Luigi Speranza -- Grice e Sacheli: all’isola --
la ragione conversazionale all’isola -- implicatura axio-fenomenista dei
parnasesi – la scuola di Canicatti -- filosofia siciliana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Canicattì).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Canicatti, Girgenti, Sicilia. Studia a Caltanissetta.
Iniziato in massoneria nella loggia Cavallotti di Girgenti. Si laurea a Palermo
sotto Colozza e Guastella. Insegna a Bologna, Girgenti, Caltanissetta, Bressanone,
Genova, Cagliari e Messina. Con i suoi saggi da un apporto all'approfondimento all'interpretazione
della filosofia di AQUINO. "La carità del natio loco" lo spinge a
scrivere sulle tradizioni, i miti e le leggende di Canicattì, collaborando con
Sicania e pubblicando i risultati delle sue ricerche nelle Linee di folklore
canicattinese, Acireale, Popolare. Altri saggi: Indagini etiche: i criteri, il
problema dell'etica, Milano, Sandron; Atto e valore, Firenze, Sansoni – cf. H.
P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE, ACTIONS AND EVENTS --; Ragion pratica:
preliminari critici, Firenze, Sansoni; Crisi della pedagogia, Roma, Perrella; Concetto
di didattica, Messina, Anna; Ottaviano, Sophia: rassegna critica di filosofia e
storia della filosofia, MILANI, Gnocchini, “L'Italia dei Liberi Muratori”. Erasmo,
Ferrante. . (in
famiglia Lilli) nacque a Canicatti (in provincia di Girgenti) da Vincenzo S. '
e da Calogera Luzzina Rinaldi in Via Massimo D'Azeglio -- non ricordo il numero
civico, ma si tratta della seconda casa a sinistra, venendo da li putieddri. Dal
loro matrimonio nacquero quattro figli: Diega, maestra elementare, che sposa il
collega Ferrante (i genitori della biografa), Graziella, anch'essa maestra,
nubile, Calogero Antonio, o Lilli e, ultimo della nidiata, Agostino, professore
di filosofia come il fratello, che sposa la professoressa Anita Grifoni. Rimasto
orfano del padre a 13 anni, dopo le elementari frequentate a Canicatti, compi
gli studi ginnasiali e liceali a Caltanissetta, ospite di uno zio matemo ivi
residente, e quelli universitari a Palermo, nel cui ateneo consegue a pieni
voti la laurea in filosofia. Ha insigni
maestri come GUASTELLA (vedasi), Colozza (vedasi), Gentile (vedasi), ricordati
con profonda commozione nella prolusione ‘L’alterità,’pronunziata a Genova
quando inizia la carriera accademica come libero docente succedendo nella
cattedra a Benzoni. Sua prima sede
d'insegnamento fu Bologna. probabilmente alle Normali (odierne Magistrali), non
so presso quale Istituto. Viene trasferito a Girgenti, svolgendo la a sua
attività alle Normali e al Liceo
"Empedocle". Gli anni
agrigentini furono molto proficui. Pubblicò, fra l'altro, Fenomenismo – il saggio
con cui esordisce come filosofo --, legato alla libera docenza. È pure del
periodo agrigentino la profonda amicizia che lo lega a Ficarra, Arciprete di
Canicatti, divenuto subito dopo la seconda guerra mondiale vescovo
"scomodo" di Patti. Dovevano pubblicare in collaborazione l'Agostino,
che non fu mai dato alle stampe per ostilità politiche. S. e un autodidatta:
uomo di grande cultura, caritatevole, con la sua probità e il suo ingegno
divenne direttore delle regie Sscuole Toniche del paese. Lascia la famiglia
disperata, ma la vedova continua con grande coraggio l'opera educativa iniziata dal manto e da al roli una
sidemazione adocuata e stable. E anche poeta. m. possiedo poco dei suoi
scritti. A lui si deve Fior di passione, poemetto dedicato alla prima moglie
Emetina Gamberi, e una nocsia Charitas, letta nel Trattenimento
letterario" svoltosi presso la Regis
Scuola Tecnica di Canicatti per raccogliere offerte a beneficio
dell'Ospedale del luogo. C'è ancora una poesia dedicata alla Madonna che
trovasi nella Chiesa della Badia Risale al 1925-26 il suo trasferimento al
Liceo di Caltanissetta, dove, in
conformità alla riforma Gentile, insegna filosofia, storia ed economia
politica. Dopo un riposo forzato, dovuto
ad una grave malattia, riprende la sua attività educativa al Liceo della
salubre Bressanone. Qui conosce la collega Emma (Mima) Gatti, genovese, sua
futura sposa. Il matrimonio ha luogo dopo il loro passaggio di sede a Genova,
dove esercitano la loro brillante carriera al Liceo "Doria" (lei
insegna matematica e fisica, lui filosofia, storia ed economia. Il periodo vissuto a Genova e intenso e ricco
di soddisfazioni. Il grande maestro inizia qui l'attività accademica come
libero docente. Più tardi, raggiunge da titolare la cattedra al Magistero di
Cagliari e nello stesso anno è insignito del premio dei Lincei. Lo troviamo a
Messina alla Facoltà di Magistero, di cui fu Preside (solo a titolo di curiosità, si ricorda
che Sciascia e suo allievo). Dopo lunghi
anni di separazione, viene a Genova con la moglie e la cognata per
riabbracciarei, ma al suo ritomo a Taormina, dove con i familiari aveva preso
residenza per sfuggire ai bombardamenti di Messina, muore. Non partecipa alla prima guerra mondiale
perché affetto da forte miopia, ma ne segui gli eventi: infatti, in occasione
dello scoprimento di una lapide commemorativa dedicata agli studenti del Liceo
"Empedocle" periti per la patria, pronuncia un vibrante discorso dal
titolo Vitai lampada. Nell'estate passa
buona parte delle vacanze a Canicatti accanto alla mamma paralitica. Nello
stesso tempo s'intrattene con gli amici Foto Tropia, lAvv. Sammartino, il farmacista Diego Cigna,
Carmelo Pellegrino - per nominame solo alcuni
- che avevano costituito il Parnaso Canicattinese. Nell’anniversario della sua prematura
scomparsa si tenne a Palermo una serie di conferenze dei filosofi CARAMELLA
(vedasi), Albeggiani, Attisani e Bianchi sulla sua filosofia pensiero, seguite
da un dibattito e da una bibliografia. Nella stessa occasione e consegnato, da
parte di una delegazione dell'Amministrazione comunale di Canicatti, al Sindaco di Palermo un ritratto - olio su tela
- del grande filosofo, da collocare nel Famedio, la galleria dei siciliani
illustri che adoma la Biblioteca Comunale di Palermo. Infaticabile studioso e
affascinante educatore, e un uomo trasparente, saggio e, nella vita familiare,
allegro ed anche... arguto. Al suo vasto sapere uni il culto dei genitori e dei
familiari. Prova ne sia che, per suo espresso desiderio, riposa nel Cimitero di
Canicatti accanto al padre e alla madre. L'epitaflio del monumento che
raccoglie le loro spoglie - dettato dall'insigne filosofo Carabellese, al quale
Sacheli era legato da amicizia fraterna sin da quando si trovava a Bressanone - compendia il suo credo. Da alle stampe molte saggi e un gran numero
di articoli pubblicati su varie riviste. Della sua filosofia è ancora da
segnalare che se ne sono occupati molti eminenti scrittori. Vanno ricordati a
proposito due articoli apparsi pochi anni fa: uno di Rocchi, “Valore ed alterità,” in
"Labor", e l'altro di Podestà, “Axio-fenomenismo e giudizio morale,” presentato
dal Consiglio Direttivo nella riunione plenaria sugli Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e
Lettere. Podestà era stata sua allieva nel primo anno di insegnamento
accademico. Giuseppina Ferrante derad
vacca of vanzcase ? L'etemo senti
norsa dell'umano costume. lo
indagò fervido, lo insegnò deciso trepido lo visse amando in dedizione
assoluta. . 1939-1989: fa esattamente mezzo secolo da quando
Calogero Angelo Sacheli prestava il suo insegnamento di filosofia morale presso
la facoltà di lettere, a conclusione del suo periodo universitario
genovese. Egli fisso proprio allora a Genova un punto culminante del suo
pensiero che pertanto merita di essere rievocato negli Atti
dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere nella ricorrenza del
cinquantenario del corso. Sacheli, come filosofo e pedagogista aveva
esordito nella nativa Si-cilia: dallo studio universitario a Palermo, sino al
primo insegnamento a Girgenti, dove conto tra gli amici l'inconvenzionale
Parroco Angelo Fi-carra che sarebbe poi divenuto lo scomodo Vescovo di cui
parla Sciascia in «Dalla parte degli infedeli». Sviluppò quindi il suo itinerario
filosofico durante gli anni della prima guerra mondíale, nell'ansia della
ri-cerca, sino al trasferimento (conseguente alla malattia) nel salubre clima
di Bressanone (*), dove lo confortò l'amicizia dell'avvocato Carabel-lese e del
di lui fratello filosofo, nonchè la gioia dell'amore e delle nozzecon Mina, la
docente di matematica del locale liceo, quando egli vi insegnava filosofia,
fino allo spostamento sul Tirreno a Genova, città natale della moglie. A Genova
Sacheli portò all'acme la sua riflessione sullo axiofenomenismo, incentrandolo
nell'eticità. La sua concezione della conoscenza propone un fenomenismo
dove la gnoseologia è empiristica e l'ontologia problematica, ossia critica, in
profondità di pensiero e concretezza d'esperienza. Per fondare il suo
empirismo assiologico, da una parte Sacheli risale a Hume a all'associazionismo
delle sensazioni, dall'altra a Berkeley e al suo «esse est percipi». Senonchè
la percezione viene sottolineata dal Nostro come fatto soggettivo attivo, in
sintesi con l'oggetto nell'atto im-mediato. Nello sviluppo della valutazione
critica ogni giudizio ha un valore che pretende all'universalità per le
connessioni su cui si fonda e che instaura a tre successivi livelli: empirico
immediato, epistematico, morale. Della filosofia sacheliana trattarono
ampiamente il Congresso di Messina del 1948 e quello celebrativo del decennale
della morte, del 1957 che in Sicilia approfondirono l'interpretazione del
pensiero sacheliano. Là Caramella (), Albeggiani, Attisani misero in luce
l'autenticità del pensiero sacheliano orientato nelle dimensioni della
filosofia e della pedagogia, che aveva preso le mosse dalla scuola del Collotta
e del Guastella (). Per ragioni contingenti, meno generoso nella
rievocazione di questo autore, venuto a mancare a Messina nell'immediato
dopoguerra, (1946), fu l'ambiente genovese: di qui l'opporunità della presente
rievocazione. Ispirato da istanze assieme positivistiche e moralistiche,
egli rifiuta l'etica aristotelica aggiogata al carro della logica deduttiva da
lui considerata ormai «defunto scheletro nell'armadio». Per contro risponde
all'appello morale ed educativo, avvertito come istanza primaria, da lui
considerato nel rigore giansenistico (già presente nell'Agrigentino dei secoli
XVII e XVIII (*)) e accostato al romanticismo spontaneistico dell'ottocento
risorgimentale che della Sicilia aveva segnato il risveglio. E di
conserva considera come irrinunciabile l'epistemologia empiristica: da quella
inglese a quella del suo Maestro Guastella. Linea parallela in questo
sviluppo di pensiero è segnata dalle istanze socialiste. Come giustamente
sottolinea Santino Caramella, già nel periodo siculo Sacheli aveva avvertito il
passaggio dalla cultura contadina a quella industriale, al momento dell'imporsi
dei nuovi strumenti acquisiti alla vita quotidiana dal progresso della tecnica
nonchè al prospettarsi del nuovo rapporto sociale. Di qui la necessità di un
nuovo incontro tra gli uomini e la realtàProprio per questo il filosofo si
impone il proprio compito sulla via della più rigorosa epistemologia, sino
all'emergere della preminenza della vita morale, e sviluppa il massimo
interesse per l'eticità del singolo, perchè ogni individuo si possa trasformare
in persona e l'insieme delle persone possa costituire un tessuto sociale di
gente responsabile, capace di scelte e di creatività. Lo studio della
religione, il problema dell'edu-cazione, la critica del giudizio, la ragion
pratica, sono pietre miliari che contrassegnano i momenti succedentisi del
pensiero sacheliano: a ciascuno di tali momenti corrisponde la pubblicazione di
un'opera sino al conferimento dell'incarico all'Università di Genova della
Cattedra di Filosofia Morale. Già al momento iniziale per via di
riflessione Sacheli sottolinea come la soggettività empirica precritica
implichi per se stessa una oggettività intima, proprio quando gnoseologia ed
ontologia a livello empirico si manifestano nello sforzo delle plebi di
prendere coscienza della realtà. Nella conoscenza dell'esperienza esse
presuppongono la verità Per esse la connessione temporale oggettiva
si realizza nel ragiona- mento induttivo che si fonda sulla certezza di
tipo empirico. Nell'apogeo del positivismo, procedendo per sviluppi
successivi, le sintesi delle scienze positive costituiscono serie di sintassi
empiriche, fondate sulle leggi con connessioni costanti, mentre quelle
matematiche risultano essere sintesi logiche. Per contro,
sviluppando il rapporto idealistico tra soggetto ed og-getto. la sintesi
dialettica tra essere e non essere falsamente riduce all'identità l'essere e il
non essere; dove il non essere è solo concetto fittizio e quell'identificazione
un inganno. Per queste vie Sacheli riprende le ragioni della
fenomenologia del Guastella, suo maestro a Palermo, con l'asserzione che
irrinunciabile è l'empirismo solo se il fenomeno risulta un atto, un valore,
ossia un dover essere: (axiofenomenismo) in una fenomenologia del valore. In
questo passaggio dall'empirismo acritico alla fenomenologia del valore si
evidenzia innanzitutto la modalità del procedimento logico per vie in-
duttive. Nello sviluppo critico solo a questo punto per via di analisi la
causalità emerge come dover essere accanto all'idea di essere che sta a
fondamento della presa di coscienza nel ripetersi dell'esperienza.
Sacheli già nella riflessione degli anni giovanili appunta la sua attenzione
non solo sull'axiofenomenologia di Guastella ma anche sui singoli aspetti del
dover essere rivelantisi nelle diverse faccie dell'anima.La promozione da
carattere a persona, lo svolgimento dell'essere al dover essere nelle scienze,
l'accostamento all'etica, alla religione, alla metafisica; dell'esperienza
empirica, al valore, alla morale, al regno dei fini, alla fede: tutto si svolge
su una linea induttivo-conoscitiva, dove esperienza e conoscenza già
costituiscono un continuum nell'axiofeno-menismo, via via fino alla metafisica.
Cosi per le vie della pedagogia come per quelle della filosofia critica. Tutto
cio costituisce la premessa del corso di filosofia morale tenuto da Sacheli a
Genova nel 1938-39, in una visione universale. lo intendo qui in effetti
soffermarmi sul momento genovese di C. A. Sacheli e in particolare sul
suo corso di filosofia morale del 1938-39, mai licenziato alle stampe nella
precisa forma in cui venne tenuto dato che gli anni del conflitto bellico
frustrarono l'intenzione dell'Autore di pubblicarlo. Gli scritti
anteriori di lui, le note da me prese allora e alcuni saggi posteriori
consentono a me, fedele allieva di quel corso, di ricostruire il nodo di quel
momento cosi essenziale nello svolgimento del pensiero etico
sacheliano. Questa puntualizzazione mi pare importante, perchè essa
contrassegna un momento di ricerca particolarmente sofferta e approfondita, in
mezzo all'imperversare dell'attualismo gentiliano imperante) nel punto chiave
dove il sistema dell'axiofenomenismo individua gli strumenti conoscitivi e la
portata del valore etico nella loro connessione. ..* La
terminologia del linguaggio filosofico a questo punto dello svolgimento del
pensiero sacheliano riscontra la massima ricorrenza nel br-nomio axiologia ed
epistematicità, perchè queste due dimensioni indicano il convergere dei due
motivi irrinunciabili su cui il discorso etico di sacheli si muove: il rigore
conoscitivo e l'essenzialità del valore. Nell'ambiente filosofico
dell'Università di Genova, dopo lo scetticismo di Rensi, occupava la posizione
privilegiata in campo teoretico l'empirismo critico di Adelchi Baratono con
insistito accento sul momento estetico-critico (°). Sacheli, negli anni
genovesi, ripercorrendo in modo nuovo il passaggio dall'istanza conoscitiva
alle tendenze del dover essere, intende puntualizzare nuovamente la precisa
definizione della sua axiofenome-nologia, portandola a un nuovo innesto in campo
etico.La prima sua caratterizzazione avviene nella determinazione a livello
epistematico. Prese le mosse critiche dai Prolegomeni Kantiani, ed esclusa la
logica puramente formale, alla sintesi a priori kantiana Sacheli sostituisce
come punto di partenza il primum nell'incontro fenomenolo-gico tra soggetto e
oggetto, che trova il suo punto iniziale nell'atto. L'atto è sintesi
indivisibile e originaria nella sua concretezza; impre- vedibile, quindi
incausale in quanto immediata. In campo conoscitivo risulta come frutto
di induzione, dove solo a posteriori si evince il carattere formale delle
categorie Il sapere epistematico si fonda sulla metodologia: il primum
esisten-ziale, sintesi induttiva, acquista via via coscienza dell'oggetto, del
me, e, attraverso questo, del soggetto. La successiva tematica in cui si snoda
il discorso, muove discettando sui termini di essere, di identità, di
diveni- re, di dialettica, di dover essere (°). Siamo ancora a
livello conoscitivo scientifico: nell'epistematicità iniziale, nella conseguente
analisi emergono fenomeno e valore, oggetto e soggetto, come componenti
dell'iniziale sintesi in nome di un principio di causalità. Pertanto è
importante detto principio: la causa si impone per la sua evidenza intrinseca,
a livello fenomenico, assieme come per-cetto e come possibilità di ulteriore
atto percettivo. Procedendo per questa via a sua volta il soggetto come «me» e
come «io» risulta valore nella presa di coscienza, in opposizione all'essere,
(A. p. 155), divenire contro staticità, o contro passività. Il percetto
nel suo darsi, come determinatezza particolare si pone condizione formale
dell'atto, dove la sintesi è orientata sempre verso il nuovo e l'ignoto.
Dall'empiria alla percezione; dalla presenza alla rappresentazione: se
nella sua posizione assoluta di originale spontaneità l'atto è già valore
nell'empiricità, l'atto percettivo è categoria vera e propria, condizione di
intelligibilità, mentre le nuove generalizzazioni induttive presuppongono via
via la sinteticità dall'atto (A. p. 163). Il duplice aspetto soggettivo e
oggettivo evidenzia cosi il carattere assiologico e sintetico del processo
induttivo, con inferenza dal particolare al particolare, ma dove la sintesi
stabilisce un rapporto di connessione nella graduale estensione del possibile,
e del deontologico, a livello dell'oggetto prima e del sog getto
poi. Nello sviluppo dello studio delle condizioni formali dell'atto
Angelo Calogero Sacheli si sofferma sui caratteri di identità, determinatezza,
univocità e non contradditorietà, presenzialita o rappresentabilità,
modianalitici di presentare la sintesi (citata). Tutti caratteri che, rispetto
alla concretezza in cui si pongono, risultano esigenze e valori, mai
completamente esaustitivi; ed evidenziati grazie a procedimenti di sosta e di
ri-flessione. Tanto più vero qaunto più nel processo induttivo si avanza
dalla mera empiria ai gradi più alti del dover essere. Ma nota
inequivocabile dei valori è sempre la spontaneità, fresca, viva immediatezza
(A. p. 164) originale dell'attualità spirituale che «si manifesta ponendosi per
altro», «se la nota differenziale di essa è non l'essere (uguale a se stesso),
ma il dover essere, bisogna riconoscere che solo nella spontaneità sintetica
del fenomeno si ritrova il vero e proprio carattere del valore. Nel fenomeno,
appunto, apparente, che in sè si circoscrive, ma che significa e cerca
inesaustamente un'integrazione alla propria incompiutezza». Per questa
via si passa dalla conoscenza alla necessità al dover essere, dove la nozione
di forma pura è una meta scientifica e dove nello stesso tempo il mondo
dell'esperienza risulta quello del valore, appunto del dover essere. «Abbiamo
troppo poca fede nella spiritualità essenziale della nostra pur frale umanità»
(A. p. 164), egli esclama, e nel momento della sintesi induttiva coglie il
percipere assieme col percipi (). Sacheli approfondisce questa posizione
dello spiritualismo proveniente (R.P. p. 8) dalla sua iniziale impostazione
positivista e segue con attenzione puntuale il passaggio dalla necessita
nell'immediato della co-scienza, alla nota della necessità in tutte le
valutazioni, al carattere axio-logico della sintesi di forma e contenuto, di
atto e percetto, a livello morale di cui ci sfugge la connotazione del valore
proprio per la millenaria abitudine realistica che diventa istintiva attitudine
ontologica a vedere nel reale solo «res extensas» o «res cogitantes». Qui
per Sacheli il rapporto oppositivo tra necessario e contingente, è di una
illegittima dialetticità. Egli sostiene, (A. p. 197) «La contingenza è
una veduta astrattiva dell'analisi» che si appalesa nel percetto, ma che tende
a divenire rappresentazione e, quindi, possibrita In effetti, come la
negazione di essa porta via l'atto stesso, essa è ne-cessità; è axiologica se
vi si interviene per induzione connessa alle condizioni formali
dell'atto. Tutta la coscienza si muove a questo livello sul piano del
dover es- sere. La via è ascendente.Sviluppato in questa direzione, a
livello axiologico, in ultima istanza «l'io è altro dei suoi contenuti» (A. p.
277), anche Sacheli riconosce coi formalisti puri. «L'io e le sue condizioni
epistematiche arrivano a costituire il contenuto; in quanto sintesi il soggetto
è assieme valutazione e valore»..., «ma la concretezza di esso ci vieta di
distinguere appositiva-mente i suoi elementi; dove l'oggetto ha valore di
certezza, il soggetto è posizione epistematica». Quindi il filosofo passa dalla
continuità del me all'unità sintetica dell'io; dal porsi dell'io come soggetto,
al porsi predicativo del giudizio; dalla presentazione alla rappresentazione
della rela-zione. Anche nel legame tra soggetto e predicato la caratteristica è
l'unità sintetica: tutta la filosofia trascorre così dalla continuità all'unità
sin-tetica, nella concretezza per processo induttivo. L'io individuale,
unità sintetica del me, è la coscienza formale: di qui, con l'assenso di fronte
alla certezza, si afferma la spiritualità dell'io, attraverso l'autocoscienza:
il passaggio dal quod est al quid est è passaggio da esistenza ad essenza; con
carattere axiofenomenico e non trascendentale (A. p. 253). L'io è adaequatio
rei et intellectus, come verità nella misura in cui il soggetto non è io puro,
ma complesso di termini re-lazionali. Esso si realizza in circolarità,
attraverso l'atto con giudizio predica-tivo, per induzione, e analisi derivate
(causalità, identità, etc.), nella successione temporale (A. p. 259). In altre
parole: nel dispiegarsi concreto e reale si attualizza l'io, nella mera
sinteticità dell'atto. Piuttosto che accettare l'idealismo dialettico non
evidente e non ve-rificabile, Sacheli preferisce l'atteggiamento nominalista,
cosi ricco di creatività e di invenzione, ma non si sofferma su altre
posizioni: procede rigoroso per le vie di epistematicità di tipo scientifico.
Sulla linea dello sviluppo epistematico della coscienza egli approfondisce la
ricerca nelle sfere della moralità, per lui sempre essenziale, del vivere umano
e oggetto particolare del suo corso universitario genovese (1938-39). Le
implicanze della conoscenza scientifica dell'oggetto già a livello di
epistematicità axiologica oggettiva danno una responsabilità ben più complessa
e vasta, chè coinvolgono il mondo della natura e dell'univer so con gli
strumenti di conoscenza del soggetto morale. Pertanto nei confronti
dell'oggetto di cui l'uomo scopre le leggi, per l'uomo stesso emerge un
imperativo morale. A distanza di 50 anni oggi gli ecologisti nel relativismo
scientifico mettono in evidenza la validità di questa impostazione che comporta
per luomo la verifica delle conseguenze diogni suo atto anche nei confronti
della natura, con inquadramento di sintesi nel complesso reticolo delle cause e
degli effetti a catena, con piena apertura, al di là delle impostazioni singole
e parziali, in una visione universale. Sempre su quella linea, nello
studio della semplicità dell'atto, Sa-cheli indaga circa la ragione pratica
pura nel campo dell'azione e del sentimento umano abbinati. Nel dovere
etico trasferisce per una piena e comprensiva intelligen-za, il dover essere
della vita, dell'esistenza e dell'esperienza che supera l'ordine cosmico
nell'ordine morale. (Si veda il commento di Santino Caramella: nota n.
2). L'atto è la causa dell'essere, che unisce il soggetto e l'oggetto in
relazione sintetica, con un principio causativo di sè come dover essere. Così
alla normativa tradizionale Sacheli sostituisce l'epistematicità deontologica
nel campo morale, introducendo gli accenti particolari con cui vuol mettere in
risalto e caratterizzare il respiro del suo pensiero etico. Egli non ammette un
formalismo universalizzante che appiattisca tutta la drammaticità della vita
morale. L'atto comporta una sintesi tra soggetto e oggetto, a priori in quanto
posto come primum iniziale, che si svolge per via induttiva nell'atto di
conoscenza del mondo fenomenico, ma che si sviluppa attraverso lo scontro con
gli ostacoli della vita; atto morale, dotato di epistematicità analoga a quella
dell'atto conoscitivo, e assieme di drammaticità. La vita è qindi
un divenire, dove pensiero e azione si risolvono attraverso la sintesi in una
funzionalità sperimentale che dà valore all'essere nella dialettica e faticosa
drammaticità del vivere. Solo con questa concretezza si può cogliere l'identità
del soggetto morale alla cui azione i contenuti danno di volta in volta valore
(ciò che sfugge all'etica kantiana per il cui formalismo i contenuti sono
indifferenti). Il valore dell'azione morale, secondo Sacheli, emerge solo
nella sintesi tra soggetto e oggetto che si realizza nella concretezza: solo il
contesto fenomenico concreto dà all'atto la portata axiologica che gli compete,
conferendo al soggetto etico la responsabilità individuale e
inalienabile. Così nel campo etico la vita risulta un generoso porsi del
soggetto in solidarietà con l'universo. Se il positivismo attribuisce i
caratteri di comune e generale al fatto, l'eticità attribuisce i caratteri di
comune e generale all'atto. Il filosofo riprende lo sviluppo seguendo le linee
convergenti dell'epistemologia e dell'assiologia.A livello iniziale la certezza
ha carattere empirico. Nella conoscenza scientifica l'elemento subiettivo e
obiettivo sono due termini opposti. Quando la scienza giunge alla
certezza induttiva con esplicazione causa le per via epistematica, l'oggetto
risulta presente come atuale, come an-tecedente, come possibile. L'universo
cosi si risolve nelle nostre percezioni (A. p. 308) in una attrezzatura di idee
umane, mediante le sintesi dove il fenomenismo risulta assieme gnoseologia e
ontologia. In questo ulteriore approfondimento sulla linea epistematica Sacheli
sposta il passaggio dalla necessità della scientificità al dover essere della
morale. Egli pone come «discutibile che il criterio di universalità
scientifica sia il discriminante necessario e sufficiente per distinguere il
giudizio etico da ogni altro giudizio di valore» (A. p. 308). Per Sacheli
è legittimo si il generalizzare e considerare l'universa-le axiologico in
quanto universale come fondamento dell'oggettività (A. p. 185); ma a
questo punto del processo induttivo e generalizzante egli valuta come motivo
epistematico il criterio che spinge il soggetto a fruire del valore logico di
certezza (A. p. 277), in direzione aperta, sulla linea della causalità
efficiente, a livello di concretezza. Già il Guastella dimostra la
derivazione necessaria della nozione di libero arbitrio da quella di necessità
efficiente in base al principio di evidenza, essendo: «l'evidenza che ci impone
l'affermazione del libero arbitrio» (A. p. 278). Per questa via Sacheli va
oltre, passando dall'imperativo logico del fenomeno all'analogo
imperativo etico del dover essere. Analizzando la ragion pratica sul
versante epistemologico, con le sue dimensioni assieme epistematiche ed
axiologiche, Sacheli definisce il tipo di giudizio sintetico (a priori) che è
proprio di questa sede. La sintesi (R.P. p. 234) non è solo «attualità
determinata, unità di determinazioni e di sensi, bensì - percettivamente -
unità in atto, determinazione immediatamente colta, senza possibilità di ulteriore
discriminazione, forma pura di coscienza di cui i percetti appaiono i
contenuti»... E anco-ra: «l'esperienza ci appare qui connessione unitaria di
valutazione e va-lori, delle posizioni ponentisi e del porre una molteplicità
di percetti». In altre parole: nella sintesi etica i vari livelli e le
varie componenti confluiscono, i fini ed i mezzi hanno ugualmente valore,
rientrano nell'universo axiologico che appare tutto sotto il crisma
dell'epistemati-cità, dove i termini di conoscenza e coscienza si identificano.
Nell'esperienza degli atti che rinnova lo sforzo dell'impostazione critica, ad
ogni acquisizione di valore l'uomo realizza la propria dignitànella misura in
cui si pone l'universo, lo percepisce, lo conosce e si dispone col libero atto
morale a formarlo e a trasformarlo, o a formare e a realizzare sè
stesso. Dal fenomenismo axiologico l'autore vede emergere un idealismo
empirico che deve riuscire a fondare in termini epistematici il problema
dell'etica, si da stabilirne le possibilità costruttive. Il problema del dover
essere razionale risulta al centro di tale ricerca speculativa. Nella
piena apertura della disponibilita etica Sacheli pone l'accento sugli
atteggiamenti morali di creatività e spontaneità: la virtù non si insegna più
che non si insegni il genio. Ma proprio per la personale vocazione morale e
filosofica Sacheli si dedica con passione ad indagare nel mondo della coscienza
per stabilirne le condizioni e studiarne la funzione imperativa. La
morale moderna vuole essere indipendente e l'etica non norma-tiva, dove molti
dei punti di vista antichi appaiono come pedanteria superata e inaccettabile,
dice Sacheli (R.P. pag. 21): «il dovere uscito dai sacri templi della
meditazione personale, dal misterioso balenare in momenti eccezionali di vita,
diviene fatto quotidiano... Il punto fermo della nostra attività è e rimane un
senso vivo dell'obbligo... Ma la scienza è in ritardo sul tempo, solo essa non
si adagia ai bisogni dell'età nostra e la moralità nostra procede incerta per
difetto della dottrina... I sistemi morali chiamati a render conto e a
sorreggere la nostra esistenza, non individuano la saggezza... Per sete di
sapere, sete diabolica di adeguarsi all'essere, per una sempre maggiore
"libertà", amore solo di "conoscen-za", ci è impossibile
credere alla saggezza»: e passa in rassegna gli idoli che traducono i principi
morali in volontà di adeguamento alla realtà in fieri, con spirito di
asservimento. Cosi la libertà diviene pseudolibertà e la coscienza
pseudoco-scienza. Perchè le mete si adeguano sul potere e sull'essere anzichè
sul dover essere. Per risalire alle fonti della morale, spontaneistica e
creativa, con spinte di apertura in campo educativo e sociale Sacheli si rifa
ai pensatori romantici, nel corso 1938-39, specialmente a Schiller e ancor più
a J. M. Guyau, poetici assertori della spontaneità e della bellezza emergente
dal regno dei valori (Schiller parlava appunto di anima bella). Per
spiegare le ragioni della anomia nella morale moderna il Sacheli analizza in
particolare le ragioni di J. M. Guyau, di questo poeta pensato-re, che egli
predilige per simpatia personale, perchè non egotistico di- scettatore,
bensì filosofo generoso che tutto si espande e dona.Per l'autore francese la
vera autonomia significa mancanza di legge, in quanto non vi è dualismo tra
senso e ragione, tra norma e bisogni dell'anima Già Schiller - ricorda Sacheli
- aveva trovato nell'amore la pienezza della ragione e la sintesi di questa con
la sensibilità. L'amato non è opposto a noi, è tutt'uno con noi. Con l'amore è
superata la legge: esso è complemento della legge... Secondo il Guyau è l'amore
a compiere la funzione di eliminare l'imperatività, in un universo che è tutto
mo- ralità. Quando la norma nella realizzazione va al di là dell'umano le
anime cercano ansiose la spontaneità viva e calda. (R.P. p. 16). «Anche l'arte
non basta - dice Guyau - l'arte è troppo vana e solitaria... in questo mondo,
io ho da far meglio che sentir battere il mio cuore. Che l'amore mi leghi agli
altri! Nel cuore degli altri io mi perdo. La fecondità morale. la vita che
prende coscienza della sua intensità, sono la giustificazione dell'amore. Ed è
la vita che lo esprime come sorgente comune dell'in-conscio e della coscienza,
il teorema fondamentale di ogni etica». Per la sua forza intima tende ad
espandersi ed è un dovere in questa direzione, perchè il potere urge come
dovere. Il Guyau giunge a fondare la teoria degli equivalenti del dovere; come:
poter fare, l'idea dell'azione superiore che diventa esigenza della vita,
l'identità tra pensiero e azione come unità dell'essere, la fusione crescente
della sensibilità e il suo carattere socievole. È la spontaneità che crea la
ricchezza morale. Di qui l'audacia del rischio metafisico che affronta le mete
più impossibili ivi compresa la morte. E tutto questo itinerario a livello di
coscienza. Infatti secondo il Guyau per il filosofo non ci deve essere un
solo elemento di cui il pensiero non cerchi di rendersi conto (R.P. p.
30). Su questa base egli critica i tipi di morale esistente. La metafisica
realista impone un obbligo assoluto che deve dedursi da fuori; ciò che sfocia
nel dogmatismo. E se la morale della certezza pratica nella variabilità del
dovere denuncia l'errore di ogni morale intuitiva, perchè troppo arbitraria, la
morale formalistica kantiana non può produrre che una soddisfazione logica,
nella variabilità e nell'incertezza dei contenuti; d'altra parte la morale
della fede metafisica si fonda per conto suo su postulati. L'etica del
dubbio proposta da Foulle, maestro di Guyau, ha il merito di ridurre la morale
a un'interrogazione che presuppone una scelta da parte del soggetto. Ma Guyau
nel suo tentativo non riesce a dimostrare la possibilità di una fondazione
razionale dell'imperatività che è di momento in momento sempre nuova a sè
stessa. Dando per scontato che l'unico procedimento scientifico sia
quello della deducibilità a priori egli è costretto a rinunciare alla
fondazione di una morale scientificamente coerente e criticamente
autosufficiente.Il punto debole della critica di Guyau, secondo Sacheli, sta
nel residuo dogmatismo della deduzione a priori. Pertanto il pensiero del
Guyau, pur cosi avvincente rimane in sospeso. Sulla stessa linea
guyautiana il filosofo siciliano perviene ad attuare la sintesi nella connessione
tra esigenza affettiva e volontà. Sacheli svilupperà le premesse implicite
nella ricerca guyotiana riportandole col suo rigore epistematico a un'istanza
d'imperatività e di obbligatorietà atta ad inserirsi nel quadro della morale
formale, ma osservando l'afflato di libertà costruttiva così aperta sulle
elfettive dimensioni del mondo at-tuale. Mosso da un suo senso vivo di
responsabilità speculativa, Sacheli affronta il problema della razionale
imperatività individuale, ponendola al centro dell'eticità. Con
coerenza e rigore epistemologico, portati ben più oltre di quelli del Guyau e
degli intuizionisti francesi (da Renouvier a Bergson), Sa-cheli sviluppa il
significato del rapporto atto-valore. Si tratta di definire e qualificare le
ragioni dell'etica e della spiritualita nel concreto contesto. Egli mette
l'accento sulla realtà della coscienza, tutta integralmente valutazione e
valore, di fronte al dover essere. Nell'axiofenomenicità, secondo Sacheli, la
coscienza ritrova le concrete detrminazioni del dover essere universale e
imprescindibile: (A. p. 180). Ciò per la costituzione di un idealismo empirico,
criticamente non dedotto dall'essere ma costruito interamente sul dover essere.
Sì che il dover essere, nella sua axiofenomenicità, esaurisce in sè l'essere,
figlio del pensiero precritico. Nel passaggio dall'essere al dover
essere, a livello morale, l'impera-tivo, il comando non si può imporre
dall'esterno alla singola coscienza: il filosofo non va in cerca della legge
formalmente obbligatoria, bensì mette in risalto il carattere della sintesi
reale, valida proprio per la presenza abbinata del soggetto e del contenuto
oggettivo, nella portata axiologica. Questa Lebensanschauung del reale
trasferisce sul fondo di un sereno umanismo tutte le possibili costruzioni e le
relative ambascie metafisiche del mondo (A. p. 10l) nel piano del pensiero, e
perciò stesso ne garantisce la nobiltà e anche la risolvibilità. Sacheli
non si lascia allettare dal fascino del buio, come in quell'epoca B. Varisco, o
dal male e dal nulla vanificante: lo rifiuta come tenebra, come negatività,
come non essere, che non può venir posto in termini di bipolarità, equivalente
con l'essere. Egli pone la sintesi iniziale confrontandosi con la positività di
essa: vede lo sviluppo nella dram-maticità, nello sforzo del divenire,
nell'impegno della scelta e del supera-mento, tra il bene e il meno bene. Prese
le mosse da un punto precosciente si sposta dal dato sintetico all'atto nel
rapporto col mondo e con l'altro. L'acquisizione di coscienza per gradi
si dilata nella direzione del sociale. Di fronte al dato nel momento
della conoscenza, nell'atto etico comporta una scelta radicale: il
riconoscimento dell'essere si sposta a quello del dover essere; si svolge dalla
conoscenza epistematica a livello scien-tilico, a quella più avanzata a livello
etico deontologico: nel passaggio non c'è differenza di qualità, ma di grado,
sì che tutto il dramma della vita, superando gli ostacoli che si oppongono,
muove verso un'unica armonia. Il problema generale dell'axiologia umana
non è quello di dare le basi dei valori, bensì quello di assicurare
l'esercizio, nel superamento etico verso il regno del dover essere, dove la
certezza dà la misura della necessità. In effetti l'atto conoscitivo dove
l'induzione è strumento del sapere, a livello morale porta dall'attuale al
possibile, dal contingente e condizionale all'assoluto e incondizionale. Se
l'effetto può avere rapporti di identità con la causa, a livello morale è
sempre un dover essere che comporta continuo accrescimento spirituale.
Nella complessità del suo vivere axiologico il soggetto morale sco- pre
il significato dell'alterità. I soggetti al plurale, tra di loro sono in
relazioni interdipendenti, e realizzano un sistema oggettivo, universalizzante,
che li sospinge verso un'unità axiologica incondizionata. Anche il
riconoscimento dell'alterità per la via epistematica è una funzione analitica,
dove la relazionalità è scrittura del mondo fenomenico. Nel contesto
della fenomenicità il soggetto, promosso a persona, riconosciuti anche gli
altri soggetti ne aiuta l'ulteriore promozione. Per tali vie le persone
diventano società attraverso atti di coscienza individuali, soggettivi,
personali. Cosi cinquant'anni orsono Angelo Calogero Sacheli nella sua
filosofia morale procede per le vie della percezione, dell'induzione e
dell'analisi in momenti di mediazione, dal fenomenismo alla axiologia più
costruttiva attraverso una rigorosa epistemologia razionale e
individuale. Soggetto e oggetto, percezione e percetto, atto e sostanza,
si pongono nella sinteticità dei termini dove la differenza tra me e io non è
nè gnoseologica nè ontologica, ma è indicata da diversi gradi di
riflessione. Sacheli sviluppa la sua linea studiando nell'effetto il
nesso che spiega il perchè oltre al come (*), nel fenomeno che è presente ed
assieme possibile «nella sfera del pensiero» dove «l'infinito non può che
esserepotenziale». (Sacheli «Fenomenismo», Genova, 1926, pag. 17). Con ciò apre
una finestra sulla metafisica, per la ricerca di un assoluto. Ma in
questa sede dell'eticità epistematica egli non sviluppa la ricerca nella
direzione metafisica, lo farà più tardi. Egli qui si limita ad esemplificare
sino a confrontarsi con il modello incarnato dell'Uomo-Dio (A. p. 181)
«Il Cristo lega con l'immanenza sperimentale dei valori la nostra caducità al
soprannaturale, sopravveniente regno di Dio, Egli Figlio di Dio Padre,
travagliando al farsi della sua volontà, chiamandoci a quest'opera inesausta,
unica grandiosa e terribile, pregando Egli stesso, operosamente e solidalmente
con noi, per la realizzazione di tutte le nostre autentiche necessità di vita.
Egli assume - vale a dire - decisamente e coraggiosamente come valori le nostre
più marcate determinazioni empiriche...› chè solo nella sua concretezza tutta
la nostra vita è valuta- zione; tutta si dispiega in valori. «La
nostra giornata è piena di questa esaltazione spirituale senza interstizi o
vuoti e senza che un istante solo riafliori il non valore o il nulla, se non ci
associamo alla monotonia dell'abituale concettualizzan-dolo... Non c'è posto
per il nulla nella realtà fenomenica della coscienza». Non la ricerca
metafisica, ma il carattere epistematico e personale stanno a cuore nella
ricerca axiologica sacheliana del 1938-39. Il momento dell'induzione
diviene una seria operazione dello spiri-to, che fa presa sul reale, ed è
«esperienza... di un soggetto, un rappresentare mio, tuo e nostro» (pag. 147,
«Fenomenismo»). «Un accrescimento spirituale» che il soggetto,
particolare persona empirica, attua con una promozione di valore. Si afferma
qui «la natura axiologica» del dover essere che si realizza in spirito di
libertà. Nella vita associata considera l'interferenza fra i soggetti sul
piano della sinteticità come «anapodittica necessità», come già affermava
Vari-sco, assimilati per un processo d'induzione «senza neanche la necessità di
riduzione all'uno» (A. p. 319). La consistenza dell'io affermante e dell'io
affermato, l'equivalenza dell'io e del prossimo appare meravigliosa a Sacheli;
sistema oggettivo per l'idealismo empirico dove ogni soggetto è contenuto nella
coscienza dell'altro. con tensione verso l'unita, ma in autonomia, quasi vera e
propria rivelazione metafisica: il fondo del reale (A. p. 326). Tale
verità resta problematica, mentre il soggetto nel trascendimen-to di sè
riconosce l'alterità dell'altro soggetto. Il reale come molteplici- ta di
unità sintetiche attraverso la percezione tende all'unità axiologi-ca
nell'insieme dei soggetti. Ma per il pensiero critico (A. p. 330) diceSacheli
‹il reale rimane un acosmismo di spiriti fraterni per il quale sono state poste
tutte le condizioni di superamento, dove le condizioni dell'atto (causalità,
universalizzazione) sono connesse con l'unicità del dover essere». «Nel
reciproco riconoscersi essi realizzano un sistema di relazioni interdipendenti
e cioè un sistema oggettivo universalizzante che li sospinge verso un'unità
axiologica».... «ordine morale, universalità etica, che si adempie
nell'universalizzazione induttiva» (A. pag. 300). Il riconoscimento da
parte del soggetto degli altri soggetti rappresenta una crescita e «garanzia
del dover essere, nel mondo» (N. Rocchi) (*) «dell'axiofenomenicità».
Cosi si accentua il valore della concretezza della vita associata, fondata sul
rigoroso procedimento epistemologico assieme positivista per la sua concretezza
e spiritualista per la sua finalità, che rispetta in ogni soggetto l'altro per
aiutarne la crescita nella spontaneità, sino a trasformarsi da soggetto in
persona, nella tensione verso l'assoluto. Nel 1938-39, memore dei
drammatici anni della prima guerra mondiale e presago della bufera imminente,
forte delle teorie associazioniste del Wundt (R.P. p. 284), Sacheli insiste nel
sottolineare che il sapere positivo e la coscienza dei singoli nella pluralità
dei popoli porta a un cosciente umanesimo dove il senso di responsabilità
dell'uomo colora di sè la vita del mondo. L'iniziale positivismo
irrinunciabile nell'impostazione originaria del dato fenomenico si svolge in un
clima di certezza, di epistematicità e di scelta, si da ridare all'uomo la
dignità del suo essere e al mondo il destino del presente e del futuro, posto
sotto il segno della conoscenza, della verifica e della bontà dell'uomo.
Soggetto tra soggetti, dove la totalità di ciascuno, con integra
l'indi-vidualità singolare di ciascuno, garantisce della concretezza, ma dove
nei singoli si trovano le condizioni epistematiche dell'atto che, come va-lore,
tende verso l'universale concreto. Dove la soggettività etica è insostituibile,
il regno dei fini si instaura con la nostra tremenda responsabilità nella
nostra singolarità mortale (R.P. p. 253 e passim) nella nostra empiricità
individuale, nella tensione verso l'infinito. Quivi la stessa preghiera,
comune ispirazione ed esigenza, è l'uni-versale della coscienza, dover essere
proprio a ciascuno; come in ogni opera d'arte, in ogni sapere
scientifico. C. A. Sacheli, se insegnava a pregare alla nipotina bambina,
Giusep-pina: «Padre Nostro che sei nei cieli; sia fatta la Tua Volontà in cielo
e interra; dacci il pane quotidiano; perdonaci come noi perdoniamo; liberaci
dal male...», agli studenti universitari insegna a pensare, in un momento in
cui si è dimenticato il significato della parola «coscienza», indicando
l'identità di coscienza e di esperienza e nel trapasso dall'atto al valore
affermando la preminenza assoluta della spiritualità. Tutto il corso del
1938-39, senza sosta, è una testimonianza del filosofo che crede nel sapere e
annuncia sapienza e verità attraverso l'uma-no itinerario della coscienza:
dall'empiricità alla conoscenza scientifica, all'epistematicità morale, in
gradi successivi. Atto, induzione, sintesi, immediatezza, certezza,
evidenza, necessità; analisi e derivate secondarie, identità, essere, causalità,
causa efficiente; valore, liberta, scelta; e di nuovo sintesi del prima e del
poi, del fatto, dell'atto e del valore, nella continuità del vivere, in ogni
attimo che ricade nel dominio dell-homo sapiens» L'uomo questo individuo
concreto e finito in un mondo di relazio- nalità sa pensare, giudicare e
volere, ponendosi un fine. Emerge cosi l'epopea della società degli
uomini, cimento inimitabile e creativo per ogni esistenza, dove ogni singola
persona è responsabile di momento in momento; razionale soggetto di pensiero e
di azione, unitamente agli altri soggetti di responsabilità: tutti nell'impegno
epistema-tico, di fronte al mondo in costruzione, sapienti operatori di valori
in una cospirazione verso il destino finale; con un'apertura metafisica, non
fittizia finestra dipinta sul muro, ma effettivo spiraglio aperto
sull'infini-to, nell'universalizzazione induttiva, verso l'unicità del dover
essere. Il discorso filosofico di Sacheli si muove attraverso continue
valutazioni a livello gnoseologico, con rigorosa e intricata critica analitica,
in genere basandosi su giudizi di tipo riflettente, spesso riferendosi, per
esemplificare o chiarire, alle singole impostazioni di contemporanei, come a
quelle di Levy Bruhl, di De Sarlo, di Scheler, di Orestano, di Calo, di Martinetti,
di Carabellese pur diversi nel loro sistema filosofico d'in-sieme, ma
d'interesse esemplare per il convergere di problematiche non solo di
quell'epoca, ma della logica in assoluto, in tutti i possibili risvolti.
(A questo riguardo è interessante la presentazione della problematica da parte
di A. Poliseno, ma nei confronti di Sacheli riduttiva e defor-mante). Vero è
che Sacheli fu mosso da un'autentica passione per la filosofia morale, in una
lotta per la dignità dell'esistenza umana nel momento del naufragio del
formalismo dell'etica pura, come della vaporosità del sogno idealistico,
volendo ridare all'esistenza umana la sicurabussola della ragione nel tessuto
del concreto. Aperto all'istanza di dilatazione del reale conoscibile, nell'era
nuova del conoscere e del sapere, Sacheli propone all'uomo l'imperatività
morale, come garanzia di dominio di sè e del suo destino. Al di là della
moderna istanza metafisica che si sforza di assorbire i cieli sulla terra con
paralogismi surrettizi, Sacheli tende a restituire a Dio i Cieli e la terra
metafisici, per riconquistare all'uomo l'ineludibile regno della sua
responsabilità. Il messaggio di C. A. Sacheli, penetrando fino alla
radice dell'esiste-re umano, in spirito di umiltà e di verità, addita il vigoroso
impegno del soggetto nella varietà dei mondi reali e possibili emergenti come
dato at-tuale, per un rinnovato regno della persona, dove pluralismo dei popoli
e democrazia si riconducano alla sovranità della coscienza singola e
insostituibile d'ogni uomo, cittadino nel mondo che egli sa porre. N.B. -
Faccio presente che le citazioni delle opere del Sacheli edite nel 1938 •Atto e
Valore» (= A.) e «Ragion Pratica» (= R.P.) sono riportate nel corso del
testo, perchè in realtà stanno al posto delle espressioni che il Professore
usava nel contesto del corso universitario genovese 1938-39, di cui qui ho
rispettato fedelmente lo sviluppo. In altra sede presenterò l'atteggiamento
filosofico di Sacheli di fronte al problema metafisico. NOTE (*) Mi
corre obbligo esprimere la mia gratitudine alla Dott. Giuseppina Ferrante,
nipote del filosofo Sacheli, per le notizie biografiche che mi forni e per le
opere dello Zio che mise a mia disposizione, grazie alle quali potei
ricostruire il corso accademico 1938-39, di cui è oggetto questa memoria.
(4) S. CARAMBLLA, «La Figura e l'opera di C. A. Sacheli», pp. 7-17, in
«Conferenze sul pensiero di C. A. Sacheli», Palermo, 1959. (3) G. A.
CoLOzzA, tra l'altro v. «Potere d'educazione», Napoli, 1882. C. GUASTELLA, v.
«sag- gio primo sui limiti e l'oggetto della conoscenza a priori,
Palermo, 1898. «Le ragioni del feno-menismo», tre volumi, Palermo,
1921-23. (*) «I nuovi metodi di Portoreale», in « Rivista pedagogica», v.
1, 1915, gli studi su Pierre (°) Nello stesso anno 1938-39 Adelchi
Baratono teneva a Genova il corso di filosofia coretica
sull'empirisme e valore, parte i discete andato ne les edither, Copera
la, i nato in Atl pagina. ) Negli elementi della sintesi induttiva
coglie il percipi e il percipere. (R.P. p. 329 (v. Ragion Pratica.
Firenze, Sandron, 1938(8) Le soluzioni alla Blondel dove il principio di
causalità si inserisce come categoria essenziale a priori vengono rifiutate dai
metodo sacheliano dove il criterio di causalità è risvolto di giudizio
rifiettente nelle vie principi dell'induzione. (*) A. M. Rocchi ha
recentemente studiato il tema dell'alterità in Sacheli. Per il nostro assunto è
particolarmente importante sottolineare l'irriducibilità dei soggetti tra di
loro, sì che la responsabilità è sempre fondamentalmente legata al soggetto
nella sua singolarità. Fondamentale tema di riflessione oggi, proprio per la
responsabilità del singolo nei confronti di tutti gli altri soggetti. Ma
l'accento resta sempre collocato sul carattere irrinunciabile della conoscenza
da parte della coscienza personale. BIBLIOGRAFIA Note personali di
Giuditta Podestà sul corso di filosofia morale di C. A. Sacheli, tenuto
nel 1938-39 presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Genova. C. A.
SAcHELI, «Indagini Etiche», Palermo, Sandron, 1923. C. A. SACHELI, «Atto
e Valore», C. C. Sansoni, Firenze, 1938. C. A. SACHELI, «Ragion Pratica»,
C. C. Sansoni, Firenze, 1938. C. A. SAcHELI, «Preliminari per una
metafisica del valore» Ed. Ferrara; dispense univ., Messi- na, corso
1943-44. C. A. SACHELI, »De magistro• Testi latini, introduzione di C. A.
Sacheli, Lezioni di pedagogia anno 1945-46 - Università di Messina, Edizioni V.
Ferrara, Messina, 1946. CARAMELLA, ALBEGGIANI, ATTISANI, BIANCA,
«Conferenze sul pensiero di Calogero Angelo Sacheli», seguite da
dibattito e bibliografia: Centro di studi per la cultura siciliana. Quaderno n.
1, Tip. Italmondo, Palermo, 1959. GISEPPINA FERRANTE, «In ricordo dello
zio C. A. Sacheli», manoscritto, Genova, 1989. A. PoLISENo, «Dall'etica
formale alla morale teorica» in: Spazioscula, 1989. SCIASCIA, «Dalla parte degli infedeli»,
Sellerio ed. Palermo, 1979. ANNA
RoccHi, «Valore e alterità di Calogero Angelo Sacheli, Labor, Rivista
trimestrale di cultura e attualità. Luglio-Settembre 1989, Via Tunisi, 4 -
90145 Palermo.. Calogero Angelo Sacheli. Sacheli. Keywords: membro dei
parnasensi, parnaso di canicatti, massoneria, liberi muratori, folklore
canicattinese, filosofia siciliana, loggia felice cavallotti di Girgenti, implicatura
fenomenista, fenomenismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sacheli” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Saitta: FILOSOFO
SICILIANO, NON ITALIANO -- all’isola -- la ragione conversazionale all’isola --
l’animo – filosofia fascista – la romanitas di Tertuliano -- il ventennio
fascista – la scuola di Castelferrato -- filosofia siciliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Castelferrato).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Castelferrato, Enna, Sicilia. Allievo di
GENTILE, seguace e interprete del suo idealismo attuale. Studia a Nicosia, Monreale,
e Palermo. Frequentando le lezioni di GENTILE, si accosta al suo idealismo. Si
laurea in filosofia. Insegna a Terranova, Lucera, Cagliari, Sassari, Fano,
Faenza, Bologna, Firenze, e Pisa. Dirigge “Vita Nuova” a Bologna, cura la
rubrica Noi e gl’altri Spunto polemico, firmando i suoi interventi con lo
pseudonimo di "Rustico", distinguendosi per i toni accesi e le
posizioni anti-clericali e anti-concordatarie, che lo portarono a scontrarsi
con cattolici. Adere infatti a una concezione movimentistica e rivoluzionaria
del regime fascista, che interpreta come il compimento del valore romantico del
risorgimento, intendendo la nazione italiana in senso hegeliano quale sintesi
tra cittadino italiano individuale e l’universale della romanita. Col suo
attivismo riusce a esercitare una forte capacità d’attrazione. Così si sviluppa
quella tendenza a preferire la sua scuola di storia della filosofia dove la
preparazione di tipo scolastico e le esigenze tecniche sono minori, ma dove si
sente un calore ideale, una passione filosofica, un fervore per la italianita, e
una forza di convinzione spesso dura, e più che dura, ma più vicina a quei
sentimenti e a quelle esigenze fasciste, una decisione innovatrice suggestiva e
che sembra offrire un orientamento vitale per la soluzione di quei problemi. Accogliendo
la concezione gentiliana dell'atto come perenne auto-creazione dello spirito
italiano che tutto comprende, sviluppa una visione attualistica dell'idealismo
non riducibile a una teoria statica, bensì intesa come azione e continuo
dinamismo. Questo lo porta a esaltare la libertà creativa della ragione umana
contro ogni forma di oggettività e di dogmatismo. Da qui la sua accentuazione
della polemica anti-religiosa, e la riscoperta, nel solco delle tesi formulate
da SPAVENTA e dallo stesso GENTILE, della corrente immanentistica della filosofia
rinascimentale italiana che egli pone a fondamento della genesi dell'idealismo
moderno. Questo immanentismo, per il quale il divino si esprime nell'attività
dello spirito umano, è un reale umanismo che rende possibile la libertà
dell'individuo, nella quale consiste la coscienza illuministica, da lui
contrapposta a quella tradizionale, oppressiva e decadente, della
trascendenza. Per difendere la libertà
del soggetto da ogni autoritarismo e sopraffazione, si è schierato tuttavia non
solo contro il dualismo dell’accademia, la teologia di impianto aquinistico e
la neo-scolastica, ma in parte anche contro lo stesso idealismo di Hegel che
finisce per oggettivare la ragione facendone un sistema assoluto da lui
ritenuto all'origine dello schiavismo. Persino nell'attualismo di GENTILE e rimasto
un retaggio del trascendente, quando esso attribuisce lo spirito ad un io
assoluto anziché ai singoli individui. Sono costoro i veri creatori di valori
spirituali, coloro cioè in cui va identificato il soggetto trascendentale. In
tal modo intende preservare la portata stessa dell'atto creativo dello spirito dell'idealismo
gentiliano, rivestendolo di significati empirici, positivistici, contigenti. Altre
saggi: Lo spirito come eticità, (Bologna, Zanichelli; La coscienza
illuministica, Genova, Orfini; Libertà ed esistenza, Firenze, Sansoni; L’immanenza,
Bologna, Zuffi; La scolastica e la politica dei gesuiti, Torino, Bocca; Le
origini dell’aquinismo, Bari, Laterza; Gioberti, Messina, Principato); Ficino
(Messina, Principato); “L'educazione dell'umanesimo in Italia (Venezia, La
Nuova Italia); “Filosofia italiana ed umanesimo (Venezia, La Nuova Italia); “AQUINO”
(Firenze, Sansoni); “La teoria dell'amore e l'educazione del Rinascimento
(Bologna, U.P.E.B.); “L'illuminismo della sofistica” (Milano, Bocca) Il
pensiero italiano nell'Umanesimo e nel Rinascimento (Bologna, Zuffi); “L’Umanesimo
italiano” (Bologna, Tamari). Centineo, Ricordo, Giornale critico della
filosofia italiana, Firenze, Sansoni, Sorbelli, L'Archi-ginnasio: bollettino della
Biblioteca comunale di Bologna, direzione di F. Bergonzoni, Regia tipografia
dei fratelli Merlani, Università degli studi di Firenze, S. Salustri,
L'Università fascista di Bologna: un modello di Accademia per il regime?, in
Accademie e scuole: istituzioni, luoghi, personaggi, immagini della cultura e
del potere” (Milano, Giuffrè); Pisani, Paideia, Casa Paideia, Pertici, Storia
della storiografia, Jaca, Mangoni, “L'interventismo
della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo” (Bari, Laterza). Cantimori
ricorda con commozione l'irrequietezza spirituale della sua scuola e la sua
attenzione volta ad argomenti quasi ignorati dalla cultura Italiana – Bandini,
Storia e storiografia: studi su Cantimori. Atti del convegno tenuto a Russi,
Riuniti). Cit. in Pertici, Storia della
storiografia, “Forse meglio di ogni altro, intese dell'attualismo l'istanza
realmente umanistica, e di un "reale umanismo” “E questa appunto volle
sotto-lineare e difendere contro ogni mistificazione. Così lo vediamo ridurre
tutta la dialettica gentiliana a lotta sempre risorgente fra ragione umana
liberatrice e costruttrice di una società di uomini liberi, e la coscienza tradizionale
cristallizzata nelle oppressioni di strutture portatrici di una filosofia di
morte. Ricordo. La filosofia come
celebrazione della soggettività è quasi tutta sbozzata con Ficino. Con lui,
anziché col Campanella, come da altri è stato frequentemente ripetuto, s'inizia
la conoscenza illuministica, Centineo, Ricordo, Giornale critico della
filosofia italiana», Firenze, Sansoni, Morra, L'immanentismo assoluto, Giornale
critico della filosofia italiana», Garin, “Cronache di filosofia italiana” (Bari,
Laterza); Melchiorre, Storiografi italiani (Villalba di Guidonia, Aletti). Attualismo,
Filosofia rinascimentale, Idealismo italiano, Cantimori, Gentile Ricordo. Giuseppe Saitta. Saitta. Keywords: romanitas
-- filosofia fascista, l’universita fascista di Bologna, le reviste filosofiche
fasciste, Vita Nuova, immanenza e non trascendenza, lo spirito italiano,
l’universale dell’italianita, l’universale della romanita, l’amore di Ficino,
Campanella, Cantimori, contro la scolastica, animo, l’animo, vita nuova,
contratto sociale, Rousseau, Firenze. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Saitta” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Saliceto: la ragione conversazionale del diritto
bellico – la guerra è la guerra – scuola milanese – la scuola di Milano -- filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Balsamo).
Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Balsamo, Cinisello
Calsamo, Milano, Lombardia. Grice:
“Since Sua Eccellenza Verri-Visconti calls himself a hyphenated philosopher, I
who amn’t, shall list him under Visconti!” Esential Italian philosopher. Like
Grice, he wrote on ‘happiness.’ Like Grice, he writes on ‘pleasure.’ Like
Grice, he was a very clubbable man. Ritratto tagliato Barone di Rho. Consorte Marietta Castiglioni Vincenza Melzi d'Eril.
Figli Teresa, Alessandro (da Marietta Castiglioni). Filosofo. Considerato tra i
massimi esponenti dell'illuminismo, è altresì ritenuto il fondatore della
scuola illuministica milanese. Nasce dal conte Gabriele Verri-Visconti,
magistrato e politico conservatore, della nobiltà milanese. Avviati gli studi
nel collegio dei gesuiti di Brera, e uno dei trasformati. Si arruola
nell'esercito e prende parte alla Guerra dei VII Anni. Fermatosi a Vienna,
intraprende la redazione delle Considerazioni sul commercio nello Stato di
Milano, che gli varranno il primo incarico di funzionario. Pubblica le Meditazioni
sulla felicità. Devienne a Milano uno dei pugni, nucleo redazionale del caffè, destinato
a diventare il punto di riferimento del riformismo illuministico. Tra i suoi
saggi più importanti per Il Caffè si
ricordano Elementi del commercio; Commedia; “Medicina”; “I parolai”. Ha
rapporto epistolari anche con gl’enciclopedisti. d'Alembert visita i pugni.
Parallelamente all'impresa editoriale, intraprende la scalata del governo
d’Austria allo scopo di mettere in prattica le riforme propugnate nel
“Caffe”.Membro della Giunta per la revisione della "ferma" (appalto
delle imposte ai privati) del Supremo Consiglio dell'Economia. Fonda la Società
patriottica. “Meditazioni sull'economia politica”. Il discorso sull'indole
del piacere -- e del dolore”; “i Ricordi” e le “Osservazioni sulla tortura”. Il
suo è uno stile asciutto e libero, pieno di trattenuto vigore. Con
Giuseppe II al trono d'Austria, gli spazi per i riformisti milanesi si
riducono, e lascia ogni incarico pubblico, assumendo un atteggiamento sempre
più critico. Pubblica la “Storia di Milano.” All'arrivo di Napoleone, prende
parte alla fondazione della Repubblica Cisalpina, culla del tricolore italiano.
Muore durante una seduta notturna della municipalità. Grazie a lui Milano
divenne il più importante centro degl’illuministi. L'ipotesi di civiltà che
scature da lui e forse troppo avanzata per poter essere adeguatamente raccolta
dalla nostra cultura; e comunque lo colloca a pieno titolo tra le espressioni
più alte degl’illuministi. Il suo grande merito e aver creato in Lombardia un
centro di aggregazione illuminista: Il Caffè dei pugni, Ciò che desta curiosità
rimane il titolo con cui lui scelse di intitolare la sua testata, dovuta al
rilevante fenomeno della diffusione di caffè (bar), come luoghi dove poter
intraprendere un libero e attuale dibattito culturale, politico e sociale. Con
i suoi articoli sul dolore e il piacere, sottoscrive la dottrina di Helvétius,
nonché il sensismo di Condillac, fondando sulla ricerca della felicità e del
piacere l'attività degl’uomini. Gl’uomini tendeno a sé stessi al piacere e sono
pervasi dal dolore. I suoi piaceri non sono altro che momentanee interruzioni
del dolore. La felicità degl’uomini non è quella personale o soggetiva, ma
quella a cui partecipa il “collettivo,” quasi eutimia o atarassia. Per quanto
riguarda la politica e l'economia, lui è controverso. Per quanto riguarda
l'ambito economico, negli Elementi del Commercio e nella sua più grande opera
economica Meditazioni sull'economia politica, enuncia (anche, per primo, in
forma matematica) la legge di domanda e offerta, spiega il ruolo della moneta
come merce universale, appoggia il libero scambio e sostenne che l'equilibrio
nella bilancia dei pagamenti è assicurato da aggiustamenti del prodotto interno
lordo (quantità) e non del tasso di cambio (prezzo). Di conseguenza, può essere
visto come un marginalista. Si nota, però, come assuma atteggiamenti di difesa
del concetto di proprietà privata e del mercantilismo. S. ritiene che solo la
libera concorrenza tra eguali possa distribuire la proprietà private. Tuttavia
pare favorevole principalmente alla piccola proprietà, per evitare il risorgere
delle disuguaglianze. S. con le Osservazioni sulla tortura esprime la sua
contrarietà all'uso della tortura. Define ingiusto e antistorico un modello
così efferato di giurisprudenza e auspicando l'abolizione di questi metodi. Non
pubblica l’opuscolo per non inimicarsi, con le pesanti critiche alla
magistratura in esso contenute, il senato di Milano (tribunale) presso cui si
sta decidendo dell'eredità del padre. “Dei delitti e delle pene” di
Beccaria prende in gran parte le mosse proprio dalle bozze delle osservazioni
sulla tortura, oltre che dagli articoli de Il Caffè. E proprio a causa di
questo furto di idee che i due pugni arrivano al più acceso scontro. Nella
versione definitiva e aggiornata dell’Osservazioni, che sono in conclusione un
invito ai magistrati a seguire la dottrina illuminista invece di irrigidirsi
sulle posizioni conservatrici, la sua dialettica è cruda e basilare. La tortura
è una crudeltà. Se la vittima è innocente, subisce sofferenze non necessarie.
Se la vittima e colpisce un colpevole presumibile rischia di martoriare il
corpo di un possibile innocente. L’accusato rinuncia nella tortura alla sua
difesa naturale istintiva. Viola la legge di natura. Apre il suo saggio
con la ricostruzione del processo agl’untori, presentandolo sia come documento
dell'ignoranza di un secolo non guidato dai lumi, sia come emblema del modo in
cui una legge sbagliata porta a una evidente ingiustizia. Questa ricostruzione
forne la base per la Storia della colonna infame di Manzoni, che però la
presenta come testimonianza di ciò che accade quando uomini ingiusti detenneno
un grande potere, come all'epoca era quello del senato milanese. Il saggio non
arrivea mai ad avere il successo che invece ebbe Dei delitti e delle pene, vuoi
perché la maggior parte delle osservazioni in essa sviluppate erano già
contenute nell'opera di Beccaria, vuoi per via del suo stile, dotto e di difficile comprensione,
che rendeva di per sé ardua la diffusione della sua filosofia, che pure
conteneva molti ulteriori spunti rispetto all'opera del collega. La
Borlanda impasticciata con la concia, e trappola de sorci composta per estro, e
dedicata per bizzaria alla nobile curiosita di teste salate dall'incognito
d'Eritrea Pedsol riconosciuto, festosamente raccolta, e fatta dare in luce
dall'abitatore disabitato accademico bontempista, Adorna di varii poetici
encomii, ed accresciuta di opportune annotazioni per opera di varii suoi
co-accademici amici; “Il Gran Zoroastro ossia Astrologiche Predizioni”; “Il Mal
di Milza, Diario militare,” Elementi del commercio”; “Sul tributo del sale
nello Stato di Milano”; “Sulla grandezza e decadenza del commercio di Milano”;
“Fronimo e Simplicio; ovvero, sul disordine delle monete nello Stato di
Milano”; Considerazioni sul commercio nello Stato di Milano”; “Orazione
panegirica sula giurisprudenza Milanese”; “Meditazioni sulla felicità
colletiva” – cfr. Grice, Notes on happiness –; “Bilancio del commercio dello
stato di Milano, Il Caffè, Sull’innesto del vajuolo, Memorie storiche sulla
economia pubblica dello stato di Milano, Riflessioni sulle leggi vincolanti il
commercio dei grani, Meditazioni sulla economia politica con annotazioni,
Consulta su la riforma delle monete dello Stato di Milano, Osservazioni sulla
tortura, Ricordi a mia figlia, Considerazioni sul commercio nello Stato di
Milano – “Sull'indole del piacere e del dolore” -- Manoscritto da leggersi
dalla mia cara figlia Teresa Verri per cui sola lo scrissi, Storia di Milano,
Piano di organizzazione del Consiglio governativo ed istruzioni per il
medesimo, “Precetti di Caligola e Claudio”; “Memoria cronologica dei
cambiamenti pubblici dello stato di Milano”; “Delle nozioni tendenti alla
pubblica felicità” – felicita pubblica – felicita private --; “Pensieri di un
buon vecchio che non è letterato, Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri; L'Edizione
Nazionale delle Opere, Ministero per i beni e le attività culturali ha deciso
di avallare un'Edizione nazionale delle sui saggi. Il comitato, finanziato
pubblicamente, dalla Fondazione Cariplo e da Banca Intesa Sanpaolo, è
presieduto da C. Capra e composto da una ventina di studiosi e si basa
sull'Archivio donato da S. alla Fondazione Per La Storia Del Pensiero
Economico. Bartolo, Gli Scritti di argomento familiare e autobiografico;
Rivista di storia della filosofia. (Firenze: Nuova Italia). Carteggio di Pietro
e Alessandro Verri Cfr. Ricuperati, Il
genere della biografia, Società e storia. (Milano: F. Angeli, "Il Caffè", Introduzione.
Giordanetti, Piero, a cura di, “Sul piacere e sul dolore”. Kant discute
Visconti (Milano, Unicopli); “Giordanetti, “Le arti belle. Sulla fortuna di
Visconti, Visconti e il suo tempo, Capra, Bologna, Cisalpino); Renzo Villata,
Gigliola, Il processo agli untori di manzioniana memoria e la testimonianza
(ovvero... due volti dell'umana giustizia), Acta Histriae Storia di Milano,
Cronologia della vita di S., su storiadimilano. S., Enciclopedia Treccani, su
treccani. Ricordi a mia figlia, su classicitaliani. Catalogo Sellerio, su
Sellerio. Salerno editrice. Scheda del libro: Delle nozioni tendenti alla
pubblica felicita, su salerno editrice. Pensieri di un buon vecchio che non è
letterato, su classic italiani. Capra, Risultati e prospettive, in Rivista di
storia della filosofia, Scritti di economia, finanza e amministrazione, I
Discorsi e altri scritti degli, Storia di Milano, Scritti di argomento
familiare e autobiografico, Scritti politici, Carteggio di Pietro e Alessandro.
Caffè. In Venezia, Pizzolato); “Mediazioni sulla economia politica con
annotazioni, Venezia, Giovanni Battista Pasquali); “Meditazioni sulla economia
politica” (Livorno, Stamperia dell'Enciclopedia Livorno); “Sull'indole del
piacere e del dolore” (Milano, Marelli); “Storia di Milano” (Milano, Società
tipografica de' classici italiani); “Carteggio di Novati, Giulini, Greppi, Seregni, Milano,
Cogliati, Milesi e figli, Giuffrè); “Viaggio a Parigi e Londra. Carteggio di
Pietro ed Alessandro Verri, Gianmarco Gaspari, Milano, Adelphi); “Appunti di
diritto bellico” (Benvenuti, Roma, Benedetto, “Visconti repubblicano:
gl’articoli, Poesia, letteratura e politica, Alessandria, Edizioni dell'Orso,
A. Cavanna, Da Maria Teresa a Bonaparte: il lungo viaggio, Capra, I progressi
della ragione” (Bologna, Il Mulino); “Meditazioni sulla felicità, Pavia-Como,
Ibis); “Discorso sull'indole del piacere e del dolore, Spada, Londra,
Traettiana, Diario Militar, Milano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Filosofico. Storia
di Milano. MEDITAZIONI SULLA FELICITA Pietro Verri Digilized b^Coogk: Digitized
by Google -. [ MEDITAZIONI ! SULLA FELICITA 1 Ficirix fortuna fapientia ]uv.
Saty. XIII. IN LONDRA. Digitized by -Google Digitized by Google L* eccetto
de'dc'iderj fopra il potere la mifura
della infelicit : Le operazioni dunque da fard per accollarci allo flato di un
efferc felice fono o diminuire i defiderj , o ac- crefcere il potere, o l'uno e
l'altro iuficnie . La fomma de'defdcrj dipende dalla primi- tiva fenfibilt , e
dall'ordine delle idee ; la Comma del potere dipende dalle Leggi fisiche , e
dalla volont degli eflri penfanti. I defiderj hanno per fine d'evitare i mali,
e d procurarci i beni : la immaginazione di ogni uomo fempre difpofra ad ingrandire s gli uni che
gli altri ; ci fi vede poich reali- zandofi etti agifeono full' uomo con minore
ef- ficacia di quello, che s'afpettava : Un elmie imparziale della natura de'
defiderj nolri tende dunque a formarci un nuovo ordine d'idee, per cui l
diminuifee la fomma de' delderj me- defimi . II potere dpendenre dall'azione
filca de* corpi eflerni talvolta fi dilata coli' induftria ; e quello che
dipende dalla organizzazione del noftro corpo , con uri determinato regime . I
fuffragi poi degli eflri penfanti o fi compra- no, o fi conquidano, o fi
rendono indifferenti con una vita ofeura, ma conforme alle Leggi. Da quelli
clementi dipende l'accrefcimento del potere. * a Efi- Digitized by Google
Eliminiamo quelli principj, c comincia* ino dai defiderj. Le ricchezze fono io
Icopo d'uno de' pi comuni defiderj , e certamente effendo elleno un pegno delle
azioni, che gli uomini hanno falle cole , chi ie poflde fem* bra dilatare la
propria ellten^a , ed intereflre una pi gran parte delia Natura ne'fuoi pia-
ceri . 1! dclderio di effe non pu efiere dimi- nuito dalla ragione (in tanto
che fi circoferive all'adempimento de' bifogni filici, e civili; l'arte di
godere delle ricchezze molto pi rara
dell' arte d'acquilarle: chiunque fia giunco a pofidere un moderato patrimonio
moltiplica i fuoi defiderj, fia che per una mancanza di prvidenza preferifea i
capricci prefenti ai bi- fogni a venire , fia che con mal ragionata di-
firibuzione pofponga i bifogni prefenti ai futuri capricci; l'errore de!
calcolo s del prodigo, cie dell'avaro confitte nel preferire i bifogni
chimerici ai reali. L'attento efama filila natura delle ricchezze, e la
fperienza ci convincono che qualora eccedno i confini del bUbgno , portano feco
la fete di accrefcerle , l folleci- tudine di cuftodfrle, il fofpetto,
l'inquietudine, la vifta degli Eredi , un fafco in forama di fenzazioni
fventurace , che moltiplicano la fora- ma de'noltri defiderj pi afii di quello
cha non moltiplichino H potere. L'ambizione
forf la paffione pi fune- fta infieme, e benemerita di tutte; a lei dob-
biamo Digitized by Google 5 biafflo tutte le grandi imprefe; e v' quefro di
nobile ncll' ambizione , ch'ella tende a ven- dicare il merito opprefl dai
Bolidi Potenti , ed a provare che la diflanza porta dalla for- tuna fra un uomo
e l'altra non tempre uno fpazio infuperabile
. La mancanza d'ambizione, e l'eccedo allontanano egualmente dal rico care gli
onori ; nel primo caio non l cercane per indolerKa , nel feconda arni fi
cer-can perch quella che gli uomini credon grande un piccolo oggetto per noi. :v. ;. - . Chiamo
ambinoli quel che ricercano gii onori come mezzi di accrefcere il loro potere;
chiamo vani coloro che ricercano negli onori quel teitimonio del proprio
inerito che Boa trovano nella loro colcienza: camminano en- trambi alla loro
felicit qualora vincano I gra- di le
intelligenze fovra- umane nella noftra azione , ovvero manifefian- do una decil
fuperiorica di coraggio , virt, che fola, in ogni fecolo. e pred ogni nazio- ne
ha Caputo colbntemente- ottenere gli omag- gi degli uomini. Il pericolo di
quella conqui- da crefcc a mifura. della, violenza con cui fi tenta, ma infieme
col pericolo cteice la forza della impreffione. Si conquidano mediatamen- te i
furTragj' della moltitudine laddove il, detti- no della moltitudine dipenda da
pochi , otte- nendo da elfi una carica , per cui gli uomini afpetcino bene o
male dalie noftre azioni . Per imcrelr quelli pochi a darci l'impiego con-
viene conofcere il loro carattere ; in molti pu 11 danaro, in molti pu la
fiducia di dila- tare il proprio potere riponendo in carica- de' meri ftromenti
de' loro fini; alcuni pochi ce- dono all'opinione dell' abilita ; pochiflmi
fono KGi clic, non remino la fuperiorit de' lumi o. Digitized by Google di
forza d'animo : quelle qualit vedute, pro- ducono l' avverfione , fentite producono
il ti- more , efercitate producono l'
elerminio di chi. le poflde o 1' ubbidienza degli uo- mini . Finalmente fi
toglie agli uomini Tocca- tone di riftringe^ il nolr.ro potere forrraen-
~>ci a'ioro Iguardi con una vita ofcura, e ri- gorofmente conforme alle
leggi : quella ri- gorofa conformit colle leggi
indifpenfabi- le per contraporre al fentimento di fuperiori- t che gli
uomini focievoli hanno per i foli- tarj , quello dell' aperta ingiullizia, fe
ne fanno ufo. Quello il partito meno
pericolofo di ogni altro, e meno foggetto ai capricci altrui; ed quello appunto che flato ordioariamen- ne prescelto dai faggi.
Colia applicaziqne di quelli elementi, e con un intimo efame giunger potrebbon
gli uomini a migliorare la loro condizione dimi- nuendo l'eccedo de' defderj
fui potere ; ma poche fono le anime privilegiate , che refilti- no ad un
tranquillo efame di lor medeiime. Sono per la maggior parte gli uomini co- me
deboli ammalati che temono la vifta del- le proprie ulceri . I felvaggi
foddisfatti che abbino i bifogni filici rientrano nello flato di perfetta
tranquillit; ma a mifura che gli uo- mini s'allontanano da quello liuto
acquiftano una folla d'idee civili dal dlfordine delle quali . . nafce
Digitized by Google t II nafce quel mordace fentimetito della propria battezza
, che fi chiama noja ; quindi cercano , gli uomini d slanciarli a vivere
lontani da loro medefmi , quindi l* aborrimento della folitudi- ne e il bifogno
perenne d'una converfazione qualunque o del fonno. Cosi la vita dei pili fi rifolve
in ima collante obbedienza alle fcQ- lzioni degli oggetti attuali, alle quali
rariffime volte la rireffione contrapone l' immagine degl.i Oggetti lontani;
onde mutandoli pel moto no- veriate della natura o la dillanza, o l'apparen- za
degli oggetti , gallegiano le umane menti fu quello fluttuante appoggio, e
padano dall'odio all'amore, dal difprezzo alla (lima con una che ferobra
contraddizione a primo afpetto , ma che poi conofciuta fi rifolve in una legge
collan- te d'un eflere meramente paffivo, Con quelle cognizioni fofltuiamo al
pe- nofo fentmento dell' odio il pi giudo e pi umano che la compatitone degli errori delia moltitudine
: Da quelle cognizioni nafce di pi una vera e ragionata compiacenza di noi medeimi
, poich fentiamo la reale diftanza , che pafi fra noi ed i volgari , e la non
fattizia fuperiorira noltra in ci, che noi potiamo ef- fer con noi medefimi, e
fentire in una forte d' amicizia con noi
ftelfi il bene d' eldere , laddove eil portano fempre il loro nemico ovunque
vadino,cioi ri m orli , la diultima, e il tedio della propria eftlenza. * * 3
P* - Digitized by Google I* . Per confervarci quelli mattimi vantaggi con-
viene far molto ufo della ri fleflone in tutti gli atti importanti della vita ,
per il che o non com- metteremo azioni delle quali abbiamo pofda a pentirci,
ovvero quando ci accada non fare- mo a noi feffi il rimprovero d'avere fcelto
male per propria imbecillit -, e riflettendo ai confini , che ha Tempre il
potere e lo fpirito umano guarderemo come un inevitabile tributo i noflri
errori. La buona cofeienza e dunque il premio della riflefltone. 'Conviene
colla lineinone formarci una chia- ra idea della giuiHzia, voce fpefl ripetuta
e 'rare volte imefa. La buona cofeienza
un fenthrtento della conformit delle azioni noftre Colla gktftizia . La
giuftizia la conformit delle azioni noftre coHe leggi' . Le leggi fifiate
neh" univerfo fifico dall' autore del. la natura fono per quanto ne
fappamo -, femplici, e invariabili ; ma nell' univerfo mo- rale tanta parte
hanno avuto gli uomini nello ftabilimento delle leggi , le debolezze , gli er-
rori , le' private mire vi hanno s fattamente contribuito , che ad ogni pano s'
incontrano 1 dubbj , e f bifogno d'aver la mente illumina- ta per diilricarfene
. - : '
; L'unica legge univerfale, e
fempre ob- bedita dagli efTeri fenfibili
l'amor de! piace- re. Gli uomini che meno fanno ufo della ri- fleffione
fono molli dalle mere fenfzion degli ' " oggec- Digitized by Google
'oggetti prefenti , e comprano bene rpef un piacer attuale a prezzo d' un
difpiacere molto maggiore a venire: pi la mente
illuminata, e pi e* accolta all' cfattezza del calcolo di pre- ferire la
fomma de'beni maggiore alla minore. Una beatitudine eterna e infinita mag- giore di qualunque bene attuale finito:
una infe- licita eterna e infinita
maggiore di qualunque male attuale finita : fe l'uomo dunque, fofie
perfettamente illuminato non cercherebbe mai i piaceri che fono vietati dalla
legge divina ; ed a mifura che s' accoller a quefta perfezio- ne di lumi far
nella ftrada della giuftizia re Bgofa, ed in confeguenza lontano da'rimorfi
delta propria cofciehza. Bench l'onefta fia la bafe umana della religione ,
colicene chi offende le leggi dell' una offenda altres quelle dell'altra; pure
an- che da fe fola deve oftervarfi dall'uomo illu- minato . Qualunque
piacere minore dell* fomma de'
difpiaceri che fi ricevono dagli uo- mini qualora l ha il concetto et' efiere
mal- onerto: il difpreezo, la fuga, g' intuiti, l'infen- Abilit ai nofiri
bifogni fono gli effetti che ve- de feruti in feccia degli uomini chi fi
allonta- na dalla virt, ed pi facile
eflrc onefto che il portarne continuamente' la mafehera. Di pi; offendendo le
leggi dell' onelta nafee in noi m fentimento di difprezzo di noi ftefli
che 3 pi .crudele di tutti, ed una vile
timidezza, Digitized by Google per cui fi (cerna il noftro poteri ; quindi
fredda- mente concludo che l'amor del piaceremi. porta ad obbedire alle leggi
dell'ondili j mi mantiene nella ftrada della giuftizia morale, e mi preferva
dai rimorfi della cofcienza . Felici quelle anime che nell'amore della virt
rica- lano un freddo ragionamento, e che trafora- te da una vincitrice fiamma
per il bello e il grande Io onorano , e lo praticano per una volutt viviffima ,
che trovano immediatamente nell' onorarlo , e nel feguirlo ! Quando la .
traigreflone delle leggi ci- vili imponi la violazione delle divine o delle
morali, gi provato che l'uomo
rifcbiarato non la commette; ma quando la legge civi- le comandi di pi di
quello che le accennate due legislazioni prefcrivono, la privazione del- la
libert, 1* efiglio, e i fupplicj fono mali di tal natura che cercando
ragionevolmente il pia- cer nollro none poubile, che vi andiamo in- contro . Il
bollore delle paflon impedifce all' uo- mo di ragionare per alcuni brevi
periodi , a allora in pericolo di
divergere dal cammino delia giuffizia ; ma ogni uomo che a fangue freddo vi
travvia , d la pi evidente di tutte le dimoftrazioni d'avere un vizio nella
facolt ra- gionatrice, poich le due voci intereffb , e do- vere fi diftinguono
in ci folranto che la pri- ma rapprcfena il genere , l'altra la fpecie ; cio
Digilized by cio che il dovere un
Interefl molto con- forme alia legge, ma non ogn' interefl do- vere , poich vi fono delle azioni che la
legge ha lafciate in liberta: intereG poi contrario alla legge non poffibile che fi dia , poich una contraddizione il dire the fin noltro in-
tereli comperare un piacer minore con un male maggiore . Un'altra legge
prefiede al mondo ed quell'opinione
univerlle degli uomini che ehiamafi onore: efl per una parte molto efficace per fofpngere gli uomini alle
azioni utili alla patria," ma talvolta s'oppone alla legge della religione
, talvolta alla legge ci- vife ; talvolta la legge civile s'oppone alla
religione ed alla onefta : come fceglieremo fra quefe contraddizioni? Ho
ricevuto un' offefa , la religione mi ordina di perdonare. La legge civile mi
pre- fcrive come debba far punire l' avvertano dal giudice; l'onore ordina
ch'io me ne vendi- chi col mio braccio : fono fra l' infamia , la prigionia , e
il peccato ! La legge civile mi offre una ricompen- fa, e m'invita con pubblico
editto a tradire o ad uccidere un tale : la religione , e la onefl gridano non
tradire , non uccidere . Come eondurommi in quell'orribile labirinto? L' ufo
delia ragione mi fa conofcere che la prima fra tutte le leggi la divina , e che mio Digitized by Google i6 mio, dovere facrficar tutto alla obbedienza,
d* un EfFere maggiore di tutti . Devo in fe- guto formarmi idee chiare e
precife della vir- r, non parl di quella che ha la fila forgen- te nella
teologia, ma foltanro di quella che
comune a tutte le fodera d'uomini, a tutti j fccoli , e a tutte le
fette. Un atto utile in generale agli uomini fi chiama virt, e l'ani- mo
virtuofo quello che ha defiderio di far
cofe utili in generale agli uomini. _ Non Co fe la religione prometta di ob-
bedire ai proclami del Principe quando invita- no a tradire o ad uccidere uri
malfattore , ma fe la religione lo permettefle convien calco- lare fe ia pi il
bene che l ra agli uoniini li- berandoli da uno che giudicato perniciofo alla quiete prrbWica , ovvero : fe fili
maggiore il : male di autorizzare cel proprio efempio un : freddo- tradimento
ed un legittimo aflflinio . - A mifura che avremo pi lumi , a mifura che
combineremo le idee con miglior metodo fa- remo' pi (Scuri della noflra virt..
Per avere una limpida nozione de' rap- prti- che abbiamo cogli- uomini convien
ri- montare- all'origine delle cofe, e portarci coi penftero a quella rimota
infanzia de! genere umano , in cui ogni uomo occupato dalle fempliet fenfazioni
degli oggetti , lnza l'ere- dit delle ide compiette , che per una lunga
tradizione- accumulate pofldiamo noi prefente- men- Digitized by Google mente ,
eccitava la legge primigenia dell' amor del piacere foltanto lugli oggetti che
at- tualmente ferivano ! fuoi feai. Erano gli uo- mini allora indipendenti, .n
l conofceva altro rapporto d'un uomo. all'altro, che quello del- la robuftezza
dverfa , n altro vincolo era co- nofciuto. che quello della forza. Sia la brama
di fottrarfi da un male, (ia il defiderio di pro- vare un bene, egli certo che l'amore del piacere ha fatto ufcire
gli uomini dal primitivo flato d'indipendenza, e gli ha radunati in fo- ciet.
Il patto fociale abol il feroce mufco- lare difpotifmo, e colla induftriofa
riunione di molte forze cofpranti fi venne a ftabiiire l'equi- librio fra gli
uomini. Per far quello era indi- fpenfabile ci rcon feri vere l'ufo della
naturale li- bert d'ogni uomo con cene leggi fattizie, le quali fono uno fpropro
di parte delia liber- t per Scurezza del refto. Il fine dunque del patto
fociale il ben- euere di ciafeuno che
concorre a formare la ibeiet , il che fi rifolve nella felicit pubbli- ca o fia
la maggiore felicit poflbile divifa colia maggiore uguaglianza poflbile. Tutte
le leggi fattizie devono dunque avere per ifeopo la pubblica felicita, ed
eilndo interefl di ogni membro di mantenere s fatta unione , interefl pure di ogni membro che fi oilrvino
le Jeg;j; per le quali fluitile , giacch
violan- dole ecciterebbe gli altri a rimettere contro lui Digilized by
unitamente in vigore la primigenia legge delta La legislazione pi perfetta di
tutte 4 quella in cui 1 doveri, e i diritti d'ogni uomo fieno chiar , e ficuri
, e dove fia diftribuita la felicit colla pi eguale mifura poflbile fu tut- ti
i membri . La legislazione peggiore di tut- te
quella dove i doveri , e i diritti di ogni uomo fono incerti e confali ,
e la felicit con- denfatain pochi , lafci and nella miferia i molti. Quanto pi
fi accolla uno flato ad uno di quelli due eftremi , tanto la legislazione pi o meno conforme al patto fociale. Non fo
fe indipendentemente dal giudi- ce inevitabile poffa darfi fra gli uomini
obbli- gazione morale: fo che in una nazione dove il parto fociale non fia
lacerato , llntereue d cafcuno fa l' officio della obbligazione morale io
quanto lo porta all' ofrvanza del patto; e nella nazione dove fia offef h
natura del pat- to il medefimo interefl fa l'officio della ob- bligazione
morale in quanto che porta l' uomo a dilliimilare un male, quando opponendovi
fi vede incontro un mal maggiore. Le leggi poltive d' una focieta fedele al
patto fociale non poflbno mai efire in con- traddizione colle leggi dell' onefi
, perch dove le leggi hanno per ileopo la maggiore felicit potbile divifa colla
maggiore egua- glimiza poffihile non potrebbero effe eoman- Digitized by dare
un' azione oppofta alla felicit comune, il che lignifica maloneft . Quella
contraddizione adunque non pub ritrovarti che in una focieta traviata dal pri-
mitivo patto fociale; in una focieta viziofa, di cui in tanto non vedefi lo
fcioglitnento in quanto che per un artificiofo fcilma vengono Jparati i d lei
membri, n pollno riunirG a diimggerla ; in una focieta in fomma, in cui Ja
maggior parte di chi la compone non ha ntereife a mantenerla, ma foltanto a non
et fere autore della difioluzone . Ci porto ;
interetl noiro pofitivo la confervazione della pubblica opinione della
no- llra onefta; non intercfl noftro
pofitivo la confervazione della focieta traviata dal parco fociale; -vuol
dunque l'amor del piacere che preferiamo l'obbedienza alla onefta, ed ali*
.onore-, pofponendo le leggi civili fin tanto che il male d'aver tralgredfta la
legge civile non fa maggior del male d'aver trasgredite le Leggi dell' onefta e
dell' onore . Tali fono i veri principi del diritto e 'l faggio colla fcorta di elfi ha il metodo
per rifolvere qualunque problema nelle contraddi- zioni che incontra ftalle
diverfe leggi. Taii fono i rapporti di convenzione, che trovanti Ira un uomo e
l'altro. Ma altri rapporti vi fono fra un uomo e l'altro indipendenti da con-
venzione veruna, e fondati fulla fenfibilit nt> Digirized by Google 20 Ara ,
cio fu quella dolorofa reiezione che na- fte in noi qualora vediamo foffrire un
eflre fenfibi'e , e fiTattratriva di quella deliziof fen- ftzione che proviamo
vedendoci fuperiori agii uomini : fono quelle le forgenti pi copiofe dell'umana
beneficenza. 'Qualunque volta a un uomo cui fia noto che ila dolore, fi
prefenti la villa d'un efire fenibile addolorato , per quella fecreta conncf-
fione che pafia fra l' azione degli oggetti eiler- ni , e le fenfazioni noftre
, fa per un intern fremito delle intime fibre, fia in qualunque altro modo,
fatto ih che l'animo noftro fen- te parte di quei dolore, e pi lo rifente, e
pi fpiuto a procurare la cefiazione
della miferia in queir oggetto : ed ecco come la be- neficenza puramente umana
fia una emanazio- ne dell'amore del piacere. Quello il fentl- mento morale che nafce non gi da
uri fenib a parte, come hanno taluni penfato;ma bent da una affociazione d'
idee fefnplici che per analogia chiamerei il moro curvilineo della umana'
fenfibilita. : -"pi ' - Quella beneficenza
minore generalmente dove & l'eccefio d'una pailone afTorbirca l'ani-
moin lmfolo oggetto, Ovvero dove per difetto di elafii-ir* negli organi redi
l'animo intorpidi- to^ Mfgnofo di pafiioni. Di pi , poca bene- ficenza' trovali
s in coloro che bando avute ptche 'twcafioni- di foffrire , quanto iti' quegli
Digitized by Google 'che forti e frequenti ne ebbero, poich le f* bre fendibili
s' inaibrifcono egualmente o nel letargo o nell'abufo delle ripetute fenfoaoni
, e s'incallifcono e perdono quella iquifit fenfi- bilit che produce il
finitimeli co . Per fiflre fra noi e gli uomini le miglio- ri relazioni poffibili
per la nolra felicit con- viene conofeerci , e conofeer gli uomini . Per
conofeer noi flefl non cercheremo il voto degli altri, ma il nofiro: le
pafloni, e l' imbecillir degli uomini, ora cercano di. deprimerci, ora
d'innalzarci. Nettuno meglio di noi & fe in- tendiamo le opere di que'
primi genj , che onorano l' ingegno umano, n v'
termometro pi ficuro di quello per decidere del noflro ingegno-. Nefluno
meglio di noi fa fe ci Ten- tiamo i fcuotere al racconto d' un' azione g- Vile,
e viaiofa 1 , n> v' termometro pi ficuro di quello per decidere della
elevazione del n- flro cuore ; le noftre azioni a nefluno fono pi note Che a
noi-fteffl: fe la certezza non co- mincia iti noi non podibile che fiamo xa {errai o fiduri di
verona dimdfrazione. :-. - polazione
come mezzi per accrefcere le ricchez- ze relative. Si Vede che la baie di
quelle di- vinit la 'pubblica ficurezza,
quindi alcune na- zioni l'adottarono , altre vi 'fi avvicinarono'; perci o fu
abolito o diminuirti il difpotifmo e la tirannia. Da quel punto fino al d
d'oggi gli avantaggi de' paefi liberi fno andati Tempre crfcendo in europa , e
i principi fono nell* 'alternativa 0 d Vederti come tributari na- zioni libere,
o di abolire ogni Tchiaviri nella loro nazione. Tale il mto che in quello fe- colo ~ha F europa ,
che con fondamento preve- de il %gio che la liberta delle nazioni fia per
dilatarli. Quando ci iia fatto ,rinafcer l'anti- co vigore degli animi,
l'antica guerra-di na- sone e -riort Si principi , e per quefi* anello hi 'giro
-paneranno veritmil mente per fempre le 'nazioni 'europee , 'come l flagtoni
dell'anno filila terra.' In 'vifta di ci -potiamo 'giudicare Bel grado drfrnt
che meritano le fetenze, e prenderne quella porzione che giovi alla noftra
Teticitv : - : " : ; ' ' 'Da 'strni
anni a queth parte s' nfv- gliara iri europa k difpura f 'fiano pi i beni
o m'li di quella vita, cio fe l'uomo
indi- pendentemente dalla religione' debba vivere op- pure ucciderti .'- :
Ognuno buon giudice delle 'prprie
Tentazioni, c i pochi fiiidj , che fi con- tano, fembra-chc debbono decidere
della que- mmti L' errre fta nel computare la fperim'Za <' fra Digitized by
Google 3 fra i mali, quand'ella uno dei
principali be- ni ; ie fenfazioni aggradevoli che per efl ci ven- gono non fono
perci meno reali, perch il principio rifeda nella immaginazione. Non poflble definire qual fia il carat- tere d'un
uomo che univerflmente riefea in ogni fociet: non v' uomo per intentato che fia
, che in qualche ceto non pofl ottenere l fiima;non v' merito perlumino(b,che
fia che 1 in qualche ceto non potla edere difprezzato : E' pero vero che v' un
carattere che pi co- munemente deve condurre a viver bene in ogni fecolo e
pretto qualunque nazione, e credo ch'egli confida in un felice temperamento di
forza, e di dolcezza d'animo, cosicch n l'una degeneri in agrezza, n l'altra
renda Io fpirito debole e molle : Allora l' uomo refi egualmente dittante dalla
inurbanit, come da quella fervile compiacenza che Io difpone ad eflre un mero
finimento di chi ardifee di ado- perarlo. Fralle nazioni felvagge tutto robufto e forte . Fralle nazioni corrotte fi
vedono efpref- ( fututt'ivoti ^.compiacenza ed il forrifo. Fralle nazioni
illuminate fi legge in fronte agli uomini il fentimento della loro Scurezza , e
l'amore per la ofTervanza delle leggi. Il faggio giudica col fuo giudizio ; ha
un carattere che fuo ; Conferma talvolta
alla co- mune opinione le fue maniere efterne, non per Digirized by Google per)
mai i fuoi fenriment ; ricerca in rateo <fi giungere ai primi elementi delle
idee per pre- fervarfi dall'errore, e fra tutte le verit podi* bili ferite che
la pi importante , e dimollrata di tutte pei uomo , che deve cercare la pro- pria FELICITA*. FINE.
Digilized by Google 54o. e Oigilized by Google. . )A *&sa OPERE FILOSOFICHE
DI PIETRO VERRI Tom JIL (0 PAVIA PRESSO GIOVANNI CAPELLI i8o3. Quosdem ratio
ducil : qubutdam nomina dar apponendo sunl f a! auctoritas } quae liberum non
re linguai annum ad speciosa siupentem .
Seneca de Consolai Cap. II. PIETRO VERRI A L LETTORE MILANESE e uesf opera fu
scritta sono ornai quasi treni anni neU occasione in cui si volava sgombrare C
amministrazione pubblica dalle nebbie
dagli errori consacrati dall' anti- chit. Si credeva che i soli mezzi
per sal- vare la Provincia dalla carestia fossero i vincoli ; e quindi una
legge obbligava a notificare ogni anno tutti
grani raccolti ; altra legge obbligava a introdurre una data porzione
nelle Citt: pene severissime erano imposte a chi amassasse Grano senza ima
patente : cautele sulla macina de Mu^naj , i moltiplicheranno questi errori ,
tanto pi diverr la nazione corrotta , simula- ta , inerte , e spopolata :
essendo in na- tura umana l'imitazione gradatamente de' pi autorevoli , il ricorso all' astuzia a misura che si diffida
della sicurezza pro- pria ; e T avvilimento , o la fuga a pro- porzione che si
dispera la vita Egiata e tranquilla . Alcuni esempj rappresenteranno con chiari
contorni le mie idee . Suppongasi che si voglia accrescere la popolazione dello
Stato , dilatare la coltura sui ter- reni abbandonati , perfezionare i frutti
II del paese; diao che queste provvide idee rovinerebbero lo Stato se fossero
pro- mosse con leggi dirette , e se il legisla~ tore in vece d' invito e di
guila si ser- visse della forza e del comando . Le leg- gi dirette sarebbero,
per esempio, proi- bire T evasione dallo Stato , ed obbli- gare ogni cittadino
giunto a' 20. anni ad ammogliarsi ; comandare alle comu nit di mettere a
coltura le terre del loro distretto ; comandare il metodo di preparare la seta
, l' olio , il vino rac- colti ne' proprj fondi . Gli effetti di que- ste leggi
dirette e vincolanti sarebbero la spopolazione e la desolazione dello Stato .
L' evasione crescerebbe , perch r uomo ama meno lo stare dov co- stretto che dove spontaneamente sog-
giorna ; sarebbero ripiene le carceri di infelici cittadini non d' altro rei
che di non aver tradita una fanciulla associan- dola alla loro miseria ;
sarebbero le co- munit esposte alle esecuzioni militari per non avere,
coltivata quella terra per la quale mancavano le braccia ; gli sgher- ri, e la
feccia degli uomini rompereb- bero T asilo delle domestiche mura per incfuirire
sui metodi prescritti per 1' ap- parecchio de' predoni de' fosidi 3 e si ri- 13
fuggirebbero i sudditi affannati presso i finitimi abbandonando la patria . e
cer- candone una nuova, ove tranquillamente passar la vita sicuri di goderla in
pace sin tanto cbe le loro mani saranno mon- de da ogni delitto . Che se in
vece il legislatore inviter i cittadini alle nozze ; e gli esteri a sta-
bilirsi ne' suoi Stati con preferenze date agli ammogliati per gV impieghi , e
ono- ri pubblici , non renderli esenti da un tributo, col facilitare le vie
all'industria, coir assodare la propriet , preziosissimo bene dell'uomo sociale,
col procurare agli abitanti la maggior possibile per- suasione della propria
sicurezza nel che solo consiste la libert civile ; se affran- cher da ogni
censo i terreni nuova- inente posti a coltura , e i Coloni che li coltiveranno
; e lascier privilegiati da ogni gabella i prodotti di qae' fondi ria- nimati ,
i quali sono una vera conquista umanissima per lo Stato ; se dispenser dalle
comuni gabelle o in tutto , o in parte le materie prime delle terre pre- parate
co' metodi migliori ; allora , dico , coti queste leggi indirette si otterranno
i benefci fini che si propongono , e s otterranno stabilmente, poich'i la
ritrosa vo- i3 volont dell' uomo vuol essere invitata senzi scossa e guidata
senza violenza > perch s' ottenga un bene costante , e non compensato da un
mal maggiore : Laonde Y arte di scrivere buone leggi si appunto omelia di far coincidere r in-
teressa privato col pubblico , nel che con- siste la somma delle cose . In
fatti qualunque legge, l'osser- vanza ' di cui non ridondi in bene della maggior
parte ds'sudditi, , e sar sem- pre trascurata , e inutilmente si tenter di
proclamarla replicatamente , po.ich non porter essa se non effetti passeg-
gieri ed effimeri, cospirando a deluderla la somma degl'interessi privati che
vi si oppongono . Dal elie ne viene che do- vunque si veda ineseguita una legge
pro- mulgata e ripetuta ; se V antichit , e i fatti intermedj non vi siano che
1- abbia- no fatta tacere ; ragionevolmente se ne concluder essere tal legge
inopportuna; e questa generale teora altra eccezione non softYe che nel tributo
odioso sem- pre , sebben necessario ; perch V uomo comune sente pi i bisogni
suoi che i pubblici ; e perci appunto la migliore ripartizione sji pochi che ammassano l'alimento de' moki ,
e sai quali insea-. Cammei-:' o de grani b *4 , sibilmente se a risarciscono ;
e cos rendesi minore la somma degli opposi- tori alla legge, escludendosi in
tal modo da questa classe i consumatori , ultime termine del tributo , il quale
, rispetto alle terre , ed all' agricoltura
sempre eguale D sterilit . Questi principj sviluppati nella piena luce
de nostri tempi erano perfettamente sconosciuti ne' secoli passati. L'arte di
reggere una nazione era l'arte di tenere gli uoii.ini obbedienti al Governo: le
te- nebre del mistero coprivano tutti gli af- fari pubblici : la popolazione ,
l' indole del commercio , le Finanze d' uno Stato erano oggetti o sconosciuti a
chi regge- va, o ricoperti da un velo impenetrabile per modo che la strada de'
pubblici im- pieghi non era battuta se non colla ta- citurnit, colla
diffidenza:, e colla dissi- mulazione a' fianchi . L' arte di reggere una
nazione ora 1' arte di spingere la
nazione alla prosperit; ie verit annun- ziate da alcuni uomini privilegiati si
sono generalmente sparse in Europa ; sono queste salite sino al trono de'
benefici Sovrani , si sono scossi g ingegni ; e Goirailritto reciproco si va
moltiplicando queste elettricismo die rischiara gli 0- w getti relatiri alla
pubblica felicit degna delle meditazioni nostre non meno di quello che lo sono
le verit, astratto , i fenomeni della natura , ed i latti deF antichit ,
stretti confini che per lo pas- sato si fissarono all'impero delle scienze.
Dibattendosi in un libero , ma ur- bano conflitto le opinioni appartenenti alla
legislazione , facilmente se ne schiu- dono utilissime idee , le quali poi esa*
minate dalla penetrazione de' ministri fan- no emanar dal Trono felici
provvedi- menti, e questi aucbe naturalmente nati da' lumi de' Monarchi
giungendo al pub- blico lo trovano pi. illuminato, conse~ guentetaeate pi
docile e grato alla so^ rana beneficenza . Sotto il nome di le- gislazione
cadono tutte le materie di Economa. La grand' arte della legista zione prende
nomi diversi a misura cha si mutano gli oggetti a' quali si Volge : quando
verte sulle relazioni che la na- zione ha colle altre , chiamasi Diritto delle
genti ; quando si volge a rissare la propriet de beni e delle persone chia-
masi Diritto ch'ile ; quando ha di mira i costumi , la decenza , e V ordine
intero delle citt chiamasi Polizia ; quando ha per oggetto il tributo , 1'
annua ripvodu- b a iQ zi on e , ed il commercio dicesi Economia pubblica. La
grand' arie del legislatore si di
promuovere la felicit pubblica; dun- que 1' oggetto della pubblica Economia
si promuovere l'industria conducente
alla felicit pubblica . Le leggi proibitive o vincolanti il commercio sono
appunto nel caso di percuotere immediatamente 1' oggetto ; fion sono un invito
, ma un comando ; sono una porzione di libert tolta ai sudditi ; si ripetono pi
volte , e bene spesso rimangono deluse . L' oggetto di sua namra interessa
tanto la societ, eh' io spero non sia per esspre discaro l'esame ch'io ne
i-ctiaprendo . Esporr adunque prirnu rameme ' indole delle leggi vincolanti per
rapporto all'Econo- mia pubblica generalmente ; poi passer particolarmente ad
esaminare come sieno esse nate a togliere la libert del com- mercio de' Grani ,
e come in varj Stati d'Europa vadano abolendosi a'tempi no- stri ; finalmente
adatter i principi allo Stato di Milano . Entro in un'analisi piena d'aridit;
ma forza sviluppare i primi principi ,
definire . intendere me stesso per acco- starmi alla dimostrazione guscio sia
pog 11 $t-fbi!e; l'importanza del soggetto; la iolla delle opinioni volgari
contrarie ; Y appa- renza di paradosso che hanno le verit che sono per dire ;
la preferenza che merita la gloria di persuadere sopra l'al- tra di dilettare
mi costringono a diventar minuto , e non mettere le idee inter- medie almeno
per poche pagine . Perch un commercio si l'accia , non basta che sia libero',
bisogna che sia utile il farlo . L' utilit d' un trasporto nasce dalla
differenza del prezzo : conosciamo i primi elementi che formano il prezzo , ed
avremo conosciuto il principio mo- vente, la cagione di ogni trasporto , con-
seguentemente la cagione d'ogni com- mercio; conseguentemente il primo prin-
cipio da cui scaturiranno tutte le teorie dell'Economia politica. Per entrare
in questo esame preli- minarmente stabiliamo alcune definizio- ni. Cosa denaro ? L'indole del denaro non si ben conosciuta da chi lo defin misura del
valore ; poich ha valore egli medesimo nell'opinione degli uomini, e e come si
misurerebbe la misura ? Ne l'ha ben definito chi ha detto il denaro essere un
pegno: poich questa propriet cerarne a
qualunque cosa contr^ua- b 3 bile che pure e pegno della cosa eoa cui pu
combiarsi E stato detto' che i denaro e la rappresentazione del valore delle
cose', anche questa definizione poco
precisa; poich i metalli pure sono cosa come le altre merci, le quali vicen-
devolmente sono rappresentazione del valore del denaro. Cosa dunque il denaro ? la merce universale . Questa definizione
compete al denaro solo e comprende tutti gli e fretti e l'indole sua - 11 commercio il cambio che si fa omette inutilmente la legge tul- ruiuo. i
monopolisti : potr rovinarne alenai; ma saranno immediatamente suc- ceduti da
altri; troppo grande l'utile in questa
frode, e troppo mezzi vi sa- ranno sempre perch il ricco addormenti i bordinati
custodi della legge. Sem- pre che vi saranno vincoli , vi -saranno monopolisti
, e fin che essi vi sono , . _ :iolo
saia il numero de' venditori nei corso ordinario deli' anno a lroute de' com
retori ; perci saia alio il prezzo : di che i' esempio d'Inghilterra ci som-
ministra una piova di fatto , poich ac- r libert a quello commercio e ren-
ribass -:ti i prezzi interni In lo stesso. fa meraviglia oomo in mezzo a tutta
. 3^ la. rete de' vincoli tessuta ne secoli pas- sati non sia mai caduto in
monte di vin- colare anche la custodia del grano de- stinato per semente . In
fatti , seguendo i principj coattivi , che non suppongono inerente alla natura
delle cose medesime il mot al bene , ma vogliono impri- mervi questo moto, che
non poteva fi,' ;r\ per intimorire gli animi volgari , e far riguardare
sautarissimo e provvidissimo il vincolo sui grano da seminare l Que- sti una psrte sensibilissima del rac- colto ; sar
almeno la quarta parte .- e che diverr lo Staio ( potevasi dire ) se i:z
spensieratezza o l ingordigia caver da Gra- nai qmsto germe delia ventura
raccolta e. lo maciner t L' incent'vo dell' utile h Sem - pre urgente; V uomo
sacrifica i Insogni dell' anno venturo agli attuali . Dunque si ob- blighi ogni
possessore a depositare una pro- porzionata quantit di grano sotto la tv-trio,
pubblica per seminare il suo campo. Ep- pure questo non si l'atto mai ;
inimi- cato mai per questo il grano bastante a seminare ? Non mai .
Perch V iuteresse privato d' ognuno quando coincide coi pubblico interesse smpre il pi sicuro garante della sicurezza
pubblica ; e il bene o il mala in ogni costituzione ni d a 4o fa sempre dalla
pluralit de'sufira:; ti solo diversi nella Democraza dagli altri governi ; che
ivi sono palesi , e ne- gli altri taciti ed occulti ; ma non perci meno attivi
in effetto , e decidenti ogni stabile sistema . Ma si dir: una nazione agrcola
ciar un ordonnance que le Tappar: d' un
dix est eg etti d' un d vinai .
