mezzo dei rapporti causali. Quali sono i termini tra cui inteircedono siffatti rapporti? Sono qualità od attributi che vengono astratti dalle complicate relaziouii del reale, perchè sono invariabilmente ed universalmente congiunti tra loro in qualsiasi contesto o sistema essi si trovino. Prima di ricercare la natura del nesso causale e le note che lo controlistinguono dovremmo passare rapidamente in rassegna le varie forme in cui esso si presenta nei principali, rami del sapere: ma l’enumerare le leggi, sia Le relazioni del tempo e del movimento sono espresse sempre per mezzo di grandezze, di relazioni spaziali e numeriche, anche fondamentali di tutte le scienze sperimentali leggi fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche, storiche, sociologiche e filologiche non ci sembra di alcun vantaggio, in quanto tutte presentano un’eguale struttura logica. Tutte si riducono a rapporti di attributi e quindi a legami astratti, a generalizzazioni ricavate da sistemi di fatti concreti: gli attributi connessi mediante l’indagine fisica sono incommensurabilmente differenti dagli attributi connessi mediante l’indagine chimica, e gli attributi connessi mediante l’indagine di siffatti due processi scientifici sono, lo ripetiamo, incommensurabilmente differenti dagli attributi connessi mediante le indagini biologiche in genere. Se gli attributi non fossero in ciascuna serie di scienze qualcosa a sè, qualcosa d’irriducibile, noi non saremmo propriamente autorizzati a parlare di scienze differenti, ma di una sola scienza, la quale, per comodo didattico o per l’esigenza della divisione del lavoro, potrebbe essere divisa, ma in sostanza le varie scienze non sarebbero che capitoli diversi di una sola scienza. Ora ciò non è, e chi ha qualche dimestichezza con le scienze speciali lo sa; del resto è per questo che i metodi delle varie scienze sperimentali, pur avendo dei caratteri comuni, variano profondamente tra loro. Gli attributi o qualità adunque connesse nei vari ordini di scienze sono irriducibili le une alle altre, ma esse per sè prese sono indeterminate e il sapere scientifico va in cerca di qualcosa di fisso, di stabile, di coerente e di necessario. Gli attributi son fatti, son dati, ecco tutto: onde è che essi sono materia di elaborazione scientifica, non sono scienza. Perchè ciò avvenga è necessario che gli attributi o le qualità ricevano delle determinazioni quantititive (numeriche), I nessi o le relazioni intercedenti tra le qualità possono essere fissati e posti in evidenza soltanto per mezzo delle determinazioni spaziali e temporali, le quali alla lor voita hanno bisogno di essere specificate per mezzo del numero. Nessi e qualità devono adunque esser prese in funzione, devono essere schematizzate per mezzo della quantità, e per mezzo dello spazio e del tempo quantitativamente presi. Come il colore è necessario a delimitare l'estensione, così il numero, lo spazio e il tempo sono necessari a delimitare le qualità e le relazioni. È per questo che l'esattezza e la precisione scientifica dipendono dal grado in cui è applicabile la matematica. Questa trasforma le scienze empiriche da induttive in deduttive, e quindi in razionali appunto perchè fa considerare le qualità sotto l'aspetto della quantità. © Da tutto ciò consegue che tutte le leggi delle scienze sperimentali si riducono a relazioni di qualità espresse nelle loro variazioni quantitative e spaziali e temporali le quali due ultime vengono espresse alla lor volta per mezzo della quantità. Vediamo ora in modo più particolareggiato quali sono i caratteri che controdistinguono i nessi sperimentali... Anzitutto si nota che essi sono necessari ed universali e poì che lungi dall'essere forniti dalla ragione indipendentemente dall'esperienza, sono tratti da quest'ultima, nei cui limiti sono validi. Ora che i nessì costituenti, diciamo così, la struttura delle scienze sperimentali debbano essere necessari ed universali, ognuno lo comprende, pensando all'obbietto proprio del sapere scientifico che è appunto quello di trasformare le semplici congiunzioni di fatto, per sè sfornite di qualsiasi valore, in connessioni di dritto, in coerenze fisse, stabili, aventi cioè un fondamento che le giustifichi: non è egualmente chiaro fino a che punto i nessi in questione siano un portato dell'esperienza : è oltremodo importante, infatti, mettere in chiaro entro quali limiti vada ristretta l'azione della ragione di fronte all’esperienza, se si riflette che la coerenza ela necessità non possono venire che dalla ragione. Qual'è la differenza essenziale tra i nessi puramente razionali e quelli sperimentali ? La differenza sta in questo, che i primi sono fondati sull’ esistenza di sistemi costruiti dall'arbitrio dell'uomo, e quando diciamo dall’arbitrio dell’uomo non vogliamo dire dall’arbitrio assoluto, vale a dire sfornito di qualsiasi riferimento a qualche proprietà o qualità inerente al reale, ma vogliamo dire che l’attività costruttiva dell’uomo è estremamente preponderante, come avviene nei sistemi numerici, nelle determinazioni spaziali ecc.; gli altri invece sono fondati su sistemi che hanno il loro principale punto di appoggio su qualche fatto o dato. Se si passano a rassegna ì vari ordini di leggi e di sistemi corrispondenti, si vede che essi vanno a metter capo in ciascuna serie in qualche dato, o fatto ultimo inesplicato e inesplicabile, il quale non è posto dall’arbitrio dell'uomo, ma è propriamente subito. Se anche questo sparisce, viene ad esser rotto ogni legame colla realtà e ci troviamo nel regno della pura forma, dell'astratto e del razionale. I nessi razionali presentano in tal guisa un grado di assolutezza, di compiutezza che invano si cerca nei nessi sperimentali, in cui domina sempre il riferimento a qualcos'altro. Il fondamento dei nessi sperimentali adunque si trova, sì, nell'esistenza di sistemi che contengono i termini in connessione, ma i Abbiamo detto che ogni opera d’arte figura come l’ espressione di due sorta di leggi sistematiche, di una riferentesi alle determinazioni del mondo estetico in genere (è quella di cui si è parlato), dell'altra riferentesi ad un dato fatto estetico, ad un dato prodotto artistico compiuto in un momento determinato. Ogni opera d’arte, infatti, incarna un'idea, sì presenta come un'individualità, come un sistema fornito di date parti o differenze: ora prima che essa sia eseguita, nella mente dell'artista esiste il concetto dell’ opera caratterizzata da date qualità suscettibili di determinazioni disgiunte o escludentisi a vicenda. Il processo della elaborazione artistica insomma si compie sempre particolarizzando, determinando, specificando un contenuto ideale di cui si hanno nettamente i limiti e il contorno; se ciò non avvenisse l’opera d' arte non avrebbe unità, nè armonia organica, nè individualità, perchè non avrebbe la sua ragione in sè stessa. Ciò che abbiamo detto della vita estetica si applica prefettamente alla vita morale. Ogni azione morale suppone la cooperazione di due leggi o giudizi sistematici, col primo dei quali il contenuto della vita psichica viene considerato dal punto di vista della moralità, viene cioè ordinato in guisa da costituire un tutto organico, un sistema armonico a cui si dà l’ appellativo di morale: sistema che ha questo di proprio, che per esso tutti gli clementi e fatti psichici acquistano valore e significato dal modo in cui contribuiscono al raggiungimento dell’ ideale morale, che è quello della comunione spirituale di tutti gli uomini. Il Genio morale, il Santo appercepisce il reale come sistema morale in genere di cui coglie tutte le differenze o determinazioni e le loro relazioni dì reciproca esclusione. D'altra parte ogni singola azione morale rappresenta l’espressione di un concetto etico, di un'idea morale determinata: difatti un'azione morale si presenta sempre come qualcosa di armonico, di organicamente uno, di individualizzato, avente la sua ragione in sò stessa : il che suppone nell'animo dell'agente l’esistenza di un concetto sistematico analizzato nelle sue determinazioni essenziali in ordine ad una data condotta. Ogni fatto morale presenta coerenza ed unità d'indirizzo, il che vuol dire che esso emerge dall’ analisi di una concezione sistematica determinata, proprio in quella maniera in cui le proprietà, i rapporti e le specie dei triangoli derivano dalla natura di quella particolare limitazione dello spazio che dicesi triangolo, limitazione dello spazio che è resa possibile dalla natura dello spazio in genere. Vogliamo dire insomma che come il mondo estetico così il mondo morale hanno come loro precipuo fattore una costruzione sistematica della realtà, caratterizzata e delimitata in guisa da presentare determinazioni esclusive e disgiunte. Varia il principio informatore, l'universaie concreto, la funzione, la forma appercettiva, ma permane il processo di sistemazione e di determinazione. È per questo che tanto il mondo estetico quanto quello morale presentano uno spiccato carattere categorico; le esigenze estetiche ed etiche piuttostochè essere ricavate dalla realtà, dai fatti, anticipano, regolano quella e questi. Anche la vita della conoscenza in generale si esplica per mezzo di leggi sistematiche. Ogni processo conoscitivo è fondato sull’esigenza di fissare, di qualificare e di determinare il reale per mezzo di simboli o segni variamente connessi tra loro (idee, giudizi, inferenze), in maniera da risultarne una forma di coerenza totale o di sistema. Sicchè appare chiaro che la conoscenza adempie a due uffici, a quello di rendere chiaro per mezzo di simboli la realtà (di costituire delle formole o degli schemi in relazione reciproca tra loro), e di connettere tali simboli in modo da formare un sistema. Ora ciò in tanto è possibile in quanto la mente agisce come potenza universalizzatrice, come potenza tipificatrice : essa infatti, opera idealizzando il fatto e l’esperienza (staccando cioè gli attributi e le relazioni dall’esistenza), andando in traccia del principio informatore di un dato ordine di reali per mettere poi in evidenza le determinazioni essenziali di questo. Ed ogni progresso nella conoscenza è contrassegnato dalla maggiore prevalenza della tendenza alla sistematizzazione : quanto più la mente riesce, cioè, a individualizzare il reale tanto meglio adempie al suo còmpito. Come si vede, la forma generale di ogni conoscenza è la forma sistematica e le varie categorie non sono che momenti, manifestazioni diverse di tale funzione o categoria fondamentale; la sostanza, infatti, implica l’individualità, la causalità implica la finalità o l’ ordine, il numero implica la totalità e l’unità: la finalità e la totalita non sono che espressioni diverse del sistema. D'altra parte è agevole intendere che in qualsiasi forma speciale di conoscenza è in azione l’idea sistematica con le sue varie determinazioni; se pensare è porre in relazione, e se la relazione non è possibile che tra termini, ì quali abbiano qualcosa di comune, tra parti di un medesimo tutto, tra differenze di un'identità sistematica fondamentale, è evidente che qualsiasi conoscenza implica determinazione di un sistema, val quanto dire riduzione dell'ignoto al noto, riferimento del non spiegato a ciò che è spiegato. Le leggi o giudizi sistematici formando come l'ossatura della vita estetica, morale e conoscitiva, operano quasi diremmo celatamente nelle produzioni artistiche e scientifiche, e nelle azioni morali; le scienze invece che hanno per obbietto appunto di tradurre in termini puramente intellettivi, di trasformare in concetti, ordinandoli in modo ‘ sistematico, di rendere insomma intelligibili i fatti estetici, morali e conoscitivi, mirano a presentare isolate, separate da tutti gli elementi con cui si trovano miste, le dette leggi o giudizi sistematici. L’Estetica, l’Etica e la Logica coincidono in questo che tutte e tre tendono a costruire il mondo estetico, etico e conoscitivo per mezzo di giudizi disgiuntivi completi. Invero qual'è l'obbietto dell’ Estetica ? È quello di stabilire, in base allo svolgimento storico dell’arte e della coscienza estetica e in base all'osservazione psicologica della funzione estetica sia produttiva che recettiva o contemplativa (genio e gusto), il retto concetto ‘dell’ ideale estetico. Fissando il concetto si viene per ciò stesso a determinarne le manifestazioni in maniera completa ed adequata. Le leggio norme estetiche sono le direzioni o le maniere secondo cui l’attività o funzione estetica dell’ anima umana, in genere, cerca di raggiungere l'ideale estetico. Ond'è che le norme o leggi estetiche avent i una base categorica nelle proprietà dello spirito umano (atte quindi ad anticipare ed a regolare l’ esperienza), non vanno confuse con quelle forme di leggi finali empiriche (aventi cioè il loro fondamento nei dati forniti dall’esperienza) che rispondono a problemi pratici del tenore seguente: Come ottenere un dato effetto estetico in una data circostanza ? Come condursi moralmente in una data situazione della vita? Qual è l’obbietto dell’Etica? È quello di stabilire in base alla osservazione psicologica della funzione etica, in base allo svolgimento della cultura e della civiltà, allo svolgimento storico della coscienza morale e della vita morale il retto concetto della moralità. Ed una volta fissato e delimitato tale concetto, è chiaro che vengono determinate le manifestazioni e le estrinsecazioni essenziali del principio informatore della vita etica; basta a tal uopo rapportarsi alle qualità fondamentali che contradistinguono il suddetto concetto o principio. In ultimo qual’è l’obbietto della Logica? È quello di stabilire in base all'osservazione psicologica della funzione conoscitiva, in base allo svolgimento storico della scienza e della dottrina della conoscenza il retto concetto della conoscenza stessa. Trovato il principio informatore di questa e caratterizzato per mezzo di date qualità, è facile precisarne le determinazioni, le manifestazioni ed i limiti di variazione. Le norme etiche, logiche ed estetiche stanno ad indicare le diverse maniere in cui è possibile rispondere alle esigenze etiche, logiche ed estetiche dello spirito umano; norme che hanno la loro ragione ed origine nell'ideale rispettivo, il quale alla sua volta non è tratto dall'esperienza, non figura come un dato, ma è posto da ciò che vi ha di più intimo nell'essere nostro. Sta in ciò appunto il carattere distintivo delle leggi normative suaccennate. Da tuttociò consegue che l’ Estetica, la Logica e l’Etica (1) sono fondate su giudizi sistematici o disgiuntivi tratti dalla vita estetica, logica ed etica dell'anima umana. Esse mirando a mettere in evidenza la struttura logica o intelligibile del mondo estetico, conoscitivo ed etico, ci pongono dinanzi agli occhi le diverse maniere in cui il principio informatore, l’universale concreto e individuale si presenta in ciascuna delle tre sfere più elevate dello spirito umano. Nessuno confonderà poi le norme con i giudizi disgiuntivi o sistematici, giacchè quelle non indicano le parti del sistema articolate tra loro, ma bensì le vie per cui l’attività umana attua il sistema ideale espresso nelle sue articolazioni per mezzo della legge sistematica. Le norme si riferiscono all’attuazione, al modo di procedere nella realizzazione dell'ideale e quindi sono leggi della volontà umana; le leggi sistematiche invece esplicano nelle loro determinazioni i sistemi ideali, per il che non escono dal mondo ideale. Stando ad alcuni (Bradley, Bosanquet), l’ultima e più perfetta fase della conoscenza è rappresentata dal giudizio disgiuntivo in generale, in quanto per mezzo di questo il principio informatore di un dato ordine di realtà viene ad essere proseguito nelle sue determinazioni essenziali o nelle sue manifestazioni, le quali poi si escludono a vicenda. Nè potrebbe essere diversamente; una volta che il princi (1) Quello che abbiamo detto dell’ Etica, dell’ Estetica e della Logica sì potrebbe dire della Matematica. pio informatore, attuandosi, assume una data forma, viene ad essere esclusa ogni altra forma in cui esso può anche presentarsi; e poichè tali forme sono definite ed enumerate invirtù della conoscenza che sì ha di tutto l'ambito del concetto, è chiaro che dal trovarsi attuata una data forma si deduce la non attuazione delle altre, e dalla non attuazione delle altre si deduce l’attuazione di quella sola che rimane. Col giudizio disgiuntivo si vengono ad enumerare tutte le possibilità, ond’esso è l’espressione di una certa onniscienza da parte dell’uomo, onniscienza fondata però sempre sulla cognizione di una data qualità o attributo, il quale per natura sua ngn può ammettere che un numero determinato di variazioni, oltrepassate le quali, esso stesso viene ad essere annientato. Possono variare le occasioni immediatamente determinanti la formazione dei giudizi disgiuntivi, ma le loro caratteristiche non variano. Un giudizio schiettamente disgiuntivo riflette sempre un contenuto o sistema completo in sè stesso, onde proviene che esso, come ogni giudizio generico, è quasi categorico. Il giudizio assume la realtà del soggetto ed enuncia nel predicato le varie forme sotto cui quello in condizioni diverse si può presentare; forme che esaurendo la natura del tutto posto come reale, si presentano articolate tra loro mediante giudizi ipotetici o negativi. Ciò che sopratutto è necessario e indispensabile si è che il contenuto-soggetto, l’individualità o l’ universale, entri come tutto in ciascuna delle, forme enumerate, per modo che ogni differenza figurando come determinazione essenziale dell’ universale viene ad escludere tutte le altre differenze; è soltanto sotto questa condizione che ogni congiunzione si trasforma in disgiunzione, La disgiunzione, sempre secondo tali filosofi, è la sola forma giudicativa che può stare da sè, giacchè ogni connessione è entro un sistema e si può dire completo solo quel giudizio che enuncia insieme un sistema e le relazioni o determinazioni contenutevi. Certamente non ogni disgiunzione è completa, indipendente ed assoluta nello stretto senso della parola, ma ciascuna presenta sempre un certo grado di assolutezza rispetto al numero dei giudizi ipotetici che in essa trovano il loro fondamento. Così la disgiunzione che enuncia la natura e le specie dei triangoli contiene la base di tutti i giudizi ipotetici esprimenti le proprietà di tale figura. Ciascuno di detti giudizi, se completato e fatto esplicito, metterebbe capo nella detta disgiuzione, la quale alla sua volta è compresa nel giudizio fondamentale che espone la natura e i caratteri dello spazio. | | Ora, possiamo noi ammettere che la forma disgiuntiva sia la forma giudicativa più completa e quella meritevole veramente del nome di sistematica per eccellenza? Noi crediamo che vada fatta una profonda distinzione tra il giudizio effettivamente sistematico, il quale qualifica il Reale per mezzo di una identità sistematica organicamente articolata nelle sue varie parti e il giudizio disgiuntivo vero e proprio, il quale lungi dal presentare un sistema attuato, presenta le forme o le manifestazioni possibili di un principio. Il giudizio sistematico ci mette sotto gli occhi un tutto organicamente costituito e reale, mentrechè il giudizio disgiuntivo ci mette sotto gli occhi le maniere in cui il tutto si può attuare. Ora da ciò consegue che dal punto di vista ideale, dal punto di vista dell’elaborazione mentale il giudizio disgiuntivo appare più perfetto, perchè da una parte ci dice che un dato sistema, se attuato, deve essere determinato in una data guisa e dall’altra ci fa sapere tutte le maniere in cui può essere attuato e determinato; dal punto di vista invece della conoscenza come qualificazione di ciò che è reale è il giudizio sistematico vero e proprio quello che appare più perfetto e completo; l’ultimo invero ci mette davanti l'attuazione di un tutto organico contenente in sè delle differenze non escludentisi, ma implicantisi a vicenda. È desso che costituisce la base di una parte importante di giudizi ipotetici, i quali enunciano la connessione delle differenze contenute entro un sistema e il rapporto necessario degli attributi o parti di un tutto. Lo schema del giudizio sistematico è : S è cosîffatto che a implica b; quello invece del giudizio disgiuntivo è: S è cosiffatto che si può attuare 0 determinare in a o in b o in c. È vidente che il giudizio sistematico e quello disgiuntivo non vanno identificati tra loro; sono due processi conoscitivi collaterali, i quali adempiono ad uffici differenti ; il giudizio disgiuntivo allarga e completa idealmente la conoscenza, in quanto esaurisce le possibilità della realizzazione; quello sistematico invece pone in evidenza la struttura organica e i rapporti interni di un sistema reale. Con'ciò non si vuol. negare che vi possano essere e vi siano anche molteplici interferenze tra i detti due processi e che il giudizio sistematico possa essere fondato o esser riferito a una disgiunzione resa possibile dalle variazioni di una qualità essenziale, ma quello che non va dimenticato si è che la disgiunzione non rappresenta qualcosa di reale, come la struttura sistematica, che essa è un processo perfettamente ideale e che il tutto o il sistema che fa da soggetto nei giudizi disgiuntivi è un prodotto dell’astrazione. Esso non esistendo per sè, non avendo la sua ragione in sè stesso, non essendo qualcosa di sussistente e di completo, non esce dal dominio del necessario e del relativo; esso si riferisce necessariamente ad una delle determinazioni enunciate nel predicato. Il contrario si verifica nei giudizi prettamente sistematici nei quali il soggetto è qualcosa di categorico, di completo e d’indipendente. | La verità di ciò che si è detto intorno al giudizio disgiuntivo viene provata anche da questo, che esso è attivo in tutti quei processi dello spirito relativi all'attuazione di ideali concepiti dalla mente umana ; prima questa, per ragioni su cui qui non importa insistere, forma un concetto e poi dello stesso vengono rintracciate le determinazioni principali, basandosi sopra una sua nota essenziale; il giudizio disgiuntivo in tal guisa è attivo soltanto ogni volta che si ha a che fare con costruzioni ideali, con costruzioni di possibilità fatte da noi (di cui conosciamo le qualità essenziali e le loro variazioni), mentrechè quello sistematico mette in luce la struttura organica di un sistema reale per via della vicendevole dipendenza delle parti di esso. Tuttociò che è organicamente costituito, tuttociò che, attuato, o risponde effettivamente perchè opera dell’intelligenza e dell’attività umana o sembra corrispondere (funziona come corrispondente) ad un fine, può formare oggetto di un giudizio sistematico vero e proprio, o finale o generico che si voglia dire. Il giudizio disgiuntivo lungi dal rendere più perfetta la nostra conoscenza della realtà della quale noi conosciamo soltanto dei frammenti non fa che rendere esplicito ciò che era implicito perchè nostra fattura , non fa che metterci sott'occhio sotto altra forma ciò che già sapevamo. Avendo noi costruito il concetto soggetto non possiamo non trovarvi dentro quello che noi stessi vi abbiamo posto. É soverchio aggiungere che il giudizio disgiuntivo non può avere alcuna applicazione seria nella conoscenza del reale, del dato, giacchè noi dei vari ordini di questo non conosciamo il principio informatore (la natura propria) in modo da poterne indicare tutte le manifestazioni possibili. Noi finora abbiamo classificato le leggi, tenendo conto della forma e della natura dei giudizi con cui esse vengono enunciate; è evidente che possono ancora essere classificate, tenendo conto della loro varia origine, della maniera cioè con cui vengono rintracciate. Esse invero assumono caratteri diversi secondo che variano i processi logici messi in opera per scovrirle. Da tal punto di vista le leggi possono essere classificate in leggi costrattive, leggi analogiche, leggi induttive è leggi deduttive. Cominciamo dal ricercare per quale via vengono messe in luce le leggi matematiche, vediamo cioè qual'è il processo logico che le rende possibili e che quindi le contradistingue. L'inferenza (1) di cui si fa uso in matematica, è una vera e propria inferenza sussuntiva? | Ogni calcolo aritmetico, e quindi ogni specie di calcolo, può essere ridotto ad enumerazione o ad enumerazione di enumerazioni. Tutto il processo poggia sulla concezione del tutto quale somma delle sue parti, dell’ universale come risultante da determinazioni e differenze eguali ed omogenee quantunque distinte e separabili tra loro. È evidente che in tali casi l’universale non si presenta come un sistema concreto, per modo che le inferenze da esso emergenti non sì sa se siano da considerare come correlative dei giudizi, Qui è bene intenderci sul concetto che ci dobbiamo formare dell’inferenza dipendentemente dal modo come venne interpretata la natura del giudizio, L'inferenza, come il giudizio, mira a qualificare la realtà, con questo di proprio che la detta qualificazione non è immediata, ma mediata nel senso che il contenuto ideale viene riferito alla realtà in modo indiretto, coll’intermezzo di un altro contenuto immediatamente qualificativo. Ora com'è mai possibile un tale processo ? Come è mai possibile il passaggio da un contenuto ideale ad un altro? È possibile, perchè entrambi questi sono differenzia zioni di un fondo identico, momenti diversi di un unico universale. E qui va notato che quando sì parla di universale non bisogna correre con la mente all'universale astratto, alla nota od alla proprietà comune e ripetentesi in un certo numero di casi, la quale non significa nulla, ma all’universale concreto, al carattere significativo che, implicando il modo con cui è connesso con altri caratteri o momenti sì presenta come fattore generatore della realtà concreta Un esempio dell’universale concepito in modo siffatto ci vien fornito da talune proprietà delle figure geometriche; dato, per es. un arco di cerchio, noi abbiamo il raggio, onde possiamo descrivere tutta la circonferenza; e perchè ciò? Perchè l’arco dato non è semplicemente ripetuto, ma è continuato secondo la natura propria (universale concreto) della ovvero come delle inferenze esplicite. Così l'equazione, poichè risulta da una comparazione di relazioni numeriche astrattamente considerate, pare che corrisponda al giudizio universale e più specialmente a quello ipotetico : il che è già sufficiente a porre in evidenza il carattere sintetico o inferenz ale di essa. Se non che l'equazione non presuppone, non implica nulla, ma distende, per così dire, in modo completo gli elementi su cui verte l’attività giudicatrice. Mentre l’ordinario giudizio ipotetico omette o presuppone l'esistenza di tutte quelle condizioni che o sono ovvie addirittura, o implicite o completamente inattive, l'equazione, il cui contenuto è omogeneo appare ipotetica sulla base di detta figura piana, natura propria che regola le parti e che, quantun que implicata gia nell'arco dato, è nondimeno distinta da questo. La cosa riuscirà forse più chiara ancora se invece di un cerchio noi consideriamo un’ellissi, in cui il frammento della curva dato non può essere soltanto ripetuto senza mutamento nel rimanente della costruzione: vuol dire che nella curva data vi è qualcosa che può dettare la modalità della continuazione e completamento di essa. Sicchè noi possiamo definire il giudizio mediato, o inferenza, come il riferimento alla realtà (entro la sfera di un dato universale) di determinazioni per l’intermezzo di altre determinazioni direttamente riferite alla Realtà, ed esprimenti la natura propria dell’universale; ovvero, come il riferimento di alcune parti alla realtà per mezzo. di altre parti esprimenti la natura propria di una totalità determinata. Perchè si abbia l’inferenza è necessario adunque che l’universale si presenti come un sistema le cui parti siano in necessaria connessione tra loro e che la semplice unità delle differenze, quale si manifesta nel giudizio, sia sostituita da una maggiore o minore complessità di determinazioni e da una congiunzione più o meno articolata di attributi e di relazioni (nelle quali vanno comprese le relazioni di spazio e di tempo). Cfr. BosanQuET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and prediletions, which become, the life and opinions of H. P. Grice” --, Logic. un processo intellettuale, o di una sintesi di differenze esplicite. Noi nel giudizio ipotetico affermiamo la connessione necessaria esistente tra due termini senza mettere in chiaro la maniera in cui tale connessione si stabilisca e si generi, senza cioè rondero esplicito nel processo logico il fondamento o la ragione della connessione: nella equazione invece o nella combinazione delle equazioni i rapporti tra i varii termini, le loro proprietà e la loro derivazione vengono tutte messe sott'occhio per modo che appare evidente il fondamento del loro legame. È per questo che l'equazione presenta una connessione di ordine inferenziale in modo molto più chiaro che non l’ordinario giudizio ipotetico. | La combinazione delle equazioni messa in rapporto con una singola. equazione si presenta poi come la combinazione dei giudizi messa in rapporto con un singolo giudizio: in entrambi i casì è pressochè impossibile tirare una linea netta tra l’atto singolo e la combinazione degli atti. Il ragionamento matematico, stando al Bosanquet, può assumere varie forme, delle quali le principali sono: quella seriale (per cui è possibile l’apprensione delle connessioni spaziali e temporali), quella sostitutiva, quella costitutiva (equazioni costitutive) e quella proporzionale. Tutte le dette forme hanno questo di comune che non implicano un processo di vera e propria sussunzione, vale a dire che la conclusione, emergendo da una relazione quantitativa esistente tra le premesse, ovvero dalle modalità della funzione costruttrice espressa nelle stesse, non può essere considerata come un caso particolare compreso nella premessa maggiore, o come un elemento di un’ individualità concreta, ovvero come una determinazione della natura generica espressa nella detta premessa maggiore. Così nella cosidetta inferenza per sostituzione Premessa maggiore M = a + br tcr8. Premessa minore S =sMon Conelusione S =8 at be + cer8 noi abbiamo due connessioni equazionali riferite ad un identico tutto e quindi atte a dar origine ad un'ulteriore connessione. Ma M non è, nel caso sucitato, generico, nè S è specifico, nè infine Ja connessione di S con s (a +bx ecc.) è nota in grazia della connessione o della subordinazione dello stesso S all’ individualità concreta M. M, non v’ha dubbio, figura come il centro delle relazioni, come una forma dell’universale quantitativo che, per così dire, pervade tutta ‘l'equazione, ma da ciò non consegue punto che .S sia un caso di M piuttosto che M di $S. Insomma la sostituzione è una conseguenza derivante dall’ identità del tutto con sè stesso nelle sue varie forme (essendo obbietto del calcolo appunto il ritrovamento di detta identità), e non un principio di relazione inferenziale. Da tal punto di vista l’inferenza sostitutiva che merita propriamente il nome di inferenza per identificazione equazionale, costituisce il fondamento del computo aritmetico e algebrico. D'altra parte le inferenze esprimenti le connessioni spaziali e temporali: A è a dritta di B, Bè a drittadi C.-. A è a dritta di C: o A è anteriore a B nel tempo, B è anteriore a C.*. Aè anteriorea C, sono agli antipodi della vera sussunzione in quanto esse piuttostochè attribuire ad un fatto, al reale un contenuto ideale per mezzo della connessione di quest’ultimo con un altro contenuto ideale direttamente attribuito al reale, esprimono la maniera in cui si stabiliscono le relazioni spaziali e temporali, esprimono il modo di procedere della funzione costrpttrice. È se si vuol per forza fare in tal caso un’inferenza, si deve commettere l’errore di prendere il principio attivo, l’elemento generatore, o ciò che rende possibili tali inferenze, vale a dire la funzione mentale che ci dà l’ ordinamento costruttivo spaziale e temporale e considerarlo come parte del contenuto da cui è tratta la conclusione, nel qual caso sarebbe da porre come premessa maggiore delle argomentazioni costruttive un principio suî generis, un principio generale di costruzione che può essere espresso nel modo seguente: Ciò che è a dritta di una cosa qualsiasi B è a dritta di ciò, di cui alla sua volta la stessa cosa B è a dritta, e porre poi come premessa minore tutto il contenuto nell’inferenza suddetta; giacchè lo costruzioni e le connessioni astratte si riducono a relazioni sistematicamente necessarie, nelle quali si prescinde pressochè totalmente dalle qualità caratteristiche dei punti di riferimento assunti come perfettamente noti e indifferenti (se A è a dritta, ecc. vuol dire che A è un punto o un corpo nello spazio, altrimenti l’inferenza non avrebbe senso). Le stesse costruzioni tramutate in inferenze non possono presentare premesse fornite di prerogative speciali. | Come si vede, in tali casi non vi ha processo d’inferenza, perchè quella che dovrebbe essere premessa minore è la pura ripetizione, senza alcuna variazione, di quella che è posta come premessa maggiore; a ciò si aggiunga che la stessa premessa minore racchiude tutto, per modo che manca la conclusione. In siffatta inferenza le modificazioni reciproche delle relazioni sono costruite -nell’atto che si argomenta e non vengono presupposte nella natura del soggetto reale, a cui si riferisce l’inferenza. In altri termini l’argomentare non ha per scopo già di rendere esplicito, di distendere ciò che è già involuto nel soggetto esistente per sè, ma nell'atto stesso che l’argomentare ha luogo, si costruisce o si forma il soggetto dell’inferenza. I processi costruttivi spaziali e temporali adunque non sono dei processi d'argomentazione sussuntiva, ma esprimono in forma ideale il riferimento reciproco dei vari punti dello spazio e del tempo, riferimento che è basato sulla identità e continuità dello spazio e del tempo. I processi delle equazioni costitutive, delle equazioni, cioè, enuncianti i rapporti numerici esistenti tra le parti componenti determinate totalità presentano due aspetti. Da una parte figurano come sémplici calcoli o combinazioni di rapporti simili alle equazioni mediate, o sistemi di equazioni numeriche, le quali non hanno alcun significato all'infuori di un dato sistema numerico: infatti quando si stabilisce una proporzione tra due quantità variabili, dando a queste un valore determinato (coefficiente) per vedere quali modificazioni ne risultino, è evidente che non vi è premessa maggiore, ma bensì descrizione generalizzata di un identico tutto in due casi, i quali devono essere attuati rispettivamente con determinati fattori e l’inferenza consiste nel presentare la costruzione di un tale tutto appunto rispettivamente sulla base di tali fattori; dall’altra parte il calcolo, le combinazioni delle equazioni in taluni casi sono ° fatte in base a certi presupposti, e con regole determinate, onde esse figurano come mezzi per raggiungere uno scopo definito, il quale poi sì può ridurre alla determinazione delle proprietà di una data figura nello spazio: così p. es. la forma spaziale del tipo curvilineo (la curva poi può essere aperto o chiusa, simmetrica o asimmetrica ecc.) è come il contenuto quasi generico, secondo il linguaggio del Bosanquet, ovvero l’idea-in base a cui la costruzione di una particolare figura curva avente proporzioni numeriche, assume proprietà caratteristiche. L'unità organica o sistematica presentata dalle figure geometriche, per la quale esistono rapporti definiti tra i vari elementi che le compongono, è data appunto dal fatto che le dette figure non risultano da un semplice aggregato di parti, ma dalla coordinazione numericamente proporzionale di queste. E nell’atto stesso della costruzione di date forme spaziali si possono venir scovrendo le loro proprietà, ond’esse non figurano come qualcosa di dato, come un fatto, ma come qualcosa che si vien facendo. In ogni case il passaggio da una combinazione equazionale numerica alla costruzione (proporzionalmente corrispondente nelle sue parti) di una data figura fornita di date proprietà può esser fatto solo in base ad un principio racchiuso nella natura caratteristica della detta figura quale emerge dalle qualità fondamentali dello spazio . È chiaro che col fare entrare in campo l'elemento del tempo e quindi col rappresentare il movimento come una lunghezza e col riguardare le nozioni astratte di forza e di massa come elementi determinanti in modo correlativo il movimento, noi abbiamo tutti gli organi del puro meccanismo e della scienza costruttiva astratta. Fu detto dal Lotze che l’inferenza proporzionale costituisce l’ultimo limite della conoscenza e che presenta un carattere perfettamente sussuntivo: ora ciò non è esatto fin tanto che essa non esce dal campo del calcolo puro e semplice (2:4::3:%.0.x=6), poggiando in tale caso sopra un rapporto inerente ad un dato sistema numerico. Nè vale a provar. niente al di fuori di questo. Quando per contrario si applica alla determinazione di un contenuto concreto, di una individualità definita, allora essa non ha valore e significato per sè, ma l’acquista dal fine a cui serve o dall’obbietto a cui si riferisce, o infine dai presupposti su cui si eleva. La proporzione non definisce, ma mette in maggior evidenza, determina, fissandoli quantitativamente, misurandoli, i caratteri dell’individualità, le qualità del sistema o della totalità concreta dopo che ne è nota per altra via la loro natura, ovvero accenna ad esse perchè la conoscenza ne sia completata con mezzi più appropriati. Noi possiamo dire che la proporzione acquista tutto il suo valore dall’eterogeneità dei suoi termini, in quanto questa implica sempre l’esistenza di un sistema speciale di relazioni e di connessioni. La detta eterogeneità dei terminidella proporzione può essere di varie sorta, secondochè i due obbietti comparati sono o no misurabili con un’identica unità, ovvero uno dei due è misurabile e l’altro no, ovvero infine nessuno dei due è misurabile; nel quale ultimo caso non è più a parlare di proporzione, ma di analogia o di sussunzione, mentrechè nei casi antecedenti si hanno varie forme e combinazioni. di giudizi ipotetici, i quali rappresentano i veri punti di passaggio dalle forme astratte d’infevenza a quelle concrete (4). Le leggi costruttive hanno adunque questo di proprio che sono leggi funzionali in quanto esse non vengono estratte da ciò che esiste, da ciò che è dato, ma indicano le maniere in cui la mente opera in date circostanze. L'universale concreto in base a cui avvengono i nessi tra gli attributi espressi nelle leggi è attivo nella mente e viene attuato mentre si enunciano le dette leggi: non è qualcosa che esiste per sè di rincontro alla mente. Pertanto in esse vanno comprese tutte le leggi riguardanti il pensiero, la emotività e la volontà umana in azione. Le leggi logiche fondamentali, le leggi etiche, estetiche ecc. non esprimono il modo di comportarsi di cose esistenti al di fuori del soggetto, non sono ricavate da fatti, ma esprimono le maniere in cui i fatti vengono disposti, ordinati, appercepiti dal punto di vista logico, estetico ed etico. Siffatte leggi non possono essere ricavate da principii generali in cui siano come contenute, perchè questi principii non potrebbero essere che le funzioni dello spirito umano, le quali, messe in azione, determinano appunto le leggi logiche, estetiche ed etiche. Le dette funzioni dell'anima umana espresse o tradotte in termini intellettivi, separate dal fatto e idealizzate (guardate nella loro intelligibilità o possibilità, nel loro was) costituiscono appunto le leggi logiche, estetiche ed etiche. Onde consegue che questa prima classe di leggi leggi funzionali o costruttive da una parte non sono induttive, in quanto (1) Cfr. BosanQuET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice” -- non vengono ricavate da fatti e dall’esperienza, e dall'altra non sono deduttive i in quanto non vengono ricavate da principii generali o da individualità, sistemi o totalità date. Ciò sarà più evidente in seguito quando avremo parlato delle varie forme di sussunzione. Qui notiamo che va fatta distinzione tra le leggi emergenti da un dato fatto estetico o da un dato sistema scientifico o da un complesso di fatti psicologici occupanti un determinato punto deilo spazio e del tempo le quali possono essere deduttive o induttive secondo che sono state ottenute prendendo le mosse dall’universale, ovvero dalle determinazioni particolari di questo e le leggi che indicano per così dire la via tenuta dalla | psiche nelle sue principali funzioni. Queste leggi sono stabilite ed enunciate nell’ atto stesso che vengono formati i principii da cui dovrebbero essere ricavate, principii che sono come l’espressione intellettuale delle PHAGIPLI funzioni dello spirito umano.Le leggi analogiche che si potrebbero anche chiamare leggi morfologiche o leggi classificative, sono quelle per mezzo di cui unoggetto o un caso particolare è reso intelligibile, facendolo rientrare in una data classe e quindi descrivendolo, caratterizzandolo. Descrivere e classificare sono atti che. s’'implicano e si completano a vicenda: io in tanto classifico in quanto descrivo e viceversa in tanto descrivo in quanto classifico, in quanto faccio rientrare il particolare nell’ universale, in quanto guardo il nuovo, l’ ignoto attraverso il noto. È vero che d’ordinario si fa distinzione tra i giudizi propriamente descrittivi (i quali, si dice, hanno per predicato un aggettivo esprimente una proprietà, un attributo del soggetto) e quelli esplicativi (i quali, si dice, hanno per predicato un sostantivo più generale, nella cui estensione è comprese il soggetto), ma in sostanza tale distinzione è soltanto grammaticale, giacchè nel secondo caso il predicato-sostantivo è adoperato in un certo senso aggettivamente come nel primo il predicato aggettivo è adoperato in un certo senso sostantivamente : in entrambi i casi, infatti, il predicato ha l'ufficio di far appercepire, di rendere intelligibile il soggetto, in entrambi i casi cioè il predicato è un contenuto ideale atto a qualificare il reale quale si presenta nel soggetto grammaticale. Del resto fu già notato da altri che tale processo classificativo del pensiero può presentare parecchi aspetti, pur conservandosi uno nel fondo: così esso può avere una doppia direzione, cioè o va dalla nuova (attuale e singolare) alla vecchia rappresentazione (generica, o schematica o classe) e in tal caso la seconda è riconosciuta e affermata come un carattere della prima (giudizio analitico); oppure va dalla vecchia alla nuova, e questa apparirà come una particolarità novella della prima (giudizio sintetico). Che il giudizio classificativo (assuma la forma propriamente classificativa o quella descrittiva o quella storica), sia sempre uno nel fondo viene provato anche da questo che le scienze così dette classificative sono descrittive e storiche insieme: così la così detta Storia naturale comprende la Zoologia, la Botanica, la Mineralogia, le quali sono eminentemente classificative e descrittive: non vogliamo con ciò affermare che tali scienze non siano anche esplicative, su che ebbe già a richiamare l’attenzione il Wundt, ma esse sono esplicative, perchè sono insieme genetiche e morfologiche, perchè, cioè, classificano e descrivono gli obbietti naturali, ricercandone la evoluzione. Le leggi analogiche adunque sono della più grande importanza in quanto rendono possibile l’apprensione ordinata delle cose, in quanto rendono intelligibili gli obbietti, facendoli rientrare in date classi e in quanto, ciò facendo, mettono in evidenza l'affinità, lo svolgimento e la genesi dei vari ordini di realtà. Vanno considerate come una categoria a parte di leggi in quanto uno è il processo di loro formazione processo logico detto dell’analogia e della verosimiglianza, il quale consiste nel conchiudere dacchè parecchi oggetti e fatti si somigliano in alcuni punti, che si somigliano probabilmente anche in altri punti, L’analogia ha questo di proprio’ che la sua conclusione non è fondata sul numero dei casi in cui i suoi termini (il soggetto e il predicato) si presentano connessi, ma è fondata sull'esame, sull’analisi e quindi sulla valutazione dei caratteri riscontrati connessi in un gran numero di casi; analisi e valutazione che è fatta col ricercare ciò che i detti oggetti e fatti presentano di comune, col ricercare le proprietà e gli attributi, i quali, qualificando entrambi, valgono a mettere in evidenza la loro vera natura. Ora se tutti i giudizi potessero essere considerati come reciproci l'analogia diverrebbe ipso facto un’ inferenza da condizione a condizionato, come è inferenza da condizionato a condizione: due antecelenti che hanno ùn medesimo conseguente devono essere intimamente connessi tra loro ecc. è la formola esprimente l'analogia qual'è realmente, mentrechè la formola due antecedenti che hanno un merlesimo conseguente devono essere conseguenti di un medesimo antecedente, per il che devono coincidere , rappresenta l'ideale a cui tende l’argomentazione, ma che essa per sè è impotente a raggiungere. Se il fatto di riscontrarsi i medesimi caratteri in A e B non basta a provare che A sia specie e B genere o viceversa, indica però sempre che tra loro vi deve essere una correlazione e una corrispondenza ; sicchè se non potremo attribuire a B il carattere M potremo attribuirgliene un analogo M'; si ha così la proporzione: A: B= B:M Il carattere M' figura come il prodotto di ciò per cui A coincide con B (appartenendo ad un medesimo genere) e di ciò per cui ne differisce. Ha ragione pertanto il Drobisch di considerare l’analogia come il mezzo con cui vengono messe in evidenza le corrispondenze, le umologie e le analogie esistenti tra specie congeneri, coordinate quindi tra loro e subordinate ad un genere superiore comune, come îl mezzo con cui viene posto in luce il differenziarsi di un'identità fondamentale sistematica, l’unità morfologica di un dato sistema e l'ordinamento esistente nei vari ordini di reali, i cui ritmi di attività mentre si corrispondono tra loro, sono d’altra parte contenuti in un ritmo superiore generale. Così un naturalista che ha scoperto in una specie animale o vegetale un dato carattere, p. es. un certo organo, non attribuisce ad un'altra specie congenere alla prima l’identico carattere, ma piuttosto uno analogo 0, come si dice, omologo, cioè tale che raccolga in sè la natura del genere e risponda insieme alla particolare natura della specie. Il valore del ragionamento per analogia dipende da due condizioni: 1° che tra i caratteri simili e il carattere che si tratta di attribuire ad una delle due cose comparate esista un rapporto naturale e non una semplice coincidenza fortuita : 2° che le due cose comparate non differiscano per caratteri tali che ogni analogia riguardante il carattere che si tratta di attribuire ad una di esse sia allontanata dal bel principio. Come si vede, la validità dell’analogia poggia tutta sull’importanza attribuita ai vari caratteri e sul rapporto esistente tra le note comuni e quelle differenti, sempre in ordine ad importanza: pertanto il nodo della questione sta tutto qui, sul fondamento e sui limiti di applicabilità del nostro giudizio apprezzativo circa l’importanza dei caratteri di dati oggetti. Vi fu chi affermò che il rapporto tra i caratteri simili e quelli differenti (base della validità dell’analogia) fosse rapporto puramente numerico : in tal caso l'analogia sarebbe stata più o meno valida secondochè fosse preponderante la somma dei caratteri comuni, ovvero quella dei caratteri differenti, tenuto conto della conoscenza totale che noi abbiamo delle proprietà degli oggetti in questione. Ma ognuno vede che la validità dell’ analogia non può dipendere dal numero, bensì dalla qualità dei punti di somiglianza, i quali derivano il loro significato dalla loro relazione col sistema totale di cui fanno parte. Ed il sistema non può essere ridotto ad un aggregato di parti indifferenti, giacchè queste, per l'opposto, hanno un valore differentissimo dipendentemente dai reciproci rapporti in cui si trovano. Chi è pratico dei processi analogici, i quali rendono possibile la classificazione morfologica degli obbietti naturali, sa benissimo che essi poggiano non sulla enumerazione, ma sulla valutazione dei caratteri: già non si avrebbe un’unità di misura per enumerare i caratteri, e poi che cosa vorrebbe dire un punto di identità o di somiglianza ? come si farebbe a circoscrivere i limiti dell'identità e della somiglianza ? | L'analogia non è fondata proprio sulla identità, ma sulla corrispondenza dei caratteri, e sulla importanza ad essi attribuita, corrispondenza ed importanza che possono essere scoverte, basandosi sopra un insieme di considerazioni di ordine diverso, le quali però mirano sempre a ricercare la connessione in cui si trovano i caratteri in questione con tutto il sistema degli organi che rendono possibile la vita dell'individuo, mirano cioè a ricercare l’ ufficio a cui gli stessi caratteri adempiono e a tracciarne la genesi e lo svolgimento. Chi dice analogia dice comparazione dei caratteri in owdine alla loro importanza ; e chi dice comparazione in tal senso dice ricerca del significato che i detti caratteri hanno per la vita dell'individuo. Dall'altra parte chi dice determinazione della corrispondenza csistente tra i caratteri di due specie, dice esame del molo di funzionare e di operare, esame dell’ ufficio degli stessi caratteri e insieme indagine della loro genesi e sviluppo. spaziale possono essere ridotti a sillogismi, il cui termine medio (il fine da raggiungere) determina il rapporto degli estremi. In ordine alle costruzioni meccaniche è stato notato che esse non acquistano la loro consistenza dall'ufficio a cui servono, giacchè questo è qualcosa di aggiunto, col che si vuol dire in sostanza che una costruzione meccanica è qualcosa d' indipendente dalla sua funzione, tanto è ciò vero che essa può e non può compiere la detta funzione, la può compiere più o meno bene, e può anche essere incapace di compierla affatto: tuttavia la macchina è sempre un prodotto necessario delle forze o leggi meccaniche che la rendono possibile ed esiste come tale in ogni caso. Da ciò conseguirebbe poi che i rapporti dei vari elementi componenti la macchina sarebbero qualcosa di necessario e di fatale ed andrebbero formulati per mezzo di leggi costruttive, piuttostochè sussuntive. Ora noi osserviamo che l'ufficio, la funzione della costruzione meccanica è tale elemento essenziale alla sua struttura che non può in alcun modo esser considerato come un epifenomeno : l’individualità, vale a dire la ragione d'essere della macchina non è riposta tutta nello scopo che essa deve raggiungere? Le forze o leggi meccaniche per sò prese sono un’astrazione, sono un prodotto dell'analisi scientifica; nella realtà sono sempre combinate dall’intelligenza “umana in vista di un fine, il quale non solo contribuisce ad accrescere la consistenza del fatto meccanico puro e semplice, ma gli dà realmente valore e significato. Del resto ognuno comprende che tra una macchina, la quale risponde ad uno scopo che questo poi sia o no raggiunto in modo completo, poco importa ed una composizione qualsiasi di forze meccaniche corre un divario essenziale in quanto quella forma un tutto, un sistema che ha la sua ragione determinante nella funzione, mentrechè la semplice composizione di forze nei suoi rapporti necessari si rivela completamente inorganica. Possiamo d'altra parte affermare che tutte le leggi teleologiche vadano confuse insieme, possiamo cioè dire che il procedimento per cui vengono enumerati i rapporti esistenti tra i termini di un sistema sia sempre uguale? Noi crediamo che a tal proposito vada fatta distinzione tra gli scopi e le maniere di raggiungerli dettati dall’ esperienza e dall’osservazione che col Masci si potrebbe chiamare passiva, e gli scopi e le maniere di raggiungerli dettati dalla osservazione attiva. Le prime si potrebbero chiamere leggi finali empiriche o a posteriori, perchè fondate su rapporti empirici; le altre si potrebbero chiamare leggi finali a priori, perchè fondate su determinazioni primitive della nostra attività spirituale. Quelle non implicano nessun grado di assolutezza nel senso che ì relativi sistemi sono fatti forniti solo dall'esperienza e quindi aventi un valore contingente: le altre invece sono assolute, perchè si riferiscono a sistemi inerenti alla natura umana. Le leggi finali empiriche sì riferiscono a sistemi che vengono costruiti da noi con materiali forniti dell’ esperienza e in virtù di scopi suggeriti del pari dalla pratica della vita: le leggi finali a priori si riferiscono per contrario a sistemi ideali formati da noi per rispondere ad esigenze interiori e profonde del nostro essere, indipendentemente dalla convalidazione dell'esperienza esterna. Tali leggi finali, anzi, lungi dall’ essere ricavate dall’ esperienza, servono a regolarla. I rapporti morali, logici, estetici e matematici sono inerenti a sistemi aventi il loro fondamento e la loro radice nella costituzione, nella natura propria dello spirito umano e non nell’ esperienza esterna, ond’è che il fine logico, morale, estetico e matematico non può esser raggiunto che nella maniera suggerita dalla stessa natura dello spirito, al di fuori della quale maniera non è più a parlare di funzione conoscitiva, morale ecc. Le suddette leggi teleologiche mostrano pertanto la loro base categorica a preferenza di tutte le altre. E a tale proposito giova notare che le costruzioni meccaniche in tanto appaiono in modo evidente sistematiche in quanto sono come a dire incorporazioni di leggi matematiche. Le leggi finali empiriche possono essere ridotte alla formula seguente : Dato un sistema cosiffatto, vi deve essere questo rapporto determinato tra i suoi elementi: ora in tal caso il sistema presentato è un dato dell’ esperienza, che potrebbe anche non esseré o essere differente, perchè non risponde a nessuna necessità intrinseca ; per contrario la formula delle leggi finali a priori è: L'anima umana è cosiffatta che non può non produrre il tale sistema (logico, etico, estetico e così via) con questi rapporti ecc.: è evidente che in questo caso non si ha a che fare con qualcosa che può e non può essere dato, e che può essere dato indifferentemente in un modo piuttosto che in un altro, ma si ha a che fare con ciò che è inerente all’anima umana in generale, tolta la quale non rimane più nulla. Conclusione: le leggi finali empiriche sono contingenti, perchè fondate su dati empirici, mentrechè le leggi finali a priori sono assolute, perchè fondate su funzioni del soggetto. Noi dicemmo che le leggi deduttive o sussuntive sono quelle derivate dall'analisi di un sistema. Ora è evidente che il cosìdetto sillogismo disgiuntivo non può non figurare come uno dei processi atti a darci le suddette leggi, secondo la formula: A è o B o C, A non è B, .-. A è C, ovvero A è B.'. A non è C. Recentemente però Bradley e Bosanquet hanno osservato che mentre la disgiunzione è l'espressione più completa e perfetta del grado di chiarezza e di determinatezza a cui può giungere la conoscenza umana, in quanto essa esaurisce il contenuto di un sistema, di una totalità, mostrandone le varie parti e il modo in cui queste si articolano tra loro (e a tal proposito va notato appunto che ogni congiunzione si può ridurre a disgiunzione, giacchè una volta che vengono assegnate con esattezza e precisione la condizioni sotto cui ciascuna determinazione è attribuibile al soggetto reale, rimane esclusa ogni altra determinazione che non possa essere compresa nella prima per la contradizione che nol consente), dall'altra parte la disgiunzione stessa è tutta racchiusa nella premessa maggiore del sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dalla logica tradizionale: quando, infatti, la detta premessa disgiuntiva è bene determinata nelle sue varie parti, e nelle relazioni intercedenti tra gli elementi, essa contiene tutto quello che verrebbe detto nella premessa minore e nella conclusione, le quali così sono ripetizioni superflue e quindi inutili. Il sillogismo disgiuntivo della logica formale è valido soltanto nelle disgiunzioni per ignorantiam o in quelle relative ad un punto del tempo, nei quali casi la premessa minore vale a risolvere un dubbio relativo ad un membro di un’alternativa o ad affermare l’esistenza di questo in un dato momento: ma dette disgiunzioni lungi dal significare l'organizzazione vera di un sistema, hanno la loro origine in una condizione accidentale riguardante l’attività conoscitiva di chi parla e ragiona in un dato . periodo di tempo. In sostanza il concetto del Bosanquet è questo : la conoscenza umana, specie la conoscenza scieatifica, non verte sui fatti, ma sui concetti dei fatti: ora che cosa vuol dire ciò? Che l'ideale della conoscenza è quello di apprendere le possibilità di fatti, val quanto dire le condizioni in cui gli eventi reali possono aver luogo, tanto è ciò vero che la legge, la quale enuncia il modo di agireti una data sostanza non afferma in alcun modo l’azione attuale della detta sostanza sopra un organismo ; e che cos'altro fa la disgiunzione se non porre, sott'occhio tutte le possibilità, tutte le determinazioni (con le loro condizioni) che può presentare un universale concreto? In vista di ciò appunto la disgiunzione rappresenta la forma più perfetta e completa della conoscenza. Ci sia lecito fare alcune osservazioni : Anzitutto non vediamo perchè si debba destituire di ogni valore il sillogismo disgiuntivo, secondo l’intende la logica tradizionale, il quale adempie ad uffici importanti nella conoscenza umana. La cognizione perfetta, la cognizione strettamente disgiuntiva rappresenta un ideale a cui l'intelletto tende ad avvicinarsi senza poterlo mai raggiungere, specie nelle conoscenze riflettenti la realtà esterna, il dato dell’esperienza; e la vita della conoscenza reale ed effettiva è riposta appunto in tale processo di approssimazione indefinita, giacchè ammesso pure che possa l’uomo giungere a racchiudere tutto in una disgiunzione completa, con ciò verrebbe a scomparire l’attività conoscitiva. Ma su ciò torneremo or ora: diciamo piuttosto che il sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dalla logica tradizionale esprime un momento interessante del processo conoscitivo, giacchè oltre la conoscenza per concetti vi è quella di fatti (conoscenza storica), in cui la determinazione del tempo ha un'importanza speciale. Ma il sillogismo disgiuntivo oltrechè esser valido a definire la realizzazione di un contenuto ideale nel tempo, vale anche a determinare quale di parecchie anticipazioni fantastiche, di parecchie possibilità ipoteticamente enunciate trovi il suo riscontro nella realtà. Che il dominio del possibile sia più vasto del reale nessuno vorrà negare: onde la necessità di limitare quello per mezzo di quest’ultimo. Nè vale il dire che la disgiunzione per ignorantiam rappresenta un fatto accidentale, ‘ transitorio, perchè d'origine subbiettiva, giacchè, non esistendo l’onniscienza, la suddetta disgiunzione per ignorantiam figura come un processo inerente essenzialmente ed organicamente alla funzione conoscitiva. Poi, il sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dai citati filosofi inglesi è ammissibile? Per rispondere a tale quesito occorre vedere quali siano ì presupposti su cui esso sì fonda; esso nientemeno presuppone che sia conosciuto il principio informatore con tutte le sue possibili determinazioni di un dato ordine di reali, presuppone la conoscenza completa di tutte le differenziazioni possibili di una qualità, il cui contenuto deve essere completamente esaurito. Ognuno vede che un tal genere di onniscienza che è la conditio sine qua non della disgiunzione se è conseguibile nelle conoscenze formali, nei processi razionali (logica, calcolo ecc.) e in tutti quei fatti che hanno la loro radice nella natura propria del nostro spirito, in quei fatti che sono prodotti da noi, appare un sogno nelle conoscenze riferentisi alla realtà empirica. Inoltre le differenziazioni del dato appaiono come fatti, i quali non possono essere derivati razionalmente l'uno dall’altro in forza di uno stesso principio, non possono cioè essere riguardati come variazioni necessarie di una stessa qualità: noi, infatti, possiamo ben dire che di triangoli non ve ne possono essere che di tre specie, equilateri, isosceli, e scaleni, ma non possiamo dire che di colori non ve ne possono essere necessariamente che sette, o cinque o tre. Il fatto è che la disgiunzione in tanto è applicabile alla conoscenza della realtà, in quanto è applicabile la matematica. E come questa è valida a formulare i fatti nel modo più esatto, senza dar la ragione di ciò che avviene, così la disgiunzione enuncia, illustra i fatti, ma non li spiega: e quand anche nel sillogismo disgiuntivo vengano espresse tutte le condizioni determinanti i vari termini dell’alternativa, le stesse condizioni non emergono mai dalla disgiunzione, non emergono cioè mai dalla necessità inerente al sistema di determinarsi assolutamente in una di quelle maniere esclusive tra loro. Perchè ciò avvenisse, bisognerebbe che noi fossimo al caso di dedurre in maniera razionalmente necessaria da una data qualità empirica le sue varie determinazioni, bisognerebbe non soltanto che l'universo fosse qualcosa di eminentemente razionale, ma che noi fossimo come a dire nel centro dell’universo da essere a parte del suo ritmo e processo evolutivo. Pertanto la disgiunzione più completa non può servire che a formnlare e ad illustrare in modo preciso ciò che noi per altra via già conosciamo. E che il processo disgiuntivo per sè sia insufficiente a darci una definizione reale o radicale, vien provato da questo che quando esso è praticato mena a definizioni imaginarie (non riferentisi a obbietti reali). Le divisioni stesse in tal caso o hanno il loro fondamento in preconcetti che già esistono nella mente di chi fa la divisione, ovvero appaiono puramente arbitrarie. Riassumendo, in ordine al sillogismo disgiuutivo pos-. siamo dire che esso quale viene inteso dal Bradley e dal Bosanquet, vale a dire come contenuto tutto nella premessa maggiore del sillogismo disgiuntivo della logica tradizionale, trova un'applicazione giustificata solo in quei casì in cui è il nostro spirito che dà origine a prodotti razionali compiuti, a costruzioni ideali, delle quali poniamo noi i principii informatori e noi stessi razionalmente (indipendentemente dall'esperienza) deduciamo le variazioni di cui i detti principii sono suscettibili. Bisogna tener fisso in mente che il giudizio-sillogismo disgiuntivo può essere adoperato solo quando è completamente nota la natura propria di un essere, di una qualità, per modo che si sa entro quali limiti la qualità, l'ente deve necessariamente variare, varcati i quali limiti, non si ha più quell’ ente, quella qualità. E non basta; occorre che ciascuna determinazione sia tale che, spe ha luogo, non lasci posto alle altre. Come si vede, siffatte condizioni si possono verificare solo in ciò che è opera nostra, in ciò che facciamo noi e di cui conosciamo, per così dire, l'intimo meccanismo. Il mondo della conoscenza in genere, ed un dato sistema di conoscenze circoscritto nello spazio e nel tempo, il mondo etico e una data condotta morale, il mondo estetico ed una data opera d’arte, il mondo religioso ed una data religione, l'ordine politico sociale in genere e un dato ordinamento politico-sociale, ecco i campi in cui può avere un uso fecondo il sillogismo-giudizio disgiuntivo: e perchè? Perchè in base alla conoscenza che abbiamo delle diverse funzioni della coscienza umana possiamo determinare le diverse maniere in cui ciascuna di esse si può, anzi sì deve estrinsecare e possiamo anche precisare i modi in cui ciascuna estrinsecazione può alla sua volta variare. Ma possiamo far ciò anche in modo completo? Il sillogismo-giudizio disgiuntivo può avere un uso illimitato nel campo dello spirito? A tale domanda dobbiamo subito rispondere negativamente, giacchè noi crediamo che la causalità psichica non implicando equivalenza dei termini causa ed effetto, sia regolata dalla legge generale detta dell’aumento progressivamente indefinito dall'energia spirituale: onde consegue che è assolutamente impossibile racchiudere nella formula disgiuntiva tutte le possibili manifestazioni dell'attività spirituale e tutte le possibili ulteriori determinazioni di ciascuna di dette manifestazioni. Perchè la coscienza umana potesse costruire intellettualmente il mondo per mezzo di una disgiunzione, bisognerebbe che essa fosse, come diceva Lotze, nel cuore della realtà, bisognerebbe che il dato non fosse dato, vale a dire che non fosse, o che fosse riducibile a pura forma, ma questo è un sogno: già per poter applicare la formula disgiuntiva occorre bene che vi sia qualcosa, che vi sia il reale a cui applicarla: e questo reale, questo qualcosa questo dato non potendo essere ottenuto mediante la disgiunzione da un sistema d’ ordine superiore, sfugge alla disgiunzione, per modo che quest’ultima viene a figurare in ultima analisi come qualcosa di formale che per sè altro non può fare che illustrare, enunciare ciò che già esiste: ma perchè ciò che esiste possa essere in tal guisa illustrato occorre che sia contenuto nella sua totalità (anche virtualmente) nella mente di chi pensa: ora la realtà, per la mente umana almeno, non è riposta in qualcosa di idealmente finito, di compiuto, ma in un processo in cui si notino solo dei punti di arresto o di concentramento, dei nodi di svolgimento che sono via via sempre sorpassati. Che la struttura logica dell’ universo non metta capo in ultima analisi in un giudizio-sillogismo disgiuntivo vien provato anche da questo, che non ogni concetto generale consta degli stessi elementi dei concetti specifici più vicini ai reali concreti e particolari (di attributi schematicamente rappresentati entro i limiti di loro variabilità); per contrario le astrazioni più generali si mostrano a volte sfornite completamente di note che esistono nelle specie subordinate, nel qual caso le dette astrazioni generali figurano piuttosto come un gruppo di leggi o di condizioni riferentisi ai fatti concreti, che come note inerenti ai sistemi od individualità d'ordine più esteso ed elevato. Ciò che sopratutto non va dimenticato è che va fatta distinzione tra la possibilità o l’idealità estratta dall’esperienza e la possibilità che si potrebbe chiamare capacità funzionale : la prima presuppone sempre l’esperienza e non è mai completa in modo da poter essere racchiusa in una formula disgiuntiva, mentre l’altra che esprime il nostro potere, la nostra facoltà, è indipendente dall'esperienza, è completa potenzialmente nelle sue parti e può all'occorrenza essere espressa per mezzo di una disgiunzione. La prima possibilità è rappresentativa o passiva, l’altra è facoltativa o attiva: la prima mentre è fondata sull'esperienza non è realmente attuale; è puramente ideale, proviene dal di stacco del was dal dass ed esiste nella intelligenza e per opera della stessa; l’altra che ha le sue radici nella nostra vita interiore e che implica l’ unione del was col dass, è sentita come capacità, come forza interna che può tramutarsi in atto dipendentemente dal nostro volere. Che concetto dobbiamo avere della conoscenza in genere considerata nel suo insieme? ecco il problema fondamentale a cuì sì cercò di preparare una soluzione per” mezzo dello studio evolutivo nelle varie forme di conoscenza. Il primitivo problema ne ha fatto subito sorgere degli altri e prima di tutto questo: È possibile una morfologia della conoscenza, è possibile cioè determinare l'affinità e lo sviluppo organico delle varie forme di conoscenza per modo che queste figurino come parti essenziali di un unico tutto, come vari rami svolgentisi da un unico tronco? L'espressione vita del pensiero ha soltanto un valore metaforico, o ne ha uno reale? E poi l’altro: In che si differenzia la morfologia della conoscenza o la unificazione organica delle sue varie forme dalla genesi psicologica di queste ultime? Ora a quest’ultima domanda si può rispondere subito coll’osservare che la genesi psicologica ha il suo fondamento nel corso dei fatti interni quale è determinato da contingenze subbiettive ed accidentali e quindi variabili da soggetto a soggetto, mentrechè la morfologia della conoscenza ha la sua base nelle tappe che attraversa e nel ciclo che descrive il pensiero in genere a contatto dei vari ordini di realtà, o, diremo meglio, ha la sua radice nelle diverse maniere in cui la realtà viene determinata non da questo o quel soggetto, ma da tutti i soggetti ben pensanti, onde è resa possibile la comunicazione reciproca tra gli uomini e la loro solidarietà intellettuale. La genesi psicologica rappresenta il mezzo, l’istrumento, la via che tiene l’anima per arrivare allo scopo finale, che è appunto la qualificazione del reale nelle sue varie modalità, quali vengono appuntodescritte dalla logica evolutiva o morfologia della conoscenza. Circa la questione se sia possibile la morfologia della conoscenza osserviamo che se, tenendo presenti i vari ordini di conoscenza, noi riusciamo a descrivere il passaggio evolutivo dall'uno all’altro, senza che alcuna discontinuità appaia, e se nello stesso tempo noi riusciamo a rintracciare un unico principio evolutivo fondamentale che figuri come il filo conduttore, o come il leitmotiv atto a guidarci attraverso le molteplici variazioni, considerate in tal caso quali emergenze di un fondo identico e permanente, allora non vi ha dubbio che noi siamo autorizzati ad ammettere una vera e pr opria scienza logica evolutiva. Ora l'escursione, comunque rapidamente fatta di sopra, attraverso i varii dominii della conoscenza ci ha messo da una parte nella condizione di osservare che le forme logiche sono intimamente connesse tra loro, in guisa che a volte riesce sommamente difficile delimitare in modo netto e preciso ciascuna di esse, e dall'altra ci autorizza a riconoscere ed a formulare il principio fondamentale che regola lo sviluppo della conoscenza. Questo invero può essere enunciato come la tendenza ad obbiettivare, ad esprimere in forme definite e insieme significative (atte, cioè, ad agire in modo identico ed a suscitare quindi una medesima reazione in tutti i soggetti), ciò che dapprima è percepito in modo vago ed indistinto, come il bisogno e l’esigenza adunque di qualificare, di caratterizzare, di definire ciò che a bella prima si rivela come qualcosa d’ indeterminato. La conoscenza adunque non è un epifenomeno, non è qualcosa di sopraggiunto o di secondario, ma un elemento essenziale ed integrale della realtà. Già non si arriva quasi nemmeno a immaginare che cosa mai diverrebbe la realtà sfornita della conoscenza e quindi del potere obbiettivante e determinante proprio del pensiero: il contenuto della vita non venendo in alcun modo fissato in forma stabile sarebbe come non esistente, perchè svanirebbe continuamente coll’attimo fuggente. Pertanto la conoscenza quale mezzo di fissazione del reale implica sempre universalizzazione