48 un ottavo d'oncia d'argento puro si chia- mer lira . Patto ci : la
proporzione dell'argento coli' oro e col rame; la tas- sazione di ogni moneta non
deb-b essere altro che una semplice operazione arit- metica appoggiata al
valore che 1' opi- nione universale d a' metalli , e allon- tanandosi da questa
legge inerente alla natura delle cose scapiter il Soviano , e la nazione di
tanto quanto sar l' ar- bitrario adoperato , allontanandosi della realita . Una
superficiale politica altro non sa suggerire che leggi vincolanti. Per fondare
una nuova manifattura si ricorre al privilegio esclusivo , e si toghe in fa-
vore d' un forestie"1 talvolti mal cono- sciuto , a tutt' i Cittadini la
libert di adoperare l'industria in quella classe. Cos si crea un monopolista
ciie seriv.a concorrenti non ha sprone all'industria ; e un vincolo universale
rarissime volte produrr che vada prosperamente una manifattura , come f
esperienza univer- salmente dimostra . Altri vi sono, i quali vedendo che V
uomo ha bisogno dell' alimento , del v ;rito , del fuoco ec. vorrebbero che una
nazione procurasse nel suo interno la produzione pi varia e pvop orzi nata
possibile a' bisogni : quasi che dove gli ostacoli politici non vincolino la
natura , sia possibile che non si dividano da se, e si bilancino le colture a'
bisogni dello Stato . L'oggetto dellEccnomia pubblica si di procurare* come si detto , la massima riproduzione annua
possibile , ad ottener questo fine ogni vincolo
un ostacolo. Tagli chiunque vuole il bosco, e sopra un terreno
disabitato vi pianti le case per nuove famiglie che lo colti- vino e lo
coltivino a lor talento. Se l'ec- cedente il consumo di qae' nuovi abita- tori
valga tanto da ricondurci nello Sta- to pi legna di quella che produceva il
I)osco , l'annua riproduzione sar accre- sciuta ; conseguentemente sarassi
fatta una mutazione salutare . 11 prezzo che colla libera concorrenza livella
ogni cosa, determinando l' interesse privato , deter- mina il pubblico , quando
i vincoli non vi pongano ostacolo . Quando la legna scarseggia il di lei prezzo
s' innalza , e s' innalza a segno che non torna pi il mettere a nuova coltura i
boschi ; e sin che si cerca di coltivarli
una dimo- strazione , che dedotte le spese della coltura , 1' eccedente
basta a far entrare Commercio de ^rani P. I, e 5o nello Stato pi legna di
quello che ne dava il bosco . Ogni legge che freni la coltivazione tende a
diminuire 1' annua possibile riproduzione . D' una nazione volerne lare un
piccol mondo un idea di simetra mal
intesa: procuri il legisla- tore che si crei il maggior possibile va- lore ,
cerchi , lo ripeto , di proteggere 1' annua riproduzione maggiore possibi- le,
rimuovendo gli ostacoli, e si riposi sulla natura delle cose la quale da se far
che si dividano ie colture a misura dell' utile di dilatarne pi una che V al-
tra ; utile sempre proporzionato al prez- zo nato dal bisogno , come dissopra
si detto . Il Mondo va da se , detto antico che singolarmente si verifica in
queste materie . Ogni vincolo , ogni legge che si tenti di portare direttamente
suli* industria , o sull' abbondanza pubblica produce un effetto diametralmente
op- posto : impegna una guerra sorda , e fa- tale fra il legislatore , e i
privati inte- ressi ; cadono alcune vittime di tempo in tempo; manca la
pubblica abbondan- za ; 1' avvilimento e lo squallore si spar- gono sugli Stati
, e danno un colpo ai gran principio motore dell' industria li libert -, r Quai
saranno adunque gli oggetti che occuperanno un Ministro di Ecoao- mia pubblica,
se tutto il bene, e la pro- sperit d'una nazione sono l'opere della natura , e
ricusano la mano dell' uomo i Rimuovere gli ostacoli, abolire i vincoli,
spianar le strade alla concorrenza ani- matrice della riproduzione, accrescere
la libert civile , lasciar un campo spazioso all' industria , proteggere la
classe de' ri- produttori singolarmente con buone leggi sicch l' agricoltore ,
o 1' artigiano non temano la prepotenza del ricco , assicu- rare un corso
facile . pronto , e disinte- ressato alla ragione de' contratti , dila- tare la
buona fede del commercio col non lasciar mai impunita la frode , sem- plificare
la forma , e 1' esaz'one de' tri- buti , ripartirli nel modo pi innocuo lion
mai direttamente sull'industria, com- battere con tranquillila , e fermezza in
favore della causa pubblica ben intesa, di quella causa che sempre la c-.msa del Sovrano; non disperare
mai del bene, ma accelerarne l'avvento, diffondendo nella nazione i germi delle
pi utili verit ; questi e non altri sono gli oggetti che debbono occupare un
abile Ministro di Economa pubblica : il restante foiz' abbandonarlo alla natnra . Era Ma corae nella
niente degli uomini sono universalmente nate , cresciute , e radicate colla
tradizione de' secoli idee tanto fallaci , e deluse costantemente da- gli
effetti quanto quelle de1 vincoli ? Co- me mai
accaduto che la parte pi colta dell' Europa sino a un secolo fa , abbia
potuto conservare questi vincoli e risguardarli come i garanti della abbon-
danza pubblica? Per conoscerlo bisogna ch'io brevemente esponga come pensas-
sero gli antichi in questa parte della le- gislazione , qua} tradizione siane
venuta a noi, come alcuni Scrittori abbiano co- minciato a combattere il pregiudizio
, e quali riforme gradatamente siansi vedute in Europa sin ora lo mi atterr
sem- plicemente al commercio de' Grani . Molti popoli antichi ebbero per l'a-
gricoltura non solamente amore , e ri guardo , ma rispetto e riverenza singo-
lare . L' invenzione di coltivar la terra fn da essi attribuita alla Divinit.
Alcuni 3Ionarchi dell' Asia si gloriarono di col- tivar la terra colle loro
mani (a) , come fai Scnofont de Oezonom. C/c de Sentct Plm. l.b. 18. ap 4. 53
aticlie al d d' oggi s costuma nell' im- pero Chinesc . I Ptomani sino dalla
fon- dazione loro destinarono eli* agricoltura i primi onori , e gli ArVali ,
cos detti ab Anis , furono Sacerdoti distinti , e privilegiati sugli altri (a)
. Sono bastan- temente noti i fatti della Romana Storia, e di Cincinnato, e
d'altri illustri Roma- ni che dall aratro passarono a! trionfo , e dal trionfo
all' aratro (b) . In Roma fu tenuta sempre in onore l'agricoltura sin che in
onore vi fu la virt ; ed ogni mezzo per promoverla , e favorirla , fu sempre
risguardato come uh oggetto pre- zioso a segno , che mentre tutti i libri
rappresagliati nel sacco di Cartagine si distribuirono dal Senato Romano
a'Prin- cipi alleati , il medesimo Senato volle ritenere per f i vent' otto
libri sull' agricoltura di Magone Capitano Carta- ginese, e ne commise la
versione a De- cio Silano , e gelosamente furono cu- stodii dappoi ; del che
reggasi Plinio , e 3 (a) PJhi -.'ero de A^ric et Macro Su tur lib 3- fhi Pin
Iti 4. cap 3. Livio Iti 3. Jlor i7iis. JiUar Uh. e. de de mta, Ul. I* cap 42 (e, Crcer Tlsc cuaeti 1:6 5 5? . e nel Codice
(a) de naturahbus liberi* &i confondono indistintamente la donna quae
mcrciinoniis publice pracfuit, e la Schiava, 1' istriona , e la scostumata ;
vcggansi Considerati ons sur la grandeur et la deca- denze des Roma in s (b) ,
e l'Esprit des Lo ix (e) . Nel corpo delle Leggi Romane tro- viamo che parlasi
degrani singolarmente nelle Pandette ; e non sar inutile il qui riferire quanto
vi si legge. Al titolo dun- que (d) de extraord. Crini, vedesi Anno- nam
adtemptare et vexare vel maxime Uar- danarii solent . Quorum araritiae obviam
ilum est tam mandatis , c/uam Constitulio- nibus. jtfandatis denique ita
(.aostur . Prae- terea debetis custodire ne Dardanarii ullius mercis sint , ne
aut ab his , qui coemptas merces sappi munt aut a locupletionibus , qui Jructus
suos aequis prctiis vendere nollent , duin minus uberes proventus oxpectant. .
no Annona oneretur . Poena aulem in ho$ va- rie statui tur . JS^am plerwnque si
negetian fa' Idem Uh 5 (beinpro- nia prooosta da Caio Sempronio Gracco per
togliere dalla radice questa funesta generosit de' privati, venne stabilito
che pubbliche spese si distribuisse ogn*
anno una quantit di Grano al popolo. Qualunque sia stato il fine di questa
legislazione, il fatto fita che poche Storie del Mondo raccontano s frequenti
care- stie quanto la Romana. Per testimonian- za d' Alicarnasso (a), e di
Plutarco () vi fu carestia in Roma nell'anno di su* fondazione 244- Troviamo in
Livio (e) al- tra carestia nel 262. Nello stesso Auto- re (d) carestia nel 3oo.
Parimenti da Li- vio (e) vedesi la carestia nel 3 e 5. 11 me- desimo Storico
(f) ei riferisce la care- stia del 363., ed ecco come ne' primi '. 'J ^.Jli. _ J>JliJR?..JAiL.lJL. mie.
fa) Lio x. (h) In Corcai. (C) 2 34. (d) 3 33. f) 4 12, (0 4. 5a. 6o tempi di
Roma circa quattro volte ogni cent' anni fosse quella nazione esposta al
pericolo di morir di fame . Ne' tempi di minor virt , e maggior fortuna . cio
al principio dell'Impero leggiamo in Sue- tonio (a) una ferocissima carestia
sotto Augusto per cui dovettersi bandire da Roma gli Schiavi , i Gladiatori , e
i Fo- restieri . Troviamo pure in Suetonio il medesimo disastro accaduto pi d'
una volta sotto il Regno di Claudio (b); cosi sotto V Impero \ Adriano per
testimo- nianza d' Elio Spartiano ; e cos molte altre volte , il che formerebbe
un cata- logo lugubre e vasto per chi volesse im- piegare il tempo a compilarlo
esatta- mente . A fronte di questi fatti sarebbe stato giusto il ragionare cos:
se in Roma , malgrado le leggi coercitive del com- mercio de' grani , malgrado
una severa legislazione contro i monopolisti , e gli incaritori del grano , il
popolo stato frequentissimamente
soggetto alla care- sta : (a^ In Aitgvst cap 41. (bj li Claud x8 cap 20. Or
stia ; dunque i vincoli immaginali dalle lor leggi sono insufficienti ad
assicurare la pubblica abbondanza. Forse nel tem- po della Repubblica vollero i
Romani comprarsi la libert anche colla fame ; e si temettero pi le pubbliche
larghezze colle quali si seduceva la plebe di quello che si temesse la stessa
fame: fors anche quella nazione guerriera t e non com- merciante,
conquistatrice, e non curante degli oggetti di pubblica Economia cre- dette di
potersi salvare dagli effetti sen- za ascendere alle cagioni delle cose. Ma cos
non s ragion; la cieca venerazio- se prevalse, e quel sentimento di rispet- to
td entusiasmo che ispirano gli avanzi istessi della Romana grandezza non lasci
luogo a ragionare, ma forz l'imitazio- ne de' successori persuasi di andar bene
quando seguivano le tracce lasciate da' Romani Pure nella situazione de' paesi
d'Europa facile sarebbe stato il conosce- re la differenza ; poich Pv.oma sin
da* primi suoi tempi dovette vivere col gra- no degli esteri, e invece d'essere
uno Stato attivo nel commercio de' Grani fu anzi sempre tributaria, e passiva
Le ti e Isole Corsica, Sardegna, e Sicilia son quel- le che Cicerone chiama.--/
a benign issino $ Ito- Commercio de grani Jr,% i 6 mae nutriaes et trio,
frumentaria subsiila Rei* puhUcaa . Accresciutosi poi f Imperio , e e con esso
la popolazione di Roma , vi si portavano i grani anche d' Affrica , d' Egitto ,
Iella Beozia, della Macedonia, del Chersmeso, dell'Asia, della Siria, e
talvolta delle Gallie , e della Spagna , come comunemente vedesi ne' Scrittori
(a). 1 gran; dunque in Rocna furono sem- pre considerati un mero oggetto d ab-
bondanza , non mai un prodotto delle terre proprie da conservarsi ; ivi cgni
commercio di grani si fece quasi sempre a spese del pubblico erario, dal che
com- provasi quanto indebitamente siasi voluto far servire lo spirito delle
leggi Romane di norma allo spirito delle legislazioni posteriori dell'Annona
massimamente ne* paesi coltivatori , e abbondanti di pro- prio grano . Le leggi
Romane , cio la raccolta delle leggi Triboniane cadde come sap- piamo coli'
Imperio ; indi collo scopri- r'! Plutarc in Coes. Sex Aurei Vct. in Ociav Liv
li 33 Cic in Verr. et pr Leg et ad Attic Epist g f^aro de re Rustica. . Pi . Ib
18 et iq Joseph, ex Vrtfion Agripae ai Jmko Ciiiudian l i. 63 mento delle Pandette
riprese credito, e vigore . Allora fu che verso i tempi di Lotario fecondo ,
lrnerio apr in Bolo- gna la Scuola di Giurisprudenza , e a tal venerazione
ascese quella professione che da un consesso di Giurisperiti si rego- larono
gli affari di Stato sinch giunsero Martino e Bulgaro Lettori di Bologna a
disputare la gran causa della libert e della servit del Globo Terracqueo co- me
diffusamente leggesi in Ottone Mu- rena nella Storia di Lodi . Tale lu l'a-
scendente che prese allora quella pro- fessione che f Ircperador Ccradino fu
dal Re di Francia giudicato in un Consi- glio di Giurisperiti divenuti gli
Aruspici di quel secolo, e de' consecutivi . Lo spirito de' Prammatici ,
general- mente parlando, quello di operar
sem- pre con leggi dirette , e comandare la prosperit a una nazione , anzi she
diri- getela ; cos se una nazione sia perden- te nel commercio , ed abbia la
bilancia in proprio discapito , per il che sia for- zata necessariamente a
trasmettere il de- naro a' forestieri , vedo lo spirito de" Pram- matici
rivolersi , non gi a svincolare l'industria nazionale, ed a togliere la ca-
mion del male; ma bens a proibire 1' u- f 2' scita del denaro medesimo con
inutili tentativi : giacch non possono proibirsi gli effetti sinch sussistono
le cagioni. Cos se per cattivo regolamento da uno Stato cercano d'espatriare i
sudditi, e singolarmente i pi industriosi tarai sono i ma affatturi eri ,
osservo che i Pramma- tici in vece di ricorrere al solo mezzo di conservare la
popolazione . voglio dire a procurare agli uomini nello Stato la ti* curezza ,
la libert , la protezione, eguale per Io meno a quella che possono tro- vare
altrove , ricorrono a leggi penali proibitive dell' evasione , inutili sempre
per lo meno . Se un Banco pubblico non trova la confidenza della nazione ,
invece di tarla nascere con una chiara e semplice amministrazione tuttricc
della tede pubblica ; ordinano con un Editto che la conti. lenza nasca
obbligando ne' contraiti a ricevere le Cedole del Bmco, mezzo puntualissimo per
alienare sciupio pi la pubblica conldenzn . Lo stesso dico delle tante
prammatiche che dallo .spirito de' Giurisperiti sono state propo- ste dal
Secolo terzo sino al presente , c.oc smo dal tempo in cui Giulia Mara* :nea
assistila da un consiglio di Gi- . riti rognaya per Alessandro sue ! 65 volendo
ridurre gli nomini sudditi del vasto Impero Romano alla regolarit Claustrale
(a) ; le quali prammatiche ten- dono ad estinguere in gran parte la va- nit , e
r emulazione animatrici dell' in- dustria facile ad assopirsi cessando que- sti
stimoli , tolti i quali cade ogni na- zione nella inerzia, nel letargo, nella
povert , e nel' avvilimento . Lo stesso spirito de' Commentatori del testo
delle leggi , spirito diretto e vincolante , spirito che comanda e non guida stato quello che ha suggerito d comandare al
popolo che credesse che un'onGia d'oro valesse pi d' un'oncia d' oro , un'
oncia d' argento pi d' un' on- cia d' argento , o meno di quello che
generalmente viene valutato in Europa , come facilmente pu vedersi .presso la
maggior parte de' Prammatici . Questo spirito , che non considera la felicit
pubblica come il risultato della felicit della maggior parte degli uomini , ma
bens cerne un essere immaginario, e di- viso da ogni uomo ; questo spirito che
f 3 (a) Aehui LampT.d. in iA!aa apenc anzi uri umo cospicuo di coi.nnicrv.ir
attivo, trasportando agli e;teri 1' e.:cc- .djue il proprio bisogno (a) e il
i'ortu- ^iuio effetto di questa lege !e' due i.) C rali( r IN ok . '' . Lais tres n/itians '' in 1 U - fa
fomiti" ; roycnu ,?r j. J oh i a u ' s projcts qu pouf s tu ^.drantir ;
nous cvons trojui' pai /u primu .
}ssa:re la ri'x : plus /laurei tx qur.
nus te$ i:c- li s voint ces ex- clssi^
et subites dijjcrenccs dans le piix dts (a Lo stalo di e->p->rta~ione de'
Grani- pre- sentato ntl '75 alla Damer de' Comuni dimo- 8 .'ie sono usciti
dall' Inghilterra dal 1^46 al I^o Ouarter 1200000 circa , 1 qunli .si STTO
ve-duti lira Sterline 74c5d , cio rivea sedici 1ml1_.n1. e da gerito Novanta
mila Zecrbini sor.o fcut:.t: per qpes ' ail.c ilo neli' Inghilterra , e ramo
'ti ut;!s Comixieicio p--r nderui; to pstdaira. a quel Regno 1'
anntfr-~guadag--di /- cliuii ^2 oco '> "-Iternarjues sur ?g$ hvAnUrgS
ci ! f dftran- tJges de la Franca et de la Grande Bn/t^-.c , l>.ea e 1734 pag fi- 93 des blds toujours
causes plutt par la crainte que par In realif de la diseite , erainte qui
souvent en avance et en aug- mente Ics hrrears . En pluce de vastes et iQinbreux
greniefs de ressource et de pr- voyance nous avons de vastes plaines ense-
mencs dont leproduit se renowelle et s ac- ero it tous les ans . No tre culture
, et nos rcoltes soni devnaes sans ornes des que r.os Laboureurs ont t srs
d'une censom- matton cerfaine au deors , et au dedans . I due esempj fecero rivolgere alcuni politici del
continente a pensare su di questo argomento. 11 Maresciallo di Vau- ban nel suo
Testamento Politico stam- pato nel l'yoS. (a) iu di opinione che le pauvre
perii par /' avilissement du prix des Bleds , et V extrme sterilite ou ehert
est inevitable de temps en temps sii ny a une continuelle permission 4
enlvement hors le Royaume , except les temps de c/ier ex- traordinaire qui portent mme leur
de/'ense avec eux . Molti
Scrittori dappoi si an- darono accrescendo , e a misura che l'Economia pubhliaa
fece progressi si Commercio de grani IP. I. g (?j Pagina 189. moltiplicarono le
grida in favore della jihert del Commercio . la fatti nelle tauuzioni che il Re
delle Spagne Filippo V. in data del 4- Luglio 1*718. consegn agi' Intendenti
delle Provincie leggiamo rlcnne massime in questa materia lontane dalla antica
pratica , e che gi comin- ri;:no ad acco3tarsi ai progressi del Se- colo. Now sar discaro il
vederle. PSelle istruzioni adunque aH'Articolo LKf. cos legge&i (a) : che
il principale oggetto del Ministro degl'Intendenti si cf eneenra- ;r;- et de mantenir l"
abondance des pr- ductions de leurs Provinces , sur toni celle des 'jrains ;
(/'/e puseurs se Irompent sur les moxens , pretendane iction dans le Bled , elle doit 4fre dans
toute son etendue pour les autres denres , et marchandises . Poi parlando specialmente Hel grano (/?) dice
Soit dans la disette , soit dans V abondancs la libert C?es transports d' une
Province V autre est le Jondement d'une
borine Regie E' vero die questo Autore non aveva idee decise e chiare per la
libert del com- mercio de' grani ; ma per si conosce che nemmeno era persuaso
che i vincoli fossero un bene. Ne' tempi a noi pi vicini vennero poi l'Autore della
Theorie de l Impot , il quale disse che ceux qui ne voyent que le pain dans T
agricolture , jettoient T Etat dans une dsettc vnversclle , si on li tir
confinit la direction de V Agri- euture et da Commerce des pi'oduciioiS de la
terre . La terre est la source de toute s les richesses aV une Nntion Agricole
; mais en n ottieni ces richesses que par les d~ penses de la culture , et par
la libert du fa) Pag 55. (b} Pagina 3af. w Commerce das proiictions gii elle
fai' n . tre (a) . Dello stesso de:iso $ntfna&nt si mostr X Amore degli
Elemens du ( merce in cui lesesi: les peiiples qui n'o'if cnvisag la culture
des terres que da coli; de la subsisfancc ont toujours vcu dans l cralnie des
disettes , et les ont souvent eprou- j-V:?s . Ceux qui V ont envisage corame
ufi oljet de Commerce ont joui d une abon- dancc assez io&tenlie pnur se
trouver tou- jours en tttt de suppltr aux besoins dea ctrangers . V Angleterre
nous Jfnt font la /bis r un et, V autre
exemple . Ette avoit suivi , camme presqus tous les autres peuples , /' esprit
dei loix Romaines sur la polics des grains . Loix genantes , et con
traires a leur ohjet et. {/;) . Il Traduttore del The BritLsk
fll-irchant parlando dei hi Legislazione Inglese sui grani dice . De- puis que cette police
y est iiblie elle n a point essuj de Jamine . Le pam s'y sou-* fa) Thcorie de
l' linpot -par V Auteur de Fami des lommes: h. Amsterdam cuez Arkte et Mer- kus
1761 pag 76. (b) Elemens du Commerce :
Leyde et s^ frouve a Pam chea Itis>rij eie, 1704, Tom- 1... pag. 105.
"8. , iient a la vcrit un eertain
prix : mais ce ri psl pis tant le boa marche de cet'e den'e quii imporle de
procurer au peuple , que Ics moyeus de t acheter ; le salai re des ouvriprs est
toujours en raison du prix des denrces'. Ics grandes P^illes en sont la preu-
i> e (a) . Cos sulla circolazione interna de' grani s' esprime 1' Autore
delle Conside- rat'on sur le Finances d" Espagne (/>), La libane de la
venie, e du transport dans 1' intrieur sans aucune restriction , ac- acroit la
concurrence des vendeurs et des acheteurs ; e' est- dire quelle fa- ?ilite la
subsistance du peuple, en me me tems qu elle encourage la culture. P ri memi ,
e con termini pi illimitati si dichiara 1' Autore delle Rcmarques sur plusieurs
/>ranc/ics de Commerce et de TVa- vigation (e) che V uni que rnoyen d' cu-
courager X Agricultnre c'est de permet- tre l'extractioB des grains pour les
pays eiranarers. Elles ont constamment mar- )> , e in altro luogo ritornando
a quest'argomento ragiona cos _- L' in- tcrt regne galement chez toutes les
ions : raais nous avons un prejug plus que Ics autres ; une police diffe- rente
, et des Rglcment particuliers fa.) sfai
sur la potice generale des G-rans sur l(u.s pfix et sur les ejftts de V
Agr'Hulturt ; ;\ Ber- lin i ,j . pag s5 (aj _. ' 3; {malmeni** irv altro luogo
legge-i presso lo stesso Au- tore si la vile t du prix est u ob*tacle la fecondile ; si no-? terres peuvent fournir
au de l du ncessaire, et nous 'pi vsentent une mine plus abondante (me ceies du
Peroa ; si la linerie ab solve peut ncus parer de tous iueon- veniens , et nous
procurer de grand avantages; mettrons-nous encore ds bor- nes an\. bien-.its
d& la nature .' Et no- tre Police timi le , et variable serat eic toujours
allarmtte par une crainle po- apnlaire? (b) . Non mi diffonder pi ol- tre a citare i numerosissimi suffragi de-
gl auto-ri che tutti concordemente disap- provino i vincoli vigenti fra!
commercio de' gr^'.r ; dir soltanto che in questo secolo sempre si andarono
moltiplicando le autorit de' Scrittori (e) , e per grani si andarono mutando le
idee de' Ministri. (i) Pag r33i (b! Ibidem paT =63. f) Per il che veggans
Observations sur te de* Orain Amsterdam i-"q. J.ci'rc sur l' imputa tion
jtiite Colbert d' cuoir Inter. Ut la UberlJ du Commerce das Grains Paris 1763 Lc/.'r.'
d' . - :nt sur l j.vts iiux fiomietes
gens qui rculcnt b;cn Jaire par M. .Abbi Bandeau "aris 768 Lettre de- M de * * Conseiiler au Parlement
de Rouven M de JI* * * Premier
President, i~68 Tres humbles 3 et tres
respectueuses supplications des clais de Lajiguedoc au Roi sur le Commerce des
Grains 17(8. I logij pub- blici
sono pieni di suppliche , e rimostranze de' Paramecti alcune pei- i vincoli }
altre uer ia Iiben . . 9l sostengono la buono causa ; la prima si del 12. Luglio 17G8 : l'altra del 26. Aprile
1769. Leggasi nella prima quali effetti abbia prodotto nel Delfinato la libert
dei Commercio s scordata coli' Editto del i^(34 Luglio; il Parlamento della Provincia che cos scrive
al Re ; non un privato Scrittore . La terre fri'rappe de
sterilite pendant trois ans ccnseuufs presentoit au Dauphin" la
uperspective la plus efifravinte ; cepen- dact tous Ics man hs de cette
Provin- :e ont toujours t abondammcnt
pour- vs de Grains ani se scnt soutenus a un prix. inferieur a celui o on les
avoit ovus sous le Regne des prohibiiions , et des permissions particulieres
dans des annes o les recoltes n' avoient pas rte' si mauvaise et pendant les
queles T des l'use pr- voyance trop timide . - ok Il risultato di questa prima
supplica s d' implorare dal Re che
abolisca le restrizioni portate all'Articolo VI. dell' Editto di Luglio i}64,
le quali limitano la libert sin che il grano per tre con- secutivi mercati non
sia giunto al prezzo di dodici franchi e mezzo il Quintal per- ch dice il
Parlamento che qnesto limi- te, e queste cautele ravorisent le mo- nopole
jnterieur; que la necessit de recoufir
des ordres du Conseil p tir dever la proliibition , lui picfe un nou-
vel appui, parce qu'il prolonge le tems *pour continuer les mneuvies particu-
lieres , afin de faire lermer les Pcrts , 6. Aprile t^Go assai pi difi'usanaente viene discussa la
materia . E' bella as- sai la pittura che ivi si legge degl' im- barazzi che
cagionano le leggi vincolanti che sempre si moltiplicano a t'ormare un vero
labirinto , un vero c^os d'inciampi. Que l' exereice du droit de propnet csoit
restreint par des loix prohibitives ,
rer.zt che doveva nascere colla liberti noe nacque perci appunto che la
li- bert pa'-ve precaria e incerta . In fatti la Poiice di INcmes li 4- ^
cernere 1360. ; malgrado la libert teccidata dall'Editto di Luglio 1764.:
cor^rii x..i negoziante di creili per nome Gaifiicr, e gli proib e' i: O)
..'-'*- o WiJ N Ci - ut ut N> " -J J--
M u- 0 - -N B o * o C/i A 3 E. o 2- 3 E.
^5 5 2 2.3 P- 2aS p era i ut 2^ O 2. fi B a -.
O e- "' a. o fri 4^ 10 * ** 2.2.
3 1 0 13 mei elle e eh -J enee - !" 3 M M 03 , O) tn (0 fri M O
3 ^ fi s U5 . Or *n tTt C 4^. O OJ +^ CO 4s> X !v J5? f**
CTS W W O fe- r 2 8- s e ero 00 2i Da ci vedes come in
quindici an- ni sono accrescine officine 124 Vacche i684o-, e il raccolto de'
Caci di annue Forme 2276- Per alimentare una Vacca da latte per verosimile vi
vogliono '3. Pertiche di prato . Dunque nelle sole tre Provincie, Ducato,
Pavese, e Lodi- giono in questi ultimi quindici anui si pu calcolare che si
siano messe a prato Pertiche 218920. le quali in buona parte sono una
diminuzione della coltura a' grani e qnste Pertiche 218920. se tut- tora
fossero coltivate a grano computan- do otto Perriche per il vitto d' un uomo
alimenterebbero la popolazione di 27 365. anime . Si computano dalle
notificazioni fatte dai Cancellieri del Censo in quest'ana 1769 attualmente
esistenti nello Stalo Vacche Se Ducato .... Num. 633^5. ISfel Pavese 847 2- j^el Cremonese .... 19054. Kel Lodigiano 21288. ?iel Comasco 11820. 5um. 115009. la 25 In queste
notificazioni universali non g pu mai pretendere l'esattezza aritme- tica, ma
sibbene una approssimazione. Dal confronto di questi dati ve desi che la
maggior parte delle Vacelie non ist unita in mandre , ina bens il numero rnnggiore
si di quelle che stanno di- vise ne'
tugurj do' poveri Contadini ; e se dieci per esempio vivono re 11 e mandre
destinate a fabbricare i Caci, venti sono disperse nelle stalle de' paesi
coltivati a Grano destinate a somministrare il Bur- ro-, e a bonificare col
latte l'alimento dogli Agricoltori . Ci singolarmente ve- dosi in tutta la
parte alta del Ducato , nel Comasco , e nel Cremonese dove la raccolta totale
deiormaggi appena ascen- de a l'orine 3659- annue, a formar le quali vi si
contano destinate Vacche non pi di 1723. E. da osservarsi che in questi ultimi
anni sono cresciute le ricerche degli esteri per i nostri Caci conosciuti netl
Europa col nome di Parmigiani . e le Forme si vanno puro facendo di mole
maggiore cosicch laddove per l' addietro ciascuna era del peso di circa rubbi
4 al giorno d'oggi sul Lodigiano
partico- larmente si fanno del peso di rubbi 5 Commercio de grani P. 11. e 26
i/a e pi, e questa la cagione per cui
vedesi che laddove nella notifica- zione del 1753. ogni Vacca corrisponde a
cinque annua forme di Cacio, nell' ul- tima notificazione corrisponde a sole 4
forme circa . Per adequato calcoleremo ogni forma di Formaggio del peso di
rubbi 5 ; e computando quello che si raccoglie nel Cremonese unitamente alla
notifieszione del 1968. sar l'annua rac- colta de1 Caci forme isSyy^., ossia
rub- bi 644970. L'arte di livellare, e d'irrigare i fondi s' andata sempre pi
raffinando ia questo secolo , ed una sensibile parte di quelle terre che al
tempo delle stime del Censimento sono state registrate per aratorie nei
quarantasei anni che sono trascorsi hanno mutata natura , e servo- no alla
coltura de Formaggi. Un terreno qualora possa irrigarsi , e coltivarsi a mandre
frutta assai pi che non fareb- be coltivandosi a Grano ; s perch i Caci nostri
sono un frutto che non sof- fre concorrenza con altra Nazione , s anche perch i
Caci godendo duna li- bera esportazione in ogni tempo , pro- ducono al
coltivatore un'entrata pi si- cura ,
meno soggetta alle vicende p- 2f litiche. Quei,.' accrescimento de'Prati
con. Il diminuzione dell' aratorio
dunque utile a' particolari possessori, e perci viene promosso . Ma
diminuendosi la coltura de' Gra- ni , con essa deve dimirKiirsi la popcla- 1
zione delle Campagne, avendo i Prati bisogno di molto minor numero de' Co- j
Ioni . Sopra un estensione di terra di j trenta Pertiche vivono pi di tre
persone ss si coltiva a Grano , e appena una ! sola ne alimentata coltivandosi a pra I to . La
coltura a prato tende adunque a scemare la popolazione , cio la forza fisica e
reale dello Stato, essendo il nu- mero degli abitanti la vera e sola misura |
della potenza d'uno Stato . In questo proposito non deve dimen- ticarsi una
riflessione ; ed che il pos- sessore de'
Fondi non cerca altro ogget- to se non d' accrescere il prodotto della pcrzion
Dominicale ; mentre l' illuminato Legislatore deve ricercare l'accrescimento
del prodotto totale e fisico di tutte le terre dello Stato . Il Proprietario
non tanto ricerca, e studia i mezzi d1 accise- scere la fertilit fisica del suo
fondo , quanto la diminuzione delle spese della coltura. Un esempio render' pi
chiara a 2 28 , quest'idea. Suppongasi eli? il manteni- mento d'ogni Contadino
coati dieci Scu- di all' anno ; suppongasi che un posses- sore possa coltivare
il suo podere o a Grani coli' opara di dodici Contadini, ovvero a prato coli'
opera di soli tre Con- tadini ; egli
evidente che se coltivan- dolo a prato il possessore ne ricava cento
cinquanta Scudi annui , e colti- vandolo a Grano solamente cento Scudi, evidente , dico , che il possessore pro-
ferir la coltura a prato consultando da- saggio padre di famiglia i principi
della domestica economia. Ma chiaro pure
che la fertilit del fondo risguardandosi colle viste dell' ecouomia
pubblica di- minuita; poich coltivandosi
a Grani quel iondo ha prodotto il valore di cento .Scu- di al proprietario, ed
^1 tri cento per il mantenimento di dieci Contadini il che fa la somma di Scudi
dugento , e colti- vandosi a prato ha prodotto al proprie- tario Scudi cento
cinquanta, e trenta altri Scudi p3r il mantenimento di tre soli Contadini, cio
nella totalit. Scudi cento ottanta il che importa la perdita della vera
fertilit fisica del dieci per cento . Dallo spoglio de' libri della Mercati-
2" i.ia dell'anno 172. appare 1' uscita de' nostri Formaggi in rubbi
'2i/Lof\Z , i quali a lire (>. i4- producono Y utile di lir. i434o8t. 8
Dallo stesso foglio appajono usciti di Butirro ruLbi iSoog , i quali a lire 9.
2 1. importano lire i36644 8 9. Da ci appare come la coltura de' prati nella sua
totalit abbk prodotto allo Sta- to T utile di lire 1-570725. 16. 9 , ossia
Gigliati (a) 104715. Nell'anno medesimo dallo speglio de' libri della Dogana ,
e dalla Scainatura per la Provincia di Cre- mona appajono entrate nello Stato
Vac- che 8o84- , le quali a lire i5o. l' una importano a uscita dello Stato
lire 1 2 1 2600. per il che 1' utile reale dello Stato per la coltura de' prati
si residuerebbe a sole lire 358 ts5. 16. 9 : l'uscita dei Vitelli in,
quell'anno stata in numero di 326. t
quali a lir. 3o. danno la tenue impor- c 3 fa) L 'ira Milanese variabile assai : se- condo h legge lir 14 r/
fanno un cigliato ; ma nella contrattazione s; consi -iera la lira ora la
decima quinta prie d'un Gigliato, ora la decima sesta pane In questo calcolo la
consi- dero la de :i(r.a quinta parte del Gigliato; e cosi fai in seguir . 3o
lanza di l'ir, 9780. S: aggiunga ii fieno di cui constano usciti in detto anno
Carri 202 ^A i quali a lira 60. impor- tano lire 12174, cosicch per ricapito-
lare T utile risico che ricava lo Sialo dalla coltura de prati che semhra tanto
vantaggiosa al primo aspetto prendendo per norma Tanno 1762. rester come segue
: Formaggi . . li Butirro .... Vitelli .... Fieno . . . . Somma di utile allo
Stato lir. 1592679 16. 9. Si detraggano Vacche comprate !!' irrigazione non
saprei dove sieno ; di queste felici operazioni non ne ab- biamo alcuna notizia
; dove sar dunque il brnefcio che fa allo Stalo la irriga- ticene ? Si dice che
1' irrigazione non crea una nuova acqua nello Stato, per- ci 1 on pu rendere
l'aria pi umida col dilatarsi . Siffatte ragioni bisogna pu- re discendere a
pesarle poich si spar- gono: le evaporazioni dell'acqua non so- no gi
proporzionate all' assoluta quanti- t d: essa . ma bens alla superfcie che V
acqua presenta. Un corpo d'acqua che ncatalato trascorre non cagiona 1' eva- p
M-n?.ione che farebbe se si distendesse a lambire lentamente molte miglia di
cnmoi , e a formarvi una vasta palude , fon fa bisogno di molti lumi d'
Idraulica o i tablit i l il et.j.t pfut considtraile dans Terra i iciua >ote - .1 e w'-hae - 7' V
dnglois ds M. R. e S M R et mmore de U
/-.,-" [ da loncourt Professeur ds L . .: .- m .: Paris* A' Londres 1704 gag- * ^9 par pura forza
della organizzazione y on- de non e sempre un nitrito delia poli- tica dove ci
accada ; la seconda si che dove ci non
accada , o dove ac~ ctcscasi meno di quelio che naturalmen- te dovrebbe ,
quando non vi siano ca- gioni fisiche apparenti , si debb impu- tare quel mene
accresciuto a vizio deiia politica . E' facile il provare in qualunque paese
che la popolazione cresce, ovvero che scema quando si scelgono arbitra-
riamente i dati per fora- are il calcolo . In due maniere si possono scegliere
i dati arbitrariamente , o scegliendo un anno pi che un altro de' passai per
paragonarlo all'attuale popolazione, ov- vero prendendo un anno da un registro,
e l'altro da un diverso registro . Mi spie gher; quasi impossibile che in alcune delle epo , Y
tliro quello degli tsiasfici. 1! Registro ari Censo debb' essere certamente meno
esatto ; perch i C -.. sparsi nello
Stato non han- n ne n presse h : a tale : que- sta ricerca un tedio per essi, e nool- isioni lascian
correre per ab- iure la fatica . Cosi ne accade che i l 'gistri dpi Censo sono
mancanti e minori del vero Se paragoneremo adun- ane lo stato delle anime che
ci viene al r. registro ecclesiastico stato delle anime degli anni pas- sali
oli" i sne dal Cto totale ilclla popolazione del Milanese appare dunque
dal Censo che nel 196* era di Cittadini numero j[epolazione che scaturisce dal
Regi- stro Ecclesiastico in quest'anno 17^9 sia sensibilmente maggiore di
questo cai nolo ; non perci sar provato che cresca la popolazione . Una cosa
sar da osservarsi se dalle Tavole Ecclesia- stiche compariranno pi i nati,
ovve- ro i morti ; se i morti sono in maggior numero , qualunque accrescimento
ap- jraja dai confwfht de' registri censuarj cosrli ecclesiastici , dovremo
sospettare che la popolazione realmente diminui- sca. Questo sospetto risulta
giustificato dalle visite in questi ultimi anni , e si manifesta sensiblracnte
in Pavia , e nella Provincia superiore Cremonese, e in Codogno, e in Castel
Leone, e in altre: parti dello Stato . Da ci concludesi che non ben provto che la popolazione dello Stato si
accresca ; e quando poi anche ci fosse non verrebbe per questo provato nulla
centro lo scapito che cagiona alla popolazione medesima 1' accrescimento de'
prati adacquatorj . Il consenso unanime e universale di tutti i pi accreditati
Scrittori di pnb- - 44 Llica Economia, la consecutrice riforma che da Regno a
Regno s' andata dila- tando in Europa
hanno indi tlo molti a stab'lire la massima favorevole alla li berta de' grani
; ma nel secreto del loro onore , quando poi si tratta di porla in pratica , si
svi'uppa il timore realmente non distrutto ne dalla ragione , ne dall' autorit,
n dall'esempio. Dalla con- vinzione alla persuasione v' una distan- za che si
manifesta assai frrqiien te mente nella mente umana . Quindi che sta- bilita la libert di questo commercio
f come primo e provato principio , tante modificazioni poi si vorrebbero
imporre, e tante cautele , che della pretesa liber- t non ne rimane die il nome
; e in vece di fare una benefica riforma al cattivo sistema , si propone di
fare una semplice mutazione . In simili materie sono da temersi anche le
persone della pi pura e zelante intenzione ; poich vi vuole una sorta di
coraggio , e di spinta Dell' animo per balzare al vero degli inviluppatissimi
moltiplicati pregiu- dizi , ne' quali siamo stati allevati , e cresciuti . Giovi
adunque vedere quest' oggetto in ogni sua parte, ed esaminare V indole delle
modificazioni che natu talmente si affacciano . Alcuni semono g' inconvenienti
e l'assurdit che \ d'impedire 1' interna cirt elezione de grani , sicch non
pos- sano trasportarsi liberamente da un di- stretto all' altro delio Stato .
Se questa gravosa in un vasto Regno a pi
forte ragione riesce tale in una provincia ri- stretta come la nostra . Quasi
unanime il desiderio di vedsre sciolta e
libera l'interna circolazione. Ma l'uscita agli esteri fa temere, e non s vede
ben chia- ro da ognuno questo assioma clic , co- me dicono gli Scolastici ,
dalla potenza all' atto non vale la conseguenza ; onde libert di trasportare
tutto il grano non significa lo stesse come il dire si tra- sporter tutto il
grano . Quindi vorrebbesi- da moUi libera la circolazione interna, e vincolata
1' uscita . Ecco immediata- mente nata una difficolti , ed : la cir- colazione sar ella libera sino alla
linea de confini ? Se ci , non si potr
pi impedire l'uscita; poich . in un istante succeder il contrabbando , e
bisogne- rebbe avere trenta e pi mille uomini in vigilia a' confini . Dunque
bisogna nel circondario de' confini per una fascia di tre miglia proibire la
circolazione . Ecco che la Provincia Cremonese la quale r.na striscia lunga d terreno ," non
pro- fitter della circolazione libera ; poco ne potr godere il Pavese e il
Comasco; parte sensibile dei Ducato e del L di- giano sar esclusa dal
beneficio. La cir- conferenza d' uno Stato tanto propor- zionatamente
s'accresce, quanto lo $ iii piccolo
Diminuendosi uno Stato' e riducendosi alla sola met, i confini saranwo
diminuiti in molto minore ra- gione. Adunque questa libert cos mo- dificata si
riduce ad ur.a pi tane ser- vit . Va progetto naturalmente viene nell* animo di
molti, che esaminano la ma- teria dell' Annona ; ed, quello di lare nella gran famiglia dello
Stato ci ctie da un buon Fa .re li famiglia suol arsi nella domestica economa ;
e come in questa provvidamente si conserva e cu- stodisce il grano per il pr.
rio bisogno d'na anno, cos' ne' granaj pubblici, o il Sovrano, o i pubblici R
'ppreseatauti custodiscano la quantit che corrisponde ai bisogno del popolo ,
provveduto al quale resti poi libera la contrattazione , tb T esportazione de'
gfani L esempio di alcuni Stati , e T opinione del sig. di Bielfeld vi
concorrono . Cos pare a pri-, ino aspetto che resti saggiamente prov- veduto
a'due oggetti, cio alia sicurezza dell' abbondanza pubblica , ed al favore
dell'agricoltura. Questa idea merita as- sai riflessione. La costruzione de'
pubblici Magaz- zeni in un pyesa che gi non gli abbia un articolo di qualche peso . Suppongo che
questi Magazzeni vo- gliansi fabbricare nelle sole Citt dello Stat , e per il solo
consumo de' Citta- dini . Da noi si tratta del vitto di un aoooco anime circa.
Pongasi il grano a sole lire 19 il moggio , e pongasi la consuasazione di sole
due moggia per ogni abitante vi vorr in contante effet- tivo tutto in un colpo
la somma di sette milioni , e seicento mila lire : ossia pi di un mezzo milione
di gigliati . La compra de' grani a conto del Sovrano, o del pubblico: o
facciasi im- mediatamente dai Commessi destinati a tal elletto , ovvero da
persene alle quali sia stato affittato questo carico sempre soggetta a rovinosi inconvenienti :
poi- ch , o si lascia la libert nel prezzo, e mille frodi ne nascono in
pregiudizio de! Principe , e dello Stato ; trovandosi i grani raccolti nei
Magazzeni , di un 4* prezzo sicuramente maggiore del comu- ne; o si costringono
i possessori a som- ministrarne una data porzione a un de- terminato prezzo ; e
con ci s' impone un aggravio intollerabile a questo genere di Agricoltura, pi
funesto fors' anche di quelle Leggi che dirigono tuttora F Annona . A ci s'
aggiungano le frodi che fa- cilmente possono commettersi nella cu- stodia de1
pubblici Magazzeni ; la dimi- nuzione del gri.no per V imperizia , o
trascuraggine de' Custodi facilissima a ritrovarsi in ogni pubblico istituto .
A ci s' aggiunga la necessit di costringere i Forni pubblici a non pre- valersi
d'altro grano che del raccolto nei Magazzeni , e chiaramente vedrassi una folla
d'inconvenienti, che debbon nascere da si fatti regolamenti. Noi vediamo]
disfatti che le Citta. nelle quali si
voluto discendere a que- ste minute
timide provvidenze sono sempre state le pi soggette ai pericoli della f
me . Si osservi finalmente che quando i grani per il consumo d' una Citt si
debbono raccogliere in Magazzeni pub* blici , tosto che se ne debbano far* dell
fi* delle grandiose provvisioni, forzi che
il prezzo de' grani scnsib luieme s'ac- cresca; e questa provvidenza, bench
dettata dalle mite le pi benefiche del ben pubblico , realmente degenera in un
odioso monopolio , utile ad alcuni pochi che vi partecipano, e rovinoso per
l'in- tera societ . Quando i grani agli occhi del Le- gislatore diventano uu
oggetto di com- mercio , molti particolari ,
Possessori di terre , o Mercanti di quel genere di- ventano naturalmente
i M g zzinien dello Stato; poich molli di questi conservano sempre una porzioni
di grani, e ci par- ticolarmente i pi denarosi , colla spe- ranza di lame
miglior mercato occor- rendo che se ne accresca il bisogno ; e questa mercanzia
per se voluminosa non pu mai celarsi per modo che non sap- piasi in ogni terra
dove siano riposti i grani , e non si possa dalla pubblica auiorit in un caso
estremo stendervi la mano per ritrovare il soccorso per la pubblica indigenza.
In questi privati Magazzini viene custodito con assai pi. cura che non
farebbesi uc' pubblici, per la ragione che l'uomo a nessun auro interesse bada
pi da vicino comune-: Commercio de grani P. IL e .10 mente elio al proprio, la
questi Magaz- zeni si contiene il grano comprato da ciascheduno col maggiore
vantaggio , e conseguentemente si pu rivendere a prezzo minore . Questi Magazzeni
final- mente essendo molto liberi, e ripartiti nello Stato sono in una
vicendevole con- correnza , e conseguentemente ne e prova. Do- vunque v' libert v' concorrenza; do- vunque ve
concorrenza non pu esservi monopolio . La libert dunque del com- mercio de'
greni il rimedio pi sicuro e stabile di
ogni ahro contro i monopo- listi , e 3 54 Ogni Legge die vincolasse i Mer-
canti , o incettatori de' grani sarebbe direttamente opposta ai veri principj
di- rettori dell'Annona che abbiam di sopra veduti . A tal proposito io osservo
che po- chissimo sarebbe il Commercio di ogni merce o derrata, se i contratti
dovesse- ro fars- sempre fra il primo possessore di essa, e l'uomo che la
consuma . 11 possessore per lo pi
sollecito di ave- re lo smercio totale del suo genere , il consumatore
aspetta la necessit ordina- riamente di provvedersene, e ne ricerca piccole
partite proporzionate all' attuale suo bisogno ; perci sonovi nella societ i
Mercanti i quali servono di un punto di meizo fra il primo possessore , ed il
consumatore . il Mercante propriamente non
che nu mediatore dei contratti, ed un veicolo del commercio ; egli an-
ticipa il denaro al possessore , e da lui compera tutto il di Ini prodotto ;
egli ofire in ogni tempo al consumatore il comodo di acquisitive quella
porzione che gli abbisogna , e della qualit che pi gli piace Un utile
considerevole portano di pi allo Stato i Mercanti, ed : che essi le provvisioni loro cercano 55 di
fonie ne' tempi, ne' quali i prezzisene ribassati; per il che s'impedisce cli8
non cadano nell'avvilimento totale i prez- zi de' generi . Per favorire ed
accrescere il Com- mercio d' esportazione convien favorire l'esportazione
medesima: non v' Com- mercio che possa fiorire se non vi sono mediatori fra il
primo possessore della merce , e 1' ultimo che la consuma , e questi sono i
Mercanti . La fecondit della terra cresce colla fatica del colti- vatore , e la
di lui fatica cresce colla fiducia di trovare buon prezzo della der- rata , e
la derrata finalmente acquista valore* colla facilit dell'estrazione. Da questi
semplici e universali prin- cipe deriva che non solamente il porre ostacoli al
trasporto de' grani ; ma il li- mitare il numero e la libert de' Mer- canti , e
il proibire la libert d"gli am- massi , tende immediatamente a dimi- nuire
il prodotto delle terre ; e creare i monopolisti; e ad accostarci precisamen-
te a quello stato di caresta che sem- brasi appunto voler evitare con siffatte
Leggi . Quando a molti libero il far
com- mercio de' grani , e che chiunque pu 56 a stia voglia farne ammasso non
mai si avvilisce il prezzo di essi grani , malgra- do 1' abbondante raccolta ;
perch allora appunto a gara concorrono i Mercanti medesimi a riempierne i
proprj Magaz- zeni . In essi Magazzeni frattanto si cu- stodisce il gn;no con
maggior cura che non fessi dal pi dei Possessori di ter- ra , s percL il frutto
di essi il capi- tale del Mercante, s
anche per la mag- giore esperienza , e attenzione del Mer- cante medesimo , d1
onde minor perdita di grano per lo Stato : che se poi la penuria succede ;
allora s' aprono i Ma- gazzeni , e a gara i Mercanti cercano di rivenderlo alla
INtzione a preferenza de' forestieri , avendo sempre i IVezionali in loro
vantaggio la gabella che i forestieri pagano all' uscita , e la maggiore spesa
di essi pel trasporto. Da questi principi ne scaturisce che cgni Legge che
voglia imporsi su Mercanti , o Ammassato di grano sar contraria al Commercio di
essi , conseguentemente al saggio regor lamento dell'Annona. Vi sono taluni i
quali sentendo la difficoli e gl'inconvenienti de' Magaz- zeni pubblici
vogliono la libert della esportazione bens , ma temono semf re- *7 la carestia,
onde vorrebbero conservare il vincolo clic obbligasse alla introdu- zione de'
grati; nella Citt. . Si detto essere
antichissima pratica fra di noi di comandare per Legge V annua iulro- duziono
per le Citi^ dello Stato (f una determinata porzione de' grani raccolti^).
T>on v' memoria che siasi mai dat^i
multa, o pena alcuna per mancanza di (al In Pavia , ed in Como si ordina ti'
in- trodurvi tutta la {-arte dominicale d\ frumeiito; i Illa io , e in Lodi la
met ii essa parte dominicale ; e in Cremona la terza parte . La parte
dominicale la meta del totale raccolto ;
con questa Legge adunque pare cio P vi i
, ed in Cero.o i cittadini siano di numero eguale agli abitatori del Contado ;
ehs in Metano i cittadini seno la quarta parte degli abita'on della Campagna
del Ducato ; e cne la popolazione di Cremona , sia la sesta parte del Cremonese
: Di pi si suppone che non siavi nel raccolto 1' eccedente oltre il bisogno
nazio- nale. Eppure in Favia sono anime ijoo e nel Principato ili Pavia anime
47619 In Como so- no aiiii'i I25i4 , e nel Comasco anime 4)656, tanto sono
lontane dall' essere conguagliate . Cos Cremona fa 585 anime, le quali non so;
0 la sesta parte di anime 96440 , che tro- vatisi nel Cremonese . 58 qmste
introduzioni. Non ve memoria che siasi pure intentato un processo contro alcun
possessore per mancanza d' introduzione nelle Cina . Di p u in molti anni
nemmeno sono stati posti dal Magistrato Camerale alle Porte cella Citt i
Registratori i quali in gilassere sulle intrctii zioni . Da questi latti evi-
dentemente ne concludo che Je Cside periodicamente pubblicate a tal oggetto
siano piuttosto una solennii ^ he s; ri- nova ogni anno , a-nxi cht Leggi che
influiscano sulla pubblica abbondanza ; giacch btegje non pu chiamarsi qu#lla a
cui si j impunemente c Osservisi , come volendo obbligare l'introduzione nelle
Citt ne viene in conseguenza che debb obbligare il pos?es;ore y t!a
notificazione del grano raccolto; poi deb beai sospendere la li- ber de'
Commercio estero sin tanto cher commer- ciarli in questa incertezza ? Nessuno
cer- tamente , trattine que' pochi che attual- mente lo fanno , perche protetti
e pri- vilegiati personalmente , o perch pi scaltri e pratici nell'
addormentare i cu- stodi . Ecco adunque che questa sola formalit che voglia
ritenersi boster per impedire la concorren/.a : lascier sussi- stere il
monopolio : sparger universal- mente la diffidenza , ed esporr lo stato al
pericolo di mancare di sussistenza lasciando nelle mani di pochi questo
commercio , e sciogliendo nel tempo medesimo que' pochi da ogni vincolo con usa
mal intesa libert , che si ri- duce ad un privilegio . Il secondo male si , che se vo- gliamo essere conseguenti , non
si pu permettere la libert del commercio f meno poi dell' uscita nello spazio
di tempo che trascorre dal raccolto al te*"- 65 mine del conteggio delle
notificazioni : altrimenti se in questo frattempo vi libert , prima che siano compilate le tabelle
rappresentanti 1' annuo raccolto , pu essere spogliato il paese e giungere
inutilmente la notizia di questi fatti . La ragione si , perch quando i mercanti de' grani , e gli
incettatori prevederanno che la somma del notificato sar per riuscire tenue si
affretteranno , se loro si d la libert , di far uscire frattanto e riporre in
luogo sicuro la mercanzia sul timore d'una imminente sospensione . Dunque
bisogna , se si vuole ritenere in vigore la notificazione, bisogna, dico,
sospendere la liberti, sin tanto che la notificazione sia compiuta . Per com-
pierla bisogna raccogliere in mi so! punto di vista la notificazione di mille e
quattrocento comunit ; bisogna dal- le estremit dello Stato , dai confini de'
Grigioni , e del Bozzolese che sia- no state trasmesse le notificazioni; bi-
sogna che i Cancellieri del Censo le abbiano eonseguentemente prese sul luogo ;
abbiano costrutta la tabella del- le loro comunit; l'abbiano trasmessa a
Milano, e da queste sia formato il prospetto in un solo colpo a occhio . f 3
&6 Ognuno facilmente intender che vi vo- gliono pi mesi per eiettuare
questo conteggio . Ej4(> Grano Turco ....
S9S0OQ Moggia i6~~ 3 5 2 ET l- ?; w 5 45 w o r O e a a- G o ^ a e & r B -- r ^ * c o
".. -w a 5 o> ** !"* ti *
x- = B3 fe & S ?5, Non abbiamo
veruna descrizione del lo Stato posteriore a questa , bench fatta sino dal
1721. Calcolando su que- sto dato che pure
l'unico, appare che i terreni incolti erano allora a fronte de'
coltivati pi di sette per cento ; e notisi che le suddette pertiche 8*ti^5 sono
di terreno incolto, non gi di cep- pi e sassi audi ; poich di questi se ne
contano in quella misura, parte nel Du- cato , e parte nel Gomasco pertiche
465077 tavole ifi ; cos ia tutto sopra il totale perticato del Milanese , che di pertiche ii385iai , si trovarono d' in-
fruttifere pertiche 1286452 ; il che ben lontano dal formare l'uno e duo terzi
per cento forma quasi il 12 per cento di suolo sterile nello Stato . Siccome ,
gi lo dissi , non vi misura o stima
dello Stato posteriormente fatta ; cosi nemmeno
possibile il citare un docu- mento su cui si appoggi quella pretesa
riduzione dell'uno e due terzi per cen- to . Si dir che dal tempo della stima
del censo a questa parte moki terreni allora incolti si sone resi coltivi . Que-
sto vero, ma due cose bisogna osser-
vare ; la prima si che non essendo Rot*
, u potendo essere ad alcuno 1 g a 7 quantit die d' allora a questa parte si re>'i coltiva^ nessune pon ora tas- sare
quanto p^r cento s; b.a accresciuta la coltura; 1' altra si che forse si sono moltiplicati i prati in
maggior propor- zione a scapito dell" aratorio a giano, di quello che non
si siano posti a coltura terreni nuovi. Dico torse; perch quan- do si tratta di
semplici opinioni non lecito mai parlare
con altro linguaggio. In questa materia par altro pu servire di norma il
risultato della visita latta in questi ultimi tempi , cio nel 1767 , dalla
quale risulta che in otto sole Co- munit s sono ritrovate esistenti di ter-
reno incolto come segue : J^ ri o SI* o 5 2 B - o n a co * ^ o 5' , *t 9 O 0 c
? c cr? e o 3 2- *"" o M ^ n "*- c a PS* a. 2 P IL **> s g- " " 2 e 3 n
m.-> stiate visitate Si vedr pure che di tutte il Pavese, di tutto il
Cre- monese, e Casal Maggiore, e di tutto il Lodigianp , bench sieno compresi
nella visita , pure non vi marcata una
sola pertica di terreno incolto ; perch altri oggetti non ne hanno lasciato il
tempo . Cos pure an>.he nel Ducato nelle Pievi di Bollate, di Mezzate ,' d
Somma , e nel Comasco le Pievi Me- naggio .Nesso , Gravedona, Isola, Don- go ,
BeDano ec. sebbene visitate per i filatoj , manlfetture ec non rimase tem- po
pr raccogliere le notizie sui terreni incoiti , onde nella relazione medesima
si legge che a perjfezjonare queir opera* 79 V abbisognano altn anni ed al ire
visite^ ed ecco come si sia errato in massima considerando come totale quantit
quel- la che unicamente era parziale . Manca tra le altre ia questo calcolo la
ster- minata brughiera di Somma, la quale s' estende a pi miglia di paese tutto
-incolto . L' antico pregiudizio si era che que' terreni non fossero
coltivabili ; ma i pro- gressi della ragione hanno persuaso al- cuni a tentare
; e i tentativi riescono tanto felicemente che ornai nessuno vi n che dubiti
non potersi utilmente col- tivare . Il Sig- Giuseppe Pezzoli ha messe a coltura
molte terre ^Cassano, le qu alb- erano incette , e ne ricava un frutto
conveniente. 11 Sig Giambattista Tosi che abita in Busto Arsizio ha messo a
coltura circa 4 pertiche della Brughie- ra di Somma , ed prodigioso il frutto che ne ricava; vi sono
gelsi, viti; vi frumento, e tutto riesce
assai bene ; il grano turco singolarmente vi si coltiva con felice successo ,
poich a quanto lo stesso proprietario mi assicur , laddove nelle terre contigue
gi. coltivate questo grano produce &l pi otto staja circa per ogni pertica,
su la Brughiera in lo 'vece ne fi-urta sino a floclici staja per pertica .
Osservisi che tutte le lrughie- re restano lontane dalle abitazioni ; ed verisimile che anticamente quelle pia- nure
fossero coltivate al paro delle al- tre ; ma ne' disastri de' secoli passati ^
scematasi la popolazione , gli abitanti si accontentarono di coltivare i
terreni pi vicini alle case, e mancarono le braccia per estendersi , onde rimasero
incolta quelle che ora sono Brughiere. Dopo avere esaminata questa ma- teria da
diversi aspetti io oser avanzare (ma proposizione , ed che circa la de- cima parte dello Stato di
Milano giace infruttifera , parte per l'infecondit na- turale de' monti sassosi,
parte per gli errori nostri e per i pregiudizi che ci hanno oppressi. La
porzione poi che potr col tempo , e con savj regolamenti essere rianimata , e
fecondarsi , io la valuto a un di presso la decima quinta parte dello Stato ;
tanto siamo lontani dal poterci lusingare di avere ridotta la coltura de'
terreni a quel punto d per- fezione a cui taluni la decantano. Non ci
addormentiamo alla voce di questa adulazione la quale ron pu produrre fisssun
buono cretto . Non attribuiamo 51 all' industria nostra quello clie dipencl
dalla intrinseca feracit del nostro suolo non ci attribuiamo una superiorit c?u
non ci si debbe . Chiunque avr trascor so nel Piemonte e nella Terra ferina de
Veneziani avr vedute delle terre' tante ben coltivate; quanto le nostre; chiauV
que poi avr veduta la Toscana, e pa' ra^on^io con o.csa il Milanese , mi acl
corder che la natura pi che Tind'istri4 fanno la nostra ricchezza , e che se
l'agri' coltura fosse spinta da noi a quei gradc" a cui si trova nella
Toscana, assai pii* sarebbe l'annua riproduzione, ed assa' p' perfezionati i
frutti del terreno . i contadini di
Toscana avessero da col- tivare un terreno quale si il nostro 7 ne caverebbero forse un terzo di
pi di frutto , e questo frutto sarebbe assai pivi perfezionato di quello che
sieno i nostri I vini per esempio del Monferrato e della Toscana sono di molto
superior ai Milanesi ; forse questo dipende no? solo dalla diversit del clima ,
ma prin eipalmente dalla cura di coltivar la vite della scelta della vite dal
tempo di rae cogliere, dal modo di far fermentare dal modo di premere,
custodire, tra- sportare il vino , e da simili attenzioni . 82 ^L* seta nostra
e inferiore di molto alla Bolognese, alia Bergamasca, ed alla Pie* jinontese
singolarmente; la cura de' Gel- fisi , de' vermi da seta , la maniera di fa- Tre
, filare, torcere la seta forse da noi tsono assai imperfette. Von pretendo n
sdi scrivere un trattato di agricoltura , n adi defraudare dal merito loro i
miei Con- v^ittadini i quali massimamente nelle parti pj^cno feconde dello
Stato mostrano as- ciai industria ; ma nemmeno posso io acciecare me stesso e
addormentare con t,nna lusinga mal fondata gii altri ; ne tipotr dire giammai
che l'agricoltura sia cda noi g unta alla perfezine , sin tanto ;che vi saranno
Brughiere nello Stato, te sin tanto che non avremo ridotte le esete , i
lini, vini nostri alla perfezione hai
cui sono suscettibili . q La fantasia di taluno e giunto al sd- egno di fare
encomj alle Brughiere , tro- v.-vandole opportunissime e chiamandole la pDofc
delle Terre colti j ate , perch questa dfcWe somministra qualche tenue quantit
cidi concime , colla quale buonifiear le ftterre ; il beneficio che fanno le
Brughif- c re simile a quello della
guerra; poich a anche co' cadaveri umani si rende pi l ferace un fondo. Io
desidero, e enec# 83 10 desidera o bene sia utilissima per altri paesi post in
diverse circostanze. Primieramente falso
che il Milanese sia circondato d| vicini penuriosi 'di grano: un' occhiai che
diasi alla Carta del paese disiug^u nera chiunque. Noi confiniamo coli O.5
trep, col Vigevenasco, e co! Ncvarcs dalla parte del Re di Sardegna, e guest-
Xre Provincie sono non solamente rdt vedute di gran per il bisogno loro , m
anzi ne sono fertilissime, e ne esportane , u V verso Genova , e verso gli
Svizzeri . I Voi confiniamo col Bresciano , e col *Cremasco paesi
abbondantissimi di gra- rio, e che ne l'anno esportazione. Il Pia- centino, die
pure confina con noi, pro- duce grani per il suo bisogno; e di se- cale
singolarmente ne- abbonda . Questo ^en calcolato torma due terze parti de'
v*ostri confini , onde cosa di Litio che
F, vicini nostri per la maggior parte non fanno bisogno de' grani nostri. Gii
Sviz- :ri e i Grigioni , e il Bergamasco sono 1 soli confinanti nostri
penuriosi di gra- "o . Non dunque
vero il dire Siam dir* * iridati da vicini penuriosi di grano . Ma 1 -lottiamo
qnesto tatto , e suppongasi ' e realmente la terra alla linea de'no- 1 vi
confini diventi sterile , e che la fe- ,c dita della Lombardia sia ristretta al
I lo Milanese. Domando ancora: quando e*io Stato circondato da vicini pcnu- vosi di grano
qv.ale sar il regolamento Fa abbracciarsi? Quello sicuramente the "eviene
pi provvidamente la carestia. c_ quale
questo regolamento ? La li- ";rt. la natura, lo svincolato dibatti-
c ento degl'interessi privati di ognuno, *.iico mezzo per ottenere che n grano
sii divise in mola concorremi e non si R5 s coacervi in pochi monopolisti .
Quale sar il regolamento da evitarsi pi di ogni altro in un paese circondato da
vicini penuriosi ? Quello ohe fa uscire dallo Stato p grano ; chef lo espone a mancare del
necessario ; che spinge ar- tificialmente l'uscita al di l del limile, al quale
sarebbe andata abbandonata alla concorrenza ; che mantenendo una stabile
diversit di prezzo fra l' interno e V esterno alletta con utile sempre vi-
gente l'esportazione; quello che rende alcuni pochi arbiiri della comune sussi-
stenza, i vincoli in una sol* parola sono da evitarsi appunto ne' paesi pi
esposti al pericolo , e circondati da vicini pe- mm'osi . Di che pare che si detto ab- bastanza per dilucidare la materia
sino dal principio. Dunque non , n pu essere mai una eccezione della regola il
dire : il nostro paese contornato da
vicini penuriosi di grano . Ma in un paese piccolo sar egi: da temersi quel
sistema che limita l'uscita al solo superfluo ed assicura all' ii-.terno il
necessario ? Tale I-effetto della con-
correnza , e della Libert come abbiana veduto . Qual obbiezione sar dunque il
dire il nostro paese piccolo: Anzi
Commercio de grani P. 11. h 86 pare a me che appunto in uno Stato piccolo
essendo pi grande a propor- zione la linea de' confini, e pi corto il viaggio
del trasporto sia pi che al- trove pericoloso ogni vincolo; poich se provato, come Io credo, che le leggi
vincolanti ristringon di loro natura la merce in poche mani , che i monopoli,
sii abbiano empre mezzi pronti e saga* cissimi per deludere , o sedurre i cu-
stodi ; sar pure provato che il loro giuoco funesto saiA sempre pi esegui- bile
in uno Stato piccolo che in u grande ; essendoch il pericolo della scoperta sempre tanto maggiore quan- to pi lunga la tratta del viaggio di una merce
di contrabbando . Dunque la piccolezza dello Stato un moivo di pi per mostrare necessaria la
libera concorrenza . Aggiungasi che in uno Sta- to piccolo la minore differenza
del prez- zo co'fiuitimi basta per cagionare l'utile del trasporto ; poich
minore si la spe- sa intrinseca di esso
trasporto. Per esem- pio , i grani dal centro della Francia non si
trasporteranno mai nella Savoja sebbene i prezzi fossero pi alti nella Savoja
d'un Gigliato al moggio di quello ch non lo sono ael centro delta t'raa\ . 87
eia . In vece dal centro del Milanese baster che siavi la differenza d'un mez-
zo Scudo al moggio co' finitimi , che i ' grani vi si trasporteranno. Bisogna
adun- que pi uno Stato piccolo , pi
inter- porre i mezzi pcrcli i prezzi de' gran stiano equilibrati ira noi e i
vicini pi ohe si pu colla minore uscita possibile dallo stato ; si provato che a questo fine non si giunge se
non colla libert. Dunque appunto la piccolezza d' una Provincia 1 una ragione
di pi che deve far temere ogni vincolo , e rende ne- cessaria la libert , e se
i vincoli non hanno per lo passato cagionata la care- stia frequentemente da
noi dehbesi at- tribuire , lo ripeto , al torpore e all'ina- zione, colla qusle
si trascurano le leggi; per poco che si
volessero porre in vigore e attivila rigidamente, i funesti effetti non
mancherebbero di provare la verit di questo ragionamento . Ma per dilucidare
ancora di pi questa obbiezione sulla picciolezza del nostro Stato, facciasi una
supposizione. Figuriamoci l'Italia formare un solo Sta- to soggetto al medesimo
Sovrano. Que- sto Stato potrebb' egli avere 1' interna circolazione de' Grani
libera senza in- h ^ 83 convenienti ? Ciascuno dir di s, e die anzi questa libera
circolazione sarabbe provvidissima. Il Milanese
una piccola provincia di questo Regno ; dunque po- tranno (in questa
supposizione) uscire i grimi dal Milanese e trasportarsi in al- tre pani
d'Italia. Usciti che siano dal Milanese saranno essi necessarj all' ali- mento
della Provincia dove sono siati trasportati? Dico in questo cas che n il
Sovrano vorr obbligare la provincia che gli ha ricevuti a perir di fame per
restituirceli, u ritorneranno mai Non, saranno essi necessarj alla provincia
che gli ha ricevuti ? Dico che naturalmente ritorneranno nel Milanese tanto se
siavi in Itala un solo Sevrano, quanto se sia divisa in varj Stati; peroh
l'incentivo del prezzo tale , e la
sperienza lo di- mostra che la proibizione de' finitimi nn impedir mai che
quando essi ab- biano Grani si trasportino di contrab- bando da noi , tosto che
vi sia lo sti- molo del maggior prezzo . La industriosa necessit delude sempre
la legge mal- grado ogni vigilanza , e la vigilanza e il re possono bens
trovare delle vitti- me , ma non mai 1' osservanza di leggi , contro -le quali
urta incessantemente l'in- *9 tres3e conspirante dei pi . Gii elfet del
commercio , di sua natura libero e indipendente, sono presso poco gli stessi
fra due provincie sicno esse sotto lo stesso governo o non lo Steno ; poich le
leggi vincolanti altro effetto non pos- sono produrre che condensare in mano di
pochi la merce , ma non mai impe- dirne fisicamente il trasporto come si Veduto . Ogni difficolt adunque ohe si
appoggia sulla picciolezza dello Stato o non \ix senso , ovvero se lo ha porta
in. conseguenza di trovar dannosa la libert deli' interna circolazione
accordata ne' vasti regni ; essendoch un vasto regno altro non che un aggregato di tante picciole provincie
da ciascuna delle quali pu uscire il grano tosto che sia libera la circolazione
; n vi si potr restituire se non tostoch vi sia 1' utile del prezzo eccedente
la spesa del trasporto . Siamo una picciola provincia , con- finante con vicini
penuriosi di Grano , e siamo lontani dal mare ; dunque non ci conviene la
libert del commercio de* grani; questa
la pretesa ragione, colla quale si crede di annullare l'evidenza della
dimostrazione per la libert . Per foco che ognuno vi rifletta trover che h 3 90
. non vi connessione alcuna ira l'ante-
cedente e la conseguenza. Se prosato
(come pure lo , con quella precisione colla quale lo pu essere una verit po-
litica ) se provato a priori che dovun-
que in ogni clima , in ogni Siato , la li- bert
il migliore sistema per mante- nere l'abbondanza ; se l'esempio di tanti
Stati d' Europa conferma praticamente queste verii ; se la vece de' Scrittori
maestri di Economia pubblica si unisce concordemente a proscrivere i ceppi , e
le catene ; se questa teoria pesta in s
chiara luce, couie certamente lo su di
questa materia , che vorr dunque dirsi col ricordare che.* siamo un piscio- Io
Stato ( ed vero ) , che siamo cir-
condati da ogni parte da vicini penuriosi di Grano (e non vero) , che siamo lontani dal mare? E' vero
che abbiamo novanta miglia di strada per vedere il mare di Genova ; ma pur vero altres' che noi a mezzod confiniamo
col pi gran fiume d'Italia col P, nel quale cadono 1' Adda e il Tesino die
costeg- giano il Milanese da Levante e da Po- nente , e che per queste acque il
Mila- nese ha comunicazione col mare . Pare che molta stDiig'i-uiza corra fra
la p- 9T sizione del Milanese e quella del 1 nato ; la estensione presso poeo la stessa , il Delfinato discosto d;l mare quanto lo siamo noi , ed ha
il Rodano che lo rende comunicante col Mediter- raneo . come noi il P coli'
Adriatico Il Delfinato confina colle
sterili monta- gne drlla Savoja , coaie.noi con quelle de' Grigioni e Svizzeri.
Sia grande o piccolo lo Stato , sia lontano o sia vicino al mare bisogna fare
in tsodo che non esca dal nostro paese fuori che il superfluo dei grr.ni, e che
vi rimanga sempre il necessario . Dunque bisogna interporre quei mezzi , i
quali impediscano 1' uscita del Grano al di l del superfluo . Quai seno que-
sti mezzi ? La libert , ovvero i vincoli ? L'unanime consenso degli autori
classici dice che e la libert . L' esempio dele pi illuminate nazioni lo
conferma . L* ragione ci fa vedere che dai vincoli na- sce la s- nubile e
costante differenza fra il prezzo interno ed esterno, dalla q;ule incentivo
perenne al trasporto. Dai vin- coli T esperienza e la ragione ci fan ve- - dere
che nascono' i monopolisti , e di- strutti i vincoli svaniscono . La ragione
dunque e insegna che coi vincoli segue s1 pi uscita di grano che colla libert.
A queste ragioni mal si risponde colla ge- nerale proposizione , che la
massima buona , ma non conviene al
nostro paese . Conviene al nostro paese quel siste- ma che allontani
maggiormente il peri- colo della carestia; il sistema che allon- tana maggiormente
il pericolo della ca- restia la libert
della contraffazione od estrazione ; dunque il sistema che con- viene al nostro
paese il sistema della libert della
centrai fazione , ed estrazione . Dove
libert della contrattazione ed estrazione ivi non manca mai il neces-
sario . Regola generale . Dove perfetta
libert della contrattazione ed estrazione non vi mai pericolo di carestia , e i pericoli
vergono dove vi sono vincoli , e pi sono rigidi e in vigore , maggiore la frequenza dei pericoli. Il necessario non
esce mai da uno Stato qualunque ove vi sia liber' della contrattazione ed
estrazione ; prova ne siano tntti i paesi liberi . Dunque il sistema che
allontana maggiormente il pericolo della carestia la libert della contrattazione , ed estra-.
zione . A questi ragionamenti o bisogna cre- dere , ovvero bisogna
internarvis'i, e tro- 9J varne l:i fallacia e porla in. utl giorno chiaro ; n
meato concorrerebbe tanto zucchero do- ve il prezzo pi aito . quanto abbiso- gna per il
conguaglio. Dove il commer- io
svincolato ivi sono tanti tubi co- municanti, ne' quali i fluidi si
livellano da se. Quello che ho detto dello zuc- chero lo dico de' Graui con
tanto mag- gior fondamento , quanto 1 Grani sono una merce pi comune. Dunque
data la libert , si conguaglieranno i prezzi ; dunque chi supponesse che posta
la li- bert dell' interna ed esterna contratta- zione vi sar la disparit dei
prezzi fra l'interno, e l'esterno che ora vie, pec- cherebbe in Logica ,
supponendo che sussista un effetto senza cagione , e tra- sportando la idea de
disordiui presenti a quel sistema che radicalmente li toglie. Per convinursi
della insussistenza delle obbiezioni che si f; nno basti ri- flettere a questo
ragionamento L Grani non escono, ne si trasportano fuori del- lo Stato se non a
misura che il prezzo esterno maggiore
dell'interno; e tanto pi si trasportano , quanto maggiore questa differenza , e quanto pi
costan- temente durevole . Dove il
commercio sia vincolato ivi la differenza del prezzo dell' jnterno all'
esterno pi sensibile e pi costante .
Dunque dovunque sia vincolato il commercio deve trasportarsi al di fuori pi
Grano di quello che vi 95 i trasporterebbe se vi fosss i universale libert .
Non sperabile il custodir mai i confini
per modo che un monopolista non corrompa i custodi , e non trasporti quanto, e
come vuole. L'esperienza ce ne conviene , e la ragione egualmente ce lo
persuade . Poich il monopolista che trasportando , per esempio , due mille
ajoggia di grano vi guadagner due mille scudi , pu spendere trecento quattrocento e pi scudi per corrom- pere i
custodi ; in vece che il posses- sore per cento e dugento moggia noa potrebbe
tare spese paragonabili. Radunato il commercio nelle mani de' pochi , come
succede dovunque vi sono vincoli, i compratori esteri debbon ricevere la legge;
del prezzo dai nostri monopolisti; cos i venditori interni sono costretti a
ricever da essi la legge in gran parte ; ed ecco come sussiste co- stantemente
la diversit del prezzo fra i mercati interni e i mercati esteri ; ed ecco come
si verifica quel Grans (ri). Ivi an- no
per anno, leggousi i prezzi del grano Inglese d; 43 anni che han preceduto atto
di gratificazione , e il prezzo co- mune era due lire , dieci soldi , otto
danari sterlmi . Nei 43 anni consecutivi all' atto di gratificazione il prezzo
comu- ne fu due lire , cinque saldi , otto da- nari sterlini ; per il che fu
diminuito il prezzo di cinque soldi sterlini, cio circa un Filippo al Quarter .
Nei 24 anni po- steriori i quali terminano col 1754 il (a) BtrVsn I;> / '9 * e > a tetto cottuae fu una lira ,
quindici soldi, Otto danari sterlini ; appare dun- que come la libert, e la
gratificazione inglese hanno fatto ribassare quei prezzi di circa a lire
Milanesi, quasi quattro Scudi al Quarter. Tali sono gli effetti della libert .
La ragione, d'un fenomeno politico tanto inaspettato , e lontano dalla co- mune
maniera di prevedere deve attri- buirsi a due ragioni. L' una si l'inco- raggiamento e vigore dell'
agricoltura, per cui si moltiplica il grano in mag- gio* ragione di quel che ne
esca ; V al- tra si che moltiplicandosi
i venditori , cio comparendo per venditori di graui i veri possessori , i quali
nel $jsi presente cedeuo la lor parte ai pochi monopolisti ( tutto il restante
essendo eguale ) si deve ribassare il prezzo ; poich esattamente esaminandolo
il prez- zo d'ogni cosa, siccome si
dimostrato, iu ragione diretta
dei compratori , e inversa de' venditori . N colla libert si moltiplicherebbero
i compratori esteri, i quali anche attualmente tutti lo rice- vono dagl'interni
nostri monopolisti. La libert altro effetto non farebbe adun* o nulla di quanto
si detto ; per altro la sola lettura di
trattati ne mostrer a chiunque la insussistenza . E' libero al Sovrano , e
interamente li- bero lo stabilire quel sistema interno che trova pi confacente
alla prosperit dell'agricoltura, ed all' abbondanza dello Stato; n a questa
tanto naturale e tanto dilicata libert si
rinunziato mai con verun trattato . Taluno In pure suggerito ci tire l'uscita dallo Stato, e di acc7 in
Milano , alla porta riceva il ricapito con cui potr fare uscire dallo Stato
altre cento moggia . Questo sistema che presenta un fallace aspetto
d'industriosa speculazione porta con se la supposi- zione che la libert assoluta
sia soggetta a rischio , e alle conseguenze di tutti gli altri vincoli , e ristringe
1' attenzione alle sole citt , dimenticando la pi im- portante popolazione
della campagna , ed apre la strada a tutte le corruzioni verso i molti che
dovrebbero aver d- ritto di spedire i ricapiti d' intrcduzio* ne , ed altro non
fa che favorire i pos- sessori delle tene pi vicine alle citt , e aggravare
d'una maggiore condotta le terre pi lontane , e condensare il gra- no nelle
sole citt e piantare un nuovo labirinto oU cautele che si moltipliche- rebbero
col progresso degli anni a mi- sura che la frode industriosa tentasse nuove vie
per deludere. Con tal pro- getto sarebbe adunque mutato il sistema bens , ma
non migliorato , Mi si perdoni se dir la stessa cosa pi volte : scrivo affine
di mettere la verit nella sua miglior luce, non per organizzare un buon libro .
Questo mio scritto io ucsiino al ben pubblico, non to3 alla mia glori* Mi si perdoni adunane se ripelo parte o.i
quello oha gi lio detto. Si tratta i p: t jjiur.z! radio mi e attive r sali ;
si tratta di errori che taluni hanno interesse a difendere ed inviluppare; la
stessa ragione tona u aspetto colpisce uu lettore, botto uu aspetto contornato altrimenti colpo ad un Uro lettore. Ilo riferite le
difficolt, e tutte le modificazioni iil'uenti cagioni possono por- tar la
carestia in uno Stato coltivatore . La prima si
perch le sue ieri non producono grano bastante a' suoi biso- gni. La
seconda si perch il- grano raccol'o esca
da quella nazione oltre il saperfluo anche porzione del neeessano al di lei
mantenimento . Facilmente s'inteade d ognuno co- me 1' agricoltura possa essere
per cattive leggi scoraggiate e diminuita; ma noti si pu intendere come da una
nazione possa uscire la parte di grani necessaria ti proprio consumo , se non
quando il commercio de' grani sia ristretto aele mani d'alcuni pochi
monopolisti Poi- ch essendo i prezzi di ogni cosa la misura del bisogno che se
ne ha cre- scendo i bisogni interni d' uno Stat per un genere, cresce a
proporzione Conitfitrc'to de grani P. IL no prezzo d; esso : e dolendo il
forestiere re oltre il prezzo primitivo anche il tributo all' uscita .\ per
fM!)'!' lie tempo rotabile essere diverso da un luogo all' feltro se non
iSsolut-. che si po'Sf le . r, dal vero
e reale bisrgao che ne ha la na- zione} mz bens conviene ripeterlo, dai te
compratori parcigonato al ni* de. vendite i . Se an uomo solo possedesse stor-
ruiuati aakgazz ni di grani, e ti* tip un. on dovesse prenderli da lui,
egli nte t;he il prezzo di quei graj
difenderebbe interamente dai volere di ; solo monopolista, e che gl'istes' 'i divisi
in dieci possessori di- penderebbe il prezzo de' grani dal valo- re che
volassero fissarvi essi dieci pos- sessori , e cos crescendo il numero in-
definitamente . Faci! cosa il compren-
dere come quell'accordo e congiura clt e Ira u pircol numero di posses- sori
con dilueo't maggiore si va.ia tando a misura che il numero de' sessori cresce:
poich uri solo de' pos- sessori che cerchi di guadagnare pi presto de^ii altri
compagni rompe im- mediatamente la congiura non avendo egli verun ostacolo a
diminuire il prezzo della derrata che vende , e cos invi- tando tutti i
compratori a contrattare con esso , anzi che cogli altri ; e da ci no nasce la
necessit , e la gara degli al- tri a lar miglior mercato per avere pia pronto e
copiosa smercio de' loro gene-. ri ; nei che tossiste il gran principi k i *4
deU.i concorrenza sola , legittima . e L.'- neh" a livellatrice del prezzo
delle cose in ogni nazione . Da ci ne deriva die i grani clan- destinamente o
privileg atau.ente tras- messi dn pochi nazionali a pochi fore- stieri
finitimi, non tarmando quella con- correnza tra compratori, e venditori che
nasce da molte piccole partito libera- mente dedotte in commercio, e mer-
canteggiate apertamente , ne nasce dico che uscendo dallo Stato quanto Grano
basterebbe a livellare il prezzo se fosse ripartito su molti possessori , con
tutto io la divergila del prezzo rimane ; e cos rimane l'incentivo di
esportarne 1 di pi di quanto esigerebbe la natura del commercio Cos questa
legge , la qu.de setrbra diretta a conservare i gra- ni nelio Srato termina a
farne uscire pi di quello che ne uscirebbe natu- ralmente; b togliere al
pubblico l'utilit che ritrarrebbe eia questo commercio , condensandola nelle
mani de' pi po- tenti , e sagaci ; e a diminuire la col- tura di un genere, i
possessori del quale non son sicuri di ricavare nel prezzo tanto utile , quanto
ne possono sperare m altri prodotti dell' ?gricaUura ; un i5 genere per (ine
sul quale pende la scure del Legislatore minacciando sino 1' ulti- mo supplizio
al possessore se voglia li- beramente contrattarlo . Che se la legge proibitiva
del tras- porto de' grani fuori dello Swto deve produrre questi effetti
perniciosi, dia- metralmente opposti al fine stesso della legge , che doVrassi
poi dire di quelle leggi che persino vietano la circolazio- ne interna del
grano da provincia a pro- vincia dello Stato medesimo , e lo as- soggettano a
cautele e formalit , mi- nacciando chiunque osi dimenticarle ? Pare che questa
parte di regolamento sia diretta a far s che mentre una pro- vincia abbonda di
grani V altra u scar- seggi ; clie sia sensibilmente diverso il prezzo de'
grani neile diverse terre dello Stato ; che sia sempre aperto 1' adito ai
monopolisti e privilegiati di approfittare soli dtd trasporto anche interne de'
gra- ni ; e di porre in somma e stabilire un perpetuo scisma fra i sudditi
dello stesso Sovrano , che contribuiscono allo stesso tributo che vivono sotto
le stesse leggi, e che fermano la stessa civile societ . L'impedimento posto da
queste leggi venuteci da secoli, poco illuminati cer-
pare agli cechi di enunci; n io dm v!ei a j io are il danno clic ci deve
recare, poich ognuno facilmente ili vedere su >' artico io una riforma . Da
queste ri ti ne nascono le conseguauze seguenti: Prime. La proibizione
dell'uscita de' grani da huo Stato conduce alla care- stia , perch fa uscire
dallo Stato pi io che uon uscirebbe se ne fosse libero il cooiru.. rei > -
Seconda . La legge che vieta la li- beri circolazione de' grani nello Stato,
tenue a scoraggiar i' agricoltura , conse- guentemente si oppone alle provvide
viste della pubblica abbondanza . 1 Terza. 1 vincoli, le cautele eolie quali si
circonscrivono la custodia , e la propriet de' gru ni producono un ef- fetto
oppos.o al line 5^o il valore del fru- mento fu di sessanta lire il moggio (a)
come ci attesta xm autore conte ipora- neo ; e assai pi enorme si fu il prezzo
a cui per testimonianza dei (Jorio isc?se ii grano da noi l'anno i45o, cio
venti ducati il moggio (b) per il che rag g'iando la lira di quo' tempi alla
nostra e quella moneta colla corrente -ppare veramente enorme quel prezzo . Ma
que- ste straordinarie carezze nascevano ap- punto allora perche pochissima
corri- si, on- fa Aggiunta dell'universale Hstoria , e de le cose di M.lar-.o
del P Pra Gasparo 8u- gatti Pointnicano dal l566 al i58l 1 Milano per Francesco
ed eredi di bimon l'iai ijfc? pagina 76 (b Cor:p vqt r fine : Ila part ".
e iva. in fbgl p ig .o^. 1 2T spondenza vi era fra Sialo e Stato , ge-
losissime le reciproche leggi vincolonti , e poco animata la navie^oie la quale
con poca spesa nnisc le pi rimote re- gioni , e conguaglia l' abbondanza e i
prezzi non solamente fra i Regni oV Eu- ropa, ma oll'Affrica iste&sa e
coli' Ame- rica . Due anni sf no lo farine nate.nelL* America trovavansi ne'
magazzeni di Ge- nova . Le Poste la
Stampa , i Fogli pubblici , la bussola magnetica hanno data una nuova torma al
genere umano, ed hanno organizzata una vasta societ sola , di tante piccole
societ esclusive , gelose , e solcane che vivevano in que* tempi Perci dico che
gli esempi de' passati secoli non possono pi farci te- mere simili disastri .
Un paese che raccoglie abitualmen- te pi grani di quel che consuma ha due
porzioni di grani ; la porzione ne- cessarla e la porzione superflua. Lo stato
della questione s riduce a vedere se colla libert naturale del commercio pos-
sa uscire della porzione necessaria . bu questo articolo bene primieramente il riflettere che nel
sistema situale non si impedir l'uscita del necessario, perch i custodi delle
Leggi vincolanti non san- Commcrcio de' crani F 21. 1 22 no, n possono sapere qual porzione di
grano superfluo siavi nodo Stato , at- tesa la fallacia delie notificazioni Es-
sendo questo 1" unico Ilio che ora vi
minorare il bisogno e 1' abbondan- te viene che ogni tratta d'estrazione
che si concede redmerne un rischio. A ci
si aggiunga che le clandestine estrazioni non si sono mai potute esat- tile
impedire: ernie se il necessario pu uscire dallo Stato, singolarmente lo pu nei
sistema odierno , per cui si ensano i Grani in poche mani . Secondariamente
conviene dirci , sicco- me da principio accennai , per quale occulto misteiioso
principio la merce giano nelle vicende della libera con- trattazione debba
provare effetti che nes- suna altea merce prova mai . Un tatto costante prover
ad evidenza credo io a cbiur.ji i si e no gli eliciti de'la li- bert , qi ;
effetti dei vincoli . Que- sto latto 1' abbiamo celi' interno del no- stro
paese, ed alia portata di ognuno. il
nostro Stato manca di vino e manca o 18
soldi nell'Estate si vendeva. Perch questo fenomeno.' Non si pu dire che sieno
scemate le man- dre ; anzi sono , come si
veduto , ac- cresciute Non si pu dire che siasi per- messa maggiore
estrazione dallo Stato ; anzi mai non si
usata maggiore ditti* eoli a permetterla . Si sono raddop- piale le
diligenze e le inquisizioni , s sono accresciute le custodie in quest' auno , e
in quest' anno nata la mag- giore
scarsezza . Perch ? 'perch pi fischia il {Ugello della legge sopra una merce ,
e pi il primo possesore cerca di disiarsene , nasce il monopolista e lo
ammassatore ; e questo padrone del prez- zo , malgrado la custodia deluda , o
cor- rompe sempre . Nel i y 5i per favorire le fabbriche del Filugello si proib
V esportazione di questo naturale frutto delle nostre terre: Si credette che in
tal guisa rimanendo nello Stato la materia prima sarebbe stata a miglior
mercato e pi abbon- 1 (a; Questa
libbra di ventoU'' onci.'; T26 dante ,
onde alimentare i tessitori di Stoffe di filugello Si proibirono gli am- massi
. se ne viucol il commercio La raccolta annua dello Stato appare dai notificati
di Rubi circa quattrocento mila di bozzoli , dei queli per verosimile se ne
cavano trentamila Rubi di filogello . Dopo questa operazione sono nati im-
mediatamente i monopolisti di filogello, i quali malgrado Y ottimo fine che si
era proposte la legge si rendono arbitri di questo genere, defraudando il
coltiva- tore del gmsto prezzo , e spogliano lo Srato con un privativo lucro .
La sni- versn de' flugellai in rovina;
pi di quaranta tessitori di quest' arte andava- no mendicando due anni sono ne
mai la manifattura del filugello stata
deso- lata al segno al quale si trova presente- mente . Nel medesimo snno i^52
s'impose un nuovo tributo sull' uscita della seta greggia ; ognuao la pu
esportare pa- gando il tributo , ed il commercio ne libero 11 raccolto delle sete va prospe-
rando ogni giorno ; s calcola la seta come il prinoipal ramo del nostro utile
commercio, per il quale pi di dieci milioni delle nostre lire , ossia
seicento . "S 1 sessanta e pi mila
gigliati' entrano ogni auuo nello Slato . Nell'anno passato 1^68 si proi- bita l'uscita delle uova dal Lodigiaud
ppr manienervele a buon mercato . Que- sto
un capo di commercio utile che facciamo con Genova . Nel in62. ne
uscirono rubi 82^4 > * quali calcolati a lir. 6" soldi 5 per ogni rubo
, danno l'utile di lire 61712 io, ossia gigliati tremila quattrocento cinquanta
. L' effet- to che ne accadde si fu di vedere , ap- pena dopo seguita la legge
vincolante , accresciuto il prezzo delle uova e si mantenne a un livello
superiore al so- lito per tutto 1' inverno . Questi fatti ognuno pu agevolmen-
te verificarli , ognuno pu esserne giu- dice , sono attuali e vigenti. Q iresti
fatti sono una prova talmente pratica in fa- vore della libert che non possibile , credo io ricusare di conoscerne
la evi- denza . Due anni sono si vollero porre in esatta osservanza le nostre
leggi vinco - lanti su i grani ; ne venne in conse- guenza che realmente fummo
ridotti a mali passi e a strette inquietudini per nodo che se il raccolto
tardava accora t>8 |>er qualche settimana , e ia stagione non fosse stata
propizia eravamo sul punto di provar u lame ; unico effetto di c^nei principi ,
i quali si vorrebbero pure sostenere come 1 cardini dell' abbon- danza . Il
vigore che si voluto dare alle nostre
leggi ci ha esposti , oltre alle inquptusiini interne , a un pericolo prossimo
di mali i pi ser) Giovi os- servare die negli Siati Pontifici , nel Napoletano,
e nella Toscana erano in questi ultimi anni rigorosissime le leggi vincolanti
il commercio de'grani. Su di che da
vedersi una bella analisi del II; golamento di Napoli del Sig Abate Morellet
stampata in Parigi 17^4 col titolo: Fragmp.nt d'une lettre sur la pohce dts
grains . Per il che le carestie sof- ferte da quegli Stali provano che ap-
punto le leggi vincolanti non preservano uno Stato cibila carestia. Questo tanto vero , e questo s'.ato con tanta evi- denza conosciuto sul
luogo nella Tosca- na, che ammaestrato quel Governo dai mali proprj , ed
illuminato dall' esempio delle altre nazioni , e dalla comune opi- nione de' pi
accreditati autori di que- sta materia coli' Editto 18 Settembre 176*7 quel
Sovrano po finalmente rom- 1 : ;. pere i ceppi , e dare alla sua nazione la
libert della circolazione , ed espor- tazione de' suoi naturali prodotti sin
che il Grano non oltrepassi il prezzo comu- ne le lire i.| il sacco senza
obbligare ad alcuna notificazione i possessori , o ad alcuna introduzione nelle
Cina serr/.i proibire gli ammassi, senza in somma conservare alcuna di quelle
cautele die pur si vorrebbero iar riguardare nella piena luce di questi tempi
come il Pal- ladio della pubblica abbondanza , quan- tunque sieuo veri avanzi
dell' antica bar- barie dei secoli d'ignoranza che ci hanno preceduto . 3Non si ommessa arte alcuna per disseminar delle voci
in discredito della libert. Al principio dell'anno scorso si sparse rumore ira
di noi , che nella Toscana , e particolarmente in Siena fosse quel popolo
ridotto nelle pi cri- tiche strettezze in conseguenza della li- bei l ohe il
Gran Duca aveva accordilo coli' Editto 18 Settembre 1767 Questa voce sparia pr
tutta la Citt nostra , assicurata, e- creduta universalmente mi stimol a fame
ricercare una sincera notizia , ed ecco cosa vtune in risposta da 5ieua ai
Febbrajo 1768. E' Jais* i3o quanto cost zi
sparso sul proposito di una carestia in Siena Presentemente tutto lo
Sta'o gp le d' una cgunl i , e sui fine di Ottobre , e seguente ?ioi>ernb~re
dell anno scorso , allorch in Firenzi; -a fare cruest' uso di lettere private
serza il previo sser-so 'li chi Je scrisse, e questo uog '.' !:o . l* elio ,
eli lamenti del poy.nlo Fiorellino i il q'iale
maissimo contento di questa li!) era estrazione di Grani . eri Olio
nccor~ data . V.i /i'.i sta al acquietarlo un libretto pu!'h!i3a>o
ultimamente m Firenze, e che si dice tra licione del Francese risana irla ite i
vantaceli originati falla libera sortita da DO O G nini , nel (/itale si dice ,
che il Grano tende a livellarsi come l acqua , e gli al" tri fluidi , onda
mancali lo in una Provin- cia, mme Untamente le altre circonvicine trasmettono
il Gratto che hanno di pi , e cosi si supplisce alla mancanza , e s induce n
gli Stati una perenne cireobizione di Grano, e di danaro. La provvida cura del
Sovrano appaga pi ri/ pi dell cnunziata ragione , e di qualunque altra ce Lo
spi t i r v> utmno e le passioni de- gli uomini s'assomigliano sempre, ben-
ch si esercitino sopra oggetti diversi, quando essenzialmente siano simili le
cagioni motrici; e se vorr farsi un esa- me attento di quello elio accaduto ai promotori della inoculazione del
vajuo- o : uomini benemeriti della umanit di cui cercavano di salvarne la
decima par- te , arr^verso ai pregiudizj ed interef' de' Medici ostatati ad
impugnarla, tro- veremo cjie molta analogia vi
con i 3 5 mia rito accade presentemente si pr. no- tori della libert dei
commercio de' giri- ni . 1 primi furono chiamati avvelenatovi del pubblico ,
noi siamo qiu.buoati op- pressori della pi infelice plebe . Cento l'avole
smentite una dopo 1' altra si sorx promulgate per discreditare i innes'o ,
asserendone un gran numero di periti per questi op-'r.-izione . e un gran nu-
mero d'altri, ai (piali non suta V ino-
culazione mi bastante preservativo con- tro il vajuolo naturale:, dai' quale in
se- guito sono stati sorpresi. Fat'i tutti suc- cessivamente sventati con prove
giuridi- che , ed asseriti gratuitamente . Contro la libert del commercio de'
Grani s' in- ventano con eguale facilit 1 latti per discreditarla, e bench non
possano aver vita che poche settimane i rumori che si spargono nel popolo ,
pure non si cessa di mettergli nel cuore la diffiden- za, la qui.le non manca
mai neh impor- tante materia del pane di lasciar lulla molli ladine nna
Impressione difficilissima a cancellarsi . perch eoa forme alle leg- gi , alle
opinioni succhiate col latte, e a tutte le superficiali apparenze degli
oggetti, oltre la qna'e non si Spinge mai la maggior p. conseguenza , e una
contraddizione al sistema . Se poi non
possibile cir colla libert resti lo Stato sprowsdnto del necessario;
allora di slancio bisogna atterrare la libert , la semplicit , e T ottimo ;
ogni modificazione del quale un male ,
di cui non possiamo preve- dere le conseguenze . Tra la luce di questo secolo
sotto di un governo vigilante non era possi- bile che pi a lungo regnassero i
fune- sti pregiudizj che su 1* importante le- gislazione dell'Annona da secoli
ha spar- so una mal pensata timidit. Partono^da esso i ra?gi che ci additano il
buon sentiero. INTel i rfSg con Sovrano Rescritto ai Agosto dichiarasi la
massima di do- versi proteggere , e favorir quanto il comporta V esigenza dello
Stato , e il reale servigio, la contrattazione ed esira~ zio ne de' naturali
prodotti , brattando che celi' applicazione e coli' industria sia- no
migliorati, ed accresciuti, per sem- pie pi dilatare il commercio. Pi chia-
ramente poi nelT Articolo XIII. della Istruzioni unite al Dispaccio dei 20. No-
vembre 1765 vedesi che nel progetto sull'Annona ordinato da farsi il Jne prin-
cipale dovr essere che senza discapit dfl Regio Er ario possa ottenersi la
libert del" la contrattazione ed estrazione de naturali prodotti . La
proposizione di cui si tratta noti, si
di esaminare se convenga al nostro Stato adottare la libert del Commercio
de grani . Questa proposizione resta gi dal Sovrano Rescritto decisa , poich il
fine principale del progetto dovr esser non gi comporre la libert ciV abbon-
danza pubblica , ma unicamente com- porre la libert coli interesse del Regio
Erario . Troppo illuminata la mente
Sovrana , e socio degni di lei i Ministri perch si tema da essi che la libert
lei commercio sia mai in contraddizione colla pubblica abbondanza. Altro a. qne
bop resta da effettuarsi f non di j >rre un piano, per mezzo di cui r libero
il commercio d^ Grani , e ne. discapiti ii 'Itgio Erano tti quel i o che da
questo laudo ritrae , e o sar l' oggetto di quanta mi re- sta ri dire *
Distribuire sull'uscita dcgrt.ru' dallp Staio in somma totale del tributo die
al di d' oggi p^ga il con. mercio de' grani : questo il progetto ch'io propongo, e lo cred.o il pi
semplice di tutu il solo j tubile . Con questa seuipl e* operazione
non sar aggravata certamente d' un sover- chio ueso la contrai tazicne de'
gr*ni , poicli presa tuua in nome portwr il imedesimo tributo he ha. portelo
sin ora. e nel tempo afiadesi-mq ->ara svin- colata da tutti gli ostacoli,
ne quali sinor: estate inv luppata . H .. detto por- tava il rry.. iesirm
tubulo e doveva torse dir' ne perle uo
minore asai; poi- ch s l -imitala - solo tr>buto legittimo. Il Krgio Eiui'ic
saia indennizzato ccl ' diurna sni'.ioia che gii frutta 1' An- r jii.i ; onde
al medesimo non ne verr discapito alcuno. Gli ufficiali che sino I4J al prsente
hanno consultata la lor vi- ta, e i servigi loro negli impieghi subor- dinati
dell' Annona verrebbero in questo progetto trattali ton quella discrezione , e
amanita che merita ogni fedele e ono- ralo ufficiale , poicli da! fondo
raedesi- se gli conserverebbero g!i annui Jore disperidj ; e siocome molti di
essi son forniti i abilit e zelo ; cos po- trebbero impiegarsi parte a tenero i
re- gistri separati ed a refereudare le boi- lette de libri di questo tributo ,
altri in fcu-i u file] s-enza aggravio della Regia Camera . Resta a vedersi
adunque qu-jl sia la quantit de' Gran ebe verosimilmente escono dallo Stato ;
quale la quantit dui tributo , che attualmente pagasi dal commercio de Grani ;
chi dovrebbe ave- re la cura della percezione di questo tributo ; ed in qual
proporzione dovreb- be distribuirai su i diversi Grani. (Que- sti oggetti
dilucidiamoli , e ci fatto , s-ir esaurito quanto vesta da dire su di guest'
argomento . 1/ opinione volgare fa ascendere la esportazione annua de' nostri
Grani a moggia n.ioit)- . Abbiamo unito al Ma- gistrata Carnevale i Regio
Ufficio delie i4^ tratte de" grani , ove si registrano le li- cenze per
ou'ni esport!.: le' Grani . L'uscita de" Grani i questo Stato dell'
X^ltituo decennio, appare eia i registri dell' Uffi tratte p lo di some ijitr,.
st. io, ossia moggia . Moggia iJiyoOy sono a moggia ioif' come i $ a io t circa
. Dunque apposta l'opinione volgare sopra ogni iredi Uero uscire di t lo ;n
frode della U-gge , e uela regalia ino:. i' re al brd principio che se una cos
prodigiosa libert di ' . le leg- gi., e le reglie stabilite sin Grani fosse
realmente in uso in questa Provincia , vi sarebbe di che maravigliarsi, die al-
cuni tuttora rtcorrino al Magistrato per le trane , e si sottoponghino e pagare
il tributo . L esperienaa , e la comune o| re sono d'accordo in ci ctie si
asse- gnano per verosimile con su irte in ogni nazioue due moggia e ruezao di
grano all'anno per testa (a). Se 1 tsoortazion e fa) Disopra Lo assegnato por
gli a')itat>)i dello Citt Uue moggia prr tesra , perch nelle i43 de' grani
del Milanese ascendesse dova l'opinion volgare la porla, converrebbe dire, pi
di 400oo uomini vivessero inori dello Stato di Milano col Graiio dello Stato di
3iilao, e (jnesta somma altres pare troppo esagerata L'inverosimiglianza di
questo gran- dioso trasporto va sempre pi crescendo, se paragonisi col
commercio de giani dei Regni pi fertili d' Europa , ci* della Polonia , e dell'
Inghilterra . 'Citt s nutriscono gli uomini con minor grano per {' se che fanno
(felle carni iN'ella Gii i'Jilano appaje^o per adequalo vemule a i approssimi
:i pi alia verM sar facile il retti- ficare i! calcolo ; numi' altro cerco se
non la V'in.'i, e sar il prim a mutare d'opinione 3 dell* errore . Se dovessimo
stare a qusnto ei af- fossa it Coi, roti? nl suo sh tii Lettere eopra la Russia
alla lettera v,> i'. i Pelaceli! : il gn no lo reirlo! o ai JJanzieani,
tendo permesso ai t}.>- erlo ai , -r la so'o spazio ili oinque giorni
durante li 7u-ra ci stima che /' /00000
come uno a quattro crescente . Dunque sarebbe il commercio de' nostri
grani pi che la qv.inta parte dell'insigne coruraercio del- la Polonia per
Danzia ' Commercio de grani P. TI. n fa Tonneau* (b) Vic/ionaire Geograpbitjue
artcolo Damerei, te Samry Cotnifterce page 464 , ed Essai tur fa Poliva Gncr.
Jet Grains pag 1\(. (3) Sararj Commerce pag 179. La forza di questo paragone
cresce assai riflettendo che le coprannominate l 'fi \iucie della Polonia eo
inimicanti culla ala (ormano lo spazio d'una jiianuiM ili miglia quadrate
italiane 4-5ooo. La iitiej superficie dello Stato di Milano si calcola circa
miglia quadrate italiane a5oo (a) . Dunque lo Stato di Milano la di- ciottesima parte delle accennate
Profitta ce delia Polonia , ossia lo Stato di Mi- ano si comprendffiebbe io
volte nelle fa) Questa estensione cavala
dalle carie stampate P converrebbe rettificarla Dalla misura (Ille Terre appare
che I* estensione del censi- Mie si
Pertiche 1137*121. 12,. 5. 6 12 Ag- giungasi le strade , i Fiumi , i
Laghi ec per 10 meno 1' estensione sar Pertiche r'.oooooo . Kon so se il Miglio
che serve al Magistrato Camerale sia la sessantesima parte d' ut giado. 11
Miglio Camerale bracca a568 , os>ia
Tra- bucchi 585. I. io Dunque Pertiche 3566 1. sono un Miglio quadrato del
Magistrato . Dun- que 12. milioni di Pertiche sarebbero Miglia udiate 3365.
crescenti . Dubito che la misura del Migiio de} Magistrato sia pi corta del Mi-
glio Italiano . In ogni caso io lascer che que- sti fatti si esaminano, e si
verifichino, contento d-tlla mia parte di non avere occultate le ob- ;iit?;oni
che li possono fare . suddette pianure della Polonia . Da du- ne segue die
preudendo in massa il Milanese, e paragonandolo alle accennate pianure della
Poion:a , se 1' opinion vol- gare sussistesse, dovrebbe dirsi la fecon- dit tei
Milanese esser quadrupla , ri- spetto a' grani, eiella fecondila del suolo di
quella parte di Polonia , per mo- do che due porzioni eguali di terra , una nel
Milanese, l'altra nella Polonia qulla del Milanese dando lue moggia , quella
della Polonia dovrebbe darne solo mezzo moggio. Giacch le. miglia qua- drate
italiane 45ooo della Polonia pro- ducono moggia Milanesi quattro india- ni , e
novecento mila , verr a risul- tarne per ogni miglio quadrato ioo erica ; e nel
Milanese spazio di miglia italiane quadrate a5oo distribuendosi 1 moggia un
milione e diecimila cento novautasette , verrebbe ad essere il pro- dotto d'
ogni miglio quadrato di moggia 44 crescenti , il che appunto corri- sponde al
qudruplo circa . Che se paragonisi il commercio de nostri grani, giusta la
volgare opinione, col commercio dell'Inghilterra, crescer ancora ohremodo
l'inverosimiglianza. Il commercio de'.Gvani dell' Inghil-, n a i43 terra un ramo dei principali del com- mercio attivo
di quell'itola Ognuno sa quanto si . l'ertile in grano tntti quei Re- gno , e
particolarmente 18t)87 il che forma p&r sdegnato l'uscita annua di quartr
o^>^ij6^ cre- scenti 'a . fa' Rsmar.jups sur Iti avantages et !et iexavan-
tagts de la Franse f et de la Grand* Bt+fagn* pos- ti , et Essai- sur la Po/tee
generale des Grami /''?. 2. 1 v paese al
M do ci 1 non deb- bano -uscire gran
c'aii'l ti aiicle questo debi^'.s^er-* certamente il R^sjno d'Inghilterra dove
per la gratilcazione che ricevevi dal pub- i\ quarter iuglese pesa libbre 5x2
di once 12 per libbra (a). i moggio Milanese pesa libbre di once ri Sari circa
. Dunque un quarter corrisponder a moggia Milanesi 1 st. 4 quart. 2 . Dunque l'
uscita annua di quorlef ioj-;)')'9 corrisponder a moggia Mila- nesi 1653076
crescenti . Ma le moggia 1010197 sono a mog- gia 16.0076 come 5 a 8. Dunque il
to- tal commercio d esportazione de' Grani del Milanese sarebbe pi della met
del totale commercio de' grani che fa l'Iso- la d Inghilterra . L'intera Isola
d'Inghilterra ha di estensione 65ooo miglia quadrate italiane;, Lo Stato di
Milano la ventesima Sesta parte
dell'Isola d'Inghilterra. Da n 3 Hliso Er.irio all' uscita de' Grani il non
regi- strarli sarebbe lo 6tesso che perdere una sen- sibile parte di guadagno
di 5- soldi sterlini per quarter, come fra gli altri il Negociant uLnglois
'Ioni 2. pag- 82 (a) Storia del Commercio . della gran Breta- gna ( che appena la deGioi citava parie (ti quella
porzione d Polonia . che pi: fertile di
grano, trasponi pi della qnin- ta parte del grano che trasporta la Po- > ti
-i . La terza che la esportatone de grani del Milanese sia pi dtlla piet lei' esportazione de' grani che fa l'Iso- la
d' Inghilterra , la quelle per estensio- ne contiene pi di -iG volte lo Stato
di Milano . Queste tre conseguenze sono tal- menta iuv^risi raili che
evidentemente di- mostrano non esservi che 1 ignoranza per base, sulla quale
viene appoggiata l opinion volgare . Tre sono gli argomenti su i quali si
appoggia l'opinione che fa ascendere il commercio di questa Provincia ne' grani
a moggia 1010197 . Il primo supponendo
che il rac- colto d' un anno de' grani del Milanese hasti per 18 mesi . Il seconde che il totale del pro- dotto annuo delle
terre del Milanese sia li lir. 72900000 . Il terzo appoggiato su la quantit dell'aratorio che
risulta dall' Ufficio del Censimento . Il primo argomento , cio La rac- i53
colta de' nostri grani basti per i3 mesi, rsru che la raccolta de' uos ri grani
sia la met di pi de' nostri bisogni , .-.Uro ron elio nna gratuita petizioni di principio, col^a
quale supponesi pfr fon- damento rinfilo clie
oggetto della ri- cerca. Quindi tutto il ragionamento ivi appogsj 'io
non pu dirsi appoggiato a verun fondamento . il secondo argomento il prodotto annuo di lire 73900000 , a cui si
fauno ascendere le terre dello Stato. Questa somma veramente romanzesca , e tas- sata da chi non
aveva notizie d' altri paesi per IVrne il confronto . Dando un' occhiata all'
opera del Marchese Mirabeau , che porta il titolo ; Theorle de /' Import pag 1
4- trovasi the ji totale prodotto delle tftrie di tutta la Frnnria ,
considerata sotto tre diversi aspetti,
di franchi 4f'8"8ii6o, cio di lire Milanesi * 1 3 1 7 1 ^4 circa Se
il prodotto delle nostro terre fosse di ~3 milioni , sarebbe V ottava parte dl
valor totale del prodotto dtlle terre di Francia , poich 70 milioni sono a 61 3
171740, come 1 a 8 crescenti. A chi vorrassi mai far credere che il valor delle
terre Milanesi sia 1' ottava i ;>4 parte del valore di tutte le terre di
Fran- cia , la quale uno spazio di
miglia quadrate italiane 172800; mentre lo Sta- to di Milano lo spazio soltanto di mi- glia quadrate
italiane uSno , cio la ses- santesima nona parte del liegnodi Francia.' Che se
vorrassi nheriormente con- frontare questa valutazone ridicola data alle terre
Milanesi , colle notizie che ri- caviamo dai pi illuminati Scrittori delle
materie economiche , troveremo che in questa supposizione il prodotto annuo
delle terra di questa Provincia verrebbe a riuscire pi della met di quanto pro-
ducono alia Corona di Spagna le M:- niere del Potos, e le Colonie dell'Ame-
rica Meridionale . Di ci se ne vedono le prove in D Gerolamo Ustariz infor-
mato e zelante Ministro della Spagna, il quale nella Teorica, e Pratica del
Com- mercio a yng. 26 ci insegna , che %o milioni di piastre all' anno il totale che il Re di Sp;.gna riceve dalle
sue copiosissime Miniere dell'America. Venti milioni di piastre corrispon- dono
a centoquaranta milioni di lire Milanesi . Settantatre milioni soao a ente
quaranta milioni Milanesi , come 1 a a r 55 crescenti : dunque il prodotto
annuo dille nostre terre verrebbe ad essere pi della mela di quel che producono
alfa Corona di Spagna tutti i suoi te- sori dell' America . Da qualunque parte
si paragoni que- sta grandiosa valutazione delle terre , sempre ne scaturisce
qualche risultato che dimostra T^ssurdit dll'esagerazione. Se vero qnanto il sig. D.ivid fiu- me asserisce
nel suo disborso politico sul denaro , cio che la massa totale che entra neli'
Europa ogn1 anno per il commrcio d'America, ed Africa non oltrepassi la somma
di sette milioni di lire sterline , ne avverrebbe che il pro- dotto annuo
assegnato alle nostre terre fosse eguale alia terza parte di quello che
fruttano alla Spagna, al Portogallo, alla Francia, all' Inghilterra , ed ali'
O- Lnia riunite tutie le Miniere , le Co- louie, ed il Commercio d'Airica, e
cibile In -iic Occidentali; poich sette milioni di lire srerlme corrispondono a
lue Mi- lanesi 23ioooooo, e settantatre milioni seno a duecento trentuno
milioni come 'j. a 3 circa Da questi paragoni nasce l'evidenza che i! secondo
fondamento non sia ap- poggiato che all'ignoranza, ed alla cUb- bennaggino Per
far ascendere il prodotto an- nuo delle tetra di questa Provincia alle lire
quasi setiantatre milioni si sibabi- 1 sce u principio , il quii e opposto dia universale espprien/.a , cio die
la porzione Dominicale sia soltanto la ter- za parte del prodotto , quando
elLi realmente la met essendo una gr;in
psr- te delle terre di questa Provincia colfi- vate colla divisione per un^ del
pro- dotto fra il padrone ed il coltivatori', ai quale stanno incaricate le
spese della coltivazione (a) . Giova il r flettere come nel valor capitale
dello Stato di IVIil no satinato dui Censimento di scudi j^G^bSi v' 8'
comprendano le ctje, e tutti i.btjni disa- mati fa) Questo fatto non
solamentp noto a qualunque niii nel
Stila esc , ma si tova ati- che nrgli Au ori Oitrnimntatii ctit i>r ano d'Ha
nostra Agri altura : d>xn.t Ir iWfaii&i U Frm/'er danne au Proprie/aire
Li tre:/. du j/rouit Ji Li terre au leu
du ters "Basai mr /j nature du Commerci eri general t raduti de l Jtngta*
, Lo-
i ri i.5 per ogni scudo d'estimo, dun- que pag.-si il '>y per cento.