e insieme determinazione, implica sempre il ritrovamento dell’essenza, ovvero della legge in genere, giacchè questa fu appunto da noi altrove definita come La nozione di legge nel 1° volume di questi Saggi. l'espressione di ciò che vi ha d' intelligibile nell’universo. Dal che sì deduce che il giudizio vero e proprio equivale alla legge presa in senso generale e che l’evoluzione della conoscenza deve coincidere con l’evoluzione della legge . Ed invero qualsiasi giudizio, in quanto giudizio, è necessario ed universale: ogni giudizio ha l'ufficio di comprendere il particolare nell’universale e di interpretare quello con questo. Una volta formulato un giudizio, esso è quello che è, e permane identico attraverso tutti i mutamenti del contenuto obbiettivo, del tempo ecc. È per mezzo della funzione giudicatrice che le cose vengono considerate sub specie ceternitatis. Il giudizio, è bene tenerlo a mente, non rappresenta una copia e forse nemmeno una semplice trascrizione ‘della realtà in termini ideali, ma un modo di fissare la realtà o il modo di avere una particolare visione di essa. Come si vede, la legge in genere non presenta caratteristiche fondamentalmente differenti da quelle del giudizio; e le note differenziali d’ ordinario ammesse (come l’immutabilità delle connessioni espresse dalla legge e quindi la prevedibilità del corso degli eventi) non valgono a caratterizzare la legge in genere, ma una specie di leggi, quelle che sono state dette leggi naturali, riducibili per la più parte a giudizi ipotetici. Ora è evidente che non vi è alcuna ragione di limitare la denominazione di legge alla sola legge naturale; nè d'altronde è possibile considerare, come si vide a suo luogo, la legge espressa dal giudizio ipotetico come qualcosa di completo in sè stesso e di per sè stante, giacchè essa trae sempre seco necessariamente la significazione o almeno l’accenno al sistema rispetto a cui i termini del giudizio ipotetico figurano come parti di un unico tutto e quindi in necessaria dipendenza ira loro. Non è lecito adunque staccare una forma della conoscenza dalle rimanenti, considerarla per sè, prescindendo dalle intime connessioni che presenta colle altre e dare ad essa anche un valore ed un significato caratteristicu o sui generis. In ogni caso se una differenza si vuol mantenere tra legge e giudizio occorre dire che la prima è il giudizio divenuto complicato nel senso che l'ordine o la sfera di realtà, avendo perduto la primitiva semplicità e indeterminatezza, può esser qualificata soltanto con molteplici riserve, per modo che il tutto primitivo è scomposto e analizzato nelle sue parti di cui vengono messi in evidenza i necessari rapporti. Non abbiamo bisogno di spendere’ molte parole per dimostrare ora che l’evoluzione dei giudizi coincide con quella della legge. Le varie classi di leggi da noi studiate possono essere aggruppate in tre categorie, leggi quantitative, leggi causali, leggi normative o funzionali; ora a tali tre categorie corrispondono appunto le forme di giudizii e d’inferenze dette rispettivamente enumerativa, ipotetica, concreta sistematica o disgiuntiva. Tutte le leggi in quanto sono la trascrizione in termini intellettuali del corso degli eventi o della natura e proprietà delle cose e delle nostre tendenze, presentano una forma comune che è quella di un giudizio universale ipotetico; per quanto diverso si presenti l’aspetto esteriore e la connessione verbale nelle varie leggi, queste dal più al meno son tutte riducibili a giudizi ipotetici. universali; tanto è ciò vero che non è mancato chi ha respinto qualsiasi differenza tra le così dette leggi esplicative o dichiarative e quelle normative o precettive. Ora se tuttociò è realmente giustificato dal fatto che la funzione intellettuale procede in modo uniforme nel suo esercizio e che non esiste un abisso tra le cosidetta necessità reale e quella finale (applicata al mondo umano, beninteso), in quanto quest’ultima non si presenta che come il risultato della fusione di due forme di necessità, di quella logica intercelente tra il pensiero del fine c quello dei mezzi (chi vuole il fine deve volere anche i mezzi, il volere un dato scopo rende necessario il volere i mezzi appropriati) e di quella causale intercedente tra i mezzi (causa) e il fin: (effetto), tuttociò non può essere sufficiente a rendere valida l'opinione di chi vorrebbe identificare tra loro le varie specie di leggi. Queste, infatti, pure emergendo da un tronco comune, figurano come le principali direzioni in cui la mente umana si può muovere per costruire il mondo dal punto di vista dell’intelligibilità. E le tre formo fondamentali di leggi sono determinate dai tre principii che ci servono essenzialmente di guida e di regola nell’ordinamento e nell’obbiettivazione dei nostri stati psichici, il principio d'identità, quello di condizionalità nelle due sue forme di ragione e di causalità e quello di finalità o di organizzazione o di sistematizzazione. Finchè noi qualifichiamo la realtà esclusivamente dal punto di vista della quantità e quindi finchè abbiamo di mira di stabilire dei rapporti di eguaglianza, di equazione o anche di propor. zione, non avremo che delle leggi quantitative, o numeriche, o di calcolo, o proporzionali; quando invece tendiamo a rintracciare i rapporti di condizionalità, di connessione reciproca tra gli elementi della realtà senza occuparci gran fatto della comparazione quantitativa o coll’occuparcene solo nei termini in cui essa ci può essere d'aiuto a fissare la natura propria delle cose ed a porre in evidenza il loro ritmo di attività, avremo le leggi causali, o esplicative o dichiarative che si vogliano dire; quando infine abbiano di mira di esaurire in modo completo la determinazione di un dato ordine di realtà, quando noi vogliamo porre in chiaro il sistema entro cui sono contenuti i rapporti sia di ordine quantitativo che causale, quando insomma noi oltrechè di descrivere, di spiegare intendiamo di specificare il valore ed il significato dei fatti, noi avremo le cosidette leggi normative o categoriche, o, forse meglio, categorico-disgiuntive. Il fatto che alcune di queste si riferiscono alla volontà individuale (onde il nome di normative) è secondario rispetto a quello che esse presentano un grado abbastanza pronunziato di assolutezza, di compiutezza e d’indipendenza in rapporto alla loro natura sistematica. Di tal fatta sono le leggi logiche, talune di quelle matematiche, quelle estetiche e quelle morali, le quali poi tutte sono controdistinte da forme di necessità affini tra loro. L’ordine morale p. es. come si presenta in un uomo morale che occupa debitamente il suo posto nella società, la necessità razionale che connette insieme le premesse e la conclusione di un raziocinio per cui l’ultima esiste per le prime come queste per essa, la coerenza e razionalità del prodotto estetico, il quale quantunque non analizzato dal punto di vista discorsivo (giacchè in quanto esteticamente attivo si rapporta direttamente ad una forma di sentimento spiritualizzato e non è costruito per via di combinazione di relazioni astratte, come non è apprezzato per mezzo di una costruzione intellettuale), implica sempre da entrambi i lati, dal lato dell’obbietto artistico e dal lato di chi contempla un processo fondamentale razionale e finalmente la costruzione sistematica di un tutto geometrico per cui l’universale colla sua pervadente natura determina le parti, hanno tutte la loro base nel particolare rapporto esistente tra gli elementi e la totalità, rapporto che trae seco le note dell’unità armonizzatrice, dell’individualità e quindi della correlazione reciproca delle parti fornite di funzioni ed uffici determinati per il raggiungimento di un risultato unico. La conoscenza poi, come qualunque fatto che presenti i caratteri dell'organismo o le note della vita e del sistema, può formare oggetto di studio da due punti di vista: 1° da un punto di vista puramente analitico nel caso che, essendo mediante l’ astrazione separatamente considerati i singoli fattori della totalità, gli stessi vengano distinti come elementi concorrenti all'unità del complesso, o al raggiungimento del risultato finale; 2° da un punto di vista genetico, fisiologico o, meglio, morfologico nel caso che vengano distiptamente considerati gli elementi soltanto per ravvisarvi la necessità obbiettiva della concorrenza loro al risultato e insieme per studiare le modalità della loro cooperazione al conseguimento dello scopo ultimo. Ora se lo studio della conoscenza da noi fatto altrove (1), fu compiuto dal primo punto di vista, la ricerca in ordine alla morfologia della conoscenza ne è stato come il complemento eseguito dal secondo punto di vista, col rintracciare lo sviluppo organico della legge nel suo insieme e nelle sue varie determinazioni. V. vol. 1° di questi Saggi: La nozione di legge. Noi siamo tratti ad enunciare la conclusione finale che l'essenza della conoscenza piuttostochè nell’applicazione di una data forma ad un corrispondente contenuto va riposta nell’obbiettivazione ed universilazzione dei fatti psichici; obbiettivazione che implica la fissazione in date forme e questa alla sua volta la connessione e la coerenza col sistema o colla totalità delle qualificazioni e caratterizzazioni della realtà. Tale sistema o totalità costituisce il mondo com’ è da noi conosciuto, vale a dire, il mondo qual'è nella sua reàltà intelligibile per noi (41). E per formarsi poi un chiaro concetto dell'origine, della natura e del significato del distacco della mente dal mondo per cui questi vengono d’ordinario consideratà come due mondi separati, posti l’ uno di contro all’ altro (onde poi la considerazione meccanica del processo della conoscenza) è bene richiamare l’attenzione sul fatto che bisogna arrivare alla filosofia stoica e epicurea per trovare le prime parole che accennino a tale distacco. La più tipica di tali parole è xoitrptov: furono gli stoici che per prima furono intenti a fissare il criterio della verità (1), segno che cominciava a mettere radice la veduta formalistica nella conoscenza. A misura che si andò innanzi crebbe la terminologia concettualistica quale espressione della scissione della mente dal mondo, e per mezzo degli scrittori latini essa passò nella nostra scienza mentale. Si tratta di termini indicanti per lo più l'atto di prendere, di afferrare l'oggetto e di penetrare in esso (mpodnt:s, ratdiniis, Evvota, Evvonua, pavtarua, dravora. DioG. LAER.). E mentre in antededenza si era adoperata la parola forma 0 genere (:dia, std0:, Yivos) quale designazione dei fatti intesi nel loro ordine sistematico e nella loro essenza (nella loro legge), in tale giro di tempo cominciò la fioritura dei vocaboli esprimenti sempre più il La detta parola s'incontra anche in Platone (Repubd.), ma non per denotare la pietra di paragone della verità, bensì per indicare la facoltà o le facoltà con cui la verità è appresa. contrasto tra pensiero e cosa: es. impressione mentale , la comparazione della mente alla tabula rasa , ecc.; tutte espressioni atte a presentare la conoscenza come una relazione meccanica. I termini latinizzati, impulso proveniente dal di fuori, assentire, comprensibile, comprensione, nozioni impresse nella mente, dichiarazione, o giudizio dichiarativo, declaratio, gr. tvacyeta), che sono divenuti comuni nella scienza odierna, si trovano riuniti la prima volta in quel passo di CICERONE, Acad. Post., in cui spiega la teoria stoica della percezione sensoriale. Ora, se noi ci rappresentiamo le condizioni storiche in cui la scuola stoica e quella epicurea fiorirono, non possiamo far a meno di notare che la contrapposizione della mente al mondo coincide colla contrapposizione dell’ individuo alla società. Quando la solidarietà civica fu rotta, quando le nuove condizioni politiche e sociali distrussero l’antica centralizzazione ateniese e quando in conseguenza sparve ogni corrispondenza tra la ragione interiore e quella esteriore, come tra l’organizzazione sociale e il volere sociale, l'individuo fu tratto a ripiegarsi su sè stesso e a farsi da una parte centro dell’ universo e a cercare dall’altra, in una sfera molto più vasta, nell'umanità, l’appagamento de’ suoi bisogni morali e sociali. Da ciò che cosa conseguì ? Che l'individuo cominciò a sentir vacillare la sua antica fede nella ragione e quindi nel bene, e, mentre dapprima il problema morale aveva avuto questa forma: Quale è il fine da raggiungere in un mondo che risponde alle esigenze del volere ragionevole? nel tempo in cui si si parla assunse l’altra forma: In che maniera può l’ individuo vivere in modo conveniente o felice in un mondo indifferente o anche ostile al volere individuale ? E del pari mentre il problema della conoscenza dapprima volse sulle forme di conoscenza (più perfetta o meno perfetta, più completa o meno completa, ecc.), dipoi mirò a rintracciare il valore e il significato della conoscenza individuale presa nella sua totalità di fronte alla realtà. Fu adunque il distacco dell'individuo dalla collettività che rese possibile il distacco della mente individuale dal mondo e l'accentuazione sempre maggiore dell’antitesi trail mondo quale viene rappre sentato nell'anima individuale e il mondo in sè; dal che poi provenne la riceca degli elementi o dei fattori subbiettivi e di quelli obbiettivi, della forma e della materia di ogni conoscenza: ricerca che mentre rappresenta una necessità per la trattazione analitica, richiede il complemento di una trattazione morfologica in quanto matoria e forma, fattori subbiettivi ed obbiettivi sono du? lati di uno stesso processo. È la nostra facoltà d'astrarre che li separa allo scopo di studiar ed ordinare meglio i dati; ma essi non esistono gli uni fuori degli altri. Il vederli isolati è effotto di prospettiva. Allo stesso modo che l' indagine esplicativa isolata va completata colla ricerca sistematica, così la considerazione dell'elemento formale trae seco quella dell’elemento materiale della conoscenza BosanQquET – citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice” -- , History of .Esthetie, London, Swan Sonnenschein. La Filosofia che ha per obbietto precipuo di trascrivere in termini intellettuali l'insieme dei fatti della realtà e della coscienza umana, non può trascurare l'indagine dei fatti estetici, i quali costituiscono appunto dei tratti essenziali dell'anima umana. Il Bello accanto al Bene ed al Vero coi sentimenti e le idee che ad essi corrispondono, figurano come i fari che illuminano la vita umana mentre si trova immersa nella realtà sensibile. Ed allo stesso modo che la Logica e l’ Etica non vanno considerate come scienze pratiche, come guide al ben conoscere ed al ben fare, ma bensì come le scienze dei concetti a cui mette capo l’analisi dei fatti di conoscenza e di quelli dell’attività umana, così l’Estetica non ha per compito di fornire i precetti da seguire perchè il sentimento estetico e la produzione artistica divengano migliori, ma risponde al bisogno di conoscere la natura dei fatti estetici. Essa come le altre due non è scienza pratica, ma essenzialmente teoretica e speculativa: è una branca della Filosofia atta a far intendere il processo estetico e ad illuminare dal punto di vista intellettuale il mondo dell’ Arte. Da ciò consegue che il filosofo, pur non essendo artista, può benissimo essere atto ad assegnare un posto ai fatti estetici nel sistema delle sue concezioni e conoscenze, semprechè, s' intende, non sia assolutamente sfornito di qualsiasi forma di gusto estetico, nel qual caso egli non avrà poi nemmeno’ alcun interesse intellettuale per la comprensione del bello. Non avviene lo stesso per chi si occupa di Logica e di Etica? E*forse necessario che il primo sia uno scienziato specialista, uno sperimentatore, un conoscitore profondo di ogni ramo del sapere, e il secondo un santo, un martire del dovere ecc. ? Le scienze teoretiche non fanno che illuminare mediante la riflessione i fatti dello spirito umano; e basta la sola presenza di questi perchè l’ interesse speculativo sia svegliato, ancorchè s' ignori il processo genetico ed evolutivo dei fatti stessi, o meglio, ancorchè i fatti stessi non siano completamente vissuti: altro è vivere, altro è trascrivere in termini intellettuali, in formule, in schemi il vivere stesso, che può essere anche contemplato negli altri. Ad ogni scienza teoretica corrisponde poi una scienza d’ordine pratico che si potrebbe chiamare scienza pedagogica o metodologica in quanto ha per obbietto di rintracciare la via per cui possa essere ottenuto un perfezionamento in tutte le produzioni ed attributi dell'anima umana. E siffatte scienze pedagogiche hanno la loro base da una parte nelle conoscenze in ordine allo spirito umano (psicologia) e dall'altra nella conoscenza di tutte quelle condizioni che favoriscono la genesi e lo svolgimento dei fatti, poniamo, etici, estetici e logici: conoscenza che allora soltanto può essere completa quando i fatti in discorso non sono stati solamente contemplati e considerati ab extra, ma sono stati per così dire almeno parzialmente vissuti, e quando si sia rettamente stabilito il concetto dell’ ideale estetico, etico, logico ecc., e si abbia cognizione perfetta delle condizioni di fatto esistenti in un dato giro di tempo. È chiaro d'altra parte che l’ Estetica non va confusa colla Critica, giacchè questa per avere valore e significato deve essere anzitutto una ricreazione, una riproduzione riflessa e cosciente del fatto estetico dapprima compiutosi inconsciamente e quasi diremmo, istintivamente, e poscia deve assegnare al prodotto artistico il posto che gli compete nella coscienza estetica di un dato periodo di cultura. Talchè la Critica lungi dall'avere per obbietto l'applicazione delle regole o leggi estetiche ai casi concreti, ha per compito di ricercare sino a che punto e in che grado un-dato prodotto estetico è espressione della coscienza estetica di un dato periodo storico : l’Estetica per contrario determina il posto che la coscienza estetica in genere occupa nella coscienza umana e il fatto estetico nel sistema totale delle nostre concezioni e conoscenze. Le due indagini sono assolutamente indipendenti, in quanto la Critica poggia sopra una triplice base, cultura artistica, cultura psicologica e cultura storica, mentrechè l’Estetica poggia sopra una duplice base: da una parte sopra una data concezione filnsofica, una data intuizione dell'universo e dall'altra sopra l'elaborazione dei dati forniti dalla critica intesa nel modo anzidetto, dati che vengono messi in rapporto con la veduta generale intorno al mondo, vengono messi, cioè, in connessione con un determinato sistema filosofico, L’ Estetica adunque è una branca della Filosofia allo stesso titolo dell’Etica e della Logica: ma vi ha dippiù: essa merita di occupare un posto centrale tra le varie discipline filosofiche: e se finora la più parte dei filosofi non hanno veduto ciò, è stato perchè essi non hanno esaminato a fondo la natura specifica del problema estetico. Questo, infatti, ha la sua origine nel bisogno di spiegare come ciò che alla ragione, all'analisi compiuta mediante i processi logici si rivela fornito di dati caratteri (unità nella varietà, armonia, simmetria, individualità, rapporti numerici costanti, proporzione ecc.) all’emotività umana, all’apprensione immediata e diretta si rivela come rappresentazione concreta sensibile, accompagnata da un sentimento piacevole disinteressato, da ciò che si dice emozione estetica. Il problema estetico emerge da questo, che da una parte non vi ha bellezza al di fuori della percezione e dell’imaginazione, per modo che anche quando si distingue il bello della natura da quello dell’arte si viene ad implicare sempre l'esistenza di chi contempla, percepisce e valuta il bello stesso, la natura e l’arte in tal caso essendo entrambe nella percezione ed imaginazione umana e differendo tra loro solamente per grado le cose non sono fornite della proprietà della bellezza indipendentemente dalla percezione umana, come son fornite della proprietà della gravità, della solidità,e in generale delle forze, per cui agiscono reciprocamente tra loro ; e dall’altra parte l'essenziale nel fatto estetico non è il processo percettivo per sè considerato, ma ciò che la percezione o l’ imaginazione serve a richiamare alla mente e per cui essa sta, di cui essa è simbolo. Il bello insomma in tanto è percepito come tale in quanto significa, esprime qualcosa, in quanto è la manifestazione di tuttociò che la vita contiene: on:l’è che esso può essere definito come ciò che ha un significato caratteristico per la percezione o imaginazione umana, dopochè il contenuto ideale da significare ha assunto quella forma che può solamente essere espressiva attraverso la percezione o imaginazione. È evidente adunque che il problema estetico consiste nel ricercare come sia possibile che ciò che si presenta direttamente alla percezione ed all’ imaginazione sotto condizioni determinate, sia da considerare come espressione o manifestazione di ciò che si rivela in altro modo per altra via. Ma non basta: il problema estetico verte non solo sulla possibilità che un dato contenuto percettivo sorpassi per così dire l’attività percettiva el accenni a qualcos’ altro che non si manifesta per mezzo della percezione, ma volge ancora sulla possibilità e sulle condizioni che un dato contenuto espresso per mezzo della percezione dia luogo ad un sentimento speciale di godimento, dipendente, secondo alcuni, dal valore espressivo e significativo del contenuto della percezione. Finalmente il problema estetico può volgere sulle condizioni e sulla natura della produzione artistica per sè considerata allo scopo di mettere poi in evidenza i rapporti che essa ha colle varie formazioni di ordine naturale, siano o no queste capaci di suscitare l’emozione estetica,Ora il problema estetico sotto qualsiasi forma si presenti, si connette intimamente coi problemi fondamentali della Filosofia generale: invero, se esso sorge come ricerca intorno alla possibilità che ciò che all'analisi intellettiva si rivela con dati caratteri appaia alla percezione come bello, il problema estetico assume l’aspetto di un problema gnoseologico. Se invece sorge come indagine intorno ai caratteri propri dell’emozione estetica che è elemento essenziale del fatto estetico, il problema estetico figura come problema essenzialmente psicologico. E se infine esso sorge come ricerca intorno al processo genetico, intorno ai caratteri e alle proprietà e intorno al valore e significato dell’obbietto estetico per sè considerato, astrazione fatta dal soggetto che lo contempla, il problema estetico si presenta come problema essenzialmente metatisico ed ontologico. È evidente adunque che il problema estetico può essere considerato come il problema centrale della filosofia e che la soluzione di esso può riflettersi sui vari campi della filosofia stessa. E qui occorre notare che i rapporti esistenti tra problema estetico e problemi filosofici sono di un genere particolare, in quanto la storia dell’Estetica mostra che l’interpretazione del fatto estetico non è sempre in dipendenza semplice e diretta di una data concezione filosofica, ma viceversa la soluzione del problema estetico ottenuta | con la cooperazione di svariati fattori (fenomeni storici, scoverte archeologiche, filologiche, progressi nella critica ecc.), se non deter- | mina addirittura, contribuisce alla formazione di un dato sistema filosofico, o almeno vale a dare a questo un colore ed un tono speciale. Un tal caso si verificò in Schiller, in Schelling e quindi in Hegel. La storia dell'estetica poi ci mostra chiaramente che il problema estetico nelle varie età assunse differenti forme a seconda che fu considerato come problema essenzialmente e prevalentemente, se non esclusivamente, metafisico, come avvenne presso i Greci, i quali videro nell'Arte un’imitazione della natura e nel bello riconobbero il solo carattere formale dell'unità nella varietà, ovvero fu considerato un problema essenzialmente gnoseologico, come avvenne nella filosofia kantiana e postkantiana, nella quale si nota molto accentuata la tendenza a presentare il mondo estetico come espressione della Realtà coordinata alle altre manifestazioni dell'ordine razionale, di quello morale, ecc. ; ovvero infine fu considerato un problema essenzialmente psicologico, come è avvenuto presso gli estetici odierni da Herbart a Stumpf, da Zimmermann a Fechner, da Grant Allen a Sully, le cui ricerche ebbero per iscopo di risalire dagli effetti psicologici dei fatti estetici, e quindi dalla natura propria e dalle condizioni fisiologiche e psichiche del piacere estetico alle proprietà di tutto intero il processo estetico. E il difetto delle varie teorie estetiche che si sono succedute attraverso i secoli è appunto quello di non aver tenuto esatto conto della complessità del problema generale. Ciascuna delle forme sotto cui esso si può presentare non esaurisce tutto il suo contenuto. La considerazione di una sua forma non esclude la considerazione delle altre: e solo allora si può dire di avere approfondita la natura del problema estetico quando ciascuno dei suoi aspetti viene riguardato in relazione cogli altri, vale a dire quando il problema estetico viene ad essere trattato come un caso particolare del problema fondamentale di tutta la filosofia. Consideriamo. ora in molo particolareggiato le varie forme sotto cui sì può presentare il problema estetico per vedere sino a che punto sia vera la nostra asserzione che quelle corrispondono esattamente ai principali problemi della Filosofia generale, problema gnoseologico, problema psicogico e problema metafisico. E cominciamo dal vedere come il problema gnoseologico sia implicato in uno degli aspetti del problema estetico. Per la scienza estetica greca l'essenza del bello è riposta nell’armonia e nella regolarità: nè ciò deve recare meraviglia se si pensa che la scienza, la riflessione comincia sempre con ciò che in modo più facile ed ovvio si presenta all'osservazione. Quantunque l’ arte greca (decorazione scultura, poesia), contenesse ben altri elementi che non la semplice unità nella varietà, in modo da poter trovare in essa applicazione e convalidazione anche la più complicata teoria moderna estetica, tuttavia l’attenzione dei filosofi greci si fermò sulle qualità espressive più generali ed astratte. Quando però nel mondo moderno ebbe origine il senso della bellezza romantica, quando cioè in tutta la natura si videro riflessi i sentimenti più vivi e profondi dell'animo umano e insieme si sentì il bisogno dell'espressione libera delle più forti passioni, non fu più possibile consìderare il bello come una semplice espressione regolare ed armonica o come una semplice espressione dell'unità nella varietà. A ciò si aggiunga che tanto il sublime quanto il brutto ed il deforme cominciarono ad essere analizzati e messi in rapporti cogli altri elementi della coscienza estetica. Per il che il bello fu definito cume ciò che è individualmente caratteristico, come ciò che costituisce qualcosa d’indipendente fornito di dati caratteri, attributi o qualità significative, capaci di essere apprese per mezzo della percezione Ora è evidente che l'indagine estetica giunta a questo punto doveva dare origine al problema: Come è possibile che ciò che ha un significato e valore ideale può essere appreso per mezzo della percezione e del sentimento ? Come la sensibilità può apprendere cio che è razionale e ideale? E chi non vede che un tale problema risponde esattissimamente a quello gnosenlogico: Come ciò che è intelligibile o razionale può essere appreso per mezzo del senso, può rivelarsi alla coscienza come fatto di sensibilità? Come si possono conciliare tra loro il mondo sentito e sensibile e quello ideale? Come ciò che è razionale può agire sul senso e come è possibile la conoscenza, la quale risulta appunto dalla cooperazione -dei due elementi della intelligibilità e della sensibilità ? | La soluzione del problema presentata dall’ Estetica fu questa, che l'ideale in tanto si può estrinsecare per mezzo del sensibile in quanto ideale e reale non sono due mondi staccati, ma elementi di uno stesso processo. Elemento intelligibile ed elemento sensibile sono intimamente compenetrati tra loro, per modo che l’uno non esiste senza dell'altro : è solamente mediante l’astrazione che vengono considerati separatamente. L'obbietto estetico essendo nient'altro che l'attuazione, la concretizzazione, la particolarizzazione di un'idea, non può non svegliare un’altra idea nel soggetto che lo percepisce. Se l’ideale esistesse da una parte e il reale dall'altra, s la ragione e il senso fossero due facoltà staccate, non si arriverebbe a capire da una parte come l’idea potesse arrivare a divenire qualcosa di sensibile e dall'altra come la percezione potesse divenire significativa : ma il fatto è che il Reale è uno, sostantivo e insieme uggettivo, vita e insieme idealità, fatto e insieme idea, onde non è a meravigliarsi se l’ileale possa essere significato per mezzo del sensibile. L'unione intima del reale coll'ideale fu facilmente constatata nel processo estetico, giacchè quivi si coglie il tramutarsi dell’idea in fatto e quindi si coglie l'elemento intelligibile od universale contenuto nel fatto stesso. Nel caso del processo estetico si assiste per così dire alla genesi del fatto da una parte in chi produce e all'idealizzazione del dato concreto in chi percepisce. Il punto di partenza della creazione artistica è un'idea, vale a dire un universale che esiste soltanto nella mente dell'artista : poi quest’'universale si va concretizzando col diventare centro di numerosissime relazioni e col fissarsi e determinarsi completamente, prendendo posto in un dato contesto. L'elemento universale (idea artistica) divenuto qualcosa di concreto e di particolarizzato, si estrinseca in modo da generare nel soggetto che contempla un fatto di ordine speciale detto percezione estetica e non può non essere operativo nella mente dello stesso soggetto che percepisce l’obbietto estetico. Ed è appunto per l’attività di tale universale che la percezione e il sentimento divengno espressivi e significativi. Se la percezione e il sentimento non contenessero il lievito dell’universale non potrebbero mai avere alcun valore e significato. Comeil germe rende possibile l’individualità della pianta, così l’universale (ciò che determina la natura propria di una cosa, ciò che determina la formazione di una totalità) rende possibile la costituzione del prodotto estetico come qualcosa di compiuto, come un sistema le cui parti sono reciprocaniente coerenti e si svolgono in ordine necessario in guisa da formare una totalità. Se non che qui si potrebbero fare due domande: In che propriamente si differenziano le percezioni estetiche da quelle non estetiche? Quali sono le particolarità dell'espressione estetica ? In ordine alla prima domanda diremo che le percezioni estetiche (uditive e visive) si differenziano dalle altre per questo che presentano qualità nettamente determinate, che non sono attaccate al fatto subbiettivo del sentire attuale. Di tutte le sensazioni sono esse che possono essere conservate nella memoria e che insieme presentano delle determinazioni qualitative molteplici e nettamente distinte. D'altra parte gli elementi delle percezioni visive ed uditive possono essere ordinati e aggrup‘ pati variamente dall’ uomo, in modo che il potere intellettivo che questi può esercitare su di essi è senza confronto superiore a quello che può esercitare sugli elementi olfattivi e gustativi. Nella più parte dei casi i godimenti del gusto, dell’odorato e del tatto non escono fuori di sè stessi e quando sì accompagnano con idee e sentimenti, ciò accade per mezzo del ricordo di impressioni antecedenti di altra natura. Per contrario le sensazioni della vista e dell'udito si collegano direttamente e sponzaneamente con sentimenti e idee. Il carattere particolare degli organi dell'udito e della vista ha fatto di essi per mezzo della parola e della scrittura gli ausiliari indispensabili dello svolgimenlo umano e i depositari dei suoi successivi acquisti. Oltre a ciò vi è un certo numero di sentimenti e d'idee che appartengono esclusivamente ai così detti sensi estetici e che perciò si potrebbero chiamare idee e sentimenti estetici. Le nozioni di ordine, di armonia, di proporzione, di varietà, di unità, sono occasionate da sensazioni visive ed uditive : e se più tardi queste nozioni più o meno incoscienti si trasformano in idee capaci di regolare la produzione artistica, ciò è dovuto al. lavoro d'analisi che trova e distingue mediante l’astrazione ì detti elementi dalla impressione primitiva complessa. Se tutte le percezioni poi hanno un significato in quanto implicano qualcos'altro oltre il fatto psichico attuale della loro esistenza fatti esterni e contenuto della coscienza con cui esse vengono sempre messe in rapporto , quelle estetiche si riferiscono a ciò che ha maggior interesse per l’anima umana e traducono rapporti esternì di natura speciale. Si aggiunga che mentre noi abbiamo fino ad un certo segno coscienza della natura simbolica, significativa delle percezioni d'ordine estetico, non sappiamo nulla naturalmente del simbolismo delle ordinarie percezioni. È solamente dalla riflessione naturale e scientifica che impariamo a considerarle come segni, accenni a qualcos'altro. Va notato infine che le percezioni estetiche, oltre ad essere simboliche consciamente e liberamente, sono espressioni, per così dire, a seconda potenza, implicando già esse il simbolismo incosciente delle percezioni sensoriali VeRON, Esthetique, Paris. pure e semplici ed allo stesso sovrapponendo il sinbolismo estetico. In ordine alla seconda domanda diremo che la percezione di natura estetica ha di proprio che essa non è un semplice fatto o evento psichico esistente in un dato momento, ma contiene qualche qualità od attributo atto a universalizzarla, facendola assurgere al grado di segno o di simbolo del Reale, ed è per tale qualità od attributo (che viene distaccato dall’esistenza psichica attuale e che viene portata in un altro contesto) che la percezione estetica diviene suggestiva, espressiva ed atta a svegliare molteplici associazioni. | Conchiusione : l’opera d’arte si presenta come una speciale fusione del reale e dell’ ideale: ora tale fusione in tanto può avere luogo in quanto reale ed ideale sono elementi costitutivi di qualsiasi fatto. Ed il fatto estetico poi consiste in ciò che un dato elemento intelligibile diviene qualificazione di un'esistenza psichica (percezione sensoriale) che non corrisponde esattamente ad essa, donde il carattere di trascendenza inerente alla percezione estetica. Se contenuto ideale ed esistenza attuale fossero una stessa cosa, 0 se ciascun was non fosse mai disgiungibile dal proprio dass, il fatto estetico non avrebbe luogo. Ciò che è razionale e ideale può divenire oggetto di percezione e di sentimento estetico solamente perchè la mente umana è cosiffatta che può operare la separazione di un dato. contenuto intelligibile dalla sua propria esistenza e poscia operare la congiunzione del medesimo contenuto con una altra esistenza. L’ ideale, il razionale, l' intelligibile non può agire come tale direttamente sulla sensibilità umana: perchè ciò avvenga è necessario che l’ intelligibile, l'ideale divenga contenuto di qualcosa di sensibile. Prima d’andare innanzi però è bene discutere i seguenti quesiti. Come è possibile la disgiunzione del contenuto ideale dal dato reale? E che cosa è propriamente il primo distaccato dal secondo? Come è possibile d'altra parte l’incorporazione di un elemento ideale in una data esistenza particolare? Ed infine come è possibile il sentimento e la valutazione estetica ? Cominciamo dal primo. La disgiunzione del was dal dass in tanto è possibile in quanto vi è l'intelligenza, la quale ha appunto l'ufficio di qualificare, di caratterizzare la realtà simboleggiandola, traducendola, per così dire, in termini ideali. È evidente che una tale traduzione in tanto sì può fare in quanto la mente umana attraverso le differenze delle manifestazioni estrinseche, attraverso le differenze dei fatti coglie l'identità del contenuto. Per intendere bene il processo si richiami alla mente ciò che avviene quando noi traduciamo da una lingua in un’altra: noi allora tendiamo a stabilire l’ identità di significato tra espressioni differentissime. E come non è possibile tradurre da una lingua in un’altra se queste non sono entrambe note, così non sarebbe possibile qualificare la realtà in termini pschici, se mondo e psiche non avessero radici in un’ unità fondamentale. La mente umana riesce a simboleggiare il reale, perchè essa è capace di presentare sotto forma subbiettiva ciò che vi ha di indiscernibilmente identico tra la realtà ed il soggetto. Sicché noi possiamo conchiudere che la disgiunzione del contenuto ideale dal fatto avviene perchè vi è la mente, la quale, per così dire, coglie nel reale ciò che è identico a sé stessa e, sottopostolo ad una specie di elaborazione psicologica, lo presenta sotto forma di fatto psichico 6 quindi di fatto subbiettivo riferentesi però sempro a qualcosa di obbiettivo. Ma che cosa è tale contenuto ideale o significato per sè preso? Rispondere a questa domanda non è facile, giacchè l’idea separata dal fatto è un’astrazione, è un. aggettivo, come direbbe il Bradley, non un sostantivo, è un universale astratto e non un individuale concreto : ond’ è che essa, non potendo stare da sé, è costretta sempre ad appoggiarsi a qualcos' altro e questo qualcos’ altro per lo più è un'imagine o rappresentazione psichica particolare. Noi possiamo dire però che il carattere precipuo per cui il contenuto ideale, il significato, l'elemento puramente intelligibile si distingue da tutto il rimanente della vita dell'anima, è che esso ha la proprietà di essere ricordabile. Tuttociò che è ricordabile è intelligibile e per converso ciò che è intelligibile è ricordabile. È stato detto che gli attributi o le relazioni in cui la realtà concreta è analizzabile sono appunto elementi intelligibili: ora gli attributi e le relazioni non sono che la ricordabilità stessa guardata da un altro punto di vista, guardata cioè dal punto di vista logico, 0 gnoseologico, o obbiettivo (riferentesi alla” Realtà), mentrechè la ricordabilità si può considerare come l’ insieme degli attributi e delle relazioni guardate dal punto di vista psicologico o subbiettivo. Che cosa è ricordabile? Gli attributi e le relazioni : e che cosa sono gli attributi e le relazioni? Ciò che è ricordabile; non vi è attributo o relazione che non sia ricordabile: come non vi è elemento ricordabile che non sia un attributo, ‘una proprietà o una relazione. Ma onde siamo tratti a scomporre la realtà in attributi e relazioni ? Dal bisogno di fissare, di determinare la realtà. Noi viviamo ed operiamo nel reale, ma chi dice vita, attività, dice flusso continuo di fatti, dice continuo passare per il presente, senza che nessun punto stabile si possa precisare e senza che nessuna costruzione. ideale (riferentesi al passato o al futuro) si possa formare. La vita, l’azione per sè prese sono qualcosa d’ incomunicabile e quindi d'inesprimibile, sono un fatto, ecco tutto. Appenachè la vita della realtà raggiunge un grado notevole di forza e di complessità, il sentimento stesso della vita e dell’esistenza si fa più complesso ed eterogeneo, per modo che sorge il bisogno di specificare, di determinare, di fissare, di dare una forma alla realtà quale è sentita e rappresentata: bisogno che può essere soddisfatto solamente astraendo dalla realtà ciò che in essa vi ha l'ideale, e d’intelligibile, scomponendo quindi Ja realtà stessa in attributi e relazioni. Onde consegue che gli attributi e le relazioni non esistono come tali nella realtà (nella quale esistono delle individualità e delle funzioni), ma sono costruite da noi per simboleggiare, universalizzandola (considerandola dal punto di vista della coscienza universale o della coscienza in generale), la realtà quale viene percepita e rappresentata. Noi di sopra per dare un concetto della disgiunzione del ras dal dass siamo ricorsi al paragone della traduzione da una lingua in un’altra : ora è giunto il momento di osservare che quella non è e non può essere più che una semplice metafora, in quanto tra i due fatti corre un profondo divario. La traduzione da una lingua in un'altra implica la cognizione refiessa, cosciente dell'identità di significato esistente tra le espressioni appartenenti alle due lingue e in tal caso la cosa non può stare diversamente, tenuto conto che è già avvenuto il distacco del :cas dal duss per opera dell'attività intellettuale di molto progredita , mentrechè la disgiunzione dell’elemento intelligibile dal fatto attuale e la consecutiva idealizzazione o significazione della realtà implicano bensì l'identità di natura e di elementi tra il mondo e lo spirito, ‘ma non la chiara appercezione della stessa identità, e insieme implicano l’esistenza dell'identità attraverso le differenze, non l’identità delle differenze. Così gli attributi e le relazioni non esistono come tali nella realtà, ma sono una differenza di quella stessa identità che nella realtà - avrà una differenza corrispondente. Il contenuto ideale oltre ad avere la caratteristica della ricordabilità, ha quella di essere comunicabile, obbiettivo (riferentesi alla Realtà) ed esprimibile per mezzo del linguaggio. Ora che vuol dir ciò? Vuol'dire che ciò che è intelligi- Giova notare che quando si dice che solamente l’intelligibile è esprimibile per mezzo del linguaggio si vuole intendere csprimibile per mezzo di segni, i quali sono riconosciuti tali, riferentisi, cioè, ad una realtà obbiettiva. Anche i fatti di volonta e di sentimento sono esprimibili per mezzo del linguaggio, ma in tanto sono tali in quanto vengono intellettualizzati; non sono propriamente i sentimenti, e gli atti volitivi, sono le idee, le rappresentazioni di essi che vengono significato per mezzo del linguaggio. Le espressioni emotive (interiezioni, espressioni mimiche e fisiognomiche), i gesti e in generale i moti esterni sono qualcosa d' istintivo, che se vengono intesi e interpretati è perchè sono anch'essi intellettualizzati. Chi contempla i segni espressivi li interpreta in virtù dell'esperienza propria e dei legami associativi. bile non è patrimonio di questo o di quel soggetto, ma è patrimonio di tutti gli esseri pensanti, vuol dire che la mente è universale, non individuale. L’uomo, pensando, si universalizza, si accomuna con tutti gli altri uomini. E la solidarietà intellettuale umana è possibile, perchè in ordine al pensieru tutti gli uomini sono identici, sono, cioè, una cosa sola, sono come a dire, un solo essere. Ogni distinzione, ogni differenza è cancellata : è l'identità degl’ indiscernibili. La comunione delle anime, anzi l’unità, l’identità delle anime lungi dall'essere qualcosa di incomprensibile appare chiara : ciò che è oscuro piuttosto è l’anima individuale in ordine al pensiero. Tuttociò che è ideale e intelligibile adunque è identico in tutti gli uomini: o, a dirla altrimenti, tutti gli uomini sono una cosa sola in un certo punto, mentre si differenziano più o meno profondamente in tutto il rimanente. Il razionale, l’intelligibile, la forma permane identica sia che assuma differenti determinazioni (o che presenti manifestazioni o estrinsecazioni diverse), sia che appaia alle mente di singoli individui. È insomma l’unità del Reale, che rende possibile l'identità di ciò che è intelligibile e quindi la sua comunicabilità. Se tutta la realtà non formasse un tutto, un sistema, un'identità variamente differenziantesi, da una parte la mente non sarebbe universale e dall’altra l'intelligibilità delle cose sarebbe impossibile. Che cosa è invero l’ intelligibilità se non la forma distaccata dalla materia, la coerenza, il nesso, la relazione per sè presa? Ora la forma, la coerenza, il rapporto implicano unità e identità nel fondo. Noi quasi diremmo che ciascuna mente non si appropria che ciò che riconosce come inerente alla mente in generale. Il dato, come dato, il fatto le è estraneo ; esso è reale, e basta. Ciò che è intelligibile è uno, identico e quindi comunicabile, e in quanto comunicabile obbiettivo. Ciò che è subbiettivo (sentimento, azione) non è comunicabile (se non a patto di essere intellettualizzato), e per ciò stesso non è intelligibile. i D'altra parte il carattere della comunicabilità inerente a ciò che è intelligibile ha il suo fondamento ultimo nel fatto che la realtà non s’identifica e confonde con la vita subbiettiva. Il reale non è il soggettivo, ma è distinto da esso. Se l'essere o la realtà s’identificasse colla vita subbiettiva e individuale la cognizione si ridurrebbe al sentire, nel qual caso il vero starebbe tutto nella relazione col soggetto che sente: reale, non reale, vero, falso sa.rebbe quello che a ciascun di noi parrebbe tale; misura, giudice sarebbe ciascun di noi. Nulla fuori di noi sarebbe, o almeno nulla sarebbe senza di noì. Se non che la cognizione lungi dall'essere riducibile a sensazione sta agli an tipodi di questa in quanto, riferendosi a ciò che è obbiettivo, implica giudizio, apprendimento di ciò che non siamo noi, di ciò che non è la vita nostra, implica affermazione, mediante la qualificazione, di ciò che è. Dal che consegue poi anche che mentre ciò che è subbiettivo, ciò che vive, fluisce sempre, muta sempre, si muove sempre, si altera sempre, è fenomene mero, vario, continuo ; per contrario, ciò che è intelligibile e comunicabile, è immutabile, inalterabile, fisso e determinato (elemento astratto). L'ideale o l’intelligibile è universale, astratto, addiettivo; come può divenire fatto, vale a dire, come può divenire qualcosa di concreto e di sostanziale? Particolarizzandosi, individualizzandosi, vale a dire identificandosi con una dello sue differenze, o determinazioni, o manifestazioni. Allo stesso modo che il tipo si concretizza nel fatto singolo e che il significato si esprime per mezzo di un simbolo particolare, così l'attributo o la relazione ideale divengono fatto, incorporandosi in un’ imagine sensibile. La congiunzione di un was con un dass diverso dal proprio è resa possibile dacchè tanto il contenuto ideale e significativo quanto l'elemento della presenza attuale tostochè sono separati tra loro cercano di ricongiungersi n di trovare ciascuno il suo complemento in qualcosa di corrispondente. L’imagine psichica attuale, il fatto psichico isolatamente preso è un prodotto dell’astrazione : ciascun elemento psichico acquista valore dai nessi in cui si trova e dall'azione che su di esso esercita l’esperienza psichica antecedente. Non è stato le mille volte ripetuto dai psìcologi moderni che il fatto psichico riceve tutto il suo valore e la sua efficacia dal contesto in cui si trova, che la vita psichica non è posta nell’elemento singolo, ma nel corso, nel nesso, nella serie dei detti elementi ? Noi not abbiamo bisogno di richiamare l’attenzione sui processi di fusione, di identificazione delle rappresentazioni, i quali rendono possibile qualsiasi forma elementare di cognizione e di ricognizione (1), perchè si tratta di fatti ormai comunemente noti. Risulta evidente che la connessione di un was con con un dass diverso dal proprio è un processo che si verifica attraverso tutta la distesa della nostra esperienza conoscitiva : dietro ogni fatto psichico si trova il signi (1) V. Wunpr, Vorlesunyen ib2r Menschen n. Thierscele. Leipzig. ficato proveniente dal dispiegamento che l’attività psichica ha antecedentemente avuto: nel fatto estetico il processo non è essenzialmente differente, comunque appaia senza confronto più complicato. Il was in tal caso è rappresentato dal concetto artistico che figura come un tutto ideale coerente e il duss è dato dalla rappresentazione sensibile o simbolica del detto contenuto ideale. L'espressione rappresentativa o per via d'imagini (per opera della fantasia) di un contenuto idcale, ecco la migliore definizione dell’opera d'arte. Una costruzione razionale incorporata in imagini ed una ricostruzione del pari razionale rifatta in seguito alle suggestioni ricevute dalla percezione delle immagini, costruzione ce ricostruzione accompagnate da una forma peculiare di emotività, ecco il meccanismo di produzione e di contemplazione estetica. L'opera d’arte in tanto è espressiva e suggestiva in quanto ha la sua radice nella congiunzione di un ws più o meno esteso, più o meno complesso con un duss estraneo, ma corrispondente, e relativamente semplice tenuto conto della capacità percettiva dell’an'ma umana , in quanto ha la sua radice, possiamo anche dire, nell’ estrinsecazione di un sistema ideale per mezzo di dati sensibili. La proprietà che controdlistingue siffatta congiunzione od espressione è questa, che oltre al essere volontaria, libera e selettiva, è eminentemente suggestiva, il che dipende dalla concentrazione coerente degli elementi ideali avvenuta dictro l'espressione sensibile simbolica. © Possiamo conchiwlere questa parte col dire che l’uomo è capace di congiungere un was con un dess estraneo allo stesso modo che è CAPACE di parlare, vale a dire DI SIGNIFICARE E SIMBOLEGGIARE LA REALTÀ. La lingua d’ITALIA è una opera d'arte compiuta dalla COSCIENZA COLLETTIVA, mentrechè i capolavori estetici sono espressione dei genii individuali. Non è senza ragione che in origine lingua ed arte si trovano confuse tra loro. Passiamo ora a rispondere brevemente all'ultimo quesito. La valutazione e il sentimento estetico dipendono dalla funzione espressiva dell’arte. Quanto più in un’opera si trova espresso ciò che per noi come uomini, ha il maggiore interesse, quanto più in essa troviamo l'eco di ciò che ha radici più profonde nell'anima nostra, di ciò che ci attrae come di ciò che cì ripugna, di ciò che ci appassiona come di ciò che cì turba, quanto più vi troviamo. l'eco di ciò che è veramente umano, tanto più la valutazione estetica avrà luogo in senso positivo. L'arte espressiva che è l’arte veramente moderna, è fondata in grandissima parte sulla simpatia, manifestando in forma artistica l'interesse particolare che l’uomo prende per l’uomo. Il fine a cui si tende è l'uomo, quale microcosmo, è lo studio dei suoi sentimenti accidentali e permanenti, delle sue virtù o dei suoi vizi. É questo che distingue il teatro e il romanzo moderno, riannodando questi due generi alla più alta branca dell’arte. L’opera d'arte perchè sia debitamente apprezzata ed eserciti efficacia sugli animi nostri, deve esser valida a portare il nostro sguardo lontano, deve apparire come punto di concentramento di molteplici raggi suggestivi, deve essere come il riflesso di ciò che vi ha di più profondo nella realtà e nella coscienza. L'opera d’arte veramente grande deve raggiungere i più grandi effetti coi minimi mezzi possibili, facendoci intravedere ciò cho diversamente non vedlremmo. E l’intuito dell'artista sì rivela appunto nell’attitudine a scegliere ed a porre in evidenza quei tratti significativi che hanno la potenza di generare tutto un sistema d'imagini. Saper mostrare l’universale concreto, la legge, la natura propria, il ritmo d'attività di un ordine di reali per via di tratti, o li segni, o di imagini che mentre per sè non possono esaurire il contenuto dell’universale concreto, son tali da suggerirne con facilità il complemento, ecco in che consiste il magistero della creazione artistica. Ed ora è tempo di considerare il problema gnoscologico che risponde alla forma del problema estetico esaminata e discussa fin qui. Il problema gnoscologico fondamentale è ricercare come ciò che è pressochè esclusivamente intelligibile possa diventare oggetto delle varie forme di sensibilità : o tale problema, posto così, appare effettivamente insolubile: ma esso è fondato sopra il falso presupposto che l'elemento intelligibile preso per sè possa esistere come un fatto attuale. II processo per cuì si è giunti a tale concetto è il seguente : una volta bipartita la vita psichica primitiva, la coscienza complessa e indefinita iniziale nelle due serie rappresentative dell’io e del non io, è stato notato che le rappresentazioni, prese come qualcosa d’obbiettivo e d’in.lipendente dal soggetto, non solo non formavano un tutto coerente e completo in sè stesso, ma si rivelavano così piene di contradizioni da richiedere necessariamente un complemento, l’esistenza di qualcosaltro che desse ragione di ciò che al soggetto appariva come sensazione o come fatto psichico in genere. Di quì la necessità di andare in traccia dell’ universale, del necessario e del permanente che costituisse il punto di riferimeuto delle nostre rappresentazioni subbiettive proiettate all’ esterno e che insieme fusse il mezzo di stabilire la solidarietà intellettuale e la comunità spirituale degli uomini, Si andò in traccia così dell’essenza o dell’ elemento intelligibile delle nostre rappresentazioni, elemento che fu fatto consistere in qualità e rapporti inerenti ad elementi ult.mi sottratti al dominio diretto dell'esperienza sensibile, elementi ultimi che alla loro volta dovevano risultare di qualità e relazioni, procedendo così all’ infinito. Qui accadde che per evitarne una sula si ricadde in molteplici altre contradizioni, giacchè di questi elementi ultimi (atomi) bisognava pur dar ragione, determinandone la natura, bi‘ sognava, cioè, renderli intelligibili. Ora, ciò facendo, era necessario 0 dire che essi andavano ammessi come un fatto, come un dato ultimo il che era impossibile, perchè gli atomi sono concepiti dalla scienza come qualcosa di non percepibile, di non sperimentabile (e del resto se essi devono dar ragione delle rappresentazioni s :nsibili in genere, non possono essere appresi mediante la percezione) , nè è a parlare di centri di forza, perchè la forza per sè presa è un bel nulla, è anch'essa un uggettiro ; ovvero bisognava ridurre essi stessi a qualità e relazioni: ma le qualità e le relazioni (elementi intelligibili e quindi anch'essi aggettivi) hanno bisogno di qualcosa a cui inerire, onde la necessità di porre come postulato l'esistenza di reali ultimi, sostanze spirituali, le quali poi impiicano le medesime contradizioni degli atomi materiali. Atomi materiali ed atomi spirituali sono prodotti della nostra fantasia, ipostasi di concezioni mentali astratte. Gli atomi erano stati creati per spiegare i rapporti intelligibili determinanti i fenomeni subbiettivi, i fenomeni sensoriali : ora essi, non potendo essere considerati come fatti (e ancorchè potessero essere considerati come tali, si sarebbe daccapo, per chè sarebbero anch'essi fatti percettivi, fatti cioè dell’istessa . categoria di quelli, per spiegare i quali erano stati imaginati), è giuocoforza analizzarli in elementi d’ordine intelligibile (qualità e rapporti), in elementi cioè, per fondamentare i quali essi stessi sono stati proposti. È naturale che giunti a questo punto doveva sorgere il problema riguardante la trasformazione dell’ elemento intelligibile in elemento sensibile, riguardante la possibilità che l’ ideale diventasse obbietto della sensibilità. Ora è vero che l'elemento intelligibile esiste per sè ? No, perchè esso, preso a parte dal fatto, dall’ esistenza attuale, è un prodotto dell’astrazione. L'universale, l’idea non esiste al di fuori della mente. Sicchè noì vediamo qui che il problema gnoseologico è nato per un processo analogo a quello che diede origine al problema estetico, per un processo cioè di disgiunzione dell'elemento intelligibile dall’ elemento fattuale dell’esistenza. La realtà vera, la vita vera del reale è data dalla congiunzione ‘dell’ elemento ideale col reale, dall’incorporazione dell'ideale nel reale: ond’è che attribuire l’esistenza di fatto agli elementi intelligibili è un processo del tutto falso ed arbitrario. L’intelligibile o l'universale è un puro aggettivo che ha bisogno del suo sostantivo. E come sostantivo dovrebbe fungere l'immediatezza della percezione sensoriale, l’ immediatezza del fatto psichico quale si svolge nel soggetto umano, ma i due elementi, l’ universale e il fatto psichico individuale non sì corrispondono, non fanno una cosa sola, non sono, diciamo così, l’uno per l’altro. Il fatto psichico non è qualcosa di obbiettivo, d'ilentico e di comunicabile, ma varia da soggetto a soggetto; esso non può esser tutta la realtà. È stato a causa delle molteplici contradizioni, delle insufficienze e manchevolezze rivelantisi nella vita psichica e subbiettiva che si è ‘dovuto costruire ipoteticamente un mondo obbiettivo intelligibile di contro a quello subbiettivo. E poichè un tal ripiego, come si è veduto, non approda a nulla, sorge la necessità di trovare il complemento esistenziale dell'intelligibile in qualcosa che trascende il contenuto della coscienza individuale. Tale complemento non può esser trovato che nella vita del Tutto (Io epistomologico e ontologico o Bewusstseyn tiberhaupt di Kant) nella Coscienza universale in cui non vi è separazione di intelligibile e di sensibile (la quale separazione è compiuta dallo spirito individuale finito), d’ideale e di reale, di contenuto e di fatto, ma vi è fusione perfetta di entrambi. La questione sta tutta qui: la percezione appare dato concreto immediato e quindi reale, ma è dato subbiettivo e quindi pieno di contradizioni: l'intelligibile è obbiettivo nel senso che è inteso in un modo identico da tutti gli uomini, ma è ipotetico, astratto, non dato, ma posto dall’intelligenza umana : ciò posto, siffatti due termini si possono conciliare, si possono unire e formare una cosa sola completa, la realtà viva e vera ? Ciò non è possibile insino a tanto che non sì esce dalla coscienza individuale, perchè il reale subbiettivo che non è completo in sè stesso, che è solo un frammento della totalità, non può avere per contenuto adeguato l’universale, non può avere per essenza il tutto. Come nel processo estetico avevamo: 1° disgiunzione dell’intelligibile dal fatto, e poi, 2°, ricongiunzione dell’elemento intelligibile con un fatto che non gli corrisponde, e di qui la trascendenza, il significato, l'espressività della percezione o imaginazione estetica, cosi nel processo gnoseologico abbiamo la disgiunzione del was dal dass del fatto percettivo e l’ipostasi del was, la considerazione di questo come un fatto, come un dato. E poichè ciò si rivela impossibile e contradittorio, si tende a congiungere di nuovo l'elemento intelligibile universale (il quale per sè preso non è reale nel senso che non è concreto, non esistente per sè, non immediatamente appreso, bensì effetto di un’elaborazione psicologica e logica, una semplice concezione dello spirito, un'ipotesi formata in vista delle conseguenze che da essa, dato che esista, necessariamente derivano) col dato percettivo della coscienza individuale, il quale è reale, ma ha una realtà subbiettiva, non obbiettiva, non comune a tutti gli uomini. Se non che la detta coscienza non è capace di contenere di fatto l’ universale, ma solo virtualmente, cioè come esigenza, come aspirazione, come idea. Onde la necessità di trascendere incessantemente il fatto psichico subbiettivo e l'esigenza di una Realtà obbiettiva individuale e insieme universale, cioè sistematica. Vi ha però una differenza tra processo estetico e processo gnoseologico ed è, che la disgiunzione e la ricongiunzione dell'elemento intelligibile col fatto nel primo sono atti arbitrari, sono atti sottoposti al volere individuale, mentrechè nel secondo sono una conseguenza, diremo, necessaria delle contradizioni e delle insufficienze che si rivelano nella percezione sensoriale dei vari individui e nei fenomeni della vita subbiettiva. Le ricerche dell’Ottica e dell’Acustica fisiologica, della Psicologia fisiologica furono promosse dall'impossibilità di considerare le percezioni sensoriali come fatti per sè esistenti all’esterno. Uno degli aspetti sotto cui il problema estetico si può presentare è il seguente: Qual'è la natura e le condizioni dell’ emozione estetica? La soluzione di tale quesito ha formato e forma oggetto di tutta l’Estetica esatta coltivata ai giorni nostri in Germania ed in Inghilterra. Da tal punto di vista è evidente che il problema estetico assume un aspetto prevalentemente psicologico: esso, infatti, vale la domanda: Come e perchè talune percezioni sensoriali producono sentimenti di natura speciale (emozione estetica)? Il che alla sua volta vale domandare: In che rapporto stanno le varie forme dell'attività psichica? Ovvero: Tra le varie manifestazioni della vita psichica vi è una correlazione intima in modo da poter esse venire considerate come vari lati di uno stesso processo fondamentale, ovvero sono delle funzioni giustaposte che possono solo in date circostanze agire l’una sull'altra? Vediamo ora quali sono i risultati ultimi a cui l'indagine estetica esatta è pervenuta. E qui, prima d'andare innanzi, ci sembra opportuno notare che il problema estetico psico logicamente considerato è della più alta importanza in quanto dipende dalla sua soluzione il determinare per che via il significato può essere congiunto col dato attuale , (rappresentazione sensibile) con cui non è connaturato, per che via ciò che è universale ed astratto (l'elemento intelligibile) può concretizzarsi în modo da divenire obbietto piacevole. I risultati delle ricerche summenzionate furono di due sorta. Da una parte il sentimento estetico fu intellettualizzato nel senso che fu fatto dipendere dall’apprensione di determinati rapporti astratti: e invero, comunque lo spirito, diciamo così, dell'estetica psicologica e del formalismo vada riposto nella tendenza ad andare in traccia della causa attuale del piacere estetico, della causa inerente alla percezione sensoriale, tuttavia nel fatto essa indaga la ragione nella causa: una volta che siamo spinti ad oltrepassare la percezione sensoriale, noi troviamo l'elemento intelligibile, la ragione. Del resto se la percezione della bellezza presuppone l’esistenza di dati rapporti, questi da una parte non figurano che come ragioni , e dall'altra possono essere, se non sostituti, messi in connessioni con proprietà meno astratte, più vicine alla realtà che viviamo, e quindi più atte a suscitare il nostro interesse e la nostra simpatia. La maniera di operare delle relazioni è invero di natura così generale e così poco caratteristica, che non si vede come l’effetto estetico possa essere ottenuto, se un altro elemento non vi concorre (il significato cioè di tali relazioni astratte). Vogliamo dire che i suddetti rapporti formali non hanno per sè nulla di caratteristico che possa spiegare il fatto estetico, tanto è ciò vero che si presentano anche dove nessun effetto estetico si riscontra. D'altra parte l'origine del sentimento estetico fu posta in una specie di affinità latente (che non ha niente a che fare colla pura stimolazione sensoriale) esistente tra la semplice forma estetica e l’anima del soggetto percipiente (conformazione dello spirito individuale). Ed il famoso principio fechneriano dell’economia della forza quale fonte di piacere (il quale principio poi fu considerato in rapporto al contenuto delle nostre rappresentazioni come in rapporto al corso delle stesse) non è che l’espressione astratta di ciò che implica la detta armonia latente. L'economica distribuzione della forza considerata dal punto di vista dell’obbietto trae seco il principio dell’ unità organica e l'assenza di qualsiasi elemento superfluo: assenza di superfluità che equivale ad esigenza di significato e di valore, in quanto solo ciò che è insignificante è veramente superfluo. L'applicazione del principio dell'economia fatta all'attività del soggetto percipiente implica concentramento non faticoso dell'attenzione, in modo da riuscire agevole e quindi piacevole il fatto psichico stesso dell’apprensione. Avviene così che l’appercezione di un contenuto piacevole, perchè organicamente costituito, diviene essa stessa fonte di piacere. Se si considera che la rispondenza quanto più è possibile esatta ed adeguata dell’attività appercettiva al contenuto appercepito non è una accidentalità, ma costituisce un elemento essenziale della emozione estetica, tanto è vero che tutto ciò che richiede uno sforzo mentale è antiestetico, non sì può non trovare naturale la connessione esistente tra le modalità della nostra attenzione e le proprietà dell'oggetto estetico. Quando uno sforzo speciale è richiesto per l'appercezione di un contenuto estetico, vuol dire che l’espressione, la rappresentazione (forma) e l'obbietto significato, l’idea (materia) non sono in armonia, nel qual caso appunto non è più a parlare di bellezza. È stato notato poi che il principio dell'economia non è in contradizione con quello dell’ esuberanza, del lussureggiamento ecc., che sono inerenti ad ogni obbietto estetico e che contribuiscono a imprimergli la nota del disinteresse presa'in senso largo, giacchè ciò che è superfluo considerato da un certo punto di vista e in rapporto a dati scopi, a scopi di utilità pratica p. es., non lo è più, una volta che è riferito ad un dato sistema armonico o ad una data unità organica che ha valore per sè come esprimente il contenuto della vita nella sua complessità e la Realtà nelle sue molteplici e svariate determinazioni. L'origine e il fondamento dell'emozione estetica se non vanno posti adunque nell'apprensione di rapporti formali ed astratti (ma nel contenuto che gli stessi contribuiscono ad esprimere, nel loro significato), non vanno posti neanche nel principio formale e quindi vago ed indeterminato dell'economia della forza sia questa considerata obbiettivamente che subbiettivamente, il quale riceve gran parte del suo valore dal fatto che esso depone per l'esistenza di un'unità organica nell’obbietto estetico: ciò che è con parsimonia costituito e con facilità appercepito ha evidentemente i caratteri del sistema, della totalità, dell’individualità organica. Da qualunque punto si voglia considerare la cosa è chiavo pertanto che l'emozione estetica deriva la sua caratteristica propria dal contenuto (significato) espresso ed appercepito dal soggetto. Quando lo spirito appercepisce espresso in modo adeguato ciò che ha radici più profonde nell'intimo suo essere, quando lo spirito arriva a trovarsì a contatto con qualche cosa di completo, di individuale e di sistematico e quando arriva a riconoscere sé stesso, le sue aspirazioni, le sue esigenze, i suoi sentimenti, nella natura o nell’arte, quando vede raccolti per opera dei Genti in un punto solo e quindi intensificati tutti i raggi della sua attività, quando insomma vede rispecchiato in un’opera tutto il fondo della sua anima e quando si sente una cosa sola colla Realtà universale, non può non provare una intensa emozione, che è appunto l'emozione estetica. Dopo aver accennato alla soluzione del problema estetico nella sua forma psicologica, passiamo a trattare del problema psicologico fondamentale quale si presenta nella filosofia generale. L’ indagine intorno alle proprietà ed al rapporto esistente tra le varie funzioni psichiche (funzione rappre sentativa, funzione emotiva, funzione volitiva) è della più grande importanza e del più alto significato, in quanto da essa dipende il concetto che ci dobbiamo formare della vita psichica in genere e della costituzione dell’anima. La funzione emotiva in che rapporto sta con quella rappresentativa? il sentimento in che rapporto sta con la rappresentazione? Che cosa è il piacere o il dolore che accompagna qualsiasi elemento della coscienza ? Ecco il problema generale, a cui gencricamente si può riferire il problema speciale dell'origine e delle condizioni dell’emozione estetica, salvo poi a determinare le caratteristiche proprie del piacere estetico, tenuto conto che non tutti i piaceri sono di natura estetica. Ora noi vediamo che la Psicologia moderna tende a risolvere il problema circa la natura del sentimento in conformità della soluzione data dall’Estetica al problema corrispondente. Nessun psicologo crede più all'esistenza delle cosidette facoltà dell'anima: tutti concepiscono i fatti psichici come manifestazioni diverse della vita ad attività psichica prosa nel suo insieme. Ora questa attività spirituale si esplica in due forme principali irriducibili tra loro, in quella di modificarsi in modo indistinto in totalità e in quella di apprendere, di appercepire delle qualità distinte, degli attributi determinati e delle relazioni. Nella sua prima forma essa si rivela essenzialmente una, identica (senza che mostri alcuna differenziazione in sè stessa) ed intimamente connessa con tutto il reale, che essa per così dire, avverte indistintamente nella sua totalità: nella seconda forma invece essa appare variamente determinata in sè stessa e nelle maniere di apprendere la realtà : nella pritma forma è vita emotiva o sentimentale, nell’altra forma è vita wappresentativa o intellettiva. È un errore pertanto voler intellettualizzare il sentimento col farlo derivare da un qualsiasi rapporto : noi possiamo, sì, scomporre il sentimento e tradurlo in rapporti, ma in tal caso noi avremo trasformato il sentimento vero e proprio in un fatto. intellettuale. Il sentimento è un modo di essere dell’attività psichica che si origina ogni qualvolta il contenuto della coscienza è cosiffatto che, non potendo essere scomposto in qualità c relazioni determinate, figura come qualcosa d'’ indistinto. E qui giova notare che anche quando il sentimento stossos viene differenziato nelle sue principali determinazioni di piacere e dolore nel caso che queste vengano nettamente distinte ed appercepite cessa di essere puro sentimento per divenire un fatto d’oriline intellettivo. Un sentimento qualificato, caratterizzato e discriminato da tutto il complesso della vita psichica è la chiara appercezione di una qualità psichica, non un sentimento. L'appercezione di un piacere, di un dolore suppone l'atto della mente con cui una qualità viene separata, distinta dal rimanente, suppone quindi una funzione intellettiva sia anche d’ ordine rudimentale e l'atto o la funzione discriminatrice si confonde col suo prodotto per molo che ciò che prima non era un fatto intellettivo riesce ad essere, per così dire, trascritto in termini intellettivi, e quindi viene ad essere snaturato. Piacere e dolore sono due qualità sensoriali come il bianco e il nero, come il liscio e lo scabro, come il grave e l'acuto, come il caldo e il freddo. Che essi siano determinati dalla forma dello stimolo piuttosto che da proprietà inerenti (contenuto) allo stimolo come tale, che essi siano determinati dal modo come lo stesso agisce, o dal modo in cui la sua trasmissione avviene, o dalle condizioni in cuì l'organismo fisico e psichico si trova mentre ha luogo tale azione, poco o nulla importa : dal punto di vista psicologico il piacere e il dolore sono qualità, e come tali, appartengono alla funzione rappresentativa dell'anima umana. Sosgiungiamo che il piacere e il dolore, come il suono alto e quello basso e come il caldo e il freddo sono sensazioni relative e variabili linearmente in quanto presentano. duo sole determinazioni opposte. In altre parole : il sentimento per sua natura è indistinto, è stuto psichico totale : non sì tosto in esso vengono delimitate differenze, non sì tosto esso viene circoscritto