Il ch s'ac- costi alla terza parte o\ prodotto . Il frutto annuo adunque che si
vor- rebbe calcolare delle nostre terre
mol- to esagerato, come ognuno vede, e non li a fondamento alcuno .
Notisi che que- sto Iruttto delle terre comprende la se- ta , il lino , il
cacio , e il burro non il grano solo. La seta
un ramo d'an- nua riproduzione , che risulta pr ade- quato -j 00000
libbre di seta II lino delle terre singolarmente nel Cremonese si calcola che
per il solo commercio estero se ne trasportano circa i4oooo rubi. L'articolo
della seta il massimo per il Milanese ,
ed un errore ben grande quello che
alcuni asseriscono che il principale ramo del nostro commer- cio utile sieno i
grani (a) . Finalmente convien dare un'occhiata al terzo fondamento , il quale
presenta fa) Questi falli nascono da uno spaglio esattamente l'ilio sui libri
de' daziati e dalla bo- ti'iicaziofie della seta raccolH un aspetto di maggiore
solidit degli al- tri, e par conseguenza pu conciliarsi qualche particolar
attenzione . Yieno esso Appoggiato su d'un fat- tp , al quale per dassi u'
arbitraria va- lutazione . 11 latto che
vi. siano neUo Stato di Milano attualmente di terreni coltivati : Aratorio
stabile . . . Pert. 4^7988 Aratorio a vicenda ... 22,j2aS Risar . . 86 1
1 99 Sommano Pert- 55664 * 5 La valutazione arbitraria il tassare r aratorio stabile a quattro st*ja
di pri- mo grano dedotta la semente; l'aratorio a vicenda a stara sei ; la
risar a stara sei . Per cominciare dal fatto ;
cosa degna d' osservazione , come ie stime e misure del Censimento , d'
onde tai no- tizie sono tratte , diano la descrizione esatta dello stato della
coltivazione delle terre del 17*0, e 721. 11 voler calco- lare Io stato odierno
su d' una descri- zione , dopo di cui sono trascorsi pi di 4 anni , espone a
p,ericolo di erro- o 2 2 SO re Tanto pi questo pericolo 'accre- sce, quanto l'
industria degli agricoltori pi attenta a
preinovere la coltiva* rione di que1 generi , che giusta le mu- tazioni delle
circostanza debbono ren- dere pi sicura ed ampia ricompensa della lor fatica .
Da ci ne segue , che la vera qaan* tit dell'aratorio valutabile al d d . ggi
per il commercio de' grani debb* essere realmente minore delle pertiche
55664 Fare suppongasi ad abbondai za ,
verificato quest' assunto , resta da verifi- carsi la tassazione che ad
esso stata fatta . Le varie osservazioni
che sin qui si sono esposte . facendo r-gionevol- mente nascere della
differenza sui con- teggi fatti in favore della volgare opi- nione relativamente
ai grani, non trovai mezzo pi classico, e meno turbolento per indagare la verit
. che quello di ricorrere all'istesso Ufficio de] Censi- mento per osservare da
un punto medio delle stime di esso Ufficio qual fosse la tassazione verisimile
da stabilirsi Presa per in prospetto la Crta generale dello Stato di Milano
Mietente in esso (Jilcio , feci assegnare dagli Ut- i6t noili medesimi del
Censimento diversi punti sparsi su tutta quella estensione , con avvertenza che
quanto fosse possi- bile in o^ni diversa parte della Provin- cia s ne
scegliesse qualche pezzo , e cosi fecesi la scelto di trcntunove Co- nni ni , i
quali debbono verisimilinente per la loro posizione essere e nelle parti pi
fertili , e nelle pi sterili dello Stato , per modo che dall' adequato di essi
ne risulti un verisimile adequato della tassazione universale da farsi ai
nostri terreni (a) . o 3 fa.) Se avessi ricercato lo spaglio di tutte le
Comunit fieli Stato le quali sono pi di I^oo l'operazione sarebbe stata
lvmghissma e fa;icosi6 per il terzo aggiuntevi de' terreni a vi cenda a st. 5
per pertica moggia . . , . . IV. 42^>49 9 3 Totale moggia N. aGjiiaaa 7 Si deducono per ve- rosimile consumo
interno 1 c^ie C1 dimostra la uscita di some 543^ pi di quello che rr ai- strato rittll' UlTicio dello tratte ,
che ap- punta importa il contrabbando tatto ali* Ufficio del ai per cento:
aggiungasi il contrabbando che sar ulteriormente Stato tatto all'impresa della mercanzia,
e non sar in verisimile il fissare la somma de'due coutrabbaadi al 2 per cento
. Le conseguenze di questo prospetta sono le seguenti : Prima: il contrabbando
che tassi de* grani all' Ufficio delle tratte
il a5 per cento . Seconda : il commercio de' nostri grani viene ad
essere circa la d^cinf ottava parte del commercio de1 Grani della Polonia
comunicante con Diinzica , la qnal parie della Polonia contiene ap- punto 18
volte lo Suto di Milano. Terza : il commercio de' nostri grac- ili risulta
circa la nona parte del com- mercio de" grani dell' Inghilterra . Queste
tre conseguenze come assai pi naturali e verisituii di quelle che emanane dai
priacipj su i quali s'ap-. xGC* poggia la opinion volgare , determinano
bastantemente la ragione in favore di quella som -ita , a stabilir la quale
coli- mano i registri del Magistrato ; il para- gone fra essi registri , e i
libri della Mercanzia; l'adequato delie stime del Censimento , e tutte le
regole di pro- porzione cogli Stali pi fertili d grano d' Europa . Fondatamente
adunque asse- risco che T uscita annua de1 nostri gruni si di moggia 1 75^2 \euiiamo quanta sia la
quantit del tributo che attnal- inente pagasi dal commercio de' grani t il
che il secondo dato necessario ad aversi
per bilanciare il nuovo sistema , e assicurare la rendita del Regio Erario.
Riceve la Tesoreria generale ogn' anno .... lir. ^>3o$ Riceve la C
incelleria Segreta 8 1 40 Riceve la
Cassa del Magi strato Camerale . . 29539
Riceve la Cancelleria delle Biade . . . .
ii4o Ricevono gli Ufficiali spar- si nello Steto .... 585o8 lir. 1690.55 i6'j La soifcma totale adunque
da ripar- tirsi sopra le moggia 1^222 d' uscita si di lire .096.^3 , le quali col tempo
potrebbero alleggerirsi in benefizio del pubblico; poich a misura che verranuo
a mancare gli Ufficiali di Annona po- trebbe l'arsi il risparmio sino alia som-
ma di 5c)ooo lire, cio circa quatt:o mila Gigliati , che si potrebbero iar ca-
dere a sollevamento di questo ramo di commercio colla diminuzione del tri- buto
. Ritengasi fermo il prezzo delle li- mitazioni ; cio ai Gngioni some 49^J
adequato d' un novennio , le quali pa- gano soldi io per ogni diritto della Te-
soreria e Cassa d'emolumenti e un soldo per la spunta, in tutto soldi n la so-
ma . Agli Svizzeri some per adequato j.\-]G\. a soldi 18 la soma. Agli 2?taUi
Sardi some i^coo a soldi i3 d. 7 1/2 tome importa il trattato del f]bi all'
articolo 4 saranno : n 5 rjr. 2 * - ,63
e g c ' a n - 2. i s 5
? - ere w 5 - 2 5*" a- 3 21 3 p , OB O a N a PS
f3 - " * c 1- 3 Bj *" r a a o
&. e- 1 W " (^tr!) 2. Ci. o w a- c -
n Ora CO V -e C/3 2. 2.* S I o 8
O E- o o a. 1^ Li M 1 e Ci CC w> Crt
05 K> Gg torna che esterna da tutti gl'intoppi che presentemente aggravano
il coltivatore. ]N credo io clic il tributo di lir. t. 5 3 per moggio d'uscita
possa dirsi ec- cessivo. Il valore de'grani per adequato presi in ruotate
si di lir. 19 il moggio: s.rehbe adunque
questo tributo circa il ti ijh per cento del valore del grano e non pi . Che
diremo poi rispetto ai pre'zzi correnti ? ISe' due anni scorsi fu il frumento
sito a lir. 38, e pi il mog- gio ; presentemente corre a lir 24 , ed a quest'
ultimo prezzo sarebbe il tributo poco pi del 5 1/4 per cento. Osservisi che nel
Ti aitalo fra l'Imperatrice Regi- na, e S. M. ii He di Sardegna all'Arti- colo
4 $ 7 si stabilisce il pagamento al riso che esca dalle Provincie smembra- te ,
a lir. 1 e scl Miglio . : . . al mog. 11
iq Cremo Turco . . al mog. i3 9
Commercio le grani P IL p tali sono i prezzi del Mercato del Bro- | letto di
Milano . Se convenga tener promiscuo paga- mento , indistintamente ad ogni
grano, ovvero proporzionarlo in rrfgione . V
.). Economia pubblica . Com or i-a lihe~a . Unico freno del. mo- nopolio
P. 11. pag. 5.f e seg. 1) "Dicerie sparse nel nostro Paese per in-
timorire, e allontanare gli animi della libava del Commercio de grani P. II.
pag. 129 e seg, l19 E Economia pubblica . Suo iine , promuo- vere r industria
conducente alla feli- cit P. 1. pag. 16 Suo principio mo- tore P. 1. pag 17 e
seg Come si di- riga P. 1 pag 3a e seg. Deve cercare la massima riproduzione
col minimo travaglio P. 1 paj. i\v e seg, Divide gli uomini in tre classi ,
riproduttori , mediatori , e consumatori P. I. pag. 42 Oggetti che debbono
occupare un buon Ministro relativi all' economia pubblica P. I pag. ^9 Lo slogo
del superfluo il solo garante del ne-
cessario P. I. pag. 5x. Felicit pubblica mal conosciuta da' Giu- risperiti P i.
pag 65 e seg. Filugello . Quanto se ne raccolga nello Stato di Milano P. II.
pag. 125 e seg. Penuria lo Stato daach se n'
proi- bita 1' esportazione pag. ivi . Formaggi . Dilatazione del raccolto
de' formaggi nel Milanese P. II pag 2 e seg. Calcolo dell' utile che porta lu
coltivazione de formaggi nel Milanese i8p P. II. pag. 25 e aeg Qualsia il
totale \ prodotto de nostri formaci P. II pag 12V Francia . Com* sotto Enrico
IV. avesse adottata la libert del commercio He' Grani pag. 39. Nel i-j6~$ si
rese libera Y interna circolazione de' grani , e nel 1764 si rese libera anche
l'esporta- zione P. I pag 83. Dispareri che vi furono fra i Parlamenti intorno
alla libert del commercio de' grani P. I. psg. 88. Autori che hanno scritto sul
commercio de' grani in questi ni timi ;:nni P. I. paflf. (ji e seg. Rappresen-
tanza del Parlamento del Delfmato al He del 12 Luglio njfiBpag. ivi e seg.
Rappresentanza del Parlamento sud- detto del 26 Aprile 17% P. I. pag. p4 e 8eS
k' editto del Ile per la li- bert fu contrariato nella esecuzione P. I. pag. 96
e seg. Annua riprodu- zione di quel Pegno P. II. pag. i44- Sua esieusioue pag.
ivi . Giurisperiti qua! sia il loro spirito, d'on- de nato nelle materie
pubbliche P. I pag. 62 e seg. Gra- i8i ranl sono soggetti alle leggi universali
di tutte le altre merci, e siccoma deile altre merci la libert del commercio
non produco carestia , cos'i meno da grani P. 1. pag. 26 II problema sulla
libert dei grani si riduce a conser- va? il necessario, esitare il superfluo,
incoraggiar la riproduzione P. 1. j 38. Erano in Roma non solamente nn oggetto
d' abbondanza , ma di sedu- zione P. I. pag. 58. Se ne rese libero il commercio
nella Francia nel secolo passato P. I. pag. 60. Cos nell'In- ghilterra P. I.
pag. 69. L'antica tradi- zione del Milanese faceva ascendere 1' annuo raccolto
al triplo del bisogno P. II. pag. 20. La coltura si va sce- mando nel Milanese
P. II. pag. 21. Qua! sia il mezzo per conoscere l'an- nua riproduzione di grani
in uno Staio P. II. i pag. 69. Come taluni hanno esagerato il raccolto de'
nostri grani P. II pag, 142. Qual ne sia 1' esporr tazione che per adequato ne
risulta dall' Ufficio delle Tratte pag ivi. Quan- to ne consumi all' anno una
popola- zione ivi e seg. Quanto taluni a tort0 risguardino i grani come la
prineipa| ricchezza del Milanese P. II. pag, i\&, Commercio de grani P. IL
p Con quale cautela si debba i% ogni pscse procedere a una riforma sulla leggo
annonaria P. IL pag. i5i e seg- Inghiherra . Vedi Atto di Gratifica zio ne ;
Cagione delle inquietudini negli ulti- mi anni passati per la temuta care- stia
, la quale mai a proposito si vuol attribu.re alla libert P. 1 pag- 58, Suo
commercio de' grani P. 11. pag. t48 e seg. Introduzione nelle Citt . La legge
cke obbliga i Possessori ad introdurre parte del lor grano in Citt inutile arbitraria, e perniciosa P. 1. pag.
56 e seg. L >eggi. Quando non sono osservate e una prova che non sono
opportune P. I. pag 12 e seg Le leggi vincolanti non impediscono Y uscita dallo
Stato P. I. pag. 27. Producono l' effetto di far nascere i monopolisti P. I.
pag. 28. Tendono ad isterilire P. I. pag. 2$. Fanno nascere l'arbitrio P. 1
pag. 3o. Bevono lasciare all'arbitrio meno ehe i83 I si puu pag. ivi . Romane
sai commer- j ci de'Grani pag 55. e seg. Inoppor- tunamente adattate alle
odierne Na- I zioni P. I. pag. 60 e seg. Sontuarie funeste all' industria P. I
pag. ^5 e seg. Soverchianente rigide non sono rimediate che da un disordine P.
II. pag 9 Leggi annonarie del Milanese unicamente non producono carestia perch
non sono mantenute in vigore P li. pag- ?.o e seg. Legislatore . Va
indirettamente al suo fine P. IL. pag. 8. e seg. Modifica le ca- gioni , *on
comanda gli effetti P I. pag. io Invita e guida , non foiza , o prescrive P.
11. pag. 1. Sua grand* arte si di far
coincidere 1' interesse privato col pubblico P. 1. pag. 1 2. In quante parti si
divida la di lui scieii? P. I. pag. 16. Non pensi m?i a for- mare un piccol
Mondo della sua Na- zione P. 5o. Non deve aspettare i mali per rattopparli f
per bens orga- nizzar un sistema , per allontanarli pi che si pu P. II. pag.
108. Libert . E' interesse del Sovrano di la- sciarla quanto pi si pu a'
sudditi P. I. pag. io. Nel parlare e scrivere sugli oggetti pubblici utilissima
1*. I. P 2 3b4 p^g. 16. Pstl commercio congusglia i prezzi e li riduce a
nv'glior mercato pag. 2D e seg. Divide l'utile sul r gior numeri:,, e limila
'tueitc': alneio superflap P. I. pg. 3a Utile auoba ai paesi sterili tf. 1. pag
3i , 35 e 122. l\?.l commercio de' giani quali abbia effetti prodotto in
Francia sotto Enrico IV. P. I. pag 67 e seg. Quali nell'Inghilterra P. 1. pag.
69 e seg. Quali effetti produca P 11. pag 11$. Esampj domestici nell'olio, e
nel vino a fiorite del burro P. 11. pag i-*2 e t.'g. La libert produce 1'
abbondanza P. 1. pag 49 Chi la difende incontra la sorte di quei che sostennero
1' ino- culazione P. II. pag. i3t e seg. Li- bert comandala nel Dispaccio deli*
Irnyerauice Pdaria Teresa P. 11 pag. i3b' e seg Su guai fondamenti sia da
taluni asserito ebe le leggi attuali del Milanese lasciano la liber del com- mercio de' grani P II. pag. i4 e
seg. La libert di trasportare non signiiii a la possibili; di trasportare P li
pag. a(>. INon si pu accordare nel Mila- nese la libi ita del commercio
interno tie' grani senza accordare anche quella del commercio estero pag. ivi .
La li- i85 berta del commercio conviene anche ai paesi piccoli P li. pag 83 e
seg. Conguaglia i prezzi al giusto livella P 11. pag x 54 e se 'Amite del
prezzo alla libert dell'uscita, pregiudica all' Inghilterra P. 1 pag 89, e lo
pregiudicher dovunque P. II. p. 61 e seg. Posto in Francia coli' ditto di
Luglio 1764 P. 1. p- 89. Limitazioni cosa siano , e a che soggette P 1. p. 32.
Quante se ne dia dal Mi* lanese ai Grigini , agli Svizzeri, e agli Stati Sardi
P. II. p. 590. ino Qual sia 1' annua esportazione che se ne fa dal Milanese P.
II. p. i4 M Magazzeni. Sarebbe un oggetto pernicio- so quello di formarli nello
Stato per assicurare l'interna abbondanza P. II. p. 4j e seg. Mercanti di grano
. Non si pu limitarne il numero , anzi deve procurarsene la moltiplicazione P.
II. p. 54- Milano. Quali siano le attuali leggi dell' Annosa P. II. p 5. e seg
Dispendio he cagiona al pubblico l'attuale si- stema P. II. 11 e seg. In quanti
di- p stretti si consideri diviso in quanto ali' Annona P. II. p 12 e i5
listensioise del Milanese P il. p. 74 e .bt> Tirreni incolti die vi si
contano P 11 p j5. e si-g. Indebitamente si asserisce che lo Stato di Milano
sia circondato da vicini penurii si di grano P. 11. p 83 e seg. IJa qut-lche
analogia coi Deifinato P. il p. q Cesa pesi un moggio di gra- ng P. II. p. 1
;). Essgerazione dtlT an- iq prodotto dille terre P. Il p. 141 e seg. Con quale
contratto il propr e- tatio delle terre le consegui ai colti- vatore P, li. p.
i4 e Etg. e fr Calcolo del prc dotto in grani delle terre reti- iicato P 11. p
l\(j e seg Annua espor- tazione de' grani dal Milanese P. ii. p. at e seg.
Quanto pagbi di tributo nelF odierno sistema il commercio de' grani P li. p. i56.
Prezzi adequati distinti dei grsni del Milanese P. II p. 5y. e seg. Mistero de tempi passati copriva
tutte le atu ministrano ni pubbliche P. 1. p i3. Moneta mai definita fin era .
sua vera de- finizione P I. p. 4 ki livella come ogni altra merce fra gli Stati
commercianti P. 1. p. 33. e seg. fton pu proibirsene l'uscita dallo Sisto P. 1
p. 41;- ^on pu ku arbitrariamente tassarsi p. ivi e seg. ,8' Monopolisti eonae
nascono dai vincoli V. II. p. 3o e i34 e set. ftum possono esservi ne' paesi
Lben P 11 p. 3* i'3y e setj. lnn: !ziso il prezzo nelle merci P. I p. 35.
ltun'mente si proscr'vo- no mentre sussistono le leggi vinco- lami P. t. p. 39
Come nascano P. II. j>. ut e seg. Il JSTotifcuzione de* grani sempre
perniciose, e da abolirsi P il p. 64 e seg Qua! sia il raccolto de' grani del
Milanese , che appare dada notificazione P. II. p. 68. O Olio quanto ne riceve
il Milanese da' paesi esteri P II p. la. Opinione . Per quai gradi ceda alla
ve* rit P. 1. p. 85. Paralogismo cae si fa da molti peren superficialmente
hanno esaminato il problema della libert del commerci V. 11. p. ii4 e seg. i*8
Polonia ebbe sempre libera la contrat- tazione de1 graai P. I. p. 67. Qual sia
il suo commercio de' {rasi P. II. p. i44 e seg. Pop/azione con leggi dirette pn
si pr* xtaove , e si promuove colle indirette P. I. p. 11 e seg Cerne
naturalmente il genere umano tenda a moltiplicare P. 11 p. $j. Fallacia
d'alcuni metodi , de5 craali si vuol servire taluno di calcolar la popolazione
P. Il p. ^9 e seg. Popo- lazione he risulta dalle notificazioni del Censo per
la campagna del Mila- nese P il. p 4- Popolazione delle cit- t del Milanese
notificata al Censo nel J797. P li. p 4"* e seg. Divisione vero- simile
degli abitanti del Milanese fra gli agiati e i poveri P. IL. p 96 e seg. Popolo.
Sempre pi falso quanto meno libero P 1
p. 10 Sempre pi docile e grato , quanto pi illuminato P. I p. 14 Quanto
indebitamente si pretenda di far la causa del minuto popolb , difendendo i
vincoli sul commercio de' grani P. II. p. q5 e seg drammatica . V Leggi
sontuarie . Prati irrigatorj danme che fanno al terri- torio Milanese P. 1. p.
in. e seg. Quante indebitamemte taluni gli abbino qua-. . l89 liticati per u
beneficio dell agricoltura p. 35. e sag. Cosa siano p. 36 e sei,'. Si pu temere
che sempre pi si di- latino p 36 Prezza d. Ile cose Come si miseri p. iB. e Si
g. Quando vanno sa!fu':ii;;3:(*nte i prezzi
un efi Ielle leggi vincolanti p.
25 I vincoli accrscono i prezzi p. 3-. Kon si pu tassarlo rnsi ad alcuna merce
senza inconveniente p. /p e se^. La libert ribass prezzi dell' Inghilterra p. 70. e seg. e p 02
De' grani nei Mercato ci. Milano negli an- ni passai' p. 104 Siraotdindrj che
si sn tatti in Mi la*o del trumen<o in occasione delle penurie ne' secoli
pas- sati p. (20. Privativi . ossia Privilegi esclusivi sempre funesti
all'industria p 49- Pp vetta di accordare la i berta delle ir- '.te , per una
porzine li quel che ciascuno introdurr r-elle cita p .00*. Che credesi ottimo per la nuova legislazione -'Annona p
'4 Progressi che In fatti in questo secolo F arte di governare p. i^j. I<)0
R Ricchezza d' una nazione s V eccesso
della riproduzione annua sull' annuo onsumo p. 4r- Riso guanto ne esc dal
Milanese p. i5. Seta qual sia 1' annua riproduzione clie se ne fa nel Milanese
p. . 4 Spagna sino nel .7.8. conosceva l'utile delia Lberf del commercio de'
grani p. 74 e stg. Si rese Jibera la con- trattazione del grano <.ol solo
lisnte del prezzo nel .^60. p. ^5. Suo trat- tano di commercio colf Imperadore
di M^rccco lia pregiudicato alla colnira de'grni Inglesi p. 87. e seg. CtKsa
annualmente producano le Miniere d' America p. i4#. Toscana si rese 1 bera la
ce-ntrattazione del grano nel -767. p. 117. Sin tanto che il prezzo comune non
oltrepassi In- 1 \ il sacco p. . -j'. Trasporto . Le spese del trasporto irope-
discono die le merci voluminose , co- me il grano si commercino al di l d'una
cena distanza p 119. Trattati. Nessun trattato vi che impe- disca nello Stato i Milano di
stabilir U libert del commercio de' grani p. 107. Tratte de grani . Nel sistema
attuale ogui concessione un rischio p.
i2D. Tributo . Esenzione del tributo , mezzo da promuovere 1' agricoltura , e
la po- polazione p. 12. e i3. Quai siano le massime per ben distribuirlo p. i3.
e e seg. Quali efletti produca nel com- mercio p. a6. U Ufficiali dell' Annona
non dovrebbero avere discapito nel nuovo piano p. i/^t. Vincoli insteriliscono
, e conducono alla carestia p. 3 5. Loro effetto si di alzare il prezzo p. 'j. e seg., e 123. e
seg. Sono la scuola sofstica dell' Economia pubblica pag- 37. Come siati nati
ne' passati tempi pag. 35. Effetti che producono di procurar la carestia pag
52. e seg p. 108. e seg. pag. pag 28. e seg. psg. i36. fino . 11 Milanese ne
manca per il suo *y2 consumo , e lo ricve dagli esteri p. ii6. Universit delle
Aiti e Mestieri pregiudi- cano all' abbondar za p. 24 Uova capo di commercio
utile del Mi- lanese diminuito daccL se a
proi- bita 1' esportazione , e se n' e accre- sciuto contemporaneamente
il prezzo interno p. 12;. Fine d&W Ti" J University of Toronto Library DO NOT REMOVE THE
CARD FROM THIS POCKET Acme Library Card Pocket Under Pat. "Ref. Index File" Made by LIBRARY BUREAU. Sua
Eccellenza il conte Pietro Verri Visconti di Saliceto. Keywords: diritto
bellico. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Saliceto – “Grice e Visconti: il piacere” per il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #visconti.
Saliceto.
Luigi Speranza -- Grice e Sallustio: la ragione conversazionale EMPEDOCLEA
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He assembles a collection of
materials by and about Empedocle di Girgenti. Empedoclea.
Luigi Speranza -- Grice e Sallustio: la ragione conversazionale a Roma –
la storia della filosofia romana come fonte d’essempli morali – chè cosa fa un
saggio ‘romano’? -- filosofia italiana – Luigi Speranza. (Amiterno). Filosofo italiano. Amiterno, L’Aquila,
Abruzzo. Storico. Può anche darsi che adere la setta dei crotonesi. Tribuno
della plebe e senatore, espulso dal senato per motivi morali, e probabilmente
perchè fautore di GIULIO Cesare, che lo nomina questore, pretore nella guerra
africana e pro-console della Numidia. Dopo la morte di GIULIO Cesare abbandona
la vita pubblica per dedicarsi completamente agli studi -- La congiura di
Catilina, La guerra giugurtina, Le Storie. A lui venne rivolta l’accusa di
essere stato complice dei sacrilegi di NIGIDIO (si veda) Figulo. Certamente lui
spesso insiste nei suoi saggi sulla opposizione di anima e corpo. Parla di un
nume divino che veglia sulla condotta dei mortali e accenna a sanzioni
nell’oltretomba. È quindi probabile che allo storico debba essere
identificato quel Sallustio che scrive un "Empedoclea" per esporre le
dottrine del filosofo da Girgenti, tutte colorate di Pitagorismo. Cicero's letter to his brother
Quintus is best known for containing the sole explicit contemporary reference
to Lucretius's “De rerum natura.” But it is also notable as the source of the
only extant reference of any kind to another presumably philosophical didactic
poem, Sallustius's “Empedoclea” (Q. fr. 2.10(9).3= SB 14): “Lucretii poemata,
ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis. sed, cum
ueneris. uirum te putabo, si Sallusti “Empedoclea” legeris; hominem non
putabo.” “Lucretius' poems are just as you write: they show many flashes of
inspiration, but many of skill too. But more of that when you come. I shall
think you a man, if you read Sallustius' Empedoclea; I shan't think you a human
being.” In addition to the vexed but separate question as to whether the
Sallustius in question is to be identified with the historian, with Cicero's
friend Cn. Sallustius, or some other figure bearing that nomen, the meaning of
the barbed comment on his poem has been almost as fiercely debated.The
antithesis between “uir” and “homo” has been thought problematic, a difficulty
formulated with characteristic brusqueness by Housman. “If one is not a human
being, one cannot be a stout-hearted man nor a man of any sort; one is either
above or below humanity, a god or a beast; and “uir” is not Latin for a
stout-hearted god nor for a stout-hearted beast.” Housman's proposal of a
lacuna following “uirum te putabo”, where a different protasis corresponding to
that apodosis has dropped out, earned a place in Bailey's apparatus and a
'fort. rect.' in Watt's, but has otherwise found little favour. Most critics
have been more or less satisfied that the strict illogicality should not stand
in the way of the joke, though several share Housman's related feeling that
“homo” would stand in more natural antithesis with god or beast. It is worth
stressing that Housman is, on the question of Latinity at least, quite right
that one cannot be a “uir” if one is not a “homo” (though the reverse is of
course quite possible). Even the vast resources provided by concordances, the
TLL, and now searchable electronic databases such as the PHI CD-Rom or the
Bibliotheca Teubneriana Latina merely corroborate the accuracy of his Latinity.
The juxtaposition of “uir” and “homo” is indeed a common one, and particularly
so in Cicero. In many instances, the same person is (usually) praised using
both nouns, each qualified with an adjective which in some cases may partially
reflect the distinction between qualities appropriate to a Roman male and the
more humane attributes of a Mensch (e.g. hominem honestissimum, uirum
fortissimum, Font. 41; forti uiro et sapienti homini, Leg. Man.), but in others
(the majority) the contrast is often so hard to draw that the words feel almost
like synonymous doublets (e.g. consulari homini clarissimo uiro, Verr.). When
the two words are set in antithesis, it is always clear, and indeed the point
of the antithesis or a fortiori argument generally depends on the fact, that to
be a “homo” is a lesser attainment than to be a “uir.” Thus the gold ring which
Verres gave to a scriba proved not that the latter was a brave man, but merely
that he was a rich fellow (“neque ... uirum fortem, sed hominem locupletem esse
declarat, Verr.), the diminution of a proconsul's province should be guarded
against not only in the case of a man of the highest standing, but even in that
of a middling fellow (“neque solum summo in uiro, sed etiam mediocri in homine
<ne> accidat prouidendum, Prov. cons.), and Lucius' and Patron's proto-Hobbesian
philosophy describes not a good man but a cunning fellow (“se de callido homine
loqui, non de bono uiro -- Att. 7.2.4 = SB 125). Taking the opposite
trajectory, from mere “homo” up to “uir,” Cicero often self-consciously
corrects himself, promoting his subject from the former to the latter category,
as with Cato at Brut. 293 (magnum mercule hominem uel potius summum et
singularem uirum) or Epicurus at Tusc.
(homo minime malus uel potius uir opti-mus). From this it is at least
implicit that to be a homo is a necessary but not sufficient condition for
being a uir, but that uiri are a subset of homines is absolutely clear when
Cicero writes of injustices which would seem intolerable not only to a good man
but more broadly to a free human being (ut non modo uiro bono, uerum omnino
homini lib-ero ideatur non fuisse toleranda. Inv. rhet. 2.84).? Perhaps the
closest Cicero comes to a clear distinction is in his consolatio to the exiled
Sittius, where he urges him to remember that he is both things (et hominem te
et uirum esse, Fam. 5.17.3 = SB 23), a homo because he is subject to the
vicissitudes of all humanity, a uir because he ought to bear those vicissitudes
with fortitude. Here there is no fusion or explicit overlapping of the
categories; each has its specific and discrete associations. However, neither
is there anything here to contradict the evidence of all the other instances or
to suggest that even Sittius could be a uir but not a homo. Even with the
benefit of searchable databases, it can be seen that Housman's judgement on
Latinity and logic is sound. It may be, however, that the confounding of logic
(and perhaps of Latinity) is the essence of humour, and so we must ask
ourselves whether Cicero's transmitted judgement on Sallustius, since it isn't
quite Latin, is actually funny. Even those who defend the paradosis seem
vaguely apologetic about the joke which they are determined to preserve.
Shackleton Bailey, in refuting Housman, writes that 'Cicero says these two
things in the same breath ... because he thought it mildly amusing', and in his
shorter commentary remarks, almost shame-facedly, that 'the juxtaposition is
mildly funny' Of course, whether the reason lies in cultural contingency or in
transhistorical unfunniness, no one who has read any quantity of Ciceronian
'jokes' would consider a failure to provoke uproarious laughter as grounds for
emendation. Yet the problem with this joke is not so much that it is at best
'mildly amusing', but rather that it seems oddly arbitrary and lacking the pointedness
or relevance to its context which we might expect in even the feeblest
witticism. '° It is certainly possible for humour to be generated from the
antithesis of uir and homo. At Terence, Hecyra 523-4, Phidippus calls to his
wife Myrrina, and when she responds with an interrogative mihine, mi uir? ('Is
it me you're talking to, my husband?'), he replies in turn uir ego tuos sim? tu
uirum me aut hominem deputas adeo esse? ('Is it your husband I am? Do you
consider me to be a husband/man or even a human being?') This is, if anything,
an even clearer proof that uiri are a subset of homines, as the adeo shows, and
it is on this normative relationship of the two words (in contrast to the
anomalous one at Q. fr. 2.10(9).3) that the joke partly depends: if Myrrina
does not consider Phidippus a homo, then a fortiori she cannot consider him a
uir. However, the reference to this standard notion that one must be a homo to
be a uir would have no particular point were it not wittily combined with the
context-specific wordplay on uir as 'husband' (as Myrrina uses it) and 'man'
('Man? I'm not even treated like a human being!')"' To turn from the
humorous potential of the uir/homo antithesis to Cicero's comedic practice
elsewhere in his correspondence, it can be seen that he does make literary
jokes which, however amusing or otherwise we might subjectively find them, are
unquestionably pointed and tailored to the specifics of their context and
subject-matter. One example is his witty and context-specific use of the poeta
auctor conceit to depict Tigellius as being actually 'sold at auction'
(addictum) by Calvus' mimetic lampoon, in the act of doing which he picks up
and even elaborates Calvus' own conceit 'of writing a poem in the form of an
auction announcement ... in which he himself took the part of the auctioneer
and offered Tigellius for sale'. 2 Equally witty and pointed, and with an added
touch of doctrina, is his play on the double status of Quintus' Erigona as
bothtragedy and woman, mock-lamenting that she was lost on the road through
Gaul despite owning a fine dog, a learned allusion to the faithful Mera who led
her mistress to Icarius' body, as well as a jibe at the ineffectual Oppius. 3
The letters are also full of witty and pointed philosophical jokes and allusions,
as Miriam Griffin has shown. 14 To cite but one example, Griffin argues that
Cicero's ironic concern to come to see Trebatius 'before [he] flows completely
from [his] mind' (antequam plane ex animo tuo effluo) subtly alludes to the
Epicurean doctrine of sense-perception by means of eisha. 5 In our passage, on
the other hand, we might wonder why the (dubious) antithesis of “uir” and
“homo” even arises when discussing Sallustius' “Empedoclea.” There is no
obvious reason why such a poem, whether as a poem or as an instantiation of
Empedoclean philosophy, would suggest a play on the antithesis of 'man' and
"human', let alone one which is unparalleled in extant Latin, where, as
has been shown, one cannot be a “uir” without also being a “homo.” If an
emendation could provide an antithesis which preserved and perhaps even
enhanced the humour, but removed Housman's illogicality, and had a clear
connection with the topic under discussion, it would have a good deal to
recommend it. We have already noted how one of the more obvious antitheses of
homo is 'god'. Among the most famous, or notorious, aspects of Empedocles's doctrine
was his claim to be a god and no longer a mortal. The claim is most clearly
preserved in the proem to the Katharmoi (DK B112.4-6): ¿ya et juv BEos
duBpoTos, ouKéTI OUnTóS MOREQUAL MET TOOI TETILÉVOS, GTEP ¿OLKA, TOIVIOIS TE
TEPIOTETTOS OTÉPEGiV TE DaREiOIS. “I come to you as an immortal god, no longer
a mortal, honoured among all, as is fitting, garlanded with fillets and festive
garlands”. That this doctrine was familiar in Rome is clear from Horace's explicit
comment and partial translation at the climax of the “Ars Poetica” -- while
Empedocles wanted to be considered an immortal god', deus immortalis haberi dum
cupit Empedocles) and Lucretius's all-but-explicit reference to the poems of
Empedocles "divine breast' (diuini pectoris) so that he 'seemed created
from scarcely human stock' (“uix humana ideatur stirpe creates”). Noting this
connection, Murley suggests 'a jest at the expense of Empedocles as well as
Sallust and unpacks the implications of “homo” as ""But if, in the
few days before your return, you shall have read Sallust's “Empedoclea”, I
shall regard you as a hero – but, like Empedocles, *not* a human being.” Murley's
interpretation is attractive, but the secondary, implicit antithesis between
'human' and 'god' sits uneasily with the explicit and problematic antithesis
between 'human' and 'man'. The most economical solution would be to remove the
latter antithesis and the make the former explicit. One solution which would
satisfy all the requirements which we have set so far would be to emend the
paradosis irum to a word meaning god, most probably either “deum” or “dium.”
The juxtaposition of forms of “deus” and “homo” is extremely common in Latin,
and occurs eighteen times in Cicero, albeit more frequently in the plural. Of
course, for a double entendre to work, there must be a primary as well as a
secondary meaning. The playful allusion to Empedocleian doctrine would be clear.
But there must still be an independently comprehensible way in which Marcus can
call Quintus a 'god', even if the allusion grants him a degree of licence to
stretch common usage a little. Curiously, “dius” does not seem to have been
used metaphorically of mortals with superhuman qualities, despite, or perhaps
because of, its specific connotations of a deified mortal or an intermediate
being between god and mortal, and of course its later use as the designation
par excellence of apotheosised principes. There is far more evidence for the
use of “deus” in this way, 'de homine ... virtute aliqua praedito', including
numerous examples in Cicero's speeches, letters, rhetorical and philosophical
works. Of particular relevance to our passage is the assertion by Cicero's
Crassus that the godlike orator is one who does not merely use correct Latin
but speaks ornate (De or.). “Si est aliter, irrident, neque eum oratorem
tantummodo sed hominem non putant; quem deum, ut ita dicam, inter homines
putant?” -- But if it is otherwise [than that he speaks correct Latin], they
laugh at him and think him not only not an orator but not even a human being;
who do they think, so to speak, a god among mortals?') Even with the qualifying
ut ita dicam, it is clear from this passage (and others where there is no such
qualification) that Cicero could use deus to designate a human who excels in
some field or other, and did so on occasion in antithesis with homo.? As
suggested above, the allusion to Empedocles (and to Sallustius) and the
humorous context would help to justify a slight extension of the usage whereby
the act of reading a poem ironically reflects superhuman qualities, whether of
endurance or discernment. It might even be possible that a rare use of “diuus”
in this metaphorical sense could be justified by a verbal echo of S., but
Ciceronian and other Republican usage would tend to point towards “deus”. As
for how such a corruption could have come about, a misreading of “dium” as “uirum”
might seem easier than that of “deum”, but forms of “d” and “u” are not
normally alike, and the cause here is far more likely to be psychological. The
form could have been assimilated to the nearby “hominem”, or we might see the
metamorphosis of god into man as an instance of polar error, where a scribe
writes the opposite of the word he is copying. This type of corruption is not
uncommon in Ciceronian manuscripts. Cicero's plea at Rosc. Am. 12 that the
presiding praetor Fannius 'avenge the misdeeds with all zeal' (ut quam acerrime
maleficia indecetis) became, in Naples IV B 17, a paradoxical desire that no
good deed should go unpunished., as the scribe wrote beneficia for maleficia.
Likewise at Mur. 73, according to the copyist of Venice, Marc. lat., the public
attributes Sulpicius laying of charges against Murena for having escorts and
giving voters meals and spectacles, not to his excessive zeal (in tuam nimiam
diligentiam) but to his lack thereof (neglegentiam). That a copyist could
likewise write “uirum” for “deum” is entirely feasible. Alternatively, with
either “deus” or “dius”, a devout Christian scribe might - consciously or unconsciously
- have baulked at Cicero's apotheosis of his brother in such a context and -
again consciously or unconsciously - emended the offence away. There remains
the question of whether Cicero is alluding to Empedocles alone or to Sallustius
poetic depiction of him. As noted above, Murley sees the joke as being 'at the
expense of Empedocles as well as Sallust'. It is certainly possible that the
play on god and man is an allusion directly back to the “Katharmoi”. Sedley has
convincingly argued that the proem of Lucretius's De rerum natura not only
imitates Empedocles's proem but is meant to be recognised as so doing, and thus
assumes familiarity with the latter among late Republican litterati. Even
Sedley, however (incidentally using the letter as his principal evidence),
allows that such familiarity could come either through direct acquaintance or
through Latin translations and imitations’s -- including S.. None of Cicero's
allusions to Empedocles in the philosophical works are noticeably oblique or
seem to assume much prior knowledge, though the reference of his Laelius to “a
certain learned man of Agrigentum” (“Agrigentinum doctum quendam uirum”) could
conceivably be taken as allusive as well as faux naif. In considering Cicero's
allusive practice in the letters, we might compare the witty allusion to
Quintus's Erigona which cannot possibly have referred directly to the text of a
tragedy which Marcus never had the chance to read, and hence must look to the
original myth (and possibly the wrong myth at that), perhaps as narrated in
Eratosthenes' epyllion. However, in the case of the letter, where we are
dealing not with a lost text but one with which both correspondents have some
familiarity, it is surely more likely that Cicero is alluding not - or not only
- to Empedocles directly, but to S.’s poetic rendering of his doctrines and
perhaps even his poetry. If S.’s “Empedoclea” included a Latin version of DK B1
12.4-6, it is not improbable that it might have occurred as early in the poem
as those lines are in the “Katharmoi,” and hence be recognizable even by those
who had not read it in its entirety. It is also quite likely that “evntos”
would have been translated as “homo” (though “mortalis” is an obvious
alternative possibility) and theós by either deus or dius. In favour of diuus,
we might note its strict distinction from deus as referring to a minor deity
(equivalent to the Soiucv which Empedocles elsewhere claimed to be) or even
more specifically to a deified mortal. On the other hand, the phrase deus immortalis
is not only an obvious way to render “0eos außpotos,” and far easier to fit
into hexameters than diuus immortalis, with its initial cretic in the
nominative and tendency to elision or hiatus in other cases, but nicely
corresponds to the existing common Latin unctura, “di immortalis”, of which
incidentally Cicero is particularly fond. “deus immortalis” is also the phrase
used at Ars P. to render “0eos äußpotos” and it is tempting to speculate that
Horace too is alluding not only to Empedocles, but to S.’s Empedocleian poem.
This, of course, can only be speculation in the absence of any other trace of
the poem. But it is far from improbable. Corte arguez for the influence of S.’s
“Empedoclea” on the speech of Pythagoras in Metamorphoses. If OVIDIO could
integrate such allusions into his depiction of a different philosopher, albeit
one with some doctrines in common, it is hardly less likely that ORAZIO could
allude to S. when referring to Empedocles himself. If Horace is indeed alluding
to S., this might constitute one further argument in favour of Cicero's writing
deum when also alluding to the Empedoclea. However, the argument does not stand
or fall on the issue of Horatian allusion. To sum up, one may suggest that
Cicero wrote to Quintus deum (or possibly diuum) te putabo, si Sallusti
Empedoclea legeris; hominem non putabo. In doing so, he would certainly have
alluded – via implicature -- wittily to Empedocles's claim to be a god and no
longer a mortal at DK B112.4-6, and probably to S.'s own Latin rendering of
that claim. Emended thus, the antithesis does not require the special pleading
which has been made for uir/ homo and it has specific and pointed relevance to
the poem under discussion. It is a matter of taste, of course, but it might
also be a little more than mildly amusing. The dominant quality of S.'s moral
philosophy as articulated in the preface to the Bellum Catilinae is gloria:
this preoccupies much of S.’s discussion, particularly in the opening two
chapters of the monograph. The text begins with an emphatic statement of the
goal of life, which according to S. is
to avoid passing through life without leaving a record of one's existence:
omnis homines qui sese student praestare ceteris animalibus summa ope niti
decet ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri
oboedientia finxit: "for all men who set themselves to exceed the other
animals, it is right to struggle with the highest effort, lest they pass
through life in silence like beasts, whom nature has made supine and subject to
their appetites. To this end, S. continues, man is comprised of a dual nature,
body (held in common with the beasts) and mind (in common with the gods); we
should make use of the resources of the mind (animus) to seek gloria.
For", S. continues "the gloria of riches and beauty is variable and
fragile; virtus is held to be splendid and lasting", nam divitiarum et
formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeterna habetur. The
separation between mind and body, according to S., is not absolute: each
requires the assistance of the other, because the mind is required to plan
actions, and the body to carry them out. Gaio Sallustio Crispo, Empedoclea. Sallustio.
Luigi Speranza --Grice e Salustio: la ragione conversazionale del divino
e dei divini – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The author, according to some, of
Salutio’s ‘On the gods and the world order,’ dedicated to Giuliano. Accademia. Flavio Salustio.
Luigi Speranza -- Grice e Salustio: la ragione conversazionale del pitagorico
che corresponde con Giuliano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Ricerca (latino:
Saturninus Secundus Salustius o Salutius. Politico e filosofo romano di età
imperiale appartenente ai neoplatonici. Epigrafe in latino trovata ad
Amorgos e riproducente una lettera (CIL III, 459) dell'imperatore romano
Giuliano a S. (Museo epigrafico di Atene) Amico dell'imperatore romano
Giuliano, ne condivise il programma di restaurazione della religione romana, ma
fu così equilibrato che fu prefetto del pretoriod'Oriente sotto quattro
imperatori. Di una famiglia della Gallia, forse dell'Aquitania, è
probabilmente un homo novus, in quanto i suoi due primi incarichi furono non
senatoriali; S. è infatti, probabilmente sotto l'imperatore Costante, praeses
provinciae Aquitanicae, magister memoriae, comes ordinis primi, proconsole
d'Africa e comes ordinis primi intra consistorium et quaestor, come attesta
l'iscrizione posta sotta la sua statua d'oro eretta nel Foro di Traiano. È inviato
dall'imperatore Costanzo II, fratello del defunto Costante, al cugino e cesare
d'Occidente Giuliano, come consigliere, quando era ormai già avanti con gli
anni. Costanzo si insospettì dei successi di Giuliano e, attribuendoli a S., lo
richiama, separandolo dal cesare di cui era divenuto amico. Giuliano
venne acclamato imperatore e l'anno successivo Costanzo II morì. Giuliano,
giunto a Costantinopoli, nominò S. prefetto del pretoriod'Oriente e presidente
del tribunale che a Calcedonia processò i funzionari di Costanzo. Lascia
Costantinopoli per raggiungere Giuliano ad Antiochia, da dove l'imperatore
aveva intenzione di far partire la sua campagna sasanide. Qui Salustio
sconsigliò a Giuliano di perseguitare i cristiani: per dargli un esempio,
torturò un certo Teodoro per tutto un giorno, dimostrandogli che ne avrebbe
fatto un martire. Da rifugio al vescovo di Aretusa, Marco, che aveva suscitato
la rabbia di Giuliano e, pare, torturò dei pagani per vedere se la loro
resistenza era comparabile a quella dei cristiani. Fu poi incaricato di
preparare le forniture per l'esercito e la flotta; quando un ufficiale non
riuscì a portare gli approvvigionamenti dovuti a Circesium lo fece giustiziare.
Giuliano morì durante la campagna, in uno scontro con i Sasanidi (363), durante
il quale anche Salustio rischiò la vita. In seguito fu scelto dai generali
romani come successore del suo amico, ma declinò l'offerta, adducendo la
cattiva salute e l'età avanzata, e al suo posto venne eletto il cristiano
Gioviano. Sotto Gioviano rimase in carica come prefetto: il nuovo imperatore lo
inviò a trattare con i Sasanidi. Dopo la morte di Gioviano sostenne
l'elezione di Valentiniano I. Quando Valentiniano cadde ammalato, S. nega che
la malattia fosse stata provocata da un maleficio preparato dai sostenitori di
Giuliano. Venne deposto dall'imperatore, che invitò chiunque a presentargli
accuse contro Salustio, ma fu poi rimesso al suo posto dopo poco tempo.
Continua al suo posto sotto l'imperatore Valente, che il fratello Valentiniano
associò all'impero; ha Callisto come assessor (assistente), e Eanzio. Venne
sostituito da Nebridio, principalmente a causa dell'azione del patricius e
suocero dell'imperatore Petronio, ma quando, sempre quell'anno, Nebridio venne
catturato dall'usurpatore Procopio, S. venne re-integrato. Venne
definitivamente congedato comunque a causa degli intrighi di Clearco. Riceve il
titolo di patricius dopo il congedo. Giuliano e amico di S., cui dedica la
Consolazione a sé stesso, scritta dopo la forzata separazione in Gallia da S.,
e il suo inno al Re Helios. S. legge e approva anche un'altra opera
dell'imperatore, I Cesari. Libanio lo loda come funzionario
incorruttibile, Imerio gli indirizza un'orazione in cui lo definiva vero
reggitore dello stato, mentre persino i galilei ne lodavano l'equilibrio. S. è
uno studioso di letteratura e FILOSOFIA, che addirittura trascura talvolta i
propri uffici per coltivare i propri studi. A S. è attribuita il saggio “Περὶ
θεῶν καὶ κόσμου”, una sorta di manuale di religione romana voluta dal Giuliano.
La maggior parte delle idee esposte nel saggio non sono originali ma sono
derivate da altri filosofi dell’accademia, come pure dalle orazioni di
Giuliano, anche se S. sembra avere meno dimestichezza con Giamblico,
considerando la sua demonologia meno sviluppata. In alcuni punti, tuttavia,
l'autore sostiene alcune tesi inconsuete. Per esempio riguardo all'origine del
male, S. afferma che nulla è male per sua natura, ma diviene male per le azioni
degl’ uomini, o meglio, di alcuni uomini. Inoltre, il male non è commesso dagl’uomini
per sé, ma perché si presenta falsamente sotto l'apparenza di un BENE – cf. H.
P. GRICE, INCONTINENZA --, come ha già esposto in certa misura Socrate. Il male
– ill-will, H. P. GRICE -- nasce sempre e solo a causa di una falsa valutazione
del bene, in quanto, alla fine, è mancanza di esso. Ma come si spiega il
male nel mondo se il divino e buono e compi ogni cosa? In primo luogo bisogna
precisare che, se il divino e buono e compi ogni cosa, il male non ha una
esistenza effettiva ma nasce per assenza di bene, come l'ombra non ha esistenza
ma ha origine dall'assenza di luce. -- S. Gli dei e il mondo. Il suo nome è
riportato come Saturnino Secondo nelle iscrizioni, Secondus Salutius in Ammiano
Marcellino, Secondo in Libanio (Lettere), Filostorgio e Sozomeno, e infine
Salutius, Salustius o Sallustius altrove. Sivan, Hagith, Ausonius of Bordeaux:
Genesis of a Gallic Aristocracy, Routledge, Costanzo dubita della lealtà di
Giuliano, in quanto ne uccide il padre Giulio Costanzo e il fratellastro
Costanzo Gallo. Ammiano Marcellino. Lungo la strada, ad Ancira (moderna Ankara)
fa incidere l'iscrizione CIL. Socrate Scolastico; Sozomeno, Ammiano Marcellino,
che però lo chiama semplicemente "prefetto". Socrate Scolastico. Passio
SS. Bonosii et Maximiliani, Libanio, Orazioni Ammiano Marcellino Ammiano
Marcellino. Zosimo. Ammiano Marcellino; Zosimo riporta anche l'offerta della
porpora al figlio di S., respinta sulla base della sua giovane età. Libanio,
Orazioni, Imerio, Orazioni, Gregorio Nazianzeno, Orazioni, Azize, The
Phoenician Solar Theology, Smith, Rowland, Julian's Gods: Religion and
Philosophy in the Thought and Action of Julian the Apostate, Routledge, Ammiano
Marcellino, Res gestae Filostorgio, Storia ecclesiastica Libanio, Lettere e
Orazioni Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica Sozomeno, Storia
ecclesiastica Zosimo, Storia nuova Fonti secondarie modifica Jones, Arnold Hugh
Martin, John Robert Martindale, John Morris, The Prosopography of the Later
Roman Empire, Cambridge University Press, Edizioni delle sue opere; Salustio,
Sugli dèi e il mondo, cur. Giuseppe, Adelphi, Salustio, Gli Dei e il Mondo, cur.
Vacanti, Il Leone Verde, S. neoplatonico, su Treccani, Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Calogero, S. neoplatonico, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Filosofia
Arinteo generale romano Nebridio generale romano Eusebio (praepositus sacri
cubiculi) alto funzionario dell'Impero roman. Saturnino Secondo Salustio.
Saluzio. Secondo Sallustio. Salustio. Keywords: il divino, i divini, l’ordine
del mondo. Salustio.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Salutati:
la ragione conversazionale d’Ercole al bivio – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Stignano).
Filosofo italiano. Stignano, Reggio Calabria, Calabria. Vedo che ignori quanto
sia dolce l'amor di patria. Se ciò fosse utile alla difesa e all'ampliamento
della patria, non ti sembrerebbe un crimine penoso, nè un delitto scellerato,
il fracassare con la scure il capo del proprio padre, o ammazzare i fratelli, o
cavare con la spada dal grembo della moglie il figlio prematuro. Ad Andrea di
Conte. Cancelliere di Firenze, figura culturale di riferimento dell'umanesimo a
Firenze, in qualità di discepolo del BOCCACCIO e precettore di BRACCIOLINI e BRUNI. Considerato uno dei più
importanti uomini di governo, S. come cancelliere della repubblica di Firenze,
svolge un importantissimo ruolo diplomatico nel frenare le ambizioni del duca
di Milano VISCONTI, intenzionato a creare uno stato comprendente l'Italia
centro-settentrionale. Nel contesto di questa lotta elabora la sua dottrina
della “libertas fiorentina”. Oltre all'impegno politico, svolge un importante
ruolo nella diffusione dell'umanesimo petrarchesco (PETRARCA – si veda) e
boccacciano, divenendone l'esponente più importante e il praeceptor della prima
generazione degl’umanisti. Il suo lascito più importante presso i posteri è la
codificazione civile dell'umanesimo, cioè l'uso dello spirito e dei valori
dell'antichità classica all'interno dell'agone politico internazionale. Grazie
a S. -- autore tra l'altro di un vastissimo epistolario e di trattati politici,
filosofici e letterari -- difatti, il mito della florentina libertas, cioè di
quel complesso di valori ispirati alla libertà promosso dall'ordinamento
politico fiorentino, si rafforza enormemente sotto il suo cancellierato, ed e utilizzato
quale strumento diplomatico per accrescere il prestigio di Firenze presso gl’altri
stati d’Italia. Costretto, a pochi mesi dalla sua nascita, ad abbandonare
il luogo natìo per raggiungere il padre Piero (detto dal Villani di buoni
costumi e di prudenzia laudabile) a Bologna, ove il genitore serve il signore
della città Pepoli, che a sua volta garantiva protezione alla famiglia. Nella
città felsinea compe per volontà paterna -- ma più probabilmente di Pepoli che,
morto Piero, prende sotto la sua protezione la famiglia e il giovane Coluccio
in particolare --, studi, benché fosse maggiormente interessato alle discipline
letterarie, e segue le lezioni di logica e di grammatica di Moglio. Lascia
Bologna a causa anche della caduta di Pepoli e ritorna a Stignano, dove un
rogito testimonia la sua presenza. Gl’anni successivi all'allontanamento da
Bologna, gli videro esercitare il
mestiere di notaio in vari centri toscani -- specialmente in Valdinievole – coltivando
lo studio dei classici, come dimostra la lettera a Gianfigliazzi, colto
politico fiorentino col quale discute su Valerio Massimo e altri autori
antichi. Nel frattempo, la sua carriera amministrativa lo spinse ad
intraprendere anche la carriera politica: cancelliere del Comune di Todi prima,
della Repubblica di Lucca poi, ed infine, dopo essere giunto a Firenze ed
avervi esercitato per breve periodo l'incarico di scriba omnium scrutinorum, Cancelliere
di quella città, tenne, pertanto, nelle sue mani la carica più importante della
diplomazia della repubblica fiorentina, divenendo un personaggio di spicco
della politica italiana. Costantemente rieletto e confermato con le stesse
ingerenze, lo stesso stipendio e i soliti privilegi, lascia nell'ufficio un
numero grande di minutari e registri, di lettere e istruzioni, per lo più di
sua mano, e solo in parte de' suoi coadiutori, che non sembrano molti. Da
questi libri e da altri della cancelleria, apparisce com'egli fosse
costantemente in palazzo, presente a innumerevoli atti del comune, dei consigli,
degli uffici più svariati. La frattura in seno alla chiesa cattolica spinse Urbano
VI a firmare la pace coi fiorentini. Le relazioni tra santa sede all'epoca ad
Avignone e la repubblica fiorentina degenerarono rapidamente a causa della
volontà di Gregorio XI di ritornare a Roma e ripristinarvi l'autorità della chiesa.
La paura che si formasse, nel centro Italia, un forte stato ecclesiastico
allarma sia Firenze (intimorita di essere inglobata nel nuovo stato) che le
città degli Stati Pontifici, che a causa della lontananza del Papato avevano
acquisito una grande forza ed indipendenza. La guerra finì frettolosamente a
causa della scissione interna alla Chiesa stessa tra cardinali, fatto che porta
alla nascita del gravoso Scisma d'Occidente. Urbano VI assolve Firenze dalla
scomunica per avere alleati contro Clemente VII. Tra gli scomunicati, c'e
anche lui, in quanto figura chiave della politica dell'epoca. Coluccium Pieri
de Florentia, excellentissimum cancellarium comuni Florentie, riceve
l'assoluzione da parte del Papa tramite i legati S. Pagani, vescovo di
Volterra, e F. d'Orvieto, frate appartenente all'ordine degli Eremitani. Firenze,
mentre stava stipulando la pace con Urbano VI, fu sconvolta dalla rivolta del
popolo minuto che, già soggiogato e perseguitato dalla prepotenza
politico-economica del popolo grasso, fu sobillato dagli operai salariati (i
ciompi) a rivoltarsi. Si ebbero i primi scontri e i ciompi, risultati
vincitori, imposero Lando quale gonfaloniere di Giustizia e riformatore della
Signoria in senso democratico. L'animosità degli sconfitti si fece sentire
molto presto: dopo aver chiuso gli opifici riducendo alla fame gli operai, la
grande borghesia e l'aristocrazia riuscirono a trarre dalla loro parte Lando
che, dopo aver disperso i capi dei ciompi, si dimise dalla carica di
gonfaloniere e ridando il potere ai magnati, tra i quali primeggiarono gli
Albizi che instaureranno un regime oligarchico durato fino alla venuta di
Cosimo de' Medici. Dall'epistolario di Coluccio, sappiamo che egli informò D. Bandini
di Arezzo dei tumulti avvenuti in città e stimando gli uomini assurti al potere
quali degni e pieni di considerazione. L'atteggiamento emerso in
quest'epistola, datata il mese d'agosto, si rivelerà contrario a quanto
Coluccio in realtà pensasse del nuovo governo. Cirillo ci descrive lo stato
d'animo del Cancelliere e la sua scelta di rimanere in tale carica nonostante
l'avversione per i Ciompi. Dalle lettere di S. si evince come il cancelliere
non fosse soddisfatto del governo instaurato dal Popolo Minuto, ed è probabile
che il cancelliere conoscesse anche i “piani politici” di chi voleva ritornare
al potere. Questo ci permette di ipotizzare che, la decisione di ritornare al
proprio ufficio si legava sia alle necessità familiari dell'umanista, sia
all'amore che egli nutriva per il proprio lavoro ma anche, alla conoscenza
dell'imminente ritorno del Popolo Grasso al potere, unito alla convinzione
della mancanza di conoscenze politiche adeguate per governare una
città come Firenze da parte dei Ciompi stessi (Cirillo) Ha un ruolo
decisamente più attivo ed importante nell'animare Firenze perché si difendesse
dalle ambizioni di conquista di Visconti, duca di Milano, desideroso di
sottomettere l'intera Penisola al suo controllo schiacciando le resistenze
delle Signorie dell'Italia Settentrionale. Visconti sposta infatti le sue
attenzioni sulla Repubblica di Firenze, e S. giocò un ruolo importante in
questa situazione spronando il popolo fiorentino a difendere la sua
tradizionale libertà (la florentina libertas) e rispondendo egli stesso dalle
accuse dei nemici attraverso l'opera Invectiva in Antonium Loscum. La
situazione per i fiorentini, all'inizio del conflitto, era alquanto drammatica,
in quanto si ritrovarono praticamente circondati dai domini di Visconti e solo
l'ausilio di bande mercenarie, guidate da Acuto, riuscirono a frenare i piani
di dominio del Visconti. La guerra, che riprese dopo una momentanea tregua, vide
la formazione di una vasta coalizione antiviscontea di cui fecero parte tutti
gli stati italiani del centro-nord, tenuti assieme dalla politica estera
fiorentina e da quella veneziana. Nonostante gli alleati fossero stati
gravemente surclassati dalle forze milanesi, i fiorentini riuscirono a salvare
la loro indipendenza resistendo a dodici anni di guerra, cioè fino alla morte
improvvisa di Visconti a causa della peste, lasciando Firenze in una posizione
di potenza nell'Italia centro-settentrionale. S. trascorse gli ultimi
anni della sua vita terrena celebrato sia per la sua posizione di guida
dell'umanesimo, sia per l'abilità politica dimostrata contro il Visconti, ma
anche in grandi amarezze a causa dei lutti (morte della seconda moglie e la
morte di alcuni dei suoi figli in occasione della pestilenza). Quando poi morì,
la Signoria, il giorno successive, gli fece celebrare funerali solenni in Santa
Maria del Fiore, ponendo sulla sua bara una ghirlanda d'alloro per le sue virtù
poetiche. I suoi discepoli Bruni suo successore, Bracciolini, futuro
cancelliere e Vergerio lo piansero amaramente, ricordandolo come un padre e
come il più grande decoro di Firenze. Coluccio umanista La guida dell'umanesimo
italiano e per trent'anni, dopo la morte del Petrarca e del Boccaccio, il più
autorevole umanista italiano, unico erede di quei grandi (Dionisotti)
Miniatura che ritrae proveniente da un codice della Biblioteca Laurenziana a
Firenze. Alla morte del Boccaccio, sia per ragioni anagrafiche (era di una
generazione sita tra quella di Petrarca e Boccaccio e la successiva degli
umanisti), sia per la propria grandezza letteraria e filosofica, fu il
principale esponente dell'umanesimo italiano, come ricorda infatti Dionisotti e
altri studiosi, quel «trait d'union tra la generazione che aveva vissuto in
prima linea il rinnovamento petrarchesco e quella dei nuovi umanisti già pienamente
quattrocenteschi» Salutati ebbe, sia per il ruolo istituzionale sia per quello
culturale, rapporti anche con i Paesi europei: tenne corrispondenza con un
colto cortigiano di Carlo VI di Francia, Montreuil, e con l'arcivescovo di
Canterbury Arundel, conosciuto mentre il presule inglese si trovava a Firenze. Fecondo
scrittore, apologeta "diplomatico" della classicità contro gli
attacchi degli aristotelici e di alcuni ecclesiastici ostili all'antropologia
umanista, S. alterna il suo magistero culturale con quello politico, difendendo
la libertà repubblicana di Firenze adottando lo stile e il genere degli antichi
trattatisti. Nonostante Lino avesse preso definitivamente l'attività
notarile, come testimonia il suo primo rogito effettuato nella nativa Stignano,
l'amore per la cultura e la letteratura non venne meno. Anzi, a partire dalla
fine degli anni sessanta, S. divenne il segretario di Bruni, amico a sua volta
di Petrarca; inizia, come esposto dalla Senile un rapporto epistolare a
distanza, che permise a S. di avvicinarsi alle proposte umanistiche di Aretino.
Nel periodo che intercorse tra questa prima epistola e la morte del Petrarca, S.
entra sempre più nella mentalità classicista del maestro, grazie anche ai
contatti che egli ha con l'altro grande umanista e allievo del Petrarca stesso,
Boccaccio, quest'ultimo animatore del circolo umanista di Santo Spirito a
Firenze. Seguendo la scia del maestro Boccaccio, sinceramente pianto da S. al
momento del trapasso, il Cancelliere della Repubblica continua il suo magistero
a Santo Spirito, tenendovi lezioni cui partecipavano umanisti non solo
fiorentini -- si ricordano, tra i più importanti, Niccoli, Bruni e Bracciolini
-- ma anche di altre regioni italiane -- quali il vicentino Loschi e Vergerio. Nel
convento degli agostiniani S., aiutato nel suo magistero culturale dal
coltissimo frate Marsili, non si fa soltanto portavoce degli ideali
dell'umanesimo classicista petrarchesco, ma continua a tenere in alta
considerazione ALIGHIERI (si veda), deprecato da una cerchia dei umanisti in
quanto filosofo volgare e pessimo latinista. Oltre al suo compito di formazione
dei umanisti che andranno a diffondere la filosofia presso gli altri centri
italiani, S. ha il merito non solo di affidare le cattedre tradizionali dello studium
fiorentino ad umanisti discepoli di Petrarca, quali Malpaghini, ma soprattutto
quello di far rifiorire in Italia il greco. Grazie all'incontro avvenuto a
Venezia tra i umanisti Rossi e Scarperia e i due colti bizantini Crisolora e Cidone,
inizia, usufruendo dei poteri di Cancelliere, ad intessere rapporti con
Crisolora per invitarlo ufficialmente a Firenze quale docente di greco nello studio.
Questi, giunto nell'Europa Occidentale per conto dell'imperatore Manuele II
Paleologo per cercare alleanze contro i turchi ottomani, cerca di instaurare
rapporti di amicizia con gli stati che visita trasmettendo la conoscenza del
greco ai circoli umanistici, edotti di latino ma non della lingua di Omero. Crisolora
accetta l'offerta di S., rimanendo nella città toscana e lasciando in eredità
ai suoi discepoli e amici fiorentini gl’Erotematà, compendi linguistici di
greco caratterizzati da una sinossi COLLA GRAMMATICA LATINA. L'umanesimo
incontra durante la sua diffusione, il sospetto e l'ostilità di alcuni ambienti
a causa della libertà e responsabilità etica del singolo uomo che S. anda insegnando,
e del suo progetto di conciliare la natura della cultura classica colle
dottrine dei galilei.. I principali antagonisti dell'umanesimo fiorentino, il
camaldolese Giovanni di San Miniato e il domenicano Giovanni Dominici -- quest'ultimo
poi cardinale -- intendevano sostanzialmente mantenere l'istruzione e la morale
rigidamente nelle mani della gerarchia, rifiutando la ventilata autonomia
spirituale dei pagani e riaffermando la loro interpretazione allegorica. Le
humanae litterae – litterae humaniores -- non sono anti-tetiche agli studia
divinitatis (littera divinae), S., davanti a questi attacchi, sostenne la
necessità, anche da parte dei laici, di avere coscienza di ciò che dicono
e professano nella vita attiva, ribadendo il valore positivo di questo modello
di vita e combattendo il vuoto nominalismo tomista che la cultura ecclesiastica
ufficiale difende strenuamente quest'ultimo visto come nocivo perché, avendo
ormai intriso la stessa Bibbia di sillogismi filosofici, allontana dalla verità
gl’uomini. Senza la capacità di intendere in fondo i termini, la lingua, non si
dà conoscenza della scrittura, della parola del divino. Ogni conoscenza seria è
comunicazione. In tal modo, gli studia humanitatis come mezzo per ritrovare
nella lettera l'inseparabile spirto, nel corpo l'anima indisgiungibile, sono
strettamente connessi con gli studia divinitatis. La disputa sulla verità
teologica della poesia, genere privilegiato nella conoscenza del divino, è
quello che gli impegna maggiormente. Seguendo il tracciato delle Genealogie
deorum gentilium del maestro Boccaccio, risponde alle accuse dell'immoralità
della poesia a G. di San Miniato, in una lettera affermando non solo che ogni
verità proviene da Dio stesso, ma anche che Dio ha usufruito della poesia
attraverso i salmisti, Giobbe e Geremia: per cui la poesia è il genere
letterario più vicino a Dio. Tale tesi verrà poi ulteriormente rinforzata
nell'incompiuto De laboribus Herculis, in cui si arriva a sostenere una vera e
propria poesia teologica, per cui anche gl’antichi poeti pagani, con le loro
opere, si avvicinavano al divino. Il poema epico di Petrarca, per la sua
incompletezza e il latino ancora un po' rozzo, suscita delusione nei
simpatizzanti dell'umanesimo. Forma, impiegando gran parte delle sue retribuzioni,
una biblioteca di più di 100 volumi, collezione molto grande per l'epoca e
simbolo del suo fervore culturale. Possedetun manoscritto delle tragedie di
Seneca ricopiato ottimamente di suo pugno con l'aggiunta dell'Ecerinide del pre-umanista
padovano Mussato, ma anche esemplari di autori quali Tibullo e Catullo ed una
rarissima copia delle Ad familiares di CICERONE, coperta dall'amico e
cancelliere milanese Capelli a Vercelli. A questa scoperta in terra di
Lombardia, si aggiunse anche le Epistole ad Atticum, rendendolo il primo dopo
secoli a possedere entrambe le raccolte di lettere di Cicerone. Sabbadini
riporta che, nella sua biblioteca, e il primo a possedere il “De agricultura di
CATONE, il Centimeter di SERVIO, il commento di POMPEO all'Ars maior di DONATO,
le Elegie di Massimiano e le DIFFERENTIAE pseudo-ciceroniane, mentre Tateo
continua elencando i Dialoghi di Gregorio Magno e l'esame dei vari manoscritti
di Cicerone, di Lattanzio, di Agostino, di Seneca, di OVIDIO e di STAZIO in suo
possesso. Nonostante questa passione da bibliofilo, che rese la sua biblioteca
la più significativa dopo quella di Petrarca, non sfoggia mai eccellenti doti
filologiche, al contrario di Petrarca stesso o del suo discepolo Bruni. Cerca,
inoltre, di avere da parte di Lombardo della Seta, fedele discepolo di
Petrarca, una copia dell'Africa perché fosse poi pubblicata. I suoi sforzi e
dei umanisti risultarono sempre più insistenti. Lombardo ha timore a pubblicare
un'opera rimasta in un testo incompiuto ed incerto, rischiando così di oscurare
la gloria di Petrarca. Quando poi giunge a Firenze il sospirato poema epico d’Aretino,
è afflitto dalle sospensioni, dalle lacune e certamente anche dalla pesantezza
d'ala del poema tanto vantato e sognato. La delusione, trasmessa in una lettera
a Brossano, spinselo a non farsi più editore e commentatore dell'opera. Intervenne
anche nel campo della paleografia. Nel vivo studio dei classici, fa
un'introduzione fondamentale: dopo aver adottato, per gran parte della sua
vita, una scrittura cancelleresca e una libraria semi-gotica, legge e trascrive
un codice delle Lettere di PLINIO MINORE contenente nessi e legature che si
erano persi. L’uso di -s diritta in fine di parola, i nessi e le legature ae, ę
e &, di cui si e persa memoria. Con questo esperimento inizia la storia
della scrittura umanistica. L’epistolario di S., documento fondamentale di
questa lunga ed efficace opera di rinnovamento culturale, tratta dei temi più
disparati. Organicamente, la raccolta si divide in due filoni: le lettere
private, indirizzate ad amici e conoscenti, e quelle pubbliche, scritte a nome
della Repubblica di Firenze. Stilisticamente, l'epistolario di S. spicca per
l'uso di uno stile che si allontana da quello delle lettere medioevali, fitte
della retorica della ars dictandi, per lasciare il posto ad una serenità
cordiale e del Portico che si richiama alle Familiares di CICERONE e al
repertorio lessicale degl’altri autori classici, determinando così quello che è
stato definito latino misto. Nella prima categoria, le lettere scritte a nome
dell'umanista S. mettono in mostra le tendenze socio-culturali dell’umanesimo. Da
un lato, la percezione del divario cronologico tra i contemporanei e gl’antichi,
eredità diretta della sensibilità petrarchesca; dall'altro, l'esposizione in
più punti del suo pensiero, dalla rivendicazione del valore della vita attiva
contro i monaci e quegli ecclesiastici che sottolineano invece l'eccellenza
della vita claustrale al valore della poesia. Immancabile è la tematica
politica, esposta nella lunga lettera a Durazzo e ritenuta essere il sunto del
pensiero politico dell’umanesimo. Le lettere dell’Epistoloario pubblico, scritte
in qualità di cancelliere della Repubblica, sono di carattere puramente
politico, in quanto rivolte a contrastare l'azione egemonica di Visconti.
Riprendendo i modelli dei classici latini -- Seneca, SALLUSTIO, CICERONE --, S.
addita Visconti quale tiranno in contrasto con la florentina libertas. Il tono
di queste lettere dove essere così grave e tagliente che, secondo la
tradizione, il duca di Milano risponde che un'epistola di S. e più deleteria di
una sconfitta militare di Milano in campo aperto. Dal punto di vista più
tecnico, il saggio svolto presso la
cancelleria di Firenze ha reso S. uno dei più noti cancellieri. Tale notorietà
si deve al metodo di lavoro che egli adotta nel tempo in cui ha ricoperto tale
carica. Effettivamente, i cambiamenti che S. apporta, soprattutto nel campo
dell'epistolografia politica, pur non essendo certo radicali, ha una notevole
influenza su molte corti. La letteratura sull'argomento è unanime
nell'affermare che, S., pur utilizzando la formula prevista dall'epistolografia
cancelleresca, che prevede: la “Salutatio”, il Proverbium, la Narratio, la
Petitio e la Conclusio; ha modo di personalizzare ogni fase dell'epistola in
base alle proprie esigenze narrative. È frequente perciò trovare nelle sue
lettere una “salutatio” piuttosto breve ed un Proverbium soprattutto quando
egli esprime teorie politiche piuttosto lungo. Epistola a Zabarella, filosofo
padovano, il “De Tyranno” basato sull'omonimo trattato di Bartolo da
Sassoferrato e sul “Polycraticus” di Giovanni di Salisbury, riflette sulla
nascita della tirannide e sulla liceità dell'assassinio del tiranno stesso. Indotto
a fare questa riflessione su spunto di A. dell'Aquila, che gli chiede la
liceità dell'assassinio di GIULIO CESARE e dalla volontà di difendere la scelta
dantesca di porre Bruto e Cassio nelle fauci di Lucifero, ammette la liceità di
un tale gesto nei confronti di un despota, ma negandola però al generale
romano, in quanto e un benemerito capo di stato, che e tradito dagli stessi
uomini che sono stati da lui beneficiate. L’Invectiva contro Loschi,
cancelliere dell'ormai defunto Visconti e autore di una “Invectiva in
florentinos”, ha un tono più concreto rispetto al teorico “De Tyranno”. Nell'”Invectiva”,
mostra la partigianeria repubblicana sostenitrice della “florentina libertas”,
emula dell'Atene di Pericle fautrice della concordia partium tra lei e i suoi
alleati. Gli ricorda come Firenze sia nel giusto perché è sottoposta alle
leggi, che non possono essere violate, MENTRE A MILANO IL DIRITTO E STRUMENTO
ARBITRARIO NELLE MANI DI UN VERO E PROPRIO TIRANNO, CHE STA AL DI SOPRA DELLA
LEGGE. “De seculo et religione”, epistola all’amico Lapo si articola in due parti.
Gl’invia una lettera d'accompagnamento insieme al testo da lui realizzato. Tratta
di una esortazione assai fervida alla vita claustrale. Rivendica anche la
validità della vita quale laico, in quanto strada valida nell'ambito gerarchico
delle occupazioni umane, a cui egli rimane ancora legato. L'opera, esaltante la
vita ritirata prendendo spunto anche da CICERONE, LIVIO, MACROBIO, e Omero, tratta
anche della condanna morale di cui è afflitta Roma, dai papi fino ai
predicatori. Nell’epistola “De fato et fortuna” espone l'argomento del
libero arbitrio e del rapporto che esiste tra quest'ultimo e gli avvenimenti
che possono ostacolarne i progetti. La tematica, assai complessa ed erede di una
lunga tradizione filosofica -- i modelli sono Alberto Magno, AQUINO e il “De
bona fortuna” di Aristotele -- si sviluppa nel tentativo di dimostrare come
l'esistenza umana si inquadri in una causa prima, il divino la quale opera in
comunione, talvolta incontrandosi, talvolta scontrandosi, con la volontà
dell'uomo. In “De Nobilitate legum et medicine” propone una gerarchia del sapere,
proponendo la legge come valore supremo sulla medicina, intesa come mera tecnica.
Come l'anima è superiore al corpo, così la legge (che si rifanno al campo della
volonta dello spirito) e superiori alla medicina, che fa parte della meccanica.
La legge, infatti, regola la vita sociale, determina il con-vivere civile,
stabilisce l'ordine e deve essere ottima perché puo produrre uomini migliori. Continua
affermando che la legge, dal momento che appartengono alla sfera dello spiritualo
e quindi celeste, e legate direttamente al divino. Gl’uomini, perciò, possono
collaborare con Dio nella costruzione perfetta della società grazie al fatto
che ogni uomo e ispirato dalla divinità medesima. Il “De Laboribus Herculis,” opera
di grande impegno intellettuale, e un vasto saggio di poesia. Intende
continuare il progetto culturale di Boccaccio della genealogia, vale a dire una
difesa della poesia a livello universale basata sulle vicende terrene dell'eroe
mitologico Ercole, re-interpretate in senso allegorico e indirizzate verso la
via della virtù. Si basa su Ercole per la radice etimologica del nome greco,
risalente ad “ερος κλερος”, cioè uomo forte e glorioso. Come già scrive a
Giovanni di San Miniato, infatti, la poesia ha un valore universale in quanto
il senso interpretativo supera la dimensione culturale in cui è stato scritto.
Per cui la opera di un pagano, se piene di valori positivi, non devono essere
rigettate, ma accolte in quanto provenienti dal divino stesso. “Carmen de
morte Francisci Petrarce” e un carme commemorativo del Petrarca e accennato in
varie epistole al conte di Battifolle, a Imola e a Brossano, del quale è quasi
dubbio il completamento. “De verecundia” e un trattarello in forma epistolare
indirizzato a Baruffaldi sulla natura positiva o negativa della verecundia, cioè
il rispetto. Grazie agli studi genealogici di Novati, si puo ricostruire
l'ascendenza e la discendenza del cancelliere fiorentino. Coluccio Ignota,
figlia di un tal Lino Piero Lino Coluccio; Piera di Simone Riccomi, A.Corrado, Giovanni
Sorella ignota, sposata a uno dei Giovannini di Stignano sposata ad uno dei
Dreucci di Pistoia Piero morto di peste,
Andrea morto di peste, Bonifazio - Monna Checca de' Baldovinetti Arrigo Margherita d'Andrea de' Medici Antonio, Duccia
di Guernieri de' Rossi; Filippo, Lionardo, chierico Salutato, chierico Lorenzo.
A lungo si è ritenuta corretta la data, Campana Martelli, Nuzzo, e altri studiosi dimostrano che
la data corretta è Villani, S. XXVII racconta l'ascesa politica ad una delle
più prestigiose cariche politiche fiorentine. Nominato segretario grazie
all'influenza del Gonfaloniere Serragli, e eletto Cancelliere in sostituzione
di N. Monaci, uomo politico con cui il Serragli fu in disputa. Si veda Epistolario per le addolorate missive
inviate dal Bruni e da Poggio all'amico in comune N. Niccoli, ‘tali parente’
nell'epistola di Bruni; ‘patris nostri’ in quella di Poggio). In Ivi, l'istriano P. Vergerio, in una lettera a F.
Zabarella, lo descrive come il primo e straordinario decoro di Firenze -- urbis
illius primum atque precipuum decus, Linum Colucium Salutatum -- Della stessa
opinione anche: Cappelli, in cui si ricorda, al momento dei funerali, il
commosso addio dell'allievo Vergerio, che lo chiama communis omnium magister -- maestro comune di
tutti noi. Luogo significativo per continuare le riunioni dei nuovi umanisti,
in quanto vi viveva quel fra' Martino da Signa erede universale degli scritti
del Boccaccio. Boccaccio dispose per testamento di lasciare la sua biblioteca
all'agostiniano Signa con l'indicazione che alla morte del frate i volumi
fossero negli armaria del convento fiorentino di Santo Spirito. Così avvenne. La
grandezza di Alighieri, ma anche di Petrarca e dello stesso Boccaccio, sono
messi in discussione dal più acceso degl’umanisti classicisti, Niccoli,
all'interno dei Dialogi ad Petrum Histrum di Bruni. L'accusa principale
consiste nella barbaria del loro latino e nel, caso di Alighieri, nel FRA-INTENDIMENTO
DEL SENSO di alcuni passi di VIRGILIO. Solamente il suo intervento riesce a
capovolgere la situazione, salvando Alighieri dalle accuse feroci del Niccoli. Come
anche risulta da un dialogo del Bruni, che di quella polemica anti-dantesca è
il documento principe, il suo intervento riusce ad assicurare la continuità,
proporzionata all'età nuova, della tradizione dantesca a Firenze. I contatti
tra Costantinopoli e Firenze sono facilitati dalla presenza, nella capitale
bizantina, di G. da Scarperia, che decide di riaccompagnare Crisolora in patria
per apprendere greco da lui stesso. La visione laica dell'umanesimo non si deve
confondere con la proposta laicista, dal punto di vista etico e antropologico.
Mantenendo sempre un'attenzione ossequiosa verso la Roma e una sincera
devozione verso le verità romana, intende nel contempo esaltare e rivendicare
la responsabilità umana al di fuori di qualsiasi determinismo meccanicista e
ponendo in valore la libertà personale del singolo (Cappelli). Abbagnano
sintetizza in modo più stringente il rapporto tra libero arbitrio e volontà
divina, affermando che il primo e conciliabile con l'infallibile ordine del
mondo stabilito dal divino. Si è
condensato, in questi due punti, l'attacco generale del mondo contro
l'umanesimo. La questione sul valore della poesia riguarda la disputa con
Giovanni di San Miniato (cfr. Epistolario, Fratri Johanni de Angelis; quella
con Dominici riguarda il valore positivo dell'umanesimo (cfr. Epistolario, Il
codice fa parte della sua biblioteca entra nelle mani del cancelliere fiorentino
igrazie alle pressioni che esercita su G. de Broaspini. Della stessa opinione
anche Francesco Novati che, in Epistolario, giunge alla stessa conclusione del
Sabbadini in quanto vi trova delle suoi postille autografe del Salutati.
L'epistola è importante perché, dopo l'elogio di Carlo per la fortunata impresa
militare della conquista del Regno di Napoli e il paragone con gl’eroi antichi,
enumera i doveri di un buon sovrano: cercare l'unità sacra; gestire con
moderazione il potere e imparare a gestire le proprie emozioni -- incipe prius
tibi quam aliis imperare; rege te ipsum, noli regendorum subditorum studium
tuimet derelinquere moderamen -- per evitare di cadere nei vizi e di essere
classificato come un tiranno. Esaltandolo alla virtù, alla temperanza e alla
giustizia, insomma tratteggia il modello del sovrano ideale, cavalleresco, formato
sull'esempio dei classici -- continua è la comparazione con gli antichi
statisti e sovrani) e timorato del divino. Le informazioni, ricavate attraverso
una minuziosissima ricerca d'archivio da parte del Novati, sono prese in ordine
sparso da; Epistolario, Tavole genealogiche ove vengono fornite indicazioni
biografiche sui nonni, genitori e figli. Per consultare le informazioni sui
fratelli del cancelliere, si consulti sempre Epistolario, Riferimenti Dionisotti. Villani. E avviato agli
studî giuridici, inameni a lui che era pierius -- così foggia il suo
patronimico: figlio di Pietro, e devoto alle pieridi, le muse. Eloquentissimo
legum doctori domino Loygio de Gianfigliaziis. Reverendo patri et domino domino
Bruni de Florentia summi pontificis secretario, domino suo, si lamenta
della sua mansione di cancelliere nella cittadina umbra. Vero è che invalse
l'uso di chiamare Cancelleria Fiorentina l'ufficio del quale era capo il
Dettatore, che aveva la particolare ingerenza di scrivere le lettere e di
trattare le faccende della politica esterna. Unum dicam, quod emerserunt et ad tante sunt
reipublice gubernacula sublimati, quos oportuit pro salute cunctorum. Dirò una
cosa, cioè che al governo di una così grande repubblica emersero e vi sono
uomini, i quali bisognò vi sono per la salvezza di tutti. E così favorevole al
governo in quanto fu uno dei pochissimi a non essere proscritto dalle cariche
istituzionali. Siena si sottomise a Visconti
in funzione anti-fiorentina, mentre il signore di Milano, duca per investitura
imperiale, si allea con Lucca e altre città umbro-marchigiane. La prima
epistola riportata dal Novati in cui S. risponde ad una missiva del Certaldese
cfr. Epistolario Facundissimo domino Iohanni Boccacci de Certaldo ma i toni
sono troppo famigliari per essere la prima epistola scambiata tra i due. Inclyte
cur vates, humili sermone locutus, de te pertransis? te vulgo mille labores
percelebrem faciunt: etas te nulla silebit. Perché, o celebre poeta, che hai
cantato nel volgare idioma, avanzi nel corso del tempo? Mille fatiche ti
rendono celebre presso il volgo: nessuna epoca tacerà sul tuo conto. Egrigio
viro Franciscolo de Brossano domini Francisci Petrarce genero, Ep. ove piange
sia la scomparsa del Petrarca, ma annuncia anche quella del Boccaccio. Fallebar
enim, et dum Franciscum fleo, dum suis laudibus intentus decantantes, novo
commento, veterum pene dimissa sententia, depingo Camenas, ecce nove lacrime
nobis merore novi funeris occurrerunt, incepti cursum operis reprimentes.
Vigesima quidem prima die decembris Boccaccius noster interiit. Infatti ero
ingannato, e mentre piango Francesco e mentre, attento alle sue lodi, adorno le
Camene con un nuovo commento, quasi tralasciata la sentenza degl’antichi, ecco
che nuove lacrime si aggiunsero a noi con il dolore di una nuova morte,
frenando il corso di un'opera che inizia. Il nostro Boccaccio spira. Tateo. Cappelli, ricorda anche che e solito mettere a
disposizione dei suoi allievi la sua stessa biblioteca personale. Pertanto, i
luoghi di incontro erano due: Santo Spirito e l'abitazione del Cancelliere. Gl’animatori
di questi incontri, il Salutati e il Marsili, l'uno nella propria casa, l'altro
nella sua cella di Santo Spirito, ricevano i nobili fiorentini, e li iniziavano
al gusto delle lettere antiche. Sabbadini riporta che l'erudito greco era già a
Firenze. Garin sintetizza, prendendo spunto dal De saeculo et religione e
dall'Epistolario, l'ideale di vita attiva propria dell'essere umano inteso come
cittadino del mondo. Terrestre è la vocazione umana. L'impegno nostro è nella
costruzione della città terrena, nella società. Insiste sul valore della
educazione. Essa insegna a ritrovare sub corticem il valore intenzionale dei
termini, smarrito nella consuetudo, penetrando l'espressione nel suo
significato intimo come direzione spirituale. Parola e cosa non possono
disgiungersi. Noli, venerabilis in Christo frater, sic austere me ab honestis
studiis revocare. Noli putare quod, cum vel in poetis vel aliis Gentilium
libris veritas queritur, in vias Domini non eatur. Omnis enim veritas a Deo
est, imo, quo rectius loquar, aliquid est Dei. Non volere, o venerabile
fratello in Cristo, allontanarmi in modo così austero da studi degni di
ammirazione. Non voler ritenere che, quando si cerca la verità o nei poeti o in
altri libri degli scrittori pagani, non si cammini lungo le vie del Signore.
Ogni verità, infatti, proviene da Dio e, per parlare fino in fondo rettamente,
alcuna cosa è propria di Dio. Nullum enim dicendi genus maius habet cum divinis
eloquiis et ipsa divinitate commertium quam eloquium poetarum. Nessun
genere letterario, infatti, ha un maggior legame con le parole divine e con la
stessa divinità quanto la parola dei poeti. Il manoscritto di Vercelli fu alla
fine portato a Firenze, ove rimane, unica copia carolingia esistente delle
Epistole di CICERONE. Gargan ritiene che la sua filologia non fu di altissima
classe. Billanovica. Fitta la corrispondenza con Seta, come testimonia la prima
lettera inviata dal cancelliere fiorentino. Insigni viri Lombardo...optimo civi
patavino, Cappelli Cesareo. Epistola Coluci Salutati florentina ad Carolum
regem Neapolitanum. Villani riporta la veemenza con cui fulmina Gian Galeazzo
con le sue lettere, riportando tra l'altro la testimonianza di E. Piccolomini cui quest'aneddoto è attribuita la
paternità. Sia la citazione che il contesto in cui fu scritto il De Tyranno
sono esposti in Canfora. In altri termini, se Cesare, pur giunto al potere in
modo tirannico o violento, seppe poi legittimare tale potere attraverso un
esercizio virtuoso di esso (ex parte exercitii) in grado di suscitare
l'approvazione popolare, la sua uccisione non fu legittima. Lo e quella di un
tiranno che esercita come tale. Per la figura di Loschi, si rimanda alla voce
biografica Viti. Canfora ipotizza l'aiuto
di Bruni nello sviluppare il paragone Firenze-Atene, in quanto non e molto esperto di quella lingua e di quella
cultura. Così rivolgendosi al cancelliere milanese A. Loschi, nella Invectiva
in Antonium Luschum, dopo aver contrapposto i guasti del regime tirannico
milanese ai vantaggi di quello libero e repubblicano di Firenze, glorifica la
sua città come "fiore d'Italia" e come esempio di vita serena e armoniosa.
Si riporta interamente il breve messaggio d'accompagnamento. Mitto tibi
munusculum istis paucis noctibus correctionis studio lucubratum. In quo si quid
proficies tu vel alii, laus sit omnium conditori Deo, cui placeat me in tuis
sanctis orationibus commendare. Vale felix et diu. S. tuus. Ti mando un piccolo
pensiero composto in queste poche notti dopo un'opera di revisione. Attraverso
questo trattato, se tu o altri ne trarrete giovamento, la lode di tutti voi sia
per lodare Dio, al quale è piaciuto che io mi affidi alle tue sante orazioni.
Sta felice a lungo. Il tuo Coluccio. Nel De Nobilitate ribade, attraverso un
discorso più ampio e articolato, la distinzione della medicina, designate come
arte meccanica, ossia tecnica, dalla giurisprudenza, considerata scienza della
vita spirituale e quindi superiore all'altra. La legge e veramente un sigillo
divino, con cui dopo il primo peccato Dio ha offerto alle comunità degl’uomini
la vita per riconquistare il bene. Ispirate dal divino agli uomini, inscritte
nell'anima umana, la legge ha un'altra superiorità, rispetto alla legge
meccanica naturale. La legge inter-soggetiva puo essere conosciuta nella sua
pienezza integrale, con una certezza che non si trova mai nella scienze della
natura. Si riporta, come testimonianza, quanto scritto nell'epistolario in cui
annuncia a B. Imola il suo Progetto. Sed ut ad Franciscum nostrum redeam,
opusculum metricum de ipsius funere iam incepi. Ma per ritornare al nostro
Francesco, inizio a stendere un opuscolo metrico sulla cerimonia funeraria
dello stesso. Antiche Filippo Villani, Le vite d'uomini illustri fiorentini,
Mazzuchelli, Venezia, Pasquali, Moderne; Abbagnano, “La filosofia del
Rinascimento” in Abbagnano, Storia della filosofia, Milano, TEA); Billanovich,
Gl’inizi della fortuna di Petrarca” (Roma, Storia e Letteratura); Bischoff, “Paleografia
latina. Antichità e Medioevo, Stefano Zamponi, Padova, Antenore, Bosisio, Il
Basso Medioevo, in Curato, Storia Universale,
Novara, Istituto geografico De Agostini, Branca, Boccaccio: profilo biografico,
Firenze, Sansoni, Campana, Lettera del cardinale padovano (Bartolomeo Uliari). Canfora,
Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma, Laterza, Cappelli,
“L'Umanesimo italiano da Petrarca a Valla” (Roma, Carocci); Cesareo, “L'Epistolario
ed il carteggio con Francesco Petrarca come esempio di latino umanistico: una
ricerca filologico-letteraria, G. Contini, Letteratura italiana delle origini”
(Firenze, Sansoni); Carrara, Lino Coluccio di Piero, in Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Rosa, Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell' Enciclopedia Italiana, Chines, Forni, G. Ledda, Dalle Origini al
Cinquecento, in Ezio Raimondi, La letteratura italiana” (Milano, Mondadori); Dionisotti,
Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell' Enciclopedia Italiana, Luciano
Gargan, Gli umanisti e la biblioteca pubblica, in Guglielmo Cavallo, Le
biblioteche, Bari, Laterza, Eugenio Garin, L'umanesimo italiano, Roma-Bari,
Laterza,Martelli, Schede per S. in Interpres, Demetrio Marzi, La cancelleria
della repubblica fiorentina, Rocca San Casciano, Cappelli, Nuzzo, Coluccio Salutati. Epistole di Stato.
Primo contributo all’edizione: Epistole in Letteratura Italiana Antica, Manlio
Pastore Stocchi, Pagine di storia dell'Umanesimo, Milano, Angeli; Petoletti, “Boccaccio
e i classici latini” in Teresa De Robertis, C. Monti, Marco Petoletti et alii,
Boccaccio autore e copista, Firenze, Mandragora, Petrarca, Lettere Senili, Fracassetti,
Firenze, Le Monnier, S., Epistolario,
Novati, Roma, Forzani e C. tipografi del Senato, Si sono consultati:
Epistolario,. Epistolario, Epistolario, Epistolario, Epistolario, Sabbadini, “Le
scoperte dei codici latini”, Firenze, G.C. Sansoni, Achille Tartaro e Francesco
Tateo, Il Quattrocento. L'età dell'umanesimo, in Muscetta, La letteratura
italiana, Bari, Laterza, Si sono presi in considerazione: Tateo, La cultura
umanistica e i suoi centri, Wilkins, Vita di Petrarca, Rossi e Ceserani,
Milano, Feltrinelli, Life of Petrarch,
Chicago; Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Pissavino, Milano, Mondadori, Viti,
Loschi, Antonio, in Dizionario Biografico degl’italiani, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, Palazzo Salutati Petrarca Boccaccio Umanesimo Repubblica
di Bruni. Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Cirillo, “Il
tiranno in S., umanista,” Biblioteca dei Classici italiani di Bonghi. Lino
Coluccio Salutati. Coluccio Salutati. Salutati. Keywords: i duodici fatiche
d’Ercole, gl’antichi, la legge non-naturale, la legge naturale, della buona
fortuna, libero arbitrio, la vita sociale, la con-vivenza, Bruto e Cassio
nell’inferno, la morte di Cesare, l’assassinio di Cesare, tirano, la libertas
fiorentina, stato fiorentino, la repubblica fiorentina, la fiore d’Italia,
Boccaccio, Petrarca, Aligheri, I primi umanisti, l’umanesimo laico, basato
contro il determinismo ecclesiastico, la biblioteca di Salutati, Livio,
Cicerone, autori latini, la lingua Latina, difesa della lingua Latina,
l’interpretazione di Virgilio da Aligheri, difesa della filosofia pagana, il
valore permanente della filosofia degl’antichi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Salutati” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Salutio: la ragione conversazionale del divino
e dei divini – l’ordine el mondo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A close fiend of Giuliano. He is offered
the emperorship on Giuliano’s death, but he declines on account of his ‘rather poor
health.’ He leads an active political life and is regarded as morally
incorruptible. Known to have been well-versed in philosophy, he is the author
of ‘On the gods and the world order’ – which some however attribute to
Salustio. The treatise is, unsurprisingly, dedicated to Giuliano. Those who
argue that it us not written by Salutio claim it is the work of one contemporary
of Giuliano, a Flavio Salustio. Accademia.
Saturnino Secondo Salutio.
Luigi Speranza -- Grice e Salviano: la ragione conversazionale al
portico – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He moves from Rome to what is now
known as The Galliae – and writes a ‘saggio’ in which he tries to explain why
there is so much suffering in that area of the world. He takes an approach that
is not only philosophical – along the lines of the Porch – but historical as
well.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Sanctis: la grammatica ragionata e la ragione conversazionale dello stile
filosofico – scuola napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo
Italiano. Napoli, Campania. Essential philosopher. He considers philosophy as a
branch of the belles lettres and his field of expertise is when stylists stop
using an artificial Roman, and turned to ‘Italian.’ Grice: “I really do not
like de Sanctis; when an author becomes philosophical, he says that he has been
infested of the philosophical pest!” – Disambiguazione – Se stai cercando
l'omonimo architetto, vedi Francesco De Sanctis (architetto). Francesco de Sanctis Ministro della pubblica istruzione del Regno
d'Italia MonarcaVittorio Emanuele II di Savoia Capo del governoCamillo Benso di
Cavour PredecessoreTerenzio Mamiani, Regno di Sardegna Capo del governoBettino
Ricasoli SuccessorePasquale Stanislao Mancini Durata mandato24 marzo 1878 – 19
dicembre 1878 MonarcaUmberto I di Savoia Capo del governoBenedetto Cairoli
PredecessoreMichele Coppino SuccessoreMichele Coppino Capo del governo Benedetto
Cairoli PredecessoreFrancesco Paolo Perez SuccessoreGuido Baccelli Governatore
della Provincia di Avellino SuccessoreNicola De Luca Deputato del Regno
d'Italia Legislatura Gruppo parlamentare Sinistra Coalizioneconnubio,
opposizione, governo della Sinistra storica Incarichi parlamentari Ministro
dell'Istruzione del Regno d'Italia Sito istituzionale Dati generali Partito
politicoDestra storica (1861-1862) Sinistra storica (1862-1883) Titolo di
studiolaurea ProfessioneDocente universitario FirmaFirma di Francesco de
Sanctis Francesco Saverio de Sanctis (Morra Irpina, 28 marzo 1817 – Napoli, 29
dicembre 1883) è stato un critico letterario, saggista e politico italiano, tra
i maggiori critici e storici della letteratura italiana nel XIX secolo e più
volte ministro della pubblica istruzione. Francesco Saverio de Sanctis nacque
nel 1817[1] a Morra Irpina (Avellino) da una famiglia di piccoli proprietari
terrieri, figlio di Alessandro De Sanctis
e Maria Agnese Manzi (1785-1847).
Il padre era dottore in diritto e due zii paterni, Giuseppe e Carlo, uno
sacerdote e l'altro medico, vennero esiliati per aver preso parte ai moti
carbonari. Celebre è la sua frase:
"Se Morra è il mio paese, Sant'Angelo è la mia città" (Sant'Angelo
dei Lombardi, che si trova vicino a Morra e che, al tempo di S., era il punto
di riferimento per i paesi vicini). I
critici pedanti si contentano d'una semplice esposizione e si ostinano sulle
frasi, sui concetti, sulle allegorie, su questo e su quel particolare come
uccelli di rapina su un cadavere… Essi si accostano ad una poesia con idee
preconcette: chi di essi pensa ad Aristotele e chi ad Hegel. Prima di contemplare il mondo poetico lo
hanno giudicato: gl'impongono le loro leggi in luogo di studiar quelle che il
poeta gli ha date. […] Critica perfetta è quella in cui i diversi momenti (per
i quali è passata l'anima del poeta) si conciliano in una sintesi di
armonia. Il critico deve presentare il
mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena coscienza, di modo che la
scienza vi presti, sì, la sua forma dottrinale, ma sia però come l'occhio che
vede gli oggetti senza però vedere se stesso. La scienza, come scienza, è,
forse, filosofia, ma non è critica.»
(Francesco De Sanctis, Saggi critici, Morano, Napoli) Formazione scolastica Nel 1826 lasciò la
provincia per recarsi a Napoli, dove frequentò il ginnasio privato di uno zio
paterno, Carlo Maria de Sanctis. Nel
1831 passò ai corsi liceali, dapprima presso la scuola dell'abate Lorenzo
Fazzini, dove compì le prime letture filosofiche, e nel 1833 presso quella
dell'abate Garzia. Completati gli studi
liceali, intraprese gli studi giuridici, presto però trascurati per seguire,
già dal 1836, la scuola del purista Basilio Puoti sul Trecento e sul
Cinquecento, lezioni che il marchese teneva gratuitamente presso il suo
palazzo, dove il De Sanctis avrà modo di conoscere il Leopardi e dove avvenne
la sua vera formazione. Insegnamento
Trascorso un breve soggiorno a Morra, ritornò a Napoli dove iniziò ad insegnare
nella scuola dello zio Carlo che si era ammalato, per interessamento dello stesso
Puoti, venne nominato professore alla scuola militare preparatoria di San
Giovanni a Carbonara (1839-1841) e in seguito al Collegio militare della
Nunziatella (1841-1848), dove ebbe come allievo tra gli altri Nicola Marselli. Contemporaneamente egli teneva in una sala
del Vico Bisi, per gli allievi del Puoti, corsi privati di grammatica e
letteratura, avendo tra i suoi allievi alcuni di quelli che sarebbero poi
diventati tra i principali nomi della cultura italiana: i meridionalisti
Giustino Fortunato e Pasquale Villari, il filosofo Angelo Camillo De Meis, il
giurista Diomede Marvasi, il pittore Giacomo Di Chirico, il letterato Francesco
Torraca e il poeta Luigi La Vista, suo allievo prediletto, che avrebbe trovato
la morte durante l'insurrezione del 1848.
Le lezioni di quella che fu chiamata la "prima scuola
napoletana" (1838/39-1848) furono raccolte ed edite solamente nel 1926 da
Benedetto Croce con il titolo Teoria e storia della letteratura. Distanze dal purismo Alla Nunziatella il De Sanctis
iniziò a trattare problematiche di carattere letterario, estetico, stilistico,
linguistico, storico e di filosofia della storia, prendendo le distanze dal
purismo di Puoti dopo aver scoperto alcuni testi dell'Illuminismo francese
(d'Alembert, Diderot, Hélvetius, Montesquieu, Rousseau e Voltaire) e di quello
italiano (Beccaria, Cesarotti, Filangieri, Genovesi, Pagano). De Sanctis passò così da una prima fase
intrisa di sensibilità romantica e leopardiana, di forte polemica
anti-illuministica e di convinta adesione a un programma cattolico-liberale,
giobertiano, di restaurazione civile e morale, ad una seconda fase, nel
costituire la quale ebbero grande parte la lettura di Hegel e le esperienze
drammatiche del 1848. Partecipazione ai
moti del 1848 «Napoletani, siamo fieri di questo nome che abbiamo fatto
risonare dovunque alto e rispettato. Vogliamo l'unità, ma non l'unità arida e
meccanica che esclude le differenze ed è immobile uniformità. Diventando
italiani non abbiamo cessato d'essere napoletani.[2]» ([senza fonte] Francesco De Sanctis) Nel maggio del 1848, come membro
dell'associazione "Unità Italiana[3]" diretta dal Settembrini,
partecipò con alcuni dei suoi allievi ai moti insurrezionali e, in seguito a
questa sua iniziativa, nel novembre del 1848 venne sospeso
dall'insegnamento. Prigionia Nel
novembre del 1848 egli preferì allontanarsi da Napoli, recandosi
nell'entroterra calabrese, ospite prima nella città del Guiscardo di San Marco
Argentano (CS) presso il seminario vescovile, poi nel vicino borgo di Cervicati
(CS) dove aveva accettato un incarico di precettore propostogli dal barone
Francesco Guzolini. Qui scrisse i suoi primi "Saggi critici", cioè le
prefazioni all'Epistolario leopardiano e alle "Opere drammatiche" di
Schiller, ma nel 1850 venne arrestato e recluso a Napoli nelle prigioni di
Castel dell'Ovo, dove rimase fino al 1853 quando, espulso dal Regno dalle
autorità borboniche e fatto imbarcare per l'America, riuscì a fermarsi a Malta
e quindi a rifugiarsi a Torino. Durante
il periodo di prigionia il De Sanctis si diede allo studio approfondito di
Hegel, facendo lo sforzo di apprendere il tedesco e compiere così la traduzione
del "Manuale di una storia generale della poesia e della logica" di
Hegel, oltre a cercare di approfondire i motivi mazziniani della propria
ideologia, come testimonia il carme in endecasillabi con auto-commento
intitolato "La prigione". Dal
carcere uscì indubbiamente un De Sanctis diverso, al quale la realtà aveva
distrutto le illusioni e al pessimismo e misticismo giovanile era subentrata
una moralità più eroica e alfieriana e che, grazie alla lettura di Hegel, aveva
maturato una diversa concezione del divenire della storia e della struttura
dialettica della realtà. Attività
letteraria a Torino A Torino la cultura moderata gli negò una cattedra, ma De
Sanctis riuscì comunque a svolgere un'intensa attività letteraria. Trovò un
incarico di insegnante presso una scuola privata femminile dove insegnò lingua
italiana, diede lezioni private, collaborò a vari giornali dell'epoca come
"Il Cimento", divenuto in seguito "Rivista Contemporanea",
"Lo Spettatore", "Il Piemonte", "Il Diritto" e
iniziò a tenere conferenze e lezioni, tra le quali quelle famose su Dante che,
per la loro originale impostazione e per l'analisi storica e poetica, gli
fecero ottenere, nel 1856, una cattedra di letteratura italiana presso il
Politecnico federale di Zurigo. Anni di
Zurigo Francesco De Sanctis nel periodo
zurighese (1856-1859) A Zurigo, dove insegnò dal 1856 al 1860, il De Sanctis
tenne lezioni su Dante, sui poemi cavallereschi italiani e su Petrarca. Zurigo,
che in quegli anni era sede di grande confronto intellettuale, diede a De
Sanctis l'occasione di elaborare meglio il proprio metodo critico, di approfondire
le proprie meditazioni filosofiche e di raccogliere il materiale documentario,
tra il quale assai importante risultano essere le conferenze petrarchesche del
1858-1859 che saranno la base del saggio pubblicato nel 1869 a Napoli
dall'editore Morano. Ebbe anche l’occasione di diventare membro attivo del
Circolo degli Scacchi della Città: “Ieri sono stato eletto membro della società
degli scacchi, pagando il diploma quattro franchi. È la prima società tedesca
di cui faccio parte. Qui tutto si risolve in società” [4] Ritorno in patria Intanto, con l'unione nel
1860 del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna per la costituzione del
Regno d'Italia, il De Sanctis poté tornare in patria, dove portò avanti,
contemporaneamente alla sempre fervida attività letteraria, anche l'attività
politica. Nel 1860 conobbe Giuseppe
Mazzini e, dopo aver interrotto il ciclo di lezioni sulla poesia cavalleresca,
sottoscrisse il manifesto del Partito d'Azione per caldeggiare l'unificazione e
per combattere le idee estremiste dei repubblicani. Da quel momento egli si immerse di slancio
nella nuova realtà politica italiana, ritrovando nell'azione la possibilità di
rendere concreto l'ideale appreso da Machiavelli, Hegel e Manzoni e cioè quello
dell'uomo totalmente impegnato nella realtà.
Attività letteraria e attività politica Si dedicò pertanto
ininterrottamente, ora all'attività di politico e ministro, ora a quella di
giornalista, ora a quella di critico e storico della letteratura e infine a
quella di professore. Cariche politiche
In seguito alla conquista di Garibaldi, il De Sanctis venne nominato
governatore della provincia di Avellino e per un brevissimo periodo fu ministro
nel governo Pallavicino, collaborando per il rinnovamento del corpo accademico
napoletano. Nel 1861 venne eletto
deputato al parlamento nazionale, aderendo alla prospettiva di una
collaborazione liberal-democratica, e accettò il ministero della pubblica
istruzione nei gabinetti Cavour e Ricasoli per cercare di attuare la difficile
opera di fusione tra le amministrazioni scolastiche degli antichi stati. Nel 1862 passò però all'opposizione e, in
collaborazione con il Settembrini, promosse una "Associazione unitaria
costituzionale" di sinistra moderata, che ebbe come voce il quotidiano
"Italia", diretto dallo stesso De Sanctis dal 1863 al 1865. In questo
ambito espose la sua visione politica nello scritto Un viaggio elettorale. Intenso impegno di studi «Come critico e
storico della letteratura, [De Sanctis] non ha pari.» (Benedetto Croce, Estetica come scienza
dell'espressione e linguistica generale, II, 15[6]) Il fallimento nelle elezioni del 1865
coincise con il ritorno del De Sanctis a un grande impegno di studi concentrato
sulla struttura di una storiografia letteraria che fosse di respiro nazionale,
questione che affronterà nei saggi sulle Storie letterarie del Cantù in
Rendiconti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli del 1865,
e sul Settembrini, Settembrini e i suoi critici, in Nuova Antologia (marzo
1869). Nel frattempo De Sanctis stava
già lavorando a una Storia della letteratura italiana che, nata come testo
scolastico, si sviluppò assai presto in un'opera di ampia e complessa
portata. Dal 1872 De Sanctis insegnò
letteratura comparata presso l'Università di Napoli e quell'anno accademico
iniziò con il discorso su "La scienza e la vita". I corsi da lui
tenuti in quegli anni si intitolano a Manzoni (1872), la scuola
cattolico-liberale (1872-'74), la scuola democratica (1873-'74), Leopardi
(1875-1876). Questi scritti, che svolgono tutti quei temi di letteratura
contemporanea che nella storia della letteratura non ebbero spazio per esigenze
editoriali, furono raccolti da Francesco Torraca e solo in parte rivisti dal De
Sanctis. Ultima fase della vita Nel
1876, prevalendo la Sinistra, De Sanctis si dimise da professore e accettò da
Benedetto Cairoli un nuovo incarico ministeriale (1878-1880), mentre il suo
interesse critico si rivolgeva al naturalismo francese, come testimonia lo
Studio sopra Emilio Zola che apparve a puntate sul "Roma" nel 1878 e
lo scritto "Zola e l'assommoir" pubblicato nel 1879 a Milano. Intervenne in Parlamento dopo il tentativo di
attentato al re Umberto I da parte dell'anarchico Giovanni Passannante,
manifestando la sua contrarietà di sincero democratico ad ogni tipo di
repressione: «Io, signori, non credo
alla reazione; ma badiamo che le reazioni non si presentano con la loro faccia;
e quando la prima volta la reazione ci viene a far visita, non dice: io sono la
reazione. Consultatemi un poco le storie; tutte le reazioni sono venute con
questo linguaggio: che è necessaria la vera libertà, che bisogna ricostituir
l'ordine morale, che bisogna difendere la monarchia dalle minoranze. Sono
questi i luoghi comuni, ormai la storia la sappiamo tutti, sono questi i luoghi
comuni, coi quali si affaccia la reazione.
Ritornato a Napoli, si dedicò alla rielaborazione del materiale
leopardiano, che fu pubblicato postumo nel 1885 con il titolo Studio su G.
Leopardi, e alla dettatura di ricordi autobiografici che arrivano fino al 1844,
pubblicati da Villari con il titolo La giovinezza: frammento autobiografico. Colpito da una grave malattia agli occhi, De
Sanctis morì a Napoli nel 1883. In suo onore la città natale, Morra Irpina, è
stata ribattezzata Morra De Sanctis. De
Sanctis fu membro della Massoneria[8][9].
Post mortem Nel 2007, in suo nome, viene istituita la Fondazione De
Sanctis, ente che dal 2009 organizza annualmente il Premio De Sanctis per la
saggistica ed altri eventi di carattere culturale. Opere S. enunciò i suoi
principi critici in diversi scritti di carattere non esclusivamente teorico e
il suo pensiero non è esposto in opere autonome e organiche di poetica e di
estetica. Il problema dell'arte non divenne mai per De Sanctis oggetto di un
discorso rigorosamente filosofico, tuttavia le sue sparse meditazioni su di
esso contengono i principi fondamentali dell'estetica moderna e rivelano quanto
fossero solide le fondamenta del suo pensiero critico. Storia della letteratura italiana Storia della letteratura italiana, volume I,
riedizione del 1912 (testo completo) Lo
stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura italiana (Francesco De
Sanctis). La Storia della letteratura italiana deve considerarsi il capolavoro
critico del De Sanctis. In essa l'autore ricostruisce in modo mirabile lo
sfondo storico critico-civile dal quale nacquero i capolavori della letteratura
italiana. In quest'opera compare la frase "il fine giustifica i
mezzi" che De Sanctis usa come esempio errato di come riassumere il
pensiero di Niccolò Machiavelli, e che è stata successivamente attribuita
erroneamente proprio al pensatore fiorentino.
Altre opere Tra gli studi del de Sanctis spicca il Saggio critico sul
Petrarca mentre tra i lavori inclusi nei Saggi critici e nei Nuovi Saggi
critici meritano di essere menzionati quelli su episodi della Divina Commedia,
su L'uomo del Guicciardini, su Schopenhauer e Leopardi oltre Il darwinismo
nell'arte e quelli su Emilio Zola. Da
ricordare ancora è il discorso La scienza e la vita del 1872 nel quale egli,
sostenendo la necessità di non separare la scienza dalla vita, prese posizione
nei riguardi dell'allora dilagante positivismo.
Scrittore vivace e singolare in una "prosa parlata che ha la
spontaneità del discorso vivo", il De Sanctis si rivela un piacevole
narratore nel frammento autobiografico La giovinezza e nelle quindici lettere che costituiscono il
resoconto di Un viaggio elettorale scritto nel 1876. Pensiero In un periodo in cui l'entusiasmo
per lo storicismo idealistico era scomparso e la critica, sia europea che
italiana si era spenta e si orientava verso la ricerca filologico-erudita, si
trovano ancora nel pensiero di De Sanctis i motivi più significativi e vitali
della cultura romantica. De Sanctis
stabilì nella sua Storia della letteratura italiana il legame tra il contenuto
e la forma con lo scopo di ricostruire quel mondo culturale e morale dal quale
sarebbero nate in seguito le grandi opere.
Egli considera l'arte come il "vivente", cioè la
"forma", ritenendo che tra forma e contenuto non esista dissociazione
perché esse sono l'una nell'altra. Nelle
pagine di De Sanctis vi è una felice vena di scrittore. Egli infatti scrive con
una prosa antiletteraria, fervida e mirabile per l'immediatezza del
pensiero. Il pensiero del De Sanctis
venne contrastato dal positivismo della scuola storica. Sarà solamente con
Croce che avrà inizio la rivalutazione del pensiero desanctisiano che troverà,
attraverso Gramsci, importanti sviluppi nella critica di ispirazione marxista.
Galasso ha scritto, citando tra gli altri Delio Cantimori, che De Sanctis,
esprimendo un giudizio negativo sul Cinquecento in relazione al Rinascimento,
vede un rapporto di continuità tra il Quattrocento e il Cinquecento. Nel
Quattrocento è compiuta la separazione tra borghesia e popolo rispetto al
«blocco compatto dell’intuizione, delle concezioni, della fede, della moralità
proprie del Medioevo», ma, mentre il Quattrocento è un secolo vivo, creativo,
aperto, dove c’è «ancora un magistero reale rispetto all’Europa», nel
Cinquecento non si può che constatare, parole di De Sanctis, «la separazione da
tutti i grandi interessi morali, politici e sociali che allora commuovevano e
ringiovanivano molta parte dell’Europa».[11]
Metodo Il metodo della critica desanctisiana nasce, oltre che da una
geniale elaborazione intellettuale, da una forte esigenza di intraprendere una
battaglia culturale. La critica di De
Sanctis fu quindi una critica militante, il tentativo di superare per sempre il
distacco tra l'artista e l'uomo, tra la cultura e la vita nazionale, tra la
scienza e la vita. Lo scrittore non è
mai per De Sanctis un uomo isolato e chiuso in sé stesso, ma inquadrato nel
contesto che lo circonda, cioè la sua civiltà e la sua cultura. Estetica Discepolo del Puoti, De Sanctis
inizia fin dalla sua prima scuola la
critica del formalismo puristico e retorico e si pone sia contro la poetica del
Cinquecento sia contro quella del Settecento, accademica e neoclassica. In quegli anni a Napoli iniziò a penetrare la
filosofia di Hegel e il De Sanctis agli inizi studiò e aderì all'estetica del
grande filosofo tedesco anche se era in lui già latente la ribellione che
divenne esplicita in occasione della pubblicazione del suo "Saggio sul
Petrarca". Hegel sosteneva infatti
che l'arte fosse "l'apparenza sensibile dell'Idea" e quindi che
l'opera d'arte fosse simbolo del concetto filosofico e quasi una forma
provvisoria di esso. Una simile dottrina conferiva carattere teoretico
all'arte, ma ne comprometteva l'autonomia, tant'è vero che Hegel prevedeva alla
fine dell'epoca romantica la morte dell'arte. S. contrappose all'estetica
hegeliana, l'estetica della forma intesa come un'attività originaria e autonoma
dello spirito, per mezzo della quale la materia sentimentale si realizza in
figurazione artistica. In questo modo essa non è un'elaborazione di un
contenuto astratto, ma unità di contenuto e forma. Su questi fondamenti si basa la critica del
De Sanctis che fu una vera rivoluzione nella tradizione letteraria
italiana. Specchietto cronologico - Nasce a Morra Irpina. Frequenta la scuola
privata dello zio Carlo. Passa nel liceo dell'abate Fazzini, poi nello
"Studio" del Garzini. - Nella
scuola superiore di Basilio Puoti. 1839 - Fonda la scuola privata superiore al vico
Bisi, mentre sostituisce lo zio Carlo nella sua. Viene nominato insegnante nel
Collegio militare della Nunziatella. Combatte alle barricate. Viene sospeso dal
Collegio della Nunziatella. Si ritira in Calabria, a Cosenza. È arrestato e
incarcerato in Castel dell'Ovo. Viene liberato ma deve andare in esilio: in
Piemonte, a Torino. È a Zurigo, insegnante di letteratura italiana al politecnico.
Ritorna a Napoli. Eletto Governatore della provincia di Avellino. Nel settembre
è nominato da Garibaldi Direttore dell'Istruzione pubblica. Provvedimenti per
rinnovare l'Università. Deputato del Regno d'Italia e ministro dell'Istruzione.
Torna agli studi: è il periodo della sua più intensa attività letteraria. - Ministro dell'Istruzione. - Di nuovo Ministro dell'Istruzione - Muore a Napoli. L'atto di nascita è
disponibile sul Portale Antenati Da
notare che all'epoca con "napoletani" (o "napolitani")
sovente non si intendevano solo gli abitanti della città di Napoli e dintorni,
ma più ampiamente gli abitanti dell'intero Regno di Napoli, consistente
nell'attuale Sud Italia continentale. ^ Unita italiana, in Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. . ^ Francesco Saverio De
Sanctis, lettera inviata all’amico Camillo De Meis, Zurigo .Barra, Aspettando
De Sanctis: le origini del Viaggio elettorale e il collegio di Lacedonia nel 1874-75,
in "Le Carte e la Storia, Rivista di storia delle istituzioni" Croce,
Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, a cura di
Audisio, Napoli, Bibliopolis E, come critico e storico della letteratura, egli
non ha pari» ^ Francesco De Sanctis, Scritti politici - raccolta di discorsi e
scritti, su books.google.it. ^ Scrittori, poeti e letterati massoni in Internet Archive. sul sito della Gran
Loggia d'Italia degli Alam. ^ Paolo Mariani - Massoneria e letteratura italiana
(PDF), su centroculturaleilfaro.it. ^ Premio De Sanctis per la saggistica, su
beniculturali.it. ^ Giuseppe Galasso, De Sanctis e i problemi della storia
d'Italia, sta in Archivio di storia della cultura, a. II - , Morano Editore,
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Fabrizio Serra Editore, 2020. Voci correlate Storia della letteratura italiana
(Francesco De Sanctis) Schopenhauer e Leopardi, dialogo composto da De Sanctis
Francesco Muscogiuri, letterato minore che fu allievo di De Sanctis Giovanni
Lanzalone, letterato minore che fu allievo di De Sanctis Antonio Fogazzaro
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Francesco, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, De
Sànctis, Francésco (critico e storico della letteratura), su sapere.it, De Agostini.
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Sanctis, Francesco, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1970. URL consultato il 14 novembre 2018. Andrea Battistini, De
Sanctis, Francesco, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2012. URL consultato il
14 novembre 2018. Critica:De Sanctis, su spazioinwind.libero.it. Concordanze
della Storia della letteratura italiana, su valeriodistefano.com. URL
consultato il 14 aprile 2007 (archiviato dall'url originale l'8 ottobre 2007).
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dell'VIII legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della IX legislatura del Regno
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legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della XII legislatura del Regno
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d'ItaliaCritici letterari italiani del XIX secoloSaggisti italiani del XIX
secoloPolitici italiani del XIX secoloNati nel 1817Morti nel 1883Nati il 28
marzoMorti il 29 dicembreNati a Morra De SanctisMorti a NapoliPolitici del
Partito d'AzioneMinistri della pubblica istruzione del Regno d'ItaliaInsegnanti
della NunziatellaGoverno Cavour IVGoverno Ricasoli IGoverno Cairoli IGoverno
Cairoli IIIIdealismo italianoMassoniProfessori dell'Università degli Studi di
Napoli Federico II
Professori del
Politecnico federale di Zurigo[altre] La crisi della GRAMMATICA RAGIONATA IN
ITALIA non puo mancare : ed è veramente risolutiva. Di GRAMMATICA RAGIONATA si
finisce, dopo una colluvie d’aride o elementari produzioni di epigoni
ritardatari, col non parlarne più, e d’essa non restano tracce che
nell’esercitazioni scolastiche di analisi logiche e grammaticali ancora in uso
nelle nostre scuole e sulle quali talvolta rispunta come fungo qualche
compendio di grammatica logica rivestito di pompa scientifica. La crisi è
determinata da un duplice ordine di fatti, tra i quali non so se veramente
corra un'intima relazione. L’uno che riguarda direttamente il corpo, dirò così,
della GRAMMATICA RAGIONATA, ed è il non difficile né tardivo avvertire in esso
un vuoto sostanziale e perciò tutta la sua infecondità sotto ogni rispetto,
scientifico e didattico. L’altro che si riferisce allo stato in che venne a
trovarsi la lingua italiana sotto la bufera dell'enciclopedismo, ed è la
naturale quanto però anti-filosofica reazione al gallicismo, che doveva richia-
[Borsa, nella Dissertazione del decadimento della lingua in Italia, Mantova,
l'anno in cui è pubbl. il Saggio di Cesarotti) già incolpa appunto di quel
decadimento il neologismo gallico e il FILOSOFISMO enciclopedico.] mare, come
facile conseguenza di una premessa sbagliata, alla religiosa osservanza, alla
maniaca adorazione degl’antichi i puristi inorriditi al novissimo strazio
d'Italia. Le vicende di questa crisi si possono molto chiaramente osservare, da
una parte, in quel che accadde a SANCTIS (si veda) scolaro e co-operatore di
Puoti, e che egli narra non senza il lume d'una critica sempre nuova e
originale e acuta, anche se, come in questo caso, non definitivamente
superatrice. Dall'altra, nella critica e nella pratica di Manzoni, che con
stringenti argomenti colpi a morte LA GRAMMATICA RAGIONATA, sebbene non muove
da un punto di vista estetico. SANCTIS (si veda), quando accorse alla scuola di
Puoti, ha già compiuto gli studi di grammatica, rettorica e FILOSOFIA, che oggi
corrispondono al ginnasio e al liceo, i primi (ginnasio) sotto suo zio Carlo, i
secondi (liceo) sotto Fazzini, non avendolo voluto ricevere i Gesuiti per la
sua impreparazione. Un grand 'esercizio di memoria era in quella scuola dello
zio, dovendo ficcarci in mente i versetti del Portoreale che s'impara in certi
suoi manoscritti, come le antichità e la cronologia, la grammatica di Soave, la
rettorica di Falconieri, le storie di Goldsmith, la Gerusalemme di Tasso, le
ariette di Metastasio. Alla fine del corso scrive l'italiano con uno stile
pomposo e rettorico, un italiano corrente, mezzo gallico, a modo di Beccaria e
di Cesarotti, ch'erano i suoi favoriti. La scuola di Fazzini è quello che oggi
si dice un liceo. Vi s' insegna FILOSOFIA, fisica e matematica. Il corso si puo
fare in due anni. Quell'è l'età dell'oro del libero insegnamento. Un uomo di
qualche dottrina comincia la sua carriera aprendo una scuola. La scuola di
Puoti, su cui è stata scritta recentemente una degna monografia da un discepolo
di Salvadori (Caraffa, Puoti e la sua scuola, Girgenti), si svolge in tre
periodi, l’ultimo dopo due anni d'interruzione causata dalla pestilenza
scoppiata a Napoli. SANCTIS (si veda) - Frammento autobio- grafico pubblicato
«fo Villari ; Napoli. I seminari sono scuole di LATINO e di FILOSOFIA, le
scuole del governo erano affidate a frati, la forma dell' insegnamento era
ancora scolastica. Rettorica e FILOSOFIA sono scritte in quel LATINO
convenzionale ch’è proprio degli scolastici. Le scienze vi erano trascurate, e
anche LA LINGUA NAZIONALE. Nondimeno un po’di secolo decimottavo è pur
penetrato fra quelle tenebre teologiche, e con curioso innesto, vedevi andare a
braccetto il sensismo e lo scolasticismo. Nelle scuole della capitale v'è
maggior progresso negli studi. IL LATINO PASSA DI MODA. Si scrive di cose
scolastiche in un italiano scorretto, ma chiaro e facile. Gl’autori erano quasi
tutti abati, come l'abate GENOVESI (si veda), il padre SOAVE (si veda), l'abate
TROISE (si veda). Allora è in molta voga l'abate FAZZINI (si veda). Questo
prete elegante, che ha smesso sottana e collare, veste in abito e cravatta
nera, è un sensista; ma pretende conciliare quelle dottrine coi principii
religiosi. Accanto alla scuola, per chi ha voglia d' imparare, c’è naturalmente
la biblioteca. Corsi alla biblioteca e mi ci seppellii. Passano dinanzi a me
come una fantasmagoria Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, La Mettrie...
Mi ricordo ancora quella STATUA di Bonnet, che a poco a poco, per mezzo dei
sensi acquista tutte le conoscenze. Il professore dice che il sensismo è una
cosa buona sino a Condillac, ma non bisogna andare sino a La Mettrie e ad
Elvezio. Ragione per cui ci anda SANCTIS (si veda) con l'amara voluttà della
cosa proibita. Compiuti così gli studi filosofici, avvezzo a una vita
interiore, avevo pochissimo gusto per i fatti materiali, e badavo più alle
relazioni tra le cose, che alla conoscenza delle cose. La scuola ci ha non
piccola parte, perchè è scuola di forme e non di cose, e si attende più ad
imparare le parole e le argomentazioni, che le cose a cui si riferivano. Ma si
avvicina il [Ha già conosciuti altri filosofi, naturalmente. «Il professore fa
una brillante lezione sull'armonia prestabilita di Leibnizio. E questo
Leibnizio divenne il mio filosofo E come l'una cosa tira l'altra, Leibnizio mi
fu occasione a leggere Cartesio, Spinoza, Malebranche, Pascal, libri divorati
tutti e poco digeriti. Questo è il mio corredo d’erudizione filosofica verso la
fine dell'anno scolastico, quando zio ci dice. Ora bisogna cercarvi un maestro
di legge. Si batte già alle porte dell'Università.] tempo in cui il sensismo,
male accordato col movimento religioso, doveva cedere il passo a nuova
filosofia. Si annunziava al mio spirito un nuovo orizzonte filosofico; mi
bollivano in capo nuovi libri e nuovi studi. Si apparecchiavano i tempi di
Galluppi e dall'abate Colecchi, de' quali l'uno volgarizzava Hume e Smith, e
l'altro, ch'era per giunta un gran matematico, volgarizza Kant. Fazzini è
caduto di moda. Per questi insegnamenti e in queste condizioni intellettuali il
De Sanctis, invano iniziati gli studi di legge, passava alla scuola del
marchese. È proprio di questi tempi che la grammatica del sensismo
condillachiano, che vedemmo trionfare concentrata in estratti per gli stomachi
degli scolaretti italiani, si vienne a trovare a fronte di due ben forti e
agguerriti avversari, il kantismo e il purismo. Questo, dalla restaurazione
linguistica di Cesari, iniziata con la famosa dissertazione coronata
dall'Accademia livornese, era venuto sempre più guadagnando terreno nelle forme
in cui l'aveva circoscritto Cesari, nonostante gli attacchi della Proposta
monti-perticariana e dell’anti-purismo tortiano, e nonostante l'esempio pratico
del romanzo manzoniano in cui fin dalla prima sua edizione s' era voluta
incarnare tut- t'un'altra dottrina linguistica. La reazione al gallicismo è
tanto più vasta e tenace della tesi temperata del classicista Monti e del
modernismo del romantico Manzoni, quanto più compromessa sembrava la gloria
d'Italia nella dilagante corruzione dell'aurea favella un dì sì onorata. Ne
furono rocche meno facilmente espugnabili la Romagna e Napoli e organi di gran
voce alcuni giornali, come la Biblioteca di Milano, il Giornale Arcadico di
Roma e la Rivista enciclopedica di Napoli. Ma tra i puristi, non per sola virtù
di dottrina, sì bene anche per le qualità della persona e i modi
dell'insegnamento, il più autorevole, quegli che veramente esercitò una più
vasta e duratura efficacia sulle menti, sulle scuole, sui metodi, sui (') Op.
cit., pp. 51-2. ("} V. Tkahai.za, Della vita e delle opere di /•'. Torti
cit., p. 79 sgg. L'ha dimostrato Morandi ne' suoi noti saggi sull'unità della
liaeua.] libri, è il marchese Puoti, maestro, autore di grammatiche e di arti
del dire, annotatore di testi di lingua, pedagogista. Alla scuola del Puoti,
dice SANCTIS (si veda), « lasciai studi di FILOSOFIA e di legge, e letture di
commedie, di tragedie e di romanzi e di poesie, e mi gittai perdutamente tra
gli scrittori dell' aureo Trecento»^). M'era venuta la frenesia degli studi
grammaticali. Avevo spesso tra mano Corticelli, Buonmattei, Cinonio, Salviati,
Bartoli, Salvini, Sanzio, e non so quanti altri dei più ignorati. M'ero gittato
anche sui Cinquecentisti, sempre avendo l'occhio alla lingua. Si trova in quel
tempo a dover sostener sulle proprie spalle il peso della scuola dello zio. La
sera anda sempre alla scuola di Puoti. Ma tutta la giornata è spesa a spiegar
grammatiche e rettoriche e autori latini, a dettar temi, a correggere errori.
Ma quei cari studi mi riuscivano acerbi, non solo per la fatica, ma perche non
sono più d'accordo con la mia coscienza. Quel Soave, quel Falconieri li fanno
pietà. Nelle classi superiori puo elevarsi un po' più. Cominciai a fare
osservazioni sopra i sensi delle parole, sul nesso logico delle idee, sulla
espressione del sentimento, sulle INTENZIONI e sulle malizie dello scrittore.
Momenti più deliziosi passa alla scuola del marchese, dove egli ben presto si
distinse specie nelle cose della grammatica, tanto da meritarsi l'appellativo
di grammatico, ed è sollevato all'onore di coadiuvare il maestro
nell'insegnamento, quando, dopo l'interruzione cagionata dal colera, Puoti,
cominciatosi a stancare dei novizi, ne lascia tutta la cura a SANCTIS (si
veda). Il marchese che lavora a una grammatica, attende pure alla pubblicazione
di alcuni testi di lingua più a lui cari, come i Fatti d' Enea, i Fioretti di
S. Fra?icesco, le Vite dei Santi Padri. Questi studi [Sulla scuola del De
Sanctis, v. le belle pagine del Cenno biografico di Nicola Gaetani-Tamburini in
De-Sanctis, Scritti vari, li, ed. Croce, già cit. nell' Introduz. Di quella che
è stata chiamata la seconda scuola di SANCTIS (si veda) si sono occupati
degnamente, come è noto, Torraca e Mandalari.] di lingua si sono già divulgati
nelle scuole, e si sente il bisogno di grammatica e di libri di lettura pei
giovanetti. Anche in questi lavori l'allievo aiuta il maestro. Di questo tempo
fa intima amicizia con Amante, che è un infatuato di VICO (si veda). In una
visita onde Leopardi onora la scuola del Puoti, — che cita spesso con lodi
l'abate Greco, autore di una grammatica, il marchese di Montrone, Gargallo,
Cesari e sopra tutti essi Giordani, si sentì dire dal Poeta che aveva molta
disposizione alla critica. In quell'occasione Leopardi, cui non poteva sfuggire
la rigidezza di Puoti, dice che nelle cose della lingua si vuole andare molto a
rilento, e cita in prova Torto e Diritto di Bartoli. Leopardi dice anche che
l'onde coli' infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o
scandalo di tutti noi. Il Marchese era affermativo, imperatorio, non pativa
contraddizioni. Se alcuno di noi si è arrischiato a dir cosa simile, anda in
tempesta; ma il conte parla così dolce e modesto, ch'egli non dice verbo. Gli è
anche che ormai quel rigido, implacabile purismo comincia a dover piegare o
almeno ad ammollirsi . Alla ripresa della scuola dopo il colera il marchese se
n'era venuto d’Arienzo, con certi grossi quaderni scritti di suo pugno. È una
specie di nuova rettorica immaginata da lui, e che egli battezza Arte dello
scrivere. C'è una divisione dei generi dello scrivere, accompagnata da regole e
da precetti. Aristotile, CICERONE (si veda), Quintiliano, Seneca sono la
decorazione. O mi metteranno alla berlina, o questo è assolutamente un
capolavoro, così dice, narrando per quali vie era giunto alla grande scoperta.
A quel tempo sono in gran voga gli STUDI FILOSOFICI, e il marchese, seguendo la
moda, vuole filosofare anche lui, e da alle sue ricerche un aspetto e un rigore
di logica, ch'è veste e non sostanza. E non gli è mancata la berlina. Ma lo
salva un certo suo naturai buon senso. Ma chi dai bassi fondi [deep berths –
Grice] della grammatica prende il volo filosofico, è SANCTIS (si veda), specie
quando, trovandosi al sicuro dallo sguardo del marchese nella scuola
preparatoria, puo lasciarsi trascinar dal suo genio a quell'onda di ribellione,
che fa naufragare il senno del Maestro. Ed è nella scuola preparatoria, che
nelle lezioni private o nell'insegnamento del Collegio militare, al quale è
assunto per la stima che godeva presso Puoti, che n'è ispettore, il Maestro
intede soprattutto a rinnovare l'insegnamento grammaticale. Ne uscirono, con la
liquidazione della GRAMMATICA RAGIONATA, un abbozzo di GRAMMATICA FILOSOFICA e
storica e un saggio di una storia dei grammatici. Quelle maledette regole
grammaticali io le ridussi in poche, moltiplicando le applicazioni e gl’esempi,
e sempre lì sulla lavagna. Mi persuasi che quello resta chiaro e saldo nella
memoria, che è ordinato sotto categorie e schemi, logicamente. Così nasceno i
suoi quadri grammaticali. Si sbriga della grammatica, e capii che lo studio
della grammatica così come si suol fare, per regole, per eccezioni e per casi
singoli, è una bestialità piena di fastidio Posi da banda le analisi
grammaticali e l'analisi logica, noiosissime, e fa l'analisi delle cose, a loro
gustosissime. Questo al Collegio. Nella scola al Vico Bisi, il lunedì e il
venerdì, quand'è solo, l'insegnamento grammaticale si eleva ancora di più.
Parecchi anni è a leggicchiar grammatiche, lavorando intorno a quella di Puoti.
Così si mette in corpo i Dialoghi della volgar lingua di BEMPO (si veda)...
m'inghiottii VARCHI (si veda), FORTUNIO (si veda) e i sottili avvertimenti di
SALVIATI (si veda) e la prosa dottorale di CASTELVETRO (si veda) e BARTOLI (si
veda) e CINONIO (si veda) ed AMENTA (si veda) e SANZIO (si veda) e non so
quanti altri autori, con approvazione del marchese Puoti, il quale mi vanta
sopra tutti gli altri Corticelli e Buonmattei. Seccatosi presto della parte
riguardante le origini della lingua e delle forme grammaticali, perchè non ha,
fondamento sodo, infastidito di quel pullular perpetuo di regole e d’eccezioni,
stordito da tutte quelle DISSERTAZIONE SOTTILI E CAVILLOSE SULLE PARTI DEL
DISCORSO e sulle forme grammaticali, ritorna ai suoi antichi studi di
FILOSOFIA. Quei Salviati e quei Castelvetri le pareno addirittura pigmei
dirimpetto a quei grandi, mia delizia un giorno e mio amore. Perciò si getta
con avidità sopra i retori e i grammatici con un segreto che li cresce
l'appetito, vedendosi sempre addosso gli occhi del marchese. Lessi tutto il
corso che Condillac compila a uso di non sa qual principe ereditario. Studia
molto Tracy e Du Marsais. Il Marchese, sapido dei miei studi MI perdona, a patto
che non valica i confini della grammatica, e m'indica un tale, che SANCTIS (si
veda) non ricorda, come un buon scrittore di grammatica generale. Il buon
Marchese fa anche di più: rivide le prolusioni del professore mettendoci quello
stampo tutto suo di classicità ideale. Le prime lezioni sono una storia della
grammatica. In quei discorsi prende 1’aria di un novatore, e trova che tutto va
male, che tutto è a rifare. Ecco qui un ritratto, come mi venne in quei giorni
sotto la penna. Niuna pratica dell'arte dello scrivere; niuna cognizione de'
nobili scrittori; malvagio gusto; pensieri non italiani; un predicar continuo
purità, correzione; esempli contrari di barbarismi ed errori. Così la
grammatica moderna ricca di stranieri trovati splendidi in astratto, ma nella
pratica o falsi o di poco profitto, per difetto della parte storica molto è
discapitata di quella perfezione in che è al cinquecento. In malvagio stato
trovasi LA SINTASSI: squallida e incerta è l'ortografia; le regole del ben
pronunziare dubbiose e mal ferme. Niente di certo. Niente di determinato
intorno alla dipendenza de’tempi, al reggimento delle congiunzioni. Principii
opposti. Opinioni contrarie. Nelle lezioni vuole fare una storia delle forme
grammaticali – cf. Grice, ‘or’, ‘other, ‘not, ‘ne aught’. Ma al pensiero
gigantesco mal risponde la cultura, attesa la sua scarsa grecità e l'ignoranza
delle cose orientali. Perciò quella ideata storia delle forme grammaticali,
dopo vani tentativi appresso a VICO (si veda) e Schlegel, si riduce nei modesti
confini di una storia dei grammatici da se letti. Parla dei grammatici che
TUTTO DERIVANO DAL LATINO. Poi venni a quelli che sono studiosi della [Alcuni
brani di essi furono pubblicati ne' Nuovi saggi critici, col titolo Frammenti
discuoia, dell'ed. di Napoli. Il periodo tra parentesi quadre, che qui è
sostituito dai puntini, l'ho tratto da un brano integro de' Nuovi saggi
critici.] lingua, copiosi di regole e d’esempli, che moltiplicano in infinito.
Molto s’intrattenni su Corticelli, Buonmattei, Salviati e Bartoli. Censura quel
moltiplicare infinito di casi -- cf. Grice, the search for principle of
generality -- e di regole che si riduceno in pochi principii. Quella tanta
varietà di forme e di significati (massime nel Cinonio), che era facile
ricondurre ad unità. Facevo ridere, pigliando ad esempio Va, il per-, il da,
irti di sensi e che pur non avevano che un senso solo. La mia attenzione andava
dalle forme al contenuto, dalle parole alle idee; sicché, sotto a quelle
apparenze grammaticali, variabili e contraddittorie, io vedeva una logica
animata, e tutto metteva a posto, in tutto discerneva il regolare e il
ragionevole, non ammettendo eccezioni e non ripieni e non casi arbitrari. Con
questa tendenza filosofica, corroborata da studi vecchi e nuovi, io conciavo
pel di delle feste i Cinquecentisti, e facevo lucere innanzi alla gioventù uno
schema di grammatica filosofica e metodica, quale appariva negli scrittori
francesi. Dicevo che costoro erano eccellenti nell'analisi delle forme
grammaticali, risalendo alle forme semplici e primitive : così amo vuol dire io
sono amante. La ellissi era posta da loro come base di tutte le forme di una
grammatica generale. Questo non mi contentava che a mezzo. Io sosteneva che
quella decomposizione di amo in sono amante m'incadaveriva la parola, le
sottraeva tutto quel moto che veniva dalla volontà in atto. I giovani sentivano
quei giudizi acuti con raccoglimento, e mi credevano in tutta buona fede
quell'uno che doveva oscurare i francesi e irradiare l' Italia di una scienza
nuova. E in verità io sosteneva che la grammatica non era solo un'arte, ma
ch'era principalmente una scienza: era e doveva essere. Questa scienza della
grammatica, malgrado le tante grammatiche ragionate e filosofiche, era per me
ancora un di là da venire. Quel ragionato appiccicato alle grammatiche era una
protesta contro la pedanteria passata, e voleva dire che non bastava dare le
regole ma che di ciascuna regola bisognava dare i motivi e le ragioni.
Paragonavo i grammatici o accozzatori di regole agli articolisti, che credevano
di sapere il Codice, perchè si ficcavano in capo gli articoli, parola per
parola, e numero per numero. Ma quel ragionare la grammatica non era ancora la
scienza. Così il De Sanctis, erudito primamente sul Soave in un'atmosfera filosofica,
passato poi per il purismo del Puoti, ritornato con maggior maturità alla
scienza, veniva a una generale liquidazione di tutti i grajnmatici antichi e
moderni, cioè della grammatica ragionata in ispecie, e della grammatica
precettiva in genere, ma non della grammatica come scienza. Che nella sua
critica negativa superasse la grammatica ragionata e creasse veramente la
scienza non si può dire: interamente, come s'è visto, non si appagò dei
migliori grammatici filosofici di Francia, come il Du Marsais ; ma egli, almeno
nel periodo del suo primo insegnamento, secondo quanto narra lui stesso, rimase
sempre sotto la loro influenza. Anche nella parte pratica, nel metodo, egli
arieggia molto davvicino il Du Marsais ('), superandolo nella abilità di trasformar
la grammatica in critica concreta dell'opera d'arte. La sua concezione della
grammatica, o meglio del linguaggio, pur avendo egli concepito una grammatica
scientifica o estetica, è la medesima. Va però subito detto a lode del De
Sanctis, che egli stesso ebbe coscienza, negli anni maturi, della manchevolezza
del sistema. Racconta infatti : « così trovavo nella logica il fondamento
scientifico della grammatica ; e finché mi tenevo nei termini generalissimi di
una grammatica unica, come la concepiva Leibnitz, il mio favorito, la mia corsa
andava bene. Ma mi cascava l'asino, quando veniva alle differenze tra le
grammatiche, spesso in urto con la logica, e originate da una storia naturale o
sociale, piena di varietà e poco riducibile a principi fissi. Per trovare in
quella storia la scienza, si richiedeva altra cultura e altra preparazione.
Nella mia ricerca dell'assoluto, avrei voluto ridurre tutto a fil di logica, e
concordare insieme derivazioni, scrittori e popolo; ma, non potendo sopprimere
le differenze e guastare la storia, ponevo 1'ingegno a dimostrare la conformità
del fatto grammaticale colla logica, della storia colla scienza.
Quell'avvertita irrudicibilità delle differenze tra le varie grammatiche e
principi fissi dimostra chiaramente che SANCTIS (si veda) intuiva dov'era la
soluzione del problema : e a lui non filosofo di professione ciò non è scarso
titolo d'onore; il dissidio egli lo compose, e in grado eccellente, insuperato,
nella critica, nella quale la parola viva, la grammatica parlata dall'arte, fu
da lui illustrata in tutta la sua forza espressiva : scientificamente toccò, in
quegli stessi anni, il risolverlo a Guglielmo di Humboldt, col quale e col suo
seguace e correttore Steinthal si può veramente affermare che la grammatica sia
esclusa dall'orbita della filosofìa, sebbene non avvenisse ancora l'
identificazione della linguistica generale con l'estetica, che è stata fatta
solo recentemente. Nelle difficoltà in cui si dibattè il De Sanctis di
conciliare la grammatica generale con le grammatiche particolari, si trovarono
impigliati quanti, anche per impulso della Critica della ragioyi ptira del
Kant, intesero « alla ricerca delle relazioni fra pensiero e parola, fra V
unicità logica e la molteplicità dei linguaggi » (l)j ricerca che, per altro,
non era nuova, ma che aveva già dato origine in Francia alla grammatica
generale. Il primo tentativo « di applicare le categorie kantiane, dell'
intuizione (spazio e tempo) e dell'intelletto» al linguaggio (")
(riassumo, non potendolo qui integralmente riferire, dal paragrafo XII della
parte storica de\V Estetica di Croce), fu compiuto dal Roth, mentre sullo
stesso argomento, verso il primo decennio del secolo, avevano speculato il
Vater, il Bernhardi, il Reinbeck, il Koch : pensiero dominante de' quali era la
differenza « tra lingua e lingue, tra la lingua universale, corrispondente alla
logica, e le lingue storiche ed effettive, che son turbate dal sentimento,
dalla fantasia, o come altro si chiami l'elemento psicologico della
differenziazione ». Si distingueva una linguistica generale da una linguistica
comparata (Vater) ; la lingua, allegoria dell'intelletto, •si considerava
organo della poesia o organo della scienza (Bernhardi) ; si ammetteva una.
grammatica estetica e una grammatica logica (Reinbeck) ; si proclamò persino
che l' indole della lingua si deve desumere dalla psicologia, non dalla logica
(Koch). Residui intellettualistici s'avvertono ancora nell'Humboldt pel quale
logica e linguaggio sembrerebbero identificarsi sostanzialmente e diversificare
solo storicamente, e il linguaggio stesso (') Croce, Estetica. Recentemente G.
Piazza ha tentato dimostrare che La teoria kantiana del giudizio era stata già
intuita e fissata nella sintassi de' Greci (Roma. 1907); ma è stato confutato
da CROCE (vedasi), in La Critica. parrebbe un qualcosa fuori dell'uomo che
l'uomo fa rivivere con l'uso. Ma il grande filosofo trovò il vero concetto del
linguaggio. La lingua — egli pensò — nella sua realtà è un prodursi e un
divenire, non un prodotto ; è un'attività (èvegyeia), non un'opera (ègyov). «
La lingua propria consiste nell'atto stesso del produrla nel discorso legato:
questo soltanto bisogna pensare come primo e vero nelle ricerche che vogliono
penetrare l'essenza vivente della lingua. Lo spezzettamento in parole e regole
è il morto artificio dell'analisi scientifica»^). Il linguaggio nasce spontaneo
da un bisogno interno. Esiste perciò — ed ecco la vera scoperta dell'Humboldt
di fronte ai grammatici logici universali, una forma interna del linguaggio
(innere Sprachform), che non è il concetto logico, né il suono fisico, ma la
veduta soggettiva che l'ìiomo si fa delle cose. Questa forma interna « è il
principio di diversità proprio del linguaggio, oltre il suono fisico: è l'opera
della fantasia e del sentimento, è l'individualizzazione del concetto.
Congiunger la forma interna del linguaggio col suono fisico, è l'opera di una
sintesi interna : e qui, più che in altro, la lingua ricorda, nelle più
profonde ed inesplicabili parti del suo procedere, l'arte. Anche lo scultore e
il pittore sposano l'idea alla materia, e anche la loro opera si giudica
secondo che quest'unione, quest' intima compenetrazione sia opera del genio
vero, o che l' idea separata sia stata penosamente e stentamente trascritta
nella materia con lo scalpello e col pennello. Ma linguaggio ed arte
nell'Humboldt non s' identificano : e questo è il difetto della sua dottrina,
che tirò seco non tenui contraddizioni, come quella circa il carattere
differenziale della poesia e della prosa. L'Humboldt non vide esattamente « che
il linguaggio è sempre poesia, e che la prosa (scienza) non è distinzione di
forma estetica, ma di contenuto, sebbene intorno a questi due concetti,
compresi in senso filosofico, abbia manifestato profonde vedute. La teoria
linguistica dell'Humboldt fu integrata dal suo maggior seguace, lo Steinthal il
quale, nella polemica sostenuta (M Ueb. d. Verschiendenheit d. menschl.
Sprachbaucs, opera postuma (2M ed. a cura di A. F. Pott, Berlino), in Croce.
Croce. Croce. coll'hegeliano Becker, «autore degli Organismi del linguaggio,
uno degli ultimi logici della grammatica », dimostrò, pur tra affermazioni
talvolta eccessive, « che concetto e parola, giudizio logico e proposizione
sono incomparabili. La proposizione non è il giudizio; ma è la rappresentazione
( Darstellung) di un giudizio: e non tutte le proposizioni rappresentano
giudizi logici. Parecchi giudizi possono esprimersi in una proposizione unica.
Le divisioni logiche dei giudizi (i rapporti dai concetti 1 non hanno
corrispondenza nella divisione grammaticale delle proposizioni. " Parlar
di una forma logica della proposizione è una contraddizione non minore che se
si parlasse àttW angolo di un cerchio o della periferìa di un tria?igolo
". Chi parla, in quanto parla, non ha pensieri, ma lingua. Senza entrar
ora nel merito degli altri problemi trattati dallo Steinthal, come quello circa
l'identità deWorigine e della natura del linguaggio che esattamente risolvette,
e l'altro delle relazioni tra poetica, rettorica e linguistica, cioè tra linguaggio
e arte che interessa propriamente l'estetica, e che purtroppo Steinthal lascia
insoluto, perchè non arriva mai ad affermare che parlare è parlar bene e
bellamente, o non è punto parlare, a noi basta l'osservar, qui, conchiudendo,
il nostro discorso che con Humboldt e Steinthal, in quanto l'uno integra
l'altro e lo rende coerente nella parte linguistica, si ha un primo notevole
superamento della grammatica, non essendo questa soluzione pregiudicata dalla
mancata identificazione di arte e linguaggio: la liberazione del linguaggio
dalla logica, la riconosciuta completa autonomia del linguaggio da categorie di
qualsiasi altra specie che non siano la sua forma interna essenziale,
rappresentano la prima vera vittoria della critica negativa della grammatica.
La dissoluzione della quale viene così a coincidere perfettamente con l'avvento
della scienza. La ribellione e la reazione alla GRAMMATICA RAGIONATA quale si è
venuta sistemando in Italia, se non assunsero dovunque quel grado e quel tono
che ebbero in S., seguirono, [Croce] però, su per giù, il medesimo sviluppo e i
medesimi motivi: da una parte riusce difficile specie a letterati di più largo
ingegno, come vedremo accadere, p. es., a Giordani (Puoti stesso abbiamo visto
concedere a Sanctis uno studio discreto di quella grammatica), il chiuder
gl’occhi a quelle ELEVATE E SCINTILLANTI (alla Grice) INVESTIGAZIONI logiche
che sulle lingue avevan condotto i galli, incomparabilmente più geniali e
profondi dei loro epigoni italiani. L’aria è impregnata di logicismo, tutto
suona FILOSOFIA, il secolo era chiamato dei lumi: chi può sottrarsi alla forza
delle cose e del tempo? dall'altra, la vacuità di quel nuovo formalismo, pel
fine pedagogico che ora s'impone, non richiede tanto un troppo ELEVATO SPIRITO
FILOSOFICO per essere avvertita, quanto il fatto stesso dell'esperienza dello
studio linguistico. Si puo credere, ancora, nella grammatica generale,
raccomandarne l'utilità (e come si potesse fare anco per ispirito d' imitazione
e per servilismo verso la moda corrente, non occorre dire); ma, già, anche a
tacer d'altro, con la grammatica generale eravamo già fuori del campo
de’bisogni pratici. La grammatica generale è come un'estetica logica della
lingua, quindi FILOSOFIA, e noi sappiamo che la scienza non è espediente
didattico, mentre il motivo principale dell'interesse linguistico è ora in
Italia più pratico che teorico. L'assoluta inefficacia inoltre della GRAMMATICA
logica a dirigere l'apprendimento della lingua e l'esercizio dello scrivere
dove essere tanto più fortemente sentita, quanto più dilaga il gallicismo nella
lingua e nello stile: il ritorno alla vecchia pratica grammaticale e all'
osservazione dei lodati scrittori, dove apparire come una urgente necessità; e
vi si ritorna infatti con fede rinnovellata e sotto la bandiera del più
rigoroso purismo inalberata dal Bembo dell'Ottocento, Cesari, coronato alfiere
dall'Accademia livornese, qual s'è mostrato degno d'essere con la nota
Dissertazione sopra lo stato della lingua}; e, in ogni modo, con o contro Cesari
per gli scrittori o pel popolo, la pratica dove prevalere sulla teoria
astratta; perfin nella grammatica em- [In Opuscoli linguistici e letterari di
Cesari, raccolti, ordinati e illustra/i ora la prima rolla da Guidetti, Reggio
d'Emilia, Collezione storico-letteraria presso il compilatore.] pirica,
normativa, tradizionale, presso non gli scapigliati ma i pedanti, la vecchia
fede se non scossa, certo fu illanguidita. La tradizione puristica, peraltro,
non era stata interrotta nella seconda metà del Settecento, neppur quando più
imperversò la bufera del filosofismo francese. Già prima che il rappresentante
più autorevole di esso in Italia, il Cesarotti, fosse stato, appunto in nome
della vecchia grammatica, contraddetto — ricordammo già, tra gli altri, l'ab. Velo
— « con uno stile forbito e piccante », come dicono i suoi editori, si sforza
Rosasco « di rivendicare ai Fiorentini il tanto contrastato primato intorno
all'origine ed al governo della favella », introducendo nei suoi Dialoghi sette
della Lingua toscana a pontificare il Corticelli su lesecolari questioni,
sull'autorità dei grammatici, sulla necessità imprescindibile dello studio
della grammatica, di contrastare al nuovo sistema de' letterati propugnanti
l'uso d'un'altra lingua diversa dalla fiorentina, con tutto il bagaglio de'
vecchi argomenti grammaticali e rettorici in favore della purità, della armonia
e dolcezza della pronunzia fiorentina, dell'elegante stile, e con le
vecchissime distinzioni di discorso impensato e di discorso pensato. « Eh via,
la legge che ne obbliga a studiare la grammatica, è giustissima, e chiunque
brama riportar gloria dal materiale della scrittura, dovrà o bere o affogare,
siesi chi egli si vuole ». E cita in sostegno il Salviati, Quintiliano e altri.
Va notato peraltro che il Rosasco non solo propugna la necessità di uniformarsi
anche all'uso moderno, ma giudica ancora, sebbene coi soliti argomenti
estrinseci, che « non dobbiamo per conto alcuno desiderare la perfezione delle
grammatiche, si perchè non si può questo desiderio avere, senza desiderare
insieme la estinzione della lingua ; sì perchè quando siamo obbligati a scriver
solo secondo le regole e' precetti dell'arte prescritti, non è mai possibile
rendere le nostre scritture eccellenti »(') : residui, come ognun vede, delle
dottrine estetiche prevalenti nel senso che volevano conciliare il rigore
grammaticale col criterio della libertà individuale : temperato purismo, che,
mentre per un lato moveva dall'antica tra Ed. della Bibl. scelta, Milano,
Silvestri] dizione grammaticale del classicismo, per l'altro era reso possibile
dal non essersi ancora la lingua italiana inoltrata pel declivio della
cosiddetta corruzione francesistica. Quando questa si accentuò maggiormente,
era naturale che l'iniziativa del riparo partisse dalla Crusca custode gelosa
del patrimonio linguistico: e già il ricordato Borsa nel 1785 prote- stava
contro il decadimento della lingua, e nel 1798 da Losanna un suo Accademico,
Federico Haupt, scriveva la Lettera dun tedesco stili' infranciosamento dello
stile, com'è naturale che la rifioritura linguistica fosse più di vocabolario
che di gramma- tica ; lo stesso lavorìo grammaticale, il più notevole dei
primordi del secolo XIX, s'aggirò, come vedemmo, intorno a quella parte della
grammatica che è più intimamente connessa col vo- cabolario, i verbi, di cui
sorsero parecchi prospetti e teoriche. E a studi di lingua, ossia di
vocabolario, si era volto nel 1806 l'Istituto lombardo, fondato dal Bonaparte e
convocato a Bologna, di cui era segretario quel Muzzi che già incontrammo quale
autore del curioso libro sulle Permutazioni dell' italiana orazione, e che,
dopo essersi divertito e gingillato intorno a problemi filosofici secondo la
moda d'allora pe' quali non era affatto portato, si immerse talmente negli studi
gram- maticali e lessicali e con si vero spirito di devozione alla Crusca, che
il Monti doveva titolarlo più tardi « il più fatuo pedantuzzo che mai facesse
imbratti d'inchiostro » (l). Partecipò nel 1809 al concorso dell'Accademia
livornese con un lavoro Dello siato e del bisogno di nostra lingua, ma il
manoscritto, per ragioni regolamentari, non fu accettato. Come sappiamo, di
quel concorso il trionfatore fu Antonio Cesari, odiatore quanto il Giordani,
delle dottrine del Cesarotti, che, se avevano ancora seguaci dal Romani al
Nardo, andavano però perdendo terreno sempre più : quegli stessi che le propu-
gnavano — si avverta inoltre — erano assai più temperati del maestro e si
guardarono meglio di lui dall'esser accusati di gal- lofilia : verso l' italianità
era un desiderio e un moto generale, cui favoriva la ridesta coscienza
nazionale: cesariani e pertica- riani o mondani, neopuristi della prima maniera
(cioè anteriore) e della seconda, tutti concordavano non solamente nel- In
Mazzoni, L'Otl.] l'avversare i criteri troppo licenziosi de' cesarottiani, ma
ne! volere — auspice la Crusca per la quinta volta rimessosi nel 1813 alla
ricompilazione del Vocabolario — che alle sottili fantasti- cherie sulle
ragioni delle lingue si sostituisse il lavoro concreto e modesto del
raccogliere e del vagliare voci e locuzioni del buon uso e a riprendere
l'osservazione grammaticale secondo le migliori tradizioni del Cinquecento.
Balbo scrive al Vidua una lettera sulla lingua italiana per muover lamenti
intorno le tante esagerazioni e confusioni pratiche e teoriche del filosofismo
che non giovavano punto alla causa della lingua: e Vidua raccomandava a un
compatriotta che, an- dando a Firenze come avevan fatto già l'Alfieri e il
Goldoni, e avrebbe fatto il Manzoni e avrebbero consigliato al Cavour, non
trascurasse di recarsi la mattina in Mercato Vecchio ad ascoltar il
pizzicagnolo e le contadine. E alla Crusca stendeva la mano l'Istituto lombardo
per proseguire concordi all'opera d'amplia- mento del Vocabolario: né le
ripulse dell'Accademia orgogliosa e gelosa delle sue secolari tradizioni né i
risentimenti e le irri- tazioni, causa di tante guerre anche personali, che
esse provo- carono nel Monti, poterono mai dividere gli animi concordi nella
comune avversione al logicismo, alle metafisicherie di provenienza
franco-cesarottiana, nonostante che, per quanto riguarda i criteri particolari
dell'uso linguistico italiano (pratica, dunque, non scienza), facilmente
potessero incontrarsi col Cesarotti in un vivo desiderio di libertà, e spesso
inconsciamente (come sarà av- venuto al Leopardi) (' ), non soltanto gli
antipuristi come il ce- sarottiano Torti di Bevagna, ma letterati meno bollenti
nella se- colare battaglia. N'è prova l'atteggiamento assunto dal capo
riconosciuto de' classicisti, il Giordani, nelle contese tra il Cesari, Monti e
Perticari : « richiesto del vero valore di alcune voci tolte dal greco, rispose
[al Monti] e colse quell'occasione per lodare l'opera e il suocero e il genero,
ma anche per addimostrare al- cune sviste di essi due correttori degli altri, e
per augurare che gli avversari si riconoscessero invece compagni, come quelli
che insomma avevan un fine medesimo e uno stesso desiderio. Cfr. F. Colagrosso,
La teoria leopardiana della lingua, Na- poli, 1905 (Estr. d. Rend. Accad. Arch.
Lett. e B. A. in Napoli. Mazzoni. Pure, il Giordani è appunto uno di quei
puristi che racco- mandavano ai giovanetti il Du Marsais e il Beauzée. « I
volumi della Enciclopedia Metodica ne' quali è trattata la grammatica e l'
eloquenza ti possono essere utili. Gli articoli rettorici di Marmontel non mi
paiono più che mediocri ; quelli di Jancourt assai meno che mediocri. Ma
bellissimi i grammatici di Du Marsais, e di La-Beauzée. E il conoscere e
adoperare filosofi- camente la lingua è gran virtù di eccellente scrittore. E
pron- tamente si applica alla nostra quel che è notato della francese. Ma che
cosa significa adoperare filosoficamente mia lingua ? specie quando la si
consideri, come fa il Giordani, cosa diversa dallo stile? Interrompi,
consiglia, con la lettura di quegli arti- coli, « lo studio che devi far della
lingua, e preparati a quello che poi farai dello stile. Perchè io giudico che
quello della lingua debba precedere. Non si dee prima sapere qual sia la
materia de' colori ; poi imparare ad impastarli e mescolarli ; poi esercitarsi
a collocarli, e accordarli ? » (io). Tutto lo scrivere sta nella lingua e nello
stile; due cose diversissime egualmente necessarie.... I vocaboli e le frasi
sono i colori di questa pittura; lo stile è il colorito. — Ora persuaditi, caro
Eugenio, che l'ac- quisto de' colori sia fatica della memoria : l'uso del
colorito sia esercizio d'ingegno, disciplina di buoni esempi, di pochi pre-
cetti, di moltissima osservazione, di molta pratica. Ho letto molti antichi e
moderni che vollero esser maestri : ho perduto tempo e acquistato noia, senza
profitto. Veri maestri ho trovato gli esempi de' grandi scrittori. Tra i mo-
derni consiglia, tuttavia « il breve trattato del Condillac, Art d'écrire. Di
tutto quel libro abbastanza buono, m' è rimasto in mente questo solo principio,
molto raccomandato da lui = de la plus grande liaison des idées .... Vero è che
quel legame delle idee non deve esser sempre logico ; ma secondo la materia che
si tratta, dev'esser pittorico o affettuoso; di che i moderni intendon
pochissimo : gli antichi vi furono meravigliosi » (pa- gine 153-4). In questo
guazzabuglio di vedute, d'idee e di prin- cipi, c'è tutto, meno lo spirito
filosofico : dal che si vede quanto (') A un giovane italiano - Istruzione per
l'arte di scrivere, in Scritti di Giordani, ed. Chiarini, in Firenze.] poco
fosse compresa e con quanto poca convinzione raccoman- data la grammatica
generale del Du Marsais e del Beauzée. Il nume che agitava interiormente il
Giordani e i degni suoi com- pagni d'arme non era la filosofia, ma lo spirito
italiano che si rinnovava, rinnovamento che alla coscienza di molti si presen-
tava come un problema di lingua : donde il calore con cui si davano a questi
studi. Il Giordani, mosso dall'invito dell' Acca- demia italiana, « non per
rispondere » ad essa, per ciò che « questa materia non sia d'ozio letterario
.... ma importi non poco all'onore d'Italia », si dà ad abbozzare una Storia
dello spirito pubblico d' Italia per 600 considerato nelle vicende della lingua
e alcuni anni più tardi, discorrendo in una lunga lettera al Capponi di una
raccolta in trenta volumi che intendeva fare delle migliori e men note prose
della nostra letteratura, allargando e colorendo le linee di quel primitivo ab-
bozzo, esprimeva l'opinione che l'ordine escogitato lo menerebbe « quasi per
una storia della nazione e della lingua, e che dalla somma dei particolari
discorsi introduttivi ne sarebbe de- rivato « quasi un ritratto filosofico
delle menti italiane per quat- tro secoli ». « Perciocché io considerando la
lingua come uno specchio, nel quale cadano tutti i concetti da tutti i pensanti
della nazione, e dal quale nella mente di ciascuno si riflettano i pensieri di
tutti ; volli con diligenza di storico e sagacità di filosofo esaminare il
vario corso del pensare italiano per le ve- stigia che di mano in mano lasciò
impresse nel variare delle lingua; della quale i vocaboli e le frasi, o
nuovamente intro- dotte, o dall'antico mutate, fanno certissimo testimonio (a
chi '1 sa interrogare) d'ogni mutamento nella vita intellettiva del po- polo.
Così il Giordani si riallaccia al Napione. Tra il Napione e il Giordani spicca
anche per questo ri- guardo il Foscolo, che nella celebre orazione, recitata a
Pavia Opere, t. IX: « Scritti editi e postumi pubbl. da Antonio Gus- salli »,
Milano. f;) Scritti, ed. Chiarini. Per l'eccellente posizione che occupa il
Foscolo nella storia della critica, oltre che le note pagine del De Sanctis,
vedi Croce, Per la storia della critica ecc., già cit., p. 9 e 27, Trabalza,
Studi sul Boccaccio, e Borgese, Storia della critica romantica, libro — è
superfluo avvertirlo — per l'inaugurazione degli studi, Dell' origine e
dell'uf- ficio della letteratura e nelle Lezioni di eloquenza che le tennero
dietro, e particolarmente in quella del 3 febbraio 1809 su la Lingua italiana
considerata storicamente e letterariamente, e ne' sei Discorsi sulla lingua
italiana parlava della nostra lingua coi medesimi spiriti e intendimenti
d'italianità, in modo vera- mente vivace. « Nella sua Prolusione », ripeteremo
col De San- ctis, « tenta una storia della parola sulle orme del Vico, censu-
rata da parecchi in questo o quel particolare, ma da' più am- mirata, come
nuova e profonda speculazione. Il suo valore, anzi che nelle sue idee, è nel
suo spirito, perchè non è infine che una calda requisitoria contro quella
letteratura arcadica e acca- demica, combattuta da tutte le parti e resistente
ancora, contro quella prosa vuota e parolaia, e contro quella poesia che suona
e che non crea. Nessuno ha considerato, » scriveva il Fo- scolo, «
filosoficamente le origini, le epoche e la formazione di essa [lingua
italiana], affine di conoscere per via d'analogia i principi, i progressi
oscurissimi delle formazioni e trasformazioni di tante altre lingue. La storia
d'una lingua, ecco il suo preciso punto di vista, non può tracciarsi se non
nella storia letteraria della nazione ; né la storia può somministrare fatti
certi e fondamentali a trovare in materie intricatissime il vero, se non per mezzo
di epoche distinte, in guisa che le cause non diventino effetti, e gli effetti
non sieno pigliati per cause »('). che dev'esser tenuto sempre presente per
tutto questo periodo, perchè, se le idee sulla lingua de' vari critici che vi
sono criticati poca luce diffondono sulle loro teorie poetiche, utilissimo è
invece conoscere la portata critica di esse per chi fa la storia della lingua.
In Opere edite e postume di Ugo Foscolo, Firenze, Le Monnier. In T.. È evidente
l'affinità tra il metodo del Foscolo e quello del Napione; ma com'è più
profonda la visione del Fo- scolo, così essa in certo senso precorre ancor
meglio il principio moderno onde si vorrebbe indagata la storia della cultura
nella lingua, special- mente in quanto si serve del metodo monografico per
periodi di af- finità spirituali. Notevolissima sotto questo rispetto è una
pagina della Lez. II di Eoa. (è la 82 del voi. II) dove illustra il principio:
La let- teratura è annessa alla lingua. Capitolo quindicesimo 485 Nel fatto, il
Foscolo intravvede così in confuso l'identità di lingua e pensiero, e
nell'evoluzione linguistica uno svolgimento spirituale, mostra cioè una vaga
coscienza del problema lingui- stico, e il suo sforzo di risolverlo, anche se
non felice, è già un progresso. Particolarmente notevoli, anche per la ragione
pedagogica, in cui però, come sappiamo, ben si riflette la scienza teorica, son
le pagine che scrive sulla dottrina dantesca del Volgare illustre. Ne riferiamo
volentieri un brano che ci tocca davvicino. « Su ciò che Dante previde con
occhio sicuro egli fondava pochi principi generali intorno alla legislazione
gram- maticale. Erano inerenti alla condizione e alla natura della lingua, onde
operarono sempre e quando vennero applicati da parecchi scrittori, e quando
vennero trascurati da altri, o negati ostinatamente da molti ; ed operarono fin
anche negli scritti di chi li negava ed oggimai l'esperienza ha convinto la più
gran parte degl'Italiani, che la loro lingua letteraria non può pro- sperare
senza l'applicazione dei principj di Dante»: principi metafisici, dice Foscolo,
annunziati in tempi ne' quali la filosofia, l'arte dialettica, e la teologia
erano tutt' uno, e tali da intricarsi a vicenda, e perciò un po' oscuri forse
allo stesso ALIGHIERI (si veda). Al qual punto il pensiero di Foscolo corre a
Locke che facilita lo studio delle analisi delle idee, e quindi della natura
delle lingue – Grice: way of things, way of ideas, way of words -- e a
Condillac che illustrò questa difficilissima parte della metafisica. Francesco
Saverio de Sanctis. De Sanctis. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e de
Sanctis," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. Sanctis. Keywords: storia della filosofia, il saggio
filosofico, il poema filosofico, il tema filosofico. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Sanctis” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sanseverino:
la ragione conversazionale del segno naturale -- la logica scolastica -- filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Considerato
uno fra i massimi precursori del neo-tomismo (AQUINO, si veda). Si trasfere a
Nola per frequentare la scuola dove suo zio è rettore. Studia filosofia con
l'intento di confrontare i vari sistemi filosofici, fra cui gode particolare
credito in Italia, all'epoca, quello razionalista. Lo studio comparato dei vari
sistemi gli permite una conoscenza più approfondita della scolastica,
soprattutto d’AQUINO, e del legame intimo tra la scolastica e la [atristica. Restaura
la filosofia scolastica. Insegna a Napoli. Venne incaricato da Ferdinando II di
preparare un manuale ufficiale per le scuole del regno delle due Sicilie. Scrive
allo scopo il manuale "I principali sistemi della filosofia del criterio”.
Profondo conoscitore di AQUINO da alle stampe interessanti saggi sui filosofi
moderni. Inizia ad occuparsi più specificamente di AQUINO con “L’origine del
potere e il diritto di resistenza, cui fa seguito “In difesa dell'angeologia
contro i sofismi”. Esce il ponderoso “I principali sistemi della filosofia del
criterio” un'ampia e dottissima disquisizione sulla filosofia illuminista e su
quella a lui contemporanea -- fra cui quella dello stesso GIOBERTI -- confutata
sulla base della logica. Il suo capolavoro. Si tratta del celebre saggio, “Philosophia
antiqua” che ha per oggetto la storia della logica. “In compendium redacta ad
usum scholarum clericalium. Venne pubblicata a Napoli “Elementa”,
“Antropologia”, “Teologia. Altre saggi: “Sopra alcune questioni le più
importanti della filosofia” (Napoli); “Il razionalismo” (Napoli); “I
razionalisti” (Napoli); “L'origine del potere e il diritto di resistenza,
(Napoli, Giannini); “In difesa dell'angeologia contro i sofismi” (Napoli,
Manfredi); “Elementa philosophiae theoreticae” (Napoli, Manfredi); “Philosophia
antiqua” (Napoli, Manfredi); “Institutiones seu Elementa philosophiae antiquae”
(Napoli, Manfredi); “In compendium redacta ad usum scholarum” (Napoli,
Manfredi); “Le dottrine de' filosofi antichi” (Napoli); Dovere, Tentativo di
ricostruzione, in Doctor communis, P. Naddeo, Le origini del aquinismo”
(Società italiana, Torino); Orlando, Aquino a Napoli e S., in Asprenas,
Orlando, Vita e opere di S. secondo i documenti, in Aquinas, Orlando,
L'Accademia d’Aquino a Napoli, storia e filosofia, in Saggi sulla rinascita
d’Aquino, Roma, Ed. Pontificia Accademia teologica romana, Matarazzo, Per una
rivoluzione del cuore. La visione dell'umano in Leopardi nella lettura critica
di S. tra antropologia e istanze pastorali (Polidoro, Napoli). Dizionario
biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. PHILOSOPHIÆ
COMPENDIVM OPERA ET STVDIO NVNTII CAN. SIGNORIELLO LVCVBRATVM ad usum scholarum
clericalium Consentaneum est, ut ancillæ quætlam Reginæ serviant. Hanc igitur
assumere doctrinam non pigeat, quæ veritati famulatur. S. Ioann. Damasc.
Dialect. c.LOCVPLETIOR ATQVE EMENDATIOR NEAPOLI APVD OFFICINAM BIBLIOTHECÆ
CATHOLICÆ SCRIPTORVM in Via TuIgO SAH-GlOTA.NNI-MAGGIORE-Pttl"ATEt.I.I
ædibus Fibrenianis 1 Huius Operis ius proprietatis in Leguni tutela est NEAPOLI
TTPIS FRATR. MANFREDI in Yia yulgo Sannicandro PHILOSOPHIÆ ALVMNIS EDITORES
Christianæ philosophiæ compendium hisce duobus voluminibus inclusum idem est,
quod, episcopis et quamplurimis doctis viris suasoribus, S. principis ecclesiæ
neapolitanæ canonicus, perficiendum susceperat. Sane, postquam is edidit priora
volumina percelebris illius operis, cui titulus: Philosophia christiana cum
amtiqua et nova comparata, ac in studiosorum adolescentium utilitatem, in quam
revera omne suum otium contulit, elementa seu institutiones philosophiæ condere
aggressus est, omnes ferme Neapolis atque Siciliæ sacrorum Antistites
hortatores habuit, ut quamprimum, et, qua pollebat, diligentia, philosophicas
institutiones tam docte ac eleganter exarari susceptas in compendium redigeret.
Elementa quidem ampla et erudita forma, qua nunc gaudent, haud illi brevitati
consulunt, quæ necessaria est, ut unius anni curriculo adolescentibus
tradantur. At iuvenes in sortem domini vocati, nisi e fontibus sanctorum patrum
et scholasticorum doctorum prima philosophiæ rudimenta hauriant, impares
prorsus sunt, qui naviter studeant dogmaticæ theologiæ ceterisque sacris
disciplinis, tali amico foedere philosophicis consociatis, ut philosophia
theologiæ ancilla iure meritoque appelletur et sit. Accedit, quod iis, qui
ecclesiasticæ militiæ nomen dederunt, opus est philosophandi norma latine
exarata, præambula ad sacras scientias, hac præsertim tempestate, qua
protestantium placita, per studiorum universitates, lycea, scholas pervadentia,
latinum sermonem ab omni, etiam sacræ, disciplinæ institutione cogunt exsulare.
Hæc omnia animo reputans amantissimus ille studiosæ iuventutis S., Nuntio
Signoriello, tunc in archiepiscopali neapolitano lyceo logicæ et metaphysicæ
antecessori suorumque studiorum ac elucubrationum constantissimo conlegæ, ac
postea Ganonicatu in eadem metropolitana ecclesia adaucto, provinciam
demandavit eiusmodi compendium exscribendi ex his, quæ fusius in inchoatis
voluminibus ab iis pertractabantur. Utinam potuisset opus suum, tam bene
inceptum, absolutum conspicere! Verum, ex quo tempore deus solertem sui
administrum e terra sustulit, fidissimus eius adiutor, Nuntius Signoriello, nec
labori, nec industriæ parcens, philosophiæ institutionis compendium eo
perfectionisj adducere nisus est, ut non modo famæ consuleret primi sui
auctoris, verum etiam esset philosophiæ alumnis perquam accommodatum. Totum
igitur opus in duo volumina dispescitur, quorum unum subiectivas philosophiæ
theoreticæ partes, alterum obiectivas refert. Quæ secundum scholasticorum, in primisque
AQUINO argumentationes e rolvuntur, ita tamen ut hæ ex iis, quæ a patribus
disputata fuere, obfirmentur, atque inde recentium philosophorum errores
refellantur. Iam in scholæ doctrina pertractanda, consulto nulla ilicuius
momenti theoria tacita præteritur, tum quia disciplinas, maxime philosophicas,
ea tantum lege in compendium colligere licet, ut in levem non desinant
sermonem, tum quia, si philosophiæ scholasticæ insrtauratio idcirco hac nostra
ætate maximopere comnendatur, ut contra insolentem, lubricamque philosophandi
rationem veluti aggerem struat, integra pro ecto, et absoluta perspiciatur
oportet. Neque inde in difllcultatum laqueos iuvenes inducuntur, immo vero
atior eis ad scientiæ adeptionem via sternitur; siquilem ea est philosophiæ
scholasticæ indoles, ut unum ius pronuntiatum alterius explicationi inserviat,
et vere nullum existat, quod metaphysicis, et theologicis dogmatibus
explanandis magno usui non sit. Porro philosophiæ compendium hac digestum
ratione iuvenibus edocendis apprime idoneum lestimatum fuisse illud minime
obscurum indicium est, luod in plerisque non solum Italiæ, sed etiam Gernaniæ,
Galliæ, et Belgii Schois adhibitum iam fuerit, adeo ut eius sex, brevi temporis
intervallo interiecto, satis copiosæ editiones exlaustæ sint. At vero
compendium istud, philosophiæ tantum theoreticæ partes complectens,
tractationem philosophiæ moralis, quæ hac præsertim ætate maximi motienti est,
adhuc desiderandam relinquebat. Hinc ut institutiones, quæ philosophicam
scientiam ex toto exhiberent, proderemus, scholarum clericalium præceptores
nobis institerunt. Ad iuvenum igitur commodum, atque religionis et scientiæ
augmentum contendentes, bac septima editione, quæ tum ob varias emendationes,
tum ob quædam additamenta, tum ob clariorem, qua nonnulli articuli explicantur,
methodum superioribus præstat, compendium nitidis typis excudendum iterum
curavimus. Quod procul dubio, ob ethicæ elementa ei adnexa, ab eodem
peritissimo antecessore Nuntio Signoriello elaborata ac tomis duobus
comprehensa, quæque tertia iam editione gaudent, et eamdem, ac in illo,
disciplinæ rationem præseferunt, nostrique AQUINO doctrinam adversus veteres,
recentioresque errores evol\unty Philosophiæ lnstitutiones ad fastigium
perducere nobis videtur, et communi expectationi satisfacere. Neapoli die
Sancto Hieronymo Doctori dicato M0NITVM Utatim ac, quæ diu ab omnibus
concupita, et exortata fuere, tum philosophia cum antiqua et nova comparata,
tum elementa seu institutiones, et compendium eiusdem philosophiæ S. ac Nuntii
Signoriello nominibus inscripta, in publicum prodiere, omnes qui scientiarum
periti habentur et sunt, et auctorum in illis conficiendis diligentiam, et
summum iuvenes veras disciplinas docendi studium mirari coepere. Exinde
gratulationes factæ, laudes tributæ; quarum quanta ad ipsum S., cum adhuc in
vivis ageret, nec non Signoriello conlegæ, copia pervenerit, vel ex una
ephemeride neapolitana La Scienza e la Fede abunde colligi potest. At licet hæc
magni facienda sint, laus enim fuit quæ ab iis proficiscitur, qui in magna
laude vixerunt; maximi tamen ducenda illa, quæ nulli unquam fuitsecunda, utpote
a prima Sede tributa, quaque revera summa immortalis PIUS IX P. M., literis
losepho S. datis, volumina Philosophiæ Sanctitati Suæ offerenti, Caietani S.,
quem S. S. magno aureo numismate iam donaverat, atque Nuntii Signoriello
memoriam cumulabat. Ambigere itaque haud fas est lectores hanc non esse
commendationem vulgarem, si literas a Pontifice Maximo datas hic, post
nuncupatoriam epistolam, exscribimus: SANCTISSIMO DOMINO NOSTRO PIO PAPÆ IX
BEATISSIME PATER Homam Vuæ ad sanctos Pedes Tuos sisto volumina, multis abhinc
annis Tibiperquam humillime offerre cupiebat Caietanus Sanseverino,
Metropolitanac Neapolitanæ Ecclesiæ Canonicus, ac mei amatissimus patruus. Ille
scilicet sacerdotio vix initiatus, cum philosophicas disciphnas ad suos
puriores fontes revocandas esse intelligeret, nec labori nec industriæ
pepercit, ut qua voce, qua scriptis iuvenes præsertim in sortem Domini vocatos
christianæ philosophiæ placitis imbueret. Hinc neapolitani Archiepiscopalis
Lycei antesessor renuntiatus in cathedra Logicæ et Metaphysicæ, et postea
Ethices professor suffectus in regia studiorum Universitate Neapoli
constitutus, ac regalis Bibliothecæ Borbonicæ Scriptor adscitus, totus in eo fuit,
ut experimento probaret Sanctorum Ecclesiæ Patrum, et Scholæ Doctorum, præcipue
autem Divi Thomæ Aquinatis, philosophiam omni veteri novoque philosophorum
systemati longe præstare. Mitto labores ab eo exantlatos ad opus conscribendum,
cui nomen Philosophia Christiana, quod prodiit nondum absolutum, ceterosque
libros ad rectam huius scientiæ instaurationem, quos ipse composuit. Unum ipsi
in votis erat, totis viribus doctrinam propugnare, quam Apostolica Sedes semper
tradidit, hominis rationem in philosophicis disquisitionibus ancillam fidei
esse; necnon seipsum suaque omnia scripta Tibi, BEATISSIME PATEB, Tuoque
irreformabili iudicio prompte libenterque subiicere. Verum quod patruus morte
inopinata præventus absolvere nequivit, eius fratris filius, minimus inter
Neapolitani Cleri Presbyteros, audet implere, Tua summa benignitate confisus.
Quæ autem in opere Philosophia Christiana inscripto desiderabantur, magna ex
parte præstitit Nuntius Signoriello, presbyter, et Gaietani Sanseverino in
cathedra Logicæ ac Metaphysicæ Neapolitani Archiepiscopalis Lycei successor,
eiusque fidissimus interpres. Qui vestigia magistri premens, ipsam Philosophiam
Christianam in compendium redegit, omnium huius scientiæ cultorum, cum intra,
tum extra Italiam, suf fragio probatum. Munusculum, qualecumque demum sit, Tu,
BEATISSIME PATEB, dignanter excipe, atque Apostolicam Tuam Benedictionem quam
in suffragium animæ mei Patrui etiam atque etiam imploro, ipsi Nuntio
Signoriello, mihi ac toti meæ familiæ paterna Tua charitate largire, dum ad
Tuos sanctos Pedes provolutus, eos omni cordis affectu deo SCUl0r BEATITVDINIS
TVÆ Neapoli in Festo Immaculatæ Conceptionis B. M. V. Humilhmus m Christo
filius losepn S. Presb. Neap. Cui studiose admodum et animo paterno
SANCTITASSVA rescripsit: Dilecto Filio Presbytero Iosepho S. Neapolim PIVS PP.
IX. Dilecte Fili, salutem et Apostolicam Benedictionem . Quan tum adlaboraverit
doclissimus patruus tuus veræ philosophiæ restituendæ, quantasque curas
impenderit iuveni Clero fingendo ad sanæ religiosæque scientiæ principia,
sicuti ceteris, sic Nobis adeo exploratum erat, ut eum plurimi faceremus, et
doleamus adhuc, ipsum Nobis et severiorum disciplinarum incrementis fuisse
subreptum. Eo tamen solatio recreamur, quod, cum solidæ doctrinæ accuratoque iuventutis
excolendæ studio iungeret eam mentis aciem et prudentiam, qua variam ingeniorum
indolem facile discerneret; non huius tantum aut illius peculiaris partis, sed
universæ philosophicæ ac theologicæ scientiæ provectui per alumnos suos
prospicere potuerit, uti patet ex illorum lucubrationibus, qui ab ipso
instituti, Neapolitanum Clerum in præsentiarum exornant. Qua de re, etsi ille,
dum in humanis agebat, pleraque sua scripta Nobis obtulerit, acceptissimam
habuimus omnium collectioncm a tc Nobis nuper cxhibitam; eo vel magis, quod
amplissima de christiana philosophia tractatio ab auctoris obitu intercepta
nunc absoluta profcratur, opera discipidi olim cius, hodic vero meritissimi de
scientia profcssoris sacerdotis Nuntii Signoriello. De quo sanc obscquii ct
amoris officio crgapracstantissimitm pracccptorem dum illi gratulamur,
pergratum tibi profitemur animum ob munus, cum pretio suo, tum præclari
auctoris memoria Nobis carissimum. Omnia vero tibi fausta adprecantes,
cælestium donorum auspicem, et paternæ benevolentiæ Nostræ pignus Apostolicam
Benedictionem tibi peramanter impertimus. Datum Romæ apud S. Petrum.
Pontificalus Nostri Anno XXI V PIVS PP. IX. Verum non minori laude dignatus est
loqui de operibus hisce, PU IX Successor, LEO XIII, feliciter regnans. Ipse
enim pro summa sollicitudine, ex qua extimulatur, ut Clerus Catholicus ad
studia philosophica et theologica recte informetur, quo facilius contra
hodiernos Fidei Christianæ hostes possit depugnare, nullam dimittit occasionem
Episcopis insinuandi et commendandi AQUINO doctrinam. In suis vero familiaribus
sermonibus Institutiones philosophicas nostri Canonici pluries laudibus
cohonestavit; Episcopo Lyciensi aliisque viris ecclesiasticis illius Dioecesis
aiebat: Bramo che sieno introdotte ne' Seminari le Istitu zioni filosofiche del
Canonico Sanseverino. L' e questa una gloria del Clero Napolitano che cercd
efficacemente di ridurre e richiama re le scienze filosofiche alla vera e
sicura norma, alla loro forma e satta ch' e appunto la Tomistica. Ci compiacciamo
che nel Semina rio di Lecce se ne sieno introdotte le Istituzioni, come e
Nostro de siderio, che in tutt' i Seminari si segua il metodo stesso e la
stessa dottrina dell' Angelico. Fu certo una sventura che il Sanseverino
morisse cosi presto, ma egli lasci6 buoni e zelanti discepoli che seguiron 1'
opera sua. Quæ verba satis superque sunt, ut Compendium Philosophiæ Christianæ,
ac Ethicæ elementa ei adnexa, magno laudum præconio digna per omnes habeantur. Philosophiæ elementa scribere
aggredientes tria in primis investigemus necesse est quænam sit huius scientiæ
natura, et qua in re a reliquis scientiis differat; quot in partes dividatur;
quænam sit eius præstantia et utilitas. Quod attinet ad primum, naturam philosophiæ perspicere
idem est, ac eius definilionem tradere. Philosophia ex vi nominis studium vel
AMOREM SAPIENTIÆ SIGNIFICAT – H. P. Grice: “Not to Heidegger. To Heidegger, it
means the wisom (sophia) of love (philos) -- , id enim innuunt illa verha
yiXog, et o-ccp/a ex quibus constat. Iam antiqui definiebant philosophiam,
scientiam rerum divinarum, atque humanarum, causarumque, quibus hæ res
continentur. Ipsi enim nomine philosophiæ omnium scientiarum complexionem
designabant, sive universam humanam sapientiam, et philosophos appellabant eos
qui omnium rerum rationes reddere callebant. At vero apud recentiores
philosophiæ nomine non universa cognitio humana, sed peculiare quoddam genus
cognitionis denotatur. Etenim ipsi philosophiam pro prima scientia habent,
sive, quod idem est, pro scientia, quæ finem sibi præstiluit tradendi ea, quæ
scitu necessaria sunt, ut mens humana cognitionem perfectam rorum in diversis
scientiis assequalur. Hæc autem sunt ultimæ rationes quæ ad explicandum valent
lum ipsam cognitionem, qua mens verum in scientiis speculatur, tum obiectorum,
circa quæ scientiæ versantur. Iam ultimæ rationes sunt suprema principia, seu
causæ, siquidem causæ, quatenus a nobis cognoscuntur, rationes appellantur, et
causæ supremæ, quippc quac poslremo a nobis 1 Hoc nomen a Pythagora, qni D cireitcr
ante Christam nafnni obiit, invectum fuit. Antc illum philosophia appeliabatur
sophia, et philosophi dicebantur sophi. cognoscuntur, rationes ultimæ vocantur.
Quæ cura ita sint, philosophia prout hodie accipitur, definiri potest hoc modo:
Scientia, quæ agit de supremis principiis tum cogniiionis humanæ, tum rerum,
quæ humana ratione co gnosci possunt f. 111 a verba, agit de supremis
principiis cognitionis humanæ, significant philosophiam de iis omni bus
tractare, quæ ad cognitionem humanam, prout hæc in cæteris scientiis
assequendis evolvitur, pertinent. Hu iusmodi sunt leges, quibus mens humana
actiones cogno scendi exercet, facultates, quibus ipsas peragit, vis, quæ ipsis
ad certitudinem in nobis gignendam inest, et notio nes universales, quibus celeræ
scientiæ innituntur. Illa autem verba, quæ sequuntur, nempe agit de supremis
principiis rerum, denotant philosophiam tractare de Deo, de mundo universe
spectato, et de homine ; nam hæc sunt suprema obiecta, ad quæ reliquarum
scientiarum obiecta referuntur, et ideo eiusmodi sunt, ut sine ipso rum notitia
nullius rei perfecta scientia existere possit. Reliqua verba, quibus definitio
clauditur, nempe, quæ humana ratione cognosci possunt, eo consilio in
definitione posuimus, ut philosophia a scientiis theologicis, quæ Divinæ
revelationi innituntur, distingueretur. Ex his facile intelligitur philosophiam
a ceteris scientiis in eo differre, quod in ceteris scientiis aliquod
obiectorum genus cognoscendum suscipitur, philosophia autem statuit suprema
principia, quibus omnes speciales scientiæ innituntur, quia, ut diximus,
inquirit ipsa cognitionis humanæ principia, et supremas causas rerum in omnibus
scientiis cognitarum. Quod spectat ad divisionem philosophiæ, monendum Hæc
definitio ab etymologia Philosophiæ minime discedit; nam, aiente s. Thoma, ille
sapiens dicitur in unoquoque genere, qui considerat causam altissimam illius
generis ; I, q. I, a. 6 c: quocirca scientia illa, quæ cognitionem humanam, et
res, quæ humana ratione cognosci possunt, secundum suprema principia,
investigat, philosophia, sive amor sapientiæ recte appellaturest nos hic agerc
de philosophia theoretica, in qua tradunlur ea, quæ in conlemplatione rerura
versantur, non vero de philosophia practica, quæ appellari solet ethica, et
tractat de iis, quæ ad operalionem pertinent, sive de legibus universalihus
morum, ad quas homo actiones suas accommodare dehet,ut finem ultimum sihi a Deo
præstitutum assequatur. 6. Iam philosophia theoretica complectitur logicam,
dynamilogiam, ontologiam, cosmologiam, anthropologiam, et theologiam naturalcm.
Logica exponit naturam aclionum nostræ mentis, leges, quihus ipsæ exercendæ
sunt, et ordinem, quo sunt adhibendæ in inquisilione veritatis. Dynamilogia
tractat de facultatibus animæ, atque in primis expendit ipsarum naturam,
obieclum singulis earurn proprium, et modura, quo suas actiones exercent;
deinde ex horum investigalione viam sibi sternit ad duas maximi momenti
tractationcs, in quarum prima, quæ dicitur ldealogia, inquirit quomodo
facullatum subsidio primas cognitiones rerum nobis comparemus, in altera aulem,
quæ dicitur Criteriologia, disputat de vi, quam ipsæ habent ad veritalcm rcrum
nobis patefaciendam. Ontologia versatur circa illas universales noliones,
quibus ceteræ scientiæ innituntur. Cosmologia de mundo universe spectato
disseril. Anthropologia naturam hominis expendit. Thcologia naturahs de Deo,
Eiusque attribulis ex naturali lumine rationis disputat, quantum infirmitas
ræntis huraanæ sinit. 7. Dcnique præstanlia, et ulililas huius scientiæ ex
ipsa, quam explicavimus, eius natura perspicitur. Eniinvero illa scientia
ceteris hurnanis scienliis præstat, ct raaximain ulililatem in eas confert, quæ
de iis agil, quibus mens noslra opus habet, ut perfectam cognitionem in ceteris
scienliis adipiscatur. Atqui huiusmodi, ut diximus, cst philosophia. Ergo
inaxima est philosophiæ pracstanlia, ct utililas. Neque scientiæ dumtaxat, scd
eliam artes ingenuæ, ut, c. g., rcthorica, poesis, graramalica, subsidio
philosopbiæ indigent. Nam regulac, quæ in qualibct arte traduntur, ut quoddara
opus rccle pcrficiatur, tutæ, et reclæ csse non possunt, nisi deriventur ex
principiis rerum, ad quas referuntur. Atqui
huiusmodi principia non nisi philosophus cognoscere potest. Ergo non nisi
philosophus ingenuis artibus perfeclissime uti potest. Immo philosophia, etsi
longe inferior Theologia revelata sit l, tamen talibus famulatus officiis erga
istam fungitur, ut ipsi quodammodo necessaria sit. Has famulatus partes s.
Thomas exposuit his paucis: In sacra doctrina philosophia possumus tripliciter
uli. Primo ad demonstrandum ea, quæ sunt præambula Fidei, quæ necessaria sunt
in Fidei scientia, ut ea, quæ naturalibus rationibus de Deo probantur, ut Deum
esse, Deum esse unum, et huiusmodi de Deo, vel de creaturis in philosophia
probata, quæ Fides supponit. Secundo ad notificandum per aliquas similitudines
ea, quæ sunt Fidei, sicut Augustinus in libris de Trinitate utitur multis
siroilitudinibus ex doctnms philosophicis sumtis ad manifestandam Trinitatem.
Tertio ad resislendum his, quæ contra Fidem dicuntur, sive ostendendo esse
falsa, sive ostendendo non esse necessaria. i Potiora capita, quorum gratia
Theologia philosophiæ, ceterisque scientiis humanis antecellit, secundum s.
Thomam, hæc sunt. Theo logia humanis scientiis antecellit primo ob præstantiam
sui obiecti, quia ipsa est principaliter de his, qua sua altitudine rationem
transcendunt. Aliæ vero scientiæ considerant ea taritum, quæ ra tioni
subduntur. Secundo, ob effectum, quem in animis discentium producit, quia aliæ
scientiæ certitudinem habent ex naturali lu mine rationis humanæ, quæ potest
errare, hæc autem certitudinem habet ex lumine Divinæ Scientiæ, quæ decipi non
potest. Tertio, ob nobilitatem finis, ad quem homines ducit, prout practica
scientia est; nam finis huius doctrinæ, in quantum practica, est beatitudo
æterna, ad quam, sicut ad ultimum finem, ordinantur alii fines scientiarum
practicarum ; I, q. I, a. 5 c. Hæc adnotavimus, ut in ipso vestibulo
adolescentulos ab errore Rationalistarum amove remus, qui putantes dogmata Theologiæ
non esse aliud, quam præ cipuas veritates philosophiæ rudium captui
accommodatas, philoso phiam ipsi Theologiæ anteferre non dubitant; unde illam
cum Cou sinio (Introd. d Vhist. de laphilos.; Oeuvr. t. I, p. 10, Bruxelles)
fontem omnis lucis, ac auctoritatem omnium auctoritatum salutant. Super BOEZIO
(vedasi) de Trinitate, Prooem. Logica definiri potest cum AQUINO (vedasi).
Scientia, quæ cst directiva ipsius actus rationis, per quam scilicet homo in
ipso actu rationis ordinate, et faciliter, e( sine errore procedat . Hæc
definitio in logicam adquisitam quadrat, quæ prohe distinguenda est a Jogica,
quarn mturalem vocant. Est autem logica naluralis quædam dispositio animis
insita, pcr quam facullatihus ad cognoscendum destinatis recte utimur. Circa hanc
scientiac logicæ definitionem explicare oportet quinam sit ille actus rationis,
in quo eius obiectum consistit. Porro mens nostra per tres diversas actioncs ad
rerum cognitionem pervenit. Hæ sunt notio, qua mens res simpliciter
apprchendit; iudicium, quo mens aliquam notionem de alia aflirmat, vel negat;
ratiocinium, (juo cx duohus iudiciis alterum eruit, atque ita ex notis ad
ignotorum notitiam progreditur. Huiusmodi actiones ita inler se comparantur, ut
prior posteriori contineatur, eique inserviat; nam iudicium ex notionihus, et
ratiocinium ex iudiciis conflatur. 3. lamvero cx his nostræ mentis actionihus tcrtia cst
proprium ohiectum logicæ. Re quidem vera, fiuis logicæ est mentem dirigere, ut
ipsa in scienliis assequatur verum sine errore, facilc, et certo ordine. Atqui
mens noslra in scientiis assequitur verum ope ratiociuationis. Ergo linis
logicæ est mentcm in ratiocinando dirigere, ac proinde ratiocinatio est
proprium ohicclum logicæ2. Quod si in logica eliam dc notionihus, et iudiciis
tractatur, hæc ad examen revocanlur, non prout per se, scd prout elemenla
ratiocinationis sunt. Etenim ratiocinatio, ut diximus, ex notionihus, et
iudiciis constat; quapropter logicus 1 ln lib. l Poster., Jcct. I. Hanc ob
rationem logica a nonnullis definitur scientia ratiocinaaonts; ctabipsoD.Thoma,
rationalis scicnUa; In lib.l Anal., lcct. I. perfectam notitiam ratiocinationis
acquirere non potest, nisi seorsum intelligat hæc elementa, ex quibus ipsa
conflatur. Diximus autem logicam esse scientiam, non vero artem, quemadmodum
visum est Auctori Artis cogitandi , aliisque. Et sane, scientiæ, ut suo loco
dicemus, proprium est colligere naturam, et affectiones rei ex principiis
internis eiusdem. Atqui logica ex principiis, quæ ratiocinationem constituunt,
colligit, quomodo ratiocinationes componendæ sint, ut liceat progredi ex noto
ad ignotum. Ergo Logica est scientia2. 5. Sunt alii philosophi, qui logicam non
esse specialem scientiam, sed cum aliis scientiis confundendam esse docent.
Nimirum ipsi considerant logicam velut instrumentum scientiarum, quia tractat
de ratiocinatione, quæ est instrumenlum, per quod scientiæ acquiruntur. At isti
philosophi a vero aberrant. Et sane, scientiæ, ut suo loco explicabimus, inter
se distinguuntur ratione obiectorum, circa quæ versantur. Atqui obiectum logicæ
ab obiectis reliquarum scientiarum distinguitur; nam logica modum conficiendi
ratiocinationes generatim tradit, non vero conficit syllogismos, seu
ratiocinationes, quarum ope quælibet scientia circa propriam materiam
assequitur verum. Ergo logica a reliquis scientiis distinguenda est. Ex his
perspicitur logicam, etsi agat de ratiocinalione, qua ceteræ scientiæ utuntur,
tamen ipsam potius scientiam instrumenti scientiarumj, quam instrumenlum
scientiarum dicendam esse. 6. Cum hæc sit logicæ natura, ipsa immane quantum
utilitatis in reliquas scientias confert Etenim, quemadmodum artifex eo
perfectiora opera concinnare valet, quo i Ars cogitandi, p. 1, Lugduni 1703. ^
Hlud vero tacendum non est, logicam, quemadmodum s. Thomas monuit {Super Boet.
De Trin., lect.), ad artem quodammodo accedere, quippe quod, cum ipsa modos
conficiendi enunciationem, syllogismum, aliasque, quæ ab his oriuntur, et
pendent, cogitationis formas, secus ac ceteræ scientiæ, tradat, quodammodo
circa opus versatur. Etiam in ipsis speculabilibus, alibi ait, est aliquid per
modum cuiusdam operis; puta constructio syllogismi, aut orationis congruæ, aut
opus numerandi, vel mensurandi. Et ideo quicumque ad huiusmodi opera rationis
habitus speculatrvi ordinantur, dicuntur per quamdam similitudinem artes ; la
2, q, LVII, a. 3 ad 3. molius instrumenla artis suæ novit; ita quisque eo
faciJius, et rectius scientias assequitur, quo penitiorem habet notitiam
instrumentorum, quibus illæ utuntur. Atqui
logica suppeditat perfectam notitiam huiusmodi instrumentorum. Ergo Logica ad
scientiarum perfectionem magno adiumento est '. Tractationem huius scientiæ
trcs in partes dividemus. In prima de iis, quæ ad formamt seu structuram
ratiocinationis pertinent, agemus ; quare primum exponemus elementa, quæ
syllogismum efticiunt, nempe notiones, et iudicia, sive enunciaiiones ; deinde
investigabimus leges, secundum quas ratiocinatio conficienda est, ut per illam
ignotum ex noto inferri queat. In altera parte explicabimus quidquid spectat ad
diversas species syllogismi ex divcrsitate materiæt sive enuncialionum, ex
quibus conclusio eruitur. Denique in tertia partc, quæ Melhodologia dicitur,
inquiremus, a quibusnam principiis studioso cuiusque scientiac proficiscendum
sit, et quonam ordine in suis argumcntationibus progrediendum, ut obiectum suæ
scienliæ consequi possit. 1 Hanc ob rationem Logica diseiplina disciplinarum a
s. Augu stino appellatur; De Ord.t rrior Logicæ pars, ut innuimus, tres
investigaliones complectitur, quarum una circa notiones, altera circa
enunciationem, et tertia circa ratiocinationem formaliter sumtam versatur.
Quapropter ipsam tribus capitibus comprehendemus. De notionum speciebus, quæ ad
Logicam spectant NOTIO – cf. NOTA (Grice) -- est mentis actus, quo ipsa aliquid
simpliciter apprehendit, quin de eo ullam proprietatem affirmet, aut neget1.
Variis modis ipsa accipi potest2, sed in præsentiarum explicandum dumtaxat
nobis est, quid sit notio universalis, quidque a particulari, atque a singulari
differant. 2. Notio universalis ea esl, quæ exhibet aliquid unum, quod mullis
attribui potest; e. g., notio animalis, homi i Apud recehtes nomen ideæ, aut
conceptus etiam habet. At non satis accurate. Nam idea significat vel exemplar
in mente existens, cuius instar artifex opus conficit {Qq. dispp,, De Ver., q.
III, a. 1 c); vel forma seu species aut imago rei apprehensæ in mente existens,
ex qua mens ad rem cognoscendam determinatur (I, q. XV, a. 1 c). Conceptus autem est ipsum
obiectum apprehensum, prout a mente et in mente exprimitur. Quæ tamen magis
perspicua fient ex dicendis in Dynamilog. Præcipue maior, vel minor perfectio
consideratur, qua mens nostra res sibi obiectas apprehendit. Secundum hanc
rationem notio esse potest clara, vel obscura, prout mens rem percipit vel ita,
ut illam ab aliis quibuslibet distinguat, vel non. Rursus notio clara in
distinctam et confusam dividitur. Confuse aliquid cognoscitur, cum omnium
proprietatum, quæ eius essentiam constituunt, propria notitia non habetur: e
contrario, distincta est notio, quæ proprietates eius essentiam constituentes
singillatim exhibet. Denique notio distincta, qua naturam ipsarum proprietatum
rei cognoscimus, cum totam rem omnimocle exhibeat, dicitur adæguata, secus,
inadæquata. Vid. s. Thom., In lib. 1 Post., lect. nis ctc. Cum notione
universali confundenda non est notio collecliva. Notio collectiva illa vocatur,
quæ exhibet plures res singulares aliquo ordine comprehensas. Huiusmodi est
notio exercitus, quæ pluribus hominibus belli socns convenit. Iam notio
collectiva ab universali differt 1 quia universalis atlribuitur omnibus rebus
sin^ulanbus, quac ad aliquod genus, vel ad aliquam speciem pertinent ;
collectiva autem pluribus, sed non omnibus; l quia illa unicuique rei singulari
seorsum sumtæ convenit ; hæc vero nonnisi omnibus simul sumlis tribui potest.
E. g., de unoquoque homine dici potest esse hominern, sed non item de unoquoque
milite esse exercitum. d. Nolio autem smgularis est ea, quæ repræsentat aliquod
individuum. Jam individuum est id, quod ex proprielatibus ita determinatis
constat, ut hæ omnes eædem alu convenire non possint , puta Socrates. 4. Noho
universalis dicitur abstracta, quia mens apprelicndit ahquid commune multis
rebus ex co quod illud cons.dcrat seiunctim a proprielalibus, ex quibus in
ipsis rebus deteraunatur. E. g., nolio hominis repræsentat humanitatem absquc
proprielatibus, quibus hacc in Socrate, naione elc. determmatur. E contrario,
notio singularis Ucitur concreta, quia ipsa exhihct rem, prout in se
deterV,l>i existit; pata notio Socralis denotat humnnitatem 'omunctam cum
omnibus proprietatibus, quihus hæc deerminatur m Sucrate., -> Denique
particularis aliqua notio dicitur, prout reertur ad universale, cui subiieitur,
quia notio consideala, prout alicui universali subiicitur, deootat ipsum uniersale
non universe, sed ex parte. Ouocirca particularis st lum notio, e. g., aliquorum hominum relata ad
nol0?em homxms, tum notio hominis relata ad notionem ntmalis. j). Ex nolionihus
universalibus aliæ ad aliqua genera ei ahquas species rerum referuntur, puta
uotiones ontWxtatis, et humanitatis, aliæ, quæ dicunlur supremæ, ei
generahssimæ, referuntur ad illud, quod diversis irenemis rerum est commune,
cuiusmodi est nolio substan di V.e/uit individuum ' '• in plura talia, qaale
ipsmn est, ditiæ. Iara dumtaxat notiones universales supremæ ad Logicam
spectant. Etenim Logica non est sc.cntia huius, vel illius generis rerum, sed
est scientia, quæ tradit modum generalem, quo scientia cuiuslibet gener.s
rerura acqu.ri potest; quanropter ipsa exphcare non debet not.ones, quæ
Swersaruni scientiarum obiecta sunt, sed dumtaxat notiones, ad quas diversæ
notiones d.versorum obiectorum scientiarum revocanlur. Atqui humsmodi notiones,
aa nnas notiones pertinentes a"d diversas scienUas revocanSr, illæ sunt,
quæ supremæ dicuntur. Ergo dumtaxat notiones supremæ ad Logicam spectant.
•j^.-j 7. Advertendum aulem%st in Log.ca non cons.derar. notiones supremas,
prout repræsentant has, aut illas res, sed prout habent ordinem cum alus
nof.on.bus, hoc est, nrout attribui possunt aliis notiombus, quas s.bi
sub.ectTs habent. E.Pg., Logicus tractat de not.one J non ut consideret res, ad
quas hæc referlur, sed ut co gnoscat modura, quo illa notio alns noUorabus
attrlbu Ltest . Exinde fit, ut notiones supremæ, prout consuleLntur in Logica,
appellentur categoriæ, teH nam attribulre aliquid ahcui in Schohs dicitur prædi
CCLTB • 8.' Sed advertendum præterea est log.cum ; non posse cognoscere,
quomodo notiones supremæ de aliis ^Wn bu"s prædicentur, nisi iam cognoscat
coramunes modos quibus aliquid de aliquo præd.car. potest. N .tiones, qua.
exhibent communes prædicand. modos, "™ca?™^ f tegoremata, seu prædicabiha.
Quarc tractation. de præ dicamentis tractatio de præd.cab.l.bus præm.ttatur ne
cesse est. Itaque notiones, circa quas Log.ca præp.pu versatur, sunt
prædicabilia, et prædicamenta. t Hanc ob rationem notiones, prout considerantur
in Logica a, pellantur secundæ. Ad quam rem scicndumcstnot.onesd.nd.inpr mas,
elsecundæ. Notio prima est not.o rei specUMe n se e. g notio homims, prout hæc ipsum
esse hom.n. repra es ta t. Not .o s cunda cst notio rei non spectatæ m se, sed
relate d ™od ab intelleeto cognoscitur, puta notio hormms, prout horno cog.tat
velut quædam species, ad quam Plato, Socrates et ah. reIerunW Vocantur secundæ,
quia notiones primas lam formatas expostula. Definiuntur notiones, quæ
prædicabilia dicuntur 9. Prædicabilia, ut diximus, sunt illac notiones
universales, quæ exhibcnt communes modos, quibus aliquid de aliquo enunciari
potest. Hæ notiones sunt
quinque, nempe genus, differentia specifica, species, proprium et accidens. 10.
Species est notio universalis, quæ de pluribus individuis secundum essentiam
completam prædicalur. E. g., homo de Socrale, de Piatone, aliisque singulis
hominibus prædicatur, ct denotat eorum essentiam non inchoatam, et imperfectam,
scd determinatam. et perfectam. 11. Gcnus est notio universalis, quæ de
pluribus speciebus sccundum cssentiam incomplctam prædicatur. E. g., animal de
hominc, de equo, aliisque animalium speciebus prædicatur, et eorum essentiam non
quidem determinatam, et perfectam, sed inchoatam, atque imperfectam denotat. DIFFERENTIA SPECIFICA est illa notio universalis, quæ
repræsentat qualis sit essentia rei ; nempe per differentiam essentia rei non
indeterminatc, uti per gcnus, exhibetur, sed qualis ipsa sit, dcterminatur.
Huiusmodi est esse ratione præditum. Ita interroganli, quid sit homo, primo
rcspondetur esse animal, dcinde pergenti interrogare, quale animal sit,
respondetur esse ratione præditum. Dicitur autem dilTcrcntia specifica, quia pcr
ipsam u na spccics ab altera differt. Q13. Iamvero proprietatcs diflerentiæ
specificæ hæ sunt: 1 Ipsa dividit genus in plures spccies, seu istud aptum
reddit ad plurcs species efliciendas. E. g., sine illa differentia, quac
dicilur ratio, animal, in rationale ct irrationale dividi non possct. 2°
Differentia actu addita generi ipsum dcterminat. E. g., animal, quatenus genus
est, hominem, atque belluam indeterminate significat ; at cum antmah ratio
adiicitur, inde nalura hominis dumtaxat significatur. 3 Differentia cx hoc
ipso, quod dclcrminat genus, ahquam dctcrminatam specicm constituit. E. •
species homo constituitur ex ratione addita generi animalis'. Uuapropter
spccics cx gcnere, et diffci;entia constare EssenHa ut suo Ioco dicemus,
significat id, quo res est, atque a cetcns rebus distinguitur. dicitur, seu
essentia uniuscuiusque speciei est ipsa essentia generis curn detenninatione,
quara habet per differentiam. 14. Proprium est notio universalis, quæ de
pluribus rebus singularibus prædicatur, et denotat illam qualitatem > quæ
est extra essentiam rei, sed tamen necessario illi advenil. Huiusmodi est esse
risibile in homine '. 15. Denique accidens est notio universalis,' quæ de
pluribus rebus singularibus prædicatur, et denotat illam qualitatem, quæ non
solum extra essentiam rei est, sed etiam contingenter ab ea fluit, ita ut sive
de re affirmetur, sive negetur, essentia rei non destruatur. Huiusmodi est esse
philosophum in homine2. 16. Itaque notiones universales, per quas, veluti per
quasdam notas, cognoscimus quomodo aliquid de aliquo prædicari potest,
repræsenlant vel proprietates, quæ essentiam rei constituunt, et sunt genus,
species, et differentia; vel proprietates, quæ essentiam rei non ingrediuntur,
sed ab ea promanant, et sunt proprium, et accidens. Inter genus, speciem, et
differentiam hoc extat discrimen, quod species lotam essentiam complectitur,
genus autem, et differentia partem eius tanlum exprimunt, et quidem genus
exprimit partem communiorem, et universaliorem, qua res ipsa cum aliis convenit;
differentia autem partem minus communem, per quam res ab aliis omnibus
distinguitur. Inter proprium autem, et accidens discrimen est, quod illud cura
essentia necessario coniungitur, hoc vero essentiæ contingenter advenit 3. Hoc
proprium, cum necessario consequatur essentiam rei, dicitur convenire omni
speciei, hoc est omnibus individuis, quæ ad illam speciem pertinent, soli, et
semper. Quocirca distinguitur tum a proprio, quod soli speciei inest, sed non
omni, ut in homine Geometram esse, tum ab illo, quod omni quidem speciei inest,
sed non soli, ut bipedem esse, tum denique ab illo, quod omni et soli inest,
sed non semper, ut canescere. 2 Sunt aliquæ qualitates, quæ, etsi actu a
subiecto separari nequeant, tamen inter accidentia numerantur. Huiusmodi est
nigredo in corvo. Cum enim hæ qualitates ab essentia rei contingenter
promanent, intellectus potest illas qualitates negare, quin essentia rei
destruatur. Hinc hæ qualitates actu quidem inseparabiles, sed cogitatione
separabiles a subiecto sunt. ;} Adnotandum est nomen accidentis etiam proprio
attribui posse. De gcnerum et
specierum distinctione. Differenliæ, ut diximus, determinant genus. Hinc, prout
plures, vel pauciores differentiæ adduntur generi' ipsum magis, ve! minus
determinatur. Pula, si generi' substantia, quod indifferens est ad substanliam
sive corpoream, sive incorpoream signiftcandam, differentia corporis addatur,
ipsum coarctatur ad genus substantiæ corporeæ. Præterea genus substantiæ
corporeæ amplectitur lum corpora viventia, tum corpora non viventia ; at si
diffcrentia viventis ipsi addatur, cfficitur genus substantiæ viventis. Item
substantia vivens, quæ ampleclitur tum viventia sensu prædila, nempe animalia,
tum sensu carentia, ncmpe vcgetabilia, per differentiam sensus ad genus animal
dctcrminatur. Denique genus animal, in quo species hominis, et belluæ
continentur, per differenliam rationis spcciem hominis dumtaxat repræsentat.
Exinde orilur distinctio gencrum, et specierum in suprema, media, atque infima.
Gcnus supremum est illud, quod omnibus pracest, et nulli alii generi
subiicitur. Genera mcdia sunt illa, quæ subiiciuntur
superiori, et simul præsunt inferioribus. Denique genus infimum est illud,
quod nullt generi, sed solis speciebus præcst. Ita in allato excmplo subslantiu
est genus supremum; animal vero est genus mlimum; (I(mikjuc corpus, ct vivcns
sunt genera intermedia. quia mtcr supremum, et inlimum intercedunt. 18. Genus
supremum numquam efficitur species, quia nul h subiicitur; sed genus medium, ct
infimum sunt simul genus, si comparentur cum speciebus sibi subiectis, et
species, si ad genus superius rcferantur. E. g.,corpus respectu substantiæ est
species, et respectu viventis est genus, (jiua corpus potest esse vivens, aut
non vivens. Item ammal relatum ad vivens est species; rclatum autem ao uctluam
et honuncm est genus. 19. Ad bæc genus dicitur proximum, si refertur ad
species, quæ sub eo immediate ponuntur, et rcmotum, si reiertur ad species
mediate, hoc est, per alias species. qnatenus proprium significat aliquid, quod
advcnit essentiæ rci. (Juia vero propnum necessario advenil csscntiac rei ita
dicitur æcidens speciei, et hoc modo distingnitnr ab accidente, qaod cst
quintum pracdicabilc, quodque accidcns individm appellatur. Ita genus proximum
hominis, et belluæ est animal, quia homo, et bellua animali immediate
subiiciuntur: remotum vero vivens, quia homo, et bellua vivenli mediate subn
ciuntur. 20. Quod attinet ad species, suprema est, quæ supra se aliam speciem
non habet, ut corpus ; media aulem, quæ tam supra se, quam infra se habet aliam
speciem, ut animal; infima denique, quæ sub se non habet ullam speciem, scd
tantummodo res singulares, Quocirca species infima eiusmodi est, ut numquam sit
genus. Art# iv. De nolionuua coraplexione, et arabilu 21 In qualibet notione invenitur
quidam complexus, et nuidam ambitus. Complexus consistit in iis elementis, ex
quibus notio efficitur. E. g., in notione homims complexus consislit in eo,
quod homo est substantia vita, sensu et ratione prædita. Ambitus est numerus
subiectorum, ad'quæ notio porrigitur1. Iam complexus, et ambitus sunt in
ratione inversa, nempe, quo maior est alicuius notionis complexus, eo minor est
ambitus; et quo maior est ambitus, eo minor est complexus. E. g., complexus
hominis maior est, quam animalis, qu.a ln ammah non continetur ratio, sed minor
est ambitus, quia homo dumtaxat ad animalia ratione prædita, animal vero ad
homines, et ad belluas porrigitur. 2 2. Ex quibus facile est hæc colligere: 1
In sene universalium genus supremum habet maximum ambitum, sed minimum
complexum; e contrario, species infinia minimum ambitum, et maximum complexum
continet. 2 Uuidquid in notione superiori
continetur, m notione intenon etiam invenitur, sed non vicissim, quia m notione
superiori minor, et in notione inferiori maior est complexus. E i? quidquid in
genere animalis contmetur, mvenitur etiam' in homine, et quidquid invenitur in
homme, cuilibet individuo homini etiam inest; sed non omnia, quæ sunt in
homine, sunt etiam in animali, neque quidquid est in bo-. crate, est etiam in homine.