e qualificato, non è più a parlare di sentimento vero e proprio : ma di funzione intellettiva e rappresentativa. Il sentimento in tal caso viene come ad essere intellettualizzato, viene ad essere compenetvato dall'attività discriminativa che è inerente all’ intellezione. Quando il sentimento stato psichico totale vien ad essere analizzato e scomposto in qualità diverse e quando queste vengono appercepite, il sentimento non esiste più, ma esistono le qualità sensoriali. La vita psichica non si presenta più come sentimento, ma come apprensione di qualità, l’attributi e di relazioni. Ma si può dire che il piacere e il dolore siano qualità del sentimento, come si dice p. es. che il suono alto e basso sono qualità del suono ? Noi crediamo di no, perchè parlare di qualità del sentimento è un parlare contradittorio; è come se si dicesse qualità di ciò che non può avere qualità, ovvero determinazioni di ciò che è per sua natura indeterminato. Il piacere e il dolore sono qualità che possono essere pro:lotte in parte dalla totalità della vita psichica, dallo stato in cui la stessa totalità si può trovare, ma non sono qualità della totalità La totalità è reale, ma non ha qualità, caratteri distintivi, differenze, le quali implicando sempre relatività, riferimento, possono essere differenziate entro la totalità. Uno stato di piacere o di dolore totale non significa nulla: un piacere o dulore suppone la distinzione, la differenziazione. Il sentimento o stato psichico totale può contribuire a generare uno stato di piacere o di dolore, ma non può presentarsi come piacere o come dolore: già un piacere o un dolore totale, assolutamente totale, non sarebbe nemmeno avvertito, perchè non potrebbe cs-ere distinto: distinto da che, invero? E il piacere e il dolore sono considerati d’ordinario come qualità del sentimento appunto perchè esse sono determinate in parte dalla totalità della vita psichica, Sorge la questione: Perchè una tinta di piacere o di dolore accompagna qualsiasi fatto psichico? Perchè ogni singolo fatto psichico è messo in rapporto si noti, è “messo in rapporto è appercepito quasi attraverso lo stato complessivo in cui l'organismo fisico e psichico si trova in un dato momento: è da questa appercezione che è un fatto d'ordine intellettivo è dal suddetto rapporto del fatto singolo coll’insieme che vengono fuori le due qualità di piacere e di dolore, le quali vengono a sovrapporsi 0, meglio, a fondersi cogli attributi propri dei singoli fatti psichici. Ed è avvertita la qualità di piacere ovvero quella di dolore, secondochè si ha l’appercezione di un rialzamento o di un abbassamento dell'energia psichica e delle condizioni da cui essa dipende. Come si vede, il sentimento non va ilentificato con le determinazioni qualitative del piacere e del dolore : il primo è uno stato totale dell’anima, le altre sono prodotte dal. l’appercezione (fatto intellettivo) delle differenze (qualità) osistenti nella detta totalità. E noto che l’apprensione di un dato contenuto psichico richiede il dispiegamento di una certa quantità di energia mentale (attenzione), la quale pui non è illimitata, ond’è che quando ha luogo un consumo di energia psichica superiore a quello di cui sì può disporre sarà avvertita una sensazione sgradevole, mentrechè quando lo stesso consumo è proporzionato alle risorse si avrà una sensazione piacevole. È il rapporto, la proporzione che deve esistere tra attenzione e area della coscienza che ci può dar la chiave per rendercì conto in gran parte delle determinazioni qualitative del piacere e del dolore. si Abbiamo detto che il sentimento è la vita psichica presa nella sua totalità : è evidente che a seconda che la detta totalità è più o meno ricca di contenuto, a seconda che è di ordine superiore o inferiore, che è complessa, ovvero semplice e rudimentale, si avrà o no un sentimento nobile ed elevato. Ma, si può qui domandare, se il sentimento è la stessa vita psichica presa nella sua totalità, come mai potrà essere avvertito? L° avvertire implica distinzione e questa riferimento e quindi esistenza di qualità diverse entro la totalità. A ciò si risponde che il sentimento non è avvertito come qualità ; il suo ufficio è quello di rendere reale, attuale, presente, immediato qualsiasi fatto psichico: esso rappresenta il coefficiente dell’ esistenza psichica. Il problema estetico nella sua forma psicologica e il problema psicologico fondamentale si: corrispondono, in quanto là soluzione data ad entrambi è questa, che il sentimento ha la sua origine nella vita psichica indistinta, nella quale non soltanto vengono ad essere fusi insieme i vari elementi costitutivi di.essa, ma viene ad essere tolta ogni contrapposizione del soggetto all’ oggetto. E qui sorge la necessità di andare in traccia del carattere differenziale per cui il sentimento estetico sì distingue da qualsiasi altro sentimento. Tale carattere si trova agevolmente, se si riflette agli attributi dell’obbietto estetico, il quale non solo è un sistema di parti (unità nella varietà) oltremodo complesso, ma ha un significato deri vante dal riflettersi in esso di tutte le aspirazioni ed esigenze più profonde dell'animo umano, per modo che nella contemplazione estctica il soggetto si trova come in rapporto con la parte migliore di sè stesso. Si aggiunga che l’unione del soggetto con l'oggetto è molto più intima nel caso dell'emozione estetica che nel caso di qualsiasi altro sentimento. L'attività del Reale, la Realtà come vita differenziantesi, spezzantesi e rivelantesi in modo immediato nelle coscienze individuali, ecco la radice comune delle varie sorta di sentimenti. Come vi sono varie forme od apparenze di totalità, come vi sono varii ordini d’incentramenti individuali così vi sono vari ordini di sentimenti più o meno definiti (ogni definizione proviene dall'elemento rappresentativo e relativo concomitante), più o meno complessi, più o meno interessati, perchè più o meno direttamente riferentisi all'attività pratica. Il carattere d'individualità che controdistingue il sentimento proviene dal fatto che la totalità è, per così dire, incentrata nella vita del soggetto, in ciò che differenzia l’io quale determinazione speciale del Reale, avente un posto proprio nello spazio, nel tempo e nella serie causale. Non ci sembra inopportuno, poichè servirà a-dilucidare le idee suesposte, richiamare qui, prima di finire, l’attenzione sul rapporto esistente tra sentimento e volontà, o meglio, tra sentimento e attività; rapporto che è diverso da quello che ordinariamente è ammesso. Il sentimento non produce l’azione allo stesso modo che non è prodotto da essa e che non ne è il riflesso subbiettivo. Un tale rapporto e A ii cir iii cdi ee n può esistere tra l’attività e le qualità sensoriali del piacere e del dolore, non gia tra l'attività e il sentimento, Questo come stato psichico totale è tutta la vita psichica senza alcuna determinazione speciale, ond’è che mentre da una parte esso contiene, trasformati e fusi insieme tutti gli elementi psichici, non è in rapporto particolare con nessuno di essi. Tutti però quando divengono reali, quando appaiono distinti sull'orizzonte psichico, emergono come dal fondo della vita psichica, che dal punto di vista soggettivo è appunto il sentimento stesso. Questo pertanto appare come il sostegno, ceme ciò che dà attività, consistenza ai vari fatti psichici. Al di fuori del presente, del momento attuale non vi ha sentimento, ma bensì rappresentazione : e vi ha una rappresentazione riferentesi al passato, come ve ne ha una riferentesi al futuro : ed è chiaro che è possibile avere una rappresentazione del sentimento, quando questo, distaccato dalla matrice reale, viene idealmente costruito e proiettato nel passato per mezzo della memoria e nel futuro per mezzo della immaginazione. Il sentimento però in tal caso viene snaturato, trasformandosi in un fatto d'ordine conoscitivo: un sentimento rappresentato è una rappresentazione e non un sentimento, o meglio, ò una nostra costruzione ideale che non si riferisce a nulla di reale e di attuale. La forma, diremo così, metafisica del problema estetico è: Qual'è la natura della proluzione artistica ? L'arte in che rapporto sta con la natura ? Si deve ritenere con gli antichi Greci che l'Arte è una imitazione pura e semplice della natura in modo da dover essere essa collocata al disotto di quest'ultima? Come si vede, un tale quesito non poteva ricevere un'adeguata risposta se non dopo che la coscienza estetica del genere umano cbbe raggiunto un grado notevole di svolgimento, dopo, cioè, che il gusto estetico si fu di molto raffinato c che la valutazione estetica fu molto progredita. La riflessione filosofica dovette giungere al punto da sentire il profondo divario esistente tra il mondo empirico e quello ideale, tra le esigenze del] intendimento e quelle della Ragione presa in senso stretto, vale a dire presa come la facoltà del Categorico, dell'Unità e della Totalità. E infatti il problema estetico nella sua forma metafisica non fu risoluto in maniera adequata prima che Emanuele Kant ponesse in evidenza l’antitesi esistente tra la relatività inevitabile della ragione teoretica e la assolutezza dell'imperativo morale implicante l’esistenza della liberta. Il problema circa la natura della produzione artistica non s'impose fino a tanto che gl’immensi progressi della Filologia classica, dell’Archeologia, della Critica non ebbero per effetto di produrre il rinnovamento di tutta la coscienza estetica e quindi di tutte le vedute anteriormente dominanti inordine alla valutazione estetica. Fu allora che non fu più possibile considerare il prodotto estetico come una semplice imitazione della natura. Vediamo ora come il problema estetico fu risoluto sotto tale forma metafisica per ricercare poscia le caratteristiche del corrispondente problema attinente alla filosofia generale, il quale può essere così enunciato : Che concetto dobbiamo formarci dell’ incessante produttività della natura? ovvero: Che cosa stanno a rappresentare le infinite * forme in cui l’attività della natura si esplica? La produzione artistica fu considerata come l’effetto del libero, ordinato ed armonico esercizio delle facoltà umane: ma si può qui domandare: di tutte le facoltà umane? No, bensì di quelle facoltà soltanto che possono dare origine a prodotti che hanno una data forma, intenlendo per quest’ ultima l'insieme delle proprietà per cui una data cosa è valutata, non per il suo uso, non per lo scopo determinato a cuì l’ oggetto avente quella data forma risponde, ma per ciò che la forma sta a rappresentare, in quanto in essa si riflette l’intendimento, il sentimento e la capacità in genere di chi l'ha concepita ed eseguita. La forma implica adunque l’esistenza dell’ elemento razionale: ed è lecito parlare di forma ogni volta che nell'oggetto o nel fatto vien messo in evidenza appunto l'elemento intelligibile. Ogni qualvolta nuvi ci troviamo di fronte ad un obbietto .che mentre figura come un prodotto dell’intelligenza dell'attività umana, dall'altra parte non pare serva ad uno scopo pratico, o a un uso determinato, pur non essendo scevro di significato noi siamo spinti a giudicare come estetico il detto obbietto. Sicchè l'essenza della produzione artistica fu posta in ciò, che l’anima umana è così fatta che sente il bisogno di estrinsecarsi, di esprimersi in fatti, i quali mentre portano l'impronta delle facoltà che loro diedero origine, non hanno l’ufficio nè di appagare un desiderio, nè di far raggiungere un fine estrinseco, nè di procurare un gudimento egoistico e interessato. La creazione artistica ha in sè stessa il suo scopo, che è quello di completare la realtà sensibile, dando l’esistenza ad un mondo di forme atte ad appagare le aspirazioni e le esigenze più profonde e più elevate dell'anima umana. Il bisogno del completo, del perfetto, dell’ individualità armonica, della totalità sistematica può solo esser soddisfatto per mezzo dell'Arte, la quale rende possibile la sovrapposizione di tutto un mondo supra il mondo della esperienza ordinaria. Il vero artista è quegli che crea per creare, è quegli che spinto dal bisogno di porre in opera il soprappiù delle sue esuberanti energie, produce spontaneamente e quasi istintivamente, senza aver dinanzi alla mente uno scopo estrinseco od interessato da conseguire. Egli crea per dar forma definita a ciò che gli si agita nel fonito dell'anima. L’opera d'arte è bella quando porta nettamente l'impronta della personalità dell'artista e quando esprime l'impressione in lui prodotta dalla vista dell'oggetto o del fatto che egli traduce. La Natura è bella quando noi in essa riconosciamo nol stessi con ciò clie abbiamo di veramente umano, come esseri felici e miseri ad un tempo. Ognun vede che il bello non può essere in alcun modo confuso nè col piacevole, nè col bene ; il piacevole infatti, risponde ad una esigenza subbiettiva ed interessata, implicando l’appagamento di un bisogno egoistico, e il bene involge il concetto di attuazione di un fine chiaro e cosciente, sia questo estrinseco all’obbietto come nel caso dell'utilità o immanente all’ oggetto stesso come nel caso della perfezione. L'espressione libera e spontanea in forme concrete, di un contenuto.ideale e la realizzazione irreflessa di ciò che vi ha di razionale nella nostra natura, ecco che cosa è invece la produzione artistica ; un’espressione necessaria el obbiettiva della vita umana nella sua complessità e dell'unità della natura, ecco che cosa è invece l’arte. Onde consegue poi che non vi è ragione di limitare la cerchia delle sue manifestazioni, le quali hanno tutte egual diritto alla nostra consilerazione, a patto che mettano in evidenza in modo completo un lato della vita umana con tutte le proprietà, siano pregi o difetti ad essa inerenti. E " x Il problema che in filosofia generale corrisponde a quello estetico or ora esaminato è il problema teleologico. Che significato ha l’inesauribile produttività della natura ? Che valore va attribuito alle svariatissime forme naturali? Ora la risposta lata dai filosofi almeno da taluni filosofi coincide con quella data dagli estetici in quanto viene ammessa l’intima razionalità della natura, a cui accennano già le leggi naturali. Tale razionalità può da una parte non esaurire il contenuto della natura, giacchè questa oltre ad essere compenetrata dalla ragione 'è qualcosaltro ancora, e dall’ altro non è tale da far considerare i fatti e gli obbietti naturali come prodotti da un’Intelligenza cosciente identica all’umana. In altri termini, la natura è, sì, espressione di qualcosa di razionale, ma non può essere considerata come il prodotto di un'attività intelligente che si esplichi come quella dell’ uomo. La natura esclude il dominio del caso e insieme una veduta antropomorfica qualsiasi. E poichè del rimanente la produttività della natura presenta i caratteri propri della produzione artistica (libertà, spontaneità, molteplicità di forme definite, unità organica delle parti costitutive di ciascuna forma, esuberanza di energia, apparente assenza di utilità, ecc.), è ragionevole pensare che il mondo ideale dell’arte e quello reale della natura siano prodotti da un'attività fondamentalmente identica: la quale però nel secondo caso si esplica in modo chiaramente incosciente e nel primo in modo, diremmo semicosciente o cosciente addirittura. In entrambi i casi la ragione è in azione, ma (ci sia lecito esprimerci così) senza averne Vl aria: in entrambi i casì l’idea di fine non è costitutiva dei fenomeni, ma puramente regolativa, giacchè come il fatto estetico non è prodotto, nè sentito in vista del raggiuugimento di un dato fine, in vista di. un vantaggio da ottenere, o di un risultato pratico da conseguire, così il fatto naturale non può essere interpretato o spiegato mediante il concetto di fine. Il fatto estetico e quello naturale però implicano, ciascuno alla sua mauiera, l’esistenza dell'elemento intelligibile e razionale atto a dar ragione della loro forma determinata: tanto l’ uno quanto l’altro pongono l’esigenza dell’unità sistematica atta a dar ragione delle relazioni esistenti tra le varie parti od elementi componenti il tutto, unità sistematica che include il concetto di fine intrinseco ed organizzatore, comunque incosciente. É evidente poi che tra natura ed arte, tra bello natu: rale e bello artistico non può esistere antitesi di sorta, ma soltanto differenza di grado, in quanto l’arte non fa che presentare come raccolti in un punto quei raggi che nella natura vanno dispersi qua e la, in quanto cioè l’arte concentra e rende continuo ciò che nella natura si presenta discontinuo, sconnesso e quindi pressochè sfornito di alto significato. Allo stesso modo che la scienza coordina, correggendo, modificando (sceverando l’ essenziale e il necessario dall’accidentale), i fatti dell’osservazione percettiva ordinaria e li presenta sotto nuova luce, così l’arte ha per intento di mettere in evidenza i tratti caratteristici della natura e della vita, ordinandoli, fissandoli e organizzandoli in modo che salti agli occhi di tutti quel sigrificeto che diversamente o non sarebbe avvertito addirittura, ovvero in modo incompleto e confuso. L'opera del genio si esplica appunto nell’idealizzare la natura, vale a dire nel rendere appariscente ciò che senza di Lui all'occhio volgare sarebbe per sempre rimasto nascosto. L’opera d'arte quale espressione di un contenuto ideale, di un universale concreto (natura propria di ciò che si vuol rappresentare) ha la sua ragione in sè stessa: e il suo valore sta tutto nell’ essere essa parvenza perfettamente distinta dalla realtà. Essa invero è apprezzata per sè; è un sistema, un'individualità, qualcosa di organico esprimente la Realtà sotto un punto di vista determinato. Qualsiasi altra cunsilerazione non riferentesi alla contemplazione di una rappresentazione concreta, compiuta di quella medesima Realtà, che alla Ragione appare come Vero ed al Volere come Bene, le è estranea. Onde con BOSANQUET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become the life and opinions of H. P. Grice” --, Zistory of Esthetic. London. It is plain that nature in this relation differs from art principally in degree, both being in the medium of human perception or imagination, but the one consisting in the transient and ordinary presentation or idea of average ind, the other in the fixed and heigtened intuitions of the genius which can record and interpret . segue che l'appercezione estetica si riferisce al modo come è rappresentato, come è espresso, non come è costituito, nè come agisce il Reale per sè. E evidente che una medesima cosa è giudicata bella o brutta a seconda che è considerata o pure no espressione completa di un dato ordine di realtà: espressione che figurerà come completa o come incompleta secondo che un oggetto è guardato nella sua possibilità e in generale dall’uno o dall'altro punto di vista. Un esemplare di una specie di animali nota uno scrittore recente, sarà brutto p. es. se considerato come espressione dell’ animale in generale, perchè in quel dato esemplare (forma) la vita animale (contenuto) non si rispecchia nella sua pienezza: potrà esser bello se considerato come espressione tipica di una data specie di animale,. giacchè in tal caso esso è considerato come espressione o forma di un altro contenuto , dass di un altro was. Insomma un oggetto è bello o brutto secondo la categoria con la quale lo appercopiamo. Nell'arte tutta la realtà naturale ed umana che è bella o brutta secondo i punti di vista relativi diventa bella, perchè è appercepita come realtà in generale che si vuol vedere espressa completamente. Tutti i personaggi, tutte le azioni, tutti gli oggetti, entrando nel mondo dell’arte perdono (artisticamente parlando) le qualificazioni che sogliono avere per ragioni. diverse nella vita reale, e son giudicati sclo in quanto l’arte li ritrae più o meno perfettamente. Taluni dei Cesari sono giudicati mostri guardati nella vita reale, ma non sono mostri come figure d’arte. PERGEA PSR i ie ina Pr fa L'uomo nella vita ordinaria accetta il dato come immediatamente gli si presenta senza che faccia alcun tentativo per armonizzare tra loro gli elementi discordanti. Possiamo aggiungere che la discordanza non è neanco avvertita. In tale stadio l’uomo non conosce per conoscere, ma conosce per operare, per soddisfare cioè nel modo più appropriato i suoj/ istinti o le sue tendenze; onde avviene che le cognizioni, le quali meglio rispondono alle esigenze pratiche, appaiono complete, perfette. Se non che un tale stato non è duraturo; ben presto con lo svolgersi della cultura e della civiltà la funzione conoscitiva acquista un certo grado d'indipendenza, emancipanilosi dai bisogni pratici ed acquistando valore e significato per sè. È in tale stadio che cominciano ad essere avvertite le contradizioni esistenti tra i vari elementi dell’esperienza ordinaria, dapprima considerati come essenzialmente costitutivi della vera ed ultima Realtà. È in tale stadio che si formano le scienze, le quali per dar ragione dei vari fatti sperimentali e per eliminare le contradizioni dagli stessi presentate ricorrono a concetti d'ordine particolare. In tal guisa questi sono come il sostrato della realtà, mentrechè i fenomeni empiricì stanno ad indicare le varie maniere in cui il detto sostrato si può presentare al soggetto, stanno ad indicare le varie forme che esso può assumere. Ma siffatti concetti fondamentali delle scienze particolari sono in realtà qual-. cosa di ultimo e d’irriducibile e (ciò che sopratutto importa) sono privi assolutamente di elementi contradittori, sono cioè perfettamente intelligibili? Questo problema che sorpassa evidentemente i limiti di ciascuna scienza speciale, forma il punto di partenza del filosofare. Ora BRADLEY, il filosofo oxoniense, nel suo saggio di metafisica intitolato “Appearance and Reality” – Appearance and reality: a metaphysical essay. London, Swan Sonneschein. Tale opera di Bradley è accolta con molto favore nel mondo filosofico inglese. Mackenzie non si perita di affermare nella Rivista Mind che il saggio di metafisica di Bradley è una delle migliori opere filosofiche. Bradley del resto è autore di parecchie altre opere pregevolissime, quali i “Principles of Logic” (London), “Ethical Studies” e svariatissimi articoli per la più parte d’argomento psicologico pubblicati nella “Mind.” -- muove appunto dal quesito: La realtà quale ci viene presentata dalle scienze singole è consistente, ovvero è contradittoria e quindi non realtà vera, ma apparenza? Le scienze per costruire un mondo intelligibile sono ricorse a vari espe-. dienti o mezzi; che valore hanno questi? Sottoposti alla critica, esaminati alla luce del principio di contradizione appaiono consistenti? Ognuno vede che per risolvere tale problema occorre anzitutto passare a rassegna i materiali che compongono l’edifizio della scienza per potere di poi ricercare fino a che punto ciascuno di essi sia coerente con sè stesso e coi rimanenti. Si fa presto ad enumerare gli organi che renduno possibile alla scienza la costruzione della mechanica rerum; essi sono: divisione delle qualità sensoriali in primarie e secondarie, i concetti dì sostrato o sostantivo, di qualità, di relazione, di spazio, tempo, movimento, cangiamento, causalità, forza, attività. Tutto il mondo per la scienza è composto di cose , di qualità , di relazioni e, se si vuole, anche di forze . Le qualità possono essere divise poi in primarie (estensione, resistenza) e secondarie (colori, suoni ecc.). Dalle varie combinazioni di qualità e di relazioni di differente ordine risultano lo spazio, il tempo, il movimento, il cangiamento, la causazione. Possiamo dire che i concetti propriamente primitivi sì riducono a quelli di sostanza, di qualità, di relazione e di azione, mentrechè tutti gli altri concetti di cui si fa largo uso nella scienza, non sono che derivazioni e combinazioni diverse di quelli primitivi. Si domanda adunque: La Realtà è effettivamente costituita di sostanze, di qualità, di relazioni? Il Bradley risponde subito di no, perchè tutti questi elementi, implicando contradizioni, sono apparenza e non realtà. La sostanza , la cosa non è che l'insieme, l’unità di tutte le qualità che caratterizzano, 0 como altrimenti si dice, ineriscono ad essa: ma che cosa è mai questo rapporto d'inerenza? Da una parte la cosa non s'identifica con nessuna delle qualità per sè prese (così lo zucchero non è identico alla qualità del bianco, o a quella del dolce per sè presa), e dall'altra parte se si dice che la cosa rappresenta l’uni ficazione, l'aggruppamento delle varie qualità non s'intende in che cosa possa consistere questa unificazione od ordinamento che sia. Chi tiene unite le qualità? Perchè, come, dove queste si uniscono insieme? Qui sì tira in ballo il concetto di relazione e si dice che la sostanza, la cosa, è data da particolari rapporti esistenti tra le varie qualità, ma ciò non serve affatto a chiarire la questione, perchè che cosa mai vuol dire che una cosa è uguale al rapporto di una qualità: con un’altra qualità? Così se si dice lo zucchero è eguale ad un dato rapporto del bianco col dolce non si dice nulla di serio e di significante, non si sa che cosa voglia dire una qualità in rapporto con un'altra: la prima qualità non è identica alla seconda, e non è nemmeno identica alla relazione con la seconda . Come si vede, al problema concernente la sostanza, la cosa, sì connette intimamente quello riguardante la natura della qualità e della relazione, problema che esaminato a fondo, dice il Bradley, dà luogo ad un cumulo di contradizioni. Ed invero qualità e relazione anzitutto si presuppongono a vicenda in quanto con ogni qualità si connette intimamente un processo di distinzione, di differenziazione e quindi un rapporto (ogni qualità in tanto esiste in quanto emerge, distaccandosene, da un dato fondo), processo e rapporto che sono parti essenziali della qualità come tale e non qualcosa di sopraggiunto: chi dice qualità dice molteplicità e chi dice molteplicità dice con ciò stesso rapporto; e in quanto ogni rapportu d'altra parte implica la esistenza di termini e quindi di qualità tra cui esso intercede ; poi non c'è verso di poter intendere come qualità e relazione agiscano o si comportino reciprocamente. Noi, ricordiamolo bene, siamo a questo: la relazione è nulla senza la qualità e viceversa la qualità è nulla senza la relazione: da un canto sembra che la qualità consti di relazioni, e dall'altro che queste non siano che forme di qualità. Si direbbe che in ciascuna qualità siano da distinguere due elementi, uno che rende possibile una qualsiasi relazione e l’altro che risulta dalla relazione stessa, elementi che appartenendo ad una stessa cosa (qualità), bisogna che siano in relazione tra loro per modo che a’ proposito di ciascuno di essi si renda necessario il medesimo processo di distinzione dell'elemento che rende possibile la relazione da quello che ne risulta. Il che, come è chiaro, I mena ad un processo ad infinitum. Il fatto è che il Bradley non vede come la relazione salti fuori dalla qualità, nè come la qualità possa saltar fuori dalla relazione lasciata così sospesa per aria. Da una parte la relazione pare che non si distingua dalla qualità, e dall’altra la presuppone: e viceversa da una parte la qualità pare che s'identifichi con la relazione, e dall'altra ne derivi. | Come mai si può affermare adunque che la realtà è fatta di sostanze, di qualità e di relazioni, se tali tre elementi implicano contradizioni e sono affatto incomprensibili? Presi separatamente o in unione essi appaiono sempre impenetrabili all’intelligenza. La relazione non può essere considerata un addiettivo, una proprietà della qualità, giacchè viceversa questa appare qualcosa di inerente alla relazione. Oltrechè il rapporto di inerenza è quanto di più oscuro si possa immaginare, la relazione e la qualità non possono essere sostantivi ed addiettivi nello stesso tempo. Se non s'intende come le qualità possano unirsi per dare la cosa , non s'intende del pari come i rapporti siano proprietà, siano come a dire inerenti alle qualità. Si ode dire che la tale cosa ha la proprietà di essere in rapporto con la tale altra cosa, ma una tale espressione implica una quantità di controsensi. Che cosa è il rapporto per sè preso? Non sì può identificare con la cosa e d’altra parte per sè è nulla. Il nodo della questione è tutto qui: la relazione non essendo una cosa nè una qualità, non sì arriva a comprendere che cosa mai possa essere, giacchè essa infatti nell’ uso ordinario e scientifico è adoperata ora come sostantivo a cui ineriscono le qualità vere o proprie ed ora come addiettivo, come un derivato delle qualità stesse. Se non c'è modo di intendere l’unità delle qualità e degli attributi costituenti la cosa non c’è modo neanche d'intendere l’unione delle relazioni con le qualità. Da un canto il rapporto deve essere qualcosa per sè, qualcosa di distinto dalla qualità e dall’altra fuori la qualità esso appare nulla. Una volta dichiarati iniutelligibili perchè contradittori i concetti di sostanza, di qualità, di relazione, non potevano non apparire del pari incomprensibili lo spazio, il tempo, il movimento, l’attività, il cangiamento, la causazione, ecc. Tutti questi concetti invero non risultano che di qualità e di relazioni variamente combinate tra loro. In ciascuno di questi casi riappare l'impossibilità di considerare la relazione come qualcosa di esistente per sè in quanto essa presuppone delle qualità e insieme l’impossibilità di considerare le qualità come cause produttrici delle relazioni, perché le qualità si risolvono alla loro volta in relazioni. Da un canto le qualità sembrano constare di relazioni e queste di quelle e dall'altro non s'intende come in ogni caso le une possano emergere dalle altre. Ognuno vede quale sia la conclusione a cui perviene la critica del Bradley : i concetti fondamentali delle scienze particolari non sono che mere apparenze. Ora è giusta una tale affermazione, in base, s'intende, all'analisi da lui fatta delle qualità e relazioni in genere e poi del mutamento dello spazio, del tempo, della causazione, del cangiamento, ecc. ? In sostanza Bradley ragiona così: Poichè la sostanza o la cosa da una parte non può essere identica a ciascuna o anche a tutte le qualità per sè prese e dall'altra non può essere considerata come il sito d’unificazione, come l’ unità di tutti gli attributi, poichè in altre parole è incomprensibile il rapporto d'inerenza o il nesso del sostantivo con l'aggettivo bisogna dire che questi ultimi concetti non costituiscono la realtà. Poichè è inconcepibile la natura della qualità e della relazione come della loro unione, bisogna affermare che anche siffatti concetti non sono che apparenze, errori di prospettiva mentale, i quali vengono ad essere eliminati in un’ esperienza più elevata. Il filosofo inglese, come si vede, prende i concetti di sostanza, di qualità e di relazione come se fossero qualcosa di esistente per sè, come se fossero degli elementi indipendenti, delle vere e proprie entità: ora ciò è un errore. Non è lecito considerare la sostanza, la qualità e la relazione separatamente dal fattore della coscienza in generale (Bewusstsein iiberhaupt, direbbe Kant) che ne è il vero sostegno e fondamento. La sostanza, la qualità e la relazione in tanto appaiono concetti contradittori in quanto sono stati distaccati dalla loro matrice, da ciò per cui sono e a cui devono per conseguenza esser riferiti, la coscienza, il soggetto in genere. Considerati come obbietti non reggono alla critica sicuramente, ma considerati come fatti esistenti per un soggetto in generale e non per questo o quel soggetto particolare divengono comprensibilissimi. Ed invero l’ unificazione delle qualità costituenti la cosa non è un atto compiuto in un sito al di fuori del soggetto, ma ha la sua radice nell'unità della coscienza. Non esistono delle qualità per sè prese che poi in un bel momento si uniscano tra loro per formare la cosa , ma esistono degli elementi astratti (che dal punto di vista obbiettivo sono funzioni), i quali si concretizzano, completandosi a vicenda, per opera della soggettività in genere. La cosa, la sostanza insomma è ciò che è per la coscienza in genere. La cosa la sostanza adunque è una funzione del soggetto. Ricordiamo che una funzione è sempre una ancorchè gli atti di cui essa si compone siano molteplici. La cosa o la sostanza non è la semplice unità delle sue qualità, ma è questa unità più il soggetto : nè è a dire che la sostanza sia identica ad una sola qualità (come parrebbe quando si dice, ad esempio, che lo zucchero è dolce o al rapporto esistente tra le varie qualità : queste in tanto appaiono costitutive della cosa, in tanto possono essere attribuite separatamente o complessivamente alla cosa stessa in quanto sono presenti ad una coscienza. Il rapporto d'inerenza in tal guisa cessa di essere qualcosa d’impenetrabile e di misterioso, riducendosi ad una funzione della coscienza o della soggettività in genere per cui le varie modificazioni vengono ad essere riguardate come elementi di un unico processo. Parimenti la qualità e la relazione, come la sostanza, non sono delle entità, ma vivono, agiscono e si muovono nella e per la coscienza in generale: tolta la quale, non s'intende sicuramente nè la qualità, nè la relazione, nè la loro unione. La qualità non esiste che come determinazione, differenziazione della coscienza o soggettività in genere, e questa stessa mentre è attiva dà luogo a relazioni di vario ordine. Qualità e relazione adunque non sono due fatti distaccati, o meglio, l'uno di essi non è qualcosa di aggiunto all’altro: la relazione presa per sè, come la qualità presa per sè non esistono, ma vengono per così dire, generate ad uno stesso tempo dalla coscienza, la quale nell'atto che dà luogo alla qualità dà luogo anche alla relazione, per modo che qualità e relazione da una parte si appoggiano a vicenda e dall'altra hanno entrambe il loro fondamento ultimo nell'unità e attività della soggettività; tanto è vero che ciò che da un punto di vista figura come qualità, può presentarsi da un altro punto di vista come relazione e viceversa Se si fissa l’attenzione sull'atto o processo con cui la coscienza genera e costìtuisce la qualità si ha la relazione: se invece l'attenzione è fissata sulla modificazione generata nella coscienza dall'atto si ha la qualità. La relazione pertanto non è un addiettivo della qualità come questa non è un prodotto della relazione, ma sono due lati di uno stesso processo fondamentale compiuto dalla soggettività in generale. E si comprende ‘agevolmente come la relazione distaccata dalla -sua matrice che è la coscienza in generale presa quindi per sè, presupponga i termini o le qualità e viceversa queste considerate per sè traggano seco l’altro lato del processo, implichino cioè la relazione: esprimendo la qualità e la relazione due punti di vista differenti di uno stesso fatto, l'uno implica l’altro: ciascuno è vicendevolmente risultato e condizione, secondochè si muove per primo dall'atto della coscienza (relazione) con cui si produce una modificazione di essa qualità, ovvero da questa modificazione. I concetti di sostanza, di qualità e di relazione adunque in tanto implicano un cumulo di contradizioni in quanto vengono considerati separatamente dal fattore della coscienza, della soggettività in generale in cui hanno la loro radice e ragione di essere. Una qualità che non si riferisce ad un soggetto è nulla come una relazione che non esprime un’ azione di un soggetto è parimenti nulla. La scienza fa uso dei concetti di sostanza, di qualità, di relazione senza andare in traccia di ciò che siffatti concetti implicano: la filosofia per contrario trova che essi si riferiscono alla coscienza in generale con le sue note di unità, di attività e di modificabilità. La sostanza, la qualità, la relazione sono elementi costitutivi della realtà non nel senso che esistano per sè, ma nel senso che sono una produzione, anzi, meglio diremo, sono elementi costitutivi della coscienza o della soggettività in generale che è quanto di più reale possa esistere. E la sostanza, la qualità e la relazione in tanto s’implicano a vicenda in quanto come funzioni integrantisi a vicenda formano la struttura organica della coscienza. La sostanza non è identica ad un complesso di qualità o di rapporti tra qualità come la relazione non è un prodotto della qualità, come la qualità non risulta dalla relazione, e come infine la relazione non è un attributo della qualità e viceversa, ma sono tre differenti funzioni della coscienza, tre vie che la coscienza tiene nell'adempimento del suo ufficio che è quello di costruire l’esperienza intesa in senso largo. Per Bradley giudicare equivale semplicemente ad identificare stabilire un'identità formale ed astratta tra i termini del giudizio, facendo astrazione dal fattore della coscienza necessariamente supposto dall'atto giudicativo. Ora il giudizio non è la pura identità di due teriini, ma è l'identità più l’azione del soggetto che rende possibile e in cui si compie il riferimento espresso nel giudizio. Sicuramente l’un termine del giudizio non è identico sic et simpliciter all'altro, ma è identico a questo più il fattore del soggetto. Si è veduto come la difficoltà d’intenlere la natura propria delle qualità e delle relazioni derivi dal considerarle come dati invece che come funzioni della coscienza o del soggetto in genere, ond’ è che esse non figurano come attributi della realtà, ma bensì come atti della coscienza : qualità e relazioni avendo la loro ragione di essere nella e per la coscienza è chiaro che non sì tosto esse vengono distaccate da tale fonlo appaiono concetti contradittori. Del resto lu realtà presa nel suo insieme non è veramente tale che per una coscienza : tolta questa, la realtà stessa scompare. Una realtà posta al di fuori di qualsiasi forma di coscienza per noì è inconcepibile n almeno è come se non esistesse, è nulla. Ora la realtà riferita ad una coscienza è costituita di vari ordini di qualità e di relazioni, che rappresentano per così dire i materiali .con cui il soggetto fa o costituisce la realtà. Lungi dal poter essere le stesse considerate come apparenze costituiscono la realtà vera. Ciò posto, ognuno vede che le contradizioni riscontrate dal Bradley nello spazio, nel tempo, nel movimento, nel cangiamento, nell'attività, nella causazione che in fin dei conti rappresentano delle differenti combinazioni di qualità e di relazioni, scompaiono appenachè esse non vengono più considerate come dati, ma funzioni della coscienza in generale. Le contradizioni esposte dal Bradley poggiano per la più parte sulla difficoltà o impossibilità di intendere il continuo, il quale sotto differenti forme si presenta nello. spazio, nel tempo, nel movimento, nel cangiamento, nella causazione ecc. Ora il con/înuo effettivamente non è concepibile che armettendo una coscienza o soggettività che in certo qual modo sia come la forma permanente della Realtà, rispetto alla quale cioè la realtà venga costituita e uni‘ficata. Il continuo dello spazio, del tempo, del movimento, del cangiamento, è come a dire, il riflesso della continuità, della permanenza, e della identità dell'attività della coscienza, e, si badi, della continuità della coscienza in generale e non di quella individuale. A tal proposito giova ricordare che la conoscenza, la costruzione della realtà e l’esperienza in genere in tanto sono possibili in quanto la funzione o l’attività della coscienza individuale s' identifica con la funzione della coscienza in genere. Ma si può domandare: Che concetto dobbiamo e possiamo formarci di tale coscienza in generale ? 