Quocirca a gencre ad speciem, atque a specie ad individua, sed non item ab
mdividuo ad speciem, atque a specie ad genus concludi potest. i Cartesiani, et
Woltiani pro complexu comprehensionem, et pro ambitu extensionem dixerunt.
Quinara sint terraini univoci, æquivoci, et analogi, explicatur 23. Mos in
Scholis est ante tractationem prædicamentorum quædam explicandi, quorum
cognilio ad illorum cognitionem valde conferl,quæque idcirco Ante-prædicamenta
vocanlur. Ex his ea, quæ ad terminos univocos, æquivocos, et analogos spectant,
præsertim nola esse volumus. 24. Univocum dicitur illud nomen, quod plurihus
communiter altrihuitur, secundum eamdem suam significationem. Huinsmodi est nomen animal, quod
homini, et hruto convcnit. Æquivocum est illud nomen, quod de plurihus secundum
diversam significationem cnunciatur; e. g., canis, quo et canis terrestris, et
canis marinus denolantur. Iam
nomina æquivoca in duo genera distinguuntur, nempe vel sunt pure æquivoca, vel
analoga. Nomen pure æquivocum dicilur illud, quod plurihus atlrihuitur, quin
sit in eis aliquod fundamentum, per quod illud nomen commune sortiuntur.
Huiusmodi est nomen canis, cum animali, et sideri trihuitur. Analogum autem
appellatur illud nomcn, quod datur plurihus, quia in eis est aliqua ratio, ex
qua illud communc nomen accipiunt. Huiusmodi est nomen sanitas, quod cum
corpori, tum medicinac, tum pulsui trihuitur oh ordincm, quem ad sanitalem
hahent; corpus enim dicitur sanum, quia sanitas ei, tamquam suhiecto, inhæret,
medicina dicitur sana, quia in causa est, cur corpus sit sanum, et pulsus
vocatur sanus, quia corpus esse sanum patefacit. 25. Ratio, oh quam horum
terminorum explicatio hic redditur, ea est, ut inlelligatur 1° quamlihet
caleroriæ specicm prædieari univoce de iis, quæ sihi suhiiciuntur; e. g.,
suhstomtia tum suhslantiæ incorporeæ, lum corporeæ eadem ratione allrihuilur,
utraque enim, quatenus suhstanlia esl, aliquid significat, quod hahet csse non
in aho ; 2° cns dc singulis categoriis prædicari analoge; siquidem unaquælihet
earum, ut infra dicemus, peeuliarem modum entis significat •: Ita nomine
suhstantiæ exprimitur quidam spccialis modus esscndi, scilicet per se ens 2'; ^
Ua de aliis generihus ; 3° ens ipsum comparatum ad J Cf S. Thom., In Ub. I
Sent., Dist. XXII, q. I, a. 3 ad 2. b rationem quantitas continua dicitur
dimensiva. lam, ctsi hæ tres dimensiones simul iunclæ in corpore semper
existant, tamen licot nobis cogitare longitudinem sine hitituaine, et
profunditate, atque longitudinem ct latitudinem smc protunditate. Longitudo
sinc latitudine, et profunditate est ea guantitas, uuæ dicitur linea; longitudo
autem, et latitudo sme prolundilatc efficiunt illam quantitatem, quæ Nocatur
superfictesi quanlitas vero, quæ longitudinem, lantudinem et profunditalem
habet, rrancupatur corpus . '''"'ft nomi,u> M intelligitur non corpus
physicum, oempe prai est substant.a composita ei materia ei forma, æ proinde
qaod ">n soiam quantitate, sed etiam qualitatibus sensUibas esl
præditam seacorpus mathematicum, quod est guantum præcise samtam, hoc Quantitas
ob tres dimensiones, quas in ea esse vidimus, non nisi subsiantiæ corporeæ, quæ
ex partibus contlatur,propria est.At sensu translato tribui potest etiam
substantiis spiritualibus, quæ sunt expertes partium; et prout ipsis
tribuitur,non dicitur dimensiva, sed virtuahs, quia denotat aliquam illarum
perfectionum, quæ ad earum vel naturam, vel esse, vel durationem, vel vim
agendi pertinent. RELATIO in universum sumta illud proprie denotat, per quod
unum ad aliud quemdam ordinem habet. Quare in relatione tria distinguuntur,
scilicet subiectum, nempe illud, quod habet ordinem ad aliud; termxnus, seu
lllud, ad quod subiectum habet ordinem, et fundamentum, seu princinium, cuius
ratione subiectum ad terminum comparatur. Ita si cycnus similis columbæ propter
albedinem dicatur, cycnus erit subiectum, columba terminus, albedo autem
fundamentum huius relationis. Subiectum, et terminus vocantur etiam extrema. .
36. Relatio autem esse potest ve\propne, et strxcte realis, vel loqica, vel
mixta. Relatio realis est ea, quam intellectus deprehendit inter res vere
existentes, quæ naturalem ordinem habent ad invicem. Huiusmodi, e. g., est re atio,
quæ inter patrem, et filium intercedit. Hæc relatio vocatur mutua, quia eius
fundamentum m ambobus extremis realiter existit. Puta, mutua est relatio, quæ
inter patrem, et filium intercedit, quia pater ad nlium, et tilius ad patrem
ordinem naturalem habet. 37. Relatio autem logica exurgit ex eo, quod
intellectus ordinem ponit inter suos conceptus, atque ita unum ad alterum
refert. Quocirca est ea, qua aliquid ad aliud refertur, non secundum rationem
existendi, sed secundum rationem intelligendi 4. E. g., intellectus, si
comparat conceptum lapidis, quem actu in se considerat, cum conceptu lapidis,
quem antea sibi confecit, et unum esse eumdem cum alio advertit, relationem
identitatis inter utrumque ponit. 38 Denique relatio dicitur mixta, quoties
ordo mter eiusextremahuiusmodi est, ut in uno eorum fundamen est, quantum, in
quo dimensiones quantitatis a natura et essentil cor'poris, atque a
qualitatibus sensilibus seiunctæ mtelliguntur. i S. Bonav., /n lib. I Sent.,
Dist. XXVIII, dub. tum sit naturale, in altcro autem ab intellectu ponatur Hæc
relationis species dicitur etiam non mutua, quia iii ea unum extremorum
dumtaxat ordinem ad aliud reipsa habet. Id genus est relatio creationis, quæ
intercedit inter Deum, et res ab Eo creatas; nam relatio crealionis in rebus
creat.s realiter invenitur, quia ipsæ, quidquid sunt a Deo per actum creationis
accipiunt; in Deo autem invenitur tantum secundum rationem, quia Deus a rebus
creatis nullo modo perficitur. 39. Termini, seu extrema relationis mutuæ sunt
simul nalura; siquidem non potest eorum unus poni, quin et alter ponatur, ncc
unus tolli, quin et alter tollatur! E g est qui dicitur pater, oportet etiam
esse, qui dicatur fiIius; et s. esl, qui dicitur filius, necesse est patrem
aliquem esse; pariterque, si pater non est, non erit filius, et si non est
filius, nec erit patcr. Hoc autem intelliffendum est de esse ipsarum
relationum, quæ in subiectis sunt, non vero de esse subiectorum, in quibus sunt
relationes E. g., esse patris, et esse filii, prout homines sunt, non sunl
simul natura. 40. Rursus termini relationis mutuæ, si spectentur prout sunt
relati, sunt simul cognitione, quippe quod conceptus unius conccptum alterius,
et vicissim, expostulat fc. g., pater jntelligi non potest, quatenus est pater,
nisi et falius simul mtelligatur. Quod si spectentur non prout sunt quædam res
rclatæ, sed prout simpliciter sunt quæaam ros, cognitio unius non expostulat
cognitionem alterius. l g., s. Petrus, pater Pauli, specletur non prout pater
est, sed prout bomo est, potest intelligi, qu n simul mtelligatur Paulus. 6 H
41. In relatione autem non mutua termini non sunt simul naura nam illud
extremum, in quo fundamenlum Donitnr k • f i1. n?quit ?ine Ill in fIU()
^ndamentum pon.lin ab mtellectu, sed non vicissim. E. g., existentia
S^Snto^nU™.hab?S ne quæinmundosunt, mentem nostram V ]n),U'qn,,,n Dei; Sed
conceP^ Dei nos baud Ki s s L ?oncePtum rerum, quæ in mundo sunt, quia I ionis
o,S. °X,S,,MT P°te,st At ™r°> >j terminiV 10" mutue> Pwut relali
sunt, spectentur, simul '"" sil poni scientiam, tamen non po^u.d
JHffarK1 eM cXrfef sqec m SK^ '? : "erum^creatarum, tLen Deus -teih^uou
potest, tamquam creator, msi ad res extra se reie.atur. IX. De qualitate 42.
(Mto est accidens quod per se induc in^substantiam, spec.aleu, moduu essenj' e.
^ ^, tiam ?W W^^^IXa.V indcerein ahus modi subsidio moalc^ ", reddunt non
per ^SnonK^ ex eo quod partes, quas minatur, ut bene yel ™le ^ ^ DoperanduID.
E. g., sa ant SgL-t. ^ocatur habitus s. e.usmod. e t „t d .ffi sksekw sa e.,
bPS0SrnifqnSSrspecieS afficit ^J^Jg" qna substantia pollet, atque
cons.stit in P™cl,v ale/ J Xecilli.ate, quæ ipsi inest ad æ"d™ VliuTee1 obiectnm
snnt, et ad res.ste ndum ., quæ II, us ex tationem impedire possunt. •
Proclw.ta, vocatur po imbecillitas autem impotenlia. E. g., N>cr al es
P" V mTm potenliæ naturaliter comparatus erat ad ph.losoph.a morum
addiscendam. Tertia qualitatis species est illud accidens, quod in substantia
transmutationera sensibilem producit, vel a transmutatione sensibili
producitur. Huiusmodi est metus, qui statum hominis perturbat, vel pallor, qui
ex metu efficitur in vultu hominis. Hæc tertia qualilatis species vocalur passio,
si est levis, et fugax, e. g., pallor, qui ex metu ^ignitur; vocatur nutem
passibilis qualitas, si est constans, E?t diuturna, e. g., pallor ex longa
ægritudine ortus. 46. Denique quarta qualitatis species dicitur illud acciJens,
quod rcsultat ex dispositione partium quantitatis. Hacc postrema species
qualitatis vocatur figura, prout deaotal id, quod claudit quanlitatem, vel
forma, prout denotat id, quo una quantitas ab alia discriminatur. X. Dc definitione, et divisione 47. Definitio est
oratio, quæ quasi involutum evolvit id, ie quo quæritur1. Duplicis autcm cst
generis, nominis lempe, et rei. Definitio nominis ea est, quæ explicat, quid
icr aliquod nomen significetur; puta, cura aliqua vox ex)lanatur per dictiones,
a quibus oritur, seu per eius etynologiam ; vel cum disputantes patefaciunt,
quo sensu oces usurpare velint 3. Definitio aulem rei ea est, quæ issentiam rei
per aliquam vocem significatæ delerminat; [uare ipsa conficitur, cum
proprietates, quæ essentiam ei exhibent, recensentur, e. g., cum homo
definitur, aumal ratione præditum; vcl cum assignantur causæ inernæ, scilicet
maierialis, et formalis, quæ rem constiuunt, e. g., cum homo definitur,
substantia constans ex orporc, et anima rationali 4. 1 De his hoc loco agimns,
quatenus ad notionum perfectionem iol>is comparandam ipsæ inserviunt. Cic, Topie., c. 2. Dc
dcfinitione cf Alb. M., Topic, lib. VI, r. 1, c. 1, et passiin. 3 Qq>
dispp., De Per., q. II, a. 1 ad 9. 4 Definitiones a descriptionibus
distinguendæ sunt. Etenini in his on solum proprietates recensentnr, quæ
essentiam rei constituunt, ''ii etiam illæ, quæ ab essentia necessario, vcl
contingenter fluunt. • J., descriptio lit hominis, cum dicitur esse animal
providum, sa"r, multiplex, acutum, plenum rationis ct consilii. Item, non
defiitur, sed potius describitur res aliqua, cum eius causæ eiternat, empe
efficiens, exemplaris, el finalis, assignantur; puta si dicatur: romo cst a Deo
in sui similitudinem creatus propter beatitudinem. LOGICÆ 48. Ut definitiones
rite conficiantur, hæc observanda sunt : 1° Definitio debet neque pauciores,
neque plures notas enumerare, quam quæ necessariæ sunt ad rem definitam ab
omnibus aliis discernendam. Perperam faceret, e. g., qui hominem animal bipes,
vel, animal bipes ratione præditum definiret . 2° In definitione genus
proximum, et differentia specifica adhibeantur oportet: hoc enim pacto tota rei
natura quam brevissime exhibetur, atque a ceteris omnibus secernitur. Ideo
autem genus proximum, non vero remotum adhibendum est, quia genus remotum non
complectitur omnia, quæ generis inferioris notione continentur 2; ac proinde si
definilio fiat per genus superius, aliqua, quæ spectant ad genus proximum,
differentiam ingrediuntur. Ita, si triangulum rectiangulum definiatur per
figuram planam tribus lineis circumscriptam, cuius unus angulus est rectus, non
apparet, utrum ternarius numerus laterum spectet ad genus, an ad differentiam.
At si definiatur per triangulum, cuius unus angulus est rectus, luculenter
cognoscitur ternarium numerum laterum esse omnibus triangulorum speciebus
communem, et differentiam trianguh rectianguli in eo positam esse, quod
angulorum unum rectum habeat. 3°
Oportet ut definilio sit clara, nempe fiat per notiora, quam res definita,
siquidem ignotum per ignotum manifestari nequit. Atque ob eamdem rationem
docent Logici, cavendum esse a definitione in orbem, quam circulum vitiosum
appellant, scilicet quando in definienda ahqua re adhibetur vocabulum, in cuius
definilione occurnl illud ipsum, quod priori definitione explicandum erat. Hoc
vitium peccaret, si quis diceret, horam esse vicesi; mam quartam partem diei,
diem autem tempus vigmti qualuor horarum 3. i Id s. Thomas docuit, cum inquit
oportere, ut definitio denote aliquam formam de re, quæ per omnia ipsi
respondet. Hinc lntelli gis cur Logici doceant, definitionem, si recta sit, cum
re defimta re ciprocari. Revera æque dici potest: Quisquis est homo, est ammc
ratione præditum, et, Quidquid est animal ratione præditum, ei homo. Vid. s.
Aug., De quantitate animæ, c. 25. 2 Cf p. 13. s Hæc autem regula in relatis
locum non habet, siquidem natui cuiusque relati a natura termini, ad quem
refertur, efficitur. Deiinitio verbis neganlibus fieri nequit, quippe quod ipsa
non (am quid res non sil, quam quid res sit, cxplicare dcbet '. 49. Divisio
autem est totius in partes distribulio. Totum, quod in partcs dividitur, divisum
audit, et partes, in quas tolum dividitur, membra dividentia dicuntur. Si qua
divisionis pars complexa sit, suasquc in partcs et ipsa solvalur, subdivisio
existil. Denique plures divisiones eiusdcm rei, quæ diversis modis
consideratur, condivisiones a logicis dici solent. 50. Totum, quod dividitur,
triplicis generis csl, nempc intcgrale, universale, et potcntiale 2. Tolum
intcgrak iilud est, quod ex partibus coalescit, quac re ipsa ab se invicem
abscindi possunt, cuiusmodi est domus, quac ex fundamcnto, pariele, tecto
exurgit 3. Totum vero universale illud audit, cui partes, lamquam species,
subiiciuntur, veluti animal, quod in hominem, et belluam dividitur. Denique
totum potentialc nominatur illud, cui plures potentiæ, seu facullates inter sc
distinclæ insunt, vcluti anima humana, quæ, ctsi una el simplex sit, tamen in
intellectivam, sensitivam et vegetativam dividi solet. 51. Regulac reclæ
divisionis sunt præcipuac tres. Prima vetat, quin divisio fiat in partcs
pauciorcs, aut plurcs, quam oporlcl, quia partes tolum æquare debent. Contr.i
hanc rcgulam pcccaret lam qui angulum in reclilineum, ct curvilincum, quam qui
lincam in rectam, curvam, et mixtam divideret. Secunda præcipit, ut pars una allam non includal;
sccus enim eadcm pars bis sumeretur. E. m quo ipsa proprietas significatur. E. g., idcm esl
cere, convalescit, ac est convalescens. Unde verbum esse mncupan solet
primitivum. 1 I, l UI, a. 4 ad 2. Iam verbum in
enunciatione modi indicativi, et temporis præsentis sit oportet. Et primo,
verbum modi indicativi esse oportere probalur hoc brevi argumento : Enunciatio
est oratio indicativa, quia verum, aut ialsum significat. Atqui enunciatio
sumit ex verbo vim sigmncandi verum, aut falsum. Ergo verbum in enunciatione
non nisi modi indicativi esse potest. Secundo, verbum esse oportere temporis
præsentis evincitur hoc aho argumento: Verbum in enunciatione significat actum
intellectus, quo aliquam proprietatem cum subieclo coniungit, aut ab illo
separat. Atqui huiusmodi actus m tempore præsenti efficitur. Ergo verbum in
enunciatione tempons præsentis esse debet. Quod si multæ enunciationes
occurrunt, in quibus præteritum, vel futurum tempus adnibetur, præteritum, et
futurum non referuntur ad verbum, sive ad copulam, sed ad statum, in quo
subiectum repræsentatur fuisse, vel futurum. E. g., si dicatur, lapis \uxt,
vel erit calidus, perinde est, ac si diceremus: lapis, quem nunc cogitamus, is
est, qui fuit, vel erit cahdus. II. De nominis, et verbi natura 58. Duo, ut
diximus, sunt elemenla enuncialionis logice spectalæ, scilicet nomen, et
verbum. Horum natura hic exp plicanda nobis est. . Grammatici definiunt nomen,
icl quocl substantiam, aut qualilatem rei significat. Secundum Logicos autem
nomen est vox simplex, ad aliquid sine varietate lempons sigmjicandum instituta.
Quarum definitionum differentia ex eo oritur, quod grammaticus considerat
voces, non prout denotant conceptiones intellectus, sed prout denotant ipsas
res; logicus autem considerat voces, prout signihcant non ipsas res, sed
conceptiones intellectus. 59. lam nomen logice spectatum dicitur vox ad aliquid
significandum instituta, sive adhibita ad aliquem conceptum intellectus
denotandum ; nam nomen est una ex præcipuis partibus orationis, quæ ad
conceptiones mtellectus patefaciendas spectat . Præterea nomen dicitur vo5
simplex, quia destinatur ad significandum conceptun i Oratio, secundum
Aristotelem (De Interpr., c. 4, § 1), aliqui significat ex consensu. unius rei,
illius nempe, de qua aliquid enuntiatur. Denique dicitur nomine aliquid
significari sive varietate temporis. Re quidem vera lempus, ut suo loco
explicabimus, sine mutatione prioris et posterioris inlelligi nequit, ac promde
illud, quod cum tempore significatur, tamquam ahquid fixum et permanens
significari non potest. Atqui nomen, cum significet subiectum, aliquid tamquam
fixum, et permanens significat. Ergo nomen est vox, quæ aliquid sine lempore
significat 2. 60. Nomen ex eo, quod significat aliquid sine tempore, a verbo
differt. Etenim verbum non solum rem, sed etiam tempus, m quo res existit,
significat. Quocirca verbum definitur: vox simplex, quæ id, quod significat,
cum aliqua differentia temporis significat. E. g., vox valetudo est nomen, quia
quidquam aliud, præter valetudinem, non significat; contra, vox valet est
verbum, quia non modo valetudinem, sed etiam tempus, quo valetudo alicui mest,
significat. 61. Nonnulli Philosophi, inter quos Galluppius 3, contendunt,
essentiam verbi in eo positam esse, quod aliquid affirmat. Ast hæc sententia
falsa esse ex eo perspicitur, quod affirmatio, cum significet aliquid alicui
inesse, non ex solo verbo, sed cx verbo, et nomine efficitur; siquidem lpsa
expostulat illud, quod affirmatur, ncmpe verbum, alque lllud, de quo aliquid
affirmatur, nempe nomen. Alii autem opinantur verbum a nomine discriminari ex
eo quod actionem, et passionem significat. At hæc etiam sententia reiicienda
est. Etenim est quidem proprium verbi, quatenus ad subiectum refertur,
significare aliquid pcr modum actionis et passionis, siquidem verbo
significatur proprietalem aliquam subiecto inesse, vol quia ipsum subiectum
illam in se producit, vel quia ab aliqua causa in subiecto producitur; e. g.,
in hac enuncialione tetrus amat Paulum, amor de Petro pracdicatur, quia, VOX.
stimPlex distinguitnp a voce complexa, quæ plures conceptus mter se colligatos
significat, e. g., homo iustus. Advertito lllis etiam nominihus, quæ nomina
temporis dicun X^ l>ora, (ies, mensis, aliquid sine tempore significaH; si
pnuu Vt ten^ms tCmPUS' Pr°Ut CSt qUaCdam rCS' non ™ 5 Lezz., lez. XLH, t. I, p. 222, Napoli in ipso producitur per
principium sibi naturaliter insitum, in hac altera enunciatione, paries est
albus, albedo de pariete enunciatur, quia ab aliqua causa extenori in pariete
producitur . At vero non est propr.um verbi siJrnificare ipsam actionem, aut
passionem, actio enim, et passio per se, seu, ut s. Thomas inquil, in abstracto
sicut quædam res\ significantur per nomina, ut cum dicitur, actio, passio,
cursus, amor etc. ^RT UI. De diversis speciebus enanciationum ex parle forraæ
63 Enunciationis divisio ex duplici capite repetenda est scilicet a materia,
sive ah elementis, ex quibus jpsa constat, atque a forma, sive a modo, quo hæc
elementa concurrunt ad efficiendam enunciationem . 64 Si forraæ ratio habeatur,
spectan m prirais potest ipsa convenientia, vel discrepantia attributi cum
sub.ecto, atque inde oritur divisio enuncialionis m affirmantem, atque neqantem
4. Enunciatio affirmans ea est, quæ ahquid alicui inesse significat, e. g.,
homo est raiione præditus, negans autem, quæ significat aliquid alicui non
inesse, e z, bellua non est ralione prædita. 6d Ab enunciationibus tum
affirmantibus, tum negantibus distineuendæ sunt illæ, quæ infinitæ appellantur.
Huiusmodi enunciationes illæ sunt, in quibus quodcumque aliud subiecto
tribuitur, quam quod significatur præcticato E. g., brutum est non homo.
Vocanlur intinitæ, quia in eis aliquid indeterminatum subiecto tribuitur.
"T^oc secus ac sensit Arnaldus (Grammaire gentrale, et raison \ n6e, parl
2, c. 8), locura quoque habet in ^ y^"U^. ' a grammaticis dicuntur. E. g.,
in hac en7unc^at,0°e;rft7^u^. mit, in qua verbum neutrum invemtur, dormire
Socrati per quam dam actionem inhærere intelligitur, quia ex aliquo pnncipio,
quod est in Socrate, efficitur, ut ipse dormiat. 2 In lib. I Perhierm., lect.
IV. 5 De enunciationis veritale et falsitate, quippe quæ non : speeta ad ea, e
quibus enunciatio constituttur, sed po us cogmno nem, quæ per ipsam eihibetur,
prout nempe illa eonsentaneo est naturæ rei eognitæ, aut ab hæ dissentit,
opportun.or. loeo m Criteriologia sermonem habebunus. •„„:_ „„rtinet Hæc
divisio ad qualitatem essent.alem enunc.at .onis Pe^nrt, quia essentia
enunciationis in coniunctione præd.cat. cum subie cto, aut separatione unius ab
altero consist.t. Iamvcro enunciatio infinita differt aJb affirmante, quia
affirmans denotat aliquid determinatum inesse subiecto, sed infinita significat
aliquid indeterminatum subiecto inesse. Præterea, diffcrt a negante, quia
negans significal aliquid determinatum non inesse subiecto, infinita autem dum
significat aliquid determinatum in subiecto non inesse, simul significat ei
aliquid indeterminatum inesse, atque ideo in ea negatio e copula verbaii, nempe
ex verbo est, transfertur ad vocem, quæ rem prædicatam significat. At si
enunciatio infinita proprie non est aiens, aut negans, ipsa utriusque est
particeps. ld cx dictis facile intelligitur; nam enunciatio infinita est
quodammodo asserens ex ea parte, quatenus aliquid indeterminatum de subiecto
prædicat; et est quodammodo negans ex ea parte, quatenus aliquid detcrminatum a
subiecto removet. E. g., si quis dicat brutum est non homo, negat quidem brutum
esse hominem, sed simul asserit aliquid aliud bruto convenire. 67. Circa
enunciationes afiirmantes et negantes hæc notatu digna sunt: 1° In enunciatione
aflirmante prædicatum accipitur secundum totum suum complexum, nequit enim
aliquid cum subiecto coniungi, nisi omncs eius proprietates subiecto
conveniant. E. g., dici non posset triangulum esse figuram, nisi omnes liguræ
proprietates triangulo convenirent. 2° In eadem enunciatione aflirmante
prædicatum non accipitur secundum totum suum ambitum, qnia prædicatum magis
universale, quam subiectum, plerumque est ', ac proinde non solum illi
subiecto, sed etiam aliis convenire potest. 3° In enunciatione negante
prædicalum accipitur secundum totum suum ambilum. E. g., in hac enunciatione,
trtangulum non est quadratum, denotatur nullum possc esse quadratum, quod sit
triangulum, alioquin triangulum non^essc quadratum absolule dici nequit. 4 In
eadem enunciatione negante prædicatum non ac 1 Divimus plerumque, quia
aliquando prædicatum æque universale s(, ac subiectum, ncmpe quando dcclarat
notionem subiecti, Vel est aliquid ita ei proprium, ut cetera excludat. E. g., Tlomo est anunal ratione
præditum, aut homo est animal capax ridendi . 30 LOGICÆ cipitur secundum totum
suum complexum. E. g., illa enunciatio, triangulum non est quadratum, haud
signincat omnes proprietates quadrati triangu lo repugnare; nam ad removendum
aliquod prædicatum a subiecto satis est, ut unum eorum, quæ prædicatum
constituunt, subiecto non conveniat. In forma enunciationis spectan etiam
potest Hle snecialis modus, quo convenientia, vel discrepantia inter
attributum, et subiectum determinatur Ex hoc capite enunciationes
constituuntur, quæ modales appeliari solent. 69 Itaque enunciationes modales
sunt lllæ, m quinus modus quidem specialis significatur, quo prædicatum ad
subiectum refertur. Harum enunciationum quatuor species recensentur, nempe,
possibilis, contingens, necessana, %mvossibilis. Enunciatio possibilis ea
dicitur, m qua sigmlcatur prædicatum actu in subiecto non esse, sed esse uosse
e alis accepta universe, hoc est secundum totum suum ambitum, c. g., Omnes
homines sunt ratione præditi. Deni^ue dicitur particularis, si cius subiectum
est notio uni^ersalis accepta ex parte, nempe ita ut non complectatur minia,
quæ eius ambitum constituunt, e. g., AUqui homines sunt philosophi. 73. Ut
patescat utrum subiectum universe, an ex partc iccipiatur, ac proinde utrum
enunciationes sint univcrsæs, au parliculares, aliquæ notæ subiecto
adiiciuntur. 9æ sunt pro cnunciatione universali omnis, nullus ; pro
larticulari autem aliquis, vel quidam. Cum huiusmodi lota nun proferlur,
enunciatio indeterminata vocatur, quip)e quod ipsa, prout exprimitur, non
commonstrat utrum imverse, an ex parle accipienda sit, sed ut hoc cognoscatur,
expendendum est, utrum atlributum ad subiectum Jssentiahler, an contjngenter
referatur. Si primum, enuniiatio est univcrsalis, e. g., homo est ratione
præditus; an alterum, est parlicularis, e. g., homo est sapiens. 74. Ratione
autem illius, quod termini enunciationis Mgnifacant, ipsa dividiturin unam, et
multiplicem. Enunciauo multxpUx ea est, quæ ex narte subiecti, aut præOicati,
aut utrmsque plura signifieat, quæ nullum ordiMW inter se habent, ita ut ad
unicum conceptum subieBU, aut prædicali reduci nequeant. E. g., Socrates, ct
Plato ambulant, vel, Socrates ambulat, et philosophatur, vel, Socrates et Plato
ambulant, et philosophantur . Hinc videshuiusmodi enunciationem multiplicem
appellari, quia non est unica enunciatio, quæ ex pluribus, quasi ex partibus
suis, conflatur, sed est enunciatio, quæ diversas enunciationes exhibet. 75.
Enunciatio autem una duplicis generis esse potesl; nempe vel est una
simpliciter, vel est una per coniunctionem. Una simpliciter dicitur ea, quæ
unum de uno absolute significat, e. g., homo est ratione præditus. Una autem
per coniunctionem vel est ea, quæ ex parte subiecti, aut prædicati, aut
utriusque plura significat, quæ ad unicum conceptum subiecti, aul prædicati reducuntur,
e. g., Animal rationale mortale currit; vel est ea, qua significatur coniunctio
plurium enuncialionum, quæ ita inter se referuntur, ut unam enunciationem
constituant; e. g., Si dies est, lux est. Enunciationes, quæ sunt unæ hoc
altero modo, nempe per connexionem plurium enunciationum, dicunlur hypotheticæ,
atque hoc nomine a ceteris omnibus, quæ vocantur categoricæ, distinguuntur.
Præstat earum naturam clarius exponere, variasque species numerare. 76. Itaque
enunciatio hypothetica differt a categorica, quod huius partes sunt nomen, et
verbum, iliius autem sunt enunciationes categoricæ, quarum secunda per aliquam
coniuuctionem ad primam refertur. E. g., hypothetica est illa enunciatio, Si
dies est, lux est, quia cius partes sunt duæ enunciationes, dies est, lux est,
atque hæ coniunguntur per narticulam n, quæ officio copulæ fungitur. Hinc
perspicitur enunciationem hypotheticam re ipsa esse unam, quia non significat
ea, quæ enunciationes categoricæ ipsam componentes denotant, sed dependentiam,
quæ inter categoricas intercedit; hæcautem dependentia non nisi tamquam unum
intelligitur. E. g., illa enunciatio, Si dies est, lux est, non significat diem
esse, et lucem esse, sed lantum connexionem harum dua-. rum enunciationum. Tres
autem sunt species enunciationis hypotheticæ, scilicet connexa, coniuncta, et
disiuncta. Enunciatio connexa ea est, in qua enunciationes categoricæ
coniunguntur per particulam si, e. g., Si dies est, lux est. Ex duabus
partibus, ex quibus enunciatio connexa constat, ea, quæ collocatur post
coniunctionem si, antecedens; ea vero, quæ sine coniunctione est, consequens
dicitur, quia illa rationem huius complectilur. Ex ipsa huius enunciationis natura patet eius
veritatem non pendere a veritate partium, sed ex ipsarum connexione. Hinc
enunciatio connexa potest esse vera etiamsi enunciationes, ex quibus constat,
sint falsæ, et esse falsa, etiamsi enunciationes sint veræ. E. g., vera est hæc
enunciatio connexa, Si cerebrum tuum cogitat, aliqua materia cogitat, eliamsi
et cerebrum cogitare, et matenam cogitare sit falsum ; e contrario, quamvis
verum sit hominem esse tum animal, tum ratione præditum, tamen falsa est hæc
enunciatio connexa, Si homo est animal, ratione pollet. Ratio est, quia in
priori enunciatione adest connexio inter antecedens, et consequens, in altera
autem hæc connexio deest. Porro ut cognoscatur utrum extet conncxio
consequentis cum antecedenti, inspiciendum est, utrum contrarium consequentis
repugnet antecedenti, necne. Si primum, connexio inter utrumque existit; e. g.,
in illa enunciatione, Si dies est, lux est, adest conncxio, quia tenebræ, quæ
luci opponuntur, diei etiam adversantur. Sin alterum, connexio deest, uti in
hoc exemplo, Si dies est, Socrates ambulat, quia oppositum consequcntis, ncmpe
Socratem non ambulare, antccedenti, nem\mjsscdiem, non adversatur. 79.
Enuncialio coniuncta illa cst, in qua enunciationes catcgoncac connectuntur per
particulam Non, atque ita unam enunciationem efliciunt; c. g., non dies est, et
nox est vel, Nonest mortuus Plato, et vivit Plato. Ut vera sit hacc enunciatio,
oportet ut enunciationes, ex quibus constat, sibi invicem opponantur, ita ut
simul exislere nequeant. Hinc falsa est hæc enuncialio, Non kgit Plato, et
ambulat Plato, quia, cum legere, et ambularc sibi invicem non opponantur, nihil
prohibet, quin Plato simul legat, et ambulet. 80. Deni(|ue enunciatio disiuncta
cst illa, in qua enunciationes calcgoricæ efficiunt unam cnunciationem per
particiilam aul; c. g., Aut dies est, aut nox cst. Ad verilatem huios
cnunciationis duo cxposlulantur; nempe 1° oppositio inter partcs, quia hacc
enunciatio innuit ut, posila una parte, aliac excludendæ sint, quod profecto
non msi in ns, quæ sibi inviccm adversantur, locum habere Philos. Curist.
Compend. L0 GICÆ potest; 2° integra partium enumeratio, alioquin statui non
posset, ut una præter alias admittenda sit. Hinc falsa est hæc enunciatio,
Triangulum est aut rectangulum, aul acutangulum, nam potest etiam esse
obtusangulum !. Ex iis, quæ diximus circa enunciationem unam, et multiplicem,
perspicitur quid re vera sint illæ enunciationes, quas recentes Philosophi
complexas vocant. Enunciationes complexæ, eorum sententia, sunt eæ, in quibus
vel subiecto, vel prædicato, vel utrique alia enunciatio adnectitur ; e. g.,
Homo, qui est iustus, laude dignus est ; vel, Homo est animal, quod rationem
habet; vei, Animal, quod rationem habet, actiones exerit quæ præmium xel poenam
merentur. Enunciatio, cuius vel subiecto, vel prædicato, vei utrique alia
assuitur, principalis ab eis dicitur; enunciationes vero, quæ eius terminis
adiunguntur, incidentes appellantur. Hæ enunciationes incidenles in
explicativas, et restrictivas, seu determinativas dividuntur. E. g., in illa
complexa, Homo est animal, quod rationem habet, incidens esl restrictiva, quia
delerminat subiectum enunciationis principalis. In hac autem complexa, Socrates,
qui est philosophus, disputat, incidens est explicativa, quia hæc tantummodo
declarat, sive explicat subiectum. Iamvero ex dictis facile perspicitur 1°
enunciationem complexam, in qua incidentes sunt restriclivæ, esse unam ; e. g.,
unaj est hæc enunciatio, Homo est animal, quod capax scientiæ est, incidens
enim, quæ adnectitur attributo, cum determinet essentiam ipsius attributi,
illud multiplex non efficit; 2° omnem enunciationem complexam, in qua
incidentes sunt explicativæ, 1 Plerique recentes Logici unam enunciationem,
quam vocavimus connexam, appellant hypotheticam. At perperam, nam enunciationes
coniuncta, et disiuncta sunt, non secus ac connexa, hypotheticæ. Etenim ipsæ
nihil affirmant, aut negant, sed tantum quamdam hy| pothesim, seu suppositionem
statuunt. Ita non solum cum inquimus, Si dies est, non est nox, sed etiam cum
inquimus, Non dies est, et nox est, atque, Aut dies est, aut nox est, nec
asserimus, nec negamus esse diem, vel noctem, sed dumtaxat alterutrum esse
statuimus. Inde fit, ut enunciationes coniuncta, et disiuncta ad formam
enunciationis connexæ, quæ secundum recentes hypothetica est, nullo negotio
revocentur. Revera hæ enunciationes, Non dies, est, et nox est, et, Aut dies
est, aut nox est, efferri possunt hunc in modum. Si dies non est, nox est, et,
Si nox est, dies non est. csse multiplicem; e. g., multiplex est illa
enunciatio, Socrates, qux est philosophus, disputat, quia incidens, quæ addilur
subieclo, non pertinet ad essentiam subiecti, ac proinde lpsum multiplex
efficit. V. De opposilione, et conversione enunciationum 82. Oppositio
consistit in affirmatione, et negatione eiusdem prædicati de eodem subiecto
secundum eamdem rationem. Hinc oppositæ sunt duæ enunciationes, quæ habent ldem
subiectum, et idem prædicatum, et qualitate inter se diflerunt, ita ut una sit
affirmans, altera negans. 83. Iam enunciationes oppositæ dicuntur
contradictoriæ, si una earum est universalis, altera particulnris, e. g., Umnis
homo est iustus, Aliquis homo non est iustus, vel contrariæ, si ambæ sint
universales, e. g., Omnis homo est tustus, Nullus homo est iustus. Quod si
enunciationes quarum una est affirmans, altera negans, sint ambæ particulares,
ipsæ dicuntur subcontrariæ; e. g., Aliquis homo est tustus, Ahquis homo non est
iustus. At eiusmodi enunciationes, quemadmodum monuit s. Thomas \ si proprie,
et stricte considerenlur, non sunt oppositæ, quia subiectum cum m ambabus ex
parte sumatur, non estidem, sed divcrsum 2. 84. lam quod spectat ad
enunciationes contradictorias, Dihil medii mter ipsas est, sed si una ipsarum
est vera, ailera ialsa esse debet. E. g., harum duarum enunciationum, Omnis
homo est animal, Aliquis homo non est animal, 'um prmia sit vera, altera falsa
esse debet. E eontrario, tiarum duarum, Nullus homo est iustus, aliquis homo
est >ustus, quoniam sccunda est vera, prima pro falsa habenda 1 In lib. I
Perhierm., lect. XI. JL?,0" PaUd rccentes inter enunciationes oppositas
enumerant etiam ™"™as, eas nempe, quæ qualitate secum conveniunt, et
diffeZ !!|lv?li[ftC' e' 8.,Omni8 homo est iustus. Aliquis homo est minri.Vi, l
h°moest iust> Ali(mh homo non cst iustus. At d nn w! subaltcrnæ ^uILa ratione oppositæ dici
possunt. Nam •enth Zl\ ZTn cnunciationnn constituendam expostulatur diffeir e
f.,r .,,1M! (]ua,ltatcin> l nt in na ipsarum de subiecto af atnriSii m q,l°d
dC e0dem Subiect0 in a,tera cnunciatione man ;.,.' I1 ™nnationcs subalternæ
qualitate secum haud pu>nant, crgo ipsæ sibi oppositæ minime dicendæ sunt.
LOGICÆ est. Ratio est, quia si quoddam attributum vere de toto universe
affirmatur, non potest negari de parte, quæ in toto continetur; et, si quoddam
attribntum vere de parte affirmatur, non potest in universum de toto negari,
alioquin idem de eodem simul affirmaretur, et negaretur. 85. Enunciationes
contrariæ simul veræ esse non possunt ; nam, cum in una illarum attributum de
subiecto universe affirmetur, in altera universe negetur, non nisi alterutra
potest esse vera, quia idem de eodcm aut affirmetur, aut negetur oportet. Eæ
autem vel sunt ambæ falsæ, si nempe attributum sit contingens, uti in hoc
exemplo, Omnis homo est iustus, Nullas homo est iustus; vel, si attributum sit
essentiale, una illarum est vera, altera falsa, uti in hoc alio exemplo, Omnis
homo est ratione præditus, Nullus homo est ralione præditus. 86. Denique, quod
ad snbcontrarias attinet, hæ simul falsæ esse non possunt, nam vel sunt ambæ
veræ, idque evenit, si attributum est contingens, e. g., Ahqui homines sunt
sapientes, Aliqui homines non sunt sapientes;\e\ una earum est vera, et altera
falsa, idque evenit, si prædicatum est necessarium, e. g., Aliquis homo est
ratione præditus, Aliquis homo non est ratione præditus. 87. Conversio autem
enunciationis est eius mutaiio effecta per transpositionem terminorum, nempe
subiecti m locum prædicati, et prædicati in locum subiecti. E. g., hæc enunciatio, Nullus
homo est lapis, convertitur ln hanc, Nullus lapis est homo. Perspicuum autem
est m conversione enunciationis qualitatem mutandam non esse, alioquin non
conversio, sed oppositiohaberetur. Ahquando autem, ut enunciationis veritas
maneat, quantitas mutanda est, idque evenit, cum prædicatum latius patet, quam
subiectum. Inde oritur duplex species conversionis, nempe simplex, et per
accidens. Conversio simplex ea est, m qua eadem quanlitas relinetur, e. g.,
Nullus circulus est quadratum, Nullum quadratum est circulus, vel Ahqua
votuptas est bonum, aliquod bonum est voluptas. E contrano, conversio per
accidens illa est, in qua quantitas mutatur e. g., Omnis homo est animal,
Aliquod ammal est homo RATIOCINATIO, sive græca voce ‘syllogismus,’ est illa
actio nostræ mentis, qua ex duobus iudiciis tertium elicit. Ipsa motus, et
discursus, sive progressio quoque nominatur, quia in ea mens nostra a notis ad
ignota progredilur. 89. Discrimen inler iudicium, cl ratiocinationem hoc est:
In iudicio mens nostra perspicit convenientiam, aut discrepantiam alicuius
prædicati cum aliquo subiecto immcdiale, nempe ex sola comparatione terminorum.
In ratiocinatione autem illam perspicit mediate, nempe per aliquam tertiam
notionem. Id autem fit hunc in modum: Inlellectus adnilens cognoscere
convenientiam, aut discrepantiam duarum notionum, sumit aliquam tertiam
notionem; deinde cum hac comparat duas priores. Si comperit has cum illa tertia
convenirc, concludit eas inler se etiam convenire. E. g., cognoscit
convenientiam notionis esse immortale, cum nolione, anima humana, per lertiam
nolionem, esse immateriale, cuius ope ita ratiocinalur : Substantia
immatcrialis est immortalis ; atqui anima humana cst substantia immaterialis ;
ergo anima humana est immortalis. Huiusmodi ratiocinalio vocalur aiens. Sin
COmperit unam duarum notionum cum tertia convenire, alleram ab ea dissentire,
inde concludit ipsas secum non [•onvcnire. E. g., cognoscit discrepantiam inter
has duas noliones, substantia materialis, ct anima humana, per terLiam
nolionem, substantia cogitans, cuius opc ita ratiocinaLur: Substantia cogitans
non cst materialis', alqui anima humana est substantia cogitans; ergo anitna
humana non est materialis l. Ratiocinatio, quæ fit hoc modo, vocalur negans.
90. Ex iis, quæ circa naturam ratiocinalionis diximus, Facile intelligitur
quodnam sit fundamentum, quo ipsa 1 Pieri potest ut intellectus confercns duas
notioncs cuin tertia, >erspiciat neutram eum illa tcrtia convcnire. Iam, si
hoc cvcnit, ntellectus nihil inde colligit, quia intclligit tcrtiam notionon
non ^ssc communem mensuram duarum priorum. quocirca nullam ra;iocinationcm
conficit. superstruitur, et quænam elementa, ex quibus compo nitur. Sane,
fundamentum ratiocinationis aientis est il lud axioma : Quæ conveniunt uni
tertio, ea sibi quoque conveniunt; negantis vero illud: Quorum unum cum tertio
convenity alterum ab eo discrepat, ea inter se etiam discrepant. Quod autem
spectat ad elementa raliocinationis, com pertum est nullam ratiocinationem sine
tribus notionibus fieri posse. Hæ sunt notio alicuius subiecti, notio præ
dicali, de quo quæritur, utrum illi subiecto insit, an non; et tertia, cum qua
notiones subiecti, et prædicati com parantur. Terminus, qui tertiam notionem
significat, di citur medius ; terminus, qui exhibet notionem subiecti, minor,
atque ille, qui notionem prædicati, maior dicitur, quia nolio prædicati
plerumque latior est notione subie cti '. Perspicuum aulem est, terminum
maiorem, et mi norem cum medio ita connecti oportere, ut inde tria iu dicia
existant, duo nempe, in quibus notiones attributi, et subiecti cum medio
conferuntur, et tertium, in quo earum convenientia, aut repugnanlia colligitur.
Quapropter, si ratiocinatio verbis
exprimatur, tres in ea enunciationes inveniuntur. Harum illa, in qua terminus
maior cum me dio confertur, vocatur propositio, vel propositio maior; alj tera,
in qua terminus minor cum medio comparatur, di citur assumptio, vel propositio
minor; tertia autem enun ciatio, in qua staluitur relatio inter terminum
maiorem, i et terminum minorem, complexio, vel connexio, vel con clusio
nuncupatur. Ita in hoc exemplo : Omne metallum j est ductile; atqui aurum est
metallum; ergo aurum est du~ ctile, prima enunciatio est propositio, quia
continet pro nunciatum universale, omne metallum esse ductile; secunda est
assumptio, quia pronunciatum universale assumit, sive ad se trahit, et declarat
aurum sub metallo contineri; tertia est conclusio, quia in ea concluditur: Si
ductile omni me tallo convenit, etiam auro convenit. Duæ priores enuncia tiones
præmissæ, vel antecedens etiam vocitantur, quia conclusioni præmittuntur, et
conclusio 2 designatur etiam 1 Cf p. 29. Terminus maior et minor vocantur etiam
extrema. 2 Monendum est conclusionem, antequam ex præmissis eliciatur, vocari
quæstionem; nos enim primum quærimus, an aliquod prædicatum insit alicui
subiecto; deinde, postquam novimus in præmissis relationem illius prædicati, et
subiecti cum quodam tertio, unum alteri inesse, aut non inesse concludimus.
nomine consequentis, quia consequitur ex præmissis. Antecedens, et consequens, hoc
est tres enunciationes seorsum consideratæ, constituunt materiam
ratiocinationis. Nexus, qui inter antecedens, et consequens existit, et cuius
graliahoc ab illo infertur, consequentiæ nomen habel, et efficit formam
ratiocinationis, quæ, si desit, ratiocinatio prorsus evanescit, etiamsi
enunciationes sintveræ. Duæ sunt ratiocinationis species, syllogismus et
inductio. Quod si vox ratiocinatio secundum vim nominis græci adhibeatur, prior
syllogismus deductivus, posterior sylloqismus inductivus dici potest. Syllogismus est illa ratiocinatio, qua mens nostra a
toto ad partes, sive a genere ad speciem, vel a specie ad individua
progr^ditur. E. o\, Omne animal
præditum est sensibus; atqui equus est animai; ergo equus præditus est
sensibus. Inductio autem est illa ratiocinatio, in qua mens progreditur a
partibus ad totum, nempe ab mdividuis ad specicm, aut a speciebus ad genus. E.
g.,Bos, equus, canis, leo, ceteraque bruta prædita sunt sensibus; atqui bos,
equus, canis, /eo, cetcraque bruta sunt omne animans brutum ; ergo omne animans
brutum præditum est sensibus. 93. Porro inductio, acque ac syllogismus, constat
ex tribus terminis, et ex tribus enunciationibus; ast illa ab isto ex utroque
capite discriminatur, ita ut harum argumentationum forma sit diversa. Enimvero,
quod ad terminos attinet, ille, qui est terminus medius in inductione, ut in
allato exemplo, bos; equus, etc, est terminus minor, sive subieetum in
syllogismo; etcontra, terminus, qui est minor in llla, ut in eodem exemplo,
omne animal, est medius in syllogismo. Ratio est, quia inductio a
particularibus ad umversale progreditur, idest in eius consequenti enunciatur
de toto, nempe de genere, vel de specie, illud.quod m antecedenti smgulis cius
partibus, idest speciebas, vel individuis, convenire compertum esl; ac proinde
singulæ partes sunt terminus medius, et totum est subiectum, sive terminus
m.nor. E contrario, syllogismus ab universali aa particulare descendit, hoc
est, in eius consequenti de auqua specie, vel de aiiquo individuo enunciatur
a!i(|iod a i ri bn inn ex eo, quod compertum est in anleeedenti istud
aitriDutum convenire generi, vel speciei, cui subiectum refertur; ac proinde in
syllogismo terminus medius consistit in toto, idest in genere, vel specie, et
terminus minor, sive subiectum, in parte, idest in specie, vel mindividuo.
Præterea, terminus medius in syllogismo a termino minori luculenter
distinguitur, quia genus a specie, et species reipsa distinguitur ab individuo.
In inductione autem terminus medius, etsi diverso modo concipiatur, ac terminus
minor, tamen reipsa ab eo non distinguitur, quia partes unum idemque sunt, ac
totum, quod ex iis conflatur. Quod autem pertinet ad enunciationes, harum ordo
quodammodo immutatur; nam, ut ex allatis exemplis constat, ea, quæ est
conclusio in inductione, fit maior in syllogismo. Præterea minor, etsi in
utraque specie ratiocinationis iisdem vocabulis exprimatur, tamen diversam vim
habel; nam in inductione significat terminum medium efficere terminum minorem,
e. g., homo, canis, leo etc. efficiunt omne animal; sed in syllogismo
significat lerminum minorem contineri in medio, e. g.,homo, canis, leo etc.
continentur in animali. 95. Cum syllogismus, et inductio sint diversæ formæ
ratiocinationis, sequitur ipsas, præter principium commune, quo, ut diximus ,
ratiocinatio universe spectata innititur, habere proprium principium, ex quo
veritas formæ unicuique propriæ enascitur. Hoc principiurn in syllogismo est:
ld, quod subiecto universe sumto, seu toti convenit, aut repugnat, cunctis
partibus notione eius comprehensis convenit, aut repugnat. In inductione autem:
ld, quod cunctis notione subiecti comprehensis convenit, aut repugnat, toti,
sive subiecto universe sumto convenit, aut repugnat. III. De regulis in
syllogismo servandis 96. Ad syllogismum rite condendum oclo traduntur regulæ,
quæ omnes illuc speclant, ut inter conclusionem, et præmissas ea servetur
connexio, sine qua syllogismus existere non potest 2. 97. Prima regula
prohibet, quin plures tribus terminis in syllogismo sint. Nam omnis
ratiocinalio in eo sita est, Hæc connexio in eo consistit, quod una præmissarum
conclusionem contineat, altera conclusionem in ea contineri declaret. quod duæ
notiones subiecti, et prædicali cum una quadam terlia m præmissis comparentur,
ut earum convenienlia, aut discrepantia in conclusione coJligalur. Atqui si
qualuor termini essent in syllogismo notiones subiecti' et prædicali non
compararentur in præmissis cum eadem notione. Lrgo in syllogismo non plures,
quam tres termini sint oportet \ 98. Secunda vetat, quominus quidam terminus in
con;Jusione Jalius sumatur, quam in præmissis. Nam id quod 3St magis umversale,
in eo, quod est minus universale xmtinen nequ.t; quapropter, si terminus in
conclusione nagis universahter, quam in præmissis, acciperetur illa n lstis non
contineretur, ac proinde illa ab istis coIlice acci • • Huiusmodi cst Ule
syllogismus: Mus est syllaL; atqui stjl\oa non rodit caseum; crgo mus caseum
non rodit ™™™ rela™ Peccat ille syllogismus: Quod ego,m, tunon es atqm ego sum
homo; ergo tu non es homo; nam homo mmdo accpitur particulariter, quia esf
ttributum enundattonls -""^ir„;^n[;ronc amcm lati,,s pMet' quu
mus'efi flzLw Sy,,0Ssmo: Aliauod ratione poUet; atqui n s uSL"mTl;
er9°.eauu> raHo sunt qiatuor, " n,0!1,l,s tcrminos, animal, in propositione
maiori ♦ In I ; ';,;,,,0tl CSt h°TK m minoH an,'ma1' nod esl bi u.um. 'uui t ;
LJZ v V0Vt"'U hlC Alexander fuit dux; /' Alexandei fuU parvus; ergo
Ahxander fuit parvus dux ctum, neque prædicatum cum termino medio convenire, |
et, quoties hoc evenit, nihil inde, ut iam adnotavimus, de convenientia, aut
discrepantia subiecti et prædicati colligi potest1. 102. Sexta prohibet,
quominus ex duabus aientibus conclusio negans colligatur. Nam præmissæ sunt
aientes, si tam subiectum, quam prædicatum cum termino medio consentiunt.
Atqui, quoties subiectum, et prædicatum cum termino medio consentiunt,
conclusio enunciare debet convenientiam subiecti, et prædicati inter se. Ergo
ex duabus aientibus conclusio non negans, sed aiens elicienda est. 103. Septima
ita se habet: Conclusio partem debiliorem semper sequitur, hoc est, si
præmissarum altera fuerit vel negans, vel particularis, conclusionem negantem,
aut particularem esse oportet. Et sane, 1° si una præmissarum est negans, et
altera affirmans, id argumento est unum extremum convenire cum medio, alterum
minime; ergo, secundum principium iam statutum2, in conclusione deducendum est
extrema inter se non consentire. 2° Si
una præmissa est particularis, id argumento est unum extremorum ex parte
convenire cum medio termino; ergo, secundum illam regulam, qua statuitur
conclusionem magis universalem, quam præmissæ, esse non posse, extrema in
conclusione non universe, sed ex parte secum coniungenda sunt. 104. Octava regula prohibet,
quominus ex duabus particularibus aliquid concludatur. Et sane, illæ præmissæ
particulares vel sunt aientes, vel illarum una est aiens, altera negans. In
prima hypothesi ipsæ nullum terminum universalem exhibent, quia, cum
enunciationes sint particulares, subiecta nequeunt esse termini universaliter
sumti s, et, cum sint enunciationes aientes, prædicata ex parte suæ extensionis
sumuntur. Inde fit ut medius terminus in illis præmissis, sive subiecti, sive
prædicati munere fungatur s, numquam universaliter accipi possit; 1 Hinc
perperam quis ratiocinaretur hoc modo : Homo non es æternus; atqui animal non
est æternum\ ergo homo non est animal 2 P. 37-38. 3 Cf p. 31-32. Cf p. 28-29. s
Terminus medius in præmissis diversimode cum extremis ro ligari potest.
Scilicet, vel est subiectum in propositione maiori, cnm SS sarum allera sit
affirmans, altera negans, conclusio n regula scpHma negans sit oportet, et
proinde a Ur hutum m ea universaliter est accipicndum. At vero lerS™
particuhns"- T mSS!S TT™ ^^ deno™ °e t „,' "r,mn dUal,Uf Præmiis
particularihus, quarum una cst aflirmans, altera negans, unus lerminus
auifs^hic ZTT'' SCi'iCCt arihugtu præm sæ ne\T!ULZrZlermm^ "0n e?
ttributun. conclusiorcffuhterih tCr,Tl'nuS. me,dlus1uia terminus medius, ex
debet C rTi '" allCrUtr-a enun'ione uniyersalis .ffirminle aK Jl ^ Prænnssis
Prticularibus, allera uiirmante, altera neganle, conclus o e iceretur hær
lilinr præmissis foret. r' næc lauor IV.De sjllogismo hypothetico •£?."•
Q°e]na.d1m°duni cnunciationes in calecoricas ef bv SS tl'dlTl !ta syll0^ismus
ettegSsM fc 'e catejtoricam ^Tk q", tC"US Primam e™ncialionem IUO.
Uuoniam enunciationis hvpolhcticac tros,nf;„c t, nempe eonnexa, coniuneta, l\
disiSa, s^Fsmus nbiectum n utroone ['" t''1>es; "9°
"u""s cete™e sunt falsæ, et Akt. V. De arguræntationibus, quæ ad
syllogismum accedunt 10. Sunt quædam argumentaliones, quæ ad syllo$; ergo est
nox. n i „„"," ""' r1"80 /" conclnsion0 non nisi
„„ '; r.o Ml est ZZl, ', "' er90 quodlibet corpus est mobih1 Xismor SrTatZ
^ ess7'uamdam ^adSneni /omfcctUur Sos Vres L?sm™ •' 7S'1, aUulimuS> mest
esse in alio spafio, fotest mutZspali^Tatali iod tstZZJTs^z t iz^r°ri&^
nobilc ataui SS" ( P^e5' mw'are ^, es iX8. Ut sontes nte concludat, illud sedulo cavere onnr æc
°Z„r:Cla,i0 amb!&ua' a,,,! ™r,„i . ""ecl", ttributodi '
0"'"' ia 0 P o„°,' n0"Se:,taneU,n CSl '1Uid illi, "''•.
rorpori °io, ° essc LZ? ""? Sna"U'"' idc0'lc e 2
Plutarch.,„ mZS ln°b,,e C°nVen,re dcoc!ltsmns, seu apparens syllogismus, quia,
ut alibi adnotamnus , forma essentiam ratiocinationis constituit, adeo nt, si
ipsa dcsit, nulla existat ratiocinatio. 5. Possunt autem sophismala extrui vel
a vocibus, quæ ffl argumentatione adhibcntur, vel a rebus significalis per
'occs; unde dislinguuntur in sophismata, sive fallacias in lichone, et extra
dictionem. Illa fundamenlum habent in ipparenti identitate vocis, aut
orationis, nempe in eo, |Uod vox, aut plures voces, quæ diversas res denotant,
rtHnbentur, quasi unam rem significent; ista in apparenti 1 Acad., lib. II, c. 32. 2 Quare sophista
omne confert studium, ad hoc quod videatur sci^ quamvis neseiat\ S. Thom., In
lib. IV Met., lect. IV. 3 Hanc ol) rationem argumentatio sophistica dicitur
elenchus, sive eaargutto, quia thcsim ab adversario defensam redarguit. Vid. A.ag., Contra Crescon., lib. I, c. XV, n. 19. Cf
p. 39-40. 52 L 0 G I C A E identitate rerum, nempe in eo, quod res significata
ab aliqua voce eadem ratione accipitur, dum diversa ratione accipienda est. 6.
Cum sophisma spectet ad falsum sub specie veri insinuandum, duo ad eius
effectionem concurrant oportet, quæ causæ sophismatum dicuntur, nempe causa
apparentiæ, et causa non existentiæ. Causa apparentiæ est aliquid, ex quo id,
quod falsum est, quamdam speciem veri mutuatur. Causa autem non existentiæ est
aliquid, quo id. quod speciem veri præ se fert, re ipsa falsum est. Patet autem
diversas species sophismatum constitui ex diversitatc causarum apparentiæ, non
vero ex diversitate causaruw non existentiæ, quia sophisma non eo spectat, ut
ostendaJ falsum esse id, quod speciem veri habet, sed ut sub spe cie veri
exhibeat id, quod est falsum l. II.— De sophismatis in dictione 7. Sophismata,
quæ in dictione versantur, hæc sunt Figura dictionis, homonymia, sive
æquivocatio, accentus amphibolia, compositio, et divisio. 8. Sophisma figuræ
dictionis existit, quoties duæ di ctiones, quæ diversam significationem habent,
propter si militudinem desinentiæ sumuntur, quasi idem significent E. g., ex
eo, quod operari, et amari similiter desinunt hoc sophisma construi potest:
Amari est pati; ergo etian operari est pati; vel, Vapulare est pati; ergo amari
est patt 9. Sophisma æquivocationis committitur, cum una, ea demque vox, quæ
sine ulla variatione plura significat tamquam univoca in argumentatione
adhibetur. E. g., sc phista eum, qui nullum sidus lalrare asserit, redarguer
potest hac fallacia : Quoddam sidus est canis; sed canis Iti trat; ergo quoddam
sidus latrat. 10. Fallacia accentus habetur, cum aliqua
vox, quæ o variationem accentuum plura significat, tamquam unur significans in
argumentatione accipitur. Hoc genus sophii matum præsertim apud Græcos
obtinuit, usus enim are hoc sophisma: Duo, et tria sunt paria et imparia: qui
quinque sunt duo, et tria ; ergo quinquc sunt paria, imparia. AriyIH. De
sopliismatis oxtia dictionem 14. Sophismata in re, sive extra dictioncm, sunt:
Fallacia eidentisy transitus a dicto secundum quid ad dictum sim | Blenchorum
libri duo, lib. I, tract. I, c. 3. Hoc genere constructionis Apollo, ut fertur,
Pyrrhuni uVlusit 9eitantem, num bellum Romanis ioferre deberet; sic enini ei
reind.it: Aio te, Æacida, Romanos vincere posse. LOGICÆ pliciter, ignorationis
elenchi, petitionis principii, consequeni tis, non causæ pro causa, plurium
interrogationum. 15. Fallacia accidentis existit, quoties ex eo solum, quod
individuum alicui speciei subiicitur, deducitur ipsum præditum esse aliqua
proprietate, quæ ad speciem per accidens perlinet. E. g., Homo currit; atqui
Socrates est homo; ergo Socrates currit. 16. Fallacia transitus a dicto
secundum quid ad dictum simpliciter committitur, cum ex eo, quod aliquid
convenit alicui secundum aliquam rationem, ipsum ei secundum omnem rationem
convenire colligitur; e. g., Anabaptistæ ex eo quod Paulus vetus Testamentum
abrogatum fuisse scripsit, conficiebant ipsum omnino non valere. Quo modo a
dicto secundum aliquam rationem ad dictum simpliciter progrediebantur; Paulus
enim non sibi voluit vetus Testamentum abrogatum fuisse omnino, sed aiiqua ex
parte, sive non in iis, quæ ad substantiam, sed in iis, quæ ad accidentia
spectant. 17. Fallacia ignorationis elenchi, seu redargutionis, ex eo originem
habet, quod sophista obiicit adyersario aliquam contradictionem, quæ reipsa non
existit1; unde sophista adversarium redarguere videtur, sed reyera non
redarguit. E. g., hoc sophisma commiltunt hæretici, cum ita argumentantur :
Christus est æternus ; atqui Christus natus est in tempore; ergo Christus est
æternus, et non æternus. Hæc contradictio, quam ipsi obtrudunt, non existit,
nam esse æternum, et esse natum in tempore non pertinent ad Christum secundum
eamdem, sed secundum diversam naturam. 18.
Petitio principii habetur, quoties idem assumitui ad probationem sui ipsius sub
alio vocabulo 2 . In ho( sophisma incurreret quisquis probaturus animam huma
nam esse immortalem argumentaretur hoc modo: Anim humana est superstes corpori;
ergo est immortalis. Fallacia consequentis duos modos habere potest. Pri mus
est, cum, posito consequenti alicuius enunciationi connexæ, ponitur et
antecedens. E. g., Si homo est, ani i Inde intelligis hoc sophisma ignorationem
elenchi, seu redai gutionis vocari, quia sophista, qui illo utitur, patefacit
se ignoran quomodo adversarius redarguendus sit. 2 S. Thom., Opusc. XXXIX, De
Fallaciis, c. 12. se Ba, quam sophista uppomt ncmpe animas in suo esse a
corporibus pendere. iterroYa tionlt ^T Merro9a'ionum cxistit, cuni plures ™7
fuJ componuntur, ut sive responsio sit ens sue negans, respondens semper
falsilatis redareua el .rnm 'T J° PJSta' "' aPu,1Gellium est, te inter m
'.ipnT' ^1^"'0 wore prtiiutt, habeas, sive negando, iTe : aiendo
responder.s,„ captionem incides. tfam si M modnn^ereSa0d no" ?•, ipse te
redarguet "ft verd^. qmd ^, Perd%di>ti' non haoes> "tquiocllos
uod nnn, VaT0™/os™ ; n dixeris te habere m Z/ 7 a 'f'' l° r,HlarSuet hoc alio
modo: Qmdquid 7a hab ' atqm COrnua non Perdidis'i\ ergocor VI. De sophismaluin
solulionibus 22Modi, quibus sophismata verc solvuntur 3, sunt vel ' Cf quæ
diiimus p. 44. 2 jy generales, vel speciales. Quod ad modos generales spectat,
memoria revocandum nobis esl syllogismum posse esse falsum vel quod in
materiam, vel quod in formam peccat. Si peccat in maleriam, utraque, vel
alterutra præmissarum neganda est, siquidem syllogismus nequit falsus esse
quoad materiam, nisi utraque, vel alterutra præmissarum sit falsa. Si peccat in
formam, distinctione, aut divisione opus est. Etenim syllogismus in formam
peccat, vel quia aliqua propositio æquivocam, ac proinde multiplicem
significationem habet, vel quia præmissæ debitum ordinem cum conclusione non
habent. Iam, si primo vitio formæ laborat, distinguenda est illa propositio
æquivoca ; ^sin altero, dividendæ sunt præmissæ a conclusione, sive ostendendum
est conclusionem cum præmissis non con necti. 23. Quoad autem modos speciales,
quibus sophismata vere solvi possunt, eos singulos exponere ratio huius operis
haud sinit. Quare unum, aut alterum, exempli instar, dumtaxat innuemus.
Fallacia compositionis, et divisionis, quæ est in dictione, solvitur, si ea,
quæ sophista sensu composito accipit, a nobis sensu diviso, et quæ ille sensu
divis o, a nobis sensu composito explicentur Ita si quis cavilletur hoc modo :
Apostoli sunt duodecim atqui Petrus, et Ioannes sunt Apostoli ; ergo Petrus, e,
loannes sunt duodecim, neganda est conclusio, quia ess( duodecim, quod de
Apostolis simul coniunctis dumtaxa verum est, de iis etiam separatis
prædicatur. Si sophisfc fallaciam ignorationis elenchi adhibens, ita arguit :
Dut sunt duplum unius; atqui non sunt duplum trium; ergo sun duplum, et non
duplum; respondendum est conclusionen a præmissis haud fluere, quia in
præmissis non dicitu idem esse duplum, et non duplum, prout ad idem, sesæntia,
in qua quæstio, quid sit, consistit, complectitur principia, ex quibus res
constituitur, sive causas, propter juas ipsa ad hanc, et non ad aliam spcciem
pertincl: quapropter qui novit causas rei, nempe propter quid, is es>entiam
rei, nempc quid res sit, simul discit; et vicissim. E. g., si quis cognoscit
causam, per quam luna dcficit, sse interpositionem terrac inter lunam, et
solem, simul pognoscit defectionem lunæ esse privalionem luminis ex
interpositione terrac inter lunam, et solem effectam; quocirca essentiam
cclipsis una cum causa eius cognoscit. 3 Quacstiones, an res sit, et quaJis res
sit, cum rcspicitnt existentiam rei, cognitionem vulgarcm; quæstionrs, juid res
sit, et propter quid sit, cum inquirant causam. et essentiam rei, cognilionem
scientificam in nobis progignunt; siquidem cognitio vulgaris a scientifica in
eo differt, quod illa tantum rem esse, hæc autem, cur ita esse debeat, exhibet.
At vero, quæstio, an res sit, ad scientificam cognitionem rei efficiendam
plurimum confert, quia mens nostra, cum apprehendit existentiam rei, cuius
causam ignorat, naturaliter trahitur ad ipsam causam investigandam, ut quid res
sit, cognoscat. Idem dicatur de quæstione, qualis res sit, nam, perspectis
affectionibus, quæ rei msunt, haud difficulter cognoscitur, qua ex causa ipsæ
rei insint. Aax. II. Quænam sint quæstiones dialecticæ, exponitur 27.
Quæstionum theoria in universum explicata, exponere e re est, quænam sint
quæstiones dialecticæ. In primis manifestum est quæstiones quid res sit, et
curA et unde sit, ad dialecticam non pertinere, quia illæ, ut diximus, certam,
et scientificam cognitionem rei pariunt, dum e contrario dialectica probabilem
cognitionem dumtaxat sectatur. Hinc, quando rem esse innotescit, quæstio
dialectica alia esse non potest, quam quæstio, qualis res sit, nempe, num
aliquid rei insit. 28. lam circa quæstionem, num aliquid rei insit, dialectice
institutam non pertinet quidem ad Logicam tradere, num hæc, vel illa proprietas
huic vel illi rerum speciei msit, sed tantum modum, quo insit, argumentis
probabilibus1 investigare. Hic autem modus quadruplex esse potest, nempe
investigari potest, utrum aliquid insit rei uti genus\ e. g., num hominis genus
sit esse animal, vel uti proprium, e. g., utrum proprium hominis sit esse rir
sibile', yel uti definitio, e. g., utrum hominis definitio sit esse animal
rationale ; vel uti accidens e. g., utrum accidens hominis sit esse album. Hanc
ob rationem quatuor numerantur quæstiones dialecticæ, nempe de genere, de
proprio, de definitione, ct de accidente"1. 1 Syllogisrni, qui in
dialectica adhibentur, sunt enthymema, et epichirema; nam hi syllogismi, ut in
prima parte diximus, cum ex probabilibus præmissis proficiscantur, probabiles
conclusiones habent, ac proinde ad solvendas quæstiones dialecticas, quæ circa
probabilia versantur, pertinent. 2 Quæstiones, num aliquid alicui insit uti
differentia, e. g., num Ex his conficitur etsi genus, et definitio, quid res
sit, empe definitio essentiarn totam, et genus ex parte deno21U, tamen
quæstiones dialecticas de genere, et de definilone ad quæstionem, qualis res
sit, spectare; in iis enim ayestigatur argumentis probabilibus, num aliquid,
quod ei inesse constat, insit ipsi uti genus, vel uti definitio. 30. Jllud autem animadverlendum
est, quæstiones non sse instituendas, quæ vel impiæ vel manifestæ sensui, el
nimis faciles, aut nimis dijjiciles sunt. Impiæ, e. g., um Deus sit colendus,
quia qui huiusmodi quæstiones intituunt, potius sunt poena coercendi, quam
argumentis efutandi. Tum manifestæ sensui, c. g., sitne nix alba, an on, nam
quisquis de his dubitat, sensu carere dicendus st. Demuin nimis faciles, aut
nimis difficiles, quia nimia acilitas omnern locum dubitationi eripit, et nimia
diftiultas exercitationcm, quæ assecutioni scientiæ valde tilis est, insuavem,
ac infructuosam reddit. Aut. III. — De usu dubitdtionis, et historiæ ad
investigationem veri Dialectica, uti diximus, viam ad verum inveniendum adicare
debet. lam investigatio veri a dubitatione, eiusque olutione initium suinere
debet. Sane, qui aliquam quætionem instituit, de eo, quod quacrit, dubitat. Etenim [uacstio circa aliquam rem institui non
potest, nisi ab o, qui illam ita sc haberc, vel ita se non habere certo on
cognoscit, sed inter utramque partem contradictionis acillat. Atqui slalus menlis inter
utramque contradictiois partem vacillantis dubitatio vocatur. Ergo qui aliquam
[uæstionem instituit, de eo, quod quærit, dubitat. 32. [am ista dubitatio
oritur ex eo, quod contrariæ philosophorum opiniones circa rem, quam quærimus,
e istunt, vcl ex eo, quod præiudicatas opiniones circa psam temere imbibimus. Quapropter
quæstionem solvenlam suscipimus, ut certam inter contrarias sententias
co[noscamus, vel ut animum nostrum præiudicatis opinionbus expohemus. Quod cum
ita sit, manifestum est ei, omo ratione polleat, vel uti species, e. g., utrum
bucephalm sit Mua, inter quæstiones dialecticas non numerantur, quia ipsæ
naiectice consideratæ aliquid, quod de pluribus prædicatur, delotant, ac
proindc ad quæstionem de genere revocantur. qui rite, utiliterque quæstionem dirimere
vult, a solutione dubilalionis initium sumendum esse. Enimvero quænam inter
contrarias sententias cerla sit, statuere non possumus, nisi illas hinc inde
excutiamus, et quid de his admittendum, quidve reiiciendum sit, perspiciamus;
item animum nostrum præiudicatis opinionibus expoliare non possumus, nisi,
harum examine instituto, veras a falsis discriminemus. Atqui in his solutio dubitationis consistit. Ergo
quæstio rite solvi nequit, nisi dubitatio in primis solvatur. Td s. Thomas
sequenti exemplo declaravit. Quemadmodum ligatus non potest ambulare, nisi
vinculum solvat, quo constringitur, ita, cum homo, rem ignotam quærens, a
dubitatione, yeluti quodam vinculo mentis detineatur, in cognitione rei
progredi non potest, nisi dubitalionem solvat '. 33. At vero hæc non ita
accipienda sunt, ut de omnibus dubitetur. Etenim, si de omnibus dubitetur,
nulla dubitatio exsolvi potest, quia dubitatio nonnisi per ea, ! quæ omnino
certa sunt, ac proinde nulli dubitationi obnoxia, excluditur. Hinc sapienter
Aristoteles monuit 2, dubilationem instituendam esse vel de iis, quæ a
sapientibus nondum investigata sunt, vel de iis, circa quæ plures, ab seque
discrepantes sapientum opiniones extant 3. 34. Hæc, quam commendavimus,
dubitatio, appellatur methodica, atque a dubitatione sceptica maxime differt, 1
quia is, qui dubitationem, methodi gralia, inslituit, eo usque dubitat, donec
ad dubitationis solutionem perveniat, dum scepticus ea mente dubitat, ut in
dubitatione maneat; 2 quia sceptica dubitatio circa omnia versatur, nihilque
esse ex se perspicuum statuit, dum in dubitatione methodica multa ex se
perspicua admittuntur, de quibus ne possibile quidem est dubitare, et quorum
ope dubitationes exsolvere licet. 35. Quæstionem dirimere aggredienti valde
etiam utile est illius historiam, seu sapientum, qui præcesserunt, opiniones
nosse. Namque ea, quæ circa rem a nobis quæsitam maiores nostri invenerunt, vel
vera esse a nobis perspiciuntur, vel falsa. Si primum, mens nostra nova In lib.
III Met., Iect. I. 2 Met., lib. II, c. I, § 1. 5 Inde patet Gartesium hanc
dubitationem longius, quam par, æquumque est, provexisse, siquidem ipse de
omnibus, præter existentiam sui ipsius, dubitare instituit; De methodo,
cognitione veritatum locupletatur, quin in iis ex se ipsa nquirendis tempus
frustra terat. Sin alterum,
efllcitur ut rrores, in quos alii ante nos inciderunt, vitemus, alias|ue vias
ad verum inveniendum ingrediamur f. IV. De locis, ex quibus argumenta
dialectica hauriuntur 36. Locus a Teophrasto, discipulo Aristotelis, ita
definiur: Propositio omnium maxime universalis, quæ per diwrsa genera rerum
determinata solutioni quæstionum dia~ ecticarum inservire potest3. E. g., si
quæratur, utrum anitas melior potione sit, solutio peti potest ab hac
pro>ositione: Finis est melior iis, quæ ad finem destinantur; lam ex vi
huius pronunciati licet ita argumentari: Finis st melior iis, quæ ad finem
destinantur; atqui sanilas esl inis, ob quem potio desideratur ; ergo sanitas
melior poione est. 37. Quoniam quæstionos dialecticæ sunt, ut diximus el
generis, vel defmitionis, vel proprii, vel accidentis, fuadripartita est
divisio locorum, quia alii eorum a generef ln a definitione, alii a proprio,
alii denique ab accidente urnuntur. Ex plurimis locis, qui ab his singulis sumi K)8Sunt,
unum, et alterum, exempli instar, exponemus. 38. Ad loca, quæ ab accidente
sumuntur, pertinent hæ )ropositiones : 1° Contrariorum contraria sunt
attributa, i cmns Ha arguitur: lustus est laudandus; ergo iniustus st
vituperandus. 2° Eidem subiecto contraria attributa
ines non demonstrentur in ea scientia, cuius sunt principiH possunt tamen
demonstrari in alia scientia superiori. I xemplo sit illud principium, a puncto
ad punctum lineai rectam ducere; hoc enim principium, ut AQUINO (vedasi) inquii
supponit Geometra, et probat Naturalis, ostendens quo inter quælibet duo puncta
sit linea recta media s . II. De termino medio syllogismi demonstrativi 50.
Terminus medius syllogismi demonstrativi est caus rei, quæ demonstranda
suscipitur. Et sane, syllogismu i demonstrativus gignit in nobis scientiam rei.
Atqui sciei tia, uti mox dicemus, est cognitio rei per causam 6. Erg causa rei
est medius terminus in syllogismo demonstratix 51. Iam quælibet causa, nempe
sive efficiens, sive m; terialis, sive formalis, sive finalis % medii termini
munei fungi potest. E. g., quandocumque, ut ait s. Thoina aliquid demonstratur
de toto per partes, videtur esse d monstratio per causam materialem; partes
enim se habei ad totum secundum rationem materiæ 8 . Si demonstr Vulgo
axiomata, sive dignitates nuncupantur. 2 Ad hæc principia propria revocantur
prænotiones circa subi ctum, quæ, ut paulo ante diximus, sunt definitio
nominalis, suppositio. s Cf s. Thom., In lib. I Poster., lect. XIX. lbid. 5 Op. cit., lect. V. 6 Cf
interim p. 57. 1 De his causarum speciebus in Ontologia disseremus. 3 In lib.
II Poster. Anal., lect. ^eris hominem esse capacem scientiæ ex eo, quod est
•ationalis, causam formalem pro argumento sumes Ex :ausa efficienle in mundo
esse ordinem demonstratur mia Deus, qui mundum condidit, non potuit, quin
orlinem inter omnes eius partes adhiberet. Denique ex :ausa iina i Anstoteles
demonstravit post coenam utile sse ambulare, quia deambulatio, cum ciborum diffestioni
nservial, valetudini prodest. 52.
Duo autem de hac re monere par est: I.° Causa, quæ amquam medium adhibetur in
syllogismo demonslrativo, iebet esse 1 per se, et necessaria, 2° propria, non
vero ommunis, 6 proxima sive immediata. Enimvero in sylloismo demonstralivo
conclusio cognitionem gignit necesariam, ita ut oppositum eius haud sit
possibile; omnino erlam, et adæquatam, nempe eiusmodi, ut nulla alia atione ad
iliam cognoscendam opus sit. Elenim si quid orum deesset, scientiam rei pcr
syllogismum demontrativum non assequeremur. lam si conclusio probatur er
causam, a qua illa non per se, sive necessario, vel aturaliter, sed per
accidens promanat, ipsa non esset ecessana, quia id, quod per accidens oritur a
causa on semper orilur ab ea, ac proinde oppositum eius' uod probatur, non erit
impossibile. E. g., aliquem pro' um csse ex eo, quod cum probis frequenlissime
affit JUd necessano demonstralur. Jnsuper causa communis jn solum ad rem, cuius
scientia quæritur, sed etiam i al.as spectat; ac proinde si conclusio
probaretur non .r causam propriam, quæ rem constituit, sed per caum communem,
ipsa probabilis, non vero omnino certa se Hinc eruditionem aliquid honum esse
ex eo, quod ao.lis est, apodictice non demonstratur. Denique com.o adæquata rei
non obtineretur, si eius probatio mn Peri CaUSam remot.am i non proximam ; nam
causa mota adæquatam rationem rei haud exprimit E ff minem respirare adæquate
non cognoscitur, si ex causa niota, nempe exeo, quod est animal, non vero ex
causa ox.ma, nempe ex eo, quod habet pulmones, colligitur; int i.nini ammaha,
quæ non respirant, sicut pisces. Ex L2™T-h8 PersP,cllur. (luam recte
syllogismus demonraiivus illc dicatur, cu.us præmissæ sunt necessariæ, In Ub. I Poster., lect. XXIV. Philos.
Christ. Compend. 1.3 66 LOGICÆ ce rtæ, atque evidentes, sive syllogismus
mcessitalem in ducens, in quo non est possibile esse veritatis defectum. II.0 Medius terminus in syllogismo scientifico ad
defini tionem rei reducitur. Porro definitio rei, sicuti adnotavi mus1, est
illa brevis oratio, quæ essentiam alicuius re determinat, seu, ut s. Thomas
scribil, quæ denotal aliquan formam de ipsa re, quæ per omnia ipsi respondet 2.
E. g. definitur homo, cum dicitur esse animal ratione prædituml Hoc præstituto,
quatuor causæ, quas recensuimus, a unicam, nempe ad causam formalem, quæ
essentiam re efficit, tandem redeunt. Enimvero munus fini s est causai efficientem
ad formam gignendam movere, unde ipse no nisi in forma iam perspecta
conspicitur; causa autem et fectrix id agit, ut materia a forma determinetur;
materi denique per formam suam habet esse, et actionem; qu(| circa finis, vis
effectrix, et materia ad formam referuntui t Ex quibus consequitur causam, sive
medium terminui 1 in syllogismo apodictico consistere in eo, quod essentiai rei
denotat. Atqui definilio, uti vidimus, est oralio, qu£ essentiam rei
significat. Igitur medius terminus in syll rem per eiusrlem causas roprias,
necessanas, et proximas evidenter nrobat uuioue enc nlii Z ° demonslrall° cum
penes Arislolelem, lum enes alios antiquos, et recentes non solum illo
slriclissi lSismoSUaT,,,fUU' SCd ime,;dl,ra au0('Ue " P-i s ncceTs^ ''f f
Umq,Ue m°a°">clUsionem cX præmis'" eC4!S s" 10 lnfert> vel
pro cuiuscumque generis nrobaone,,ta ut demonstrare idem sil, ac probare. Ex
his inlelol U;'JUr/rætCr i,"am dro-ra.?onem, quæ ab ArL ma dieM fmFl!fl a
e'US dlscl.Pnlis Principalis, vel potisma dicla luii, aliæ demonstrat.onis
species recenseantur. 54 Itaque in pr.m.s demonstratio dislineuitur in de
onstrat.onem propter quid, et demonslration°em quia De DfeicCnSins!,n„0Pe/r
"TCaUSa' CUr affeCtio ln fPS0 insit> est,7c 0 ni" ionf . qU P'am
P°SUum eXlra iPsumIta frustra uui s ca dc.i. itron d J Unæ,CaUSam ?•"' cur
luna deflciat, atque rem defl „nrf /c, US 1UUa° C°n,icerc studcrctCUUI eausa,
quam 0 1,MV ™' SCd,nteriectns 'erræ inter solen. et lu sam,ui h.hPn, He'n°nS
rat,oncm aTectionum, qoæ in subiecto edicn „tCnt' mCdlUm •"•io est
delinitio subiccli, aliquando c.usa nroZ CaUSa' qUaC CSt medium syllogismi
scientifici, iiecto o, !, ' D°n re'"°ta' prima affecti0> > nnmediate
e i c°„,1r!,Percrde',n't,0nem suMccti "etnonstritur, unaquæque s causr„
" " affcct,onum P°r delinilionem illius affeetionis, quæ io subicc P
„,,,C,"nmCa ata CStAt ^er.enduro est, cum dcfi r! SUmr'tUr.' ipsam non
I,er se' scu q Jer.nitio co aincr,, L CaUSa affcction,'ssumiNam i„ syllogismo
scien nect, V,,, ?' PCr qUam affccti0 subiect0 incst. non per quam i n, f „
„CSi '" qU°C,rCa dcr'niti0 Subiccti Pro mcdi0 •'"•'• i,s S^ qp
unæadcmquc est simul cssentia subiecti, et emncr ^no int" qU° coll,S,tur
eflnitlonem prædicati cssc rea pe paucis i„ " ' ' SJ„llc°"!smo
scicutieo, proptcrea quod ctiam in nonaUC S','" Iu bus defin.tio subiecti
pro mcdio sumitur, adhibe ioZZs !\t 1,"„° SUb,eCrti' Scd ouia cst causa
nffeetionis, uti dinsa Itt CSt '°"nn.,s Jforn,a' ""ibetu,
tamqnam ter.n nus Vid T Cl,! r "'S d°°ilitat™, qu'a l.uius causa proxin.a
fnl loleuo' Comment. cit.-m co. ril lib. II Post r 291 r-t ftM;r- in 0,°- ad m-
n L °--" "tv^ monslratio propter quid est illa, quæ propriam, proxij
mam, et adæqualam ralionem rei demonstratæ continet; I uti habere pulmones,
quemadmodum paulo ante dictum I est, causa est respirandi ; quocirca hæc
demonstratio ad i syllogismum apodicticum reducitur. Demonstratio quia diI
citur illa, quæ remotam, et minus adæquatam rei de-1 monstratæ causam, seu
rationem affert, scilicet, quæ determinatam radicem, propter quam res est, haud
præsefert ; uti esse animal est causa minus adæquata respirandi; vel illa, quæ
sumit effectum ad probandam causam; e. g., demonstraiio existenliæ Dei, quæ ex
rerum contingentium existentia conficitur, est demonstratio quia. cum ipsa per
effectus fial. 55. Ad has duas demonstrationis species illæ facile re vocari
possunt, quæ vulgo demonstrationes a priori, atque a posteriori dicuntur ',
Demonstratio a priori ea est, quæ fit per causam, et demonstratio a posteriori
est ea, quat fit per effectus, et proprietates. Hinc patet demonstratio nem a
posteriori esse demonstrationem quia, et demonstrationem a priori, si fiat per
causam propriam, proximair et adæquatam, eamdem esse, ac demonslrationem
proptei quid; sin per causam remotam, vel inadæquatam, ad de monstrationem quia
revocari. 56. Distinguenda etiam est demonstratio directa a de monstratione
indirecta, quæ dicitur etiam deductio ad ab surdum. Demonstratio directa ea
est, in qua aliquod ve rum deducitur ex alio vero, cum quo connectitur. Indi
recta autem demonstratio ea est, in qua aliquid verun esse evincitur, ex eo
quod, illo negato, aliquod absurdun oboriretur; vel falsum redarguitur, quia,
si esset verum aliquod absurdum existeret. Ita animam esse immortalen
demonstralur directe ex eo, quod spiritualis est; indirect ex eo, quod si
immorlalis non esset, nulla poena vitium nulloque præmio virtus afficeretur. 1
Origo duplicis huius generis demonstrationis, nempe a priori, e a posteriori,
ex eo repetenda est, quod interdum causa effectu, inter dum effectus causa
notior est. Cum enim demonstratio a noto ad i gnotum progredi debeat, liquet
demonstrationem vel a causa ad ei fectum, vel ab effectu ad causam progredi
oportere, prout vel caus notior nobis est, vel effectus notior causa. Si primum
fiat, demot stratio dicitur a priori, sin alterum, a posteriori. Cf s. Thom., /
lib. I Poster., lect. Magnam vim ad refellendum adversarium habet illa
lemonstratio, quæ ex datis, vel ad hominem dicitur. Hæc irincipiis ab
adversario concessit nititur, nempe in eo onsistit, quod adversarius, si verum
quodpiam faleri reuset, admitterc cogitur alia, quæ ipsemet falsa esse non
iffitetur. Exemplo sit argumentum illud, quo Paulus adersarios resurrectionis
mortuorum redarguit. Si verum lon esset mortuos resurrecturos, consequeretur 1°
Ghrilum non resurrexisse, 2° inanem esse suam prædicatioem, 3° inanem esse
illorum fidem; atqui hæc tria ipsiæt falsa esse fatentur ; ergo necesse est, ut
fateantur uoque veram esse mortuorum resurrectionem . 58. Denique tacendum non
est de demonstratione, quæ egressiva nuncupatur. Ea est, in qua primum per
ar^ulentationem a posteriori a cognitione effectus ad co Dist XLV, q. I, a. 3
ad 5. Ille scit, inqmt
Aristotcles, proprie, ac sirapliciter, qui causara mr T S fc> Ct/1,i"S
CaUSam CSSe' et alitese habfrc n £, S. ii, ?.n?! „;. i98 Poster- m- h c- 7- cf s- opposito dubitare
possit. Opinio, AQUINO (vedasi) inquit, significat actum intellectus, qui
fertur in unam partem contradictionis cum formidine alterius '. Quapropter
scientia j ex demonstratione efiicitur, opinio autem ex syllogismo |
dialectico; ex quo fit, ut illa firma, hæc infirma sit. Iam i ex demonstralione
ideo res certitudine firma, et absoluta cognoscitur, quia per causam, quæ eius
essentiam con stituit, probatur. Ex syllogismo diaiectico infirma rei cognitio
obtinetur, quia rationibus extra rei essentiam sumtis probatur 2. Inde exurgit
aliud caput differentiæ inter scientiam, et opinionem, nempe, scientia circa
necessarium, et immutabile versatur, quia essentiæ rerum, ul suo loco dicemus,
sunt necessariæ, et immutabiles; opinio vero circa contingens, et mutabile. 61.
Fides autem definitur: Mentis adhæsio alicui rei, quam quis non videt, sed
alteri dicenti credit 3. Ex hac definitione patet præcipuum discrimen inter
scientiam, et fidem ex eo repetendum esse, quod certitudo scientiæ; ut s.
Thomas ait, consistit in duobus, scilicet in evidentia, et firmitate
adhæsionis; certitudo autem fidei consi stit in uno tantum, scilicet in
firmitate adhæsionis . Etenim in iis, quæ scientia cognovimus, nos ipsi
conclusio nem ex principiis fluere perspicimus ; id quod non con tingit in iis,
quæ fide tenemus. Fides autem in divinam et humanam distinguitur, quia ad
assentiendum rebus quas ex nobis ipsis non cognoscimus, movemur ab au ctoritate
divina, vel humana. V. De scientia latiori sensu accepta 62. Scientia, de qua
in præcedenti articulo locuti su mus, significat perfectam notitiam alicuius
rei, quæ pe eius causam adquiritur. At vero nomine scientiæ vulg 9uæ
Proprietates genericas alicuius m ?nvpjJ l'afCle iaS subiectas habn' g"'
PersPectiva> i'" qualitatem praioicato signihcatam inesse ; unde ipsæ,
si relatc ad naturan,, considerenlur, hypothelicæ dicunlur. E. g hæc
enunc.at.o, Omnes radii circuli sunt æauales. minfme de lcs sed
?dUeMn,i,lreUlUm-Cxifere' cuius?radii snnt Tequa esse £nSlif ir
Sl.,clrcul"s vere est, omnes eius radios r m !•' 'dcaC an,mac innatæ cum
non ab n nositum T™ '" an!m. foducanlur, aliquid in ex it m.n?ff'.~n Ver°.
oaUld ' OUod extra animan> tum Pr ncini /. ^T^ H°C Præmiss> ™
argumencmco3 ";.?AmbuSi SCCUndM melhodum idealisti ionis mere
ahs,^nt,,fiCa C,duJC'lUr' neraPe P™nuntiata raon s me.e abstracta, vel ideæ
innatæ, obiectivam exi cr 3S„? Pnnc'P'a. vim habere nequcunt. Ergo •tivam r 1,1
?,, qUa° SUnt C0&"itiunes scien ificæ, obie ;am assen rCrUm' secundum
methodum idealisti arn, assequi non possumus. Qoænam sit melhodus
psychologico-rationalis exponitur 15. Methodus psychologico-rationalis medium
Jocum tenef m rhi°ndUm emPirT™> el melhodum ideJSm;ell Aim ea, m qua scentia
tum ex faclorum observatione um ex pronuntiatis rationalibus conficitur. Scil
cc undum hanc methodum mens nostra co^ni tionem scien ficam a,icuius •
adipiscitur hoc ^. ^ ^g hencfit Z9 n qUam ref-^æsita pertinet, sensibu a™ oSne^
ITr,a rCtmet; al(ue ita ^ comparat ^n.t.onem scnsitivam, quæ cxperientiam
eonstituit . I Experientia circa facta interna fit per vim reflexivam inteUo
"e m^SPcXtdiUstem faCta TrDa °PUS £SJ^ ef.one auæ nnn ?n '
exa,n,nand,sa.ue ^nsistit, atque eaper! int eiaTnin^ Ja u 6° SG cont,net> ut
"s, prout sibi occur nt, examinet, sed substantias substantiis subdit
easque inter sese. Deinde illud, quod per experientiam cognovit, ope in
ductionis reddit universale, atque ita ad propositiones universales
progreditur, quas tamquam principia demon strationis adhibet. Denique ex his
principiis ila compa ratis conclusionem scientificam ope syllogismi deducit1.
Exemplo rem declaremus : Si quis cognitionem scienlifi cam huius veritatis,
Homines libertate gaudent, adipisci velit, ita secundum leges methodi
psychologico-rationalis progredi debet. Primo Socratem, Plalonem, Aristotelem, aliosque
observans, deprehendit eos libere agere, et statuit hanc experientiam: Plures
homines libertate gaudent. Quia autem in cunctis hominibus, qui sibi occurrunt,
idem constanter perspicit, ex propositione particulari progre ditur ad hanc
universalem: Omnes homines libertate gau dent. Eadem ratione sibi comparat hanc
alteram proposi tionem universalem: Omnes homines sunt intelligentia præ diti.
Deinde expendens, unde in hominibus libertas oria tur, facile perspicit causam,
cur homines libertate fruan tur, in eo positam esse, quod intelligentia sunt
præditi Hac causa, tamquam medio termino, utitur, ut syllogismurr conficiat,
unde cognitionem scientiikam libertatis homi num eruit, ratiocinando hunc in
modum : Omnia, qum intelligentia sunt prædita, libertate fruuntur; atqui
homine. sunt intelligentia præditi; ergo homines libertate frui debent Aliud
exemplum affert s. Thomas his verbis: Puta diu medicus consideravit hanc herbam
sanasse Socralen febrientem 4 et Platonem, et multos alios singulares ho mines
: cum autem sua consideratio ad hoc ascendit quod talis species herbæ sanat
febrientem simpliciter, ho ''" qibus oflicio fungitur 3 Etsi experientia
non sit pronrie caiisn rinf;.. ^da
scientiam ducit. Etenim scientia ex principiis \ In lib. II Post., loc. cit.
™g. 39 et 48. De regressu. gignitur, principia autem, seu pronuntiata
universalia al intellectu per inductionem efformantur, atque inductic i nonnisi
ope experientiæ institui potest. Experientia igitu est, quæ materiam præbet,
unde scientia efformari potest a Dicitur acquiri per sensum, quantum ad
distinctionen j principiorum, non quantum ad lumen, quo principia co i
gnoscuntur . Ad scientiam efficiendam secundum hanc metbodur inductione, et
syllogismo opus est; siquidem inductio pe experientiam principia parat,
syllogismus autem ex prin cipiis inductione comparatis conclusiones
scienlificas dc ducit. Nibilominus mens humana scientiam proprie syllc gismo,
non inductione assequitur; siquidem scientia no in eo consistit, quod principia
cognoscuntur, sed in ec quod ex principiis iam cognitis res quæsita deducitui
Quapropter secundum hanc methodum scientiam non adi piscimur, cum ab effectu ad
causam, sive a sensilibus a intelligibilia ascendimus, sed cum a causa acl
effectun sive ab inlelligibilibus ad sensibilia descendimus. Quo ut accuratius
explicetur, advertendum est mentem nostrai in comparanda sibi scientia duplex
terere iter, nemp progressus, et regressus, quippe quod ipsa in initio sciei
tiæ ab effectu ad causam progreditur ; in complemenl autem scientiæ a causa ad
effectum regredilur, ut ipsii effectus cognitionem scientificam acquirat. 5°
Exinde consequitur in methodo psychol ogico-ratn nali scientiam per analysim,
et synthesim acquin, H quidem ut analysis sit eius inilium, synthesis autem pe
fectio. Etenim secundum illam methodum mens nostr ut paulo ante diximus, primum
ab effectibus, vel a con positis ad causas, vel ad simplicia ascendit, deinde
simplicibus, vel a causis profecta ad composita, et effecti descendit.
Quapropter methodus psychologico-rational analitico-synthetica vocari solet.
IV. Utrum hæc methodus ad scientiæ adeptionem opportuna sit, investigalur 17.
In methodo, uti diximus2, ratio habenda est tu i In lib. III Sent., Dist.
XXIII, q. III, a. 2 ad 1. Et /n lib. i Dist. XXIV, q. II, a. 3 c. Qui (habitus
intellectus, seu pnn piorum) ad determinationem eorum (principiorum) sensu et n
moria indiget. principiorum ex quibus mens proficiscitur, tum modi |uo
procedi,n investigatione rerum. lam melhodum psv^hologico-rat.onalem ex utroque
capile spectatam un 11 .pportunam esse ad scientiæ adeptionem his duabus
nro(OSitiombus a^nobis demonstratur: P 18. Prop. la. Principiu, ex quibus mens
in comparanda th sctenUa proficuci debet, nonaliæsse possunl, ITauæ n melhodo
psychologico-ralionali adhibentur. ° Probalur. Pr.ncipia, ex quibus mens
scientiam rerum £' / JP81"8 men,,s na,ura consentire debenf nam
o,SdUnisid„"'en^aC adePliouem PPonuna nonalia es„ otest, n.s quæ cum
natura menlis humanæ consenlit . tu ment.s natura, ut suo loco demonstrabilur
expoulal, ut sænt.a a sensibus, quemadmodum s. Augustinus ^hoelr, atque ab
in.ellectu perficialur '. Ergo prin P"seqdeben(m„C:: n°S-ra ^
""V™ rerum P°™S mTaranfnr \,auæ J,rlmum cxperientia, deinde ralione
1P,1 } |,V huiusmofl' principia ea sunt, auæ ; me.hodo psychologico-rational!
adhil enlur; nam m ea e usdem sancf Doctoris verbis u.amur, mens humana .mmuue
'Sr f"Cta ^ per SenSUS eorPoris peritur inde qaLl "am Pr° •nfi-imilatis
suæ modulo capit, et u "i0;™ causas' Ergoprincipia, cx quibu ens I umana
in comparanda s.bi scienlia proficisci debel Inlr essePossuut> nisi quæ in
methooo psycholoeicolionali adhibeiilur. l=j^uuiogito ™,„/P/°P;'28-. Modus>
?" procedere debet in comranda slb, scientia rerum, ille est, gui
adhibetur inme'rfo Psychologico-rationali. rrobatur. Ad scientiæ adeptionem tum
analysi, tum ^rixdi diximus' prLdii me'ho°nsS 'i!iii|Psr0lnllrl"i. mai°r
qU°ad |)n'mam par,ftmScienlia, uti " us, pcr cogn.lionem causarum, ex
quibus res est 'i lsc;rH!,r°P,er ad SCienliæ adcptionem "ccesse
esi,noscere et causam esse, et connexionem rei eum illa peTnnVU° ab TSa
CnaSci,UrAl'lui ana•, c. 4, „. 2. _ 2 De Gen. ad Htt. tur causam esse ;
synthesi autem cognoscitur quomodf ilUus phænomeni causam, quam quæ sumta est.
lum, sive a scientiæ natura pelitis inniti debet. Ataui llis moment.s rationum
quæ Ontologi ad suæ methodi ationem reddendam a logica hauriunt, nulla vis
inest,rgo methodus onto og.ca esse ad scientiæ adeplionem nice opportuna nullo
mre dicitur 25. Minorem probamus refellendo argumenta ab Onto>gis obiecta.
Ilaque Ontologistæ conflciunt hoc anrumenjm. Si scientia rerum efficitur ex
cognitione causarum cr quas ipsæ res fiunt, consequitur illam methodumesse d
ipsius adeplionem unice opportunam, quæ a causis cffectus, sive ab
intelligibilibus ad sensihV progreditur tqui Deus est pnma Causa, et primum
IntelligibFle. Er-o la melhodus est unice opportuna ad scientiæ adeptionem jæ a
Deo ad res creatas progreditur. 26. At huiusmodi argumentum nihil præsidii ad
Ontogismi tutamen affert, quippe quod eius maior æquivo.tionc laborat. Emmvero
ipsa ita dislinguenda esl: I||a ethodus ad scientiæ adeptionem unice opportuna
est iæ progred.tur a causis ad effectus in via regressus ^descensus, conc mau ;
in via progressus, sive ascen, neg. mai. Psychologislæ concedunt mentem humanam
m. 7' sc'e.n!|am assequi, cum a causis ad effectus, sive ' mtelligibilibus ad
sensibilia descendit, hac enim via ra Der causam cognoseit . At vero mens
nostra, secun" ipsos, immediata cognitione causæ haud potitur, sed cam per
effectus ascendit, neque Deum, PrimamCaum omnium rerum, potest aliter, quam per
res ipsas, ueuectus suæ Omnipotentiæ, cognoscere. Ex co hntur scienlia est
cognitio rei per causam, sequitur scienira a hcuiua > rei confici non posse,
nisi huius causa cooscatur; sed quia cognitio causæ per effectus obtinetur,
SUnf scient!ac a cognilione effeclus sumendum est. . iistant 1 Onlologislæ:
llla melhodus ad scientiæ •und,,mmi.},mCe °PPorluna est' (iua res cognoscuntur
du I, -lum ordræm, quem ipsæ inter se habent. ' uinsmodi ordo ex eo
constituilur, quod prirao sit (US, et dein res ab Eo creatæ, hoc est, primo
Intelli if~ret dGinde Sensibi,ia' Ergo^Lusid emiæ adeptionem opportuna illa
est, quæ ab intelli ^Mibus ad sens.biha etiam in m progressus procedU Resp.,
Dist. mai. ; si cognitio rerum consideretur relata ad ipsas res, quæ
cognoscuntur, conc. mai. ; sin consideretur relata ad modum, quo mens in rerum
co gnitione progreditur, neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Et sane, si cognitio
rerum priori modo spectelur, procul dubio cognitio vera esse non potest, nisi
mens rem in eo ordine esse cognoscat, quem in rerum universitate habet, quia
cognitio tunc vera est, cum conformitatem habet cum re, prout hæc in se est. E.
g., cum causa sit j natura sua prior effectu, cognitio causæ vera non est, nisi
tamquam prior effectu cognoscatur. Item Deum, et res ab Eo creatas vere non scimus, nisi
intelligamus Deum esse Primam Rem, et Primum Intelligibile. At si cognitio rerum posteriori modo consideretur,
maior est falsa. Nam ordo, quo mens in rerum cognitione procedit, consenta neus
esse debet naturæ ipsius cognoscentis, non vero naturæ ipsarum rerum
cognitarum, quia cognitio non est affectio rerum cognitarum, sed mentis
cognoscentis. Atqui mens nostra ita natura sua comparata est, ut non possit
cognoscere id, quod est prius natura, nisi ex eo; quod est natura posterius,
quia hoc magis notum ipsi est, quam illud. Ergo ordo, quo mens in cognitione
rerurr progreditur, contrarius esse debet ordini, quem ipsæ res tenent. Ex quo
consequitur mentem nostram primum eo gnoscere effectus, et ex horum cognitione
ad cognitioneir causæ pervenire, et proinde ad Dei notitiam non nisi pei res ab
Eo creatas assurgere. Neque dici potest hanc in versionem ordinis impedire,
quominus mens cognosca verum ordinem, quem res inter sese habent. Namquc mens,
postquam ex cognitione effectus ad cognilionen causæ progressa est, potest
intelligere causam esse natun sua aliquid prius, quam effeclum, et postquam
mens pei creaturas ad Dei cognitionem pervenit, facile intelligi Deum esse
Primam Rem, et res reliquas esse Eo poste riores; atque ita verum ordinem, quo
res inter sese col ligantur, cognoscere potest. 29. Inst. 2°: Res sunt intelligibiles
ex eo, per quo £$&£%& arf" sunl nnn^r 1 Ur rcS 6SSe
"lelligibiles ex eo quod auam inMMo ' •" S1&nificat &ms Abt.
I. _ Dc methodo cclectica 31. Methodus eclectica, quæ eclelismus quooue dicitur
;" ' m et e.peditam viam ad scienLe^consecu o ^^ '^^?,eUsrw' onæ in SK
'''' scientia conBcih r H~BeBM!_ -tqUe I,ldo Perfecta msinium usu,^rl ? °C
methodus> noslra ælale, 'ius sta ui 1 LL,, _|,Ul0S pr.°Puatmus pro falso
habetur, non quod materiam esse adslruit, ed quod ullos spiritus esse ncgat; et
idealismus in errore ^ersatur, non quod spiritus esse asserit, sed quod corpora
isse negat. Hinc, si idealismi, et materialismi pronuntiata unxens, non
efficietur systema, quod utrumque complectiur, sed quod ipsum sibi repugnat,
ncmpe, quidquid exnstit, est spirituale, et materiale. II. De ræthodo
auctoritatis 34. Methodus auctoritatis, si in universum spectetur, in ;o posita
est, quod scientia confici dicitur non ex notiiis ab ipsa mente comparatis, sed
extrinsecus, hoc est a ievelalione acceplis. 35Prop. Methodus auctoritatis
absurda est. rrobatur Inter methodi auctoritalivæ defensores non•uili uti
liotemus1, contendunt scientiarum principia ex ievelat.one sumenda esse; alii,
inter quos Lamennaisius % ocent nos ipsas veritates, de quibus agitur in
scientiis, Kcvelatione accipere. Alii dcnique, uti p. Ventura 3, enliunt
philosophi munus non esse veritates intellectua-5, et morales invenire, quia hæ
ab educatione domestica, a tradilionibus generis humani apprehenduntur, sed
Wiam illas demonstrarc, hoc est ab erroribus discernere, oiwmv, ac contra
illarum adversarios, aut corruptores æri. Hinc sanciunt veram
philosophandi melhodum esse '-monstrativam, non inventivam, sive inquisitivam.
De v enseignement de la phil. au XIX siecle. s Zssai sur V indifference en
matidre de religion, c. 12. Ve methodo philosophandi, Dissert. prelim. Iam
contra illos, qui primam sententiam tenent, hoc adstruimus argumentum: Scientiæ
naturam suam sumunt ex principiis, quæ in eis adhibentur. Atqui principia
omnium scientiarum secundum eos Philosophos sunt revelata. Ergo omnes scientiæ
revelatæ dicendæ sunt; ac proinde, admissa illa sententia, omnis scientia
humana destruitur. 37. Illos autem, qui alterum docent, perstringere licet hoc
dilemmate: Vel mens nostra cognoscit propriis viribus principia, ex quibus
veritates, de quibus in scientiis agitur, promanant, vel non cognoscit. Si hoc
alterum admittunt, sese scepticos esse profitentur, seu fa teri coguntur nullam
veritatum cognitionem scientificam menti nostræ suppetere, siquidem cognitio,
quæ ex rei principiis non deducitur, vulgaris, non autem scientifica est . Sin
primum, ipsi sibi contradicunt, nam cum mens nostra principia ex se perspicere
possit, et polleat ratione, qua ex principiis conclusiones deducere valet,
certe cognitio veritatum est naturalis, proindeque ex Revelatione repetenda non
est. 38. Denique contra sententiam p. Venturæ ita arguimus: 1° Mens nostra, ut
ipse p. Ventura fatetur, verum a falso discernere valet; quod idem est, ac
cognoscere quid verum, quidve falsum sit. Atqui cognoscere quid verum, quidve
falsum sit, idem est ac invenire verum. Ergo, secundum eiusdem p. Venturæ
principia, mens nostra verum invenire posse dicenda est. 2° Per demonstrationem
illud, quod ignotum erat, deprehenditur, vel iliud, quod erat minus notum,
notius efficitur. Atqui cum id, quod ignotum erat, deprehenditur, aut id, quod
est minus notum, notius efficitur, certe aliquid invenitur. Ergo ipsa natura
demonstrationis expostulat, ut per illam verum inquiratur; ac proinde discrimen
illud, quod Ventura invexit inter methodum inquisitivam, sive inventivam, et
demonstrativam, prorsus absurdum est. IV. Utrum diversæ scientiæ diversis
methodis tractandæ sint 39. Jam demonstravimus mentem nostram primas
cogniliones scientificas rerum nonnisi methodo analytico-synthegj 'teoacquirere
posse. At scientia, utdiximus', potest etiam lation significatione accipi, ita
ut denotet quodcumque syste.na cogni .onum, quæ ad certum quemdam ordinem rerum
att.nent, atque scientiæ, si hoc sensu accipiantur sunt, ut quoque diximus \
inter se diversæ. prout sont d.versa genera rerum, de quibus ipsæ tractan.
Quapropter nquiramus oportet, utrum cunctæ diversæ scientiæ un.ca methodo, an
d.versis melhodis tractandæ sint. I. Vera sententia adslruilur 40. Nos s Thomam
3 secuti, scientias omnes eadem me Prnn0n,VCtan MB P°SSG lUemUP" Statuimus
hTnc rroposilionem: "^ Scientiæ aliæ aliis methodis tractandæ sunt. Jil
'!', Me"S ^versis viis in cognitione rerum proced, prout insæ,n se d.versæ
sunt, et diverso modo ad ilhus facullates cognoscentes referuntur. At.iui res
in quibus sc.enfæ versantur, sive considerentur n sui na" lura, sivc prout
referuntur ad vires cognoscentes animæ l^LtriT ?r°jil? diversis viis mens eog,
oscZe: cesse est. Atqui melhodus via est, qua mens in cognitione entatis
progrednur. Ergo illas dlversis methodis mens nfre°St.n ^T T ^l1 id a,ifluo
emplo confirinarc. In scientns physics alia sane methodus, ',nm,n, .• V,tlca
llac">ndæ dicunlur, id non esse de sinulis . r z r;T,r^en"r' cv
n,,ib,,s ^ ssfisffl : -,, °„°-' q °,'a SCnCS d>onslrationum incipit, et
nrol-rcditur 21 esoe,;u0tC,,1nniCæ' ^ fJ'ntUesi innft™r, >%££ ium
rcsolutione non raro analysi utunlur. Eudides, cl vetcres Defensores adversæ
sententiæ refutantur. Philosophi, qui unicam methodum in cunctis scientiis
adhibendam esse pugnarunt, ex diversis momentis ad doctrinam suam excogitandam
permoti sunt. Nonnulli, ut Cartesiani, in cunctis scientiis methodum
geometricam commendant, quia arbitrantur certitudinem, quæ scientiarum
mathemalicarum propria est, perinde quærendam esse. Alii, ut Lockiani, et
Gondillachiani, unicam methodum inductivam probant, quia orar.es scientias
nonnisi eodem instrumento, nempe inductione, acquiri putant. Denique alii,
inter quos Germaniæ Philosophi Transcendentales præcipue recensentur, unicam
methodum in cunctis scientiis tenendam esse docent ex eo, quod unicum esse
principium omnium scientiarum sibi persuadent. Hæc omnia falsa esse evincemus
sequentibus propositionibus. llla certitudo, quæ propria Mathematicæ est, in
omnibus scientiis quærenda non est. Probatur. Gertitudo cognitionis respondeat
oportet naturæ rei, circa quam versatur. Ad hominem bene instructum, ait s.
Thomas, pertinet, ut tantum certitudinis quærat in unaquaque materia, quantum
natura rei patitur. Atqui res, circa quas scientiæ versantur, sunt diversæ.
Ergo certitudo diversi generis in diversis scientiis sit oportel; ac proinde
eadem cerlitudo, quæ propria mathematicæ est, quærenda non est in omnibus
scientiis. Et sane in Mathematicis, ut idem sanctus Doctor inquit, certissima
ratio requirenda est, quia versantur in iis, quæ sunt abstracta a materia, et
tamen non sunt excedentiaintellectum nostrum. Ast eadem cerlitudo in iis
disciplinis quærenda non est, quæ circa materiam sensilem versantur, materia
enim sensilis mutationis est obnoxia; neque in illis, quarum obiecta humanas
vires cognoscendi prætergrediuntur, cuiusmodi sunt substantiæ mere
intellectuales ; illa enim, quæ omnino immaterialia sunt, non sunt certa nobis
propter defectum intellectus nostri 2. Geometræ in universum methodo synthetica
demonstrationes conficiunt; recentes methodum analyticam syntheticæ anteferre
solent. 1 In lib. I Ethic, lect. III. 2 In lib. II Met., lect. 2a. Inductio
unicum instrumentum omnium scientiarum esse non poiest. Probalur. In quolibet
genere rerum, ut iam ostendimus, ad cognilionem scientificam alicuius rei
assequendam induclione, et syllogismo opus est. Atqui, si sola inductio nullam alicmus rei
scientificam cognitionem ner se nobis lag.ri potest, multo minus omnium
scientiarum unicum mstrumentum esse potest. Ergo. U. Unicum esse nequit
principium omnium scientiarum. Probatur . Mens nostra cognilionem veram tunc
assequitur, quum hæc cum re, quam repræsentat, adamussim consenlil; quapropter
scientiæ, quippe quæ derivantur a cognitione pnncipiorum, ex quibus res
existunt, non possunl veram cognitionem rerum nobis præbere, nisi oarum
pnncipia cum principiis ipsarum rerum omnino cohæreant. Quæ cum ita se habeant,
argumentamur hunc m modum: Pnncipia scientiarum consentanea sint oportet
pnncipns obiectivis, et realibus ipsarum rerum. Atqui species rerum, quæ sunt
obicctum cognilionis humanæ, d.vorsæ sunl. Ergo diversa sint oportet principia
coffniUonis humanæ Non tamen, ait s. Thomas, est possibile, quori ex sohs
al.quibus taliter communibus possint omnia svUogizan, quia genera enlium sunl
diversa 2 . Ex quo nrgumento colhgitur unitatem principii omnium scientiarum
cum pantheismo, in quo unitas entis adslruitur, conærere; siquidcm, cum
principia scientiarum rebus, de quibus in scienlns agitur, consentire debeant,
necesse est \ Cf p. 78, ct 81-82. /.. / Poster., lect. XLIII. Monere hic
præstat ab unico, nnC1p,o contradictionis, nempe, Non potest idem simul esse,
et m esse, omnes scientias derivari non posse. Et sane, principium
ontrad.ct.on.s procul dubio est supremum principium logicum, inippe quod
rationcm reddit, cur principia communia omnium scienlarum vera s.nt; si quis
enim invcstigare velit, cur de illis prinipns ne m.nimum quidem dubitari
possit, statim deprchendit id x eo (•vcnire, quod, si falsa essent, idem simul
affirmaretur, et rorctur. At vcro inde haud fluit illud principium esse
huiusmodi •r ncipium suprcmum, ut ex ipso, velut ab unica causa, universa wenua
promanet. Etenim principium contradictionis cst principium mmunc; ex pr.ncipio
autem communi, utpole quod circa nullam peualcn, matenam versatur, nullius
obiecti cognitio erui potest. -i s. Tnom., in cit. lib. I Poster., ibid., et lect. ut,
si unicum esset principium omnium scientiarum, unicum ens re ipsa existeret. De methodo docendi Quid sit docere, declaratur
Docere, secundum AQUINO (vedasi), non aliud est, quam causare scientiam in alio
operatione rationis naturalis illius ' . Sane mentes humanæ sunl in potentia
activa ad scientiam, quia ipsæ per lumen naturale intellectus co"noscunt
principia, quæ sunt quædam semina scientiarum; proindeque docenlis non aliud
munus est, quam mentem discipuli per signa exteriora adiuvare, ut hic ex
principiis ei notis conclusiones, quæ principiis continentur, ratione sua eliciat.
Ex his vides a magistro, non tamquam causa principali, sed tamquam causa
adiutrice, scientiam in discipulo progigni; quia quantavis mediaad discipulum
erudiendum magister adhibeat, semper discipulus ratione sua scientiam in se
efficit, et tum vere scientiam addiscere dicitur, cum considerat utrum ea, quæ
a magistro explicata sunt, vera sint, necne. Exemplo hanc rem idem sanctus
Doctor illustrat, et confirmat. Quemadmodum medicus corpus ægrum ad sanitatem
revocat, non quod ipse per se ægritudinem a corpore repellit, sed quod cibos,
et medicamenta corpori suppeditat, quibus natura corporis ad ægritudinem
expellendam adiuvatur; ita magister scientiam in discipulo gignit, non quia
eandem scientiam suam ei tradit, sed quia per signa quædam mentem eius revocat
ad considerationem principiorum, quæ naturaliter cognoscit, et conclusionum,
quæ principiis continentur 2. II. Quacnam sit ræthodus, qua scientiæ tradendæ
sunt 46. Non pauci philosophi, inler quos nuperrime A. Garnierius 3, non aliud
discriminis inter methodum analyticam, et syntheticam ponunt, quam quod illa
inventionem, Qq. dispp., De Ver., q. XI, a. 1 c. Ibid. 3 TraiU des famlUs, lib.
VIII, c. 2, § 3. SlausCsec:iPu0enl(iOI,em " PM ^ SCntentiam "
traLZZs?atnt{aS meth°d°> 0Ua inventæ . Probatur. Magisler, ut iam diximus,
non aliter docet fe U„mmeqnU,aimnq„"0d """• ni])usuam.
nempetrl ' niam argumenlalionem, qua ipse verum coffnosci, rW! pulo manifes.at;
ct discipulus non sermone?sed ar.im atione, quam, ope illius sermonis, menle
sua rS scienliam adquirii. Atqui, si discipuhu acientfam^non ioncma Zgh!ro
diSCi'-' q"am 1o eamdem argumcnTalionem, qua hic scientiam invenit, mente
sua rcnclii li qncl scentias non alia me.bodo radendas csse^ab illa qua mventæ
sunt. Ergo. Id ipsum s. Thomas ' hoc fa Hi Kri °æCO„onPr0,bar^ d™ '-.hoZ
invemion u uocinnæ non aliud interest, quam inter naturam m locinnæ autem est
artificiosa. Atqui artis nronrinm ^t r clr^metfj0 met^di >^mK •£ .ioccssus,
ac melhodi invendonis. cicn,i"m CU18S aUtCm',('U.aC VU'S° "reditur, addiscendi
iui scienti lr°° ""enlionis, nu||a est. E(e„im ivereasaue v.pa "
P /eJ,C 'nvenit' Pkrumque plures, wram nrinilnS,ngred' • CDCt ' Ut quænam
llarum ad lud inieres „„^ )n,etn0d0'(|Ua "'venluni ab co csl, iaorem „, 'i
„T ',ntCr v'alorem' ? sine ullo duce, e ' mih^vl' UCCal,qU0 ltCr KRrcdilup. Hic
cnim, cum lu pech ne^i, gT'at' .qaat ad me,am oputam ducil, onec viamP ngI ;
'Jle autcm hac illac wcurrere debef igpedia tu ' qUa° ad mCtam Perducit' dtegt.
-Ilamque 1 Loc. cit. gg Prænotiones de arte critica 49 Ouoniam ad alicuius
scientiæ adeptionem veros !ibrorum auctores cognoscere, eorumque loca obscura
m"erpretari plurimum confert, nonnullas de Arte crihca no iones ad calcem
huius Logicæ exponere visum nob.s est. Criticæ, nempe iudicatricis nomen habu.t
ars de aho rum scriptis iudicandi, eiusque pars, quæ de .nterpreta lione
librorum regulas tradit, pecul.are nomen Hermeneu ticæ sive Interpretativæ
habet. 50 Atque ut a definitionihus verborum ord.amur, genuinus est liber, qui
eum habe. auctorem c.s,ej nræsefert, suppositus vero, s.ve spurius, si alium
quam cu.? trihui ur, auctorem habet. Porro xnteger aud.t l.ber, nu non aliud
continet, quam quod auctor scr.ps.t; s, quui quam illi additum, aut demtum sit,
corruptuseU spec.at.u nlerpolalus, si quidquam add.tum, muHlus, s> demtum 51
Ut genuini a spuriis, atque mtegr. a corrupt.s li bris secernantur, tria' præ
oculis taWa ^ 1 styte, nam certe spur.us est liber. si stjlus dij ersu sit a
slvlo auctoris, cuius nomen præs efert; 2 eesi aclus essent.æ, agere autem est
actualilas potentiæ. go si esse et actio realiter distinguuntur, necesse quoque
> ut essentia, et potentia, a quibus, tamquam a princi- Mi actus promanant,
inter se realiter distinguantur 3. iiismodiCn0nPOribl!S an.i,nantium dicuntur
principium vitæ ; ast msmodi non sunt, nisi per animam. Esspntia animæ illud
est, secundum quod per eam et in ea habet nadirZ aUlem s,SmT,cat ipsam
essentiam, quatenus habet ordi \ op.t iTbmiiTTnew' cf s Thom'' De ente
etessentia> c- S^ sa tonsutuuntur, prius cognoscat. Ms fil^M nabi!USp0teSt alia
signincatione dici natudis, scihcet prout v.m facultatis, et modum onerandi 1
naturalem non excedit. Si habitus hac raTione nntu ;;.eie:[urab illa specie
babitus • srx± 29. Habitus infitsus ille est, qui vel facultatern humanæ
esienCail,CU,USmr,i S,Unt FideS' SPeS' et ^riK i, etsi naturah virtute aliqua
rat one aconiri nnscii men ex .mmediata Divina actione sine natura K ' rip0,
irare„m' efom" : ^T " Ap°St0'iS " ripiurarum, et omn.um
I.nguarum, quam homines ner t Srfecto,8COnSUetudinem cquirere^possunt, licet nl
30. Quod si hahitus considerentur relati ad
notentia Mbus insun,, i„ intellectuales et morales dividunlur pro„'t rt.nent
vel ad inlellectum, uti scientia, velad volunta . uU temperanlia. Cuius
divisionis ral o hæc es° Ilhe eiitiæ ind.gent habitu, quæ diversimodepossUnlor!t
njl agendum; quia, cum huiusmodi potentiæ ex sui • ad dotcrm.natam, sive
complelam opera ionem or Seta"baA,ri,„rnniSi Per babitUS evadnnt ToZtiL
J.'etæ . Alqui potentiæ, quæ diversimode ordinantur $, TlC t^T^" V°CatUr
'•"" prinapionan; vid. ^o^ir^ S£s£s^f ^s^^~ ^v^^r A.si.r^,, atque
definitur,Ulud principiZ Z .orpus vivens per animam nutritur, augetur, et
propaqatur 3uare tres ut diximus \ complectilur facuItfteT tt rum, nutntivam,
augmentativam, et gcnerativam. Vegetaivum, inqu.t Doctor noster, habet pro
obiecto ipsum corms v,vens per an.mam; ad quod quidem corpus triplex mimæ
operatio est necessaria. Una quidem, per ouam sse acqu.rat : ct ad hoc
ordinatur potentia genem"™ lVe.r°; P.er. 1uam forpus vivum acquirit
debitam quanitatcm; ct ad hoc ordinatur vis augmlntativa. Alia vero r quam
corpus viventis salvatur et in esse, et in quanitate debita: et ad hoc
ordinalur vis nutritiva 3 ' t; 1?,?,asnutritiva est M"vu,qua vivens
alimentum uisi nu iæ duæ desfrviunt generat,° est ul"ma °Peratio, cui ' se
comnlecliiur n ..'. ^0'^ 'PSaS °Uodam modo ntimnc P Quare nos a Gregorio
Cuvierio dis i" ^ esVprirn/one 7 nUtrit,'°ne defini1 • &™
"U" •inde ; iL™ °Peratl° > qnæ in vivenle annaret \t ni attrhni
nmtaSat consequitr, vilam a noTs nulri n am CSSe-'si0niLer0 6X "Utritione
notm"em vitæ tra ffimperfeXr m, l|Utr,„,°' CUm sitoPeralio vilalis
wneriecuor, nullam harum complectitur. • I. Invetigator otroni opera.iones
vi.ales in horoine smt rationa.es, an nalura.es od nI?i'lVjIUti exPloratum.
certumque sumentes illud rion de70nstrauimus, nempe prineipium a „, 0 01 usmodi
„ a,e°r,UnlUr' esse animam. a q-e n hominc Si r,nC,P,um esse eamdem animam
rationalem -st.gamus utrum, nec ne admitli possit Perrahullii', Uectum, imo in
ivia intn/,> • ?.em lIIo> Vul est secundum erfecior,i, 5&X£^fZ2Z7
""^ T o, et ultima perfeetio vitæZLi' qu' |" "o. // /)e
^lntm., Ject VI ' L"Iy,;C V„~' reV8 ""'""'•. pnysique,
Des sens exterieurs. DYNAMILOGIA Sthalii , aliorumque sententiam, qui, Scaligeri
vesti giis insistentes, animam rationalem per rationem, et vo luntatem cunctas
operationes vitales corpons producer opinati sunt. Operationes vitales hominis
non sunkanationa les, sed naturales, hoc est, similes operationibus rerum o
mnis coqnilionis expertium. Probatur. Etsi, ut suo loco videbimus, amma, quæ
irr formatcorpus humanum, sit rationalis, tamen non largi tur corpori esse
suum, prout est rationalis 3, sed esse ns turæ vegetaniis, quam in se continet.
Atqui operationei quas anima in corpore edit, consentaneæ esse debent m turæ
roO esse, quod ipsa anima corpori largitur. Ergo illa operationes debent esse
tales, quales sunt operat.ones v modo spectant. i Theor. medica vera, Physiol.
Exoticarum exercitationum liber de subtilitate ad Hieron. L danum, Exercit.
307, n. 3. i nn rliinr) a un. De Anim., a. M aa n. O c it ibid. ad 6. Hoc certe
sibi voluit s. Basilius, cum it anTmam corpoH vitam impertiri suapte natura,
non vero vA te; vid. Constitutiones Monasticæ, c. 2, n. 2. 's i q. LXXVII, a. 1
ad 3. e Gf s. Thom., 2a 2æ, , a. 3 ad 1. De facnltate sentiendi I. Qaædam
notiones præslituuntur 42. Facultas sentiendi illa est, per quam anima unita
orpori res mater.a Ies, quatenus materiales sunt, percipit læc facultas
complect.tur sensus externos, et internos -xlern., quorum actus sensatio
nuncupatur, ex eo nomen nmunt, quod versantur circa res exteriores, hoc est
circa es quæ ips.s extnnsecus obiiciunlur. Sensus autem in n7lrn°mlne
donantur.> 1uia spectant res sensiles, quæ n.mam per sensus exteriores
ingressæ sunt. > til"? •enS.US utriusque generis non in anima sola, sed
> amma s.mul, et corpore existunt, ac proinde ad
actioessuasexerccndas.nd.gent quibusdam partibus corporis cuhar. quadam
structura donatis. Hæ^ partes oraam, Zl'nStrUmenta d,c,a suntqia inserviunt
animæ ad '' '„ sens '"es exercendas. Organa sensuum internorum r i Z,l °S
Cc0r.P0rA,'. et orana externorum in di 2rJ US suPe-fic.ei illius resident.
Sensuum autem lCr,°.rUm organum; quod odoratui inservit, nares, quod od heinT0'
qU° aud'tU'' aures' quod visioni id> qnd eognoscitur, non „°si rporeun, esse
possit. Atqui facuUas°sentiendi non nis s riffn na corP°rea exercetur ; omnes
enim experimur n!„T unquam sent.re, n.si ope alicuius organi, ita ut quod
organum corpori desit, aut vitio aliquo aboret i.oSZætar'bvUeSr qUaCPer ir'Ud
^™ fiun ^ EitaiU J,,-' P.crPeram aic.atur. Ergo obiectum ^in.iitatis est ahquid
corporeum. '."'™ Pfoprie
est organum tactus activi, tota autem nellis e Paaos. Christ. Compend. I. ? o 45. 2a. Anima per sensus una
cum qualitatibus sensilibus eliam substantiam percipit. Hæc propositio demons
tratur contra Reidium, Rosminium, Giobertium, aliosque, qui docuerunt animam
per sensus percipere dumtaxat qualitates sensiles, e. g., colorem, saporem,
odorem etc, non vero ipsam substantiam corporum. 46. Probatur. Nos per sensus
percipimus qualitates non in universum, sed determinatas, et concretas. E. g.
nos non percipimus colorem in universum spectatum, sed determinatum, hoc est,
aliquid coloratum, e. g., album, aut nigrum. Atqui qualitates non sunt
concretæ, et determinatæ, nisi prout huic, vel illi subiecto inhærent. Ergo nos
non solum qualitates sensiles, sed etiam subiectum, cui inhærent, hoc ' est,
substantiam sentire pro certo habendum est. 47. Illud autem concedendum est,
quod substantia, cui qualitates sensiles inhærent, confuse, non vero distincU
per sensus percipitur, quia illa ad sensus non nisi per accidens refertur. 48.
Ut id facile intelligatur, explicanda nobis sunt diversa sensilium genera. Hæc
sunt propria, communia et per accidens. Sensilia propria sunt qualitates, quæ
ad sensus referunlur eo quod ipsæ determinant sensum ad sentiendum. Hæc
dicuntur sensilia per se, etprimo, quia reducunt sensus ad actus suos. Sensilia
per accidens sunt, quæ per se nihil agunt in sensus, sed ab ipso apprehenduntur
ex eo quod cum sensilibus propriis coniunguntur. E. g., in lacte albedo est
sensibile proprium visus, quia visus ex ipsa albedine ad eius visionem
determinatur; dulcedo autem est sensibile per accidens ipsius visus, quia
refertur ad visum ex eo quod cum albedine in eodem lacte coniungitur. Item,
substantia corporum est sensibile per accidens cuiuscumque sensus, quia
refertur ad sensus ex eo quod est subiectum sensilium propriorum. Denique sensilia communia sunt, quæ per se, sed non
primo agunt in sensus. Per se, quatenus actiones sensilium propriorum quibusdam modis afficiunt,
sive, ut aiunt, modificant. Non autem p rimo, quia nihil in sensus seorsum a
sensilihus propriis agunt f. Hæc sensilia sunt qualitates Cf s. Aug., De lib.
arb., lib. II, c. 3, et s.
Thom., I, q. LXXVIH a. 3 ad 2. U5
quæ ex quantitate exislunl, e. g., magnitudo, figura motus. Sane hu.usmodi
qualilates, etsi non agant in senTuS scorsum a sens.li bus propriis, tamen ad
"producendam sensat.onem al.quid agunt, quia modificant ip am actionem
sens.l.um propnorum. E. g. oculus aliler a ZkmZX. n.vis, al.ter a parva
afflci.Sr. [am sensu sens™ Tprop • a et commuma d.sl.ncte cognoscil, sensilia
aatem per accl iens confuse, qma j||, per se senlit hæc au7em ex eo solum, quod
cum illis coniungunlur. Abt. Iir.— De nnmero sensuum externorum 49. Lockius
dubilavit an præter aspeclum, auditum aulum odoratum, et tactum alii sensus in
homine laTa/t Jod.ern. fautores magnetismi animalis contendunt ani-' nam .n
sommo magnetico sensationes, ac alias a" iones ognoscenles exerere, quæ ad
nullas am comnerL fa ultates revocari possunt. Denique BnlmesTuT? a| iaue -n t
fien posse, ut homo novul sensum temp'o^ .ect^r,o( po Ha,r!S',qUæ ad
se"^bilitatem externam iones aU10 Tr M ' ^0' SUU' SpeCi"Ce diversæ
a",.°,nr qj P,llas exercentur, et actiones sentientes •ec.fice diversæ
sunt, prout specifice diversa sunt ob e . ad quæ referuntur e int. hnm., lib.
H, c. 2, § 3. 'nk°rC„Srle'na n°'nCn mai>^tismi animalis habet, guia pr0
cert0 nes„,,srPr°rC,CSSe cognitio sensitiva efflcilur ^•^SSi.1"' ^^ SenSati0
haberisineorganoproProbalur. 1 Obiecta sensilia sunt coroora Ainni ™
cxcipiendas SSffiSSr ftS^SSL?^!?!^ ST " B C r P/iu™/^"Pecia"1
eCsseqUe ""^ losonhn°'"r COnt,ra Rei dium '• et fere omnes
recentes phiosophos. Cogn.lio est actio immanens, sive aclio trm.num habet .n
ipso suhieclo cognoscenTe auba' nH t,(0sci° K°tUm' '|U°d cenoscitUrfsed 8ub
ieciuu,,^ ofse nUi^hqU,° conse(luitor cognitionem haher '"on •osse, n.s.
ob.ectum cognitum cur£ facuKale cognosceTte s.^ismi ^W P^nSrr eMe Senlentiam
fantornn> idere non per ocu los sed „ 'n S°mn° ma8ne'ieo animum S f.caltatem
laten.em fn ,v, PartCS COrporis> vel d, in. es eo „,„,'' U tates,alentes in
anima esse neoueiint . Wal^.TO.r? vi-,lere per aiias partes e": •eclat, si
vis viden, i„ T eenferant. Quod autem ad alterum structuraVt it VXK"
2??transfe"e'n'', s,,u,,u mP m „mmTlTi „Crn°,r StætranSfcrri diennt.
Pæ" "> Possc fieri „ „ " m, U ! T CV,ncit hanc 'nutationem
iorpus hnm„, 1 II" strnct,,ra ad "turam corporis hnm.ni faZt£zmZ TZXlUr
1836; Caro,i ™ echerches sur V entend. hum., c. 2. quodammodo coniungatur l.
Atqui obiectum sensibile noB potest coniungi cum sensu, nisi per suam speciem,
sive simililudinem. Ergo cognitio sensitiva fit per species rerum sensilium.
56. Minor demonslratur hunc in modum: Obiectum sensibile, ut cum facultate
sentiente coniungatur, atque ita notitiam sui in animo gignat, debet in ipsam
facullatem sentientem, sive in ipsam animam ingredi. Hoc posito, obiectum vel
per seipsum, hoc est, per eadem prineipia, ex quibus constituitur, animam
ingredi dicitur, vel per sui speciem, sive similitudinem. Atqui obiectum non
potest per seipsum ingredi in animam, alioquin unum, idemque cum hac fieret ;
id, quod proprium panlheistarum commentum est. Resiat igitur, ut per speciem,
seu similitudinem sui in animam ingrediatur 2. 57. 3a. Species efficiuntur ab
ipsis obiectis, non tamen ex eo quod aliquid substantiale, vel accidentale a
cor poribus distrahitur, sed ex actione obiectorum sensilium it animam.
Probatur. 1° Species ab ipsis obiectis efficiuntur. Ete nim experientia nobis
testatur obiectum ipsum, quod sen timus, e. g., solem, esse simul causam
cognitionis sensi tivæ. Si ergo cognitio sensitiva non fit nisi per specien
obiecti sensilis, hoc ad illius productionem tamquam cau sa concurrere debet 3.
2° Nihil substantiale a corporibus avulsum in animar illabi potest. Et sane,
anima est incorporea. Atqui fiei non potest, aiente s. Augustino, ut
incorporeus animu I adventu, atque contactu corporearum imaginum cogitet )
Ergo. 3° Neque aliquid accidentale a corponbus distractnr in animam ingredi
potest. Revera si id fieret, acciden in actu migrationis sine subiecto, ac
proinde per se ex steret. Alqui accidens per se existere nequit. Ergo. i
Cognitio contingit secundum quod cognitum est in cognosce; te ; I, q. XII, a. 4
c. Cf s. Aug., Soliloq., lib. I, c. 6. 2 Cf s. Bonav., In lib. IV Sent., Dist. XLIX, p. 2, a. 3,
qresol., et De reduct. art. ad Theol. 3 Sensus, ait s. Augustinus, accipit speciem ab eo corpor
quod sentitur ; De Trin., lib. XI, c. . Epist. CXVIN, c. 3. 4° Quod ! si
species non est aliquid neque substanthlp inTeediatCurdei' T°t , °biec!o -Sffi
JffSSi r ucl F l 0b,ectum aclione sua illam in anima producat. fct sane, sensus
est intrinsecus indifferens ad pemp.endum hoc aut illud obiectum, ac proinde
ali cS inlrin^00' et n0n aliud obiectum. Inm hoc prinecus sensn neCUm, non
Potest esse res, quatenus exlrinecti a\Z^ TT Erg° Satis non es P™ducat in eo
rTtefarSJl U "^" semitiva a'' rei efficialur, ensum f^Z '
?"" ° v^To eXUrius Peciem suam ™ s;rsjr:v? mscipiendo in ? a 'specie
rtpraZZit' MW ^™ ^™ ctus1enTuslaADarS SuscePtio sPeciei est quidam vitalis
ronri,, pc • ^qU' aC,US Vltal,s non nisi earum rerum otes. !. ' q Se'pSaS
.movent ad agendum ', et nihil SieJo in .m°Vere' n,S',0Vid cius species
similitudo est: •d Tum^T n°U .eS.1 terminns. in quem cognitio fertur, ereipffim
PrinCT'Um' CX q-U0 Sensus detcrminatur ad tis non pT, ' ab,pSa specie repræsentatam
. Ergo K IibXI> c2 sThoi-> Quodlib.Ym, ii 'odar9;' s' av' /w m' 7
SenL> Distrn. • "! ; Cf B Alb. M., In Eth.f tract. II, c. 18. sThom.,
I, q. xil, a. 9 c, et q. XIV, a. 5 c. 1 analogiam secundum naturam, conc. ant.,
non habent analogiam secundum repræsentationem, neg. ant. Neg. cons. Et sane,
ut aliquid repræsentet aliud, non requiritur convenientia inter ea secundum
naturam, sed sufficit convenientia secundum repræsentationem. E. g., statua
Herculis Herculem optime repræsentat, etsi forma Herculii non habeat tale esse
in statua, quale esse habet in carnibui et ossibus %. Iam, etsi species
immateriales nullam habean convenienliam secundum naluram cum rebus sensilibus,
ta men habent cum eis convenientiam secundum repræsenta tionem 2, quia nihil
prohibet quominus aliquid incorpo reum contineat in se repræsentative illud
ipsum, quod ii re corporea est realiter. Igitur
per species incorporea possunt res corporeæ a nobis percipi. 65. Inst. Simile
simili cognoscitur. Ergo per species in corporeas res corporeæ percipi non
possunt. 66. Resp., Dist. ant., ita ut medium cognitionis simi litudinem naturæ
habeat cum subiecto cognoscente, conc ant., cum ipso obiecto cognito, neg. ant.
Neg. cons. E sane, cum cognitio sit affeclio subiecti cognoscenlis, no vero
obiecti cogniti, medium, quo aliquid cognoscitui simile sit oportet non iam
obiecto, quod cognoscitur, se subiecto cognoscenti. Quocirca, cum anima sit
immat( rialis, nonnisi per species immaleriales potest res coi poreas
cognoscere. Illud igitur effatum, simile simili c ne operaliones suas i°nes '..
cqU enSUS commu's non cognoscit opera;,,'n °Perat'ones sensuum exle°rnorum.
Ergo •^quam sensus commun.s exercct, est directa, non ?'i.Hi1rC;V,,;niUS
facul,atis ohfactam, nataram, et modum, 1° Sens.aC In SUaS eXC.rCet' hæc
adnotanda sunt: Sensus com.nun.s eo,pso, quod scnsaliones sensuum propriorura,
sive externorum, earumque differentias sen tit, ipsa obiecta sensilia percipit,
quia sensationes ab ob iectis suis seiunclæ esse nequeunt, et ipsæ sunt diversæ
prout ad diversa obiecla referuntur; si ergo sensus com munis percipit
sensationes, earumque diversitalem, diver sa etiam sensationum obiecta sentire
debet. Quapropte duplex obiectum sensus communis distinguitur, unur proprium et
directum, nempe sensationes, quæ per sensu externos habentur, et earum
differentiæ ; alterum ind\ rectum, et secundarium, nempe obiecta sensuum propric
rum 2° Cum sensus communis sit facultas senliens, organur sui proprium in
corpore habere debet. Hoc organum vc catur sensorium commune, et est
encephalum, sive, u aiunt, systema cerebro-spinale, quod cum organis sensuur
propriorum per systema nerveum coniungitur ; unde fil ut sensus communis, qui
illi alligatur, affectiones sensuur propriorum excipiat, et cognoscat. 3° Hæc facultas dicitur sensus
communis, eiusque or ganum sensorium commune, quia est velut centrum sensuur
propriorum 2. Scilicet, sicut centrum est principium, quo proficiscuntur, et
terminus, ad quem lineæ deferun tur; ita sensus communis est principium, sive
radix, v( fons, a quo vis sentiendi transfunditur in organa sensuui propriorum,
et est terminus, ad quem affectiones sensuui propriorum deferuntur 3. Quocirca diversæ sensilium sp..„j ."a&V,ls
'cimere, et sibi repræsenlare 'tcst . Quod si amma per phantasiam percipit Z?
rei, non rem ipsam, opus ei non estSenlh ?f ' . na!„u'rag:?etUrI.; qUare
PerPhantasiara ?ef um etiam laginamur, cum hæ a sensibus remotæ sunt dnm ZX:
VenS'buSPr.°Priis • et sensn communi 'res non prehend.mus, nisi hæ nobis
adsint, quh per istls fa llales res ipsas cognoscimus. 4 P l,a~ ^roL^' i"'
Phantasia "t ficultas sentiens. fett,".FaCU,ta-8-'('uæci'rca res sensiles
versatur £ non est in,X,e?erCetUr' 6tauæ '" bel,uis e'iara si, non est
intellectnx, sed sentiens: quh res sensilo t ob.ectum sensus; in statu somnii
autem intellec tus 5 TJZSZT be"uæ denia-ue hSfc-KST ari nnr "i
enS','.a,raaS'nari, præterea res ima s doninnn cura1v'g'laraas. sed etiam cum
dorrni aVin-,nd? nnll. m°d° uh°minC.S ' Sed eliara belluas vi ac°sen "nH;P
C ' U,am hæ ' nisi vi Pollerent sibi re cscntandi rcs sensiles a sensibus su.s
remotas zl ?Li:qize-' quaita'robatur. Non possumus aliquid imaginari, nisi qua
Cf !" ll°°y' ComP^d. theol. vtr.. lib. II c 3fi tenus aliqua figura
induitur: quod quidem conslat tum ab experientia, tura ab ipsa significatione
vocum phantasma1 tis, ac imaginis. Atqui figura ad quantitatem corporis
pertinet. Ergo res sensiles ad phantasiam per quantitatem proprie, et per se
referuntur. Diximus autem proprie, et per se, nam qualitates rerum sensilium
etiam ad phanlasiam pertinent, ex consequenti tamen, et per accidens. Etenim,
cum qualitates sensiles a quantitate seiungi nequeant, sequitur phantasiam eo
ipso, quod fertur in quan-, titatem, ferri etiam in qualitates rerum sensilium.
81. 3a. Phantasia
sine sensibus propriis, et sensu ' communi exerceri nequit. Probatur. Phantasia
versatur circa obiectum, non prout in se est, sed prout in anima existit, quia
phantasma, sive obiectum phantasiæ est repræsentatio obiecti sensilis facta in
anima. Atqui obiectum sensile existit in anima, prout sensibus apprehensum est.
Ergo actio phantasiæ sine actione sensuum existere nequit f. Expenentia idem
confirmat; compertum enim est quemquam sensu aliquo carentem nihil posse
imaginari de sensilibus, quæ illius sensus propria sunt; e. g., nec cæcus
colorum, nec surdus sonorum ullas imagines habent. 82 Quod si cura Garnierio 2
obiiciatur nos multa imaginari quæ nuilo sensu fuerunt a nobis apprehensa, e.
ff., montem aureum, in promptu s. Thomæ responsio est: Etsi phantasma rei, quam
ante non percepimus, sit novum secundum speciem totius, tamen non est novum
secundum partes, ex quibus componitur. Ita species montis aurei est nobis nova,
sed non sunt novæ duæ species montis, et auri, ex quibus unica illa montis
aurei spe cies existit 3. . k;£ 83. Duo denique circa phantasiam explicanda
nobu sunt: 1° Quid sit, quod interdum per phantasiam non imaginem obiecti, sed
ipsum obiectum repræsenlare no bis videamur; 2° quomodo fiat, ut phantasia ex
imagini bus rerum, quas e sensibus hausit, novas imagines et formet., . . j 84.
Quod attinet ad primum, præmonendum est iuar i Cf s. Aug., De vera Relig., c.
10. 2 Op. cit., c. 3, sect. 4, et c. 8, sect. 1. s Qq. dispp., De Malo, q. XVI,
a. 11 ad 9. bio intellectus opus esse, ut cognoscamus utrum, necne •es, quas
.mag.namur, reales sint. Quare quidquid impe IU, quom.nus intellectus iudicium
illud exerceat, in™au a est, quamobrem non imagines rerum, sed res insas
>ob,s repræsenlare videamur. lam huiu modi 1mpPedi nentum even.re qu.t lum
ex parte animæ, lum ex p^arte orpons. Ex parte animæ evenit, quoties ipsa in
nhan asma.e confingendo omnem vim suaTr, intendft; siqufdem" l . alibi
d.ximus ', anima, quoties omnem vim suam Tn l.cuius facultatis exercitalionem
inlendit, reliquas fecri ftes exercere non potest. Qnapropter, quotiesYnTma
"b ehementem al.quam affectionem, totam vim sua.n inf baginem ob.ect,
convertit, inlellectus non potest iudicTum Nhibere, ut d.stinguere valeat
imaginem al "psa T nam repræsen.at. Ex parle corporis° autem dem evel l,
quia vel ob soporem sensuum, uli fit in somniU !| I morbum a liquem corporis,
uti'in ægr" et phreneti S ætio inlellectus impeditur 2. S pnreneti
&>.Quod ad altcrum spectal, phantasia, ut diximn "umSrSeeduc,U.l-retinet:
'^ aUtem' e,si non p"d . mota Z \ , Se"SU TVe,atUr',amen> Postquam
ab . mola est, polesl ex se sola aliquid agere, auia in nm a ™™eTr>dZoym
^^.cesLnt^se^uMr se rc.in! „•• Quoc,rca' " Phantasia imagines rerum se ret
net, eiusque actio cum aclione sensuum non ces ere^ur a?r'e ""^, •'
aUOminns fPsa ""p" imagine s nihi h,°Ue ex. mnl,,s> variisque
novas conflet/quls n.h.l hu.usmodi m rerum natura respondet. IX,— De
Æslimaliya, seu Cogilativa S6. Æstimativa est,11, facullas, qua in rebus
sensili s apprehend.mus aliquas qualitatcs, quæ ner sen s ZTl0^ v"
innotescnnt. cg, illasessePnobsuti ^ aUt • X'aSVoCa,.ur au,em Mstimativa, quia
per il eTmardS'JeUI,U(IiCamUS ali1ui0 in -2us sPensi ' esse quod sensibus non
apprchendimus. tiens P' Æsttmatlm non t faultas intellectiva, sed •,10fbrxH,Cfe.%2AUg'
°e THn> IibIX• ^, et De ctThom.,',,,. (,. 4 c. e, q v> ^ ^ ^ ^ Gen.
DYNAMILOGIA Probatur. Facultates, quæ homini, atque belluis communes sunt,
nonnisi sentientes esse possunt. Atqui æstimativa communis est etiam brutis;
certum enim est ipsis inesse facultatem quædam de rebus sensilibus iudicia
conficiendi, quibus ad vitæ conservationem opus illis est; e, g., ovis lupum
inimicum et canem amicum iudicat, atque inter plures foetus, qui obviam ipsi
fiunt, erga proprios tenero matris affectu trahitur; avis paleas ad
nidificandum accommodatas a ceteris discriminat '. Ergo æstimativa est facultas
sentiens. 88. Ut huius propositionis veritas magis perspiciatur. advertendum
est aiiædam iudicia particularia circa re et rccognoscendi I robatur. Proprium obieclum
memoriæ esl nræteritnm rout prælerilum est. Hoc posito, præteri um nronr t
rac,er„um, est obiectum sensile, non vero intXibil1 p-Vd etlrZZT dPraCteritUm
" •^SSftSl,j ' "s ?elerm'natum, dum e contrario intellieibile est
"lclcrminatum, ac universale, proindeque ex n om„
',vl;,mmdnS,dera,,UrAtaui natura faoJtads ex obieX ';' quod yersatur, sumenda
est. Erjro memoria enm hifrod r C VerSCt,,r> fæ"^ senTicnse . Acce s
cJmunif CU t8S cog"osee"f!i' M"e bomini cum belis communis es,
non msi sentiens esse quit. Atqui bel .™™ pollere colligitur ex iis, quæ
ipsaTagun . Habent, s. Auguslinus ait, memoriam et pecora et, al oqn.n non
cubilia, nidosque repeterenf, non alfa "e "S„;fDCSC""t;
neaue enim assuescer; valeW ™fisZ;Zl PCr memorian'2 • Memoria igitur est Si
"n^Mi,fn Pr0P\fr°Ul esl 1™tdam specialis faW, nam eliam ad mtellcctum
memoria pcrlinet sed craLl0C° eXP',Cabimus' du">. 4 c. • Om/W., lib. X,
c. !7. iiLos. Christ. Compend. I. : (| æstimativæ, quæ imaginem rei antea
apprehensæ ii phantasmate deprehendit; siquidem anima cognoscere noi potest
phantasma, prout imago huius rei, et non alteriu esl, nisi similitudinem eius
cum ipsa recognoscat, han autem similitudinem non nisi æstimativæ subsidio co
gnoscere potest . Insuper, cum memoria sit facultas sen tiens, ac proinde sine
organo corporis exerceri nequeat illud etiam ad eius actum expostulatur, in
organo corpo ris, per quod anima vim suam ræmorandi exercet, aliquoi vestigium
rei produci, cum res primum percipitur2. 94. Ad explicandum progrediamur ea,
quæ ad reraini scentiam spectant. Aliquando rem antea perceptam cognoscere non
possu mus; aliquando vero aliquam eius partem agnoscimus, € ex hac integram
præteritæ cognitionis recordationem es suscitare nitimur. Si prius fit, oblivisci rei antea perc( ptæ; sin
posterius, reminisci dicimur. Hinc s. Thoma reminiscentiam definivit, et
explicuit hunc in modun Reminiscentia nil aliud est, quam inquisitio alicuiui
quod meraoria excidit. Et ideo reminiscendo venamui idest inquirimus id, quod
consequenter est ah aliqu priori, quod in memoria teneraus, puta si quærit mem
ac memoria, sed tanim ut s.t quædam dos, quæ memoriara perficit, earaie
belluina præstantiorem reddit. Re quidem vera £it.cog. tativa propter virtutem comparativan
qna ob a ?en oJ, i ^™ ^1' n°" tamen facu,ta diverab ea cst, ita
remimscentia excellit super memoriam fluarum, sed eiusdem naturæ, ac in ipsis,
est. CAPVT IV. De
facultate intelligendi Aw.I.-Cuiusnam naturæ sit intellectus, et quanam ratione
res ad ipsum referanlur 97. Intellectus est illa facultas, cuius est
apprehendere h Prout sunt immaleriales. Quaproptcr incoritioM Wlecfva secus
accidit, ac in cogoWoe seositiRqai! imm.i! '• r sPec,es.' Per n"1 obiectum
percipitur, mmatenalis, tamen ipsum obieclum a specic renr™ 'la>.n cst
aliqoid materiale; in illa anjpc albmid,,r ," ,Tes' Prout ad •nlellectum
referunlur di Ssa?t.i.br ra,io "' £-4 -W # ' '"'e,lectus esl facultas
inorganica. Walur duobus argumentis ex ipsa natura animæ Cf"\^
'"^" i"m-' part2c. „a(ra rfawe, quia, postquam eogaovimn. ua
DYNAMILOGIA 1° Anima humana supremum locum inter substantia sensitivas, et
infimum inter substantias intellectuales tenet ; quamobrem tum facultates
propriæ substanliarun sensitivarum, tum facultates propriæ substantiarum in
tellectualium, quæ sunt intellectus, et voluntas, ei iness
?"xls::"one materiali Snecies a S reSete,:utratnh ab, inte"eCtU
" Der ^em,.,,: txercet super phantasma, in uuo essenlia rpi ,,.. ciniUS
mafef' b^oblegitur.' Hæ'c spec es TteZZ Ts 2Zhb,ntellectu PO^ibili, qui et ea
specie ro esentT ' S'Ve 'PSe Sibi elTorulat similituainem1 rei Præsentatæ a
specie inlelligibili, et sic rem ipsam in spcciem intelliaihilem J,?„, • \
El8:0 Potest cognoscere "e"'™ sibi propriam Lt^hLtf. pnnc,Pium • 9-0
cognoscit '•. 1. I., C,S,.' i,„? V '•>". ~ P„J ',. "£,",, ct
• '-.... q. ii, .. i u ..telligit. Hæc omnia in præsenti, et sequentibus articulis
singillatim explicabimus. Atque in primis, sicuti species sensibiles ad
sensilivam cognitionem, ita species inlelligibiles ad mtellectionem efficiendam
expostulantur. Dicuntur species intelliqibiles, quia repræsentant essentiam rei
a qualitatibus materialibus seiunctam, in qua, ut diximus, ob.ectum in
tellectus consistit. Intellectus sine speciebus mtelhgibihbus res intelliqere
non potest1. . . Probatur. Cognitio, ut ahbi demonstravimus, sine coniunctione
obiecti cum facullate cognoscenle effici nequit, atque hæc coniunclio, nisi
fieri dicatur secundum simihtudinem obiecti, certe secundum ipsam eius naturam
tien deberet2. Atqui prorsus absurdum est obiectum secundum suam naluram
coniungi cum intellectu, quia per huiusmodi coniunctionem obiectum fieret unum,
idemqu cum intellectu, omnisque realis distinctio inter utrumqu. tolleretur, id
quod et per se absurdum est, et pantheismt adfine est. Ergo omnino repugnat
intellectum intelliger res sine speciebus inteiligibilibus. 112 Circa naturam
harum specierum lntelligibihum næ duo pro certis, exploratisque habenda sn>-
.Prl^ " quod species intelligibiles a speciebus sensilibus differnnl nam
species intelligibilis est immateriahs non solum proi in intellectu est, sed
etiam prout refertur ad obiectum rc præsentatum, quia ipsa repræsentat obiectum
condjnou^ bus materiæ exutum; species autem sensibihs est mm J> q. LXVII a 1
r s P' ', 2' q re°' a c' 3 h q. LXXXV, a. 1 ad 4 obiectum non iam in potentia,
sed actu intelligibile, nempe essentiam rerum sine conditiombus matenalibus 118.
Circa huiusmodi actionem inteliectus agentis hæc tria adnotanda sunt:, 1°
Species, quas intellectus agens abstrahit ex phantasmatis rerum, exbibent
obiectivas, sive reales essentias rerum. Nam res, quæ eodem genere, aut eadem
specie continentur, reipsa consentiunt in essentia omni conditione materiali
exuta, ita tamen, ut hæc essentia diversis modis determinala existat in rebus
smgularibus. h g., natura humana, abstracta a conditiombus individualibus, ea
est, quæ reipsa omnibus hommibus convenit, atque in unoquoque eorum secundum
diversas determinationes existit exisiit . •• 2° Distinguenda est duplex
abstractionis spec.es, nem pe abstractio per modum simplicitatis, et abstractio
per mo Vdum composilioms, et divisionis. Pnma abstractio eadi citur, quæ
efficit ut inlelligamus unum sine aho, sive s cob sideremus essentiam seiunctam
ab acc.dentibus. Alter. consistit in eo, quod intelligimus aliqmd non esse xn
aho vel esse separatum ab eo \ lam vero pr.ma, non vero al tera abslractio est
ea, quæ f.t per intellectum agenlem Quæ quidem abstractio per modum
simphcitatis, ut e. eius definitione patet, non expostulat, quemadmodum fa so
ponit Rosminius', cognilionem, et col laUonem terw norum circa quos ipsa fiat,
sed dumtaxat expostulat, u fpsi præcedat^phantasma, in quo intellectus agens
essen tiam rei a conditionibus material.bus expoliet. 3 Ex eo quod notiones per
abslract.onem .ntellectu agentis' efformatæ exhibent essenliam rerum exutam cot
dftionibus materiæ, quibuscum revera coniung.tur,, sæ falsæ dicendæ non sunt.
Re sane vera, potesl es. fa sitatt locns in abstractione per modum componU^ et
divisionis, e. g., cum intellectus ncga mesM - essenti rei aliquod accidens,
quod e. reapse inesl, at non in aD tractione per modum simplicilatis, qua
considerajur e sentia ab aliquo, aut ab omnjbus ac cntibæ Miunet nam essentia
rei, elsi cum accident.bus re ipsa conun tur, tamen ab his re ipsa quoque
dist.ngu.lur, quapr 1 Cf s. Thom., De ente et essentia, c. 4. I, q. LXXXV, a. 1
ad 1.-3 2V. S., sez. X, c. 1, a. l/. J4J pter nihil prohihet, quominus
intelleclus ad illam sine his His, quæ circa notioncm intellectus agenlis,
eiusoue actionem a Scholast.cis staluuntur, explica.is, duo S denda nobis sunt:
"ien 1° hanc facul.alem, quæ nomine intellectus aqenlis desig a.ur, reinsa
ex.stere; 2 ipsum intellectum agen.em n„„ esse ahquid extra animam. 6 on 119.
la. Admittendus est intellectus aqens Frobalur Essenliæ rerum materialium, quæ
sunt ob •eetum mtellectu humano proportiona.um, non ex" tunt exlra animam,
n.si in materia concrelæ, et in phanta mæ, a quo, ut diximus, cognitio intellec
i a fni him .umit non nisi prout in maleria concretæ sunt kIx^,. ipsias
phantasma.is maret, qu.a corporeum in incorporeum converterel. At m absurdum est naluram
alicuius rei mulari. Ergo bSmS. ™£ T'; r°nCmin-'^9cons. Etenim Mr,,ctio illa
non est realis, seu materialis, sed est inlen JgJ. s.ve logica, scilicet
intellectus agens spe em n MeJui, nhf, Phantasmate ^"rmat, non qualenus re
li . di J )nantasma eondit.onibus materiæ, sed quatenus ' l.t ad nudam
essentiam rei sine conditionibus ma se uonm .im „"f '" Phantasmate
obvolvitur. Quocirca wam Zd iffirf f"™? corPoream Pha"tasmatis in
incor>ream, sed efficit umversale, et mtelligibile illud ouod phantasmate
est singulare, et sensibife ' ° oTreVin^r :,!"letleetus a9ens>
sivelumen intelligibile, ^res xntelhgibihs efficit, extra animam esse
nonpotest. \ Cf s. Thom., loc. cit. Vid. p. 132. U s. Thom., I, q. LIV) a. 4 c,
et q. LXXIX, a. 3 c. Hanc propositionem demonstramus tum contra Neoplatonicos,
Averroem, Cousinium, qui contendunt lumen illud esse aliquam facultatem in se
subsistentem separatam ab anima1, tum contra Ontologos, qui asserunt lumen
lllud esse ipsum lumen intelligibile Dei. Probatur. Actio, qua species
intelligibilis a phantasmate abstrahitur, est actio propria uniuscuiusque
homims. Atqui non potest aliqua actio esse propria cuiquam, nisi a principio
ipsi intrinseco proficiscatur ; nam prmcipium extrinsecum potest movere aliquid
ad operandum, sed numquam efficere potest, ut illud, cui nullum agendi
principium intrinsecus inhæret, actionem sibi propnam exerat. Ergo intellectus
agens, quo species intelhgibihs a phantasmatis abstrahitur, aliquid intrinsecum
animæ esse debet a. 123. Contra Ontologos præstat etiam hoc adnotare: DeuPler
anima noslr. 3 po est ier um. 'nte"'f "d.!
ProSrediturAtqui anima mimnm illfus a tffi fapCU,tatena.> UUæ est
P"ncipium •eSE nuncupatur. fcrgo intellectus possibilis re ipsa aoimæ
S^-S-iJSsxjsr^ esl facultas' mrSemffi1hn}e,leCtUS agens sua actione eBcit
obiectum u intclhgibile, quia species ntelligibilis nuie nhi :STlal' 6l'
efrCC,US actiO" quami;, dle0 us" ^Mffartaav $?£? ver° possibi,is fert
pa snva fi!!"',:: r,qT, Potcntia "• reipsa iatelfectus pofsinilis '
aCU'US CSt In,e,,ectus A W "lad autem advertendum est, actionem abs.racti
'. qLXXIX, . 2 c. _ 2 Cf p 9g ^ SK-Tci, J . "ft m,,.,, „. 9.
CfP-^-t,,a:a^d'/:q';Sia.4eio^ vam intellectus agentis, et actionem receptricem
intellectus possibilis eodem tempore fieri, quia ipsæ concur runt ad
productionem eiusdem actus intellectivi ; causat autem, quæ ad eiusdem effectus
productionem concur runt, simultaneæ esse debent, VII. De verbo intellectus
128. Verbum, sive conceptio a s. Thoma , post s. Au gustinum 2, nuncupatur
repræsentatio obiecti, quam m telleclus possibilis in se efformat, et qua
veluti m speculo cernit obiectum a specie intelligibih repræ8enUtam.y catur
conceptio, quia est illud, quod in te llectus inj eip est a,iquiu '1'i'is, ut
obiectumTmaua mT ^, Species inte,li Præsens intellectui lt s?t COenosciblle.
Slt intrinse"vcat ad intellectionem' ;,, pr,nciP,Ium ' qaod iHum M
cfformet sibi almm sp'ec em P°StUlatUr,' Ut intelletn cognitum sibi repraCat
V.m.^fc ob,ecIt.um ve,uti cst quæ dicilur wi sw Atqui bæc a,la species tu
cogni.um, "in rinsecus nf, "' obiectnm' tamquam •latur verbum.
lntrlnsecus Præsens intellectui, espo SfintlllectTo e^iUSctPsr°vSi0niS-eXe0
connrmatur, is 3: quapropter obt nerl „on VZ 'nte"eCtUS possil , q^æ
efflcitur aMnXcKLF" Tctm 8'm • W, quæ produnSrCtab%?ii^ JE 33. Haclenus de
illa infn, '• qna ipse obiectum !?' peratione disputavi "
materialiu„rcond,UonmhP.r0pr,r' "empe essentias "^cdiate apprehendit
A ;US i?"?"".6 eXUtas' Primo ltus alias exerit operatio^ "
CCtUS 'am in actu concosnitiones, ind°caT ',;?,,• ' T^6 coSnoscit suas
ipationes exnlirw ' ra(l0ci,natur, recordatur. Ad has Consckn fci"8
Progreniai?ur necesse est 0 ^quæS æ?n?nt,buS aCC,pitur' est co" os> lum
in.^llectivosUsatur MCa°gn,t V°S' tUm Sen scnsu, est cogniiio S , Cpta proPrio'
et '• suasque inte Ilec°inn ° t?ras scire dicitur, etiamsi de litteris actu non
cogitef ( Mens sui notitiam habitualem habet, qua poss, perc uere se esse 3 .
Conscientia autem actua .s ea est, qn aHquis considerat se in actu animam
habere , vel,, s Tugust"nus inquit, ea, qua anima adse cogxtandam qu
dammodo 'red.V.ltque se aote conspectum suuu, se pomt 136 Iamvero hæc
conscentia actua is lta ab Aquina nosfro explicatur. ln primis anima obiectum
intell.g.b: sibi proprium, nempe quidditatem in mater.a corpor, existentem
apprehendit ; deinde actum cognosc.t, quo lud ob iec™um apprehendit; et in illo
actu se.psam cogn Icit In hoc aliquis percipit se esse,quod perc.p.t se in teU
eere1 . Inde esplicatur, cur an.ma setpsam per Smcognoscere dicatur, seu per
ipsam sui pr^sentm STdem ex ipsa mente est ei, unde poss.t .n actu Zdire quo
se^actualiter cognoscat, perop.endo se, L° et alibi: Ad primam cognitionem (?a
nempe liauis vercipit se habere animam) de mente habendam ficU ipsa mentis
præsentia, quæ est pr.ncip.um æU „ 'Uo mens percipit se ipsam; et ideo d.ctur
se cog, scerqe pefsuailn præsentiam . Sane anima, ope c, . Cf p. 123. Cf s. Aug., De Trin.,
lib. XIV, c. 6, n. 8. Qq. dispp., De Yer., qX, a. 8 ad 1. Ibid. c. s Op. cit., lib. X,
c. 5, n. 7. 6 Ibid., lib. XIV, c. 6, n. 8. 1 . Qq. disPP.,De Ver., q. X a^ • ^ • ?•
H, M 3 Ibid. ad 1 in contr. 9 I, q LXXXVli, d. Gent., l ^7 cientfæ actualis, se
non in alia M n.i™ • # ssentiam suam mediaTst Vd Vse 1~ J?.2S onvers.onem supra
seipsam inspicit smiplicem H.s præstitutis in primis definienrlum nobis est .,
•um consc.ent.a sit specialis facultas dislincU at i Intei-" UnlellZ. C°mcimtia non esl °P° J... • V? a an,ma>
?"s.;;:,';;,j-f ••••• .-•. . Q de re Aquinas noster statuit animam
mtelbgere cc se i i Intellectus cognoscit seipsum, et suum intelligere ;
veniLet ouod "i ., -j,ICUI rel ' Per accide>^ ei e esse sem ner '
"fn acc,denS' a'enle sThoma, non °Per, nec oZYum '?, °mni,,US " Er?0
iulc'leclus non W . omn.um acluum suorum conscientia actuali Perceptio haKi:?E,
' P d,r,menda est hoo modo: "I an ma habetnr nh T °T,am PerccPti°num scm
positionh attS,.', eamdem> ooam in prima parle 'lis e,°rum on"
um'hXrem/PpC,'CePti0 auf"m a •es a nohis perdnTunh, " COdem temP°ris
omento, dub2"', HI). II, c. 34 5 Gf eodem temporis momento, quo res
percipimus, rerum ^epS appercipimus. It vero non habemus actua [em apperceptionem
omnium percepUonum seos.tivarum iuw &m adepti sumus. Nam ut habeatur hæc
apperce Suo, °Pus cst phantasiam reproducere spec.es, qu n t retinet, et
memoriam reproductas recognoscere; atqu. uhantasia non semper, et continuo
percept.ones reprodu, S nec semper mcmoria illas reproduc.as recognoscU ergo
anima non semper habet appcrcept.oneu, ac tualen omnium perceptionum
sensitivarum, quas lam adepta est 145 Prop 3\ lntellectus per illum actum, qui
concten tiadicitur^non solum actus suos, sed etiam aclus volunla US pZaTui l\M,
quod est in votanUte, etiam .quodarn modo in intellectu est, sive
intelhgibthter est in amm ^uU intellectus in eodem subiecto, ac voluntas,
mhærel ^t nteUectus uti suo loco demonstrabitur, est pr.nc.p.un, ?e quod
vountas aliquid vnlt. Atqui illud, quod,ntel Sibiliter est in intellectu, sive
in sutæcto intell.gente, a lo inteUigi potest Ergo inleUectus non ^ sotam ^
se.psu et actus suos, sed etiam voluntatem, et eius actus,nu ligU6 PProp V
Anima habilualem corporis sui cognitione habet et ver tactum passivum etiam
cogmlionem acluale, Probalur T pars. frabituali cognitione an.ma compar tufad
seipsam"non aliter, quam,n se est, cognoscenda. itqui antaTcuidam corpori
copulatur, cum quo comnv i^Le habet. Ergo anima seipsam corpor, copu atam
bitualiter cognoscit, ac pro.nde cogn.tione hab.tual, . rnrnoris frui
concludendum est. C \W Probatur V pars. Corpus per lactum pass.vum mutatur tum
a rebus exterioribus, tum ab intenor.t T^ his intelligitur teneri non posse
opinionem Leibnitii, qui K eepttones sine apperceptione existere poe doco. H •
^ > 1), neqæ opinionera Galluppn qu, oontend.t nullam he n p I centionem
sine apperceptione (Lezz. etc, lez., fi'.J, niuio Leibniui vera est, si de
apperceptione actual •n^Ugatur, sa si de apperceptione habituali. E contrano, op.mo
GUePPgnit.onem su. corporis habet ex eo, quod corooH in mus, per tactum
passivum actu experitur „"muta iones ' atio^ibu0, Cv°3r "Unt-At(|Ul
h-æ ^ESR ratiombus vitalibus max.ræ consislunt. Ergo anima Der ctum pass.vum
quamdam coguitionem experimenAlem •erationum vilalium act.u etiam habet. P
Abt.IX. — De actu iudicandi 150I„tellectus humanus natura sua ita comparatus
est, I JBi- 'Principe vital, et V ame pensante, c. 23 pf.xz:t j^^cff-- -. s\ I
T VPf itUr vUam in "Peribus vitæ •' 1 2æ a CYU ">•>, lua aniu a
r„r n. f "S"m """ tam1'"" specialem V
>odi enim ??",.. T"6 0Derali°nes vi.alcs cognoscat; en.m co„n.Uo,
ut. ostend.mus, per taclum passivum ob ut unico, et primo actu nequeat
cognoscere qualitates simul cum essentia rei. Quare ipse primum notiones rei,
et qualitatum adipiscitur, dein convenientiam, aut discrepantiam uniuscuiusque
qualitatis cum essentia rei cognoscit . Hoc modo ipse de rebus iudicat. Quid
sit iudicium, explicavimus in Logica 2. Quæstiones autem dynamilogicæ, quæ
circa naturam iudicii versantur, hæ præcipuæ sunt: 1° Utrum iudicium
intellectui, an voluntati tribuendum sit; 2° utrum omnia iudicia fiant per
comparationem terminorum, an aliqua iudicia fiant ex instinctu; 3° utrum
essentia iudicii in comparatione, an in affirmatione, aut negatione consistat.
151. la. Iudicium non est actus voluntatis, sedintellectus. Probatur contra
Cartesianos. Actiones, quæ sunt specifice diversæ, reduci non possunt ad eamdem
facultatem 3. Atqui iudicium, et volitio, nempe actus voluntatis, sunt actiones
specifice diversæ, quia iudicium refertur ad verum, volitio autem ad bonum.
Ergo si yolitio pertinet ad voluntatem, iudicium non potest pertinere ad ipsam,
sed debet pertinere ad illam facultatem, cuius obiectum est verum, nempe ad
intellectum. 152. Obiic. In quolibet iudicio mens vel assentitur alicui
verilati, vel dissentit ab aliqua falsitate, quod idem est ac dicere mentem in
iudicio aliquid amplecti, vel respuere. Atqui amplecti, et respuere sunt actus voluntatis. Ergo
iudicium est actus voluntatis. 153. Resp. Conc. mai.; dist. min., amplecti, et
respuere sunt actus voluntatis tantum, neg. min., sunt actus cum Yoluntalis,
tum intellectus, licet diverso modo, conc. mm. Neg. cons. Et sane amplecti, et
respuere non solura ad voluntatem, sed etiam ad intellectum pertinent, quia
sicut voluntas amplectitur bonum, et respuit malum, lta intellectus, cum
iudicium conficit, amplectitur verum, et respuit falsum. At ex eo, quod amplecti, et respuere mveniuntur non
solum in iudicio, sed etiam in voluntate, inde inferendum non est iudicium ad
voluntatem revocari posse; nam amplecti, et respuere diverso modo locum habent
in iudicio, quam in volitione. Elenim anima Cf s. Thom., I, q. LVIII, a. 4 c. 2 24. 3 cf p. 103. in
iudicio aliquid asserit, aut negat, quia cognoscit nræ dicalum cum sub,ecto
convenire, vef ab eo discrenaro in vol.t.one autem aliquid vult, aut non vul°,
qu ffi ^PZ°lPCr lnte"eCtUm PP-hendit/elesibibt 154. 2a. ludieia ab
intellectu per comvaratinnem ; ermtwum, „0„ vero per instinetum fiunt, ne2e ea
sTmul mstmctiva, et eomparativa esse possunt. ? .fc??rjma parS Contra Reidim.
qia iudicia „•M^to, e. g ejro SMW corpora existunt etc, non ner com puta
vi°nemiuddUi:-Um te.™™. seu per Sffi Puavt ludicia instinct.va, cuiusmodi illa
sunt onæ con^nte^ri eXerU.ntUr' qU,> c^scatur' ZTo autem su„ 1' ;"
rTgRant,æ te™inorum; comparativa "catum cu ' ' h; et a. 9. ' M. // 5., Dist. I, q. i, 'a. s ad 11. parare non
possuraus, nisi eos iam cognoscamus. Ergo simplex apprehensio terminorum
iudicio præcedat neces se est. 157. 3a. Essentia iudicii non in comparatione
terminorum, sed in affirmatione, aut negatione proprie con ^isttt Demonstratur
contra Lockianos, qui iudicium proprie in comparatione terminorum situm esse
autumant: Intel lectus per comparationem ponit unum terminum ante al terum, sed
eorum convenientiam, aut repugnantiam non cognoscit. Atqui sine huiusmodi cognitione
nullum iudi cium efficitur. Ergo iudicium non in comparatione ter minorum situm
est, sed in actione, qua intellectus termi norum comparatorum convenientiam,
aut discrepanliam perspicit. Atqui intellectus cum perspicit aliquarn pro
prietatem subiecto convenire, tunc affirmat, atque e con trario, cum cognoscit
aliquam proprietatem subiecto re pu gnare, tunc negat. Iudicium igitur ex affirmatione,
aut negatione proprie constituitur, et comparatio terminorum est dumtaxat
medium, quod ad illud constituendum con currit. X. De ratione 158. Anima
humana, quippe quæ infimum locum inter substantias intellectuales tenet, ad
perfectam rerum cognilionem assequendam, præter simplicem apprenen sionem, non
modo actione complexa mdicn, sed etian: actione magis complexa, nempe
ratiocmatione lndigcf; quapropter ipsa pollere ratione dicitur. 159. De natura
ratiocinationis in Logica disseruimus Hic tria circa rationem investigemus
oportet : scilicet 1 utrum intellectus, et ratio sint una, an duæ facultatc
intelligendi; 2° utrum ratio speculativa a ratione practia differat; 3° quid de
ratione superion et inferion dicen dum sit. . . D, • 160. Ad primum quod
spectat, non pauci nuperi FW losophi post Kantium 3 admiserunt specificam
distinctio nem inter intellectum, et rationem. Contra eos demon stramus
sequentem Qq. dispp., De Ver., q. I, a. 3 c. % I, q. LXXVI, a. 5 c 3 Critique
etc, Introd. 161. lntellectus, et ratio non sunt duæ facultates mtelligendi,
sed duæ denominationes eiusdem facultalis Probatur. Ratio tamquam facultas
distincta ab intelie | ctu habenda esset, si obiectum, et actus eius ad
obiectum et actum intellectus reduci non possent, sive specifice in ter se
d.fferrent \ Atqui obiectum, et actus rationis ad lob.ectum, et ad actum
intellectus reducuntur. Ergo non
eSLai'arfa?ltaS lnt.eI,iSendi ratio, aiia autem intellectus. • ;ra?r Prima Pars minoris.
Obiectum rationis est intelligibile, æque ac intelligibile est obiectum intel
lectus. Ratiocinari, inquit s. fhomas, est
procedere de uno mtellecto-ad aliud, ad veritatem intelligibilem coffno
scendam3. Atqui intelligibile, sub ratione intelligibilis spectatum, est specie
unicum, quia intelligibile refertur ad nostram virtulem intellectivam sub unica
ralione im matcr.al.tatis. Ergo obiectum intellectus, et rationis est specifice
unicum. 163. Altera pars minoris ita demonstratur : Differentia mooi, quo
intellectus, et ratio verum intelligunt, in eo consistit, quod intelleclus
immediate, sive intuitive, ratio autem mediate, sive dtscursive verum
cognoscunt4; ex quo lluit inter modum, quo intellectus, et modum, quo ratio
verum cognoscunt, eamdem esse differentiam, ac inter jquietem et motum, quia
intelligere per intuitum est quætlam quies menlis humanac, et intelligere per
discursum est qu.dam molus eius. Atqui quiescere, et moveri ad uiem prmc.p.um
pertinent ; quia per eamdem naturam aliquid quiescit, et movetur. Ergo actio
intellectus, et raUon.s ad idem prmcipium reducuntur, sive specifice inter se
non differunt6. 164. Itaque intellectus, et ratio non sunt potentiæ ve.sæ sed
sunt eadem intelligendi facultas, quæ luabus voc.bus des.gnatur, quia
intellectus nomen de>umitur ab mtima penetratione veritatis, nomen autem |
Cf s. Aug De lib. arb., lib. II, c. 6, n. 13. " U quæ diximus p. 103. I
!,' ™. a8 V. 4 I, qUX, a. 1 ad 1. r .dElocumeri'U2: ^ST,!; l0C.P^™ -oba
&J?pp-' De Ver-' 9xv>'1 c.' > 2, q. LXXXIII, a. 10 ad 2. rationis ab
inquisitione, et discursu . Nihilominus hæc unica facultas, per quarn mens
humana res intelligit, polius ratio, quam intellectus dicenda est, quia mens
humana scientiam rerum non nisi per ratiocinationem assequi potest. 165. Quod attinet ad secundam
quæstionem, explicandum in primis est, quænam dicatur cognitio theoretica,
quænam practica. Theoretica vocatur illa cognitio, quæ yersatur circa verum,
prout verum est, sive considerat in rebus rationem veritatis, non rationem
operabilitatis. Practica autem est cognitio, quæ versatur circa verum,
accommodatum ad operationem, nempe circa verum, prout norma operationum est,
ita ut potius rationem operabilitatis, quam veritatis consideret 2. Ex duplici
hac cognitione oritur distinctio intellectus, sive rationis, in theoreticarn,
et practicam. Ratio theoretica, sive speculativa dicitur, cum in simplici
apprehensione veri se continet; practica autem, cum porrigit ad operationem
verum iam apprehensum. 166. Iamvero intellectus practicus applicans principia
universalia ad operationes, iudicia particularia conficit, quibus decernit
aliquid agendum esse, aut aliquid recte, vel secus actum esse. S. Thomas
explicans modum, quo anima conficiat hæc iudicia particularia circa suas
actiones, docet eam adhibere quemdam syllogismum, cuius maior est principium
universale ; minor est apprehensio proprietalis singularis alicuius obiecti, in
qua, ope cogitativæ, deprehendit quamdam simililudinem cum principio universali
; conclusio denique est iudicium particulare, quo intellectus applicat
principium uniyersale ad cognitionem illius proprietatis singularis, sive illam
proprietatem singularem ad principium universale redacit, atque ila aliquid
agendum esse decernit. E. g., Filius tenetur patrem honore prosequi; at ego sum
filius, Petrus est pater; ergo ego Petrum honore prosequi teneor. Quo in
exemplo, maior exhibet principium universale ; minor complectitur
apprehensiones proprietatum concretarum filiationis in me, et paternitatis in
Petro, quæ per cogitativam fiunt ; denique conclusio est iudicium particulare,
quo i Ibid., q. XLIX, a. 5 ad 3. 2 Qq. dispp., De Ver., q. III, a. 3 c.
irincipium universale applicatur proprietatibus concretis ipprehcnsis in me, et
in Petro . 167. His præmissis, contra Kantium, qui rationem spe:ulativam et
rat.onem praclicam, taraquam duas diver;as facultates habuit \ hanc
demonstramus Prop. Baho theoretica, et ratio practica non sunt duæ aadtates
speafice diversæ. Probatur. Differentia, quæ accidentaliter advenit obieto non constiluit
facultatem diversam ab illa, ad quam lud obiectum refertur. Atqui applicare ad
opus coSnilonem ventatis, quod est proprium intellectus pracfic on pert.net
essentiahter ad cognitionem veri, circa quam ersalur,„ ellcctus speculalivus,
sed est aliquid accidenta"e isi cogn, t,on, Ergo intellectus practicus non
est facuUas itell.gend, d.st.ncta ab intellectu 'speculalivo, sed est quæZ-XT°
'n.tellec'^. speculativif nempe i psam faculU:m inlelhgcndi extendit, sive
applicat ad opus 3. 108. Kcstat, ut distinctionem rationis in superiorem et
ifenorem, qnarum penes celcbriores Scholasticos pos s ugustmum ment.o occurrit,
explicemus Katio infenor est quæ considerat veritates rerum, prout i rebus
temporabbus, mulabilibus, et contingentibus^ex"unt, supenor, quæ considerat
veritates rerum, prout re1 I-i-h '? veri.ta.tes æl,crnas, necessarias, et
immutabis Intcllcclus D,v,n, ad quarum exemplar naturæ re ?at2?Z ?"
COnd"æ •SU"tE rati0 inferior ''cH.i0 fj ? w6 re?' ex eo ' auod
incolumitas so ctat.s id expostulat; ratio autem superior ex eo uod cus
soc.etat.s auctor, et custos, hoc iubet. Illa appella. Henor qu.a res
intelligit, et diiudicat secundum a|um, quod est ea lnfenus, nempe per
principia nuæ ^ntemplatione rerum sibi eJrJ, ; Lec dicUur1 su° w,, quia res
.ntell.g.t, et diiudicat secundum aliquid, n ut 1 ilh SUrnUS ' nemPe- Per
DrinciPia æterna et dWntur qUæ Pnnc,p'a ex 'P8'8 rcbus CHormata 169. Illud
autem cum s. Thoma advertendum est, ra J I, q. LXXXVI . 1 ad 2. 2 0p. cit.,
sect. II, § 1. Cf s. Thom., /„ l,b. III Sent., Dist. XXIII o II a 3 iol 1 t s.
Bonav., Centil., tionera superiorem, etsi ob dignitatem sit prior ratione
inferiori, tamen ob operationem esse posteriorem ; nam mens humana ex sensilium
cognitione proficiscitur, ac proinde æterna intelligere nequit, nisi prius
intellexerit temporalia, quæ sensibus hausit '. 170. His præstitutis,
demonstrandæ nobis sunt propositiones sequentes: la. Ratio superior, et ratio
inferior non sunt duæ facultates speciflce diversæ. Probatur. Obiectum rationis
superioris, et obiectum rationis inferioris spectata materialiter, hoc est in
sua natura, specie ab se differunt; nam ratio superior versatur circa illud,
quod est necessarium, immutabile, et æternum ; ratio autem inferior suam
cognitionem ex rebus contingentibus, mutabilibus, et temporaneis attingit. At
vero spectala formaliter, hoc est, prout ad facultatem mtelligendi referuntur,
inter sese conveniunt, quia in aliquo intelligibili consistunt, cum res illæ
contingentes, mutabiles, et temporaneæ a ratione inferiori cognoscantur non
secundum earum conditiones materiales, sed in suis essentns, quæ sunt
quodammodo necessariæ, æternæ, et immutabiles. Atqui obiecta, quæ formaliter
considerata inter sese conveniunt, ad earndem facultatem spectant. Ergo ratio
superior est eadem facultas, ac inferior 2. 171. Præterea, quemadmodum mens
nostra ex cognitione effectus ad cognitionem causæ progreditur, et ex causa iam
cognita ad effectum regreditur, ut penitiorem huius cognitionem sibi comparet ;
ita ex veritatibus cognitis per principia, quæ ex contemplatione rerum
temporalium, et mutabilium sibi efformavit, ad causam earum extollitur, nempe
ad veritates cognitas per principia æterna, et immutabilia ; et ex his
regreditur ad ventates, quas cognovit in rebus temporalibus, et mutabilibus, ut
de ipsisrectum iudicium pronuntiet. Quapropter in exercitatione rationis inferioris, et
superioris non nisi quidam progressus, et regressus obtinet. Atqui progressus
et re i Qq. dispp., De Yer., q. X, a. 6 ad 6. 2 Cf s. Aug., De Trin., lib. II,
c 4, n. 4; et s. Thom., I, qLXXIX, a. 9 ad 2. gressus, quibus cognitio noslra
perficilur, ad eamdem ral.onem spectant. Ergo ratio superior, et inferior unam
facultatem conshtuunt. 172. 2a. Ratio superior non est extra. vel supra ommam \
r Probatur contra Cousinium, qui contendit rationem super.orem esse medium, per
quod Ratio Divina se cum ratione humana communicat 2, et contra Ontologos,
secunJum quos rat.o superior est ratio absoluta, nempe ipsa Ra.0 D.v.na. In
pr.mis, ratio superior eadem est facultas, ac •atio inter.or ; ergo sicut ista,
ita etiam illa non est extra, el supra an.mam. 173. Practerea, Philosophi, quos
hic refutamus, ideo :ontendunt rat.onem superiorem esse extra, aut supra
aiimara, qu.a op.nantur immutabile non posse coLnosci >er ral.onem humanam,
quæ est mutabilis. Atqui nedum
epugnat, necesse est animam humanam per facultatem nutab.Iem cognoscere
immutabile. Ergo horum philoso'horum senteut.a falso, et absurdo fundamento
super 174. Probatur mmor. 1 Non repugnat animam humaam cognosccre immutabile
per medium mutabile, nuia psa, cum res cognoscit, earum proprietates, et
relalioes non creat, sed dumtaxal investigat, et dete P' 36 ct 37. Ci p. 137.-4 Cfs. Aug., De
Trin., lib. XII, c. 7, n. 12, et alibi. sa non modo res intelligit, sed etiam
illarum intellectiones revocat, et agnoscit. S. Bonaventura distinxit duplicem
actum memoriæ intellectivæ, unum, quo anima speciem rei intellectæ in se
retinet, alterum, quo reminiscitur rei per speciem repræsentatæ. Primus, aiente
eodem sancto Doctore, est in anima instar habitus, quia potius statum, quam
actionem significat, alter instar usus, quia per ipsum anima habitu memoriæ
utitur. Præterea ille sine voluntatis nutu efficitur, hic fit ope reflexionis,
et a voluntate pendet1. 176. Memoria intellectiva non est facultas, quæ ab
intellectu specie differt, sed est quædam ipsius intellectus affectio 2.
Probatur contra fere omnes recentes philosophos. Memoria intellectiva non est
facultas ab ipso intellectu distincta, si duo, quos innuimus, eius actus ab
ipso intellectu repeli possunt. Atqui illi duo actus memoriæ intellectivæ ab
ipso intellectu suam repetunt originem. Ergo. 177. Probatur minor. 1° Retentio
specierum intelligibilium, uti ab Aquinate observatum fuit, intellectui maxime
convenit, quia, cum intellectus possibilis sit stabilioris naturæ, quam sensus,
oportet, quod species in eo recepta stabilius recipiatur ; unde magis in eo
possunt servari species, quam in parte sensitiva 3 . 2° Intellectus vi supra se suasque actiones
reflectendi pollet ; hæ autem actiones in aliquo tempore existunt; ergo sicut
cognoscere potest se in præsenti aliquid intelligere; ita cognoscere potest se
atttea aliquid intellexisse 4. 178. Ex his perspicitur, cur memoria sensitiva
sit quædam specialis facultas s, et non item memoria intellectiva. Nam
specialis facultas constituitur ex obiecto, quod per se, et non ex obieclo,
quod per accidens ad illam refertur. Atqui præteritum, prout est præteritum,
cum sit particulare, et determinatum, refertur per se ad facultatem sentiendi ;
ad facultatem autem intelligendi, cuius obiectum est indeterminatum, et
universale, refertur dumtaxat per accidens, nempe quatenus ipsa supra suas
actio i ln lib. II Sent. Dist. VII, part. 2, a. 1, q. 2 resol. 2 I, q. LXXIX,
a. 7 c. 3 Qq. dispp., De Ver., q. X, a. 2 c. I, q. LXXIX, a. 6 ad. 2. 1A,
zs^ivj&rs? sensiii? sit jnem ete „„„ es'se, ^S&S^S01^
ioSufoUsæSnCdei^!ematiS abn°rmitas 1-SS proposij JS" ^ ^^ • sensus, est
facuhas inor ^z^r^t^T^ aræ ne aturas omnium rerna ma eriaM nTT,nte,,ieere
posset !ectus est inlellisere „.;, m' £,taui Proprium in e in materi _rgo i„
ellectnm"^ l^ ''' qUæ habet sse pro ccrto habenflum est facuitatem
rnorganicam 181. Probalur maior. Facultas m.a no~ „ •um exercetur, ad onnm „
reram^m,? ?a?-Uln T00" "natur, e. jr., visus aH ™i7, £ materialium
deter '•Itasorganiea adc„„n„-^' ug°' S' in,el|ectus esset rnm matSun et
Ce"e t? hanC ^ illain na'nram Rprrorr2.^ri^ ehet t nisHoafc8 " rT\Tl
a,ind Per se ap^2S%SffZtt ei corpor™, ',-. eos d,.pB„Tit s. ThomaSj præcipue
PP131-182. Cf p.,33-136. _ Cf p 4 p">.os. CnwsT. Compend. l .1 P"
sensus non nisi singulare, et corporeum apprehendere potest1 E contrario,
intellectus cognoscit essentiam qualita tibus sensilibus exutam 2, et ideo
obiectum eius est im materiale 3, et universale4; quinimmo ex notiombus cssen
tiarum rerum, quæ habent esse in materia ad not.one: rerum, quæ supra materiam
sunt, assurgit \ Ergo obie ctum intellectus ab obiecto sensus ommno ditlert.
183 Probatur 2a pars. Anima res intelligere non, po test, nisi ope alicuius vis
activæ, qua$ res actu intelhgi biles efficit, quia essentia, qualitatibus
sensilibus exuta non actu, sed dumtaxat potentia in rebus est6; e contra rio
anima ad res sentiendas non indiget ulla vi sentiend activa quæ res actu
sensibiles efficiat1. Præterea, intel lectus,' cum aliquid intelligit, pati
dicitur dumtaxat qui ab obiecto intelligibili reducitur a potentia ad actum;
ser sus autem, cum aliquid sentit, pati dicitur etiam quia lrr mutatur organum,
in quo facullas sentiens est. Insupe vehementia obiecti sensibilis sensum
corrumpit; at veh - tigemas. exP°siulat, ut facultates appelendi in ABT.I.-De
appetitu in universum spcclato £ sub r^JfaT'^""^0 appeti malum>
"O" PPe, Ut n?Ta Sed '^, sive^,acwoW, iOBBitur mJV. L ^35' fIualenus
"onum, cum quo W? J rramilunraraag,E"Tt,|Ur' "T bouum' ouod
"lil cihnm 7, fc\ &• leo occidens cervum in ;88 I ann
t?tuiU°nCOn,,UnSi,l,r °Ccisi0 a"ima " >peciraiumPfaCI?l,a,.nqUatT
constitu't quoddam ge rinRuilur b "S,„ ;• d,C,,tUr " ' V "omfue
an appetatu simphnter naturali. Appelitus elicitus est ille, quo anima ex
cognitione sibi propria se movet, sive inclinat ad bonum1. Hinc, aiente s.
Ihoma, desiderium in rebus cognoscentibus sequitur cogmtionem 2 . Appetitus
simpliciter naturalis est, quo res, quæ cognitione destituuntur, tendunt ad
finem suum 3 per inclinationem sibi propriam, quam Deus, auctor naturæ,
unicuique illarum indidit ; ita ut cognitio obiecti, quod appetunt, non sit in
ipsis, sed in Deo, qui ipsas m proprium finem ordinavit . Hic appetitus
naturalis non est in anima quædam specialis facultas, sed, ut alibi diximus5,
est communis omnibus animæ potentiis, prout hæ sunt quædam res naturales, et
efficit, ut ipsæ ad exercitium actionum sibi propriarum naturaliter lnchnent.
189. Appetitus eliciti duæ species sunt, scihcet sensi tivus et intellectivus,
quia cognitio obiecti, ex qua appe titus elicitus exoritur, nonnisi sensitiva,
vel intellectiva esse polest. Appelitus sensitivus est, quo res obiectum lta appetunt,
ut ipsum percipiant, nec tamen rationem, pro pter quam appetibile sit,
cognoscant. Appetitus autem tn tellectivus, sive rationalis dicitur, quo res in
obiectuu ideo inclinant, quod apprehendunt non solum ipsum, sec etiam
convenientiam eius cum sui natura6. Ex his colli gitur 1° appetitum sensitivum
esse proprium ammalium. quia ipsa appetunt illud, quod apprehendunt sibi utile;
et delectabile, ita tamen, ut minime cognoscant rationem ob quam ipsum appetunt
; 2° appetitum rationalem ess( proprium naturarum, quæ ratione pollent, quia hæ
co enoscunt non solum id, quod appetunt, sed etiam ratio nem, ob quam illud
appetunt ; 3° in homine utrumqu aut turbatur. MM. Ex his, quæ diximus circa
naturam appetitus iracibil.s, consequ.tur illum spectare ad defendendum ea, m
quæ appetitu concupiscibili trahimur. Etenim, uti ex am dictis patet, cum
concupiscimus aliquam rem dele ;">lem, cuius assecutio ardua est,
exurgit appetitus rasc.bil.s ad ea amovenda, quæ illius conseculioni impe\
mento sunt, idque eo vehementiori præstat impetu, uo ma.or est cupiditas, qua
in illam rem rapimur! Ea ropter appetitio irascibilis originem ducit ab eo,
quod ppetitu concupiscibili expetimus, et desinit in tranquil loo11 m
adePtionem, vel fruitionem 3. iJd. Appetitus sensitivus, sive concupiscibilis, sive ira ^1
Qq. dispp., De Ver., q. XXV, a. 2 ad 2. " /q/';LX^XI1' a' 5 C> Cf s' AuSEPadNebrid.,
Ep. IX n. 4 / Itb. III
Sent., Dist. XXVI, q. I, a. 2 sol. l scibilis, brutis, atque hominibus, ut iam
diximus , communis est. Attamen, prout in hominibus est, rationis imperio
subditur; siquidem quilibet in seipso experitur, e. g., iram ex diversis
rationis momentis concitari, vel augeri, vel comprimi2. Quapropter huiusmodi
appetitus, prout in homine est, obediens rationi, atque participare aliqualiter
libertatem voluntatis dicitur3. Illud autem advertendum est, rationem non
omnino pro suo arbitratu appetitum sensitivum moderari posse, tnm quia in
illius actum influit organum corporeum, cuius conslitutio, atque habiludo non
pendent a ratione, tum quia interdum actus huiusce appetitus ex apprehensione
sensitiva subito concitatur, ac proinde antevertit regimen rationis . III. De
appetitu rationali, sive de voluntate, et primum de eius obiecto 194. Appetitus
rationalis est, uti diximus, inclinatio ad prosequendum bonum ratione
apprehensum. Iam hæc facultas ea est, quæ voluntas nuncupatur. Voluntas, inquit
s. Thomas, est appetitus quidam rationalis5 . 195. Girca obiectum voluntatis,
nempe bonum rationt apprehensum, hæc adnotanda sunt : 1° Obiectum proprium
voluntatis est bonum absolute 6 , nempe universe acceptum, quia universale est
illud, quod proprie a ratione apprehenditur. Hinc voluntas non inclinat ad hoc,
vel ad illud determinatum bo num, sed ad quodlibet ens inclinare potest, quia
omne ens ex eo, quod est, parliceps estcommunis rationis boni 2° Gum dicitur
obiectum voluntatis esse bonum rationt apprehensum, illud etiam significatur,
quod bonum, cui voluntas adhæret, ita percipitur, ut in eo deprehendatui i . I,
q. LXXXI, a. 3 c. 3 In lib. III Sent., Dist. XII, q. I, a. 1 sol. la 2æ, q.
XVII, a. 7 c. 3 Ibid., q. VIII, a. 1 c. Hæc definitio voluntatis a plerisque nu
peris Philosophis reiicitur, quia putant omnem appetitum esse neces sarium, ac
proinde voluntatem, si cum appetitu rationali confur-da tur, necessariam, non
liheram dicendam fore. At nos omnino nega mus omnem appetitum esse necessarium,
quia appetitus rationalis e. eo, quod est rationalis, liber est, cum ratio, ut
mox oste ndemus, si radix libertatis, sive in causa sit, cur voluntas libertate
gaudeat 6 Qq. dispp., De Ver., q. XXV, a. 1 ad 6. M jipsa ratio bonitatis, sive
convenientiæ, quam habet cum propria natura. cc Si aliquod bonum, inquit s.
Thomas, Iproponatur, quod apprehendatur in ratione bonl, nonau|lem in rat.one
convenientis, non movebit voluntatem . 6 Uonum, in quod volnntas fertur, reale,
vel adparens psse potesl, volunlas enim interdum fertur in aliquid veliiit.
bonum quod revera malum est, quia intellectus illud veluti bonum ipsi exhibet.
Quare dicendum non est pum Saisselo 3, voluntatem interdum ferri versus malum,
forout rnalum est, sed potius voluntatem interdum fcrri taftos malum, quod sub
ratione boni apprehenditur. 4 Voluntatis obiectum non solum in fine \ sed etiam
n medns ad finem consistit; e. g., possumus non solum elle samtatem, sed et.am
deambulationem, tamquam me lum ad assequendam sanitatem. Medium autem dicitur
yoktum secundarium, et finis volitum principale, et causa ytendt, qu.a finis
est causa, cur media velimus. Rursus ! ausa quæri potcst, cur ipsos fines
veiimus, e. ff., cur elimus sanUatem; quocirca, ne infinitus progressus cau
arum sine principio existere dicatur, admittendus est fi is,, qui ad alium
referri non potest, sed simpliciter, et bso ule propter se appetitur, et
rationem continet, cur etera omn.a appetantur. Hic finis ultimus nuncupatur 6.
Art. IV. De aclu voluntatis \}^'nt^\S volun!atis> .nemPe voluntarium, ita definitur:
ictto ab mterno pnnapio procedens cum cognitione finis ' 13 c'b mterm Pnneipio
procedens significant actum ?m vppK. CX Pr°Pr,a vo,untatis inclinatione. Illa
au n erba cum cognitione finis denotant actionem volun i vol. ?i"Vn
?b,ectum> 9uod apprehenditur veluti finis, V/, l qUOd aCt,° SDectat' et
cuius gratia fit8 W. Voluntano oppon.tur involuntarium et £on ™/tm. Involuntar.um dicilur illud, quod non solum non Met a
voluntate, sed etiam huius inclinationi repuguat 5 $'J!SPP\?° mal0> VI> •
unic. c. l" 2æ, q. XIII, a. 5 ad 2. 1K&^J& "a Tll'Z' l ad 3'
Gt C°ntr' • Iib' • ' a., c Huiusmodi, e. g., est actio, quæ fit per violentiam,
sive coactionem, hoc est, ab exteriori principio oritur, obsistente voluntate,
cuiusmodi est motus illius, qui ab equo rapitur, ut in vincula coniiciatur. Non
voluntarium autem dicitur illud, quod a voluntate non proficiscitur, sed tamen
voluntas ei non adversatur; e. g., non voluntarii sunt actus facultatum
vegetanlium ; hi enim, cum sine ulla prævia cognitione fiant, a voluntate non
proficiscuntur, nec tamen voluntas ipsis adversatur. Voluntas, prout refertur
ad involuntarium, dicitur nolle, idest velle non aliquid. Nolo hoc, idest, volo
hoc non esse l ; prout autem refertur ad non voluntarium, dicitur non velle,
nam non voluntarium in mera negatione voluntarii consistit. 198. Ex
definitione, quam tradidimus, actus voluntarii facile est intelligere, quid
inter voluntarium, et spontaneum intersit. Spontanea dicitur actio, quæ ab
interno quidem principio proficiscitur, prævia cognitione, qua apprehenditur
obiectum, ita tamen, ut non cognoscatur relatio inter obiectum, atque actionem,
quæ ad illud ordinem habet. Voluntaria autem, si prævia cognitio eiusmodi est,
ut non solum apprehendatur res, quæ est finis, sed etiam cognoscatur ratio
finis, et proportio eius, quod ordinatur ad finem 2 . Ex his colligitur 1°
discrimen inter voluntarium, et spontaneum ex eo oriri, quod cognitio, quæ
actui præcedit, perfecta, aut imperfecta est; 2° Spontaneitatem in actibus
quoque appetitus sensitivi sine concursu voluntatis locum habere, et actionibus
quoque brutorum attribui, e. g., canis, audita heri voce, sua sponte ad eum
accedere dicitur; 3° turpiter errasse Cousinium, qui actiones spontaneas non
solum liberas, sed maxime iiberas esse contendit3; cum enim acdones spontaneæ
etiam brutis conveniant, ipsæ perfecfe voluntariæ esse non possunl; tantum
abest, ut omnium maxime liberæ sint. 199. Denique actus voluntarius in
elicitum, atque imperatum distinguitur. Actus eliciti sunt, qui per se ad
volunlatem pertinent, ab eaque tamquam actiones eius pro 1 In lib. I Sent.,
Dist. VI, Exposit. text. 2 4a 2æ} q VI a> 2 c# 3 Vid. Fragm., Pref. et la
lre edit. Cousinio adstipulatus est Saissetus, Diction. phil., art. Libertd.
Jgg ; priæ immediate producuntur ; e. s., velle eliære m sentire. Imperati
dicuntur illi qui%'er alias Sates a' voluntate motas perficiuntur, 'ita ut%d
volunUtem SDe: ctent non prout ab ipsa producuntur, sed prouT psa movet al,as
potent.as ad exerendos aclus sibi proprios ' V. De causis, quæ Toluntatem ad
suum actum raovent 200. lllud moveri dicitur, quod cum sit in potentia ad
plura, reduc.tur .n actum p\r aliquid, quod est ac tf larn voluntas, æque ac
quælibet animæ flcultas es in potenna tum quoad exercitationem actus, scilicet
prout es" n potenha ad agere, vel non agere, tum quoad mrtfe itionem, s.ve
determinationem aclus, nemp^e prouTe 1 "„" -potenha ad agere hoc, vel
illud. Quare volunUs ind
t ahquo, quod eam moveat tum ad exercitationem, umad determinat.onem actus2. ™
eS?mJdr7niS,',°bieCtUm ab intdleet apprehensum illud I Probatur Appetitus non
est nisi boni, ouod sibi ner preS mTstPr°POnitUr3 >>! W™° et bonEm Tneinm,;
m°u?"S aPP,e"(m ; alqui aclus, ut æpe nnu.mus ex obiecto, ad quod
fertur, speciem suam sum.t, ergo ob.ectum, sive bonum cognitum est fflo?
imoiTaflr|Tna.,Ur,.actus voluntatis,8sive voTun. tem i 209 p deter,m'nat.onera
actus. nr^„L0i)'.,2a' Volunlas in quibusdam suis actibus ab appetilu sensilivo
movetur ex parte obiecti. Ilnnr°a'"[' Voluntas movetur ab apprehensione
obiecti, TTnyZtTi Cl eonvenien.tisA.qui apprenhensio bon ivi VZ v ' P.°teSt
mUlari CX motibus PPCtitus sensiPclUu senshS ' ^" m°VCri Potest ab P"
loS" fxtTrn,miTC°gni,i0 boni' ct onvenicn.is non 1i ."..d V° ble,Ctl
natu,ra' auam intelleclus deprehen, sed et.am ex d.versa habitudine hominis
pendet. Al 1 i," 2M' '• '• • 1 ad 2. 1 2æ n
IX a 1 c, V qp., />e F.r., q. XX.V, a. 2 c. Cf 'p. 163. Wpp. cu., q. XXII, a. 2 c. qui
motus appetitus sensitivi habitudinem hominis variant. Ergo ex ipsis efficitur,
ut cognitio boni, et convenientis mutetur. E. g., illud, quod videtur
conveniens ei, qui ira flagrat, huiusmodi non iudicatur ab eo, qui pacato est
animo 1. 204. Diximus 1° in quibusdam actibus; nam sunt multi actus voluntatis,
in quibus appetitus sensitivus nullam habet partem. Huiusmodi sunt, e. g., amor
iustitiæ, amor veritatis, aliique id genus. Diximus 2° ex parte obiecti, ut
intelligatur appetitum sensitivum nihil in voluntatem directe agere, quia ipse
est potentia voluntate inferior2. 205. 3a. Voluntas ad exercitationem actus tum
a seipsa, tum a Deo movetur 3. Probatur la pars. In volitionibus finis est
illud, in quod voluntas primo intendit; quapropter in volitionibus finis merito
comparatur cum eo, quod in iis, quæ ab intellectu cognoscuntur, dicitur
principium. Atqui intellectus ex assensu principiorum seipsum movet ad
assentiendum conclusionibus. Ergo voluntas ex volitione finis seipsam movet ad
volitionem eorum,quibus finem consequi potest4. 206. Ex qua argumentatione
deducitur nullam repugnantiam in eo agnoscendam esse, quod voluntas seipsam
movet, quasi sit simul in actu, prout se movet, atque in potentia, prout
movetur; nam, ut inquit s. Thomas, cc non secundum idem voluntas est in actu,
et in potentia, sed in quantum actu vult finem, reducit se de potentia in actum
respectu eorum, quæ sunt ad finem, ut scilicet actu ea velit 5 . 207. Quod si
quæratur, quid sit, quo voluntas, in aliquem finem intendens, seipsam moveat
circa ea, quæ sunt ad finem, respondetur illud consistere in eo, quod voluntas
inlendens in aliquem finem, vult, ut intellectus institttat consultationem,
sive illam actionem, qua intelleetus media investigat, eorumque utilitatem
ponderat. Et sane, cum voluntas aliquem finem sibi præstituit, e. g.,
sanitatem, opus ei est eligere medium ad illius consecutionem opportunum, e.
g., potionem; et hæc electio, ut postea di la 2æ, q. LXXVII, a. 1. 2 i, q. CXI, a. 2 ad 3. 3 ia 2æ, q. LXXX, a. 1 c. 4
Qq. dispp., De malo, q. VI, a. unic. c. s ia 2æ, q. IX, a. 3 ad 1.cemus, haberi
non potest sine præcedenti consullalione intellectus. Alqu. hæc consultatio
intellectus a voluntate imperatur. Ergo voluntas est, ex qua aclio circa
electionem med.orum exordium habet, ac proinde seipsam ad ea, quæ suntad finem,
movere iure fticilur. Voluntatem acc.p.end. pol.onem præccdit consilium, quod
quidem proced, ex voluntate volentis consiliari .sl ^luntas ad primum actum
seipsam mnverel, hæc vol.t.o præviam consultationem intellectus lT alia0nvoU H
tl0.?liam ^T"^ ^iuia^, et . ursu nliM? . v,a'!am consultationem, ct hæc
alia con ^o ie consail|ni(?J,t,0nem1' et sic, iv, '., Qldispp., De malo
clinatio naturalis. Solus autem Deus est, qui potentiam volendi tribuit creaturæ: quia ipse
solus est auctor intellectualis naturæ. Libertalis nomine hic venit illa
voluntatis proprietas, per quam ipsa in suis actibus exerendis a necessitate
est immunis. Duplex autem, cum de libertate voluntatis humanæ quæstio est,
necessitas distinguitur, scilicet externa, atque interna. Necessilas externa, sive coactio, est quæ ab externo
principio infertur alicui contra propriam ipsius inclinationem. Necessitas
autem interna consistit in quadam propensione,,qua agens impellitur ex propria
sua natura ad aliquid prosequendum, unde necessitas naturæ etiam appellari
solet. Hinc duplex libertas
dislinguitur, nempe libertas a coactione, et libertas a necessitate naturæ.
Illa tantummodo externam vim excludit, qua voluntas hominis invita, ac
reluctans contra propensionem suam ad actus impelli possit. Hæc autem excludit
quamcumque vim tum externam, tum internam, ita ut voluntas prorsus domina sit
actuum suorum; unde etiam libertas arbitrii, vel liberum arbitrium appellari
solet. His præstitutis, inquirendum in primis est, utrum voluntas libertate a
coactione gaudeat. Voluntas in singulis actibus sui propriis, et intrinsecis
libera est a coactione. Probatur. Si actus proprius voluntatis fieret per
coactionem, nempe a vi extrinseca cogeretur, ipse secundum, et contra
inclinationem voluntatis simul esset ; scilicet esset secundum inclinationem
voluntatis, quia actus proprius volunlatis in eo consistit, quod voluntas in
aliquid inclinat, perinde ac quidquam naturale alicui rei esse dicitur, si
inclinationi naturæ eius sit consentaneum; esset autem contra inclinationem
voluntatis, quia id, quod per coactionem fieri dicitur, inclinationi voluntatis
adversatur 2. Atqui aliquid secundum, et contra inclinationem volunlalis fieri
repugnat. Ergo actusproprius voluntatis a quadam vi extrinseca cogi repugnat,
ac proinde voluntas in actibus sui propriis libera est a coactione 3. 1 I, q. CVI, a. 2 c Cf p.
167.— 3 Cf s. Anselm., De lib. arb. c. 6. 212. Hanc veritatem intima cuiusque
experientia conl firmat; siquidem quisquis vel plebeius conscius sibi est se I
a nulla vi extrinseca impelli posse, ut velit quod non vult aut noht quod vult.
Diximus in actibus sui propriis, et intrinsecis; nam violentia mferri potest in
actus, qui a voluntate imperantur, et sme membris corporis perfici nequeunt. At
vero violentia in hos actus infertur, non quatenus ipsi actus, qui a voluntate
promanant, efficiuntur per coactionem, sed quatenus membra corporis
impediuntur, ne voluntatis lmpenum exequantur. E. g., sume aliquem ad
supplicium trahi; certe tota vis, et coactio trahentis numquam etticiet, ut
ille velit ad supplicium trahi, aut nolit id, ' quo opus est, ut ad supplicium
non trahatur2. Quod si reus ahquando suppliciorum immanilate defatigatus
conhtetur crimen ab se patratum, voluntas eius revera non cogitur, quia ipse
reipsa vult hanc confessionem, quum lllam mstar boni apprehendat, nempe tamquam
opportunam fmiendis tormentis. Hinc fit, ut reus, etiamsi permulta, et
exquisita tormenta patiatur, tamen possit numquam suum animum inducere ad illam
confessionem, si nullam boni rationem in ea deprehendit 3. VII.— Declaratur
nalura libeitatis arbitrii 214. Libertas arbitrii, ut s. Thomas inquit,
eonsistit in potcstate ahquid eligendi ; nam libertas arbitrii, ut diximus,
reddit voluntatem immunem a quavis naturali neccssitate, ac proinde cfficit, ut
ipsa dominetur suis actiuus ; voluntas autem suis actibus dominari diciturex eo
quod potest hoc, vel illud eligere0. 215. Ex eo autem, quod libertas arbitrii
consistit in electione, sive, ut idem s. Thomas inquit, in præacceptione unius
respectu alterius\ deducitur contra Waddigtonumtvastum, ahosque, libertatem
arbitrii, prout homini conven,^c potest, expostulare momentorum consultationem,
seu deliberationem, quæ constituitur exeo, quod volun 1 l!.fe' q' VI' a' 4 c' 2
Ibid; loc cit. iW., q. cit., a. 6 ad 1. I,
q. , a. 3 c. ) ia &e172' 6 !^LXXXII, a. i ad 3. 1 ^, q. XIII, a. 2 c— De V
ame humaine, c. 5, sect. 2. tas, cum intendit in aliquem finem, investigat
naturam mediorum, eorumque utilitatem ad illum finem assequendum. Et sane, non
potest unum præ alio medio eligi, nisi natura mediorum, eorumque utilitas ad
finem assequendum agnoscantur. Atqui homines hæc nonnisi per ratiocinationem,
ac proinde per deliberationem cognoscere possunt. Ergo deliberatio est accidens
necessarium libertatis humanæ . 216. Libertas arbitrii vocatur etiam libertas
indifferentiæ, quo nomine significatur eum, qui agit libertate arbitrii, non
esse delerminatum ad unum, sed dum unum agit, aliud quoque agere posse. 217.
Hæc autem indifferentia versari potest vel circa actum, quatenus voluntas
potest velle, vel non velle; vel circa obiectum, quatenus voluntas velle potest
hoc, vel eius oppositum, vel aliud quidpiam2. Hinc exurgit distinctio
libertatis indifferentiæ in libertatem contradictionis, contrarietatis, et
specificationis. Libertas contradictionis, vel exercitii consistit in eo, quod
in potestate voluntatis est elicere, vel non elicere aliquem actum, e. g.,
amare vel non amare aliquid ; libertas contrarietatis consistit in eo, quod
voluntas potest velle aliquod obiectum, aut eius oppositum; libertas
specificationis consistit in eo, quod voluntas potest velie hoc, aut quidpiam
aliud. 218. At vero, indifferentia, quæ contradictionis dicitur, ad libertatis
essentiam constituendam sufficit ; nam, etsi voluntas non possit agere contrarium,
vel quidpiam aliud, tamen, dummodo possit actiones suas elicere, vel ab eis
abstinere, sui iuris est, et dominium in actiones ipsas exercet 3 219.
Præterea, indifferentia considerari potest etiam ex illa parte, quatenus
actiones ad ultimum finem spectant, nempe in quantum voluntas potest appetere
id, quod secundum veritatem in debitum finem ordinatur, vel secundum
apparentiam tantum 4 . Si indifferentia ex hac 4 ln lib. I Sent.y Dist. XI, q.
I, a. 2 sol. Exinde magis
patescit error Cousinii, qui, ut diximus (p. 168), actiones spontaneas cum
liberis confundit. 2 Qq. dispp., De Ver., q. , a. 6 c. 3 Contr. Gent., lib. II,
c. 47. Qq. dispp., De Ver., loc. cit. parte considerctur, inde illa liberlas
cxurgit, quæ in n0testate rccte, aut prave agendi consislit. h 9 P 220. Hæc
autem indifferentia recte, vel nrave asendi p' :::,,beri arbitrii,?°n n™il™ -••
VS£ sP. nnLr^dnYii 've peccandi a fine, ad quem liber.as debertatl''pH Lt?
|,r,°lnde n°" SPectal ad senliam li "t 0,n'rP Lr,-,amT(l"am
Vl.t,um libertatis habenda esi . yuare lpsa, uti s. Thomas inqu (, non nisi
aliauod Hgnum hbcnatis est, sicut acgriludo esl signum vilal" Abt.
Vlll.-lnquirilur, an sit in hominc libertas indifferenliæ Declarata natura
liberlalis indifferenliæ, inquirendum esl, ntrum ea voluntali humanæ concedenda
si. i&y frop. 1 . Vohmlas non est libera liberlate indiffi ezf bonum
universate' et ^oizT^tat pr1till!rnmC,U nonbet.natUraC PrJ°prium eSt au -clo
?o,a S 1 .possibihtas, sive eapacitas subditur >. Ergo voluntas . .1 m;rm.U,mnerSa,e' Ct Perfec,um
nnNun^domi um ^r^^ff„s3£ po,est- ac proiude I "> Ub. II Sent. Dist. XXV, q. I, a.
i ad 2. Cf s. Anseln,., ]>e lib. arb., c. 1. ' CfSs TAu"Inf1' m'
"v8 ad,n-4 Q(lWDe ^">. 2a. Voluntas circa bona particularia gaudet
libertate indifferentiæ. Probatur. lllud obiectum ex necessitate voluntatem
movet, quod est ipsi adæquatum, nempe in quo nulla ratio mali apprehendi potest
. Atqui huiusmodi non sunt bona particularia, quia in omnibus particularibus
bonis potest [intellectus) considerare rationem boni alicuius, et defectum
alicuius boni, quod habet rationem mali . Ergo bona particularia voluntatem ex necessitate
movere non possunt ; ac proinde voluntas ita ea vult, ut potestatem ea non
volendi habeat 2. 224. Præterea, voluntas tendit ad bona particularia non per
modum naturæ 3. Atqui voluntatem tendere ad aliquid non per modum naturæ, idem
est, ac ipsam non esse determinatam ad illud, eo modo, quo causæ naturales sunt
determinatæ ad unum. Ergo voluntas circa bona particularia gaudet vi
electionisf seu libertate indifferentiæ. 225. Maior ita demonstratur. Voluntas
per modum naturæ tendit ad beatitatem, et ad media, quæ cum illa necessario
coiligantur. Atqui bona particularia non constituunt beatitudinem, ipsaque vel
non sunt media, quæ cum illa necessario colligantur, vel, etsi quædam eorum ad
illam necessario referantur, tamen hæc relatio evidens nobis non est, quia
omnes quidem norunt beatitudinem esse perfectum bonum, sed nemo, dum in hac
vita versatur, naturaliter apprehendere potest obiectum illud reale, quod
beatitudinem reipsa constituit, nempe Deum, uti in seipso est, perfectum bonum.
Ergo voluntas ad bona particularia non tendit per modum naturæ . i la 2æ, q.
XIII, a. 6 c. Ibid., q. X, a. 2 c. 3 Qq. dispp. De Ver., q. , a. 4 c. I, q.
LXXXII, a. 2 c. Exinde intelligitur, cur voluntas hominis, dum homo in hac vita
versatur, non ex naturæ necessitate, sed ex propria determinatione ad Dei
amorem feratur. Etenim Deus, ut
inquit Caietanus (in cit. 2 q. 82), etsi sit in se maius, et eminentius
universale bonum, quam beatitudo in communi tamen non est evidens, et apparens
nobis sub tali ratione, sicu beatitudo . Ex quo fit, ut iudicium, quo ratio
decernit Deum a mandum esse, fiat cum indifferentia, scilicet ita ut aliter
etian fieri possit ; quocirca volitio, quæ consequitur hoc iudicium, noi
determinatur ex necessitate naturæ. Deus, inquit s. Thomas, du pliciter potest
considerari, vel in se, vel in effectibus suis. In s quidem, cum sit ipsa
essentia bonitatis, non potest non diligi; un Argumenta, quibus voluntatem
liberlale indifferen mæsCUn.Ca, ;°"a particularia Pudere oslendimus, adeo
fi"ma sunt, ut rem plane definiant ; ipsa enim a pronria ac inl.ma e.us
natura petita sunt. Sed quoniam omnibus AVll, et XVI I, puta Hobbesio,
Collinsio, Bavleo Helve tm, Lamelno nihil magis cordi fuit, quam iit hoc Capita
e dogma e.hicæ, et Theologiæ tollerent, a ia argu.mena ad..cere luvabit, quæ
non quidem solidius sed Inculent.us I.bertatis existenliam patefaciunt.
fJ..i,.?S a,expeJrientia J"culenter edocemur nobis inesse tacultalem
el.gend. unum præ alio. E. g., interna exnenent.a compertum mibi est! me ila
velle tleambulafionem ut possim eam non vellc, brachium ita movere TZl i
du|S:erere'.n {? '° ^ ? ' \J^™ sit otio iiduigcre Jn hls, sexcentisque aliis
volitionibus tanta e aaue Zt n°Stra eli?endi P°tCSlate couscii snmus? tanomfnio
lh;:,a expen,nur 'Psas Ple° uustræ voluntatis omuuo sub.ic, ut .n antecessum
eas disponere, et nræ fe-wn".?^ F,qUi in, haC eligendl' P°teState libertas
roimi cons.stit. Lrgo voluntatem noslram liberlate ar iusdern0?^." Cer'°
CCr,iuSest Accedit 'luod 'eslimonio ins em inl.mæ exper.ent.æ novimus animam
noslram ob benc gestas gaudio perfundi, et si quando fiaSitium lu, dam
patrar.t, acu.is slimulis tangi,' tædioque8 labe Mlari. Alqui an.ma has
aflcctiones voluptalis, aut lædii ;,::nceee.per,reu,r' nisi sfipsam prorsus ^
en,u i i ',' ' reip,S-a nU}]T tædii affectionem cxpe'mur s. pai,.amus .,|lquoc,
flagitium ex ignoranlia, aut CDroin0! ' ^,0,03"1 ctl° "on fit cum
deliberalione, } „P0'ulnde uon est l.bcra. Ergo. L>ctaHis cmmVlern/,S,eX
ai>SUrdis °PP°sitæ sententiæ con 1 s comprobatur. Eten.m, ut s. Augustinus
argu '" .tur, sublata libertate, doctrina morum ruil; si enim _necess,late
fac.mus quidquid facimus, nullum rema ab 1 omnibus videntibus Eum per cssentiam
diligitur et ibi ooan æcent m' 'T8''" vol"ntati. ^ut poenæ iUatæ, vel
. Aug., De actis cum Felice Manichæo, lib. II, c. 8. Philos. Ciirist. Compend.