0 meglio,. che esperienza ne abbiamo noi? Siffatta coscienza in generale è quell'elemento subbiettivo che viene sottinteso in ogni esperienza e quindi in ogni realtà. L'esperienza divenga obbiettiva finchè si. vuole, si attenui fin che si A proposito del movimento rimandiamo il lettore a ciò che ne dicemmo sulle tracce del Masci nel I° volume di questi Saggi. vuole il fattore subbiettivo, non si riuscirà mai ad annullare, come già si fece notare disopra, il riferimento ad una coscienza qualsiasi: tolto il quale riferimento è annullata per ciò stesso l’esperienza e la realtà. Noi in tanto possiamo parlare di fatti obbiettivi in quanto ad una determinata coscienza individuale sostituiamo una forma differente di coscienza senza riuscire mai a far senza di una qualsiasi: così si parla dei fatti di movimento come di fatti essenzialmente obbiettivi: ora i detti fatti di movimento non sono fenomeni riferentisi ad una coscienza? L'uomo come essere pensante è cosiffatto che non può in nessuna maniera, semprechè non voglia annullare sè stesso, fare astrazione da una qualsiasi forma di coscienza. Ed è in ciò posta appunto la realtà dell’ io non già nel vario contenuto della coscienza individuale, il quale è qualcosa di mutevole e di accidentale. Il Bradley per mostrare come anche l'io sia apparenza e non realtà passò in rassegna i vari significati in cui l’ io può essere preso per dedurne che nessuno di tali significati è scevro di contradizioni; nessuno ci dà la realtà: ma egli non accenna al significato dell’ io quale condizione prima di ogni esperienza e quindi di ogni realtà : ora è appunto in tal senso che l'io è ciò che vi ha di veramente reale. Non è l'io empirico, l’io individuale per sè preso che ci dà il reale, ma è quell’elemento dell’ io individuale per cui questo identificandosi coll’io, e la coscienza in genere si presenta come elemento costitutivo e quindi come condizione di ogni realtà ed esperienza. Aggiungiamo infine che una volta che lo spazio, il tempo, il movimento, il cangiamento ecc. non vengono presentati come dati, ma come funzioni della coscienza in generale è chiaro che nelle loro parti costitutive appaiono come qualità o come relazioni a seconda che varia il punto di vista da cui vengono considerate: appaiono relazioni guardate dal punto di vista dell'atto costruttivo, mentrechè appalono qualità dal punto di vista delle modificazioni nell'atto stesso prodottesi sempre nella coscienza in generale. L'analisi del Bradley mena adunque a questo risultato, che i concetti fondamentali delle scienze particolari, involgendo contradizioni, non possono essere elementi costitutivi della realtà, ond’è che essi vanno considerati quali mere apparenze. Come si vede, il criterio per distinguere la realtà dall’apparenza è il principio di contradizione. Regola generale: ciò che si contradice non è reale, o, ciò che val lo stesso, la realtà ultima non può essere contradittoria. Tale criterio è assoluto e supremo, perchè tutti gli altri ne dipendono e perchè anche negandolo o dubitandone, se ne ammette tacitamente la validità. Il principio di contradizione però non va considerato come un criterio puramente formale in quanto chi pone l’ inconsistenza tra gl’ indizii della non realtà viene ad affermare la consistenza quale segno del reale : se ciò che Stimiamo opportuno riprodu-re, italianizzandole, le parole inglesi consistency e inconsistency per donotare l’ identità e la contradizione, in quanto esse esprimono bene i concetti della presenza 0 della mancanza dell’appoggio reciproco delle varie parti di un tutto, si rivela inconsistente e contraditturio non è reale, la Realtà dev'essere per forza consistente. Ma, si può qui domandare, se i concetti fondamentali di cui si fa uso nell’esperienza racchiudono contradizioni e se ciò che è contradittorio non è reale, tuttociò che ci circonda e noi stessi siamo come a dire al di fuori di ogni realtà, siamo non enti? No, risponde il Bradley, noì e tutto il resto siamo, e come tali siamo apparenze, vale a dire che abbiamo un certo grado di realtà. Il carattere fondamentale del reale è dato da ciò, che esso possiede ogni specie di apparenza, ma in forma armonica. Sicchè la Realtà è una nel senso che esclude qualsiasi contradizione e comprende tutte le svariate apparenze fino a tanto che non si contradicono. Per conseguenza il Reale non può essere che individuale e tale da abbracciare tutte le differenze in un’ armonia secondo che questo è o no reale. La consistency significa in modo chiaro il fatto che ciascun elemento esige la presenza degli altri per modo che è reale quel termine che si connette, che è in relazione con tutto il resto. Qui si può porre la questione: Ma i principii d'identità e di contradizione per sè considerati implicano la connessione reciproca delle varie parti di un tutto? Dal fatto che due termini non sono in contradizione è possibile dedurre che sono in relazione reciproca e che sì appoggiano a vicenda? L'assenza di contradizione può essere indizio di una connessione, di una relazione, ma perchè questa sia ammessa effettivamente, si richiede qualcos’ altro ; sì richiede una determinazicne positiva, la quale non ci può essere fornita che dalla esperienza. Ritorneremo su questo punto quando parleremo del rapporto esistente tra realtà e possibilità, tra l’esistenza e l’intelligibilità. Quì vogliamo solo notare che non va confusa la funzione dei principii supremi della ragione (identità ecc.) quali criteri per giudicare della realta e della verita col loro ufficio quali postulati, esigenze, norme della conoscenza. comprensiva d'ordine superiore. È a questo Uno-Tutto, a questo Sistema, a questa Unità che supera le differenze, che vien dato il nome di Assoluto. Prima di determinare la natura e i caratteri positivi e le manifestazioni dell’Assoluto è bene soffermarci un momento per indagare da quali ragioni sia stato indotto il Bradley ad ammetterne l’esistenza : ricerca della più alta importanza codesta in quanto per tale via noi penetreremo nel cuore della filosofia del nostro autore. Tuttociò che in qualche maniera racchiude contradizione non è reale, è apparenza che può divenire reale solo allontanando da sè l'elemento contradittorio, vale a dire cessando di essere determinatu in un dato modo e trasformandosi in qualcos'altro : onde consegue che la realtà dev'essere caratterizzata dall'assenza di contradizioni, dalla consistenza con sè stessa, il che può avvenire solo nel caso che essa sia unità individua e sistematica. Tuttociò però non implica che la Realtà effettivamente esista, ma soltanto che, se esiste, non può esistere che in tale maniera, sotto questa condizione, che sia una e consistente: condizione che determina la possibilità, non l'attualità. Ciò che è possibile è forse reale? Una possibilità asserita, risponde, ha sempre un significato e finchè non sia contradetta o non appaia contradittoria, qualifica il Reale, presentandosi sempre accompagnata con qualche idea attuale: quando voi non avete che un'idea e di essa non potete razionalmente dubitare, siete nell’obbligo di affermarla, giacchè, è bene tenerlo a mente, qualsiasi cosa serve a qualificare il Reale e finchè una idea non appare inconsistente seco stessa isolatamente considerata, o presa colle altre cose, è da riguardare vera e reale. A ciò sì aggiunga che la possibilità è sempre relativa e implica sempre un inizio di attualità, giacchè la possibilità assoluta o incondizionale equivale all’inconcepibilità o impossibilità. Essa è data appunto da ciò che contradice alla conoscenza positiva piuttosto che da ciò che appare insufficientemente connesso con la Realtà. Come si vede, occorre determinare bene il rapporto esistente tra pensiero e realtà, e insieme fissar bene il concetto che bisogna formarsi della realtà e verità in genere. Ora al Bradley sembra assolutamente inconcepibile un pensiero, per così dire, sospeso in aria, che non sia connesso con una qualsiasi forma del Reale, con uno de suoi aspetti o con una delle sue sfere. Per quanto ciò possa sembrare un paradosso, è inammissibile che la realtà sia circoscritta a ciò che esiste nello spazio e nel tempo: questa non è che una delle tante forme, delle tante manifestazioni od apparenze della realtà; tanto è vero che ciò che è reale da un dato punto di vista, non lo è da un punto di vista differente. Vi sono tanti mondi, tante realtà quante possono essere le prospettive da cui può essere guardato il tutto, 0 meglio, ciascuno dei suoi frammenti. Così vi è il mondo dell’arte, come vi è il mondo della religione, della moralità e via di seguito, e tutti questi mondi sono differenti tra loro per modo che ciò che è vero e reale in uno di essi non lo è del pari in un altro ed ogni idea appartenente a questi singoli mondi qualifica in qualche modo il Reale preso nel suo insieme. Il fatto immaginario qualifica la Realtà alla propria maniera. Ciascun elemento occupa un posto nel sistema totale. L'importante è determinare il vero posto che gli compete, L'oggetto del nostro desiderio certo non esiste attualmente, ma è sempre però riferito alla realtà ed è anzi tale riferimento che rende l’impedimento al soddisfacimento del desiderio incresciosissimo: ciò che io desidero non esiste per me attualmente, ma io sento vagamente che è in qualche parte, in una regione, per dir così, lontana, per il che il suo non attuarsi in un dato momento produge una tensione oltremodo spiacevole. Va notato però che se quilsiasi idea può essere riferita alla realtà, d'altra parte perchè ciò avvenga, è necessario che la stessa idea sia più o meno alterata (1), della necessità, del grado delle quali operazioni noi siamo d’ ordinario completamente all’ oscuro. In conseguenza di ciò il Bradley fu tratto a discutere della validità della celebre prova ontologica. Se s’identifica la realtà coll’esistenza spaziale e temporale è evidente che dal fatto che una cosa si presenta, per così dire, solo nella nostra testa non consegue che essa esista realmente; ma lo stesso non si può dire quando si ammette che qualsiasi idea qualifica in qualche modo la realtà; in questo EVERY IDEA CAN BE MADE THE TRUE ADJECTIVE OF REALITY, BUT ON THE OTHER HAND, AS WE HAVE SEEN, EVERY IDEA MUST BE ALTERED. MORE OR LESS THEY ALL REQUIRE A SUPPLEMENTATION AND RE-ARRANGEMENT. BUT OF THIS NECESSITY AND OF THE AMOUNT OF IT WE MAY BE TOTALLY UNAWARE. WE COMMONLY USE IDEAS WITH NO CLEAR NOTION AS TO HOW FAR THEY ARE CONDITIONAL, AND ARE INCAPABLE OF BEING PREDICATED DOWN RIGHT OF REALITY. TO THE SUPPOSITION IMPLIED IN OUR STATEMENTS WE USUALLY ARE BLIND, OR THE PRECISE EXTENT OF THEM IS, AT ALL EVENTS, NOT DISTINCTLY REALISED. TO THINK IS ALWAYS IN EFFECT TO JUDGE, AND ALL JUDGEMENTS WE HAVE FOUND TO BE MORE OR LESS TRUE, AND IN DIFFERENT DEGREES TO DEPART FROM, AND TO REALISE, THE STANDARD HARMONIOUSNESS SELF-CONSISTENTY, INCLUSIVENESS AND HARMONY. caso anche ciò che si presenta soltanto nella mia testa deve avere qualche punto di contatto col Reale. Giova ricordare a tal proposito che una pura idea separata da tutto il mondo reale è un’ astrazione, anzi vi ha dippiù: un'idea non riferita in qualche modo alla Realtà è una contradizione. Si tratta di vedere adunque in che maniera l’idea dell’assoluto possa esser riferita alla realtà. Perchè un’idea qualsiasi figuri come qualificazione della realtà occorre che essa sia armonica, completa, organicamente connessa col sistema totale, per il che deve essere priva di qualsiasi elemento contradittorio. Ora l’idea dell’assoluto che è l’idea dell’unità, della totalità, della coerenza del sistema, da una parte è inerente alla natura propria del pensiero, tanto che si può dire che ne costituisca l’essenza e dall’ altra è contradittoria solo nel caso che essa si consideri come non avente niente a che fare con la realtà ; invero aver l’idea dell’ unità, del sistema assoluto e non riferirla alla Realtà quando si è detto che il grado di realtà si misura dal grado di armonia, di comprensività ecc. è assolutamente contradittorio. Se chi dice pensiero dice sistematizzazione, e se d'altro canto il pensiero quale elemento integrante la realtà, è tanto più vero e reale quanto più è sistematico, armonico, completo, non si può non affermare che il pensiero o l’idea del sistema totale (Assoluto) è il più reale di tutti. In questo caso l’idea è cosiffatta che essa è spinta, per così dire, a completarsi nella esistenza : in caso contrario si rivela contradittoria. L'idea dell’ assoluto, dell’ unità ecc. non è un prodotto accidentale, arbitrario dello spirito subbiettivo, ma è qual. cosa di essenziale allo spirito come spirito, per il che sempre che non si voglia annullare il pensiero (e quindi in ultima analisi la realtà stessa), non si può non renderla consistente. In sostanza negare l’esistenza all'idea dello assoluto equivale a dire che il criterio per giudicare del grafo di verità e realtà che è quello appunto dell'armonia e della coerenza non è reale; o, in altre parole, negare la realtà dell’ assoluto equivale a dire che il pensiero non è reale, che esso brancola nel vuoto addirittura, non riferendosi e non completandosi nella realtà. Pensiero e realtà essendo parti di un tutto, si completano a vicenda per modo che partendo da un lata si è costretti a muoversi per forza verso il lato complementare, Da tal punta di vista la prova ontologica va considerata come l'inverso di quella cosmologica. Una volta che il Reale è per natura qualificato dal pensiero esso deve per qualche via possedere ciò che implica l'essenza propria del pensiero. Il principio della prova ontologica allora si rivela erroneo quando si crede di poter con esso dimostrare che a qualsiasi idea formantesi nello spirito individuale debba corrispondere senz’ altro un contenuto reale obbiettivo; nulla di più falso e inesatto; qualsiasi idea caratterizza la realtà a patto che essa venga profondamente mo lificata cou particolari processi (addition, qualification, rearrangement, supplementation ecc.). L'idea dell’Assoluto che isolatamente considerata è inconsistente, è tratta a completarsi per mezzo dell’ esistenza L'esistenza non è la realtà, conchiude il Bradley, comunque la realtà deve esistere ; l’esistenza è una delle forme di apparenza del reale. Raccogliendo le fila, noi possiamo dire che per il Bradley l'Assoluto in tanto è ammissibile in quanto è riconosciuto come possibile (giacchè la possibilità implica inizio di attualità) e insieme come pensabile. Ciò che è conforme alla natura propria del pensiero (armonia, comprensività) è sempre in qualche modo reale. Sicchè il criterio della realtà è in ultima analisi posto nel pensiero. Nulla è assolutamente erroneo o falso, ma si distinguono numerosi gradi di realtà e verità in rapporto alla maggiore o minore armonia e comprensività del contenuto ubbiettivo. Come si vede, la questione ora si riduce alla ricerca del rapporto esistente tra pensiero e realtà. Ogni pensiero, anzi ogni fatto psichico (imaginazione, desiderio ecc.) caratterizza in qualche modo la realtà vera e propria? Stando al Bradley stesso, il pensiero ha la sua radice nella disgiunzione del what o contenuto intel ligibile (predicato) dal that o esistenza, reale immediatezza sensoriale (soggetto), epperò nasce da un disperdimento dell’unità reale concreta, per raggiungere la quale il pensiero deve annullare sè stesso; dal che consegue che ogni predicato o contenu‘o intelligibile, ogni idealità, ogni what implica sempre una realtà, un that da cui è stato distaccato; e l'errore, la falsità sta solo in questo, nel congiungere un what ed un that che non si corrispondono. Nel Tutto, nell'Assoluto ogni what trovando il suo that cessa ogni possibilità di errare e tutto appare giustificato perfettamente. Non vi è caso duuque che un pensiero per quanto strano si riveli considerato da un dato punto di vista o in rapporto ad una data regione del Reale, non abbia un punto di contatto colla realtà una volta che, dopo opportune modificazioni e trasformazioni, è introdotto nel regno dell’ Assoluto. Solo ciò che è contradittorio è falso, tutto il resto è in qualche modo e in qualche grado reale. I cardini della concezione bradleyana in ordine alla natura della realtà sono: 1° qualsiasi idea qualifica il reale; 2° l’idea dell’assoluto quale sistema armonico, quale indivi dualità è cosiffatta che deve completarsi nell'esistenza. Ora tali affermazioni sono state rese inoppugnabili dall'autore? Qualsiasi idea e quindi qualsiasi giudizio noi facciamo, nota l’autore, deve avere un punto di riferimento nella realtà: e ciò perchè un pensiero che non serva a caratterizzare in qualche modo il reale è una contradizione; il pensiero in tanto è pensiero in quanto si rapporta alla realtà: dal che però non bisogna trarre la conseguenza che ogni singola idea si riferisca ad un corrispondente obbietto; l'idea bisogna che sia prima sottoposta a processi d'ordine speciale atti a trasformarla in modo da essere essa armonica col sistema totale. Si può dire pertanto che ogni idea contenga una parte di verità e di realtà, parte di verità e di realtà che sarà tanto maggiore quanto minore sarà la trasformazione a cui dovrà essere sottoposta | perchè armonizzi coll’insieme. Sorge spontanea pertanto qui la domanda: Quali sono e in che propriamente consistono ì processi atti a dare un contenuto obbiettivo a qualsiasi pensiero? Bradley si contenta di enumerarli, denominandoli; sono processi di rearrangement, di addition, di supplementation ecc.: il che certamente non equivale a risolvere la questione concernente l’obbiettività del pensiero. Ammesso che l’obbiettività non si possa ridurre all'esperienza ordinaria e immediata sorge la necessità di determinare entro quali limiti e fino a che punto possa essere ascritta l’obbiettività ad un qualsiasi contenuto psichico o ideale e tale necessità non è davvero tolta via dalla formola del Bradley. Kant In tal guisa si idealizza l’esperienza in modo da congiungere in una sola realtà il presente e il passato e da assegnare, per così esprimerci, alla detta esperienza un posto nell'ordine temporale fisso. Una volta che l’anima non è oggetto di esperienza, nè un dato (essendo costruita e consistendo nella trascendenza di ciò che è attuale e presente), ed una volta che il suo contenuto non è uno col suo essere, è evidente che non può venire considerata come qualcosa di reale, ma come una specie di astrazione e quindi come una forma dì apparenza. In altri termini la posizione del Bradley rispetto all'anima è la seguente. Egli muove dal principio che la Realtà vera e quindi l'Assoluto è controdistinto da questo che in esso e solo in esso l'ideale coincide coll’esistente, l’intelligibile col dato. Il mondo invece si presenta come il risultato della formazione di centri finiti di sentimento, per mezzo dei quali è resa possibile la scissione e la contrapposizione dell’ elemento intelligibile alla corrispondente esistenza, nel che propriamente consiste ogni apparenza. Idea e fatto non possono formare una cosa sola finchè non scompare ogni finitezza ; chi dice finitezza infatti, dice dipendenza e chi dice dipendenza dice possibilità che una data coscienza venga turbata da qualcosa d'estraneo, vale a dire possibilità che ad una esistenza si congiunga un contenuto diverso da essa. Finchè si rimane quindi nel dominio del relativo e del finito il processo di idealizzazione non può che crescere e svolgersi. Esso però si completa con delle costruzioni, le quali lungi dall’essere qual cosa di reale, figurano come le maniere di disporre o di aggruppare i fatti psichici o gli elementi ideali in cui propriamente consiste la vita psichica. Non esiste adunque l'anima o lo spirito, ma bensì fatti, anzi, meglio, fenomeni psichici i quali hanno la loro radice nel processo di idealizzazione, di distacco dell’idea dal fatto, al che si riduce tutto l'accadere nel tempo. I detti fatti psichici non sono la realtà, ma la sua apparenza. Agli occhi del Bradley non è a parlare di una vita dell'anima, e ciò che ordinariamente si battezza per tale è la legge di distinzione e di aggruppamento, sotto il cui dominio stanno gli elementi ideali. La vita del tutto si svolge attraverso le apparenze, vale a dire attraverso la disgiunzione dell'idea dal fatto operata da quei centri finiti di esperienza psichica, i quali appunto in forza della loro finitezza sono spinti a trascendere la loro esistenza attuale, appropriandosi un contenuto estraneo. Ora tale operazione non può durare indefinitamente, giacchè in tal caso sarebbe sfornita di ogni valore e mancherebbe di un punto di appoggio per la serie intera: pertanto cosa succede? che lo svolgimento della serie dei contenuti intelligibili viene arrestato ad un certo punto e con essi viene costruito un qualcosa che è designato come la causa da cui proviene tutta la serie. È evidente che tale costruzione è puramente ileale, tanto è ciò vero che le proprietà di continuità ed identità ad essa assegnate non soi0 che puramente prodotti del pensiero riflesso, idee quindi e non fatti. Delle due l'una; o l’anima va considerata come un fatto ed allora deve avere un posto nella serie del tempo, deve essere un obbietto tra gli altri obbietti e poichè, sempre secondo Bradley, il tempo e le cose in esso svolgentisì non sono che apparenze, anche l’anima è un fenomeno; ovvero l’anima è posta fuori della serie temporale ed allora si rivela sfornita di qualsiasi contenuto e quindi si riduce al nulla, Per formarsi poi un concetto per quanto è possibile chiaro della detta costruzione ideale forse è bene rappresentare la cosa con un esempio: si pensi un po’ a ciò che avviene nei sogni: il punto di partenza, poniamo, è un sentimento con tono piacevole o dispiacevole preponderante (a cui fa riscontro nella questione presente il sentimento fondamentale): è intorno a questo nucleo primìtivo che la fantasia dispone una quantità di rappresentazioni che finiscono col costituire una cosa o un evento atto a dar ragione appunto del sentimento primitivo. Il processo con cui viene costruito il corpo non differisce sostanzialmente da quello che ci dà l’anima: la differenza sta tutta qui, che nel primo caso la costruzione ideale è fatta con elementi più astratti, nei quali si prescinde da qualsiasi interiorità e che sono posti l’uno fuori dell'altro. Non bisogna dimenticare che la connessione, la sintesi dei fatti psichici in tanto è possibile in quanto è riconosciuta la loro identità interiore: essi cioè possono essere collegati in modo da formare un insieme, perchè sono identici, mentre la congiunzione di ciò che è corporeo e materiale è resa possibile dall'intervento di un universale estrinseco che sono le leggi naturali, le quali però sì applicano ai casi identici e simili. Anche qui adunque interviene il principio di identità, pur avendo un valore subordinato a quello delle leggi. E di qui l'impossibilità di penetrare l'essenza della natura. Anima e corpo sono entrambi fenomeni, entrambi modì di apparire della Realtà, colla differenza che la prima presenta un grado maggiore di verità che non l’altro. Entrambi sono (ci si passi l’espressione) eiezioni del foco centrale del Reale; ma la prima è più significativa, perchè più vicina al Reale stesso. Al Bradley non poteva sfuggire l’obbiezione che si può fare al suo modo di concepire l’anima e il corpo: la prima, infatti, è considerata come il risultato di una costruzione ideale; ma questa non presuppone alla sua volta l’anima? Allo stesso modo il corpo è considerato come un prodotto della natura, ma questa viceversa non può avere consistenza senza la cooperazione del corpo. Ora il nostro filosofo risponde che siffatti circoli viziosi che si presentano ad ogni pie’ sospinto alla mente del pensatore, sono appunto la miglior prova che siamo nel dominio delle apparenze e non della realtà. Dicemmo disopra che la vita del Reale si svolge attraverso le apparenze, le quali hanno in fondo la loro radice nell'esistenza di molteplici centri finiti di esperienza psichica: ora nulla di più legittimo che domandare il come e il perchè dell'apparenza in genere. A tali quesiti il Bradley confessa di non saper rispondere. E allora si possono fare altre domande: 41° se la Realtà è un sistema individuale comprendente tutto in sè, che concetto dobbiamo - formarci del questo (this) e del mio (mine)? 2° Da che cosa siamo autorizzati a trascendere il proprio io, il proprio centro di sentimento e ammettere quindi una realtà universale in cui il mio sia contenuto? | 1° Il questo qui e il mio esprimono il carattere immediato del sentimento che sî sente e non di quello che si può studiare idealizzandolo, separandolo, cioè, dalla sua esistenza attuale, e insieme esprimono il modo di presentarsi della immediatezza in un centro finito. Ammesso che nella realtà significato ed esistenza coincidono, il questo, possedendo lo stesso carattere, va considerato come un centro di realtà immediata. Senonchè qui va notato che l'immediatezza della Realtà totale non va identificata con quella del questo, giacchè nel primo caso l'immediatezza comprende in sè ed è superiore alla mediazione, in quanto sviluppa ed unifica le distinzioni e le relazioni già formate, mentrechè nel questo l'immediatezza nasce dacchè le distinzioni non sì sono ancora prodotte. Nel sentimento fondamentale i vari elementi sono congiunti, e non connessi, onde il suo contenuto si presenta instabile e tendente essenzialmente alla scomposizione (disruption), tendente quindi per propria natura a trascendere l’esistenza attuale. Ogni singolo centro però mostra una parte impenetrabile, un fondo individuale incomunicabile e indecomponibile per cui passando dal mondo ideale a quello del senso, si prova un non so che di vivo e di fresco. Il che prova ancora una volta che la Realtà non è un puro sistema intellettuale, un organismo di idee, ma bensì una individualità concreta Non è a credere che l’opposizione delle varie individualità, dei vari this e mine sia insuperabile, giacchè niente vieta che vari sentimenti possano fondersi in una cosa sola nell’Assoluto. E se la Realtà ultima non può consistere solo in un aggregato di qualità (predicato), d'altra parte è innegabile che Essa non presenta alcun aspetto che non possa essere in qualche modo distinto dal resto e qualificato o idealizzato. 2° Accanto al carattere di immediatezza si riscontra in ogni singolo centro di sentimento la tendenza a trascendere 216 IL PROBLEMA FILOSOFICO la propria esistenza, e ciò perchè, essendo cesso finitu e trovandosi in relazione con qualcosa di esterno, possiede contenuti che non sono consistenti col dato e che pertanto si riferiscono, accennauo ad altro. È la natura interiore del this che lo spinge a sorpassare sè stesso, estendendosi verso ‘una totalità più elevata e comprensiva. Il suo carattere di esclusività poi implica il riferimento a qualcosa di estrinseco ed è una prova del necessario assorbimento nell’Assoluto. E appenachè cominciano a delinearsi delle distinzioni nel sentimento è evidente che la sua assolutezza e immediatezza scompare. La caratteristica vera delle vedute del Bradley si riscontra indubbiamente nel valove da lui attribuito al Vero, al Bello, al Buono. La Realtà suprema è l'Assoluto, il quale vive, opera e si muove nelle apparenze; queste che costituiscono l'Universo vero e proprio, hanno la loro origine nella separazione dell'idea dal fatto: separazione che si può seguire attraverso le varic sfere e province del Reale. Ed è a seconda che l'unione dell’elemento intelligibile col dato, a seconda che l'assunzione dell'apparenza al dominio della Realtà richiede una trasformazione maggiore o minore, perchè possa dar luogo ad un sistema armonico e CITAZIONE DA S. DI BRADLEY IN INGLESE: I DENY THAT THE FELT REALITY IS SHUT UP AND CONFINED WITHIN MY FEELING. FOR THE LATTER MAY, BY ADDITION, BE EXTENDED BEYOND ITS OWN PROPER LIMITS. IT MAY REMAIN POSITIVELY ITSELF AND YET BE ABSORBED IN WHAT IS LARGER. THE MINE – Harrsison, I, me, mine -- DOES NOT EXCLUDE INCLUSION IN A FULLER TOTALITY. comprensivo insieme, che si è autorizzati a parlare di un grado maggiore o minore di realtà contenuta nelle apparenze. Son questi i canoni fondamentali della concezione bradleyana: è da aspettarsi che alla stregua di essi siano valutati il Vero, il Bello e il Buono. Che cosa è la verità? La verità è pura apparenza, risponde il nostro Autor:: essa implicando la conoscenza, e questa la funzione giudicatrice, e l’ultima alla sua volta necessariamente la disgiunzione del what (predicato) dal that (soggetto), è chiaro che non può non essere apparenza: tanto è ciò vero che raggiunta (col riunire l'elemento intelligibile coll’esistenza) la vera e propria realtà, raggiunta, per così dire, la vita del Reale, è più lecito parlare di verità, ha più senso tale espressione? L'inconsistenza essenziale della verità può essere stabilita così: fin tanto che vi è differenza tra il dato e il significato o contenuto ideale, la verità non è realizzata in medo chiaro e completo: e tostochè la detta differenza scompare, la verità ha per ciò stesso cessato di esistere. Ma qui si può osservare: Si è riletto innanzi a proposito della realtà dell’Assoluto che a tale affermazione si è per intima necessità condotti dalla idea che noi abbiamo dell’Assoluto stesso, dalla conoscenza assoluta che in certo modo condiziona e rende possi. bile ogni altra forma di conoscenza e di verità finita quest'ultima sempre ipotetica e condiziona‘a rispetto a qualcosa di relativamente ignoto , ora, come è possìbile accordare insieme l'affermazione dell’esistenza della conoscenza assoluta con l’altra che la verità e. quindi la conoscenza è apparenza, perchè essenzialmente inconsistente e contradittoria? Il Bradley risponde che quando si parla di conoscenza assoluta non bisogna correre col pensiero ad una forma di conoscenza in cui si abbia la perfetta e completa compenetrazione del reale, l’ identificazione della verità colla realtà, ma bensì ad una forma di conoscenza vaga, indeterminata, potenziale o virtuale intorno al Tutto, che vale come incitamento alla conoscenza particolareggiata. Nella conoscenza del Reale preso nel suo insieme permane la differenza tra il predicato (verità o conoscenza) e il soggetto (Realtà), per modo che quello figura sempre come condizionato da quel qualcosa di più, che è nel soggetto e non nel predicato, Il tipo e l'essenza in altri termini non possono giammai raggiungere ed esaurire la realtà, giacchè l'essenza realizzata è troppo per essere semplice verità o conoscenza e l'essenza non realizzata o astratta è troppo poco per essere reale. Sicchò anche l’assoluta verità in fin dei conti da un certo punto di vista può essere considerata come erronea. Va notato però qui che la verità assoluta intesa nel modo anzidetto non è intellettualmente correggibile, giacchè essa può esser corretta e svolta soltanto trascendendo l’intelletto, nessuna alterazione di questo potendoci dare la realtà ultima. Può essere modificata solo tenendo conto di tutti gli altri aspetti dell'esperienza, con che la natura propria della verità viene a scomparire. La verità finita per contrario è sempre modificabile intellettualmente, potendo sempre essere estesa, armonizzata e completata mediante l’attività del pensiero; la verità finita insomma si può presentare come condizionata da un'altra verità d'ordine superiore. Anche il Bello va considerato a senso del Bradley come apparenza, in quanto esso racchiude del pari contradizione e quindi separazione od opposizione addirittura tra l’idea e l’esistenza, tra il what e il that . Considerando il bello per sè indipendentemente dalla relazione che esso necessariamente implica con un soggetto che lo contempla” noi troviamo che esso racchiude contradizione per questo, che mentre da una parte esige la piena concordanza e l'unificazione del contenuto col dato, dall’altra parte ciò riesce impossibile, trattandosi di un oggetto finito in cui i due aspetti del criterio della realtà l’armonia e l’estensione o la comprensività sempre divergono almeno parzialmente. Invero nel bello o l’espressione è imperfetta e inadequata, ovvero il contenuto espresso è troppo ristretto, troppo meschino; in entrambi i casi vi è differenza di armonizzazione o di comprensività, vi è discrepanza interiore e quindi un grado minore di realtà. Il contenuto del bello che già in quanto determinato da ciò che è al di fuori, non ha la sua ragione di essere in sè da un canto tende a trascendere la sua estrinsicazione attuale e dall’altro in questa stessa nel maggior numero dei casi non può non rivelarsi di molto inferiore alla Realtà. Ma il bello non può essere considerato indipendentemente dal soggetto che lo contempla, onde si può dire che è determinato da una qualità subbiettiva e quindi estrinseca ad esso. Dovendo essere rappresentata e dovendo insieme produrre un sentimento nel subbietto, la bellezza viene al essere caratterizzata internamente da ciò che è posto al di fuori. Ciò posto, come non parlare di apparenza quando la vita del bello implica una relazione estrinseca ? Vero è che la relazione può sparire col parziale o totale assorbimento dell’io senziente e percipiente, ma per codesta via la bellezza come tale viene a svanire. Passiamo al Buono È anche questo un'apparenza? Il Bradley non esita a rispondere di sì; anch'esso, infatti, come la verità, implica disgiunzione e quindi sforzo per unificare l’esistenza con l’idea ; con questa differenza che nella verità noi partiamo dall’esistenza per completarla idealmente, rendendola intelligibite, mentrechè nel buono noi cominciamo dall'avere un'idea di ciò che è bene e dipoi ci sforziamo di attuarla o di trovarle attuata nell'esistenza. Pertanto il buono come il vero implicano separazione del what dal that e un processo nel tempo. Le contradizioni presentate dal buono in genere e dalla moralità in ispecie sono numerose. Tra le altre meritano di essere ricordate le seguenti: 1° l'essenza del buono è riposta nella disgiunzione dell'idea dal fatto, disgiunzione che nel corso del tempo non scompare che per riapparire di nuovo; ed anzi giova notare che scomparendo essa definitivamente, non si avrebbe più il buono nel vero senso della parola. 