I.i jg net discrimen inter virtutem, et vitium ; neque legibus,
obiurgationibus, laudibus, poenis, et præmiis ullus restaret locus 2, quia his
omnibus locus esse nequit, nisi actus ita in nostra potestate sint, ut illos
pro arbitratu nostro ponere, vel non ponere possimus. Insuper ruunt cuiuslibet
civitatis fundamenta, quippe quod, ut modo diximus, nullius momenti evadunt
leges, præmia, et poenæ, quorum præsidiis civitas munitur; necnon contractus,
et foedera, quibus cives inter sese vinciuntur; hæc enim eadem necessitate
violarentur, qua fuissent instituta. Demqua ruit quævis religio ; nam si
homines libertate carent, nullis officiis erga Deum obstringuntur, nullumque
illi culjum exhibere tenentur. Quamobrem qui hominem libertate expoliat, eum
simul domo, civitate, religione destituit, belluisque prorsus exæquat. 3°
Denique eidem veritati non parum robons additur ex universali hominum
consensione. Re quidem vera, omnes homines cum docti, tum indocti in asserenda
hbertate indifferentiæ mirifice consentiunt; nam omnes solent consultationes
instituere de rebus agendis, ineunt pacta, agnoscunt difFerentiam inter
honestas, et pravas actiones, aliaque huiusmodi, quibus, sublata libertate,
locus esse non posset 3. Quod si nonnulli libertatem voluntati denegant, hi
admodum perpauci sunt, atque ipsi, licet hbertatem verbis denegent, tamen eam
opere docent. Nam, ut Eusebius iam advertit \ ipsi libertatis osores de rebu s
faciendis deliberant, aliorum facinora aut laudant, aut vituperant, filios
admonent, poenis afficiunt, et ad bonam frugem revocare conantur. Quare ipsi
suam sententiam operibus destruunt, et sibimetipsis contradicunt. IX. Quomodo
liberi actus voluntatis ab intelleclu pendeant 227 . Tres sunt circa hanc
quæstionem Philosophorum sententiæ. Sunt,
qui cum Kingio,archiepiscopo Dublinensi, contendunt voluntatem eligere aliquod
obiectum sine ullo motivo, nempe sine prævio iudicio, quo intellectus bom 1
Lib. De duab. Anim., c.
12, n. 17. 2 De Civ. Dei, lib. V, c. 9. 5 Cf eumdem s. Aug., Lib. De duab.
Anim., c. 11, n. 13. De præp. evang., lib. VII, c. 7. tatem et convenientiam
illius obiecti pronuntief quinimmo a.oJ udicum „„„ p„e,|„;,„d,„M „|„™UZ, „b
ffl!9. lertia senlenlia eorum esf nni ^..m . tl .nt e,eClio„em voluntatis
iE",Ar. idico feta u ab hoc omnmo determinetnr i™,,1 ™i„ J1,^necius, a
s^treliei Ut^auif^1"'6' qU°d C^: minatur, es"]i£nlqU,a 'Ud,C1Um' a
0U0 vo,u"^ e 230. la. Voluntas humana non potest artv h. ffir:oXfderm?e ^
w/o ^ ~rj fiuuaiur contra detensores pnmæ senfpnfiio Vr,i.. prehenderet i i
oWecto I'1^' q.u,n inte,,^tus rra n,,u ! or),ecto "Ham speciem bonitatis
in rca nullum ob.ectum versaretur Afnui hZ Y i P •U " in W 5£" versar
i. Ergo fieri "eqaif^ dicio,le boni,ie e n „ mome,.Uo> ™Pe sive pracvio
lerminetur ° convement.a ob.ecti ad actus suos . 2a. Posito iudicio, quo intellectus aliquid faciendum
vel non faciendum esse decrevit, voluntas non potest manere indifferens ad
agendum secundum, vel contra illud. Probatur contra propugnatores secundæ
sententiæ. Si postquam intellectus decrevit aliquid esse faciendum, vel non
faciendum, voluntas se determinare posset ad oppositum, huiusmodi determinatio
destitueretur omni rationis momento, sive motivo, quia nulla ratio foret, cur
voluntas se ad oppositum determinaret. Neque dici potest hoc motivum agnoscendum
esse in eo, quod voluntasita vult: nam, quemadmodum s. Thomas apposite
advertit, velle est quidam motus tendens in aliquid, ac proinde stultum est
dicere quod aliquis appetat propter appetere S nempe voluntatem velle propter
ipsum velle. Atqui, uti in præcedenti propositione ostensum est, voluntas non
potest se ad aliquid determinare sine motivo. Ergo, posito iudicio, quo
intellectus aliquid faciendum, vel non faciendum esse decrevit, voluntas non
potest se determinare ad oppositum. 233. Refutatis duabus prioribus sententiis,
(.ertiam propugnandam suscipimus. Ut autem perspicuitati consulamus, nonnulla
præmonenda esse censemus, 1° Certum est voluntatem non posse eligere quidpiam
sine prævio iudicio rationis, quia ipsa est appetilus rationalis, eiusque
obiectum est quoddam bonum, quod intellectus iudicat consentaneum esse nostræ
naturæ 2. 2° ludicium, ex quo voluntas ad electionem movetur, est iudicium
practicum, non vero speculativum; nam iudicium speculativum consistit in
apprehensione veri, ac proinde non potest movere voluntatem, cuius obiectum est
bonum, ad operationem eligendam 3. 3° Huiusmodi iudicium practicum nequit esse
universale, et indeterminatum, quia operatio, sive electio voluntatis est
aliquid determinatum, et particulare, ideoque ex iudicio indeterminato, et
universali oriri non potest . larum actionum absoluta, et obiectiva bonitas,
aut pravitas esset agnoscenda : id, quod philosophiæ morali prorsus adversatur.
In lib. III De Anim., lect. XV. -' Cf p. 166. 8 la 2æ, q. XIX, a. 1 ad 2. In lib.
III De Anim., lect. Quapropter iudicium, quod, tamquam motivum, ad actum
electionis concurrit, est iudicium particulare, quod intellectus practicus, ut
antea diximus, efficit ex applicatione principn universalis ad proprietatem
concretam, et particularem ahcuius obiecti '. 4° Electioni voluntatis plura
iudicia præcedere solent. Iam ex hisce iilud, quo intellectus, cunctis
libratis, atque expensis, decernit hoc tandem eligendum esse, ad electionem
voluntatis immediate concurrit, ac proinde ullimum vocatur 2. 5 Radix, sive
subiectum libertatis est quidem ipsa voluntas ; nam voluntas naturaliter non
determinatur, nisi ad bonum commune, ac proinde potest ex sua natura, nempe, ut
inquit s. Thomas, nulla determinatione naturali in contranum prohibente 4 , ad
diversa particularia bona iern. 6 At radix, sive causa libertatis est ratio ;
ex hoc enim voluntas potest in diversa ferri, quia ratio potest naberc diversas
conceptiones boni b ; nempe ideo voluntas circa bona particularia est libera,
quia intellectus porest cre, sive hoc, vel illo modo, de bonis particularinus
njdicare. Hinc homo non nisi ex eo, quod rationalis est, hbertale pollere
dicitur 6, et discrimen inter eius operationes, et operationes brutorum, atque
rerum naturalium non nisi in eo consistit, quod res naturales agunt absquc
ludicio, bruta ex iudicio naturali, at non libero, bomines ex iudicio libero \
Præstat dilucidius hanc rem expheare, nempe iudicia, quæ ratio circa operabilia
eflormat, esse libera. Operabilia sunt quidem contingentia. Atqui mtellectus
libere cxerit iudicia, quæ versantur circa contmgentia; nam intellectus, ut
diximus, ex terminorum comparatione de rebus iudicat, unde cum deprebefldit
prædicatum ad essentiam subiecti perlinere, cogitur hoc, et non alio modo
iudicare ; e contrario, cum æprehendit prædicatum cum subieclo haud necessario
connecli, uti evenil in iis, quorum maleria est contingens, ad utramvis parlem
inclinare polest. Ergo iudicia Circa operabilia sunt libera 8. Fatemur ultimum
iudicium o gie156" ~2 Q De yi q XVI, a. 1 ad 15. K ^a oæ' q.[ a ad 2~
ContrGent-> h'bIH, c-48, n. 5. la 2e, lbld. _ c lf q. lxxxIII, a. 1 c. 7
lbid. i ibid. practicum esse determinalum, alioquin, ut paulo ante diximus,
nulla voluntatis actio ipsum consequi posset; sed contendimus non esse absolute
necessarium, quia intellectus ita iudicat, ut potuisset secus iudicare,
quemadmodum in enunciationihus probabilibus mens ita inhæret uni parti, ut
alteri etiam adhærere potuisset. 234. His præstitutis, demonstramus sequentem
Voluntas non potest quidqnam agere contra illud, quod intellectus ultimo
iudicio practico decernit '; neque id eius libertati obest. Probatur prima
pars. Motivum, quo voluntas aliquid eligit, non nisi ultimum iudicium practicum
intellectus, uti iam ostendimus, esse potest; quapropter, si voluntas posset
eligere aliud ac illud, quod per huiusmodi iudicinm ab intellectu sibi
proponitur, electio voluntatis sine motivo existeret. Atqui, uti etiam
demonstravimus 2, absurdum est electionem voluntatis absque motivo existere.
Ergo. Probatur altera pars. Radix libertatis, sicut causa, invenitur in prævio
iudicio intellectus; quapropter, etiamsi voluntas contra ultimum iudicium
practicum sese deter. minare non possit, tamen eius actus sunt liberi, dummodo
consequantur iudicium liberum, nempe eiusmodi, ut aliter fieri potuisset.
Atqui, ut iam ostensum nobis est, actus voluntatis consequuntur iudicium, quod
aliter fieri potuisset. Ergo ex eo, quod voluntas non potest quidquam agere
contra illud, quod intellectus ultimo suo iudicio practico decernit, nihil,
quod eius libertati obest, elici potest. ld ex eo confirmatur, quod voluntas,
ut s. Bonaventura inquit 3, non sequitur principaliter actum alienum {nempe
intellectus), imo potius actum alienum trahit ad proprium ; videlicet, ipsa
voluntas in consilium adhibet intellectum, eiusque attentionem ad hoc potius,
quam ad aliud contemplandum convertit; atque ita efficit, ut intellectus hoc
potius, quam aliud iudicium practicum pronuntiet. Si igitur ex voluntatis
imperio in Qq. dispp., De Ver., q. XXIV, a. 2 c. Sanctus Doctor hoc ii loco
quoque observavit electiones illas, quæ fieri videntur contre illud, quod
intellectus iudicat, contrarias esse iudicio practico uni versali, at non illi,
quod ultimum dicitur. 2 179. 3 In lib. II Sent., Dist. , p. I, a. un., q. 6 ad
arg. tellectus ultimum iudicium practicum pronuntiat, dicendum cst actum
voluntatis, qui illud iudicium conscquitur, non esse necessarium, nisi
necessitate consequenti, illa scilicet, qua eo ipso, quo voluntas aliquid vult,
non potest simul ipsum non velle '. X. Obiectiones Fatalistarum 2 exsufflantur
235. Obiic. 1° Voluntas non potest incipere velle quod antea non volebat, nisi
ab aliquo agente extrinseco moveatur, quia nihil a semetipso incipere potesl.
Atqui, si voluntas ab aliquo agente extrinseco movetur, cius actiones liberæ
dici nequeunt. Ergo. 236. Resp. Dist. min. ; si agens extrinsecum moveret
voluntatem necessario, conc. min., secus, neg. min. Neg. cons. Et sane, nomine
agentis extrinseci, a quo voluntas movctur, vel intelliguntur obiecta
extrinseca, quæ incurrunt in sensus, vel Deus ipse prima omnium motuum cau 1
Ii, qui huic circa libertatis originem sententiæ adversantur, progressum
consultationum, et volitionum in infinitum in ea admitti arbitrantur, quia omni
volitioni aliqua consultatio, et omni consultationi, quippe quæ voluntaria est,
aliqua voJitio præcedere deberet. At ipsi crrore decipiuntur. Etenim probe
distinguere oportet ætum, cuius vi consultatio suscipitur, ab actibus, qui
ipsam constituunt. Si primum spectetur, consultatio procul dubio a voluntatc
pendet, quippe quod hæc intellectum determinat ad ea media inquirenda, quæ ad
finem sibi propositum assequendum idonea sunt. Ast hac in re progressus in
infinitum pertimescendus non est, quia id, quod primo movet voluntatem, et intellectum
ad exercitium actus, est Deus. (Cf p. 171 ; cf etiam I, q. , a. 4 ad 3, et la
2æ, q. XVII, a. 5 ad 3.) Quod si actus, qui consultationom constituunt,
considerentur, hi consistunt in variis iudiciis, quæ circa media opportuna ad
aliquem finem assequendum efliciuntur, et quoniam versantur circa media, quæ
non præseferunt necessariam cum fine connexionem, ex sui natura non vero ex
voluntatis motione sunt libera, seu indifferentia (la 2æ, q. cit., a. 6 c);
voluntas autem, movens intellectum ad istam potius, quam ad illam conditionem
perpendendam, aliquod ex iis iudiciis determinatum reddit. Neque voluntas
prævia consultatione indiget, ut intellectum ad rem sub illo potius, quam sub
isto respectu ' considerandam moveat, sed id efficit ex aliqua occasione, e.
g., ex eo, quod ad ld ab appetitu sensitivo movetur. Cf p. 169. 2 Omnes, qui
liberum arbitrium homini denegant, Fatalistæ nuncupantur, quia ipsis commune
est illud antiquorum Stoicorum pronuntiatum : omnia fato /ieri. sa. Si priraum,
illa obiecla numquam possunt raovere voluntatem, nisi intellectus rationem
bonitatis, et convenientiæ in ipsis deprehendat '. At bona particularia ab
intellectu apprehensa non movent necessario voluntatem, quia non tamquam
universaliter, et secundum omnem considerationem bona apprehenduntur 2. Ergo,
etiamsi voluntas ab obiecto moveatur, eius acliones non sunt necessariæ. Quod
si nomine agentis extrinseci ipse Deus intelligatur, Deus quidem voluntatem
quoad exercitationem actus, quemadmodum ostendimus 3, movet; at nihil exinde
conlra libertatem inferri potest. Etenim proprium Dei est, ut alibi dicemus,
res eo modo movere, qui earum naturis congruit. Atqui voluntas humana eiusmodi
est naturæ, ut sit libera. Ergo potius necessitas, quam libertas actuum voluntatis
cum Divina motione repugnat . 237. Obiic. 2° Voluntas ad aliquid volendum
movetur ab appetitu sensitivo. Atqui actus appetitus sensitivi su necessarii.
Ergo idem de actibus voluntatis dicamus o portet. 238. Resp. Dist. mai., semper, neg. mai., interdum,
subd. mai., ita ut appetitus sensitivus inclinet voluntatem ad aliquid
volendum, conc, mai., ita ut ad se necessario trahat actum voluntatis, neg.
mai. Item dist. min., actus appetitus sensitivi sunt necessarii, ita ut
voluntas eis dominari possil, conc. min., secus, ncg. min. Neg. cons. Re vera
nos iam antea ostendimus voluntatem non in cuncti sed in quibusdam suis actibus
ab appetitu sensitivo moveri, et hanc motionem in eo dumtaxat consistere, quod actus
appetitus sensitivi inclinant voluntatem ad hoc, ut moveat intellectum ad
considerandam rem potius sub isto, quam sub illo respectu, et proinde ad
pronuntiandum potius istud, quam illud iudicium practicum 5. At vero tantum
abest, ut voluntas ab eis necessario moveatur, ut potius eis, sicut alibi
diximus 6, dominetur; ex quo fit, ut in eius arbitrio sit prosequi, aut
respuere id, ad quod ab appetitu sensitivo allicitur '. 239. Obiic. 3° Voluntas
ex natura sua fertur ad bonum. Ergo libertate indifferentiæ non gaudet. Cf p.
166.—'Cf p. 175.— 3 165. la 2æ, q. X, a. 4 ad 1. Cf p. 169. 6 160. Cf la 2æ, q.
X, a. 2 c. I, ^' RcP\P{s,L ?'; ad nonum in universum, conc. ant ad bona
particularia, n^. a 4 ns. Re quidem vera, cognitiones boni, el mali e iamsf '
lermUnm Sente,ntiam sThomæ> qnai nos s^cu isumus '' oduTn6."',/0
'Untatem' non tamen necessario eius actus roducunt, qu.ppe quod non sunt causac
necessariænam " antea ostendimus , inlellec.us ita iudicat Te bonka e'
SnIc^a Zo7c°bieCti' Ut Potnisse'diveersonmodeo' c. Accedit quod causa, cuius
effectus imnediri nnl nctbiPtSaniV0,IUntv 'aCKtUm V°luntatis "eceSum non
ZntoJS ' co8nlt,onl hon'> vel mah potest per ipsam ^ntatem impedimentum
præstari, vel' removendo T j^Cf 8. Thoill., Qq. dispp.y De mal^ lQc c.t ^ ^ ^ ^
^ ^^ 2 > qL XXXII, a. 2 ad 1 —3 rr n ~o aa l lem considerationem, quæ
inducit eam ad ™iendum, vel considerando oppositum, scilicet quod hoc, quod
proponitur ut bonum, secundum aliquid non est bonum ' >. Ergo actus
voluntatis ex cognit.one boni et mah, a qua Dpndent, necessitatem non
accipiunt. . . P 247 Obiic. 6° Admissa vera sententia c.rca ong.nem libertatis,
nempe voluntatem ex iudicio i?t'°n£ ^ ?rmf nari, voluntas ex duobus bon.s, uno
ma.ori altero m.non, non potest non amplecti bonum maius ; et, si e ' PoP?"
nantur duo bona æqualia, neutrum ehgere posset, qma Sulta foret ratio sumciens,
ob quam voluntas m.nus,j£ num maiori, aut inter duo æquaha unum allen præier
ret Ergo voluntas facultate ehgendi dest.tu.tur, ac pro inde libertate
indifferentiæ non gaudet. 248 Resn Neq. ant. Sane, voluntat. .ntegrum non esi
ehgtre Sid Juod intellcctus ultimo suo md.c.o pra c c nmkavit^se minus bonum,
ac P~ide miuus ehgibile, quam aliud; at vero potest .psa efficere, ut iUud quod
in se est deterius alio, tamquam mel.us hoc ab in tellectu iudicetur, quatenus
magis conduc.t ad finem quem spectamus. Ita ii, qui peccant, prosequuutur ^unum
quod est deterius alio, sed iudicaut hoc esse mel us, quan Hlud, quia videtur
eis opportunius ad oJ>'inendnmdbnAm quem sibi constituunt. Potest etiam
voluntas es duobo gonis æquahbus unum velut præstant.us altero el.ger nam,
aiente s. Thoma, nihil prohibet, si al qua ^duoa quaha proponantur secundum
unam considerauonem, qu Srca aWum consideretur aliqua cond.Uo, per quam mineat,
et magis flectatur voluntas .n .psum quam aliud . Quod si post istam
inqu.s.t.onem in . neuti inveuiat novam aliquam bonitatem, potest volunta, ad
num bonum alteri præferendum moven ex eo, quod 1 . tellectus exhibet ei,
tamquam bonum, exercitat.onem pr priæ libertatis. CAPVT VI. De facultate
locomotiva 249. Facultas locomotrix est quædam specialis faculi • Qq. dispp.,
De malo, loc. cit. ad 18. s ia 2æ, q. XIII, a. 6 ad 3. Jg7 organica, qua aniraa
movet de loco in Iocum corpus cum quo ipsa comunghur. "us' Lum Anr. I.-Quodnam
sit principium moluum localium 250. Facultatis locomotricis existentia
demonstrari „„„ potest n.s, pr.ns definiatur, undenam prmcTnium (1otio num
local.um > repetendum sit. P™ noUo P^L/1"' M0'WSlocaUs soli corpori
atlribui non posmnt Probatur pracc.pue contra Cartesium, et LeibniM m Motus
locales sunt operationes vitales, et viv en\, csse debei dlud pnnc.p.um, a quo
ipsi promanant. AlquTcon)uS prout est corpus esse non potest principiuu i
WvensXro toOtus locales sol, corpori attribui non possuT g° S ita eTerceri
d1T0nstra[ur: Compertum est motus lonovea tur auh in ir lai'a "$".
moveant' non ab aii° afi ^iprrve0.:!3™ ^ ^ tiElEfi lecesse^st "„;'"'
Prlnc'P'um. sui molus in se habeant are potest'n\s i fi? 0Peral!°.ab liquo
subiecto maal'i if, per Princ,P'um . quod in ipso ope um moiuf glnW'.Ut an-lmal
in Se na'>eatPprinPcium motus, quo se de loco m bcum transfert Afm.; z
i:^u::t re ? per ^t^^ti iiS. e ilkid nrincinPeraU° VlUl,S ;,deoaue vivcns dcbet
inl opeTionoTvTl " q1° promaJna'^rgo motus locales tfp^^™""81
eSSe PrinciPium> Wus l?Z lTm demonstra'io"e non indigel; quia, si X' P
?Ut est corPus, esset vivens, nullum jrenus cor 3POpreDe2æ epXpCrS V-itæ : id
uuod Perle eft falsura. ProbatZvriS nCtptUm moHo™m localium est anima. robalur.
Pnncip.um mot.onum localium, uti in præ Wtru.qdisuLuSr 11 'r 'n l0CU',"
P-"ditur, tocates wt, cuiismod sun, m. . ' ln au,bus cor',us Iocu' > J
est vcgctans, eveni,!„t m°l,0neS ' qUæ in cornore ™">-^> 5 Cf p
?8°m" /"r ^ V" Ph!ls lcctVU. P8. I, q. LXXV, a. 1 c. cedenti
propositione ostensum est, debet esse illud, per quod animal est vivens. Atqui
huiusmodi pnncipium est anima. Ergo anima est fons, et pnncipium omnis motus in rebus
animatis ! . Ex qua argumentatione mfertur contra Malebranchium, animam esse
causam non occasionalem, sed vere effectricem localium motionum. Etenim anima
est principium huiusmodi motionum ex eo, quod vitam animali impartilur. Atqui
ea vivunt, quæ i operantur ex seipsis2 . Ergo anima est causa vere et-, fectrix
localium motionum. 254. 3a. Anima per aliquam facultatem organicam movel
corpus, ac proinde non ipsa per se, sed simul cum corpore est principium motuum
localium. Probatur conlra Platonem 3. 1° Anima nihil agere potest, nisi
alicuius facultatis ope. Atqui mter actiones animæ occurrit eliam illa, qua
corpus suum de loco m locum movet. Ergo
anima pollere debet facultate movendi corpus suum de loco in locum. Præterea,
anima non potest movere corpus, nisi ipsum tangat. Atqui anima, cum sit partium
expers, non potest tangere corpus contactu physico, nempe prout partes suas
partibus corpons apponit, sed dumtaxat contactu virtutis 4, nempe prout aliquid
in illud agit. Ergo oportet in anima ahquam tacultatem inesse, cuius virtute
corpus suum movet. 2° Facultas, per quam anima movet corpus, debet esse
organica. Nam anima per facultatem movendi corpus, dc loco in locum aliquid
extra se agit. Atqui spintus hu mani, ut s. Thomas ait, cum sint corponbus
uniti, H exteriora operari non possunt, nisi medio corpore, ac quod sunt
quodammodo naturaliter colhgati . Lrg( facultas movendi corpus nequit ab anima exercen sim
aiiquo organo corporeo. 3° Quod si anima per aliquam facultatem organican
corpus movet, ipsa non per se, sed simul cum corpor est principium motuum
localium, quia ad exercitationer facultatis organicæ anima simul, et corpus
quidquaL conferunt6. i In lib. I De
Anim., lect. 1. -2 I, q. XVIII, a. 3 c. 3 Plato (Cratyl, p. 400, a; Alcib., p.
150 a, ed. H. S.), ali que
motus locales uni animæ tnbuerunt.- I, q. LXXV, a. l s Qq. dispp., De Pot., q.
VI, a. 4 c. Cf p. JCQ A)o. Kesp. JSeg. ant. et cons Vt wno c; GSt Dud omnes
Philosophos me er 4 JuZ n-mSI corP°ribus coMvenire. Ergo motn local ! aturæ
animæ prorsus repuffnat 3 Hinr oi rt otus exequitur, est, „t ait s. Thomas,
ea,™'pei auam embra redduntur habilia ad obediendum appelUuf' " æc antem
potentia, quæ exequitur motus ea esl n„ p como r,x appellatur, Hq„ia potentia
dicUur immedia^tum uTTtL^T™' PtCipiUm ^ i™™ZZe?l sæ am " vero il.ud, a quo
IDEALOGIA. Ad Dynamilogiam, ut diximus in Introduct. ad Philosophiom ',
IDEALOGIA, et Criteriologia etiam spectant. bx ns enim, quæ circa naturam,
obiectum, et operationes tacultatum animæ humanæ statuta sunt, nullo negotio
colligitur, 1° quomodo cognitio humana per lllas tacultates evolvatur, sive
quomodo cognitionis humanæ ongo explicanda sit; 2° quidnam roboris ad veritatem
nobis patefaciendam ipsis insit. Harum tractationum pnma oicitur ldealogia,
quia originem idearum ad examen revocat, altera autem vocatur Criteriologia,
quia critena, sive motiva, ob quæ de vera cognitione rerum certi sumus, ex
ponit. . c i_fl 2. Quod attinet ad Idealogiam, nos quæstionem soivemus de
idearum origine in universum spectata, sive cie modo, quo intellectus noster
primo assequitur cognitionem rerum 2 ; atque 1° præcipua Philosophorum
systemata excutiemus ; 2° illorum Philosophorum sententiam expendemus, qui
humanam cognitionem sine sermonis ope evolvi non posse pertendunt; 3° quoniam quæstio
de ongine idearum ad notiones universales spectat, de celenri illa
controversia, quæ circa vim notionum universalium penes Philosophos exagitatur,
verba faciemus. Excutiuntur Philosophorum systemata circa originem idearum
Art.I.— De Sensismo 3 Sensismus est illud systema, in quo origo totius
cognitionis humanæ ex sensibus, tamquam ex unica tonte; repetitur. 1
Degsp3ecialibus modis, quibus anima res materiales P^tsitf gulares sunt, vel
ea, quæ materialium rerum ?™VT'™& diuntur, vel seipsam cognoscit, iam a
nobis exphcatnm est ( d p. 136 sqq, et p. 145 sqq). Modum autem, quo ad Dei co8niti nem perveniraus, in
Theologia naturali investigabimus. Sensismus est systema in se absurdum, et ad
absurda consectaria ducens. Probatur prima pars. Sensistac ideo docent sensus
esse unicam lontem cognitionis humanæ, quia cum Condillacho unicam sentiendi
facultatem animæ attribuunt, et contcndunt ceteras facultates, quæ a
Philosophis numerantur, non aliud esse, quam diversas sensibilitatis formas,
earumque actiones non aliud esse, nisi sensationes transformatas \ Atqui nos
iam evidenter demonstravimus opcrationes mtellectus tum ex obiecto, circa quod
versantur, et ex modo, quo exercentur, tum ex ipsis Condillachi pnncipns non
posse reduci ad sensationes. Ergo absurdum est assignare sensus, tamquam unicam
nostræ cognitionis fontem. 5. Probatur altera pars. 1° Homo, ex cognitione
intellechva, qua pollet, discriminatur a belJuis, quibus non nisi cogmtio
sensitiva inesse potest. Atqui, si sensus essent unica fons cognitionis humanæ,
et cognitio intellectiva ad sensationes reduceretur, nullum extaret discrimcn
inter cognitionem propriam hominis, et illam, quæ pertmet ad belluas. Ergo,
posito sensismo, homo ex di§nitat .e sua' W belluis maxime præstat, excideret.
^cientiarum principia absoluta, universalia atque immutabiha sint oportet.
Atqui sensus non nisi concretum, contmgens, et mutabile referre possunt. Ergo,
posito sensismo, scientia prorsus evanesceret. 6. Hæc autem absurda consectaria
sensismi haud vitantnr, si origo idearum eo, quo docuit Lockius, modo
['xpi.cctur. Nimirum anglus hic philosophus duas facullates ad rcrum
cognitionem assequendam in anima admisu, nempe sensahoncm, per quam anima res,
quæ sive ijxtra se, sive m se fiunt, apprehendit, et reflexionem, per laam ad
res sensibus apprehensas vim suam intendit2. &Zu? jC reflex10' auam Lockiusprætersensationem n
tt.t ad sensationem, ut merito Condillachus obser ^ayt, reducitur. Nam
huiusmodi reflexio non exercetur, m . circa ea, quæ sensibus percepta sunt, ac
proinde ipsa ?r,I°rrS r.eddlt scnsationes, atque ad summum eas in nes
dissolvit, aut vario modo componit, sed numquam Cf p. 161. 2 Essais etc, lib.
II, c. 2, § 1. efficere potest, ut mens ad intelligibilia, quæ ab ipsis
sensationibus specie differunt, adsurgere possit. 7. Obiic. Vulgatum est illud
effatum Scholasticorum : Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in
sensu. Ergo cognitio nostra non nisi a sensibus repetenda est. 8. Resp. Dist. ant., quatenus
cognitio intellectiva evolvi non potest sine phantasmatis, quæ per sensus
hauriuntur, conc. ant., quatenus intellectus apprehendit illud ipsum, quod a
sensu percipitur, neg. ant. Neg. cons. Et sane, ex illo Scholasticorum effato
coliigi quidem potest cognitionem inteiiectivam aliquo modo a sensibus oriri,
quatenus hi præbent intellectui phantasma, in quod inteliectus actionem suam
exercet l; numquam vero sensitivam cognitionem esse tolam causam cognitionis
intellectivæ 2; quia intellectus ex vi sua sine ope sensuum ex phantasmate
obiectum sibi proprium, nempe intelligibile, omnino diyersum ab obiecto sensuum
efficit, illudque apprehendit immo multa cognoscit, quæ per sensus nullo modo
cognosci possunt 4. II.— De systemite idearurn innataruoi in uniyersuui 9.
Systema idearum innatarum illorum Philosophorum est, qui originem idearum ex eo
explicant, quod anima cognitionem rerum saltem initialem per ideas sibi
naturaliter insitas habeat. #, 10. Systema idearum innatarum est reiiciendum .
Probatur. 1° Si idearura innatarum hypolhesis admitta tur, consequitur animam
intelligere res per medium absolute immateriale, ita nempe, ut ope phantasmatis
non indigeat. Atqui id, ut iam demonstratum est b, naturæ animæ humanæ
repugnat, et experientiæ contradicit. Ergo hypothesis idearum innatarum
reiicienda est, Hoc argumentum ex eo magis confirmatur, quod intelligere res
per earum species acceptas a Deo simul cum intellectuali natura est proprium
substantiarum intellectualium, quæ sunt a corporibus totaliter absolutæ 6, ac
proinde proprium i Cf p. 133-134.— ^ I, q. LXXXIV, a. 6 c. 3 Cf p. 135 sqq. Ibid. ad 3,
et q., a. 4 ad 4. Cf p. 136. Vid. s. Bo nav., In lib. II Sent., Dist. XXIV, p.
2, a. 11, q. 1 ad arg. Pp. 133-134. 6 I,
q. LV, a. 2 c. ;n ivnVii.' -j i""b'.LU|iur . Atqui id exp hcart
ncanif,in hypothesi idearum innatarum. Ergo idcas rerum Z i mnalas esse dici
nequit. Huic eliaml.rgumento mTtas ro i m itac' am in sevoSV^T' quodammnu° sit
yinPutis, indtc sirr;„t tf ftis n3an?mamUn1',|i|dne"C !.nnatæ, qU,'pPe auæ
al> actio"e rerum L in m^r InZ ° pendenti aliouid mere •'', £a^
rnlVr^Srerur^.e^i0,'. ? ^^JZ clnm fnM( r • fealitate nostræ cognitionis
dvemendum S' M argUme,nti vis ut clariu perspidatur S rerum tccitT 'nnataS vim
repræsentanui reali^ •eesse dUm.nh,r-Pn? n°"P°sse ex jPsa anima> cui
;™warum rcpræsen."?^ an'ma' CUmnon sit causa rerum, lis ideis rel i X 6SSC
neau" Nec iu™t asserere ^ru, lur nim rJ°l,rPra,eSentari'.auod a Deo aniraæ
'"">ctum nataMlJ • taS,.noSiræ eognitionis, cum sit aliquod
-liarSe^ei •;epeUtænCdaUSeastnatUra,i' ^ ^ V .III.-De variis rnodis, quibus
sysleroa idearuu, innalarun, a rnilosophls propugnatur iam
d^lve0s°sPmon-aUieiaCaS ^,^ admittunt. senlentiam "lamm svslcmT, 1
ex.Ponunt> unue diversa idearum in "t Plato in(mr J, nU" Ur'
quorum Precipui auctores !! o mlenelcres, et ex recentibus Carlesius Lcib s, ct
Rosm.nius. Secundum Plalonem anima , an, corpon uniretur, exlilit, atque rerum
ideTs' nuæ" n ubSn" reP,ra.f eutant etlunt aliquid e^, j! suosistens,
mtuila est; deinde in corpus, tamquam 'Wp. .42-143.-2 Cfp. 133. _J 1 2æ, q.
XXX, a. 4 ad 2. in carcerem, ob quædain crimina detrusa, omnium, quat ante
intuebatur, est oblita. ltaque anima in hac vita se cum fert obliteratas ideas,
quas in anteacta vita contem plata est ; sed quoniam res externæ ad illarum
idearun exemplar conditæ sunt, efficitur, ut anima per sensationes quibus res
externas percipit, illas ideas in se exsuscitet atque in præsentia
contempletur. Hinc scientia rerum quam in dies adipisci videmur, non nisi
rerniniscentia est ad quam rem Plato affert exemplum pueri, qui etsi nihi
umquam didicisset, ordine tamen, et sensim interrogatus etiam de difficillimis
problematibus protinus, et rect P™ eins ciuMuid nauq^tat. IJIud enim non al ud
innuif nisi n.lfl jL^ |um na.urali Kcdtate intelligendi præditnm fnisse Pua
i3r'r,offgan-on0il|I„,rainUS ^4™. respondere potes? inl erroganonibus, quæ
gradatim, et ordine fiunt '. Lliri! distinguunt in adventitias, factitias,
blZ\,Z' Anvent,t,a> e°rum sententia, sunt quæ animæ .rnaZ in r'°n-m0tUUm'
aui ex aPPuls rero, ex! oTideT '? °p,S.°.-gan,S excitantur ; cuiusmodi, e. ^tar
ntt (f-°tltaæ sunt 1uæ ab 'Psa mente eflf: ET.T. " un'one diversarum
idearum, e. ., idea hin XU,ide^,qnC,nn!Uæ SUUt' aUæ eim anim^S. canur, idest a
Deo,n aclu crealionis in anima infun !m M°nira .nanC Cartes''anorum opinionem
adnotamus am h.s duobus pronunlialis inniti, quorum nrimum^sf undnm anlma° in
aCtUali C°Snitione eonmi sPterm Ham' mem%lThJT rma essentia-> ''ta etiam
'cog"& nlbm \° Ct; alterum est> auod 'dearum intelle
onu„ma,0"g0faDf SenSUS CXP'icari neaQitAst P™" onun atum faisum est;
nam, ut suo loco ostendemus rti n araniCm0Sn,,,° ' -SCa eliam facu,tas
eognoscendræs: e n nfc "] Const!tuere "equit. Ex altcrS pronunliato
lem inlern non potest .deas esse innatas, sed polius
Vsihi\.,:rama1reatgn0SCendam e faCultatCm ' C 15. Præterea, Cartesius hac in re
ambiiruns est nm aodo pro ideis innatis uaturalem cognCend facuN n inn ! f/r-
7^ Ur. • At si Cartes,'us nomine ideana arum intelhgit ipsam naturalem
cognoscendi fa cisdtar? CUm C°n-SenmNihilomioui liccat nobis ab lin, e c '
n°mneS,. et '"diviso aclu, qU0 relalio inter subcctum, et prædicatum
perspicitur ; et hæc relatio hoc nodo persp.c. non potest, nisi una, eademque
sit faculM. quæ sub.ectum, et prædicatum cognoscit. Alqui in d,l! ',\°JUf C'?,
rosminiano subiectum et prædicatum t dnc.sas facultates perlinent, quia
subiectum est id, uod per sensat.onem exlrinsecus animæ advenit, præ M
anTm" "I e.Sl-,"Iea intellieinilis entis, quæ int/inseus an.mæ
est. Ig.tur lud.cu.m primitivum eo modo, quo uod Ju^,0^CXf)llcatllr' na,luræ
i,ulicii Pnnat. Accedit, uod hoc .ud.cium, secundum Rosminium, est simul com
nm,!"'' ' !nsl",c.tlvm; comparalivum, quia fit per o .unctionem .deæ
...natæ enlis cum elementis scnsili 1'taDem !. T ',quia iMa coniuneti !'•
actionem und "mnTi' -et naturalem ratio"is ctlicitur. At nos iam 2
repugnaJe comParati™m simul, et instinc.i 1 ' et originem cognitionis hu si cJu
monstrare student Priori, nempe ab ipsa ana'si cogitat.oms remotæ ab omni
experientia sive inlera, sive externa. 21 Ilorum Philosophorum systemata ortum
habuerunt iatfn,?,' W°t materiam et formam in quavis cognitione 3 • fater,a est
mutabilis, et contingens, atque ex ns.libus ob.ect.s sive internis, sive
externis advcnit; forUnrl ne,Ccssar,a > et universalis, atque exurgit ex
ipsa nciLr" •!?CU coSnoscentisIam cogitare, seu aliquid ncipere idem est,
ac ludicium de aliqua rc proferre; (icinrn?æC-g,Utl°nis t0tidem esse debent,
quot sun 1 ; ' n epecies. H.nc intellectui nostro insitæ sunt tn m;\ormæ> se
categoriac,quac sunt Unitas, multitutio iU! r ral,0n° amntitas iudiciorum,
prout uempe rifo? lll rUi IT™' aut P,ura' aut totum complectitur;
TuumaTa"' citmitat" ratione qualitatis, nempe reoit i 7 iL]!r aflu'mantia>
negatio quoad iudicia negan h \s c 7JT?11 1Udic,a indefinita> Substantia e
ac s, causa et cffectus, atquc reciprocatio, sive actio et passio ratione
relationis, idest ralione nexus inter subie ctum, et attributum, nempe,
categoria substantiæ et acci dentis quoad illa iudicia, in quibus attributum
absolute convenit subiecto ; categoria causæ et effectus quoad illa iudicia, in
quibus attributum sub aliqua conditione enun ciatur de subiecto; categoria
actionis et passionis quoad illa, in quibus plura attributa ita de subiecto
enunciantur, ut, uno eorum posito, cetera tollantur, et, cetens omni bus
sublatis, unum reliquum ponatur. Denique forma pos sibilitatis et impossibilitatis,
existentiæ et non-exxsientiæ, necessitatis et contingentiæ ratione modalitatis,
sive ratione modi, quo subiectum, et attributum ad mentem nostram referuntur,
nempe prout consensus inter subiectum, et at tributum a nobis concipitur vel ut
possibilis, vel ut rea lis; et rursus realis vel contingens, vel necessarius.
Itaque intellectus, applicans has formas sibi inhærentes elemen tis sensilibus,
obiecta suæ cognitionis sibi efformat. Quarc res a nobis cognoscuntur ope
iudiciorum syntheticorum c priori l. Hoc nomine ea iudicia designantur, m
quibus anima neque per experientiam cognoscit prædicatum, ne que in notione
subiecti illud detegit, sed haunt lpsum e? subiectivis formis, quæ sibi
inhærent, et quas ex quo dam instinctu materiæ suæ cogitationis, sive elementi
sensilibus applicat. 22. Philosophi, qui Kantium secuti sunt, eius system;
evolventes, docuerunt elementa cognitionis ab obiectis ex tra mentem positis
derivanda non esse. Quamvis auten ipsi sententiam suam diversis modis
explicent, tamen 11 eo consentiunt, quod animam esse suæ cognitionis uni cam
causam, immo suæ cognitionis obiecta sibi construe re statuunt. Inter eos
Fictheus eo devenit, ut animam e. vi sibi insita obiectum intelligibile, immo
seipsam crear putaret. i ludicium, cuius prædicatum pertinet ad essentiam
subiecti, ii ut resolventi notionem subiecti notio prædicati occurrat, diciti
analyticum. E contrario dicitur syntheticum illud iudicium, cuius a tributum
non pertinet ad essentiam subiecti, sed ei superaduii Istud dicitur
aposteriori, quia in eo adiungitur prædicatum subiec post cognitionem, quam
nobis experientia præbet. Illud dicitur priori, quia relatio inter prædicatum,
et subiectum ex ipsa W rum collatione patescit. Ut systematis Kantiani,
aliorumque Germaniæ Philosophorum, quatenus ad rem hanc spectant, abnormitas
evincatur^demonstramus sequentes propositiones 1\ Formæ, quas Kantius nativas
affectiones intellectus esse asserit, repugnantiam in se includunt, eiusque
doclrvna de xudicas syntheticis a priori naturæ mentis humanæ aperte
adversatur. Probatur prima pars. Huiusmodi formæ, Kantii iudicio, sunt notioncs
inanes, et omni obiecto expcrtes, ac proinde sunt notiones, pcr quas nihil
cognoscitur. Atqui nolio, qua nihil cognoscitur, non
est notio, sed potius negalio notionis, seu cognitionis. Ergo illæ formæ sunt
notiones non notiones. Præterea, singulæ illæ formæ, seu notioncs, una cum
notionibus sibi e diametro oppositis ponuntur, e. g., forma necessitatis, et
contingentiæ, possibihtatis, et impossibilitatis etc. Ergo si illac essent internæ
.p.tellectus affectiones, affcctiones secum pugnantes intellectui convenirent,
id quod valde absurdum est li. Irobatur secunda pars. Quodlibet iudicium a
priori lest analyticum, md.cium enim a priori efformari dicitur, cum altributum
detegitur ex subiecti analysi vel imme nale, vcl med.ate, nempe per
ratiocinationem. Synthetica autem mdicia sunt natura sua a posteriori, quia in
iudi cnssyntheticismensnonperspicit intrinsecum nexum in er prædicatum, et
subiectum, ac proinde statuit rela lonem inter utrumque subsidio experientiæ.
Quare si uoicia synthctica a priori existere possent, in iis mens eque per
analysim subiecti, neque per experientiam iu icaret, hoc est ex coeco instinctu
iudicia efformarel. At jui .(I naturæ mentis humanac adversatur \ Ergo doctri
unvnnlll^e,Ud/C,is syntheticis Priori naturæ mentis uimanæ adversatur. ionis
l>r°P' tja' NequU mima esse unica causa suæ C09ni ^objitur. Si anima esset
unica causa effectrix suarum liea mThUi,n'-t(M,C.nClUm f°ret sVitudines rerum
in eam equc a I,pbIS robUs, neque ab alia causa exteriori in ausV r,! VU,; T'
CUmolu? "tellectus Divinus sit ^sa reium, Ipse solus simihtudines omnium
rerum in x Cf p. 153. 204 IDEALOGIA se essentialiter habet. Ergo nequit dici
animam esse unicum principium efficiens suarum intellectionum, nisi ipsa unum,
idemque cum Intellectu Divino esse dicatur, id quod purus, putusque pantheismus
est. 26. 3a. Absurdum est animam cognoscere res ex eo, quod illas producit.
Probatur. Si mens res cognosceret ex eo, quod illas producit, sane produceret
res, quas non cognosceret se producere. Atqui hoc falsum est; nam, cum
quodlibet ens quidquid agit, agat secundum modum suæ naturæ, anima, utpote quæ
ratione pollet, nequit aliquid agere, nisi cognoscat illud, quod agit, eiusque
notitia, tamquam exemplari, ad agendum utatur. Ergo ipsa non novit res, quia
illas producit, sed res producit, quia illas novit. 27. 4a. Cognitio non potest
dicit ut ait Fichteus, creatio. Probatur.
Anima non cognoscit res ex eo, quod illas producit. Ergo cognitio non potest
dici creatio. Præterea, omnis actio cognitrix est perfectio subiecti
cognoscentis, non vero obiecti, quod cognoscitur ; e contrario, actio creatrix
transit in aliquid posilum extra subiectum creans, quia ipsa non est perfectio
subiecti creantis, sed obiecti quod creatur. 28. 5a. Maximum absurdum est id,
quod ait Fichteusy animam eo ipso, quod se cognoscit, seipsam creare. Probatur.
Si anima ex eo, quod se cognoscit, sibimetipsi existentiam largitur, sequitur
ipsam se cognoscere, ac proinde operari, antequam existat. lam si res ita se
haberet, cognitio sine subiecto cognoscente, et operatio sine subiecto operante
admittenda foret ; quæ profecto manifeste absurda sunt '. V. De Ontologismo, et priuium
quid hoc systema sit, exponitur 29. Ontologismus, ut alibi diximus 2, est illud
systema, in quo statuitur mentem nostram intueri, sive immediate cognoscere
Deum, et ab hac intuitione repetendam esse cognitionum nostrarum originem. i Cf
s. Aug., De immort., c. 8, n. 14. 2 Log.j 9q ! beisHhua'bu:„sr sær"t .
•> !L ! cnm intimior Deo Tauam "riM™,ebrancb,l"n> mens nostra,
quid in Deo est ^e, e 5 'f .s"> De™> et quidl sive exemplaria omnium
rJ,U° aM '" De0 sunt eæ, lclligat ex eo auoS „"?' setIu'lur' u' ipsa
res in. luit Deum s° „£ ess &?&",D De° vide' Hinc stæssc
inteH.gibifa, " si "„ ifo 17' ce,era1ue omn tum quia bufus ew non
potest.neque vcr teE [„'% 0n'm Deum mens Per Eum'cognoscere potest Cm rerUm in
Eo> ^ SirtSf^? r''4a'e' Præsertim '"•• • lib. II, t. II. tn Dyna., c.'
IV),. „_ p ^^ ^ ^ ^ ? ^ Declaratur, quid sibi velit cognitio immediata, seu
intuilio Dei 34 Goo-nitio immediata, et directa, prout hic accipitur, est ea
qua res cognoscitur in seipsa. Cognoscitur autem aliqua res in seipsa, cum
cognoscitur vel per suam essentiam, quæ, prout cognoscibilis est, præsens est
potentiæ co^n tnci, vel per eius propriam simihtudinem, a qua facultas
cognitrix informatur \ E. g., immed.ata est cognitio lucis, quæ præsens est
oculo 3; ltem lapis a visu immediate cognosci dicitur, quia hæc cognitio nt per
similitudinem lapidis in oculo immediate denvatam ab ipso laoide ila ut ipsa
species lapidis resultet tn ocuto . 35 Huiusmodi cognitio ab ea distinguitur,
qua res non in se ipsa, sed in suo sirnili, sive in sua imagine cognoscitur 6,
ita ut cc similitudo rei cognitæ non accipiatur immediate ab ipsa re cognita,
sed a re aliqaa, in qua remiltat ^ E g., huiusmodi est cogmtio ahcuius homims,
qui iu aliquo speculo videtur, quia in hac visione cc non s\milituaoqhominis
immediate est in oculc, sed .m^tudo hominis resultantis in speculo 8 ;
quapropter imme diata est cognitio imaginis hominis, at non cognitio ipsius
hominis, quem illa repræsentat. m 36 Iam, cum intellectus aliquam rem immediate
co^noscit ipsam intueri, idest videre dicitur, atque ipsa lmmediata cognitio
intellectiva a visione sensitiva nomen accipiens, intuitus, seu visio
nuncupatur . 37 Ex his plane colligitur ad visionem intellectivam duo
potissimum expostulari : 1°, ut principium per quo res cognoscitur, sit
proprium ipsius rei, ahoquin, resnor in se ipsa, ac proinde non immed.ate
cognosceretur, l, ui habeafcum re perfectam similitudinem, et conven.entiair
"T^f s. Thom., I, q. XII, a. 9 c. Ibid., q. LVI, a. 3 c. 3 Jn Epist. I ad Cor. e. XIII, lect. IV.
4 Jhid s I a. LVI, loc. cit. T.TTT o llid q. XII, a. 9 c. Cf etiam Qq. dispp.,
De Ver., q. VIII a. 3 ad 17, et in lib. II Sent. Dist. XXIII, q. II, a. 1 sol.
"' I, q. lVi, loc. cit. 3 in Ep. I ad Cor., loc. cit. Allff„ctinus o
Contr. Gent., lib. III, c. 83. Visus, inqmt s AugustiDnj ad utrumque referendus
est, idest et ad oculos et d mentem Lib De videndo Deo, seu Epist. GXLVII ad
Pauhnam, c IX, n. lin esse cognoscibili, alioquin non diceretur, ut fnquit
|4qmnas, res illa immediate videri, sed quædam umbra 38. lamvero, cum de
visione Dei agitur, huiusmodi prinpium nequ.t esse al.quid exlra Deum, nam
quidquid st extra Deum, mfin.te distat a Deo, ac proinde esse ne[fuit
princ.p.um, ex quo Deus in seipso intelliffilur. Oua)ropter princ.pmm, ex quo
visio intellectiva Dei obtineri ►otest non aliud esse quit, nisi aliquid, quod
in ipso Deo •t, et quoniam quidquid in Deo est, unum, idemque cum im essenlia
re ipsa est, principium, ex quo visio intel;ct.va Dei efiic.tur, est ipsa Eius Essentia,
quæ, ut ila camus, yices gerit formæ intelligibilis, ex qua intelleim fit actu
mtelligens . Deus, inquit s. Thomas, non nmediate
v.deretur, nisi Essentia sua coniungeretur in'lleclu. • . Itaque visio
intellectiva Dei est illa aua eus per principium, quod non sit aliud ab ipso
Deo, inlligitur uti est in seipso. ! 39. Ontologi pertendunt principium
immediatæ visios Dc. non esse ipsam Divinam essentiam, sed vel Esse ^ri,; U!
aiU,U, U,baghs ' eius(ue asscc,æ t ^eas ne ssar.as, atque absolutas, prout
concretæ, et reales sunt ueo, quæ non al.ud sunl, nisi ipsa Attributa Dei. At
Du^US,l!nrSe,,DS0SrP^CissiniUS est> EiuS(lue natnræ pugnat distmclio mter
Essentiam, el Esse, vel Atlri ila. Quare si Deus cognosci dicatur ex rerum
finitarum tari F?n,0nHe' P?'CSt V^ per divisos conceptus coan Eius Lssent.a,
vel Esse vel Altributa; at sl imme L Tr1^ 'iCqU,t co^nosci Ess^ vel aliquod
Attri• :!" E™Esscntia simul cognoscatur. Itaque vel lo,, t° m?d.° m Se,PS0
el immediate cognoscitur, vel •m n r1 CS\n SC' ac secundu™ ipsam Essenliam.
Ceum etiamsi d.st.nct.o, quam Ontologi comminiscuntur, ei D i Essent.am atque
Esse, vel Attributa admitta > tornen, uti cx d.cend.s patebit, semper
impossibile .ti ^r&rnnatUrahtCr iaSSCqui >'isionemDei,sive EstVibuta i
Dei. Pnnc,p,um hu,us
vis,'onis, sive Esse, vel Quodlib. VII, q. i, a. 1 c. !bidlbi IV.Sent:>,Dist
XLI> qII, a. 1 sol. " hæc. non potestXd „a_ iral, er cognoscere, ut.
est in seipso, seu vidcre Alnni ama enin"ar De • eSCedit im!?'nalitatem
cuiuslibef ubant.æ inlell.gentis, nam a Deo, cuius proprium est esse m esse
subnstens, quaccumque compositio, et /'as removenda est ; creaturæ
auten/inlelligentfs tam mpos tio,nenm,rn,aleS' T ^•'.?S.S ™ seThahZZ
COnip!eCtUnlUr> 1u'' • "ntel,ig-e, sivc vidcre llfct,fm°tter SeCUU^a
parS: ?emDe sPeciatim quoad i„"eclum bumanum. Jam a nobis ostensum est
coenitinm m.ellcct.vam,n homine effici non posse, nM W. ndTm Trn-6^1' ^T ^™0
COnfcrat an ^ "ffi^dam, proindeque ob,cclum proprium intellectui hu m esse
non possc intelligibil/purum, sed in.el ligibiL Mraclum a phanlasmatibus 2.
Hinc, cum de substan-,.vePrU,'daln,hUSaliauid inteIliSimu> necesse babcmus I
mi? TnTla COrPorum' licct ipsarum non sint masmata . Hoc præmisso, e„
argumentum • Intel ner"mrS "n °ei COSnitionem assurgere Z po, sDC,ri
0UaS sPcclessve simililudines, quas ex re d Sbrr'PUit /tqUi C°Snoscere De™ Pcr
huiusn ufi nu -P SUS dlversum est, ac lllum per se ipræsen,! " sc>
cnSnoscere; nam nulla specics creata -, eM,,°'CStJ)eUm ' Uti est in seEW°
''npo^i", P '" el,cct>"n.humanum naturali.er Deum videre . a.
iræterca, anima huraana ad Divinam visionem e Cf s. Thom., I, q. XII, a. 4 c.
J- Dynam., c. iV, a. 2, p. 132-135. IqLXXXIV,
a. 7 ad 3. I, q. XII, a. li c. rnuos. Curist. Compend. I.' .. levari non
potest, nisi toto conamine intcllectus in Deurr intendens a ceteris potentiis,
ac proinde a potentiis sen sitivis omnino se abstrahat ; nam, cum Deus sit
intelh gibile vehementissimum, non potest noster intellectus Eun videre, nisi
tota eius intentio in hanc visionem colligatur et, quemadmodum alibi ostendimus
3, quoties anima to tam vim suam in exercitatione alicuius potentiæ mtendit
nullam aliam potentiam exercere valet. Atqui in hoc stati vitæ, in quo anima
cum corpore coniungitur, naturahte: ' fieri nequit, ut anima a potentiis
sensitivis omnino se abs trahat. Ergo fieri non potest, ut anima naturaliter
Deuu videat4. 46. Denique, si anima humana gauderet llja perenni vi sione, quam
Ontologi comminiscuntur, destitui non pos set conscientia huius facti interni.
Atqui nemo consciu sibi est se hac visione gaudere. Ergo hæc, quam Ontc logi
comminiscuntur, visio inter calentis suæ phantasia figmenta amandanda est. Cui
argumento maius robur ac cedit ex eo, quod, secundum Ontologos, perennis visi
Dei est principium, ex quo cognitionem rerum mens nc stra adipiscitur. lamvero
illa visio principium nostrarui cognitionum esse non posset, nisi mens eius
conscia e set, quia origo cognitionis per principium menti ignotui explicari
non potest. VIII. Nonnulla consectaria Ontologisuii exponuntur 47. Ontologismus
ex eo etiam reiiciendus est, quod r; tionalismo, et pantheismo latissimam viam
sternit. Atque in primis, rationalismus est illud systema, m qi dogmata
Religionis Christianæ ita explicantur, ut nc aliud exhibeant, quam quod intra
rationis hmites mcli ditur. lam ex principio visionis Dei facile inferri pote
Deum in se videri non posse, nisi videatur eo modo, qi reapse subsistit, ac
proinde veritates, quæ mysteria d cuntur, e. g., Trinitas Divinarum Personarum,
huiusmoesse, ut in Deo, æque ac veritates naturales, a mente n stra naturaliter
cognoscantur 5. i Qq. dispp., De Ver., q. XIII, a. 3 c. 2 Ibid. ^ Dynam., c. I, a. 9, p. 10o.
Cf s. Aug., De Gen. ad litt., lib. XII, c. 27, n. 55. 5 Summa Bonitas Dei,
inquit s. Thomas, secundum modura, q • 4£,Prat'.lerea ' naluralem ordinem cum
supernalurali m Onlologismo confundi ostendi.ur eliam eTeo ouod l T s.o De.
natural.s est inlelleclui creato, ipsi opus^non ->sset lumtne glonæ, ut ad
bealificam visionem per/en at • riiTft . I'S'° b^lifica "°n esset
Pernaluralis. Nos c.mus Onlologos, hunc errorem eflWere volontes staucre
discnmen inter visionen, beatificam, e visionem laluralem De.,n eo, quod per
hanc obscure, per illam bus Z illf °SC,lUr; lei '" e°' ouod Per anc m ino
il)us, per illam maionbus gradibus Deus videlur • vel SE5 'ne°' flU0(1 in
visione beatifica Essentia Dei .(lctur, in v.sione autem naturali limites
intellectus creati causa sunt, cur Esse, vel Atlributa Dei, non autem ius
Essonlia videalur. 49. At ipsi ludunl vcrbis. Etenim quoad primum, vio ahcuius
obiecti consislit in immediata eius cognitio Vrir^ '" S'" • n S.nt.,
Dist. X.XIII, Ql. Hspp., De Ver., q. XVIII, a. 1 c.- intellectus creati
impedirent, quominus ipse in visione naturali Dei essentiam videret,
intellectus creatus ne per visionem quidem beatificam Essentiam Dei videre
posset, quia ipse, cum ad visionem beatificam extollitur, limitibus circumscribi
non desinit. 50. Præterea, ontologismum cum pantheismo arcte colligari
evincitur hoc argumento1: Res sunt intelligibiles, quatenus sunt; quapropter
quidquid habet esse m se, intelligibile etiam in se est, et quidquid non est
lntelhgibile in se, non habet esse in se. Atqui secundum Ontologos res non sunt
intelligibiles in se, sed dumtaxat in Deo. Ergo earum esse non est ipsis
proprium, sed, uti Pantheistæ dicunt, est quædam derivatio ipsius Esse Dei.
Quod argumentum ut clarius perspiciatur, advertendum est res creatas, etsi a
Deo pendeant, tamen propria realitate gaudere; quapropter illæ, si
considerentur prout creatæ sunt, ab Eoque pendent, nonnisi per actum creativum
Dei intelligi possunt; sed si considerentur in realitate sui propria, et distincta
a Deo, dicendæ sunt intelligibiles ln se, et non in Deo; quod si negetur, uti
revera ab Ontologis negatur, ipsas propria realitate destitui dicendum est, ac
proinde pantheismus ab Ontologis vitari nequit. IX. Argumenta Ontologorum
disiiciuntur 51. Obiic. 1° Intelligibile est obiectum proprium intel Giobertius
in sua epistola, cuius titulus, Demofilo alla giovine Italia, sine ulla ambage
professus est pantheismum esse unicam solidam philosophiam. 2 Gum hæc sint
ontologismi consectaria, Sanctæ Romanæ, et Universalis Inquisitionis
Congregatio (die 18 sept. 1861) declaravit tuto tradi non posse hanc
propositionem, Immediata Dei cognitio, habitualis saltem, intellectui humano
essentialis est, ita ut sine ea nihil
cognoscerepossit;siquidemestipsumlumenintellectuale;etNea\)o\itMi&e
Regionis Episcopi in Epistola collectiva ad Clerum sæcularem, et regularem
suarum Dioecesium (die 29 iun. 1862), illius definitionis mentione facta, inter
absurda philosophica systemata Ontologismum numerarunt, atque ab hoc cavendum
præceperunt. Cf La Scienza e La Fede, vol. XLVI in
Append. p. XXXII. Nullum autem esse dubium, quin illud S. Congregationis
decretum ad ontologismum spectet,ostendit P. Thomas Zigliara, 0. P. (a Leone
PP. XIII S. R. E. Cardinaliurn in Collegio adlectus), Della luce intellettuale
e dell' ontologismo, t. II, lib. III, Della luce oggettiva, part. II, c. XI, p.
148 sqq, Roma leclus humani. Atqui Deus est sumræ intelligibilis. Ergo Dcus est
obiectum maxime proprium intellectus, ac prol inde immediate ab eo cognoscitur.
52. Resp. Dist.
min., Dous est summe intelligibilis in | se, conc. mm., quoad nos, neg. min.
Neg. cons. Et sane, res sunt intelligibiles in se, quatenus sunt immateriales ,
ac proinde Deus, quippe qui est maxime immaterialis, t est etiam in se maxime
intelligibilis. At vero intelligibii litas rerum, si referatur ad intellectum,
qui eas intelli git, spectanda est non ex natura rerum, sed ex natura, ipsius
intellectus; nam, ut sæpe diximus, modus cogno scendi sequitur naturam
cognoscentis. Atqui immaterialitas jDei est extra genus cuiuscumque intellectus
creati. Ergo, etsi Deus sit in se maxime intelligibilis, tamen huiusmodi |non
est, si ad intellectum nostrum referatur2. 53. Obiic. 2° Deus arctissimo
vinculo cum mente hujmana coniungitur. Atqui hæc coniunctio necessario
effijcere debet, ut mens humana Deum immediate cognoscat. ! Ergo. 54. Resp.
Dist. mai., ut causa cum effectu, nempe, ut sustinens eam in esse3, conc. mai.;
ut obiectum immediatum polentiæ cognoscitivæ, neg. mai, neg. min. Neg. cons. Re
sane vera, satis non est rem esse menti humanæ præsentem, ut illam cognoscat,
sed oportet illam esse præsentem tamquam obiectum cognoscibile, quod mentcm ad
sui cognitionem determinat. Hoc autem modo Deum esse naturaliter præsenlem
nostræ menti haud possibile est, quia Jpse vires intellectus creati infinite
supergredilur4. 55. Obiic. 3° Deus est illa Veritas, per quam ceteræ vcritates
cognoscuntur. Atqui veritas huiusmodi irametliate cognoscitur. Ergo. 56. Resp.
Dist. mai., ita ut sit causa, propter quam alia cognoscimus, conc. mai., ita ut
sit obiectum, quo co£ito, aha cognoscimus, neg. mai.; sub eadem distinctioe
conc. et neg. min. Neg. cons. 5
Enimvero res per Deum | Cf Dynam., c. IV, a. I, p. 131. Cf s. Bonav., /n lib. I
Sent., Dist. III, p. I, a. 1, q. 1 resol. ^ Qq. dispp., De Ver., q. VIII, a. 3
ad 7. Cf s. Bonav., In lib. II Sent., Dist. III, p. 2, a. 11, q. 2 ad 3 ;
iJist. x, a. I, q. 1 ad arg. Propter Deum, ad rem inquit s. Thomas, alia
cognoscuntur, IDEALOGIA a nobis intelliguntur, turn quia Deus res ita condidit,
ut sint potentia intelligibiles, tum quia nobis largitur, et in nobis conservat
lumen, quo res intelligimus f. At vero inde haud inferri potest nihil a nobis
cognosci posse, nisi primo Deum cognoscamus. Etenim, sicut res a nobis
cognoscuntur, quin prius cognoscamus lumen ipsius nostri intellectus, quod est
causa proxima nostræ cognitionis, ita necesse non est primo cognosei Deum, qui
est causa prima nostræ cognitionis, ut ceteræ res cognosci possint2. 57. Inst. Secundum s. Augustinum, omnia in luce Primæ
Veritatis cognoscimus et per Eam de omnibus iudicamus. Ergo. 58. Resp. Hunc s.
Augustini locum iam s. Thomas explicavit. Dicendum, ait, quod omnia dicimur in
Deo videre, et secundum Ipsum de omnibus iudicare; in quantum per
participationem sui luminis omnia cognoscimus, et diiudicamus. Nam et ipsum
lumen naturale rationis participatio quædam est Divini Luminis; sicut etiam
omnia sensibilia dicimus videre, et iudicare in sole, idest per lumen solis. Sicut
ergo ad videndum aliquid sensibiliter non est necesse, quod videatur substantia
solis, ita ad videndum aliquid intelligibiliter, non est necessarium, quod
videatur Essentia Dei 3 . 59. Obiic. 4° Plerique illorum, qui denegant menli
nostræ immediatam cognitionem Dei, docent notionem Dei ex rebus crealis in
nobis gigni. Atqui haud fieri potest, ut notio Dei a rebus creatis
suppeditetur. Ergo immediata cognitio Dei admittenda est. 60. Resp. Neg. min.
Et sane, non solum omnes Scholæ Doctores, sed etiam omnes Patres aperte
docuerunt non sicut propter primum cognitum, sed propter primam cognoscitivæ
virtutis causam ; I, q. LXXXVIII, a. 3 ad 2. t Cf Dynam., c. IV, a. 5, p. 142.
2 I, q. LXXXVIII, a. 3 ad 1. — 3 I, q. XII, a. 11 ad 3. 4 Nos, ait s. Thomas,
aliter Deum notum habere non possumus, nisi ex creaturis ad Eius notitiam
veniamus (Qq. dispp., De Ver., q. XVIII, a. 2 c; cf. ibid., a. 1 ad 1, et I, q.
LXXXVIII, a. 3 c). Atque FIDANZA : Cognoscere Deum per creaturam est elevari a
cognitione creaturæ ad cognitionem Dei, quasi per scalam mediam. et hoc est
proprie Yiatorum ; In lib. I Sent., Dist. III, p. I, a. 1, jmentem nostram a
rebus creatis ad cognitionem Dei ascenjtJerc. Satis sit hæc pauca s. Augustini
afferre: In simijlitudine sua Deum quæramus, in imagine sua Creatorem
agnoscamus . Quomodo autem ex creaturis in cognitiofæm Dei deveniamus, in
Theodicea explicabimus. X. De Psychologismo rationali 61. Hoc nomine appellatur
illud systema, quo statuitur Dngincm nostræ cognitionis ita progredi, ut primo
in:ipiat in sensu, secundo perficiatur in intellectu 2 . 62. Hoc systema ab
Aristotele profectum omnes Schoastici post s. Augustinum 3 propugnarunt .
Quomodo au:em nostra cognitio oriatur a sensibus, et perficiatur in ntellectu,
lam explicatum, et ostensum a nobis est in Pynamilogia 5. Hic dumtaxat in
memoriam revocantes ea, jjuæ ibi statuimus, demonstramus cognitionis nostræ
raliionem non nisi in hoc systemate reddi posse. ^ 63. Origo nostræ cognitionis
non nisi secundum ^cholaslicorum systema explicari potest. Probatur. \\\u&
solum systema ad explicandam originem jognitionis intellectivæ est
accommodatum, quod responlet naturæ nostri intellcctus; nam oportet, quod
cogniio fiat secundum modum cognoscentis 6 . Atqui intelectus humanus est eius
naturæ, ut ad primas cognitioics rerum pervenire non possit, nisi dicalur ipsas
oriri i sensu, et per vim intellectivam perfici. Ergo origo inellectivæ
cognitionis non nisi secundum systema psychoogicum rationale explicari potest.
. 5 resol. Quam ob rationem Concilium Vaticanum hanc edidit d§nitionem: Si quis
dixerit, Deum unum, et verum, Creatorem et lominum nostrum, per ea, quæ facta
sunt, naturali rationis humtæ lumine certo cognosci non posse, anathema sit ;
Const. doqmat. e bide cathol., Sess. III, Canones, n. I, S I. IJn loan. Evang. c. F, tract.
23, n. 10. Cf De
Civ. Dei, lib. VIII, .; Confest.. lib. VII, c. 17, n. 23 et alibi passim. Qq.
dispp., De Ver., q. I, a. 11 c. Cf Enchir. ad Laurent., c. IV, n. 1; De vid.
Deo, c. 17, n. 42, 4; ^ Genad litt-> ljl>V, c. 12, n. 28; De Imm. an., c.
10, n. 17. M, præ ceteris, s. Bonav., De septem itin. æt., Itin. 3, d. 4,
/>c septem donis Spiritus S., De dono intell., c. I. Cf c. IV, passim. 8
I>i Ub. I Sent., Dist. XXVIII, q. I, a. 2 sol. 216 IDEALOGIA 64. Minor huius
argumenti probatur hoc modo: 1° Na-\ tura nostri intellectus expostulat, ut
eius cognitio a sen-j sibus oriatur . Enimvero unicum est in homine princi-j
pium, quod res sentit, atque intelligit, quia, ut in A/U/iro-l pologia
ostendemus, una, eademque est anima, quæ si-l mul sentiens est, atque intelligens,
idest, quæ est sub-l iectum intellectus, et simul cum corpore subiectum fa- 1
cultatum sentientium. Ex hac coniunctione facultatum intelligentium cum
senlientibus efficitur, ut obiectum nostro intellectui proportionatum non sit
intelligibile purum. sed essentia rerum, quæ esse suum in materia habent5. Atqui res, quæ habent esse suum in materia, non nisi
per potentias sentientes apprehendi possunt. Ergo nalura intellectus humani
expostulat, ut nequeat assequi obiectuno sibi proprium, nisi cognitioni eius
cognitio sensitiva præcedat . 2° Natura intellectus etiam expostulat, ut eius
cognitio, quæ a sensu initium sumit, ab ipsa vi intellectiva perficiatur. Re
quidem vera, etsi intellectus cum corpore coniungatur, tamen ipse actiones suas
sine ullo corporeo organo exercet 5. Ex hoc consequitur proportionem intei
intellectum, atque obiectum eius proprium intercederf non posse, nisi
statuatur, essentiam rerum apprehendi afc intellectu, non prout est in hac, vel
in illa re singulari. quemadmodum apprehenditur a sensibus, sed altiori modo,
nempe prout abstrahitur a quavis conditione materiali; ac proinde sub
universali ratione consideratur 6. Atqui. si res ita se habet, agnoscenda est
in mente aliqua virtus superioris ordinis, quam sensus, ut per ipsam cognitic
sibi propria perficiatur, eaque est, quæ nomine intellectus agentis designatur
7. Ergo. 65. Obiic. 1° Intellectus, antequam efformet speciem iatelligibilem,
aut cognoscit rem, quam species repræsentat, aut non cognoscit. Atqui primum
dici nequit, quia Naturale est homini, ut per sensibilia ad intelligibilia
veniat quia omnis nostra cognitio a sensu initium sumit ; I, q. I, a. 9 c 2 Cf
Dynam., c. IV, a. 2, p. 134. 5 Ibid. Cf ibid., p. 132-135, ubi idipsum ex
testimonio experientiæ etiarr comprobavimus. s Cf ibid., a. 1, p. 131-132, et
a. 12, p. 161-163. ispecies rerum haberet, antequam ipsas efformaret ; nec
secundum, quia intellectus nequit in seipso effingere species lllarum rerum,
quas non cognoscit. Ergo origo nostræ cogmtionis secundum systema
Scholasticorum exniicari nequit f. ' 66. Resp. Dist. secundam partem maioris,
aut non co~ \gnoscit, ita tamen, ut obiectum polentia intelligibile sit ipsi
præsens, conc, secus, neg. Dist. item secundam partem minoris, nequit effingere
etc, si obiectum potentia inteiiigibile non sit lpsi præsens, conc, secus, neg.
Neg cons IKe qu.dem vera intellectus agens efformat speciem intelJligibilem per
abstractionem, quam naturaliter exercet sujper phantasma, et hæc abstractio non
est ea, quæ dici\tur per modum compositionis, et divisionis, sed ea, quæ
lieitur per modum simplicitatis z ; quapropter, uti' alibi idnotavimus 3,
intellectus agens ad efformandam speciem mtelhgibilem expostulat, ut phantasma,
quod est obiectum Mentia intelligibile, præsens ipsi sit, sed non ut ideam 'ius
lam in se habeat. Nemini autem negotium facessat, Jbanlasma, quod ad facultatem
sensitivam pertinet, esse iræsens intellectui. Nam, quamvis animæ facultates
in-' er sese dislinguantur; tamen una est earum radix, unum-' [ue eo, quo
explicavimus, modo, est ipsarum subiectum •empc essentia anime 4; ita ut non
facultas, sed anima er lacultatem aliquid agere proprie dicatur \ Hinc fit, il
anima, cum per facultatem sensitivam phantasma perPit, per intellectum agentem
exerit actionem abstractiam m phantasma. 67. Obiic. 2° Intellectus essentiam
communem ab indiiau,s abstrahere non potest, nisi prius nota communi, e idea
gcnerah potiatur. Ergo lantum abest, ut abstra"o^eilormet ideam
universalem, ut potius. ipsam expo 68. Resp. Neg. ant. Etenim abstractio non
expostulat, mCnAdir r/T phil'f usum Semin' Lu^ MetP™ ™ b e "' a'JFere
eodem argumento usus est ctiam Rosmi • w ; ' sczIv e- ! a16' et ?. MDynam., c. IV, a. 5, p.
140.-3 lhid p. 140 >id. Dynam., c. I, a. 4, p. 101. Cf s. Thom. Qq. dispp.,
De Ver., q. X, a. 9 c. 6 Cf Rosmin., loc. cit. ut anima præviam cognitionem
notæ communis, sive no| lam communem cognitam tamquam communem habeat; \ sed
tantum ut animæ obviam fiat obiectum, ex quo inj teliectus aliquid, quod
pluribus commune sit, seiungere i potest. Hoc obiectum est phantasma, in
quo essentia, quæ i pluribus communis sit, latet. Quocirca abstractioni, ut j
diximus, præcedit cognitio concreta, quæ essentiam una i cum conditionibus
individuantibus exhibet. Intellectus autem ope abstractionis sibi conficit
notionem illius essen| tiæ exemptæ a conditionibus individuantibus; deinde re1
flectens super hanc notionem apponit illi notara communem, sive rationem
universalitatis . Cognitio igitur notæ communis efficitur ex reflexione super
notionem, quam intellectus ope abstraclionis adipiscitur; tantum abest, ut \
abstractioni præcedat 2. CAPVT II. De connexione sermonis cum cogitatione I. De
signis in universum 69. Antequam controversias, quæ circa connexionem sermonis
cum cogitatione agitatæ sunt, dirimamus, nonnihil de signis in universum, et
maxime de natura signorum, quæ verba appellantur, in antecessum dicamus o
portet. Signum, ut s. Augustini verbis utamur, a est res, præter speciem, quam
ingerjt, sensibus, aliqu^MjEaciens \ in cogitationem venire^/Ex quo intellrgifur
trm m quo libet signo nobis occurrere, scilicet unum, quod aliquic significat,
aiterum, quod per ipsum significatur, et quod dam principium, cuius vi e
cognitione unius ad cogm tionem alterius progredimur. E. g., in fumo, prout es
signum ignis, tria occurrunt, nempe fumus, qui lgnen significat, ignis, qui a
fumo significatur, et relatio intei utrumque, quatenus fumus ab igne
producitur. 70. Si signum non ex voluntate hominum, sed natur; sua ad rem, quam
significat, refertur, dicitur natwrale e. g., fumus est signum naturale ignis;
sin ad rem signi i Cf s. Thom., I, q. LXXXV, a. 2 ad 2. ^ Alias obiectiones
exsolvimus p. 141-142. 5 De Doctr. Christ., lib. II, c. 2, n. 1. icatam
referatur ex hominum instituto, dicitur arbitratium; e. g., oliva est signum
arbitrarium pacis 71. lam homo quibusdam signis, seu mediis sensilibus
|.pushabct, ut conceptiones suas extrinsecus proferre posjit.Wam 1 lpse est
animal naturaliter politicum et ociale, ac proinde necesse est quod
conceptiones unius fominis mnotescerent aliis . 2 Mcdia, quibus homines -pus
nabent ad cogmtiones sibi invicem manifestandas, ensibiha esse debent, quia
ipsi non ex spiritu tantum ed ex corpore etiam constant 2. 72. lam signa,
quibus homines cogitationes suas cum ttns communicarc valent, sunt gestus,
voces, et scriptura. fcestus sunt motus corporis ad animi cogitationes
patefaktndas comparati^Sl ex instinctu naturæ fiant, sunt naUrales; sin ex
conventione inter homines facta confWan\ ar, artificiosi. E. g., oculi torvi
naturaliter significant r^^nem, et motus corporis, quibus surdo-muti deW
h....,0(ue,æ supplcnt, cogitationes ipsorum artificiose 73. Gcslibus longe
præstantiora sunt verba. Verbum ;lZX,'f S /?"S a?ticulatus ad animi
cogitalioncs expriScoS, Z L0CUtl° au'em.in verboru,, seu vocum 8 Thom^'n Si
bel1^. unt Z " ^er,-U ' "• '• . WSCSSn.C^dr.e didtUr Ctiam ".
1ia deno.a, rongUur?a s,TiZ"a ?r ' "T V°CibuS "P'entanlur. Uinc
diees quæ i I \Z,.„,deoral>htm> a™ significantur ideæ, non voro N verlrdrbcu7uPirnS,Cntant-.HaCC
ScriD,ura inogr.phic. potcst a.quainnoce^rner?0 f ' '"'"Z"' VcI
sm6°ea, cuiusmodi
est,uuainnocentiapercolumbam,velferacitasperspicamsi,-ni.icatur. Utrum yoces
sint SIGNA NATVRALIA, AN ARBITRARIA [sive NON-NATVRALIA (Grice)]. Nonnulli
veteres, inter quos Heraclitus , docuerunt verbis sive ore prolatis, sive
scriptis ex natura sua, non ex instituto hominum res significari. Aristoteles 2
oppositam sententiam tradidit, quam Scholastici 3 post Ecclesiæ Scriptores
tuiti sunt. Scilicet nomina, secundum ipsos. conceptionibus nostræ mentis
oportet quidem ut respondeant. Elenim, quoniam ratio, quam significat nomen.
est conceptio intellectus de re significata per nomen 4 . illud consequitur,
quod intellectus . . ., secundum quod apprehendit res, ita significat per
nomina 5 . At vero. quoniam ex variis nominibus iliud eligere nobis licet quod
cum ea ratione, qua rem apprehendimus, magi Lu&d- Batav. 2 ; . I \ tr'
Chrtst- Iibn, c. 2, n. 3. alesc 2 Phtl°8' "" U$ premiers ohJets ds
connaissances mo adhibetur, nisi ad significandum verbura interius, quod ræns,
rem concipiendo, efformat f, et non donatur nomine verbi, nisi propter
relationem, quam cum verbo in teriori habet2. 79. 2° Nomina, uti iam a nobis
ostensum est, non significant res ex natura sua, sed ex arbitrio hominum : unde
nominibus præcedere debet cognitio rerum cum ir. illis, qui nomina rebus
imponunt, tum in iis, qui ea audiunt; in illis quidem, quia homines, nomina
rebus imponere volentes, non aliter possunt denominare res, quair prout ipsas
cognoscunt; in istis autem, quia ii, qui no minarebus iam imposita audiunt, non
possunt scire, quasnam res ipsa significent, nisi cognoscant conceptus, quoi
eorum auctores significare voluerunt. Apposite
s. Augu stinus: Magis signum, re cognita, quam, signo dato ipsa res discitur3 .
Atqui si cognitio rerum, quas no mina significant, expostulatur cum in illis,
qui nomini instituunt, tum in illis, qui ea audiunt, profecto ea noi sunt
necessaria ad cognitionem rerum adquirendam, alio quin dicendum foret causam,
sive conditionem sine qui non, posteriorem esse effectu ; quod perabsurdum est
Ergo. . Mens humana ad cognitionem reflexam e/ ficiendam non indiget sermone,
aut alio quovis societati subsidio . Hæc propositio statuitur contra Rosminium
5, Giober tium 6, P. Romanura e S. I. \ et Scriptores Lovanienses Hi docent
mentem nostram non posse reflecti super co gnitionem rerum iam sibi comparatam,
nisi a sermon ne,0"g^ quidem, ac exquisitæ lstitutioms sociahs præsidio,
sed ope Divinæ Revelationis consequi otest Annales de phil. chret., Ser. 4, t.
VII, et t. VIII. La tradizione, e i Semipelagiani della Filosofia, c. I, ret \
r " IV. De origine sermonis 84. Coronidis loco quæstionem de origine
sermonis inuere par est \ 1° Sententia Rationalistarum, qui contendunt sermonem
ijiomine sponte sua exsurrexisse 6, omnino absurda est, on d,parUiSs T^l™' Sw V
°Pinion dli Dr Stuard etc, RefuIkI:-, 5 • Non Dauca exer"pla surdo-mutorum
hoc com m s VX^ Tdt Deerandum {De V °duc°™ • Pars v> linxviu. "æc
°uæst,Vum altera> auam antea eicussimus, logieam Z riT nT' ETim hæC duo'
nemPe hominum TnTeK • hominP quodammodo sine sermonis auxilio evolvi, simulum
on ?°n P°SSe viribus Suis conficere illuu imi egre Hanc in,pT Serm°niS inventione™>
secumnon pugnant. ten^, c! xT nUpernme ProPu?u^it Renan, m V origine primo,
quia si sermo sponte sua in nobis oriretur, noil tantum unius labii omnes
homines essent, sed ne ulla qui } dein disciplina indigerent ad sermocinandum,
qua reaps indisere nemo diffitetur; secundo, quia firmurn ratumqu est hominem
non Ioqui, priusquam alioS loquentes audiat 2° Non desunt Philosophi catholici,
qui docenl homine sermocinandi virtute a Deo donatos et ratione utentes
potuisse per se invenire sermonem. Ipsi autem sententiaii suam adstruunt hoc
modo: In primis dubitari nequit, qui aliquis homo rem sensibus occurrentem
quodam signo alii communicare potuerit. Gum autem innata vi loquendi præ ditus
esset, nihil repugnat eum protulisse sonum syllabi quibusdam distinctum : iam
ipse, cum ratione polleret potuit determinare illum sonum ad rem commonstratar
significandam, idque eo consilio præstare potuit, ut a aliis intelligeretur; et
hi, cum etiam ratione fruerentur potuerunt intelligere, qua mente alter sono
illo usus sii Nec quidquam difficultatis in significandis rebus spiritu; libus
nancisci potuit; nam sicut, aiente s. Thoma, sens bilia intellecta manu^lucunt
in mtelligibilia Divinorum !) ita ex nominibus significantibtfs res materiales
proceder potuit ad nomina, quibus res spirituales denotantur, prac sertim
propter quamdam analogiam, quam homo inte utrasque res percipit. 3° Quod si
historia consulatur, una cum loquela ipsur sermonem primo homini a Deo infusum
fuisse dicimus tum quod ex pluribus Sacræ Scripturæ locis id sat colligitur;
tum quod primus homo, utpote non solum ai ctor, sed etiam institutor totius
generis humani, a De constitui debuit ætate perfecta ; iisque omnibus instn
ctus, quæ ad aliorum instructionem, et gubernationei pertinent 2, ideoque etiam
sermone, cuius longe maic necessitas ingruebat 3., i Qq. dispp., De Ver., q. X,
a. 6 ad 2. 2 Cf s. Thom., I, q. XCIV, a. 3 c. 3 Non desunt pauci inter ipsos
Catholicos, qui sermonem a pi mo homine excogitatum fuisse opinantur, atque
hanc sententiam s. Gregorio Nysseno in Orat. XII Contr. Eunom. traditam esse
p tant. At de huius sancti Doctoris sententia vid. Al. Coletta in gregio op. SuW origine del linguaggio,
§ III, p. 44 sqq, Napoli De vi, et potestate notionum universalium Aitr. I.
Diversæ Philosophorum opiniones recensentur 85. Tres sunt circa vim
universalium Philosophorum p.mones quæ vocari solent Nominalismus, ColceZt
hsmus et Reahsmm. Nominalismus in eo consLtUauod enegat rænt. humanæ
conceptiones universales c stmuU mversaha vel esse pura noraina, seu flatus
vocs/tI eSSe '.oces aut conceptiones, quæ, si spectenlur in sc s„„ ;.ngulares,
sed un versales dici possunt ex eo quo d plSres Hto nf, Tl d.es,n.ant' Hæc
^ntentia prior raodo tvl kam s Jc xivTS ;,,°ISteri0ri modo a Guilielmo OMmo
sæc. XV, el, securulum verisimiliorera sententiara tiam a Roscelhno, aliisque
Nominalibus sæc XI os Ar.stoteles, et post eum præcipui Scholæ
Doclores",nnn,linIS;Jf"m'ni significatione racare. inte e,,„ '°
if6"' US 'deaS existere eitra •"•. ™ in Deo, eruduos nulio non
tempore fuit, eaque adhuc sub iudice est docuerunt illas habere fundamentum in
re, sive esse actu in intellectu, sed fundamentaliter, et potentialiter in
rebus1. 88. Ex recentibus Nominalismum secuti sunt omncs Sensistæ; Realismum
omnes Pantheistæ, ex eo quod ipsi blaterant universalia esse emanationes Dei;
Conceptualismum autem primo modo acceptum, omnes, qui originem idearum vel per
ideas innatas, vel per formas ipsius subiecti cogitantis explicarunt; altero
autem modo acceptum, omnes, qui s. Thomæ placita in explicanda origine idearum
sectantur. Nominalismus et Realismus refelluntur. Nominalium sententiam a veritate
aberrare ostenditur sequenti Universalia neque sunt voces, cuiuslibet
conceptionis expertes, neque sunt voces, aut conceptiones singulares, quibus
non aliquid universale, sed plura individua designantur. Probatur prima pars.
Signum, prout signum est, ad aliquid, quod significat, necessario refertur ; ac
proinde absurdum est esse signum, quod nihil significet. Atqui yoces nihil
aliud sunt, quam signa, quæ conceptiones animi significant. Ergo absurdum est
universalia esse voces, quæ nullam conceptionem significant. 90. Probatur
altera pars. Singula individua proprios conceptus habent, quia singula
individua qualitatibus sui propriis gaudent, per quas alia ab aliis
discriminantur, Atqui ea, quæ proprios conceptus habent, propriis no minibus
designanda sunt. Ergo fieri non polest, ut no mine, et conceptione singulari
plura individua designen tur. Attamen, quoniam omnibus individuis quædam qua
litates communes sunt, unica conceptio potest repræsen tare eorum qualitates
communes, atque unicum nomei potest illas significare. Itaque vox, sive conceptus com
munis non designat plura individua, sed quidquarn plu rium individuorum
commune. 91. Utraque propositionis pars confirmatur ex eo, quod ut Leibnitius
ait, admissa sententia Nominalium, eyer tuntur scientiæ, et Sceptici vicere 2 ;
siquidem scien i Gonceptualismus, hac altera ratione explicatus, realismus ten
peratus etiam vocari solet. 2
Præf. ad JSiz., tiæ, ut sæpe innuimus, sine enunciationibus universalibus
cxistere non possunt. 92. Sententiam Realium, quocumque modo explicelur,
absurdam esse h.s duabus propositionibus evincitur 1 rop. 1 . Umversaha nequeunt esse aliquid
actu existens, et ab ipsis rebus singularibus omnino separatum. Irobatur
Universalia, e. g., humanitas, essentias rerum conslituunt, al.oquin non
possent prædicari de rebus seicundum essentiam. Atqui repugnat essentiam actu
esse bitra rem, cuius essentia est, quia res sine essentia esse iiequ.t. Ergo
fieri non potest, ut universalia omnino a rebus discreta, et seiuncta actu
existant. 93. 2a. Universalia non existunt actu in rebus sinfulanbus. Probatur.
Quoniam universalia, uti diximus, essentias •crum constituunt, si ipsa actu
existerent in rebus sinjulanbus, consequeretur rebus singularibus essenliam
in.versalem inesse ; et quoniam quælibet res per essenlam suam eflicitur id,
quod est, res singulares, quippe [uæ essentia umversali gauderenl, simul
singulares, et in.yersales dicendæ forent. Atqui id repugnat. Ergo. I ^4.
ltaque, etsi essentia universalis non sil, uti antea Hemonstravimus, omnino
seiuncta a rebus; tamen ipsa in jebus singulanbus actu non invenitur, prout est
univerlaiis, sed prout a qualitatibus singularibus in unaquaque e determ.natur.
Exemplo rem declaremus. Si humana !>atura, prout est universalis, esset actu
in individuo, puta p .aocrate, Socrates esset species humana. Ex quo illud uam
ttuit, quod S1 tota species humana esset in Socrale, ocrates simul experirelur
affectiones omnium individuouni nominum. Ita, si tota species humana esset in
So aie consequitur, ubicumque est humanitas, esse etiam ocratem, ideoque
Socratem esse simul Romæ, Athenis, in omnibus locis, in quibus singuli homines
versantur; iuæ omma sunt manifeste absurda. Aut. III. De Conceptualismo 9o.
Sententiam Conceptualium non quidem priori modo secundo inodo acccptam veritati
esse consentaneam Pm,0?a 'rr °,ie sequeutium propositionum colligiiur: lUlbtL:
' U™vers?}™ ™n sunt universales conccptiones ucllectus, quibus nihil obiectivi
respondct. Probatur. Si universalibus conceptionibus nihil obiectivi, et realis
responderet, dicendum esset conceptiones universales ex ipsa rerum natura haud
depromi. Atqui id repugnat. Ergo. 96. Minor ita demonstratur. Si conceptiones
universales ex ipsa rerum singularium natura haud depromeren-i tur, impossibile
foret cunctas res singulares in quasdam species, et genera digerere, e. g.,
Socratem ad speciem humanam, non vero ad belluinam, et contra ea bucephalum ad
belluinam, non vero ad humanam referre, atque utrumque generi animantium
accensere. Si nihil est in Socrate, quod eum a
bucephalo distinguat, eccur vel quilibet e plebe in Socratem incidens eum pro
homine, el non pro bellua habet ? Non certe ex conventione, tum quod experimur
in eo etiam illos consentire, inter quos nulla conventio facta est, tum quod
conventio circa quædam dumtaxat individua, non vero circa omnia existere
posset. Necesse igitur est aliquid esse in rebus singularibus, cuius gratia
homines sine ulla conventione res ac easdem species, eademque genera reducunt.
97. Gonfirmatur propositio ex eo, quod, posita horun Conceptualium sententia,
nulla scientia obiectiva existerr potest. Etenim, cum scientiæ sine
universalibus conceptio nibus existere nequeant, vis cuiuslibet scientiæ vi con
ceptionum universalium respondere debet. Ergo, si uni versalibus conceptionibus
nihil realis, et obiectivi respon det, scientiæ quoque nihil exhibere possunt,
quod in re rum natura sit, ac proinde intra idearum ambilum con cludantur
necesse est. 98. Prop, 2a. Universalia actu sunt in intellectu, sed [m
damentaliter in rebus. Probatur la pars. Natura rerum, ut s. Thomas argi
mentatur \ vel dicitur habere rationem universalitatis i se, nempe absolute
spectata, vel in rebus singularibui vel in intellectu. Atqui non primum, nam
quidquid cor venit naturæ rerum absolute spectatæ, e. g., homin prout homo est,
convenit omnibus individuis illa corr prehensis ; quocirca si natura humana,
prout est natur bumana, haberet rationem universalitatis, universaiiU i De ente
et essentia. mveniret cuilibet individuo homini, id quod absurdum ;t. Non
alterum, quia quidquid est in individuo, deterinationes individuales habet, ac
proinde non invenitur co communitas aliqua, scd quidquid est in eo, indivijalum
est !. Restat igitur ut
universalia actu in intelctu existant. 99. Confirmatur. Notiones universales,
ut in scholis tratiir, fiunt per abstractionem, et intentionem universalita; .
Per abstractionem, quatcnus intellectus avocat cogitionem ab individuis, in
quibus aliqua natura invenitur, it invenm potest, et non aliud cogitat, nisi
ea, quæ sentiahter lpsam constituunt. Per intentionem universaatis, quatenus
mtellectus reflectitur super abstractam itioncm lllius naturæ, et cogitat ipsam
ad plura indidua mdeterminate referri posse. Atqui abstractio, et intitio
univcrsalitatis non nisi opus intellectus sunt. Ergo nversal.a actu non alibi,
quam in intcllectu, esse cenndum est 3. 100. Probatur 2a pars. Natura, quam
intellectus abstrami a conditionibus singularibus, atque universalem coat,
eadem est, ac illa, quæ determinata conditionibus igulanbus m rebus invenitur,
adeo ut illa vere præditur de singulis mdividuis, puta cum dicimus, Petrus
Jiomo Atqui si ita se res habet, liquet intellectum in >is rebus tundamentum
invenire, ex quo naturam ipsis mmunem velut universalem considerat. Ergo
universa fundamentaliter sunt in rebus P^T.Vn,"."0™-' '' q' LXXXVI'
" ' cel vel H?o ne sul quod bu.namtas apprebendatur sine individualibus
con s T,! r?VPSam abStrahi' ad uod 8euitur unio n dU humanitati . secundum quod
percipitur ab in CRITERIOLOGIA Ad Dynamilogiam illa etiam, uti diximus ',
tractatio spectat, qua inquiritur, quid roboris nostræ animæ facultatibus insit
ad certam veritatis cognitionem gignendam. Hæc, maximi quidem momenti,
tractatio CRITERIOLOGIA nuncupatur, quia facultates cognoscendi, ut mox
dicemus, prout veritatem rerum nobis patef aciunt, criteria veri appellantur.
Philosophi, qui mentem humanam illis, quibus prædita est, cognoscendi
instrumentis, veritatem sine ulla erroris formidine assequi posse negarunt, aut
nondum assecutam esse contenderunt, Sceptici, sive, ut latine dicitur,
Observatores vocati sunt, eorumque sententia Scepticismus audiit. 2. Itaque in huiusmodi controversia hunc ordinem
adhibebimus. Primo, statutis quibusdam notionibus circa criteria veri in
universum, singulorum criteriorum vim tuebimur. Deinde universam scepticismi
rationem refellemus. Denique, quoniam facuitates cognoscendi inspici possunt
non solum in se, seu absolute, sed etiam moraliter, idest una cum illis
adiunctis, quæ illarum usum perturbare solent, inquiremus, quænam vis ipsis
moraliter inspectis insit. De criteriis veri in universum spectatis I. De
reritate, ac variis animi circa illana statibus 3. Investigaturis instrumenla,
quibus veritatis certam cognitionem assequimur, opus nobis est in ant ecessum
definire, quid sit veritas, et quotuplici in statu circa eam mens humana
versari queat. Veritas, prout refertur ad mentem, quæ illam cognoscit, dicitur
logica, et posita est in eo, quod mens cum re cognita, prout hæc in se est,
consentit. Quare a s. Thoma
definitur: Adæquatio intellectus, et rei, secundum quod intellectus dicit esse,
quod est, et non esse, quod 1 3.non est . Iam veritas logica distinguitur tum a veritate
metaphysica, quæ, uti in Ontologia dicemus, est convenientia rei cum
intellectu, a quo producitur ; tum a veritate morali, quæ est convenientia
vocum cum rebus, quæ per illas significantur z . 4. Iam homines aliquarum
veritatum notitia carent, aliarum autem notitia potiuntur. Circa res, quarum
cognitione destituimur, in ignorantiæ statu versari dicimur ; in i iis vero,
quas cognoscimus, animus noster vel hæret dubius, vel opinatur, vel certus est.
5. In dubitationis statu animus versatur, cum non magis ad assensum, quam ad
dissensum inclinat 3. Quod quidem, ut advertit s. Thomas, contingit vel quia
animus neutra ex parte aliquam rationem advertit, vel propter apparcntem
æqualitatem eorum, quæ movent ad utramque par ytem. Hinc animus in statu
dubitationis instar libræ esl; f|uemadmodum enim hæc, si aut nullum, aut
æqualia rn utraque lance momenta habet, nullam in partem declinat, sed in
æquilibrio perstaf, ita animus, si aut neutra ex parte, aut æquales ex utraque
parte rationes advertit, nec alicui enunciationi assentitur, nec ab ea
dissentit. Cum animus dubius hæret, quia neutra ex parte rationes advertit,
dubitatio dicitur negativa; sin æquales utraque ex parte rationes habet,
posiliva vocatur. 6. Opinio, sive probabilitas, prout certitudini opponilur5,
est ut sThomas inquit, ille stalus mentis, io quo ipsa cc adhæret uni parti cum
formidine alterius0 . Adhæret quidem um parti, vel quia pro aliqua ipsarum dumtaxat Contr. Gent.,
lib. I, c. 59. Hæc definitio quadrat in veritatem moralem spectatam secunaum
sui rationem obiectivam. Quod si secundum rationem subiectivam consideretur, in
consensu vocum cum conceptibus, qui res repræsentant, posita est; non autem in
consensu vocum cum remis, quas conceptus repræsentant. Veritas moralis secundum
rationein subiectivam veracitas, et falsitas moralis mendacium proprns vocibus
designantur. Dubitatio, inquit s. Bonaventura, proprie dicit indifferentiam
maicii rationis respectu utriusque partis contradictionis, ita quod neutriim
præcligat alteri ; In lib. 111 Sent., Dist. XVII, dub. 3. • Qq. dispp., De
Ver., q. XVI, a. 1 c. J De opmione, prout opponitur scientiæ, locuti sumus in
Logica. p Ja0;?1, a4> p- 69cf etiam ihidp30 not3 6 2a 2æ, q. II a. 1 c.
raliones, vel quia pro una graviores, quam pro alia, rationes ei occurrunt. Cum
formidine alterius, quia rationes iilæ non sufpcienter ipsam movent ad
assentiendum illi propositioni . Ex quo fit, ut probabilitas minor, vel maior
esse possit, prout paucioribus, aut levioribus, vel pluribus, aut gravioribus
momeniis innititur. Quod si hæc
momenta tenuissima sint, probabilitas proprie appellatur suspicio. 7. Denique
certitudo est ille animi status, in quo ipsi alicui enunciationi sine ulla
sollicitudine adhæret . Certitudo autem potest esse vera, aut falsa, prout
iudicium, cui animus fidenter adhæret, est rei veritati consentaneum, aut
dissentaneum. Falsa cerlitudo error vulgo au dit; quare error definiri potest:
animi stalus, in quo ipsi certo pronunciat aliquod iudicium rei veritati minime
consentaneum. 8. Distinguitur autem certitudo in metaphysicam, pk sicam,
etmoralem. Metaphysica certitudo existit, cum meu tis assensus in rerum
essentia fundatur. Ita metaphysice certum est radios circuli a centro ad
peripheriam ductos esse æquales, quia intellectus perspicit hanc proprietatem
circuli ab eius essentia fluere. Physica vero certitudo habetur, cum assensus
mentis innititur constantia legum naturæ, vel simplici facti observatione. E.
g., physice certum est omnia corpora ad centrum terræ ferri, quia id
colligitur, ope inductionis, ex constantia legum naturæ, itemque certum est
corpora existere, quia ipsa per immediatam experientiam percipiuntur. Denique
moralis certitudo obtinetur, cum assensus menlis fundatur in hominum
testimonio, ac proinde in legibus, quibus i 2a 2æ, q. I, a. 4 c. 2 In lib. III
Sent., Dist. XXVI, q. II, a. 4 sol. Advertito contra assertores Calculi
probabilitatum, posse probabilitatem ad certitudinem magis minusve accedere,
sed numquam illam assequi. Etenim totum quodpiam confici nequit ex partibus,
quæ diversæ, ac ipsum, naturæ sunt; siquidem collectio efficere non potest, ut
partes natura sua expolientur. At certitudinem, et probabilitatem diversæ
naturæ esse manifestum est, namque certitudo omnem dubitationem tollit,
probabilitatem autem aliqua dubitatio semper comitatur. Quæcumque igitur sit
probabilitas, et quousque eius gradus augeantur, numquam in certitudinem
evadere potest, nisi naturam suam exuat. Cf s. Thom., In lib. I Poster., lect. I. mores hominum
temperantur. E. g., moraliter certum est Persas ab Alexandro fuisse debellatos.
Iam perspicuum est cerliiudinem metaphysicam eiusmodi esse, ut illius oppositum
sit absolute impossibile, quia res essentiis suis expohari nequeunt ;
certitudinis vero physicæ, et moralis propnum est, ut earum oppositum sit
impossibile hypothetice, ncmpe salvis legibus physicis et moralibus f. N.—
Quænam siut veritatis criteria 9. fnstrumenla, quibus assequi possumus certas de
ver.tat.bus cogn.t.ones, post græcos criteria, scu verorum wdiciorum regulæ in
Scholis vocitantur \ propterea auod )orum ope, quid verum sit in unaquaque re,
diiudicaur, atque ipsorum vis rationem, ob quam de nostroom .udiciorum ventate
certi sumus, exhibet. z rwpssrr eti sd recwm' prudenlmquc p^ 2 Cf Sext. Emp.,
Hypoth. Pyrrh. libri tres, passim. • In i hac cnterii notionc tradenda veteres
politiores philosophi fa hmur convenerunt. Sextus enim Empiricus (HypoL PyTh.]
\t'J: ' ?' ' CUm Ph,losoPhorum opiniones de criterio ve e nrorn' ^ ^T^ ^ C°S ™™
vel Pl™ cri er a ad s.sse, prout unum, vel plures eertarum cognitionum fontes
ho mi suppetere arbitrabantur. Ast non pauci inter recentes med?a r.tat.s
cognoscendæ a criterio veritatis distinguunt ataue hoc erumaue statuunt i„
evidentia, sive quadam nota ?psi obiecto °n ricam 1 o? rnS ^ aSSeDSUm C°gilUrAt
non dri nobis yWetar to tum a^ rmTneiCnteriUm' qU°d coSno^ndi mediis adiunUtes
llq '• S' facuItates cognoscendi huiusmodi sunt, ut vetates certo arr.pere possint,
nuJlo alio criterio ad verum ifakn oTulde^Tunt °aPtUnoerit;HtUm non P-cac
"nitio^s in illæ comnnUonI0 ? evidentes. E. g., evidentes nobis haud 1 ;,
cognit.ones, quibus obiectum non in seipso sed ner sne rehen i urr.e,ifræ T U1°
qUamdam habet iffidtaJ£ Tpl l r 'qUe lI]æ ' quæ circa veritates contingentes et
'• t. qu us'TnnteVl^nC % Th0maS GVidCntCS -rilues esse Derfec m vl ^llec u
videntur, nempe quarum cognitio -iiri Pi prim ^°nauæn:Urg,t '• SiCUt per,Umen
natura,c ^emua us etia.no' q C cP^noscimiIS tatim, ut terminos...: et ulte £ m
d UuturqUvWeri T F™" rGSOlVerC P0SMm P" ' (/" lm III Zit £ ™l
qUaC SCimUS dc'°nstrative proUn Uo. m sent., Dist. XXIV, q. I, a. 2, sol. 1 c).
Præ Ut, quænam sint huiusmodi criteria,
patescat, necesse est diversa veritatum genera præ oculis habere. Veritates,
quæ a nobis cognosci possunt, sunt aut contingentes, nempe quæ versantur circa
facta nobis com perta per experientiam internam, aut externam ; vel ne
cessariæ, nempe quæ spectant rerum connexiones, et idea rum relationes1. Tum
veritates contingentes, tum neces sariæ sunt aut primitivæ, aul deductæ.
Primitivæ sun illæ, quæ nullo medio demonstrantur; deductæ sunt illæ in quibus
convenientia attributi cum subiecto ope ratioci nationis perspicitur. E. g.,
existentia ?ov ego, et mund huius adspectabilis sunt veritates primitivæ
contingentes corpus est grave, eclypsis fit per interpositionem terræ in ter
lunam, et solem, aliæque huiusmodi enunciationes sun veritates contingentes
deductæ; totum maius est sua parte est veritas necessaria primitiva ;
substantia spiritualis li bertate gaudet, est veritas necessaria deducta 2. 11.
Iam 1° veritates primitivæ contingentes cognoscun tur experientia immediala;
nempe illæ, quæ circa fact interna versantur, conscientia; illæ autem, quæ ad
fact externa spectant, sensibus externis nobis innotescunt; 2° vc ritates
primitivæ necessariæ cognoscuntur per intelli gentiam; 3° verilates deductæ, si
sint contingentes, a nc bis adquiruntur per inductionem ; et sive sint
contingen tes, sive sint necessariæ, per syllogismum 3. Intelligentic inductio,
et syllogismus unico nomine rationis appellai solent. At vero his, quæ
enumeravimus, instrumentis co gnoscendi veritates duo alia adiicienda sunt,
nempe me terea in iis ipsis, quæ evidenter cognoscimus, realitas, quæ, u aiunt,
se nobis manifestat, et intellectum ad assensum rapit, e quidem causa, cur
intellectus necessario illis assentiatur, seu, i idem sanctus Doctor inquit, cogatur
(Qq. dispp., De Ver., q. XXVII a. 3 ad 6); sed non est proprie causa, cur ea
certo cognoscat. A cedit, quod si quemquam e vulgo interrogaveris, e. g., cur
certi sit, se revera existere, illico tibi respondebit, quia id mihi conscie
tia testatur ; et si pergas interrogare, quanam ex ratione corpo existere pro
certo habeat, haud hæsitans reponet, quia sensus e terni id renunciant. 1
Veritates contingentes a posteriori, vel syntheticæ ; veritat autem necessariæ
a priori, vel analyticæ etiam appellantur. Ideal., c. I, a. 4, p. 202, not. 1. 2 Cf Scot., In
lib. I Sent., Dist. III, q. 4, n. 6-11. 3 Cf Scot. noria, quæ, elsi nihil novi
nobis afferat, tamen co ratio> memoria, et au „i2,^-.hii-Criteriisawctoritas
dicilur momenlum exlerium certuudmis, quia per eam cerli sumus de veritate
dicu.us rei, quatenus alii illam perspexisse nobis testanur. Celera cnteria dicuntur momenta interna
certitudi"s, quia sunl inslrumenta animo nostro insita, ita ut •er ca
cert, efliciamur de verilate alicuius pronun tiat" osSmus5. 'PS1
COnvenientiara attrib"' cum subiecto 13. Porro crileria interna,
quemadmodum ex dictis perpicitur, nonnis. ipsæ facultales cognoscendi sunt mins
amma prædita est. Aucloritas vero, quamquam s t ocair;Urmn?,XrnUm ',amC"
ad interna nodam„q,odm r" ocatur, qu,a s,ne moment.s intcrnis, idesl sine
cognitriibu an.mac iacultatibus cxislere non potest. Et sane os momentis e
ralione petilis opus habemus, ut cerHefcamur eum, qui aliquid nobisnarral, aut
edoce d osrcc,CdiSeKC,U;,a1SCntiamUrUaLque critcria suntTpsæeoCl,ii "av!'
quatenus hæ motiva suflicicltia exM8umuqs " Ur cert,tudo> 1ua v^ilates
cognoscere De criterio, quod dicitur Conscientia Aut. I. — De vi huius crilerii
us4' MZSfntia CSt i"-ud crilerium, quo anima sui ip
"mi;,msuiqSeiqdur,n ca actu sunt s affectionura e la. Conscicntiæ vis ad
intema facta nobis patefa1^2UT1TU SUnt> quia ca> " fuerunt i„ nobis,
obie un memoriæ sunt. cienda adeo ex se est perspicua, ut neque demonstrationem
admittat, neque demonstrationis egeat. Probatur la pars, nempe non admittit
ullam demonstra tionem. Nulla est demonstratio, in qua id, quod in quæ stionem
adducitur, pro certo sumitur . Atqui infallibili tas conscientiæ demonstrari
nequit, nisi iam pro cert; sumatur. Ergo. 16. Minor ita demonstratur : Si quis
veracitatem con scientiæ demonstrandam aggreditur, iam percipere debe quæcumque
demonstrationem constituunt, et certum ips esse debet se ea percipere. Atqui id
non aliter constan ei potest, quam ex testimonio conscientiæ. Ergo vera citas
conscientiæ demonstrari nequit, quin iam pro cert sumatur. 17. Probatur 2a
pars, nempe demonstrationis non egel Non eget demonstrationis illa veritas, quæ
admittitur a eo ipso, qui eam negat, aut de ea dubitat. Atqui huius modi est
infallibilitas conscientiæ circa nostri, nostrarum que affectionum existentiam.
Ergo. 18. Minor demonstratur hoc modo: Qui se existere ne gat, sane affirmat se
existere in statu negationis, et s dubitat, utrum sit, se existere in statu
dubitationis affii mat, et si dicat se nescire, an sit, iam pro certo sumi se
existere in statu ignorantiæ. Quod si addat se dubi tare etiain, utrum dubitel,
et nescire, utrum nesciat, uti que affirmat se dubitare, ac nescire, ac proinde
se exi stere in statu dubitationis, aut ignorantiæ 2. Quin imm si quis obiiciat
vitam nostram esse perpetuum somnium quemadmodum hac postrema ætate Fichteus
autumavil iam fatetur nos vivere in statu somnii, ideoque existere ', i Gf
Logic, p. II, c. I, a. 3, p. 53 sq. 2 Si fallor, inquit ad hanc rem s.
Augustinus, sum; nam qi non est, utique nec falli potest ; De Civ. Dei, lib.
XI, c. 26. tem s. Thom. (Qq. dispp., De Ver., q. X, a. 12 ad 7): Nulli potest
cogitare, se non esse, cum assensu; in hoc enim, quod o gitat aliquid, percipit
se esse ; Cf ibid., a. 8 ad 2. Idem dicati de internis animi affectionibus. Nam
qui ponit dubium testimoniui conscientiæ aliquam internam affectionem referentis,
simul ponei cogitur yeracitatem conscientiæ circa illam animi affectionem, qu
tum actua(i esse imus PSa ' $lVe reale ' ac ohiectivum cogno IntZ
Pa"C?nscientla habilualis, sicuti vidiraus', ræsen... "? '?nUur' Pmli
esseJaum rca"e cognoscendum habilis est. maauatr.-M ^v " prlmis •
anima Per conseienm hahlfnX 'Um Cl,C,t actum' in ; scd ut evincatur eam nullis
scepticorum cavillationibus latactan posse. Ita s. Augustinus primum statuit
nos existere tamam factum per se notum, proindeque certum: Sine ulla phansiarum,
vel phantasmatum imaginatione ludificatoria mihi esse \e\ ~que.nosse et amare
certissimum est (De Civ. Dei, lib. XI, -C). Deinde adversus Scepticos,
obstrepentes quemquam posse oc falli, ostendit, uti antea adnotavimus, illud
factum ipso erre asseri: si fallor, sum ; nam qui non est, utique nec falli
jest, ac per hoc sum, si fallor ; Cf p. 238, not. 2. 1 237, not. 1. Pnaos.