2° Da una parte il buono appare atto a qualificare ciò che non è sè stesso, in quanto la bellezza, la verità, il piacere, le sensazioni possono tutte essere considerate come cose buone, ma dall'altra parte il buono non è tale da esaurire la natura della totalità delle cose, ciascuna delle. quali contiene qualcosa di proprio ; onde consegue che il buono non è nel Tutto e che il Tutto come tale non è buono. 3° Inteso il buono come la realizzazione della perfezione, e riposta quest’ultima nell’attuazione dell'armonia e insieme della comprensività di un sistema, sì presenta la questione se tra perfezionamento dell’individuo o affermazione dell'io e perfezionamento della Collettività o sacrificio dell'individuo che rappresenta solo una parte del Tutto non vi sia mai contradizione, nel qual caso è necessario determinare se il buono sia riposto nell’affermazione dell'individuo o nel suo sacrificio. 4° Tanto i fini puramente egoistici quanto quelli altruistici suno inconseguibili ; giacchè l'individuo per sè non può divenire centro di un sistema armonico e l’attuazione dell'ideale sociale non può avvenire in modo completo fin tanto che persiste l'affermazione del proprio io; e nel caso che l'individuo venga assorbito nel Tutto, non è lecito più parlare di Buono. | La moralità stessa considerata come l’identificazione del volere individuale coll’idea formatasi dall’individuo della propria pertezione implica contradizione; il volere individuale infatti è sempre determinato da qualcosa di estrinseco, è spesso relativo a contingenze naturali e dipendenti da fatti che non sono sotto il dominio dell'attività conoscitiva individuale; dal che cousegue che la moralità stessa è spinta a trascendere sè stessa in qualcos'altro che non è più moralità; questo qualcos'altro è la religione, per la quale tutto è espressione di una volontà suprema e per la quale quindi tutte le cose sono buone. Se non che dal punto di vista religioso l’io finito deve perfezionarsi, deve cioè conformare il volere individuale al Bene supremo; in caso contrario il male permane ed è qui riposta la contradizione della religione, ord’essa si rivela anche apparenza e non realtà. Il punto centrale della religione infatti, è la fede non meramente teoretica, ma pratica; per il che essa da una parte implica il credere puro e semplice e dall'altra l’operare come se non si credesse. La sua massima è: Esser certi della vittoria finale del Bene e nondimeno operare come se tale certezza non esistesse. Tale discrepanza interiore pervade tutto il campo della religione. Giacchè la religione è anche apparenza si può sperare salvezza nella Filosofia ? Se la religione fosse nient’ altro che una forma di conoscenza, la risposta non potrebbe ese sere che affermativa e per quel tanto che la religione contiene di conoscenza essa passa e in certo modo si'completa, consumandosi, nella filosofia, ma l'essenza delta religione non è riposta nella conoscenza come d’altra parte non è riposta nel puro sentimento, ma piuttosto nel tentativo di esprimere la realtà del Bene per mezzo deile varie forme del nostro essere. Da tal punto di vista I religione è qualcosa di diverso e di più elevato della filosofia. Del resto la filosofia avendo per obbietto le verità ultime, e la verità in qualsiasi forma essendo apparenza, essa non può non essere risguardata anche come apparenza, La sua debolezza è posta in ciò, che essendo un prodotto dell’attività intellettuale, non può non presentarsi quale manifestazione unilaterale e quindi inconsistente dell’Assoluto. La Realtà deve necessariamente soddisfare tutto il nostro essere; le nostre esigenze fondamentali in ordine alla conoscenza ed alla vita, in ordine al bello ed al buono devono in essa trovare il loro completo appagamento. Il che non può accadere che per via di una esperienza immediata e concreta nella quale tutti gli elementi dell'universo, sensazione, tono emozionale, pensiero e volere siano fusi in un sentimento comprensivo. E qui va notato che per gli esseri finiti è certamente impossibile sperimentare l'Assoluto : in altri termini è impossibile costruire la vita dell'’Assoluto nei suoi particolari, avere un'esperienza specifica della sua costituzione: ciò non esclude però che si possa avere una certa idea astratta e incompleta della sua natura. E le sorgenti di tale conoscenza sono: 1° Il sentimento in cui noi sperimentiamo un tutto complessivo che da una parte accenna a differenziamenti, mentrechè dall’altra non presenta relazioni e qualità nettamente distinte. É questa esperienza primitiva che per quanto imperfetta, è sempre valida a suggerirci l'idea generale di un'esperienza. totale e complessiva in cui pensiero, volere e sentimento siano fusi insieme da formare una cosa sola. 2. Le differenziazioni e le relazioni di qualunque specie siano, una volta sorte nella coscienza, mostrano la loro tendenza accentuata ad essere assorbite nell’Unità, nel Sistema. 3. Le idee del buoro, del bello ecc., menano per vie differenti al medesimo risultato, in quanto più o meno chiaramente implicano l’esperienza di un Tutto che trascenda le relazioni e le differenziazìioni. Con questi mezzi noi possiamo formarci l’idea cenerale di una intuizione assoluta în cui, eliminate le distinzioni fenomenali, il tutto si presenta in molo immediato e cenerale. In conclusione, Ja conoscenza reale e positiva dell’Assoluto è fondata tutta sull'esperienza psichica, una volta che questa venga estesa, armonizzata e completata. CITAZIONE DA SARLO IN INGLESE: “MY WAY OF CONTACT WITH REALITY IS THROUGH A LIMITED APERTURE, FOR I CANNOT GET AT IT DIRECTLY EXCEPT THROUGH THE FELT THIS, AND OUR IMMEDIATE INTERCHANGE AND TRANFLUENCE TAKES PLACE THROUGH ONE SMALL OPENING. EVERYTHING BEYOND, THOUGH NOT LESS REAL, IS AN EXPANSION OF THE COMMON ESSENCE WHICH WE FEEL BURNINGLY IN THIS ONE FOCUS. AND SO, IN THE END, TO KNOW THE UNIVERSE, WE MUST FALL BACK UPON OUR PERSONA EXPERIENCE AND SENSATION. – GRICE, -- BRADLEY, citato da Grice – Studies in the way of words --. Tali sono le ilee fondamentali emesse dal Bradley circa la Realtà e l'Assoluto, idee che sono ben lontane dal formare un vero sistema. Nel sottoporle ad un rapido esame critico nvi non scenderemo ad. analisi minuto e partico-, lareggiate, ma mireremo a determinare il valore e il significato dei punti salienti della dottrina, volgendo uno sguardo sintetico all'insieme, Cominciamo dal fissare quale è il punto di vista e quale il procedimento del filosofare del Bradley. Il filosofo inglese non ha preso le mosse nè dall'esperienza volgare, nè da quella propriamente scientifica, non è partito, cioè, da alcun ordine di fatti, ma sì è, per così dire, chiuso nel suo pensiero ed alla stregua delle leggi di questo ha giudicato delle idee fondamentali, ordinariamente ammesse dagli scienziati e dai filosofi. Egli non fa che passare a rassegna e sottoporre ad esame i punti di arrivo e di fermata dei suoi predecessori e dovunque riscontra contradizione, pronuncia la sentenza : Tuttociò è apparenza, non realtà. Parrebbe che egli prima di tutto dovesse approfondire la nozione di apparenza e quella di realtà, una volta che egli pone come base del suo filosofare la distinzione appunto dell'apparenza dalla realtà. Che cosa è l'apparenza? Qual'è la sua origine? Quali i suoi presupposti ? sono questioni che non possono essere trascurate da chi voglia filosofare sul serio. Dire semplicemente : tuttociò che non ‘è consistente o non si mantiene identico con sè stesso, tuttociò che si rivela contradittorio è apparenza, è dire pressochè nulla. Che tuttociò che racchiude contradizione non sia reale, non v'è chi possa metterlo in dubbio: ma da dir ciò ad affermare che il contradittorio implichi apparenza molto vi corre. Egli, è vero, ha affermato che l'apparenza è controdistinta da questo carattere, che la contradizione in essa esistente può essere risoluta in un ordine superiore e più elevato di esperienza, ma ognuno comprende che finchè non sì aggiunge altro, non vi è ragione di dichiararsi soddisfatti. Si può ad esempio domandare: È lecito parlare di apparenza quando non si ammette un soggetto a cui la Realtà appare e quando l’unica via per cui la Realtà stessa appare centro di sentimento, esperienza psichica ecc. è pur essa apparenza ? Il movimento, il cangiamento, lo spazio, il tempo, l'attività, l'io, la cosa ecc., si dice sono apparenze: ma qual'è la loro origine? Perchè ci appaiono con tali e tali altre proprietà ? Ognuno intende che finchè non si sarà dato ragione di ciò, nulla di positivo e di determinato è lecito affermare. E qui è bene notare che la più parte delle contradizioni riscontrate dal Bradley hanno la loro origine nel fatto che egli sostantiva i processi e le attività, nel fatto che reputa una cosa fissa rigida, ciò che, essendo continuo, incessante scorre. Ora ciò che è continuo non può essere misurato completamente che mediante il calcolo infinitesimale, e l' infinitesimo non essendo una quantità finita, non è possibile cogliere l'istante in cui le condizioni del presentarsi della contradizione veramente si verifichino, in cui cioè la dimostrazione per contradictionem sia sul serio applicabile. Così il movimento tra due punti dello spazio infinitamente prossimi avviene sempre nell’intervallo tra due momenti infinitamente prossimi, cioè mai il mobile è in due luoghi nello stesso tempo, mai in due tempi nello stesso Bradley presenta la Realtà come un sistema o inoltre pone come criterio per decidere del grado di realtà l’armonia, la comprensività, la consistenza reciproca delle parti componenti un tutto. È evidente che chi dice sistema, armonia, consistenza ecc. dice organismo e chi dice organismo dice relazione, interdipendenza degli elementi; ora l'Autore avendo affermato che la relazione è qualcosa d'inintelligibile, come mai può porre la stessa relazione quale criterio della realtà e intelligibilità e insieme presentare la realtà stessa come costituita da un insieme di relazioni? Le relazioni certamente implicano l’esistenza di un sistema: ma da ciò non si può dedurre che esse in genere siano qualcosa d’inintelligibilie. Il fatto è che il Bradley considerando a parte ed isolatamente ciascun concetto fondamentale (qualità, relazione ecc.), fa presto a riscontrarvi degli elementi contradittori. Tale procedimento è erroneo; i vari concetti vanno messi in connessione tra loro in modo da integrarsi a vicenda. Che cosa è la Realtà ? È l’esperienza, risponde il filosofo inglese. Di qui la necessità di domandare: E che cosa é luogo, ma sempre la serie dei punti e dei momenti si svolge con perfetta corrisponlenza nella continuità del movimento, Masci, Un metafisica anti-evoluzionista. Napoli. Lo stesso ragionamento può esser valido a dimostrare la falsità dell’affermazione che la causazione non esiste per questo che non è ammissibile nè un azione causale continua nè una discontinua, data la divisibilità infinita del tempo. E la difficoltà che l'Autore prova ad ammettere il continuo dipende dacchè non pone come punto di riferimento la coscienza in generale, Di ciò fu discusso disopra. l'esperienza ? Dall’insieme dell’opera del Bradley pare si possa ricavare che per lui l’esperienza è data dal complesso, dalla totalità della nostra vita psichica, prima che in questa sia sopravvenuta alcuna distinzione e differenziazione. Noi sentiamo di esistere, sentiamo di vivere; è in questo sentimento primitivo che è riposta l’esperienza immediata, la quale poi è l’unica via per cui noi possiamo penetrare nel Reale. Prima di ricercare quale concetto dobbiamo formarci di tale sentimento notiamo una contradizione in cui è caduto l’autore; mentre egli afferma recisamente che la Realtà si riduce all’esperienza psichica, alla sentience , non meno recisamente e ripetutamente afferma che tutti i fatti psichici non sono che apparenze, perchè tutti involgono separazione del what dal that, tutti tendono a trascendere sè stessi. Non dice egli che la Realtà si riduce all’unificazione e fusione dei vari fatti psichici, unità e fusione che noi non conosciamo e non possiamo neanche imaginare, data la trasformazione che subiscono i vari elementi mediante l'unificazione? Ora, come si può ad un tempo dire che la Realtà è l’esperienza ? (1) Se l’io empirico che è poi Ja medesima cosa dell'esperienza psichica presa nel suo insieme non è reale, come mai si può affermare che la Realtà è l’esperienza psichica ? Inoltre come sì può mettere d’accordo l’asserzione che il contenuto della Realtà è la sentient experience (sentimento) con l’altra che la Realtà risulti dalle attinenze, dalle relazioni che una cosa ha con le altre in modo che quanto maggiori son queste tanto maggiore è il grado di realtà attribuibile alla cosa stessa, chè in sostanza il criterio della realtà posto nell'armonia e nella comprensività (inclusivness, harmony), non dice altro? Il sentimento poi inteso come l’insieme della vita psichica in cuì nessuna distinzione sia comparsa di io © non io, di soggetto ed oggetto si presenta come qualcosa di così vago ed indeterminato di subbiettivo e di individuale , che non si riesce a comprendere come possa valere a fornirci una certa idea di ciò che sia la Realtà ultima, la Realtà, diremmo, ontologica. Esso già implica sempre il rapporto del soggetto con qualcosaltro, rapporto che è condizione essenziale della sua origine, comunque siffatto rapporto non sia avvertito come tale e insieme implica l’ esistenza di rappresentazioni, di imagini poste di rincontro o almeno distinte dal soggetto. Inteso quale cenestesi, vale a dire qualche risultato finale di una quantità di sensazioni organiche provenienti dai vari organi, ovvero infine come il grado infimo di psichicità, come sensazione e impulso iniziale ed elementare, non può mai essere presentato quale oggetto di esperienza atta ad esprimere la Realtà. A volte si direbbe che il Bradley prenda il sentimento come quel qualcosa che rende attuale un determinato contenuto psichico, ma, come tale, essendo qualcosa di eminentemente Notiamo qui come per il nostro Rosmini il sentimento proviene dal rapporto del principio senziente (che può essere considerato dal punto di vista del Bradley una sostanzializzazione del that ), col termine esteso che alla sua volta può essere considerato una sostanzializzazione del what . Per il Rosmini, si noti bene, il principio senziente e il termine esteso per sè considerati, separati l'uno dall'altro, erano astrazioni non altrimenti che il what e Îl that. Vedi. DE SaRLO : Le basi della Piscoloyia secondo Rosmini, Roma. subbiettivo ed individuale (individuum ineffabile) e avendo un contenuto particolare non può essere considerato quale simbolo di quella unità totale in cui il what coincide col that e in cui consiste la Realtà ultima ed obbiettiva. Da tal punto di vista il sentimento presenta tutte le contradizioni dell’esperienza sensibile. Non vi è via d'uscita: se si vuol considerare la Realtà come null'altro che la sentience, occorre considerare come reale l'io empirico quale si rivela per via del sentimento; occorre però sempre determinare e precisare la natura del sentimento. Notiamo qui che l’indeterminatezza del significato, la variabilità e contradittorietà del valore attribuito all’ io dipese sempre da ciò che si confuse l'io empirico fenomenico con la coscienza in generale (Io nonmenico, se così piace), e dacchè si credette di poter riporre la natura dell'io nell’ una o nell'altra funzione psichica, considerando le altre come secondarie e derivate; ora nulla di più erroneo e falso. Passiamo ora a discutere della natura della conoscenza a senso del Bradley. La conoscenza per lui non ha altro obbietto che quello di qualificare la Realtà (soggetto), il che si può soltanto conseguire, idealizzando la Realtà stessa, disgiungendo il what (predicato) dal that . L'ideale verso cui tende la conoscenza è di far coincidere l' idea col fatto: tale ideale però non viene mai attuato in modo completo : e se ciò avvenisse, non vi sarebbe più ragione di parlare nè di conoscenza nè di verità: avvenuta l’unificazione del what col that si avrebbe la vita vera e reale dell’Assoluto. La verità e la conoscenza in conseguenza di ciò non può essere che apparenza come tutto quello che involge separazione dell’ idea dall’ esistenza. E tutto lo svolgimento della conoscenza e della vita psichica sì compie partendo dall'unità imperfetta e incompleta del sentimento, procedendo per via delle distinzioni e differenziazioni del contenuto psichico che implicano una quantità di relazioni e tendendo infine alla scomparsa e trasformazione di queste ultime in un sistema organico ed armonico che tutto comprende in sè, tendendo ad una forma di intuizione e di vita universale di cui noi a mala pena possiamo formarci un'idea generale’ ed astratta. Da tal punto di vista gl’individui sono forme della vita universale che in essi si divide e insieme si concentra ner modo che non solamente possono apprendere a conoscere sè stessi, ma anche l’Universale e il Tutto che in essi vive, opera è si muove. E la funzione conoscitiva e cogitativa consiste nel qualificare, nel caratterizzare, nell’ analizzare il detto universale che si presenta nei centri del sentimento individuale. Ora, anzitutto non si riesce a comprendere in che cosa possa consistere lo stadio finale della conoscenza detto intuitivo, lo stadio in cui la conoscenza vera e propria sì annulla in qualcosa di superiore e di più elevato ; in ogni caso se ciò si verificasse, si avrebbe un regresso e non un progresso: il pensare discorsivo (il giudicare) lungi dal rappresentare un’imperfezione rappresenta la via, l’unica via per cui la Realtà acquista valore, consistenza e significato. L'unione del what col that non è che un prodotto della fantasia individuale. Oltre la conoscenza vera e propria non è possibile quindi ammettere uno stato superiore e più clevato. Si dovrà forse ammettere una doppia vita nel reale, la vita quale sì esplica nei centri di sentimento (vita del pensiero) ed un’altra vita d'ordine superiore? Ed una tale opinione come si concilia con l’altra che il Reale non è nulla al di fuori delle apparenze ? Poi, è assolutamente contrario al vero affermare che il progresso e lo svolgimento della conoscenza sia in rapporto diretto colla trasformazione del processo discorsivo e successivo in processo intuitivo ed - estratemporaneo. L'intuizione stessa infatti allora solo acquista l’ evidenza necessaria quando interviene l’attività del pensiero, per così dire, a scorrere dall'uno all’altro elemento della rappresentazione totale per compararli, misurandoli. L'essenza del pensiero e della conoscenza è riposta nella proprietà di stabilire rapporti tra le cose: tolti i rapporti non si avrà conoscenza, c nemmeno vita psichica, giacchè la psiculogia moderna ha messo in sodo che la legge della relatività è legge psichica fondamentale. E l'intuizione è soltanto la causa occasionale dell’ evidenza immediata, mentreché il vero fondamento di questa si trova nella natura collegatrice e comparativa del pensiero. Si direbbe che per il Bradley la conoscenza cominci coll’ analisi, collo scumporre il dato che vive in ciascun centro di esperienza individuale, ma è ammissibile ciò ? L'esistenza di questo dato non deve essere considerata già come un primo stadio di conoscenza ? Se si vuol rimanere sul terreno dei fatti che ci vengono suggeriti dalle accurate analisi psicologiche e gnoseologiche non vi ha dubbio alcuno che la conoscenza debba essere considerata come una specie di successiva sostituzione di una forma di coscienza ad un’altra forma di coscienza, di un contenuto psichico ad un altro contenuto psichico, di una forma di relazione tra soggetto ed oggetto ad un’altra forma: sostituzione che ha lo scopo di porre in luogo del subbiettivo, dell’individuale e del contradittorio, l’obbiettivo, l’universale, il coerente. La conoscenza in tanto è possibile in quanto il Reale assume una particolare esistenza nel soggetto individuale e da tal punto di vista è veramente lecito affermare che ogni conoscenza implica la separazione di un dato contenuto dalla propria esistenza: la sensazione, l’imagine, la rappresentazione ed anche l’idea o il concetto sono fatti psichici che non vanno identificati col fatto. D'altronle tutta la conoscenza non va forse riguardata come una costruzione fatta coi detti materiali o elementi psichici (sensazione, rappresentazione, concetto) ? La realtà in quanto conosciuta è successivamente e sempre più perfettamente sensazione, percezione, imagine, concetto, o per dirla altrimenti, qualità sensibile, cosa, essenza. L'elemento della conoscenza scientifica è il concetto : sapere scientificamente vale sapere per concetti: ma il concetto obbiettivo, il concetto reale e concreto è la verità della sensazione e percezione, e non vi è senza di queste. E ciò che dal nostro punto dì vista importa massimamente di ricordare è che la funzione relativista o di riferimento che compone i singoli elementi della serie non è diversa da quella che li connette poi nelle formazioni e processi logici e finalmente nei sistemi più vasti che sono le scienze: per modo che la conoscenza risulta omogenea nelle parti e nel tutto. Chiamare la conoscenza un'apparenza è per lo meno assurdo : se tale espressione può avere un senso, questo è che la conoscenza falsifichi in qualche modo la realtà; ma per poter affermare ciò prima di tutto bisognerebbe aver potuto apprendere per altra via la natura vera della realtà e di tale apprensione immediata non parlò mai Bradley, e poi conoscere l'apparenza come apparenza equivale a conoscere la verità; un'apparenza conosciuta come tale non è più apparenza. E una conoscenza che apprende la realtà può essere più chiamata ragionevolmente apparenza ? E come mai è concepibile una realtà sfornita di quella relazione essenzialissima che è la conoscenza, che è poi il riferimento ad una coscienza o ad un soggetto in genere ? Anzi come maisi può affermare una tale realtà? Separare assolutamente il vivere dal sapere di vivere è impossibile. La vita, la realtà implica una forma qualsiasi di interiorità e questa alla sua volta una forma di unificazione del molteplice che è la caratteristica ultima della conoscenza (processo di analisi e sintesi insieme). E che altro è questo se non il primo germe dell’ indissolubile legame che tien uniti la realtà, l’attività, l’interiorità e la conoscenza? In conclusione diremo che affermare che la conoscenza è semplice apparenza e che come tutte le apparenze, è manchevole, imperfetta, insufficiente, equivale a scindere Cfr. a tale proposito Masci, Lezioni di Filosofia teoretica fatte nella R. Università di Napoli. arbitrariamente la realtà in due parti ed a rendere incerta la conoscenza stessa dell’apparenza. Tutte le apparenze che formano come a dire la struttura dell’ universo, sono spiegate dal Bradley per mezzo del processo di disgiunzione dell'idea dal fatto, del what dal that corrispondente. Una volta che l'Assoluto si è scisso in una quantità di centri finiti di sentimento, il processo di disgiunzione si è andato sempre più estendendo e complicando fino a dare le forme di apparenze più svariate e notevoli, quali il Buono, il Vero, e il Bello Prima di vedere se il modo di concepire questi ultimi sia giusto, vediamo se il processo di disgiunzione del contenuto intelligibile dall’esistenza possa essere ammesso quale processo diremmo quasi, cosmico, giacchè la scissione stessa dello Assoluto nei detti centri di sentimento deve essere considerata come espressione dell’ inconsistenza iniziatasi in seno al Tutto. Il processo di distinzione e di differenziazione implica sempre questo, che il dato non coincide coll’idea. Se ciò non fosse, perchè la vita universale dovrebbe spezzarsi in forme individuali ? Il Bradley veramente non dà alcuna dilucidazione in ordine a tale questione, che pure è importantissima dal suo punto di vista. Il processo di idealizzazione o di disgiunzione del what dal that in tanto è concepibile in quanto sì compie in un centro finito di sentimento; come mai può dunque esso venir riguardato quale processo universale ed obbiettivo? È vero che l'Autore ammette un Pensiero, una Volontà, un Sentimento obbiet - tivo, elementi della Realtà ultima da differenziare profondamente dalle corrispondenti funzioni spirituali subbiettive quali appaiono nel tempo e nella serie dei fatti psichici, ma noi non possiamo formarci alcun concetto positivo di una Ragione vbbiettiva assoluta per sè presa è posta di. rincontro a noi; l’idea dello spirito obbiettivo e del suo svolgimento storico è giusta, ma ha valore scientifico solo rel caso che è intesa nel senso di esistenza e di processo storico, di processo civè che si compia nel tempo e nello spazio per mezzo dello spirito subbiettivo e individuale. Una delle contradizioni di Bradley è questa, che egli mentre considera la conoscenza come pura apparenza e toglie ogni realtà al soggetto, risguarda i fatti più importanti dell’esperienza psichica, quali è senso di spontaneità nelle sue varie forme, come qualcosa di derivato, come un prodotto della nostra riflessione. La nozione di attività, secondo Bradley, implica l’idea dell’ Io che riesce a produrre un cingiamento, previa la rappresentazione del detto mutamento ; il che poi non è possibile se non coll’ interpretare in modo largo molteplici esperienze passate. Sicchè non si può attribuire al senso d’energia maggior realtà che al senso del nutrimento nel caso in cui si provi sollievo, mediante l'opportuno cibo, dai dolori della fame (1). L’ori (1) Notiamo qui che la realtà non compete al senso di nutrimento, ma al senso della fame, come la realta primitiva o l'immediatezza non compete a ciò che consegue all’espansività, che è poi in fondo nient'altro che un’espressione dell’attività, ma al senso di espansività. In ogni caso il senso di sollievo prodotto dal nutrimento figura come indice dell’appagamento di un bisogno, di una tendenza, di una forma di attività che è quindi qualcosa di primitivo e di fondamentale. gine, infatti, del senso dell'attività è posta dall’Autore nel senso di espansione, di allargamento, per così dire, dell’ Io, il quale formato com'è di un gruppo di elementi intimamente connessi tra loro, tende ad estendere i suoi legami ad altri elementi. Non bisogna però credere che l’espansione sia identica alla coscienza dell’attività, giacchè è solamente dopo che l’anima ha raggiunto un grado notevole di sviluppo che si può avere tale coscienza, mentre l'espansione è primitiva. Quando dopo ripetute esperienze | siamo venuti a cognizione che a taluni modi del nostro Io conseguono dei mutamenti, noi allora cominciamo ad acquistare Ja nozione dell'attività o del volere. Insomma noi diciamo di essere attivi ogni qual volta il Non-Io (consistente in sensazioni esterne o interne, in percezioni o idee) subisce dei mutamenti in seguito all'idea ed al desiderio formato dall’Io. Tale espansione della nostra area, come dice il Bradley, comincia dal darci un certo senso interpretato come qualcosa che dall’ Io passi al NonIo; è ih questo qualcosa che propriamente consiste l’energia, la forza, la volontà, ecc. Il Bradley prosegue ancora l’analisi dicendo che quando il gruppo dell’ Io è come a dire contratto dal Non-Io, mentre dall’altra parte un’ idea piacevole di espansione è suggerita, si prova un senso di oppressione ; e quando ì limiti di resistenza ordinaria son mossi e l'espansione ideale, progredendo sempre, è attuata solo in parte con varie oscillazioni si prova quel senso speciale detto di tensione e di sforzo. È naturale che da tal punto di vista l’attenzione nelle varie sue forme non possa essere più considerata né come una facoltà speciale, nè come funzione particolare della mente avente sede in un dato organo cerebrale ; l’attenzione al pari della memoria e dell'intensità viene ad essere riguardata come una qualità generale appartenente in vario grado a tutti gli elementi psichici: anzi si può dire che l’attenzione e l'intensità vengano pressochè a formare una cosa sola. Date certe condizioni che facilitino il predominio di un fatto psichico nella coscienza (in ciò sta il carattere essenziale dell'attenzione), deve avvenire che taluni elementi sensorali o ideali divengano prominenti ed emergenti rispetto al resto, e per ciò stesso appaia indebolita l’ intensità degli altri. Il Bradley poi non attribuisce un valore essenziale al fattore muscolare, prima perchè in molti casi in cui ha luogo l’attenzione quello è escluso, poi perchè anche quando è chiamata in esercizio l’attività muscolare o direttamente sopra un organo percipiente, ovvero indirettamente col movimento di tutto il corpo, la prima causa dell’azione muscolare va cercata in un’ idea o in un sentimento precedente. È l’idea, e più di tutto l'idea dell’ interesse che si può avere per un dato fatto psichico, che ci dà la chiave per intendere il meccanismo dell'attenzione dalla forma più semplice alla più complicata. E la coscienza dell’energia interiore è perfettamente riducibile al predominio nella coscienza dell'idea dell’ Io che attendè ad una data cosa. Che giudizio si può portare su tale veduta del Bradley? Certamente essa ha grande valore in quanto prova a sufficienza che l’attività psichica non va intesa come correlativo, per così dire, necessario dell’ attività motrice. Il Bain, il Miinsterberg ed altri avevano asserito che senza le sensazioni muscolari o almeno senza le sensazioni d’innervazione motrice lo spirito è incapace di sentirsi in alcun modo attivo ; per loro quindi la forza, l'energia psichica, base dell'individualità, non poteva avere che una sola origine, il movimento; il fatto interiore dell’attività era considerato come un semplice reflesso di un fenomeno esterno, quale è la mozione. Ora da tal punto di vista l’analisi psicologica del Bradley è stata utile, perchè ha mostrato che tutti i processi intellettuali sono per sè attivi, e, date certe condizioni, tutti indistintamente sono in grado di svolgere energia sotto le forme più differenti. Non soltanto nella forma in cui si rivela attivo alla coscienza, ma in molteplici altre forme lo spirito è causa agente. Cade così l’ ipotesi di un organo speciale dell’attenzione, o dell'attività psichica in genere: allo stesso modo che non vi è un organo particolare della vita, così non vi può essere un organo particolare dell'attività nelle varie sue modalità (sforzo, attenzione, volontà ecc.). L'attività psichica a dati stimoli e in determinate condizioni reagisce in vari modi e secondo che la percezione immediata di talo reazione si fonde con uno o coll’altro degli effetti che vengono prodotti nell'organismo (sensazione muscolare, p. cs.), assumerà un colore particolare. L'errore degli analizzatori superficiali fu quello di credere che i fatti organici, i quali servono in certo modo a fissare, a determinare e a dare un nome alle formé dell’attività psichica, costituissero il fatto essenziale ed ultimo. Il Bradley infatti mostrò che l’attenzione può assumere varie forme, da quella in cui si ha coscienza di un dispiegamento notevole di attività a quella in cui non se. ne ha alcuna coscienza; eppure l’attività psichica esiste sempre, ed è imprescindibile in tutte le funzioni mentali. Se non che due sono, secondo noi, i difetti dell’analisi del Bradley. Da una parte egli parla di idee e di rappresentazioni che possono avere il predominio nella coscienza, parla dell'interesse che si può avere per un dato obbietto o per una data operazione, parla della tendenza espansiva, ecc., senza porsi mai il problema se e fino a che punto tutto ciò sia compatibile col non ammettere la realtà del soggetto : egli infatti parla dell’ Io come di un composto, di un aggregato di elementi psichici; ora un tale concetto contradice necessariamente al concetto dell’ espansività come fondamento del sentimento : giacchè in forza di che ed a quale scopo quel gruppo di elementi psichici formanti l'Io tende ad espandersi ? E l’attività delle idee e delle rappresentazioni per cui esse emergono nella coscienza donde vien loro? E senza l’unità del soggetto come è spiegabile l'interesse che pure forma il caposaldo della teoria del Bradley? E qual'è il fondamento del legame esistente tra i vari fatti psichici? Non suppone forse agni nesso ed ogni rapporto un'unità ed identità fondamentale? Non basta ancora: egli ammette che si possa avere l’idea di un'idea in quanto l’idea pura e semplice di una cosa riguarda il suo contenuto logico, mentre l’idea d'una idea consiste in uno stato psichico che include un'altra esìstenza psichica attuale. Ora come mai sarebbe possibile un tal fenemeno senza la realtà ed attività od efficacia del soggetto capace di riflettere sul!e stesse sue operazioni e capace di rimanere identico a sè stesso attraverso: } cangiamenti Dall'altra parte il Bradley cade in errore quando tenta di ridurre l’origine del senso di attività ad un fatto meramente derivativo prodotto per mezzo dell’ interpretazione di esperienze passate, presentando così il senso di energia come un’appercezione del tutto illusoria. Niente di più falso. La percezione interna per cui noi giungiamo a cognizione di ciò che accade dentro di noi può avere un doppio senso, a seconda che noi vogliamo intendere con essa l’esperienza immediata, ovvero la riflessione su ciò che è offerto da quella. Dobbiamo distinguere per così dire il vivere dal sapere di vivere. L'esperienza immediata è la vera sorgente di tutti i dati di fatto, mentre la riflessione rappresenta il mezzo di generalizzare, riconoscendole, le no stre esperienze; e supponendo che nel corso dello sviluppo mentale siano state formate nozioni e parole per i singoli stati interni, la percezione interna intesa nel secondo modo, cioè come riflessione, consisterà nella sussunzione di un determinato fatto psichico sotto la nozione ad esso spettante; sussunzione che può esplicarsi in un giudizio vero e proprio, ma per lo più si riduce ad una semplice denominazione. La riflessione in ogni caso non può mutare il dato di fatto dell’esistenza di un fenomeno. Donde consegue che quando noi, mediante la riflessione, diamo un nome od anche giudichiamo un fatto immediato della coscienza, il quale offre dei caratteri distintivi da non poter essere confuso con altre sensazioni o sentimenti, noi non possiamo aggiungere nulla di nuovo. Il riflettere insomma non può creare nulla e quindi non può darci un sentimento quale fatto immediato della coscienza, ma solo può dare un nome e mettere in forma di proposizione ciò che già esisteva. nel co Ed in ciò sta la differenza tra l’esperienza immediata d e l’analisi, giacchè la prima ci mette in contatto con la realtà, mentre la seconda verte sulla scomposizione del fatto reale nei suoi vari elementi. Alla genesi del senso di i attività, concorrono, è vero, parecchi elementi, ma questi sE producono un qualcosa che si rivela alla coscienza in modo I semplice, immediato ed irreducibile; e, ciò che più imi porta, non è la ricognizione dei detti elementi quella che Ì ci fa provare il senso di attività: la riflessione o ricogni a zione è posteriore all’ insorgenza del fatto immediato della coscienza. Del resto si comprende agevolmente che tutte le interpretazioni, tutti i ragionamenti e tutte le riflessioni fatte sopra i dati psichici non potrebbero mai dare origine a nuovi dati. Pensare sopra le modalità dell’attività presuppone già la percezione immediata dell’attività stessa. Del resto il Bradley stesso, pur servendosi di altri nomi, non solo parla della coscienza e dell’io come di un'’attività, ma anche di un'attività che si propone dei fini e sceglie i mezzi per giungervi, di un'attività che può trovarsi in lotta con altre forze psichiche e resistervi e farle anzi concorrere al proprio intento. Nè poteva essere diversamente: la recettività e la reattività nella psiche non sono due fatti distinti, i quali possano venire studiati l'uno in disparte dall’altro, giacchè essi concorrono ad una sola operazione, per modo che l'uno rende valido l'altro, il quale da sè sarebbe nullo. Non si può concepire una forma qualsiasi di Attività, e sia anche l’espansività bradleyana, che non implichi un grado di coscienza: è parimenti la coscienza riesce impensabile separata dall'attività. Va notato infine che la percezione immediata si distingue dalla pura rappresentazione, da quella che potrebbe esser chiamata percezione mediata, derivata, reflessa per questo che la prima è più che semplice rappresentazione, è sopratutto sentimento derivante dalla cooperazione di tutto l'essere fisico e psichico: ora chi può negare che la percezione dell'attività lungi dal presentarsi coi caratteri di una semplice ilea o rappresentazione, di un contenuto distaccato dalla matrice reale, è invece in modo precipuo sentimento ? Dicemmo già disopra che il Vero, il Buono ed il Bello per il Bradley non sono che apparenze, le quali se accennano alla Realtà, non sono la Realtà. A noi sembra che tutto il ragionamento dell'autore poggi su presupposti falsi. Così egli muove dal principio che l'ideale verso cui tende la conoscenza è l’identificazione e l’uniticazione del pensiero con l'essere, ideale che, se raggiunto, mena dritto all'annientamento della conoscenza e quindi della verità stessa, giacchè in tal caso si avrà la Vita, il Reale, non più la scienza della Vita e del Reale, in altri termini sì vivrà il Reale e null'altro. In tal guisa la conoscenza è essenzialmente contradittoria : da una parte essa non è possibile che sotto la condizione che vi sia distinzione e differenziazione nella realtà (pensiero ed' essere) e dall’altra parte il suo svolgimento e la sua perfezione è riposta tutta nel togliere via qualsiasi distinzione e differenziazione, è riposta, cioè, nel suo annientamento. Ora è evidente che l’errore del Bradley è nell’aver creduto che la conoscenza miri all’ identificazione ed all’ unificazione completa del pensiero con l’ essere, mentre essa ha per intento di trasformare il contenuto subbiettivo e individuale della coscienza in contenuto obbiettivo ed universale; intento che può essere ottenuto non già annullando il fat-. tore della coscienza come dovrebbe avvenire se, giusta le idee del Bradley, l’ideale ultimo della conoscenza fosse l'identificazione e l'unificazione completa del pensiero con: l'essere, ma sostituendo, anzi aggiungendo al semplice ed esclusivo punto di vista della coscienza individuale il punto di vista della coscienza in genere. In tal guisa il fattore della coscienza persiste sempre, tanto è ciò vero che a misura che la conoscenza progredisce l’ individuo acquista coscienza della propria cooperazione all'edificio della verità. L'ideale verso cui tende la conoscenza adunque non è l'assorbimento di uno dei termini nell'altro, ma, diremo così, la maggior visione dell'uno per mezzo del predominio dell'altro. Il fatto è che io acquisto più coscienza di me stesso come essere finito, subbiettivo, individuale, quanto più mi pongo a considerare le cose dal punto di vista obbiettivo ed universale. La coscienza individuale quando guarda con l’occhio della coscienza universale non cessa di essere individuale, non si annulla nella coscienza universale. D'altronde la stessa coscienza universale non è fuori la coscienza individuale, ma concresce con questa non altrimenti che la vita generale di un qualsiasi essere organico cresce col crescere delle singole funzioni del medesimo essere. Il processo della conoscenza, a noi sembra, si compie proprio in senso inverso a quello indicato DAL FILOSOFO INGLESE – Grice: ‘inglese? I’d say, “dal filosofo oxoniense!” --: il punto di partenza infatti è il contenuto rappresentativo o percettivo primitivo in cui l’imagine psichica è identificata con l'oggetto, anzi è presa per la sola realtà, in cui insomma non vi ha distinzione fra oggetto e rappresentazione subbiettiva e si procede ponendo sempre più la realtà universale ed obbiettiva di fronte alla vita psichica subbiettiva ed individuale: ed a misura che l’edificio della realtà vien completato diviene più viva la coscienza dell'attività individuale. Ed invero chi, se non l’intelligenza dei singoli soggetti rende possibile la detta costruzione? È sempre l’individuo che opera anche universalizzandosi. E la mente umana lungi dal tendere a confondere insieme i due processi, il subbiettivo l’obbiettivo, l' indi. viduale e l’universale, tiene a tenerli distinti e distaccati: La conoscenza certamente implica una parziale identità del pensiero e dell'essere (del subbietto e dell’obbietto), ma insieme una parziale distinzione; nò ciò è in alcun modo contradittorio, giacchè l’ identità e la differenza sono condizioni della possibilità della conoscenza; non già condizioni contradittorie una della possibilità, l’altra dell'impossibilità. Se si bada che la conoscenza non s'intende per nulla se si prende come una mera rivelazione estrinseca, come una relazione meccanica (ed è questo l’errore principale, a noi pare, della filosofia del Lotze, il quale subordinò la relazione della conoscenza al rapporto causale) sì acquista la convinzione che la rivelazione della realtà alla coscienza, per essere soggettiva ed interna, non è meno oggettiva e vera. Dal fatto che la conoscenza implica due termini non deriva nient’affatto adunque che essa sia apparenza: tutt'altro: piuttosto la Realtà una, identica, immutabile che, secondo l’autore, dovrebbe assorbire tutte le apparenze, trasformandole, si presenta quale creazione della fantasia senza alcuna consistenza. Lo svolgimento e il progresso della conoscenza nun è nient'affatto in rapporto diretto della riduzione di uno dei fattori della conoscenza all’altro, essendo entrambi indispensabili, irriducibili o aventi uffici differenti. Nè si può imaginare o concepire cosa mai risulterebbe dall’ unificazione e identità totale dei due termini della conoscenza: il Bradley crede che ne risulterebbe la Realtà ultima: potrà essere: ma in tal caso bisogna dire che questa non solo è assolutamente inconoscibile, ma inconcepibile. Con che diritto adunque parla egli dell’Assoluto? La Realtà ultima si presenta come un grado inferiore di realtà, come qualchecosa sfornita per sè di valore e significato che le può venire solo da ciò che viceversa viene considerato come apparenza. Passiamo al Buono: anche questo, stando al Bradley, è apparenza e per ragioni affini a quelle per cui sono tali la verità e la conoscenza. Il Buono da una parte è condizionato dal distacco dell’ilea (che in tal caso riceve il nome d' ideale) dal reale, dal fatto, da ciò che esiste, e dall’altra ha l'obbiettivo di attuare l'ideale, di tramutare l’idea in fatto, vale a dire di annientare sè stesso. Ma oltre di questa il Buono implica una quantità di altre contradizioni dipendenti dalle sue varie determinazioni: così per quanti sforzi si facciano, il perfezionamento individuale non può sempre coincidere col bene della collettività, come d'altra parte il maggior perfezionamento dell'ordinamento sociale trarrà sempre seco degli svantaggi per l'individuo: la divisione del lavoro, per citarne uno, produce lo svolgimento parziale ed unilaterale delle facoltà umane: e via di seguito. Qui faremo due osservazioni: Bradley è spinto a considerare il buono come apparenza dal presupposto che la realtà sia solo da riporre nell'attuazione completa dell'ideale, attuazione che figura come l'annullamento del buono: ora ciò è falso, giacchè la realtà consiste iuvece nel processo continuo che tende all'attuazione di un ideale, senza che questo sia mai attuato completamente per la ragione che esso non essendo qualcosa di fisso, di s'abile e di permanente, assume sempre nuove forme, si eleva e si complica sempre dippiù. A misura che l’uomo s'avvicina ad un dato ideale, questo, trasformandosi e perfezionandosi, s' allontana ancora. E la realtà lungi dall'essere posta nell’attuazione completa dell'ideale che è irraggiungibile, risiede in tutto il processo : in caso contrario bisognerebbe confessare che la realtà è come se non esistesse. La vita è nel movimento, nel processo e non nell’equilibrio stabile che invece è la morte. La religione e anche l’arte cercano di dare una forma e di personificare l’illeale, ma tuttociò non entra nella considerazione del Buono dal punto di vista metafisico. Bradley considera il buuno preso per sè, astraendo dal fattore della coscienza in cui e per cui esiste. E certamente il Buono risguardato come una cosa invece che come un processo inerente all'anima umana cume tale, non può non apparire contradittorio. Non è il buono che tende all'annullemento li sè stesso, ma è lo spirito umano che ha tra le altre funzioni quella (che sostantivata costituisce il Buono) di proporsi incessantemente dei fini alla cui attuazione esso si adopera, è lo spirito umano che ha delle tendenze ed esigenze al cui soddisfacimento si affatica. E nessuno vorrà sostenere che nell’operare in tal guisa l’anima umana si contradica, ovvero tenda ad annullare sè stessa. È naturale invece che essa aspiri ad annullare, mediante l’appagamento, i suoi bisogni, che sono indizio di imperfezione e di manchevolezza. Se i detti bisogni rinascono sempresotto novelle forme, ciò avviene perchè la realtà vera non è in qualcosa di dato, ma nel farsi. Per quel che concerne l’ apparente contradizione e l'impossibilità apparente di derivare il bene individuale dal bene sociale e questo da quello, noteremo che tra le specie di cause c'è anche la causa reciproca, la quale è ammissibile purchè sia ben definita. La detta causa (che si riscontra in tuttociò che è organicamente costituito) non consiste in due cause di cui una produce l’altra ad ogni istante, ma di cui ciascuna ad ogni istante produce un effetto della specie della prima e così via. Così un perfezionamento nel sistema circolatorio può produrne uno in quello della respirazione e viceversa. Tra società e individuo esiste appunto un rapporto causale reciproco in quanto il perfezionamento individuale è condizionato da quello sociale e viceversa: i due si limitano, sì determinano a vicenda senza che a nessuno di essi possa essere attribuito un valore non diciamo assoluto, ma neanche preponderante. E lo sbaglio del Bradley è quello di aver pensato che potesse considerare un elemento facendo astrazione dall’ altro, dal che conseguì che egli trovò contradizioni dappertutto. La moralità poi presenta una natura contradittoria precipuamente per questo che essa è condizionata da qualcosa che non può csistere: tale è appunto la determinazione interna della volontà. Questa separata da qualunque elemento estrinseco è una pura astrazione : di qui la necessità nella moralità di trascendere sè stessa, passando in qualcos'altro che non è più moralità: questo qualcos'altro è per il Bradley la Religione, ove domina la fede che tutto sia ed accada come deve essere ed accadere. Ci asteniamo dal discutere se questi passaggi da una sfera di apparenze in un'altra siano comprensibili e se abbiano alcun significato, essendo passaggi verbali anzichè reali. Il nostro filosofo vede un complemento della moralità vera e propria nientemeno che nella rassegnazione fatalistica, la quale implica la separazione del volere dalla natura e l'affermazione che il volere stesso non può esercitare alcuna azione e produrre alcun effetto. Ognuno vede che in tal guisa il volere umano viene ad essere completamente snaturato, perchè viene ad esser distaccato dall'ordinamento sistematico delle cose. Ora non abbiamo bisogno di spendere molte parole per provare l'assurdità di una tale opinione e per mostrare le tristissime conseguenze che ne derivano: non solo non è lecito parlare in tal caso di progresso, di sviluppo e di perfezionamento, ma la storia stessa diviene un non senso. Tutta l’esperienza contradice ad una tale veduta. Dal fatto che il liberum arbitrium indifferentie è inammissibile non consegue l'annullamento dell’attività umana e di quell’energia personale che è un potente fattore di vita e di movimento nel mondo umano. La contradizione che Bradley trova nell'intima natura della religione si può eliminare con molta facilità ‘se si pensa che l'aver fede nel trionfo del bene non trae seco come logica conseguenza la paralisi della propria volontà, di ogni iniziativa individuale, l’annientamento di quella spontaneità che è la radice della personalità. Il trionfo finale del bene non è una quantità definita, fissa che, una volta ammessa, non è suscettibile di aumento, ma è invece una variabile che può sempre comportare l’azione di un nuovo fattore. Il trionfo del bene può essere assicurato per mezzo della cooperazione degli altri uomini; ma ciò forse trae seco l’inutilità della mia cooperazione? La coscienza della mia dignità non mi spingerà a concorrere al risultato finale? Perchè l'individuo dovrebbe forzare la volontà all’inazione e quindi all’annientamento? Anche qui il difetto appare nell’aver distaccato il volere dalla natura e nell’averlo riconosciuto incapace di produrre effetti. Quanto al Bello va notato che l'oggetto estetico considerato per sè indubbiamente è un'apparenza in quanto la sua essenza è riposta nella rappresentazione concreta e determinata di un’idea, ma un’apparenza che è avvertita, I, per ciò stesso l’apprensione della realtà? Considerato però l'oggetto bello sentita e riconosciuta come tale non inclu ed il soggetto senziente come parti di un tutto, come elementi di un unico processo, il fatto estetico non è più un’ apparenza, ma qualcosa di reale e di altamente reale. La realtà dell’arte e della bellezza così considerata va riposta appunto nel processo suggestivo o significativo che si voglia dire, per cui una data percezione o rappresentazione è il punto di partenza dello svolgimento di un corso di fatti psichici atti a riempire ed a rapire l'animo di chi contempla. La sproporzione tra l’' espressione e il suo contenuto lungi dall’essere un difetto da cui il Bello aspiri a liberarsi, forma la sua sostanza. Il Bello ha raggiunto il grado completo e perfetto di realtà quando una data espressione (parvenza), suggerendo un certo contenuto ideale, agisce in modo particolare sull’animo umano: onde consegue che non vi può essere tendenza a fare sparire o a trasformare in maniera più o meno completa quei rapporti e quei termini che costituiscono l’essenza del bello considerato come un tutto 0 come un processo sottoposto a parecchie condizioni variabili entro certi limiti di grado, ma non di natura o di qualità. Come non esiste un Vero e un Bene obbiettivo, così non è a parlare di un Bello obbiettivo: ed anzi possiamo aggiungere che tali espressioni non hanno nemmeno senso, L'errore del Bra:lley sta tutto nell’aver creduto di poter considerare per sè, sostantivandoli, il vero, il buono e il bello separatamente dal soggetto: quale meraviglia quindi se dopo aver ridotto le astrazioni ad ipostasi, s'è accorto che queste contengono numerose contradizioni? Sicuro; il Vero, il Buono, il Bello come sono costruiti dal filosofo inglese sono null'altro che apparenze, perchè sono astrazioni. Ed egli in fin dei conti non sa trarsi d’impaccio se non dicendo che le dette apparenze tendono a trascendere sè stesse, trasformandosi, completandosi, perfezionandosi e passando in qualcosaltro che è la Realtà ultima. Se non che questa non soltanto è un prodotto della fantasia, è una chimera, ma è essenzialmente contradittoria : infatti una. Realtà da cui viene esclusa la conoscenza, la tendenza a. porsi sempre dinanzi un ideale da raggiungere e la proprietà di sentirsi riempita l’anima da una rappresentazione concreta, atta a suggerire un processo ideale, una Realtà da cui è escluso ogni moto ed ogni vita, ogni esigenza di qualcosaltro, una Realtà che è pura immobilità e invariabilità, lungi dall’apparite allo spirito umano come la più alta e quindi come la Realtà ultima, si presenta come un grado infimo di realtà, se per giudicare di questa occorre fondarsi sul valore e sull’azione che è atta ad esercitare. Quello che ha valore è l’esistenza spirituale e il mondo che essa crea. Un mondo senza coscienza è come se non vi fosse (Lotze). La Realtà caratterizzata da ciò che dal comune degli uomini è riguardato come meno reale : ecco l’ultima espressione della filosofia del Bradley, il cui obbiettivo doveva esser quello di rimuovere le contradizioni di cui formicola il mondo delle apparenze. La Filosofia bradleyana in sostanza ha comune col naturalismo l’errore di considerare la vita dello spirito subbiettivo quale si presenta nella storia e nell’ esperienza umana, come un fenomeno secondario e passeggero. Così noi vediamo che la filosofia del Bradley, il quale finisce la sua opera con le seguenti parole: Outside of spirit there îs not, and there cannot be, any reality, and, the more that anything îs spiritual, so much the more is veritably real, portata alle sue ultime conseguenze e interpretata in modo completo mena alla negazione del soggetto e quindi dello spirito, dello spirito umano almeno che è quello chie noi conosciamo e che possiamo apprezzare. E la Realtà che doveva essere one experience, selfperviding and superior to mere relations, si mostra come trascendente ogni esperienza e quindi come una costruzione arbitraria e puramente fantastica. Una Metafisica che come questa del Bradley presenta molteplici elementi fusi insieme pone necessariamente l'e». sigenza della ricerca delle fonti. Notiamo anzitutto che le idee del filosofo inglese non si connettono con quelle della filosofia inglese tradizionale, la quale nelle sue indagini psicologiche e gnoseologiche segue un metodo prevalentemente empirico. La filosofia di Bradley è una emanazione diretta della speculazione tedesca svoltasi segnatamente nella prima metà di questo secolo. Se noi volessimo fare un'analisi minuta e. particolareggiata delle vedute bradleyane in rapporto alla loro origine potremmo agevolmente mostrare come lo studio di ciascun filosofo tedesco abbia lasciato delle tracce nella mente del nostro autore: così il suo concetto di riporre il fondamento e la caratteristica delle apparenze nella disgiunzione del what dal that ricorda evidentemente il corrispondente concetto dell’Hartmann per cui il distacco dell'idea dalla volontà segna l’ origine della fenomenologia dell’ Incosciente e insieme la condizione dello svolgimento della Coscienza ; il modo di considerare la realtà della natura ricorda evidentemente la concezione del Lotze per cui la conoscenza o la rappresentazione dell'universo non è un'aggiunta accessoria all'esistenza indipendente di esso, onde la luce e il suono lungi dall'essere copie delle ondulazioni e delle vibrazioni da cui derivano o dall’ essere pure parvenze o inganni o qualcosa di secondario e di sopraggiunto sono il fine che la natura si è proposta di conseguire coi movimenti e che non può conseguire da sola, ma mediante l’azione sua sopra esseri sensibili. Da tal punto di vista la magnificenza e la bellezza dei colori e dei suoni, la molteplicità e l’intensità delle emozioni suscitate dalla natura nell’ anima di chi la contempla sono il fine della sensibilità nel mondo. Racimolando qua e là potrei moltiplicare gli esempi atti a provare che lo spirito del Bradley si è, per così dire, modellato tutto sui grandi maestri della Metafisica alemanna: ma il mio compito è quello di ricercare piuttosto quali siano le fonti primarie e dirette del sistema, se così vogliamo chiamarlo, del nostro autore. Ora queste a me pare si riducano alle due correnti della filosofia dell’identità e della filosofia herbartiana : ho detto della filosofia dell’ identità e non dell'hegelismo, come a prima vista si potrebbe esser tratti a credere, giacchè egli pur avendo tratto molto del suo nutrimento vitale dal sistema dell’Assoluto hegeliano, ha cercato di porre insieme, se non di combinare e fondere in un tutto armonico, le vedute di Fichte, di Schelling e di Hegel, in quanto la Realtà per lui non è solamente pensiero, ma l’ unità del pensiero e dell’ altro (the Olher) l'identità del soggetto e dell'oggetto, del sapere e del volere (Fichte), della coscienza e dell’ inconscio, dello spirito e della natura (Schelling). Noi ci crediamo quindi autcrizzati ad affermare che le idee del Bradley sono state attinte dalla filosofia dell’identità in ordine ai seguenti punti: il passaggio o la trascendenza di un'idea in un'altra, di un grado di realtà in un grado più elevato fino a giungere alla Realtà assoluta, la cui vita armonica e comprensiva è considerata come una specie di esperienza intuitiva, di cui a mala pena possiamo formarci un'idea astratta e indeterminata; 2° la credenza nella più perfetta razionalità delle cose e quindi nell’ottimismo più completo per cui tutte le contradizioni che si presentano nel mondo delle apparenze quali 1’ esistenza del male, del brutto, dell'errore, dell’accidente vengono considerati come momenti transitori della Realtà, anzi, diremo meglio, come illusioni, le quali in un grado più elevato di esperienza scompaiono, perchè vengono radicalmente armonizzate col sistema totale ; il concetto che tutto, anche ciò che sembra più falso ed erroneo, possa avere un certo grado di realtà, che insomma tuttociò che è' possibile sia fino ad un certo punto reale; la concezione dello svolgimento della vita psichica come di una successiva posizione di limiti da parte dell'io, di una successiva e inin. terrotta trasformazione dell'io in non-io ; 5° il disperdimento della vita universale in una quantità di centri di esperienza | psichica limitati spazialmente e temporalmente per cui è resa possibile l’esistenza psichica subbiettiva o cosciente. Ma abbiamo detto che la filosofia del Bradley non è una derivazione pura e semplice della filosofia dell’ identità, ma bensì della fusione di questa colla filosofia herbartiana. Infatti se si pensa che il motivo del filosofare per l’Herbart è l'eliminazione delle contradizioni presentate dal pensare comune e che per lui il compito della filosofia sta nel passare dall’apparire all'essere e nell’intendere le ragioni ‘così della differenza come della relazione che passa tra l'uno e l’altro, nel ritrovar l'essere nello apparire e nel vedere perchè apparisca in quel modo; se si pensa che a senso del medesimo filosofo tedesco, la guida, la base e la norma essenziale per poter filosofare con vantaggio è fornita dal principio di contradizione, e che le apparenze contradittorie, le quali più richiamarono l’attenzione dell’ Herbart furono appunto lo spazio e il tempo, l'inerenza o la cosa e le sue proprietà, la causalità e il cangiamento, l'io e la relazione; se si pensa che per lo stesso filosofo il reale va risoluto in relazioni fisse, riducendosi l’accadere apparente ad effetto di prospettiva, non sì può non convenire che il sistema herbartiano non meno della filosofia dell'identità hanno determinato le concezioni metafisiche del filosofo inglese da noi studiato. Questi prese da Herbart il criterio per giudicare della realtà (principio di contradizione) e il concetto dell’immutabilità e inalterabilità dell’essere, mentre dall’'idealismo. assoluto prese il concetto dell'unità armonica e comprensiva, il concetto del sistema totale delle cose. Herbart, infatti, mirava a intendere ed a spiegare il singolare, l’in- dividuo e di qui il suo pluralismo delle sostanze, mentre l’'idealismo assoluto aveva per intento sopratutto d' intendere l’unità, il sistema, la finalità. Ora si domanda: La fusione compiuta dal Bradley in che modo propriamente avvenne? Perchè avvenne così e non diversamente ? É una fusione razionale ? Egli, appropriatosi il metodo dell’Herbart, non potè non giungere alla conclusione che l’ essere doveva essere inalterabile ed immutabile, ma d’ altra parte i concetti della zufallige Ansicht, il metodo delle relazioni, la ‘ perturbazione e la conservazione degli enti, il loro essere insieme, le loro mutevoli relazioni, il loro luogo nello spazio intelligibile rivelandoglisi idee oscure, inintelligibili e spesso contradittorie, lo spinsero verso l’Universale. Una delle analisi più accurate del Bradley fu infatti quella concer-. nente la qualità e la relazione per mostrare che esse si implicano a vicenda, ciascuna intendendosi soltanta per . mezzo dell’ altra. Respinti così come mere apparenze il pluralismo delle sostanze, le qualità semplici, il metodo delle relazioni, ecc., pose la realtà in un sistema individuale, in una specie di unità che tutte le apparenze comprende, ar- monizzandole e coordinandole tra loro. Una volta che le relazioni non sono delle essenze intermedie, nò vedute accidentali, riferimenti ausiliari che non importino punto alla natura della cosa, bisogna pensarle come stati delle cose stesse ed ogni cangiamento di relazioni come cangiamento di stati interni, ma perchè ciò sia possibile occorre che le cose siano concepite come modi o parti di un’unica essenza, di una sostanza ‘infinita; giacchè così ogni causalità non è causalità in altro, ma in sè stesso (Lotze). Il pensiero del Bradley determinatosi per così dire in contrapposizione al concetto dell'evoluzione ed alla ten- denza propria della scienza contemporanea a voler tutto ridurre a divenire senza fermare in alcun modo l’atten- zione su ciò che diviene e perchè diviene, e modellatosi d'altra parte sulle obbiezioni volte dalla critica herbartiana al concetto del mutamento e all’ assoluto predominio della categoria della causalità, non potè non considerare l'essere quale immutabile e inalterabile ed escludente quindi qualsiasi forma di divenire. Ma d’altra parte le obbiezioni rivolte da quegli stessi che originariamente appartennero alla scuola herbartiana (dal Lotze, p. es.) ai concetti fon- damentali del maestro, le analisi critiche fatte dai filosofi contemporanei in genere e segnatamente dai criticisti, delle nozioni di sostanza, di rapporto, di qualità, non pote- rono non influire sul nostro filosofo in modo da fargli respin- gere la pluralità delle sostanze e quel carattere disgregativo ed atomistico del realismo herbartiano per cui questo non riesce a dar ragione dell’unità e del sistema. E la difficoltà sta tutta nella 'possibilità di porre insieme, non diciamo di fondere, la concezione dell’immu- tabilità dell’ essere con quella dell’ unità armonica del sistema totale che tutto comprende in sè, del sistema orga- nico che sì fa e non può non farsi, giacchè il sistema, l’ unità armonica non è un dato. Il germe non si può dire che sia la pianta come non si può dire che sia la pianta questa stessa presa in uno stadio determinato. La realtà della pianta è posta nell’uniîtà e continuità del processo che la rende possibile. Ora come si fa a conciliare l’unità e la continuità del processo con l’immutabilità, l’immobilità e l’ inalterabilità dell’ essere? È evidente che questi sono concetti della nostra mente. Perchè le apparenze che come tali contengono già in sè un certo grado di realtà, possano assurgere al grado di realtà ultima, bisogna che trascendendo sè stesse, si trasformino in qualcosaltro: ora tuttociò non implica processo, non implica una forma di divenire? Nè vale il dire che detta trasformazione, detto processo è pura apparenza, è processo per quel centro finito di esperienza psichica che si trova in una data serie, ma non per l'insieme che è permanente, immutabile, inalterabile. Se l'Assoluto, come ripetutamente afferma il Bradley, non è fuori le apparenze, ma è le apparenze, se l'Assoluto è l'esperienza psichica interna, come mai può essere detto immutabile, inalterabile? In seguito a ciò è lecito affermare che nell’Assoluto non si compie alcun processo? Anzi pare che occorra dire che se ne compiono molteplici, infiniti for- s'anche. Che l’immutabilità riguardi le parti e non il tutto è un’altra questione; si varii, si muti pure una particella sola, ciò basta perchè vi sia processo e divenire vero, reale e non semplicemente apparente o effetto di prospettiva. É soltanto a chi contempla dal di fuori, a chi consi- dera, a chi medita sul Tutto, che questo preso nel suo insieme e quindi coi compensi reciproci che possono venire tra le varie parti, può apparire come qualcosa di immu- tabile: ma la realtà che vive, opera e si muove non può dichiararsi estranea al processo. L’immutabilità, la per- manenza sono concetti astratti, formati dalla mente, non fatti reali. L'uno e l'essere immutabile in tanto possono stare insieme in quanto sono considerati quali concetti logici astratti (a mo’ della scuola eleatica), ma nel fatto concreto l’ Unità sistematica comprendendo le differenze, non può non involgere processo, cangiamento e in conse- guenza moto e vita nelle parti. Delle due l'una; osi ferma l’' attenzione sull’ individuale e si avrà l’immutabi- lità, ma non si darà ragione del sistema e dell'unità totale, ovvero si ferma l’attenzione sull’ universale ed allora per poter dar ragione della differenziazione, dalla specificazione bisogna ricorrere al mutamento, al divenire, al processo. Aggiugiamo qui poi anche che posta la divisione della vita universale in particolari centri di sentimento o di esperienza, non è possibile non ammettere un modo qual- siasi in cui i letti centri siano ordinati e disposti: e non potrebbe consistere in questo appunto il corrispettivo reale ed obbiettivo della forma spaziale? Non s'impone così la esigenza dello spazio intelligibile? S Prima di finire, qualche osservazione ancora intorno all'azione esercitata sul pensiero del Bradley dai recenti . progressi della psicologia esatta, intesa questa come descri- zione ed analisi dei fatti interni. Il lettore che ha seguito con attenzione la nostra esposizione critica si sarà accorto che nei punti in cui si è allontanato dalla speculazione tedesca, presentando delle vedute originali, sì è mostrato appunto psicologo sagace e sopra tutto scevro di pregiu- dizi. Nelle pagine in cuì egli discute la questione se si possa ridurre la Realtà ultima e la sostanza dell’universo all'una od all'altra delle funzioni psichiche quali l’ intel- letto, la volontà ecc., egli dimostra a meraviglia che dai metafisici le dette funzioni psichiche vengono snaturate. Ed è in questa parte che si trova la sua originalità. Ora tutto ciò che è verissimo — al nostro autore è stato senza dubbio suggerito dalle analisi psicologiche accura- tamente fatte, ma possiamo noi dire che tali concetti concordano coll’ insieme delle dottrine da lui professate? Possiamo noi dire che la Realtà quale viene intesa da lui (Unità del pensiero, del volere, del sentimento estetico ecc., obbiettivamente considerati) concordi coi risultati della psicologia esatta? E la teoria della conoscenza fondata sui dati della stessa Psicologia può andar congiunta con la Metafisica bradleyana? (4) Forse non è inutile richiamare qui l’attenzione sopra una forma di Metafisica contemporanea che nacque anche come questa del Bradley in contrapposizione al movimento scientifico contemporaneo, inten- diamo parlare della Metafisica del Teichmiille», la quale se ha qualche punto di contatto con quella del Bradley, se ne differenzia essenzial- mente per il fatto che essa poggia sulla realtà del soggetto individuale Io sostanza. Non dobbiamo intrattenerci sulle ragioni di tale differenza : diremo soltanto che tra queste possono essere al diversa cultura psicologica dei due autori e l’azione che l'ambiente speculativo del proprio paese ha esercitato su ciascuno dei due metafisici. De Sarlo. Keywords: implicatura, Bradley, citato da Sarlo e Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sarlo”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sarno: la ragione conversazionale del sentire – scuola napoletana -- filosofia campanese – la scuola di Napoli – filosofia naoletana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Interprete di BRUNO e CAMPANELLA. Collabora al “Giornale critico della filosofia italiana” con saggi su BRUNO, CAMPANELLA, e VICO. Medita sulla violenza. Si suicida con un colpo di rivoltella. Si interessa a BRUNO e CAMPANELLA. Il suo punto di partenza è l’opposizione tra un sentimento sempre identico a se stesso, essenzialmente interiore -- sensus sui -- ed un sentire esteriore, che si tramuta nelle cose di cui ha esperienza, che si presta e si dona tutt’intero alle cose, affinché esse vivano in lui. Atre saggi: Pensiero e poesia (Laterza, Bari); Filosofia poetica (Laterza, Bari); Filosofia del sentire (Pescara, Tracce); Sulla violenza (Bari, Laterza); M. Perniola, “L’enigma” (Costa,  Genova); A. Marroni, Filosofo del farsi altro. Angelo, L'estetica italiana” (Laterza, Bari); Marroni, La passione per il presente in “Filosofie dell'intensità. un maestro occulto della filosofia italiana” (Mimesis, Milano); Marroni, "I carmina in foliis volitantia" in Agalma, Giornale Critico di Filosofia Italiana. Antonio Sarno. Sarno. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sarno” – The Swimming-Pool Library.

 

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