Ciirist. Compend. 1. 1 j[6 sæpe testatur se niulta videre, et audire, quæ
omnioc nulla sunt. Ergo conscientia re ipsa fallitur. 29. Resp. Dist. ant., quæ
nulla sunt extra animam conc. ant., quæ nulla sunt in ipsa anima, neg. ant. Neg
cons. Et sane, illa, quæ amentes, et somniantes putant sn posse percipere
corpora autumant, his duabus ratio rc dX!tUn!Ur' Tmpe: r Simililud° naturæ
interce.i,,,„ " • sul),ectum cognoscens, et obieclum co.,' Pr°,nd.e an'ma'
quæ esl spiritualis, non potKnoscerT ^T?05 commTicare> at'quc hacc'in seijs
s £?! .?.. a uuldfIuam cxtra se positum per pere extra se opcraretur, quod
certe numqaam fieripot • Atqui hæ rationes nullius ponderis sunl. Ergo nihil
pJr,Sall0neS esscnaluia sa obiectivas negatur. oLn oTLTm°r Simi itudo in,cr
sobiectum cot no,' v™ T conn.oscen(l' obiectum intercedere denilnm .Vn c lntCr.
sub,ectum cognoscens, et obicctum n tf0M \J S.DeCtata; qUlan0U 0l,iectum
cognitum, sed m tcrhl U,0.C0Sn0SCen,isQuapropter anlma, et i sit nm Mhs, potest
tamen res materiales pereipere, dum Ge a„mraaleria1' m0d0 P^ipiaf. 2 Falsum
omjO es aoimam non posse res exlernas percipere, nisi Sr ^" ?C aat' Nam
c°gu,'>io est ex'eo g n re "onum, quac in anima manent, non quæ extra
ani '}'/ omnes alii sensus fundantur\ exploretur; nam, ut advertit Nemesius,
sensus arcta quadam communione inter se continentur, ac Pr2n a/l errorern
aIterius facile manifestat1. Jrt). Ad hanc rem præstat adnotare vim criterii
sensuum mernorum haud imminui illis falsis iudiciis, quæ alijuando mlellectus
ope sensuum, de rebus sensilibus con ino ff"-"1' in h,SC(' iudiciis
vel intellectus iudicat de Mpsa atleclione sensuum, nempe sensus hoc, vel illo
mo °ea rebus aff,ci; ve> iudicat res eo modo in se esse, quo a sensibus
repræsentantur 8. Si de prima iudiciorum spe ie agitur, sensus intellectui
comparatus semper facit reram exist.mationem in intellectu de dispositione proa
, nam secundum quod sensus disponitur, secunium iioc dispositionem suam
intellectui demonstrat 10 l lect." niUg'' De vem Relig' ' c 33' "' 61
; et s" Thom' ' °P' \ cTni GenL> "? nc 13> n' 2-3 Op. cit.,
lib. III, c. 108. r Cf
Dynam., c. III, a. 2, p. 113-114. ^ I, q XVII, a. 2 c. 6 i, q. LXXVI, a. 5 c. •
lbidaL irSfc C8' l! Qq' >" De Ver' . h a11 c. Hinc s. Augustinus aiebat
: Ne ipsi quidem oculi fallunt, non enim renuntiare possunt animo, nisi aflectionem
suam . Sin de altera, dicendum est illa mdicia esse vera, quoties facultates
sentiendi rite adhibentur, quia cum ipsæ rite adhibentur, perceptio sensitiva
rem, uti in se est, manifestat. Quod
si facultates sentiendi nte non adhibentur, illa iudicia sunt falsa. At vero
error non ab ipsa sensuum natura, sed a temeritate nostra prohciscitur;
intellectus enim minime expendens, utrum ea omnia sensibus suppetant, quibus ad
rite fungendum ofticio suo opus habent, illorum testimonium excipit, falsumque
de rebus iudicium pronuntiat 2. Si quis, inquit s. Augustinus, remum frangi in
aqua opinatur, et, cum mde aufertur, integrari, non malum habet internuncium,
sed malus est iudex; nam ille pro sui natura non potuit aliter in aqua sentire,
nec aliter debuit, si enim ahud est ær, aliud aqua, iustum est, ut ahter in
ære, ahter m aqua sentiatur. De criterio rationis 51. Ratio, prout est quoddam
criterium triplici nomine appellatur, nempe intuitiva, inductiva, et deductiva,
quia, ut iam diximus 4, tria complectitur, nempe intelligentiam, sive
intuitionem, inductionem, et syllogismum. I. — De ratione intuitiva 52. Ratio
intuitiva pro criterio veritatum primitivarum, quæ necessariæ sunt, habetur. Hæ
veritates immediato evidentia gaudent, ita ut quisque statim probet audita b.
atque axiomata, vel dignitates passim appellantur. 53. Veritas iudiciorum
immediata evidentia fruentium adeo manifesta est, ut non solum demonstrationis
nor> egeat, sed ne demonstrari quidem possit; potest tamen ahquo modo
declarari. Probatur la pars. Demonstratione opus est, ut convenientia, aut
discrepantia cuiusdam attributi cum subiectc i De vera Relig., c. 33, n. 62. 2 Cf s. Thom., ibid. 3 Op.
cit., c. 33, n. 62. 23b. /n lib. III Sent., Dist. XXXV, q. II, a. 2 sol. 1 c. 1
detegatur. Atqui in enunciation ibus immediate evidentibus illa convenientia,
aut discrepantia adeo manifesta est ut non solum ipsam detegi necesse non sit,
sed etiam contranum h.s, inter quæ illa convenientia, aut discrepantia
perspicilur, cogitare nemo umquam possit . Ergo 54. Probatur2a pars. Quælibet
demonstratio principiis per se evident.bus innilitur; acproinde qui
auctoritatem .immediatæ evidentiæ demonstrare vult, iam tamquam cerla sumere
debet principia per se evidentia, ex quibus hæc demonstratio proficiscitur. Atqui demonstratio, in qua pro certo sumitur id, quod
vult demonstrari, nulla 3St. Ergo. 55. Probatur 3a pars. Error ex eo in mentem
cadere potesl, quod ipsa ml erdum medio opportuno non utitur id rei ventatem
diiudicandam ; hinc, quoties mens rem ine ullo medio, sed ipsa per se
cognoscit, nullus errori locus esse potest. Alqui in enunciationibus, de quibus
hic jgimus, mens connexionem inter terminos sine ullo me- tio cognoscit. Ergo
in huiusmodi enunciationibus nullus :rron locus esse potest 2. II. — De ratione
inductiva 56. Ratio, prout ex verilatibus particularibus aliquam eritatem
generalem per inductionem colligit, inducliva di- -itur,et habetur pro criterio
veritatum^ductarum con- ingentium. Hic autem loquimur de inductFone incompleta,
iam lnductionem completam nobis largiri cerliludinem crspicuum ex se est ;
siquidem tota eius vis in eo po- ita est, ut toti generi tribuatur id quod
compertum est mgulis spec.ebus illo genere comprehensis convenire s.
>;i",°V' lnduct%° wcompleta, quæ sufficientem partium uumerationem
exhibet, certitudinem nobis largitur Irobaiur. Inductio incompleta, quæ
suflicientem par- ium enumerationem exhibet, ut alibi diximus in fir- mate
ordims mundani innititur. Atqui dubitari non Pot- st de hrmitate ordinis
mundani. Ergo. 08. M xnor
demonstratur ex ipsa rerum mundanarum na- Cf s. Thom., In lib. J Post. Analyt.,
lect. XIX. s p llCnr" Gandav-, Summa, q. II, a. 3, n. 8. Cf Log., part. I,
c. III, a. 6, p. 48. Log., ioc. cit., p. 49. •• „VA tura. Et sane, eo modo,
inquit s. Thomas, aliquid ope- ratur, quo est ', sive similiter unumquodque
habet esse, et operationem2 . Atqui causæ naturales huiusmodi sunt, ut
electionis vi destituantur. Ergo oportet, ut in ipsis sit virtus operativa determinata
ad unum ; ac proinde quoties causa naturalis in eadem rerum conditione ver-
satur, toties eumdem effectum producit, msi causa aliqua exterior eius actioni
obicem opponat 4. Atqui ex uno, eo- demque modo,quo causarum naturalium
operationes fluunt, firmitas ordinis mundani exurgit. Ergo de firraitate ordims
mundani dubitari non potest. g 59. Huius argumenti vis haud mmuitur ex eo, quod
aliquando causæ naturales, ut diximus, ab aliqua causs exteriori impediuntur,
quominus effectum suum produ- cants. Etenim ad inductionem spectat non eventus
parti- culares, sed leges universales naturæ nobis mamtestare quia eius
conclusio, ut diximus 6, est semper umversahs Atqui causæ naturales etiam
quando impediuntur, quo minus effectum suum producanl, virtute producendi illim
effeclum haud destituuntur ; ac proinde universalis U naturæ, quod nempe quædam
causa ad quemdam elte ctum producendum determinata est, firma, immotaque ma
net. E. g., etsi aqua ob morbum, quo corpus hydropic laborat, eius sitim non
restinguat, sed augeat; tamen ipsi vim restinguendi sitim non amittit, ita ut
semper certun nobis sit aquam vi restinguendi sitim pollere. Ergo ei eo, quod impedimentum actioni causarum
naturaliun obiici possit, nihil contra veritatem enunciationum, qua inductione
comparantur, inde conficere licet. 60. Diximus, quæ sufftcientem partium
enumerationen exhibet ; nam, ut constat ex iis, quæ in Logica diximus si
quamdam qualitatem in paucis, non vero in plensqu i I, q. LXXV, a. 2 c. 2
Ibid., a. 3 c. - - I, q. XXII, a. 2 ad 4. Pertinet ad agens naturale, ut suum
effectum producat,qui natura uno, et eodem modo operatur, nisi impediatur ; I,
q- XO a. 4 c. Cf s. Aug., De Gen. ad litt., lib. IX, c. 17, n. 32. s Huiusmodi
impedimentum acciderc potest vel secundurn lege: quibus mutuæ actiones causarum
naturalium reguntur, vel pote: oriri ab immediata Dei actione, et tunc, ut
alias videbimus ( stunt facta supernaturalia.— Log., loc. cit., a. 2, p. 3J-4U.
jndividuis experti sumus, illam esse ipsis naturalem, proindeque in ceteris
eiusdem naturæ quoque inveniri magis, vel minus probabile, scd non certum esse
nobis polest. 61. Ex his colligitur falsum esse id, quod Humius au- tumavil;
nempe vim inductionis incompletæ nullo firmo principio inniti f. Etenim,
quemadmodum Scotus monuit2, atque a nobis iam ostensum est, veritas inductionis
ab expcrientia, et a ratione vim suam sumit. Experientia bnim ostendit quamdam
qualitatem constanter in aliqua re inventam esse; ratio autem suggerit illam
qualitatem, 30 quod constanter in illa re invenitur, ad eius naturam pertmere;
ex quo consequitur fore ut illa qualitas in omni- bus similibus subiectis
conslanter inveniatur. 62. Obiic. Leibnitius 3, Genuensis 4, Rosminius J: Cer-
titudo perfecta non invenitur, nisi in iis, quorum oppo- jsitum est
impossibile. Atqui fieri potest, ut id, quod le- ^ibus naturæ adversatur,
eveniat. Ergo certkudo indu- :tionis, quæ a constantia Iegum naturalium pendet,
non ist perfecta. 63. Resp. Dist. mai.9 est impossibile vel absolute, vel
naturaliter, conc. mai., absolute tantum, neg. mai. Dist. lariter min.9 fieri
potest absolute9 conc. min.9 naturaliter 9 ieg. min. Neg. cons. Re quidem vera,
certitudo, quemad- nodum ex s. Thoma monuimus G, diversa ratione dicitur
>erfecta9 prout diversæ speciei est; nam certitudo meta- bhysica pcrfccta
dicitur, quia oppositum est absolute im- possibile; certitudo autem physica est
perfecta, quia op- bositum est impossibile hypolhetice9 seu inspecto naturæ
prdine 7. Iam certitudo, quam inductio nobis largilur, est bbysica, ac proindc
est perfecta ; nam etsi id, quod lekibus naturæ opponitur, non sit absolute
impossibile, taben omnino certum est rem naturaliter secus evenire fion posse. 1 Essais sur V entendement
humain, Ess. IV, part. II, Oeuvr. 'hil., trad. de 1' angl., t. I, p. 121-138, Lond.
1788. 2 In lib. 1 Sent., Dist. III, q. IV, Schol. 3 Dissert. De stylo philos.
Marii Nizolii, § 32. Artis Logico-crit. lib. V, c. 6. 1 Trattato della coscicnza morale, lib. III,
sez. 2, c. 2, a. 3. c Cf Log., part. III, c. IV, a. 2, p. 92. " Cf p.
234-233. De ralione deductiva 64. Ratio, prout ex veritatibus generalibus alias
minus generales, aut particulares per syllogismum elicit, deductiva dicitur, et
ideo habetur pro criterio veritatum deductarum, sive hæ necessariæ, sive
contingentes sint. Circa huiusmodi criterium duo nobis demonstranda sunt, nempe
syllogismi veritas, et utilitas. 65. la. Veritas sijllogismi sine contradictione
negari non potest. Probalur. Non potest sine contradictione concedi aliqua
enunciatio, et simul negari alia, quæ cum illa necessario connectitur. Atqui
inter præmissas, et conclusionem syllogismi necessaria connexio existit,
siquidem conclusio cuiuscumque syllogismi tunc dicitur secundum logicæ regulas
derivari ex præmissis, cum illa his continetur. Ergo si quis præmissas
concederet, et conclusionem negaret, eanidem enunciationem simul assereret, et
negaret, ac proinde in contradictionem impingeret. E. g., in hoc syllogismo:
Omne animal habet vitam sensitivam; atqui homo est animal; ergo homo habet
vitam sensitivam; si quis concedat hæc duo, nempe, omne animal vita sensitiva
frui, atque hominem esse animalium speciem, iam exinde concedit hominem vi sentiendi
pollere ; quocirca si eani negarel, a se ipso dissideref. 66. 2a. Syllogismus
ad inveniendam veritatem imt^ mane quantum utilitatis confert. Probatur contra
Van-Helmontium , aliosque philosophiæ peripateticæ osores. Mens cum progreditur
ad cognoscendum actu illud, quod antea virtute, seu potentia cognoscebat, novam
cognitionem adipiscitur. Atqui mens ope syllogismi sibi comparat actu illam
cognitionem, cuius adquirendæ virtute dumtaxat pollebat. Ergo syllogismus ad
veri cognitionern valde ulilis est. 67. Probatur minor. Mens, cum præmissas in
se co gnoscit, conclusionem, quæ in illis potentia continetur, potentia, non
actu cognoscit, quia satis non est aliquid altero contineri, ut mens unum
videns, videat et alterum; sed necesse est, ut aliud alio contineri perspiciat.
Atqui mens nonnisi ope syllogismi conclusionem præmissis con Log. inutilis,
tract. VIII, Opp., p. 27, Lugduni. tineri actu cognoscit. Ergo mens ope
syllogismi progreditur ad agnosccndum actu illud, quod antea potentia dumtuXiii
cou nosceoa t. 68. Ut hæc clariora fiant, memoria revocandum est cognitionem,
quam per syllogismum nobis comparamus, non esse intuilivam, per quam aliquid in
alio cognoscitur, sed esse deduchvam, per quam aliquid ex alio coqnoscitur ' ;
unde conclusio ex præmissis elici 2 dicitur. Atqui ratio non potest
conclusionem ex præmissis elicere, nisi duas exerat ætiones, quarum una
veritatem præmissarum, altera venlatem conclusionis cognoscit 3. Ergo nos
ratiocinando conclusionem cognoscimus non eodem actu, ac præm.ssas, sed novo
actu, qui illi succedit; unde primum myest.gamus, utrum extrema cum medio
conveniant, oeinde ex hac investigatione relationem ipsorum extremorum
coguoscimus. De criterio memoriæ Veracitas huius criterii osteDditur I 69. Etsi
memoria, uti diximus , nihil novi nos doceat Umen,psa cognitiones ante adeptas
revocat, Tproinde conditio est, sine qua scientia humana constare non potest
lam prætentas cognitiones, quas memoria, cum recte adhihetur, nob.s suggeril,
re vera olim in nobis exUUsse demonstratur sequenti exuusse, Memoriæ veracitas
negari non potest auin simul ipsa memoria animo denegetur P ' q mul lm^-tUr'
^mneS in his duobus consentiunt: 1° quod Stea h?h£?8,la e5 in vi ™~Ko^ndi
perccptione, ^aas notest mV V 2 qU°d memoria non [iter nos decipere C '„?'
9uJle.nus ante nentem sislit perceptiones, quas antea non habuit. Atqui horum
unum altero des?rui 2 rf l' lh°m'' Qq' di$Pp-> De Ver'> a c. 5 rin
?"' lH Ub' U1 Sent'> Dist XVIII> a . q. 3 ad ara tu nl "
dlCU.U/' SUbdit sThomas> aHquid ex al q2o co-nosct Pp 236-237 m°VetUr iU
aHud >); °p•'• ibid" L tur, Ergo oportet memoriam aut tamquam per se
veracem habere, aut animo denegare . 70. Præterea, nos potestate pollemus
discernendi perceptiones, quas re ipsa habuimus, ab iis, quæ fictitiæ sunt; nam
quoties conamur aiiquid, cuius obliti sumus, recordari, species rerum, quæ
nobis sese offerunt, respuimus, donec illa, quam quærimus, nobis occurrent.
Atqui potestas, qua reaie a fictitio discernitur, est verax. Memoria igitur,
quæ est huiusmodi potestas, verax est 2. II.— Nonnallæ obiectiones diluuntur
71. Obiic. Nihil frequentius auditur, quam memoria nos decipi. Ergo memoria non
est criterium veri. 72. Resp. Dist. ant., eo quod sæpe obliviscimur eorum, quæ
antea cognovimus, conc. ant., eo quod revera non habuimus cognitiones, quas
memoria perspicue revocat, neg. ant. Neg. cons. Si res diligenter expendatur,
facile perspicietur homines huius rei potissimum conqueri, quod nonnisi pauca
eorum, quæ didicerunt, in memoriam revocare possunt, non quod perceptiones
noyas pro præteritis accipiunt. Iamvero illud nonex memonæ vitio, sed ex
limitibus ipsius oritur, qui in causa sunt, cur non recordemur omnium, quæ
didicimus. 73. Inst. Atqui re ipsa homines quandoque putant ngmenta suæ
phantasiæ esse imagines factorum, quæ olim perceperunt. Ergo., 74. Resp. Dist.
ant.; hoc evenit penes homines haud sui compotes, conc. ant., apud homines sui
compotes, rce ^mplices apprehensiones ntellcctus essenl.as rerum, prout in
rebus sunt, rcpræ•ent.int. Atqu., s. essenl.as ren.m, prout in rcbus sunl
epræsentant, consenlaneæ rebus apprehensis esse denvonih,^0'." S'mp C'
aPPrchensione veritas logica etiam nvenuur. At, quon.am mtclleclus
convenienliam sui cum eus por s.mphcem apprehensionem non cognoscil, veitas
log.ca propr.e et perfecte ad illam pertinere nequit2 a S. quodammodo veritas
logica in simplici apprehen ^iJmilT^,n.ea falsUaS Per Se num,uam se polKV?
Slml,llces.c°nceptus intelleclus ex eo, quod ri,nl nm' T"' '"
Se,S,,nt' cepræsentant, omncs " ve" fak? lTm' U' m,ullis W0lfianis
visum est™ tollectus " mX ' '"^"f re" est proprie obiectum
Uus . nulla autem facullas cognitrix, uti antea vi '• 0..,4p1' m!
Ti2Qc"ofpp',De Ym:> h aa- 3- ct 12 c nr;,tt. '7 '. T. ',l l2 cob
eamtlein rat onem ntellectus ppp ' c riee:iP„'n,Ull° m;d? dCCipUur "
^" >n.e.lec u se,p YZ" ': " "" m'od
""'clleclus est principiorum circa auæ " decpuur ex eade.n
causa, qua non dec.pitur circa quod quid dimus1, circa obiectum sibi proprium
decipi potest. Di ximus per se ; nam falsitas per accidens m pnma opera tione
intellectus inveniri potest, scihcet ralione attir mationis, vel negationis
annexæ , e. g. cum mtellectus definitionem unius attribuit alteri, ut si animal
ratio nale mortale conciperet quasi definitionem asim; vel in quantum coniungit
partes definitionis ad inv.cem, quæ coniungi non possunt, ut si conciperet
quasi denmtionem asini animal irrationale immortale; bæc emm est talsa, aliquod
animal irrationale est immortale 2 • Ast, si pri mum, intellectus asinum pro
homine, respectu cuius ille conceptus verus est, apprehenderet : sin alterum,
ninil intelligeret. Hinc idem sanctus Doctor : In operatione intellectus, qua cognoscit quod
quid est, potest esse tat sitas, in quantum ibi compositio intellectus
adm.scetur. Quod potest esse dupliciter. Uno modo, secundum quod iniellectus
definitionem unius attnbuit alteri, ut si den nitionem circuli attribuat homini
: unde defanitio unius rei est falsa de altera. Alio modo secundum quod parles
definitionis componit ad invicem, quæ simul sociari non possunt ; sic enim
definitio non solum est falsa respectu alicuius rei, sed est falsa in se, ut si
formet ta em defr nitionem, animal rationale quadrupes, falsus est intelle ctus
sic definiendo, propterea quod falsus est in torman do hanc compositionem,
aliquod animal rationale est qua drupes. Et propter hoc in cognoscendo quidditates
sim plices non potest esse inlellectus falsus, sed vel est verus vel totaliter
nihil intelligit 3 . U.— Utruai verilas sit mutationis, et progressus capax 96.
Recentes propugnatores progressus, seu perfectibili tatis generis humani, inter
quos Lerm6"nier, Lamennais Jouffroy, Sansimoniani, aliique quamplunmi
recensentur est. Nam principia per se nota sunt illa, quæ
statim, intellecU terminis, cognoscuntur, ex eo quod prædicatum ponitar in diff
nitione subiecti (I, q. XVII, a. 3 ad 2 ; cf p. 250 sq). Quar secundæ
operationi admiscetur falsitas etiam per se; non qmde quantum ad primas
affirmationes, quas naturaliter intellectus C( cnoscit, ut sunt dignitates, sed
quantum ad consequentes, quia r; tionem inducendo contingit errare per
applicationem unius aa liud ; In lib. I Sent., Dist. XIX, q. V, a. 1 ad 7.- ^ 2
Qq. dispp., loc cit. 5 I, q. XVII, a. 3 c. yeritatcm numquam immotam, et fixam
existere, sed pro jualibet ætate variare, et perfici arbitrati sunt. Hanc ab~ lormem sententiam
refellimus sequenti Verilas, quæ est obiectum intellectus humani, capax
nutationis, et progressus esse nequit l. Probatur. Veritas nostrarum
cognitionum posita est in ;arum convenientia cum rebus, quas repræsentant 2 ac
)romde m ipsa realilate rerum fundamentum habet^At(ui reahtas, s.ve essenlia
rerum, cum in exemplaribus Jivim intellectus fundamentum habeat, immutabilis
est (uemadmodum immutabilis est Divinus Intellectus En?o eritas, quæ est
obiectum intellectus, seu illud, quod veitatis cognitionem constituit,
mutationis, et pnWessus :apax non est 3. et 97. Obiic. 1° Quod in aliqua re existit, ab ea re
necesano pendet. Atqui veritas, quæ a nobis coffnoscitur st m nostro
intellectu. Ergo veritas, quæ a
nobis co^nocitur, pcndet ab æstimatione nostri intellectus, ac proine
niutalionis, et progressus capax est. 98. Rcsp. Dist. min.; si oritur ex
principiis rei, in qua st, conc. min.; secus, neg. min. Neg. cons. Huic
difficulUi lam obviam iverat s. Thomas hisce verbis : Illud uod est in aliquo,
non sequitur illud, in quo est, nisi uando causetur ex principiis eius: unde
lux, quæ caultur in ære ab extrinseco, scilicet ex sole, sequitur moim sol.s
magis quam ærem; similiter veritas, quæ in rnma causatur a rebus, non sequitur
existimationem aimæ, sed existentiam rerum; ex eo enim quod res est
BLno"e.st> oratio ve™> vel falsa dicitur >>. i J9. Obi.c. 2°
Veritas logica sita est in adæquatione in Ueclus cum rebus. Atqui experientia quotidiana constat cont.nuo mutari.
Ergo veritas logica continuo mutatur. JU. Kesp. Dist. min.; si per res intelli
non autem de intellectu, qui Uatem cognoscit; mtellectus cnim potest mutari, et
progredi a ex errore ad veritatis cognitionem, vel ex Ieviori ad penitio Jl
eius cognitionem gradum facit. _i Cf p. 233 losofia Controversia
consSanseverino, / principali sistemi della Wdtspp., De Ver., q. I, a. 2 ad 3.
rium, et leges, quibus continentur, neg. min. Etsi res singulares sint assiduis
mutalionibus obnoxiæ, tamen earum raliones, ut s. Thomæ verbis utamur, sunt
immobiles^ et necessariæ, quippe quæ ab immutabili lntellectu Diyino originem
habenl ; proindeque scientiæ, cum non circa qualitates singulares, sed circa
immobiles rationes versentur, sunt etiam immutabiles . Quonam pacto autem
necessilas ac immutabilitas naturis, et legibus rerum conveniant, alias
explicabimus. III.— Utrum certitudo diversos gradus admittat 101. Certitudo,
quam per criteria veri nobis comparamus, iam, ut alibi diclum est2, in
melaphysicam, physicam, et moralem distinguitur. Ex notionibus, quas
tradidimus, harum diversarum certiludinis specierum, patet certitudinem
metaphysicam ad veritates necessarias spectare, physicam ad veritates
contingentes, moralem ad ea, quæ ex aliorum auctoritate addiscimus. 102.
Disputatur autem a Philosophis, utrum his generibus certitudinis æquale pondus
insit, an una certitudo sit altera præstantior. Ut hæc quæstio facile solvatur,
animo reputandum est certitudinem duo complecti, nempe omnimodam dubii
exclusionem, et momenta, ex quibus perfectio actus adhærentis alicui rei
exurgit. Si primum consideretur, omnia genera certitudinis in eo conveniunt,
quod omnem formidinem erroris ab animo expeilunt. Hanc ob rationem cerlitudo in
puncto quodam indivisibih posita esse dicitur, propterea quod si mensin
dubitationem vel minimam incidit, illico certitudinem amittit, neque
certitudinem iterum adipiscitur, nisi illam vel minimam dubitationem expellat.
Sin alterum, genera certitudinum non æqualis ponderis sunt; siquidem non æquale
inest pondus momentis, ex quibusea enascunlur, ac proinde, pro diversitate
huiusmodi momentorum, alterum genus certitudinis allero præstantius esse
debet3. In universum autem certitudo metapbysica, ut quisquis ex se mtelligit,
physicæ, et morali, et physica morali antecelht. i ln lib. IV Ethic, lect. III; I, q.
LXXXIV, a. 1 ad 3.-J 234. • In lib. III Sent., Dist. XXIII, q. II, a. 2 sol. 3. Gf
etiam Qq. dispp., De Virtut., q. II, a. 9 ad 1. Certitudinem moralem interdum
vi certitudinis metapnysicæ Quod si cum his generibus certitudinis certitudo,
quæ ex Fide Divina efficitur, comparetur, hæc certiludine naturali, quæcumque
sit, longe superior existimanda est f. Elenim, quamvis, ut iam diximus 2,
evidentia, quæ m scientia obtinetur, desit in iis, quæ ex Fide accipimus8,
tamen Fides Divina est longe certior quacumque naturali cognitione, nempe
firmius iis adhæremus, quæ ex Divina Auctoritate excipimus, quam iis, quæ ipsi
ex nobis cognoscimus, quia Divinam Auctoritatem, qua ad credendum movemur, vi,
et ponderi cuiuslibet naturalis criterii antecellere nobis certum est. IV.—
Utrum verilates rationales decretis Fitlei adversari possint 104. Pompanatius
Mantuanus docuit rationem, tametsi recte adhibeatur, ea decreta quandoquc
fundere, quæ decretis Fidei Christianæ adversantur b. Ad hunc errorem
explodendum statuimus hanc Numquam fieri potest, ut ratiorecte adhibita
decretis Fidei adversetur. Probatur. Ea, quæ ratio recte adhibita docet, adeo
vera sunt, ut nec ea esse falsa sit possibile cogitare ; nec id, quod Fide
tenetur, cum tam evidenter divinitus con gaudere, Gerdil (Saggio d' istr.
teolog., Della storia umana) aliique non immerito docuerunt, quia cum homines
ingenio, opinionibus, moribus dissidentes nequeant in idem mendacium
conspirare, lllorum consensio esset eirectus sine causa, quod metaphvsice
impossibile est. 1 Cf p. 2o7. 2 Log., p. II, c. III, a. 4, p. 69. ! Qua in re
monendum est, evidentiam, qua Fides destituitur. lllam esse, quæ intrinseca
dicitur, nempe quæ circa ipsam veri i tatcm creditam, ac proinde in se non
visam versatur ; non autem quæ motiva credibilitatis attingit, et extrinseca
appellatur; siqui dem potest intellectus evidenter cognoscere rationes, ob quas
ali ^quid dignum sit, cui tides adhibeatur. Sane, Fides non habet in
qnisitionem rationis naturalis demonstrantis id, quod creditur: ha ;bet tamen
inquisitionem quamdam eorum, per quæ inducitur ho imo ad credendum (2a 2æ, q.
II, a. 1 ad 1). Quocirca moliva ioredtbxhtatis sunt visa ab eo, qui credit: non
enim crederet, nisi videret ea esse credenda propter evidentiam signorum, vel
propter aliquid huiusmodi ; Ibid., q. I, a. i c. Cf Conc. Vatic, Sess. III, touf. Dogm.
DeFide, c. III De Fide.- Cf s. Thom. loc. cit. De tmniortalitate animæ,
Bononiæ, BOLOGNA. firmatum sit, fas est credere esse falsum '. Itaque tum
decreta rationis recte adhibitæ, tum decreta Fidei vera sunt. Atqui solum falsum
vero contrarium est, ut ex eorum definitionibus manifeste apparet 2. Ergo
impossibile est decreta rationis decretis Fidei adversari. Præterea unicus est
auclor rationis, et Fidei, nempe Deus. Ergo si ratio recte adhibita ea
decernat, quæ Fidei adversantur, Deus nos ea docere, quæ secum pugnant,
dicendus eril; id quod impossibile esse omnibus compertum est 3. Denique tantum
abest, ut ratio, et Fides adversis committantur cornibus, ut rectus, et sobrius
usus rationis ad Fidei dogmata iilustranda, et tuenda multum utilitatis
conferat; philosophia enim, ut iam in lntroductione diximus, multis famutatus
officiis erga Theologiam fungitur. De scepticismo Postquam singulis
instrumentis, quibus certam veritatum notitiam assequi possumus, vim,
auctoritatemque suam vindicavimus, propositi nostri ratio expostulat, ul in
præsentia scepticismum in universum spectemus, diligentique examini
subiiciamus. Breyis Scepticismi historia describitur 106. Postquam Socrates
Sophistas profligavit, philosophia copiosius, perfectiusque tractari coepit, et
ad beali tatis adeptionem semper spectavit. At quoniam Socratei potius
philosophandi methodum, et finem, quam aliquaa philosophiam tradidit, factum
est, ut Philosophi, qui e successerunt, e. g., Plato, Aristoteles, Epicurus,
dum So cratem ducem sequi gloriabantur, in multas, secumqus nobis urgere licet.
Exempli instar sit David Humius, qui
statuit •', nisi phoenomena nobis comperta esse posse; quare dum om-,
'"certa esse sancivit, aliquid pro certo sumpsit. W s. Aug., De Trin.,
Iib. X, c. i, n. 3. Pbilos. Cbrist. Compend. I. ? j[§ demonstrationes secundum
Scepticos sunt legitimæ, et veræ auia ipsi putant illas vim habere evincendi
omnia esse' incerta. Atqui omnis ratiocinatio expostulat certitudinem principiorum, ex quibus
proficisci debet, et legunt Wicarum. Ergo Sceptici, dum vim ration.s oppugnant
ea utuntur, et dum omnia incerta esse demonstrant, mul ta certa sumunt . Obiic.
1° Gonsuetudines populorum, et opinione: sanientum sæpe sibi invicem
adversantur. Atqui hu.usmo di oppositio argumento est certam ventat.s
cognitionem ; nobis comnarari haud posse. Ergo. 114 Resp. Nea. min Neg. cons.
Emmvero, si consue tudines Gentium,et opiniones Philosophorum non raro m ter se
dissident, indubium etiam est Gentes in multis in stitutis,
etlegibusconcordare, multaque decreta de rebus et offic is esse omnium
Philosophorum communia E. g. omnes Gentes, et Philosophi concorditer tenent
ahquaD DeUatem existere, eamque cultu quodam nolns proseque dam esse; animos
esse immortales, ob idque rel.g.osai seTuIcrorum curam habendam; alias.
actiones esse : natur bonas, alias malas, atque illas præmium, has poenam m
reri aliaque id genus quampiurima. Quapropter s. Scc ptic illa ob dissidentiam
inter incerta reiic.unt, hæc o Snsenaionem certa fateri debent. Præterea
^sidenU Philosophorum, si Scepticos ipsos exceper.s, non spec | neque prima,
atque immediata pronunt.ata cum tact., tu rationis, neque ea, quæ ex his
proxime eliciuntur, sed Ltummodo1, quæ aut sine longa ratiocina ^num ser.e
gnosci nequeunt, aut circa quasdam abditas rerum na ras, et causas versantur.
Ex his autem postremis pronu, tiatis plura sunt, quæ aliquæ ph.losophorum sectæ
p tius ob libidinem disputandi, quam ob eorum obscunt, T^0n minus, quam
Pyrrhonici, Academici sibimetipsis adverH tur. Re quidem vera, eo ipso, quod
Academici docebant nu asc tas nobis^esse rerum notitias, sed tantum probabiles
c erUtud n se sequi profitebantur. Nam pro certis hæc sumebant 1 notottquas
habemus, de rebus esse neque omnino incertas, ™V™™ no certas, sed'tantum
probabiles; 2° diversa esse P^f^^ nera; 3° certis regulis nos potiri, quibus
probabihtatis m omen, et gr^adus metiri possumus ; 4° argumentationes W™™^
conabantur mentem nostram numquam consequi posse cert.ti nem, sed dumtaxat
probabilitatem, certitudine gaudere. , a nobis cognosci non potest. In Se Jto.
Kesp. DtV. om., si spectetur, prout est affpnin laiem ipsam, quæ cognoscitur,
wca. ant. Nea con F nt
non.ab æstimalione inlellectus pendeat sed ab,n ' pnncpns rei oriatur .
Quamobren? ex eo, quod co" 1,110 ventatis relationem ad subiectum hnlw i,„
entcm nuilius certæ cognitioSr^cS^st-Sct iEh?bAta ^0/"'1' °St evide,,S' et
certum si" demonatione. Atqui
demonstrat.o non polest confici sine a a enunciatione, quæ est ex se evideni pi
L™ . . uon eget Ergo nibil cert? cognosci J&E2T 118. Resp. JVey. „-., conc,
minNca. cons Lni, ' inn.s 3, quædam veritates. quæ ea luce menti effuhUn?
demonstrationis neque indi'geant, nequ™ c" paces %Z ' U insd,arenl 'nqUlt
S' Tb°mas' uuæ aturalTterrationi teles, ore profern, sed uullo pacto mente
re,H,tari Cttide%T'.C'• a4P202. not. 1. £J7g Cum igitur sint aliqua pronuntiata
adeo ex se ipsis persoicua, ut ea in dubium revocare nob.s non liceat, liquet
non solum non oportere illorum demonstrationem exhibere sed ne ullam quidem
controversiam de illorum veritate posse institui Hinc illud Scholasticorum
effatura, Contendenti principia respondere nefas. Scepticismus criticus speciatim
refutalur lis, quæ adversus Rantium alibi observavimus , hanc adiicimus
propositionem, quæ ad refellendum eius sceplicismum propius spectat: Prop
Criticismus tum in exorsu, tum in methodo, tum in conclusione systema sibi
repugnans se prodit. Probatur la pars; nempe, Kantius cum in smecriUcæ exorsu
investigare nititur, utrum cognilio sit possibilis, absurdam qualstionem
solvendam susc.p.t. Re qu.dera vera, qui inquirit, utrum aliquid sc.re possit,
necne, is certe tenet se nihil scire. Atqui ille, qu. mh.l sot nulam
inquisitionem instituere potest, nam necesse est, ul qui aliquid inquirit,
instrumenta, per quæ inqumt.o fit c^ognoscV Ergo absurda est illa, quam Kant.us
solven dam suscipit, quæstio, an coamlio sit possibilis. 120 Probatur 2a pars;
nempe absurdus est modus, qu( Kantius criticam suam conficere studu.t. Enimvero
.psc contendit vim cognitionis a priort mvestigandam esse.lt. u „1 ipsam
experientiam existentiæ su, a.se abi. ciat Atqui id haud possibile est, tum
quod fien omn.n. nequit ut homo se ipsum aliquo modo affectum not. ex penatur
tum quod qui se esse non sc.t, ut.que ratioc. nari non notest, quia nisi
sciremus nos esse, qu. pr.nc.pi; cognosc?mPus con^lusionem ex iis haud inferre
possemj. Er|o modus, quo
Kantius crilicam conficendam esse con, fendit nluribus scatet absurdis. 121 Probatur 3 pars; nempe nullam v.m messe posa
conclusioni critices Kantianæ. Etsane cnUca ratioim c,o nisi insa ratione fieri
potest, idque exemplo ips.us Kan tfi declaratur, qui ope^ationis evertere
conatur cerht dinem obiectivam ratioms, et facultatum quæ ra o antecedunt Atqui
rat o, cum sui lpsius naturam, et v res^nvestigat, procul dubio nequit
invest.gat.on.hu. sm i Cf p. 239, et Idealog., c. I, a. 4, p. 202 sq vim
maiorem ea, qua ipsa pollet, largiri. Ergo si ratio, Kantu ludicio, obiectivam
certitudinem haud parit, necesse est, ut critica, quæ eius ope instituitur,
certitudine obiectiva careat; ac proinde conclusioni huius critices, qua
statuitur naturas rerum nobis prorsus iatere, nulla vis messc potest. Præterea,
abnorme est illud criticismi pronuntiatum, quo statuitur rationem practicam
nobis largiri illam obicctivam cognilionem rerum, quam ralio theoretica
suppeditare haud valet. Namque imperativum absolutum ex Kantio est factum, quod
conscientiæ testimonio nobis patescit. Si igitur Kantius consentire sibi velit,
imperativum absolutum phænomenicum, ideoque minime accommodatum ad obiectivam
cognitionem rerum producendam fateri debet. Accedit, quod ratio theoretica, et
ratio practica sunt una, eademque facultas ', et ratio practica nobis non largitur
rerum cognitionem, sed cognitionem comparatam per rationem theoreticam extendit
ad opus%. Quare absurdum est rationi practicæ illam vim >roducendi
obiectivam certitudinem attribuere, quæ raioni theorcticæ denegatur. Utrum mens
humana moraliter considerata verum semper assequatur Aht. I. — Stalus
quæstionis exponitur, et vera sententia demonstratur 122. Haclenus
investigavimus, quid vires humanæ menis, in seipsis, sive absolute consideratæ,
ad rerum co.nitionem nobis comparandam valeant. Sed recolendum nimo est, menti
humanæ multa et intrinsecus et extrinecus occurrere, quæ illarum virium usum
neque sem>er tutum, neque satis expeditum efficiunt3. Etenim præadicatæ
opiniones, quas cum lacte combibimus, vehelentes affectiones animi, coecum erga
magistros obseuuim, ahaque id genus haud raro iudicium rationis præertunt; et
msuper cum ratiocinationes alias cx aliis conectimus, evemre potest ut sive ob
attentionis defectum, tve ob aham quamcumque causam error formæ, aut \ Cf
Dynam., c. IV, a. 10, p. 156-157.- Ibid. • U s. Thom., Contr. Gent., lib. I, c.
4. materiæ in illarum seriem obrepat. Hinc, postquam novimus quid vires humanæ
mentis absolute sumlæ valeant, opus nobis est inquirere, quænam ad verum
assequendum vis insit ipsis moraliter sumtis, sive una cum iis, quæ illarum
usum perturbare solent. 123. Ad hanc quæstionem solvendam sequentes
propositiones demonstramus : Prop la. Animus noster neque in usu sensuum circa
sensilia propria fallitur, neque in simplici apprehensione essentiæ rerum, quæ
est obiectum proprium inteltectus . Probatur. Facultates, quæ circa obiecta
sibi propria decipiuntur, absurdæ sunt. Ergo neque sensus falli pot est circa
sensilia sibi propria, e. g., visus circa colores; neque intellectus in
simplici apprehensione essentiæ re rum, quæ est proprium eius obiectum, æque ac
exter na rerum facies est obiectum proprium sensuum. Ante cedens ita
demonstratur: Omnes potentiæ naturam suam sumunt ab obiecto, ad quod referuntur
2, ac proinde na turalem ordinem ad proprium obiectum habent, et natu raliter
ad illud assequendum operantur 3. Ergo si quæ dam facultas cognitrix circa
obiectum sibi propnum de ciperetur, nempe obiectum suum non assequeretur, ips
aut formæir niJ^iT^fn?^18' q,bUS ^6"8 humana mora,iter spectala in veri
myestigatione adiuvanda est, et primuni de Divina Reveiatione \JuIr ™ iaim
dict,S PersPicitU1' nostram rationem moalitcr constderatam cognoscere non posse
sine ullo erro LS?nCt AtVentate8 ' etiamsi hæ ad ordinem Mturalem pectent. At
vero externa præsidia ad illas tuto cogno J}' 2°— fI, q. XVII, a. 3 ad 2. tt
Dt/nam., c. IV, a. 10, p. 154. ChnniTa 9li?"' 39.-sJn Kft. jj SenLi Joc
cifc enna ni 'r,?Uæ in tn'bUS ProPositionik"s demonstravimus, exped omn 11
confir,nat Etenim non solum omnes PhiJosophiL ?? qUe h0l,nncs Perfectnm usum
rationis adepti con S aiT?0! Prim^ CXUC'ient-e> tuue ratiLs',^ r I h oJnh
Iucu,enter Profluunt. Multæ vero lites, quæ ind ^ ^^f rSerUnt' m^æque
præiudicatæ opinionls, quæ inLln Perva?atæ sunt, versabantur circa ea, quæ ex
prociatis per se notis non sine difficili demonstrationededucmUur. scendas
homini non desunt. Horum præcipuum est Di Tipro^lSUT..°TeS,n fa,sitate tradenda
conspirent. Ercro : 161. lllud autem advertendum est, veritatum cognitio nem,
quam ex sensu communi sapientum nobis compara mus, esse dumtaxat vulgarem, non
scientificam, quia, ut s. Ihomas mquit, in scientia ^locus ab auctoritate, quæ
Unootu£ suPer ratl°ne humana, est infirmissimus 3 . 166. lertium auxilium
rationis nostræ est consensio omn.um gentium. Consensio omnium gentium est
certum veritatis inuicium. 1 J. qI, a. 6 c.-s Dispp. Tuscul., lib. I, c. 15. J qI, a. 8 ad 1.
Probatur. Notæ, quibus opiniones a consensione omnium gentium petitæ gaudent,
hæ duæ sunt, nempe, nuod sint perpetuæ, et universales, ita ut ostendi non
possit tempus, in quo non viguerint, aut natio, quæ illis :unquam caruerit.
Atqui opinio perpetua, et umversahs talsa ^lU^inor his D. Thomæ verbis
luculenter demonstratur cc Ouod ab omnibus communiter dicitur, impossibile
est'totaliter esse falsum; falsa enim opinio infirmitas quædam intellectus est,
sicut et falsum iudicium de sensibih Droorio ex infirmitate sensus accidit.
Defectus autem per accidens sunt, quia præter naturæ intentionem; quod autem
est per accidens, non potest esse semper, et in omnibus; sicut iudicium de
saporibus, quod ab omni gustu datur non potest esse falsum; ita iudicmm, quod
ab omnibus' de veritate datur, non potest esse erroneum . 135 Præterea, fontes,
ex quibus consensio omnium ffentium promanat, alii esse non possunt, quam
evidentia, et facilis demonstratio pro iis veritatibus, quæ perspicuæ sunt
atque primæva traditio pro iis, quæ cognitu sunt difficiles Atqui, si de
veritatibus primi generis agitur, illæ ex ipsa humana natura fluunt, proindeque
sunt homini naturales; id autem, quod est homini naturale, verum esse necesse
est; siquidem, cum natura uniuscuiusque rei vera sit, id, quod naturale est,
consentaneum ve ~Tcontr. Gent., lib. II, c. 34. Hac autera in re caveamus
oportet ab errore Lamennaisii, qui contendit hominem individuæ suæ rationi
relictum nullius veritatis certitudinem assequi posse, statuitaue consensionem
oraniura hominura esse unicum ven cnterium ?loc cit ) Ad quam sententiam
refellendam satis sit mente reputare consinsionem omniura horainura circa
aliquara veritatera ads"ni non posse, nisi iam tamquara firma sumantur
critena qmbus singuli homines pollent, nempe conscientia sensus exterm et ratio
Neraini enim exploratum esse potest, quid de ahqua re totura genus huraanura
opinetur, nisi antea ope conscientiæ, et sensuum externorum cognoscat se, et
alios existere; et nisi ope rationl Tognosca°trfieri non posse, ut omnes
homines decipiantur e menianturnisi testimoniura horainura probe intelhgat ;
nisi ps cTstet nDenm primos humani generis parentes V""™™& nisi
alia multa noverit, quæ recensere longum foret. Quare sini metins rrPugnat qui dura statuit
criteriura veri in genens humam ronsensione cunct^a instrumenta menti huraanæ
adirait, per quæ illam consensionem cognoscere potest. ritati sit oportet. Nec de veritatibus alterius
generis du monstSus ^dT™' ^0' Uti Pau'° ante de" m°t jfrgoT M Revela',one
originem suam su IV. Corollarinm ex theoriis iam demonstratis deducitur contra
Rationalistas, et Traditionalislas 136. Ratiomlistarum nomine hic a nobis
intelliguntur Ui, qu. contendunt rationem, etiamsi moraliter specte"ur
s.b.,psi omnmo sufficere, qnin u||a RevelalioneTndiceat ad assequenda s.ne ullo
errore omnia dogmata quæ ad rel.gion.s cultum, et ad mores pertinent. q ld7. At
ex ns, quæ iam ostendimus, pronum est in dnS 1PA°S Ver° vehementer aberrare.
Etenim, quemadmodum demonstralum a nobis est, facultates bomuWs lnd.v.duæ, s.
considerentur una cum iis adiunctis n,-,P fiæ etefir1maati0n,;,n ^T^"
^uZZ\TdTo re sint' „A l' ut.oranbus verilatibus assequendis,,a™"
Z,bnU!,h0m,n.1 °PUS est ad intellectus institu ionem'ni„t,S-reg,men' 0are
confecimus Revelatio suiT in„nna,m °mn,n0 consu|endam esse philosopho, u °n p
1? u0nlhus Slne errore Progrediatur. uui> '"consulta, con.Sr V l 0,ICæ
F,de' doc"-'"a, scientias rerum lerroriri vo,uerunt > modo
paganicæ philosophia^ illis for.,rVaVer,nt-' Sed ' haC P^ertim noslra ætate?
.U.s tortasse mag.s,mpios, et absurdos protulerint \ lin\li„,,n 6° aUtem' Uuod
nullus ({sil Pbilosophus, qui I; s Crr°re,S n0-n nelde--'t, Traditionalistæ
conclu 'nul L, em ade°,mbecil'am, et infirmam esse, ut vel fCT ventatem, vel
nullas veritates abs raclls el^altem nullas ver.tates metaphysicas, et morales
sine obHdunrsi^.H'"'5'"'.' qUaSdam falsas PP'"" opiniones
nobis proindeo;, ' ? ' dCm ha° DeqUe ^"e, neque universales sun ' S
Bonav," ,T,T'Um genti"m min"ne ". Cf ?,"/ V' ; '
Se"L> Dist XVI", • , q 1 "d ara Pii £' ' n i._.-- :„. r,
nnhie r.nnn.n xCWitur De modo, quo facultates animæ a nobis cognoscuntur De
modo, quo facultates inter se distinguendæ sunt Quot sint animæ facultates De
potentiarum distinclione in activas et passivas, ei ^ de potentia obedientiali
De conalu potentiis insito g De habitibus potenliarum animæ De facultate
vegetativa I. De natura, et operationibus huius facultatis Vitæ veqetativæ
definitio tradilur Invesligalur, utrum operaliones vitales in homme sinl ^
rationales, an naturales De facultale sentiendi Quædam notiones præstituunlur
De obiecto sensibilitatis De numero sensuum externorum De modo, quo actus
sentiendi, sive cogmtio sensilxva ^ efficitur D 12( V. Quædam circa species
sensiles adnotantur Obiectiones contra specierum theoriam dissolvuntur De sensu
communi De Phantasia De Æstimativa, seu Cogitativa De Memoria, et Reminiscentia
JAll I DYNAMILOGIA De facultate intelligendi I. Cuiusnam naluræ sil
intelleclus, et quanam ralione res ad ipsum referanlur PAG |gj II. Cuiusnam
generis sil immaterialitas rerum, quæ ab inteUectu humano, prout cum corpore
coniungilur, cognoscuntur 139 III. Quodnam sit obiectum intelleclus ex iam
dictis dedu CttWf • 1 QM De modo, quo intellectus obiectum sibi proporiionatum
intelligit, et primum de speciebus intelligibilibus. De intellectu agente De
intellectu possibili De verbo intellectus De aliis aclibus intelleclus, et
primum de conscientia De actu iudicandi,1^1 \.De ratione L n 26rens bidei
adversari pos. -Dc Scen, UL ^cepticismo Rt' Ji £^ " historia describitur
t' r' Refutatur Scepticismus. scrwtt'^ 270 lRT I. S/ato quæstionis exnonitur
ot, stratur. fxP°nttur> et vera sententia demon lRTII. Deauxiliis,
quibus'men, 'humn^ '' fliwna Revelatione. ' ^r^nw de • • et nemPe Prot est ens,
disputat '; unl\UuZ,nt',alaue ex.P?nit n°n iam iHas notiones, quæ hquem modum
spec.alem entis repræsentant, sed auæ otionesU?.lr?al',ter aCCeptUm SpeCtant
5Iam huiusmodi UDn.nnS,SU,,t' qU/e cak9°riæ dicuntur, hoc est, illæ eZn ur T°^'
ad, qUaS cetera™™ rerum uotiones reeruntur. Quocirca obiectum, in quo
Ontologitatur. Iam ens hac rati?ne spectatum toitur ideale, et duphcis generis
cst, vel nempe huiLmodi, ut ex kX^ln^t^T^l SiVG Pr°dUCi P°SSU' VCYta ab intclue
sino / ab Xll°. S0,° Producatur> in eoque re^aneat, neZS,ntel,ectu cogitante
ullibi esse possit. Si ens ideale hoc bus,nennSU f Clp,atUF' ms rationis vocari
solet, atque illis notio mndTl" i.qUaS m L°9ica (part' ' C-J' a' J> P-
10> noti. vol. I) undas appellavimus. E. g, notio generis ens rationis
exhibet Mpitur. rCrUm UatUra P°teSt rcsP°ndere Seneri, prout genus
ipariCsColPerSi]),litaS n0mine Potenti'æ ^cæ vel obiectivæ nun g ONTOLOGIA mini
se ipsos invicem destruunt, e. g., circulus quadraZ lllud autem, quod
inlrinsecus est possibile, dicitur ^Weu r& possibile., si ieralnr ad^ hm
cau sam Der quam ad actum reduci potest, a que extnnsecus, eu VKe impossibile,
si referatur ad illam causam, per nuam ad actum reduci nequit. Ita intellectui
humano posS est essentias rerumVitarum ™fi™?^^ res eius naturales spectentur,
impossibile est cognoscere Essentiam Dei, prout in se est. :„,r:„cpriis im 10
Ex his facile intelligitur id, quod est intrinsecus im nn^ihile esse quoque
extrinsecus lmpossinile, quia, ui, Lo o o'os endemus, ne Deus quidem efficere
potest, ut ea nuæ secum invicem pugnant, in eodem sub.ecto m nian ur; Xd, quod
e t Winsecns poss.b.le esse exIrinsecus possibile, si est intra vires causæ, ad
quam re StoTrS extrinsecus impossibile, si eius v.res supergreditur '. II.-De
notione nihili 11. Nihilum est negatio, sive absentia " /' "n Sc h£
lastici illud simpliciter non ens vocare olent De hoc m t.ilo lnnuen s.
Augustinus perbelle ait. JNitni nec corpus commun.ss.me accepto oppomt ur d et
m etiam solet ld, quod oppoiuiur euu alirnius momodum determinato, ita ut
denotet f^^SS^fa rli onlis Nihilum hac rat one spectatum distingunur ... tia
alicuius modi entis cons.derata m s ipsa, e^ g., no videre, non habere rationem
; n.h.lum pr.va t.vuro esl .M sentia alicuius modi entis cons.derata in al.quo
sub.ecto, quod ad illam habendam naturaliter comparatum est, e. g., absentia
visus in animali. j;0„„;m„„ inler S 13. Ex his in promptuest.ntel.gere ™™eP 'T
negationem, et privationem. Negatio en.m non al.ud de "onnullas circa
possibile, et impossibile quæstiooes in T..loto orK attingemus. • Cf Anst., Me t l.b. III, c.
2, f 3 0j). imperf. cont. Iulian., hb. V, n. al. notat, nisi simpliciter
aliquid non esse, qu w denotet uilum subiectum, cui illud aliquid inesse
nuturale est Privatio autem denotat aliquid non esse in subiecto, cuius natura
illud expostulat1. Quædara adnotantur circa originem notionum entis, et non entis 14.
Præcipuas theorias, quæ ad originem notionum entis, et non entis spectant,
sequentes propositiones complectuntur: la. JSotio entis prima est cum in ordine
cronolopco, seu temports, quo intellectus notiones rerum adquirit lum %n, ordme
logico, quo notiones inter se continentur. Pnma pars huius propositionis
illud^sibi vult, quod intellectus, essentiam rerum materialium, quæ est ipsius
>mectum, primo, prout est ens, concipit2. Altera pars ngnincat m conceptum
entis omnes reliquos resolvi 3 lo. Probatur la pars. Mens humana ita comparata
est, na notionibus magis communibus ad notionesminus comnunes progrediatur.
Atqui nihil in rebus communius, [uam ens, intell.gi potest. Ergo mens humana
obiectum idi proportionatum, nempe essentiam rerum materialium, •rmcipio, prout
est ens, intelligit. 17. Minor huius argumenti facile ex se perspicitur, quia
[uidquid in singulis rebus invenitur, sive substantiale, sie accidentale, est
quoddam ens . Maior autem ita denonstratur: Mens humana ita comparata esse
debet, ut nncipio cognitionem rerum imperfectam adquirat, deine lpsam gradatim
perficiat, quia non in actu cognitionis, ea in potentia ad cognoscendum a Deo
creatur. Atqui ogmtio, quo magis communis est, eo minus est percu, quia quo
magis communis est, eo pauciores notas ropnas obiecti, quod repræsentat,
complectitur 5. Enro ens humana ita comparata est, ut notiones rerum
maiscommunes prius, quam minus communes, assequatur6. Cf s. Thom In hb I Sent.,
Dist. XIII, q. 1, a. 4 sol. V\ VrAr F' dizpr-> De Ver-> a c t nrim, i, •
a# C' Exinde intclligitur notionem entis, prout 'lOTiZnl^r cronoIoSico> e^ e
imperfectam, ac proinde in S ToL 6 confusa,nPræ^at autem hic adnot.re ens com
mstme acceptum tamquam indeterminatum intelligi, quatenus g Itaque intellectus,
essentiara rei exploraturus, ex variis rationibus, quibus illam concipere
potest, rationem entis primo in ea cogitat. E. g., ex variis conceptibus,
quos intellectus circa hominem, qui pnmo ei occurnt, elformare potest, puta
animalis, corporis, substantiæ, pnmus est conceptus, quo illum velut ens
cogitat. 19 Probatur 2a pars. Notio in aliam resolvitur, quoties hæc' illam
continet. Atqui notio entis reliquas omnes notiones continet. Ergo in notionem
entis omnes rehquæ notiones resolvuntur. Hinc si ab omnibus notionibus
removeantur cunctæ differentiæ, quibus ab se invicem determinantur, remanet
ens, quod omnibus commune est. 20. Ex
hac propositione tria corollana consequuntur: 1° Notio entis, quæ est prima
omnium, est abstracta, non vero concreta. Etenim intellectus non potest
inteihgere essentiam rerum materialium dumtaxat prout est ens, nisi in ea
consideret rationem entis, non^qnsiderando aliquid ex iis, quibus ens in ipsa
determinatur. Atqui considerare in aliqua re unum, quin cetera considerentur,
constituit illam actionem intellectus, quæ abstractio nuncupatur. Ergo notio
entis, de qua disputamus, ope abstractionis conficitur, ac proinde est
abstracta . et Entis notio, quam omnium pnmam mtellectus aaquirit cum sit
omnium communissima, tneque essentiam, neque' existentiam repræsentat, sed
actum essendi, sive actualitatem communem essentiæ et existentiæ. non est hoc,
aut illud ens, et tamen natura sua ita comparatmr est ut plures determinationes
accipere, ac proinde ad hoc vel ad aliud determinari queat. Quare abnormis est
sententia Hegheln, qu ex eo quod Ens, sive ut ipse ait, Ens-Idea, est
indeterminatum ipsum esse purum putumque nihilum confecit. Nam nihilum ca nax
non est ullius determinationis, dum e contrano ens huiusmod est ut in singulis
naturis rerum diversis modis determinan possintelligatur. Ceterum nihil est negatio entis;
ac proinde si ens, si ve Ens-Idea, est nihil, dicendum erit ipsum esse ens,
quod noi est ens, sive ens, et non ens. m i Hinc vides quam turpiter errent
Pantheistæ, qui ut res, quot quot sunt, esse unum ens conficiant, contendunt
ens concretum et reale in rebus esse ipsum ens universale, cuius ideam inteiie
ctus habet, et quod velut unum cogitatur. Item mtelhgis valde d cipi Ontologos,
cum autumant ens, quod mens humana pnncip. apprehendit, esse ens realissimum,
et concretum, nempe ens, quo Deus est. Ens, cuius notionem omnium primam
inlellectus sii contac.t, est illud, quod actum essendi realem, non ve 0
possibilem denotat. Et sane, ut intelligatur aliquid esse oss.b.le, intelligere
oportet primum elementa, ex quibus psum constat, et deinde hæc eiusmodi esse,
ut secum i>mponi poss.nl; ac proinde notio entis possibilis nequit sse pnma
omn.um, quas intellectus adquirit. Contra ea, us,quod intellectus primum omnium
cognoscit, est reale, uia essentia rerum materialium, quam ipse sub ratione
ntis pr.mo intell.g.t, est, ut alibi diximus, realis. Hic fltem advertendum
est, ens, quod primum omnium intelictus intell.git, etsi sit reale; tamen ipsum
non co^nosci t> intellectu, tamquam reale ; nam cognitio entis tanaam
real.s, est reflexa et distincta, quia intellectus neii cognoscere aliquid
tamquam reale, nisi super se re3Ctatur, naturamqæ entis, quod apprehendit,
expendat2; Jm e contrano notio entis, quam intellectus primam omum adquiril,
est directa, et confusa. 21. Prop 2a. Nihilum ab intellectu cognoscitur non per
ipsum, sed per eius oppositum, nempe per ens communisme sumtum. Probatur la
pars. Non potest per seipsum intelligi il a,
quod esse sui proprium non habet. Atqui nihilum non M m se al.quod esse. Ergo
nihilum per seipsum ab tellectu cognosci non potest 3. 22. Probatur 2a pars.
Intellectus non potest intelhVere entiam cuiusdam specialis determinationis
entis, °nisi telligat ahquod obiectum, in quo illa determinatio en[mvenilur. E.
g., nobis non licet intelligere absentiam lionis in bellua, msi ex eo, quod
rationem homini inse novimus. Atqui non ens, seu nihilum denotat absenim cnt.s
communissime sumti. Ergo inlcllectus non po t mtell.gcre nihilum, nisi per ens
communissime sumna, cui nih.Iurn opponitur. Quare s. Thomas statuit inicctum
notionem nihili sibi conficere ex eo, quod abntiam ent.s concipit 4. 1 Ex his
illud magis confirmatur, quod antca ostendimus (Idea iimti.J ' ' P' 19-7 Sqq'
voL !)' nemPe fa,sam esse Rosminii tentia,, qua statult ens? quod primo ft
nobis cognoscitur5 esse I Zihf 7 3 Cf S Th0m'' '• 1XYI • 3 ad 2. ioia. Ex hac argumentatione facile
perspicitur error Ad. Fran ^RT> IV.— Principium, quod ex notione entis
dimanat, exponitur 23. Mens humana, postcjuam assecuia est notiones' entis, et
non entis, illud iudicium conficit: Non est possibile ens esse simul, et non
essef sive: Non est possibile idemsimul esse, et non esse. Hoc iudicium vocatur
principium contradictionis, quia essey et non esse, quæ sunt eius termini,
contradictoria sunt '. Iam circa hoc principium duo investiganda a nobis sunt:
1° utrum sit primum principium; 2° utrum, præter ipsum, aliud primum principium
admittendum sit. 24. Primam quæstionem solvimus sequenti Principium
contradictionis est omniurn primum. Probatur. Quin hoc iudicium, idem non
potest simul esse, et non esse, inter principia, seu inter iudicia ex sef
perspicua recensendum sit, nulli dubium esse potest. Nanl non ens tollit ens,
ac proinde nullo medio opus est intel-i lectui, ut intelligat id, quod est ens,
non posse esse id, quod est non ens, sed hoc immediate intelligit ex compaJj
ratione notionum entis, et non entis2. Quod autem sif principium omnium primum,
ita demonslratur: Ut aliquor,nc(>. rfe,„ „„,., g ? „ g illud, propter quod
res ad certo quodam modo existendum determinatur, est ratio sufficiens
existentiæ eius. Ergo nihil sine aliqua ratione sufficiente existit. 29
Probatur 2a pars. Omnes res creatæ non solum contingentes, sed etiam
necessariæ, puta non posse existere hominem, nisi ratione polleat, ordinatæ
sunt a Mente Divina cum Deus infinite sapiens sit. Alqui ubi est ordo ratio
quoque est. Ergo non sohim rerum conlingentium sed etiam necessariarum rationes
sufficientes sunt. 30' Probatur 3a pars. Omnes veritaies tam necessanæ, auam
contingentes in effaturn rationis sufjicientis resoivi possunt. Atqui illa
veritas, in qnam aliæ resolvuntur, est principium earum. Ergo effatum rationis
suflicientis est principium veritatum tum necessariarum, tum contin gentium.
Maior ita demonstratur: Si cuiusque rei sive contin^entis, sive necessariæ
aliquid esse debet, per quod ad °certo modo existendum determinatur, consequens
est in resolutione cuiusque veritatis cum contingentis, tum necessariæ posse
tandem perveniri ad aliquid, ex quo, cur potius uno, quam alio modo existat,
mtelligatur. Alqui id est, quod ratio sufficiens dicitur. Ergo omnes veritates
tum contingentes, tum necessanæ m eilatum ra tionis sufficientis resolvi
possunt. 32. Probatur 4a pars. Illud principium omnium primnm dici nequit, quod
in aliud se supenus resolvitur. Atqui effatum rationis sufjicientis in
principium contradictio ?iis resolvitur. Ergo effatum rationis sufficienhs
pnmun] principium dici nequit. Minor probatur hoc modo: Si mhil m re est, pei
quod ipsa ad certum modum existendi potius determinatur, quam non determinatur,
consequens est posse eani dem rem certo quodam modo simul esse, et non esse.
Atqui id contradictionem involvit. Ergo effatum rahoms suj ficientis in
principium contradictionis resolvitur. Deus, inquit Tertullianus, omnium
conditor, nihil non ratu ne tractari,' intelligique voluit ; l)e Poenit., c. I.
Resolvi possunt, inquimus, non debent, quia, quamvis ceriu sit nihil esse sine
ratione sufficienti, tamen non semper rationeniam est id, quod est, efficitur,
quemadmodum s. Thomas inimt ut ipsa per essentiam, et in essentia habeat esse:
De Ente et ssentia, c. i. »;I,HanCr°b ?ausam dicitur etiam definitio rei, quia
definitio, ut diumus m Logic. (part. I, c. I, a. 10, p. 21 vol. I) denotat quid
res sit. stituunt; nominales vero, quæ a rerum constitutione haud pendent, sed
opus sunt nostræ mentis, quæ revocat varias res ad nonnullas species, et
confingit generaha quædam nomina ad illarum discrimen designandum. Uocuit
præterea nominales quidem essentias, numquam vero reales a nobis cognosci l.
Eamdem sententiam tuitus est Lriobertius ; hic enim essentias, quas Lockius
nominales appellavit, rationales vocavit, atque essentias reales non solum
impervias nostro intellectui, sed in seipsis inintelUqibiles, sive
inexcogitabiles esse pertendit. 38. Huiusmodi sententiæ absurditas hac
evincitur Multarum rerum essentiæ reales a nobis cogno cpiiYitur Probatur.
Dubitari nequit, quin multis in rebus quasdam differentias coneipiamus, quæ
lllas constituunt m deterrainato entium gradu a ceteris distincto, suntque
veluti fontes, unde earum attributa pullulant. E. g., quisquis admittit bruta
differre a plantis, et plantas a lap.dibus, eo quod bruta sentiunt, non vero
plantæ, et plantæ vegetant, non autem lapides. Atqui huiusmodi difterentiæ sunt
reales, ipsamque rerum constitutionem, noc est, essentiam ingrediuntur; nam
sive cogitentur, sive non codtentur, sive his, sive aliis nominibus iSlæ
appellentur sive ad has, sive ad illas species a nobis revocentur, sem per
verum est bruta sentire, ob idque a plantis difterre Ratum igitur, firmumque
sit reales essentias rerum a no bis cognosci 3. . 39 Præterea, res, aiente
Aqumate, per suam essen tiam cognoscibilis est, et in specie ordmatur, vel in
ge nere»rqapropter, si realis cuiuslibet rei essentia noi lateret, baud
possibile foret nos scientiam rerum adqui l Essai sur V entend. hum., lib. III,
c. 3, § 15-17. Introd., lib. II, c. 8, not. 2. Advertito essentias rerum non
raro non a pnori, sed a posi riori a nobis cognosci, ita nempe ut non ex
seipsis eas comp " mus sed ex earum proprietatibus, et accidentibus
detegamus ^c rThomV^. displ le Pot., q. IX, a. 2 ad 5). Qaod ao e, cognitione
distincta essentiarum rerum intelligendum est, si cnii de cognitione coofusa
agatur, essentia rerum matenalium ut sæp diximus, est primum obiectum
intellectus nostri, ac proind $ iHa primo, et non ex eius proprietatibus, et
accidentibus apprehendimu. De Ente, et essentia, c. 2. ONTOLOGIA 15 rere, quia
omnis nostra cognitio non circa ea, ex quibus res const.tuuntur, sed circa ea,
quæ de rebus nobis anparent, versarctur Atqui id nonnisi a Scepticis asseri potj
est . Ergo, si nulhus rei essentia realis comperta nobis esset, purus, putusque
Scepticismus obtinerel 40. Illud contra Giobertium speciatim adnotandum est,
quod ex eius sententia hoc maximum absurdum etiam lluit, nempe ne Deum quidem
esscntias rerum cognosce-, re posse. Etenim essentiæ rerum, ipsius Giobertii
iudicio, sunt immutab.Ies. Ergo s. ipsæ obiective in se inexcozitabiles sint,
numquam potest fieri, ut intelligibiles evadant. III.-Nonnullac quæstiones ad
notionera essentiæ mæis magisque declarandara valde uliles solvuntur ; 41. Trcs
quæstiones in hoc articulo investkandas suscp.mus, nempe 1° utrum essentiæ
rerum s nSnlices an compos.tæ; 2° utrum esse essentiæ ab esse existenliæ rum
s.nt æternæ, necessanæ, et immutabiles. Ouid cir i ion l^Uæ. 10neS/enl,endum
sit' ex sequentibus propo(sit.on.I)us planum fiet. l l Li2'Jr°P-' ia' °mn6S
essentiæ sunt compositæ ex quibus}dam pincipiis: quæ tamen ita inter se
cohærent, ut, aliquo ilbrum sublato, essentia illico pereat Irobalur la pars
contra Cartesianos 2. Quælibet essena e.usmod. esse debet, ut babeat tum
aliqufd per qZ riminln C°nSent,t>. tUm aliUJd' Der 1uod a ceterisqdis
'i"T„t n X' S1 PnrnUm deeSSel' res> auæ in monlo sunt, nullo nexu
continerentur ; sin alterum, omnes s unum, xdemque forent. Quapropter, cum res
deffi ZximZ ^"T CSSe?t,a. slSnifi™tr i adhibetur genus 7tTcZ\T'f
?m.PieCtltUr a,i0Uid eommune rei defiuo rp"m r ' 6t dlITerent^ qa
exhibetur aliquid, ex cntia? rt fin,ta a Cet.enS rebus "iscriminatur
". Ergo esenhæ rerum ex varns principiis sunt compositæ. i! 5w1S2,M t
TUyiS rerUm creatarum> esse -+-> MLogic, part. I, loc. cit, p. 22 vol. I.
Probatur 2a pars. Essentia rei constituitur ex om L nibus iis, quibus res est
id, quod est. Ergo, subtracj vel minimo eorum, quibus res est id, quod est, essenti
rei preat necesse est. Hinc. Scholastici sap.enter decr ;. verunt essentias
rerum consistere %n indtvisibih, et nume rorum instar se babere, quia si ex
numer o eel umU y tantum subtrahatur, non manet idem specie numeru . u 44. 2a.
Inter essentiam, atque existenliam realis a stinctio admittenda esl .
i>i,,-|nnnlios necessariæ et immutabiles. „/'., P' ' jfessen'oe r ad ætum
reduTLanZ T6"1abS°lute neccssar™, et immutabiles , Z ITuh, parS' nempe non
esse aoso/M nempe esse hypolhelice necessa1 m£ !>?„, entT suam sunt iu. qnod
sunt. Ergo, 'n creD,inn.P ° SSet r6S n0n creare> tamen. Posita
eaaueTdn°,vL,i,Sæ1eSSent,,S.Suis nequeunt deslitui, no ^Vro&fa
a',oqy,,,ni,Tl,essent' et non essent .„;„' ";"r °, Pa,s"lud
absolute necessarium dici 'p inctiiPPd°es Z repUgnan' AtQUi repUgnat essentiam
f esse P It „„„ ' . q-U.,buS constat' quiPPe quod si' sTmnlnL „„
6SSet',SC,l'.Cet esset' quate,,us suuiitur bn co„sqii,ui"on T. qn,a non,
haberet rinciPia' e bus t L ! g,'-' tr,anguIuni, quod qualuor la •t n„fi 7?
angul,s c,onstaret, esset simul, et non anlulos hanf,UlU,m-' qU°d plus' quam
tria IaUra, et si"Ud L; • ' tr,anSulum dici nequit. Ergo essen tur
absoP,ZC'P,a pr°X,ma' ex quibus conslant, refeSram di™ necessanæ suntQuod de
necessitate esrum demonstralum est, ad earum immutabilitatem ZlltTse „
T,ibU[æternitas ™9°tiva, quatenus nempe ad 2 deerm,nenur ad aKjuod em/ms; I, q.
XVII, nTnnU h'iCU!US rei P°teSt esse vel ', hoc est, eiusmo s, eiMmodr^n'
Se" C°ndUi0nC PCndea Vel Z 3f s. Thl Vn,', "T "?' S.ttUta aliqua eonditione, exista, inom., Contr.
Gent., l,b. II, c. 30, n. 4. Pbros. Curist. Compend. II. 7 g 18 ONTOLOGTA quoque
spectat, quia illud, quod est riecessarium, essel nequit aliter, ac est, et
ideo immutabile est . De proprietatibus omnium entium communibus, et primum de
unitate 51 Tres a Philosophis maxime generales proprietates I entis
dMinguuntur, unitas nempe, veritas, et bonitas, cuaj qua pulcritudo arcte
coniungitur. Hæ vocantur transcen-% dentales, ut distinguantur ab attributis
categonas, ns nempe, quæ certo quodam genere, sive categona continentur I I.—
Ea exponuntur, quæ proprie ad nnitatem spectant 52 Unum, ut s. Thomas advertit,
nihil aliud signifi 1 Cat quam ens indivisum 2 ; unde hæc est vera defamtu i
unius? Unum est ens, quod non dividitur \ Exinde intel i ligitur unum non
addere enti aliquid reale, sed tantun aliquam negationem, quia ipsum, cum non
aliud signin cet, nisi ens indivisum, divisionem entis negat . Lav tamen ne
inde inferas conceptum unius esse negativum Nam unum, cum significet ens, quod
est mdivisum, si snificat principaliter ens, sive substantiam, et secundan fc
negationem divisionis, ac proinde eius conceptus non es negativus, sed
affirmativus 5. 53. His præstitutis, demonstrandum nobis est unitater esse
proprietatem omni enti communem. Omne ens est unum. Probatur. Omne ens per suam
essentiam est id, quo est. Atqui essentia est id, quo unumquodque ens ab aii
distinguitur, et ens ex hoc ipso, quod ab alns distingu i Ex his, quæ
deraonstravimus, facile est redarguere errore Cartesii, qui sensit (Repons. aux
sixiim. object., § 6) essentias rum a libera voluntate Dei pendere, ita ut
essentiæ rerum qu Deus condidit, possent aliter se habere, quam se habent. bea
his in Theologia naturali. Hic tantura adnotatum voluraus, n Cartesii
sententiara, ut ipse Baylius (Dict., art. Spinoza)scn^ ad interitum metaphysicæ
viam sternere. Nam scientiaruni q circa rerum essentias versantur, obiectum non
lam necS?sa"^!° immutabile foret, sed mutabile et contingens; huiusmodi
enin id quod a libera voluntate Dei pendet. d 2 1 q XI a. 1 c.-8 In lib. I
Sent., Dist. XXIV, q. I, a. ^ i) q.' XI,' loc. cit.-s Qq. dispp., De Pot.% q.
IX, a. 7 in i se sunt indivisa, dividi possunt. Ita hoSo est u; un.tate
compositionis, quia anima, et corpus ex u" ipse comppnitur aliquid in se
actu indTv um £E,7 II !.°d e,,usmoJdi Sl|nt, ut ab sc dividi queam? onl ad3,
hmfln,dVertendUm eSt'-hanC un,tatem ™mpartbus 1, Ua pr°Pr,e,Pert,nere > quæ
constant rperficit'„q „,Um MUna ab a'tera ' LVeluti P°tentia J, perlic.tur, quæ
idc.rco unicam substantiam comple Cf s. Thom., Quodlib. VI, a. 1 c.- I,, vr ]n.
„;, [m-. /., Dis, „,,. 2. Cf, ££•£; l,in, £^ssPe^ern:^. sffi-at supra cns
"^ 1 PPelLPurm"m Uni,a'em ""^'8. Posteriorem pftj, tam
constituunt, unamque existentiam habent. Quare huiusmodi entibus, æque ac iis,
quæ compositionis partium sunt expertia, unitas per se convenire dicitur. E.
g., homo est unus per se, quia ex anima et corpore in unicam substantiam
perfectam coalescit. E contrario, illud ens, quod ex partibus componitur,
quarum una ab alia non perficitur, sed distinctam existentiam habent, dicitur
unum per accidens. Hoc modo unus dicitur exercitus, quia unusquisque militum,
ex quibus componitur, est per se substantia completa, atque existentiam a
ceteris militibus distinctam habet. II. — Dc identitate, et distinctione 58.
Identitas in eo consistit, quod ens cum seipso con sentit. Ipsa oritur ex
unitate entis, nempe ex eo, quo( omne ens est indivisum in se, sequitur omne
ens cun se ipso consentire, ac proinde esse idem sibi . 59. Quod si identitas
indivisionem, nempe, ut Aristo teles subdit2, unitatem ipsius esse, in sui
conceptu inclu dit, patet identitaiem proprie eam esse, quæ considera tur in
aliqua re, prout est in se ipsa, seu respectu su ipsius. Quocirca illa
identitas, quæ consideratur in aliqu; re, prout cum alia comparatur, e. g., cum
cogitamus Pe trum idem specie esse cum aliis hominibus, et idem ge nere cum
brutis, non est proprie, et stricte identitas, senam, et Banonam, seu filium
lonæ distinguit. Interdum ero plura inter se distinguit, quæ unum re ipsa sunt
ed noc unum intellectui præbet fundamentum plura in pso distmguendi. E. g., si
intellectus distinguit in anima lumana tna pnncipia, sci licet rationale,
sensitivum, et veetativum, fundamentum huius distinctionis in ipsa anima
nycnit, quia anima humana, quamvis sit re ipsa unicum inncipium, tamen
triplicem virtutem exercet, scilicet ralonalem, sens.tivam, et vegelalivam. Hæc
altera distin !Lio rationis appellatur etiam virlualis, quia obiectum, in uo
mlellectus plura distinguit, etsi unum revera sit, taien virtule multis
æquivalet, ideoque intellectui fundalentum ad efformandos plures conceptus
obiectivos illius pacbet. 63. Præter has distinctionis species Scolus
distinctio^ em formalem invexit. Hæc, secundum Doctorem Subti>m, intercedit
mter eas entitates, seu, ut ipse ait, for 1 Hic non loquimur de distinctione
reali, qua Tres Personæ Dinæ inter se djstinguuntur; ea enim, ut Theologi
docent, non nisi opposmone relationis oriri potest, quatenus nempe Pater
relative 'Pomtur Fiho, et Pater Filiusquc relative opponuntur Spiritui S., iub
unicum principium sunt. mas, quarum una concipitur ab intellectu sine altera,
ita tamen, ut ipsæ neque realiter, neque dumtaxat rationt ab individuo, in quo
sunt, atque inter se distinguantur. Non realiter, quia ipsæ una res cum
individuo sunt. Non ratione dumlaxat, quia anle omnem actionem intellectus ab
individuo, atque a seipsis invicem distinguuntur. E g., esse hominem, et esse
animal in Petro, non distinguun tur realiier, quia neque ab ipso Petro, neque a
se mutu SGU exemP'ar^s Intellectus Diviexem nhrfl n qU' ? natura,es
accuratissime respondent auiZil !n ' Secunduin uuæ De" iHas condidit. Ergo
quidquid in natura rerum est, est verum. accunUssil1,a aC1^ de,nostr^r-Si res
naturales non accuratissime responderent cxemplaribus, secundum quæ ^^ziczxTr
iiiud s- Augustini: f™ > ' ^ripUoInsl t!uT™ ""? Cr,amPIeus
Wittenbachius, Brevis de Deus illas condidit, dicendum foret Deum aut
nescivisse, aut non potuisse res condere, quales in se intelligit. Atqui illud infinitæ sapientiæ, hoc infinitæ potentiæ
Dei repugnat. Ergo repugnat res naturales non accuratissime respondere
exemplaribus, quæ in Intellectu Divino reperiuntur. 83. Hinc scite a
Scholasticis sancitum fuit verum cum ente converli ; scilicet omne verum est
ens, quia veritas rei, ut diximus, in entitate rei fundatur, et omne ens est
verum, quia omne ens ordinem ad Inteliectum Divinum necessario habet '. . 84.
Ex his intelligitur nullam falsitatem metaphvsicam in rebus inveniri posse, et,
si quæ res falsæ dicuntur, id veluti improprie dictum accipiendum esse, nempe,
ut AQUINO (vedasi) inquit, in ordine ad intellectum nostrum, ad quem res per
accidens referuntur 2. Scilicet si res referantur ad intellectum humanum,
quodammodo falsæ dici possunt, quia sunt quædam, quæ etsi vera in se sint,
tamen ita natura sua comparata sunt, ut scnsibus nostns quæ non sunt, aut
qualia non sunt , apparere queant. Ita auncalcum per se, perinde ac aurum, est
verum, quia natura eius, non secus ac auri, exemplari Mentis Divinæ consentanea
est; at quia speciem, seu similitudinem aun habet proindeque occasionem præbet
intellectui nostro, ut lllud esse aurum iudicet, falsum quodammodo dici potest
. III.— Utrum uua sit tantum veritas, an plures 4 85. Ontologi docent unam esse
veritatem, nempe Deum, ceterasque res non nisi veritate Eius esse veras; ex quo
colligunt, ut alibi dictum est, mentem humanam non posse ullum verum
cognoscere, nisi Deum intueatur, quia, cum Deus sit unica, eaque summa Veritas,
nulla res vera, alibi, quam in Deo, apprehendi potest. i Cf s. Thom., Qq.
dispp., De Ver., q. I, a. 2 ad 1. 2 Op. cit., q. I, a. 1 c— 3 I, q. XIV, a. 1
c. Aliam quæstionem, quæ circa veritatem versatur, utrum nempe dentur
veritates, quæ sint necessariæ, immutabiles, et æternæ, nic omittimus; nam
paulo ante ostendimus contra Cartesianos ventates, quæ ad essentias rerum
spectant, esse necessarias, æternas, et lmmutabiles; et in Criteriologia
refutavimusProgressistas,qui ventatem ab una ad aliam ætatem progredi
obganniunt. .•„,8h' ^r°P' Sin?ulæ res nalurahs, singulægue conceptiones
tnleUectus propria veritate gaudent. r,nZ vr' n S' esse, cuiusue rei sit quædam
participa™ A.sse De'>.et limen intelligibile inlellectus humani SU quædam
part.c.pat.o luminis inlelligibilis Dei ', tamen nemo, nisi qui pantheismum
profitetur, negare potest esse cuiuslibet rei creatæ re ipsa distingui ab isse
Uei, ct lumen intelligibile intellectus humani in se reip a d.stingu. ab
intelligibili lumine Dei. Atqui esse proprium rerum est fundamentum veritatis
ipsarum, ac concepl.ones nostr. mtellectus sunt veræ, eo quod per pro!
!!"Un!lUme-n m^'MC veritatem, quæ fLdalu^r JrefeS TT Eng°' S' \m
cuiuslibet rei reipsa dih ff • / Dei'et lumen intelligibile inlellectus ;
humani re ipsa d.stmgu.tur ab intelligibili lumine Dei ! consequens est quam
ibet rem, et quamlibet conceptionem propr.a ver.late gaudere \ Audiatur D.
Thomas: Dicen dum, quod rat.o ventatis in duobus consistit, in esse rei,
r™Pr^"SIOnC v.rtulis cognoscitivæ proportionata ad htlZ : Urumc"ue
autem horum quamvis reducatur in mS!m,' ! '" CaU.Slm efl1cientem> et
exemplarem; nihil"7,ST auæhbet res Parjicipat suum esse crcatum, fiUlI r l
CS,t; et unusauisque intellectus participa cxmmnh.P, qUP°d r6Cte de re iudical
> uuod quiueest Lam^nmV U,1',ne,nCrCat° Habet etiamHintellectus El Vnl 1°nKm
'? Se' ex aua completur ratio veritanmniVT d,C°' q.UOd S-Cut cst unum esse
Divinum, quo "' Sun l> s,cut Pnncipio efTcctivo exemplari; nit.il
formnl,,n, reDUS d'VerS,S est diversunf esse, quo formal ter res est;,ta et.am
est una verilas, scilicet 'di l "rf. ru'?.omnia vera sunt>
sicutprincipio effectivo exem K,', H{I TUS sunt P,ures veritates in rebus
creatis, qu.bus dicuntur veræ formaliler ' . talHlCrnT„°ninCS rCS' et vis
inMlnCS rCS naluralcs> omnesque conceptiones nostri intel SOW., lS >\,
VlXs eSSC auoda,nmod° ' Ub Sent., capite%sse%I'thæ'ism„0'adteqm0 0ntoloismum v
et lKt aoptt bile, es bonum. Ergo omne ens est bonum. Hanc ob rationem bonum,
æque ac unum, et verum, cum ente cmverh dicitur, quia omne bonum est ens,
e™omne ens quænus ad appetitum refertur, est bonum •. ' 4. kxindc perspicilur
bonitatem, prout est transrm lcntalis proprietas rerum, in eo consistere, quod
res prout „rn|;naDpet'tl"'P0ni,as' sl hac "tioneVclet ur T i ".
ekitnr, '"ellfgenl 102. Ut hæc notio luculentior fiat, menle reputandum
est tria,n pulcnludine distingui oportere, nempe raZ IZlTrtT S,Tf e-SS-mtiam'
(fectum ^fundZentm. Katio formal.s pulcn in convenientia partium, seu svm mcr.a
ob.ect, consistit. Effectus est delectatio quam y™. mctr.a ob.ecl,, lacultati
cognilrici in sua claritale aff,™ IZl ZlcZ0 „ Hi"C -'^.hominum'^ ffij
vocat pulcrum n.si id, cuius cognilione delectatur Fundamentum,n bomtate ipsius
obiecti situm esf nam an" mum nostrum illa rerum cognitio seu
"dspeclus dele" ctare potest, .n qua appetilus%uiescil; id au n
appet.tus qu.escit, non est, nisi id, quod tamquam boimm apprehenditur.
Quapropler si ralio formalinSer, 2? pulcrum definir, potcst, id, qnod debitam
proporlionemha>bet £% S \6onum. Al, quon.am pulcrom a celeris proprietatibus
en-,s propter proportionem obtecti, et del'clationem co„no scentis, llam
discriminatur, ipsum definiri pc tes( id Zod cum mulMudinem partium sibi
cohæreniiumpra ese tat mamfestatione sui cognoscentem delectat P ' ' 106 Porro
P'rum in naturale, arlificiosum, et morale hVC!:tlfi EP"L XVI" ai
C°eleSt' »• 2, et s. Thom., I, 2 2a 2, q. CXLV, a. 2 c. •ensistis autumant
aliquid csse Dulcrum ! n J ' ™? CUm us quac endam LPnmam Ca"Sam' ori^^mque pulcri in ipsis re
dividitur. Pulcrum artificiosum est illud, quod iu operibus artificiosis humani
ingenii splendet ; hæc enim, ut omnibus experientia compertum est, si
proportionem inter partes, ex quibus constant, præ se ferunt, animum
cognoscentis voluptate afficiunt. Pulcrum morale m actionibus humanis
invenitur, quatenus hæ cum æterms, ac immutabilibus regulis morum proportionem
habent . Pulcrum autem naturale, ad quod hæc tractalio maxime spectat, illud
est, quod tum in singulis naturis rerum, tum m mundo, qui ex illis componitur,
effulget. Etemm unaquæque
natura ex pluribus principiis constat, quæ unitatem eius efficiunt, omnesque
naturæ ita inter se colligantur, ut unus mundus ex ipsis existat. Hinc pulcræ
dicuntur singulæ species rerum, et pulcher mundus, qui ex ilhs com ponitur.
104. Diximus singulas species rerum; nam si res non m notis suis singularibus,
sed in sui essentia spectentur, dubitandum non est, quin pulcritudo sit omnium
rerum proprietas. Re quidem vera, cum Deus sit naturarum auctor, fieri non
potest, ut in ulla natura vel aliquod principium, quod ad ipsam efficiendam
requintur, vel mter principia, quæ ipsam efficiunt, ordo desideretur. Quamobrem
ne fieri quidem potest ut, quispiam naturam rei penitus cognoscat, nec tamen e
coguitione eius ullam voluptatem sentiat. At si in rebus essentiæ non
considerentur per se, sed prout per notas singulares mdividuantur, ipsæ vel
pulcræ, vel deformes esse possunt. Etenim causæ proximæ, ac immediatæ rerum
singulanum sunt aliæ res singuiares, sive causæ naturales. Atqui causæ
naturales ita secum colligantur, ut actio unius ab actione alterius impediri,
aut saltem turbari possit \ Ergo neri potest, ut res singulares aliqua notarum
careant, quæ aa pulcritudinem constituendam requiruntur 3. Hinc s. Thomas de
hoc pulcro loquens, inquit: In hoc consistit, quod conversatio hominis, sive
actio eius, sit bene proportionata secundum spiritualem rationis claritatem.
Hoc autem pertinet ad rationem honesti, quod diximus idem esse vinuti quæ
secundum rationemmoderatur omnes res humanas; 2 l, q.iiL,AT, a. 2 c. 2 Cf
Criteriol, c. IV, a. 2, p. 251-252, vol. I. a Mnrme 3 Circa opera artificiosa,
atque actioneshumanas patet opus acionne evadere, si artifex illud non
conficiat secundum leges artis, quæ Iam pulcrum naturalc in corporeum, et
spiriluale dividitur. Etcnim nos et cum in re corporea multas partes aflabre
concinnatas, et cum in subslantia spirifuali plura pnncipia, quæ ordine inter
se continentur, contemplamur, quamdam voluptatem persentiscimus. Pulcritudo
corporea vocatur sensibilis, quia ad res spectat, quæ ope sensuum cognoscuntur:
spiritualis vero dicitur inlelligibihs, quia rerum propria est, quæ intellectu
anprenenduntur f. tl 106. Deus autem, a quo, ut s. Augustinus scribit, omne
pulcrum est \ et qui, sicuti s. Thomas subdit, est universorum consonantiæ et
claritatis causa 3 , pulcherrimus aicitur. Neque negotium alicui facessat, quod
mulliludo ad unitatem redacta, quæ est essentialis nota pulcritudinis, in Deo,
qui simplicissimus est, a nobis cogitetur. Ham, cum nobis certum sit nullam
compositionem in Deo esse, lntelhgimus infinitas pcrfectiones, quæ in Eo sunt,
esse lpsu„ x Esse Dei, atque absolutam unitatem Eius constiluere. Hinc nos Deum
veluti pulcherrimum intellmmus, Eumque pulcherrimum nominamus, quia infinitam
multitudmem attributorum cum absoluta unitate coniunctam m Eo mtelligimus 4. De
categoriis in universum spectatis 107. Hactenus de iis, quæ ad ens gcneratim
consideratum pertment, disseruimus. Antequam de singulis decem categorns
sermonem aggrediamur, hæc duo circa ipsas universum mvestigare oportet: 1°
quomodo ens sit prin manas, quæ a pronuntiatis rationis practicæ discedunt crun
nisir a!,Cnl|n-da 0mnin° CSt °pin,° i,,0rum',' a,US d,°o tnna n°n Va,d0 ab,usit
Giobertius, Saggio "„ h(ll0> c 1, P39 sqq, Napoli 184. JJ ^"^liX'1'c0: 1S>
et 1 Cf I, ([. XIII, a. 4 ad 3, ct Contr. GcnC, lib. I, c. 31. cipium, ex quo categoriæ
promanant ; 2° quomodo ens per categorias dividatur. Art. I. — Quomodo ens sit
principium categoriarum 108. Iam innuimus ens esse principium, a quo categoriæ
promanant; siquidem ipsæ ens pluribus, diyersisque modis determinatum exhibent.
Id magis perspicuum fit hoc argumento: Categoriæ sunt supremæ notiones, ad quas
diversa rerum genera referuntur, proindeque supremæ notiones, quæ de diversis
rebus prædicari possunt 2. Atqui quidquid de aliqua re prædicatur, ad eius esse
pertinet, quippe quod non potest aliquid cum aliquo coniungi, nisi ipsi inesse,
scilicet in eo esse intelligatur. Ergo categoriæ, cum sint suprema prædicandi
genera, diversos modos essendi significant, ac proinde esse est principium, a
quo ipsæ promanant. .-'..; 109. At vox ens tribus diversis significalionibus
accipi potest . Ipsa enim quandoque illud esse significat, quod copulæ officio
in enunciatione fungitur; e. g., cum dicimus, Socrates est philosophus;
quandoque autem essentxam rei, nempe id, per quod quælibet res in sua specie
constituitur, e. g., humanitatem in Socrate, quia per humanitatem Socrates est
homo; quandoque tandem actualitatem, sive actualem existentiam rei, nempe id,
quo res actu est in natura. Ens hoc tertio modo acceptum, dicitur ens actuale.
110. His præstitutis, demonstramus sequentem Ens, quod tamquam principium
categoriarum po nitur, non est illud, quod copulam enunciationis constituit,
neque illud, quod essentiam rei simpliciter significat, sed est ens actuale. .
. Probatur prima pars contra Kantium % et Rosmmium . Categoriis non quæritur,
an sit res, sed cuiusmodi sit. Atqui esse, quod in enunciatione munus copulæ
obit, significat quidem aliquid entis inesse subiecto, sed cuiusmodi illud sit,
utrum substantia, an qualitas, an alius quidam modus entis, non patefacit. E.
g., in hac enunciatione, i 4._ 2 Gf Logic, par. I, c. I, a. 6, p. 16 vol. I. s ln lib. II Sent., Dist.
XXXIII, q. I, a. 1 ad 1. Critiaue de la raison pure; Log. transcend., lib. I,
sect. 6, % i" s Logil, lib. II, sez. I, c.
9-11, p. 116-122, Napoli. Socrates est philosophus, verbum est significat esse
philosophum Socrati inesse, sed ulrum esse philosophum sit substantia Socratis,
an qualitas, quæ substantiæ inhæret minime innu.t. Ergo ens, quod per
categorias dividilur' n°444Sin Ur ' quod C0Pu,am enunciationis significat 111.
Irobatur altera pars contra Heghelium , et Giobertium . Lategoriæ non
significant diversas essentias rerum, nempe illud, per quod res in certo
genere, vel certa specie constituuntur, sed diversos modos, quibus essentiæ
rerum determinatæ exislunt; e. g., categoria substantiæ non denotat essentiam
hominis, sed modum, quo essentia hominis in rerum natura existit. Modi autem,
auibus essentia rerum creatarum determinala in rerum natura existit, ab ipsa
essentia reipsa distinguuntur. Hisce adnotaUs, lta argumentamur: Si categoriæ
ab ente, quod essentiam s.mpliciter sumtam significat, derivare dicunlur, lunc
vel ipsis dumtaxat essentias rerum exhiberi vel essent.am, et modum, quo ipsa
in rerum natura existit, unum, idemque esse dicatur oportet. Atqui utrumque est
la sum. Ergo ens, ex quo categoriæ derivant, illud non Vi3n essenl,am
simpliciter sumtam significat tJlj: Frobatur tertia pars, quæ ex iam dictis
facile intellig.tur. Categonæ sunt notiones supremæ, ad quas rerum, quæ in
natura sunt, notiones revocantur. Atqui not.ones quæ referuntur ad res, prout
in natura sunt, exh.bcnt ahquem modum entis actualis, sive aliquem moaum, quo
res actu sunt in natura. Ergo cateoxmæ repracsentare debent communissimos modos
entis actualisy s.vc communissimos modos, quibus res actu esse possunt ac
Proinde non n.s. ens actuale, sive illud, quo res actu tsi in natura, illarum
pnncipium esse potest. H. Quoraodo ens per categorias dividatur ou1!?.' Ad
JianC. I"30^00^ exsolvendam in primis nobis est uemonstranda sequens pr3'
tEm ™lUo m?do ta^quam genus assignari potest. mi u h r T GeUUS eius'nodi est
> "t a ciifTerentiis delerminetur, hæ autem differentiæ, etsi potestate
in genere 5 pf/;,Th°m;' l0P' cit—% E^yclop.y § 86 sqq. Protohg., Saggio I, et
III. n contineantur , tamen extra essentiam generis sunt; si enim differentiæ
ad essentiam generis pertinent, notio generis cum notione speciei
permisceretur, quia species ex genere, et differentia conflatur 8. Hoc posito, en argumentum : Si
ens esset genus, eius differentias aliquid reale extra ens esse oporteret.
Atqui impossibile est turn dan . aliquid reale extra ens, quia extra ens non
est nisi non ens, seu nihil, tum aliquid mente concipi, cuius conceptus ad
conceptum entis non reducitur, quia extra notionem entis non est alia notio,
nisi non-entis, seu nihili. Ergo ens tamquam genus nullo modo assignari potest
. 114. Hac theoria præstituta, facile est perspicere veritatem huius secundæ
Ens per categorias dividitur non tamquam genus per species, sed tamquam per
diversos modos essendi. Probatur prima
pars. Ens nullo modo tamquam genus assignari potest. Ergo ens per categorias
non dividitur tamquam genus per species. Quapropter categonæ non addunt enti
aliquid, quod est præter essentiam eius, eo modo, quo species addunt aliquid
generi, quod extra ipsius essentiam est, nihil enim esse potest, quod sit extra
essentiam entis. 115. Hoc idem alia ratione confirmari potest : Illud, quod
pertinet ad genus, univoce, nempe eadem sigmficatione singulis speciebus est
attribuendum ; e. g., animal univoce de homine, et de brutis prædicatur:
quaproptei si ens genus categoriarum esset, ipsum de iis singulis univoce
prædicandum f oret. Atqui ens de singuhs categorni univoce non prædicatur ; nam
in singulis categoms c diversis modis exhibetur, unde unicuique [categoriæ) de
betur proprius modus prædicandi 5; e g., in pnma ca i Dicitur differentia
potestate in genere contineri, quippe quo eenus a differentia perfici non
potest, nisi sit ita dispositum, u ab hac determinari queat.-2 Cf Logic, par.
I, c. I, a. 2, p. 11 vol. 1 3 Cf s. Thom., I, q. IH, a. 5 c. Nemo vero
existimet ens ess genus, quia ipsum in ens, quod est per se, nempe substantiam,
e in ens quod est in alio, nempe accidens, dividitur; hæc enim, ui Boetius
(Prædic, c. 4) monuit, non est divisio stricte sumta sci licet quæ per species
fit, sed potius quædam enumeratio. Ct . Damascen., Dialect., c. 10. Cf Loqic,
par. I, c. I, a. 5, p. 15 vol. I. In lib. I Sent., Dist. XXI, q. I, a. 3 ad 2.
Ens autem no tegoria, quæ est substantia, significatur esse per se, in reiquis
novem, quæ sunt accidentia, significatur esse in alio, 3t in smgulis harum
specialis modus essendi in alio inTenitur. iLrgo ens per catcgorias tamquam
genus per spe3ies non dividitur. b l l 116. Probatur altera pars. Unaquæque
categoria certum, 3t pecu.arem modum entis significat. Ergo ens per
cate-,'or.as d.viditur tamquam per diversos modos, secundum juos ens et esse,
et intelligi potest. De categoriis speciatim consideratis 2 I. Notio subslantiæ
declaratur 117. Substantia, prout categoria est 3, describitur, ut am m Logica
dix.mus \ res cui convenit esse in se, et non n alio, sive non m subiecto. Ad
hanc subslantiæ notionem leclarandam, exphcandum nobis est 1° cur substanlia
diatur.noP;J^en.s> quod est in se, sed res, cui convenit ss.e.Qin,f' f (lu,d
Slbl veht esse in se, et non in alioA^ 118. Uuod attinet ad pnmum, in memoriam
revocanjlum nobis est substantiam, æque ac quamlibet cate-oliam, esse quemdam
specialem modum, quo aliqua ves fctuest in natura, ac proinde ipsam intelligi
non posse, | iisi l iii ea et al.qu.d, quod quodam modo est, et quidam aodus,
quo ipsa aclu est, distinguantur. Hanc ob ratioiem substantia dicenda non est
ens, quod est in se, aut cr se, scd res, cui convenit esse in se, aut per se,
ut igmncetur discnmen inter ipsam rem, et modum, quo raantiaCatUprf t
Categ0riis a%^ocey sed analogice, quia ens de sub.antia et dc diversis
acc.dentibus non sine aliquo ordine unius L ZJ^T^ siuuidera> cu™ ecidens
substantiæ inhæe suh, ntLUSH -/5Se/Ub!tantiæ pendet' ac Proindc " Primo vZ
n r CU,Ur' d°lnde de diversis ccidentibus. Cf quæ dijmus in Logica, loc. cit.
p. 15 vol. I. ' Cf s. Thom., Qq. dispp., De Vcr., q. XXI, a. 1 c. M Vof.°TrUm
nUmerUm exP0S™s in Logic, loc. cit., a. 6, m^Z^ZZ^ categoria est: vo substantiæ
aliquando nidetur ad significandam essentiam, vel naturam rci vel formam
Uma^tenam, aut quidquid ex utraque quasi confectum esj actu est in rerum
natura, sive inter esse essentiæ, et ess existentiæ f. 119. Quod ad alterum
speclat, in notione substantiat illa verba esse per se, sive esse in se
excludunt inhæren tiam in subiecto, sive denotant illud, quod dicitur sub
stantia, non habere esse suum in alio, tamquam in sub iecto, sed non removent a
substantia causam effectncen suæ existentiæ, sive non denotant ad notionem
substan tiæ pertinere, ut esse suum ab alio non recipiat, nan substantiæ creatæ
esse suum a Deo accipiunt. ! 120. Iamvero res, cui convenit esse in se, non xn
aho substantia ex eo præcipue nuncupatur, quod est accidec tium subiectum, ac
proinde sub accidentibus stare, ho est, accidentibus subesse intelligitur.
Substantiam autet esse subiectum accidentium ita demonstratur: Si subiec tum
accidentium non esset substantia, oporteret esse aliu accidens, et quoniam hoc
accidens, non secus ac omn aliud accidens, expostulat subiectum, in quo insit,
pr( gressus in infinitum admittendus esset. Atqui huiusmoc progressus,
omnibus fatentibus, est absurdus 3. Ergo sul iectum accidentium est substantia.
Art.II, — Definitiones substantiæ a nonnullis Philosopis traditæ exploduntur
121. Ex principiis, quæ in præcedenti articulo exp nire per substantiam, cuius
est accidens ; In lib. I Sent., Dist. q.
IV, a. 3 ad 2. . Op. cit., lib. II, c. 23, § 1 sqq. Hanc Lockii opimonem, pn
ter omnes sensistas, David Humius, utpote scepticismo suo la\ Neapoli 1881. Nouveau systeme de la nature
etc, p. 124-127, ed. Erdm. 2 Elementa metaphysica scientiæ naturæ
(germ.),p.42,Riga 17 • 3 Cf s. Thom., Qq. dispp., De Por., q. X, a. 1 ad 8. Protol., Saggio. Notio substantiac uli paulo ante
ostendimus, alia t a notione causac. Ergo substantia in eo consislere nent,
quod sit causa, sive principium operationis, per lam ipsa nihilum negat.
Accedit quod s/ subslantia conituitur ex eo, quod est princip?u_ operalionis?
per lam ipsa n.hilum negat, diccndum est substantiam e^se uisam creatncem sui;
nam, cum productio rei ex nih o creatio, subslant.a, si se ipsan/ex eo
constiluit, " uod f alttsMmS. SC ipSam " ^ 2S III _ Scnlenlia s.
Thomao circa principium, ex „ao subsla„l,a lit individua, exponitur, et
probatur |127 • In primis, in quo quæstio circa principium indi Juationis
vcrsatur, declarandum nobis est. NoUo perfectæ substantiæ, ut in Logica diximus
\ non gu eribus, et speciebus, sed in individuo invenitur. 'ft1™seu s.ngu are,
secundum s. Thomam, diurillud, quod esttn se tndistinctum, ita ut in plura di
!„T,P°SS.'t' Pr0lnde e> seeusac universale, lamquam 3_£__ _"
Commuue,u(elli neqneal;aft aliis vero hnctum S,ta ut s.t hoc, et non illud, aut
aliud. LlVJ1-'! •rnentUm,seu radix' ex p- 16 sq vo1- '— ' '. xx, o. i c.
___.Pinrf J. Uæst,one,n vcrsari circa principium formale, seu ScDmV
"at,°mS' -n°n Vero circa P""cipium eflicens, m • _nTm ' -? Per
SpiCUam est PrinciPi'>'n _ectivam esse •T ni.rZ' • cu",s v,rtnte
ali(I"a natnra c(nci'"">', M • n m Z.I,ntCr utru,t"luc
Principiam iam adnotavit s. ThoZ, ", dlssercns dc 'ndividuatione animæ,
inquit: Princinium t_liP„^'r i-Tinsecum, sed impossiMle „t, ^od mpossibilr e
"" m rlnsecnm ani,næ, vel alterius creatu ac.et inlr „trn .' ^ „_? '
lndivins, falsitas sentcnS.I _rPL ^ ?. ' qU' Huetium ^^rches historiaues,
'ionis i„ 'iw !,„'• Gand 1838) Sec,ttus> asscruit radiccm indivil !?V___1_.
r8S.0.Cat, '""""'• Vid' ^0" etc' hæc est, quid sit, ex
quo substantia singularitatem sumit, sive eius unitas indivisibilis in plura,
et a quocunv que alio divisa oritur. Eadem quæstio huc redit ; quid sit, quo
substantiæ intra eamdem speciem solo numerc differant, et multiplicenlur ; nam
unumquodque individuum a quocumque alio eiusdem speciei divisum mtelliffi
nequit, quin individuorum multiplicatio, quæ numerica dicitur, intelligatur, ac
proinde eo ipso, quod prmcipium individuationis exponitur, principium pateht,
e^ quo multiplicatio numerica existit. 129. Hisce præmonitis, nos s. Thomæ
doctrmæ ad hærentes, hanc oslendimus, ln substantiis materialibus prinapium
individua tionis est materia, signata quantilate. '— Probalur la pars/Etsi
principium mdividuationis ne queat esse aliquid, quod ad essentiam rei spectat,
qui; individuatio non pertinet ad essentiam rerum creatarum tamen esse debet
aliquid substantiale, seu quod ad lpsun esse substantiæ refertur ; nam
individuatio substantiæ cum pertineat ad prædicamentum substantiæ, ad ahqui °
£• -ndividua 1 Contr. Gent., lib. II c 93 2 j i ^d:e/raatumesir,;0rav„pear rcm
forma -^5^ 4 HI, q. LXXVII, a. 2 c. • 7n (£" f nt-' D,StXII> 1a • 3 ad
3. . In hb. II Sent.,
Dist. II, q. i, a. 4 s0,. ar. IUac"T 07', "%. ^"titatis
plicavimus i„ £o^0, idivlrtL'," " dU° ln,0nere PræslatPrimum est,
quod princioium 1 ^ vTroeSDSreoud'c"ur """. Proat ordinem\d
S •, p"o„t malrPiaP LT U8S aC'U el inhæret; tum u'a 1uane inAwl™ inhæret,
iam individuata est, proinde k"r .r es^SLrr"' Mm qUia auantitas. u'iæ
cta inhit Fam indiwVn.. ° ccidens, ac proinde per ipsam princi Wte^' "•'
d'lim"uS' aIiunid Intile esse 'WdUP1 s distne?(Un; ITT 'n,er h0C> et
aliud individuum no„ icubitum J InC t,0'/ed 1,la> uuæ> e ; inter
bicubitum, et atis a? CS ',,n,ercederetAUerUm est1uod dimensiones quan W .b. ™t
°riaI prout Pr'"oipium individuationis est, or H vero prout '2£
""" SU°, r , prout termm^n:"hnihl?Pff l0n!m,C,Um^ua
coniuncta compositum sub-anUæ efformat; vel ea, quæ existere non potest, nisi
\nZ I COexistat^ nou quiem uti subiecto inhærentiæ, CruLn •aCC,denV Sed U,i
Subicct0 coexistentiæ. rrioris genens exemplum est anima humana, ut in 4 uXipTm
Cem!lS' qU3e ^61 Per se existere Possit> naurahter tamen ordmatur ad
physicam compositionem cum jorpore, cum quo constituit illud compositum
subslanlianL?^/v.ocatur ^0 : quocirca anima humana dicitur uostanha mcomplela
in ratione speciei, licet integra sit nratione substantiæ. Alterius generis exemplum
est ania brulorum, quæ proinde substantiæ incompletæ dicunK°^,80,umtnraa^V^8ed
etiam tn roturoe 6 34. lam subslantiæ incompletæ sunt quidem per se,
&Ui„JXrU8,^°n.inhæ1rent a,teri> vc,uti subiecto, iroindeque ab
accidenlibus distinguuntur; sed, prout to .Hiv'^111, .9 2 ad,3^ Quoniain
substantiæ Angelicæ per seipsas d,v duantur, s Thomas inde confecit ipsas
specie inter se differre! 4 rAngeh1e,usde,n sPcciei inveniri nequeant (ibid.,
q. L ni ? qmde.,n' nt ideni sanctus Doctor advertit, non iit ex , qnod I natura
cuiusque Angeli per se spectata in pluribus esse q ii, nam forma, quantum est
de se, nisi aliquid aliud im ouorl ?n P°tCSt a Pl"ribus {ihid'> q' ni,
loc. cit.); sed ex, quod, cnm omnis materiæ sit expers, non inveniuntur sub i a
Tad? ipliCCt',r >>; Cf Q9' dispP'> q" UU De ' f f 1 ^ C?USi'
l6Ct' IX" Sed hac re in Theologia nalurali. ^i nostrum Lexicon peripateticum etc. ed. cit., p.
340. Pnn,os. Christ. Compend. II. 7 ^ ONTOLOGIA tum substanliale compositum
efformant, non nisi in ipso substanliali composito perficiuntur. Substantiæ
autem completæ non sunt in aliquo, tamquain in subiecto, neque in aliquo, ut
totum quoddam constituant ; proindeque iure dicunlur esse sui ipsius, nempe
absolula ratione per se, et non in alio existere. 135. Quod si substantia
completa est sui ipsius, consequitur proprium quoque illius esse, quod quidquid
agit, sibi agil. E contrario substantiæ incompletæ, quippe quæ non sunt sui
ipsius, quidquid agunt, non sibi, sed subiecto, a quo perficiuntur, agunt. E.
g., quidquid Angelus operatur, operatio ei tribuitur, at, cum manus hominis
percutit instrumentum, non proprie raanus, sed homo per manum agere dicitur.
136. Actus, sive perfectio, per quam substantia completa exislit, subsistentia
appellatur. Quare subsistentia Ua definiri solet : Actuaiitas, seu perfectio,
per quam natura fit sui ipsius, et non alterius; vel etiam, perfectio, per quam
natura ultimo completur, et terminatur, ita ut sit, et operetur, quin cum
altera se communicet. V. Notiones suppositi, et personæ declarantur 137.
Subsistenlia concrete sumta dicitur >suppositum ; quocirca supposilum est substantia
individua. et completa incommunicabiliter subsistens. Quod si suppositum
intelligentia perfruatur, digniori nomine personae, ve! hijposthasi?
nuncupatur, eaque secundum Boetium vulgo defimtnr : Naturae rationalis
individua subslantia. 138. Haec personae definitio ita explicatur: 1° Persona
debet esse substantia; accidens enim, cum nullo modo in se existat, sed in
subiecto insit, nequit esse aliquid subsistens, ac proinde nequit esse persona
l. 2° Gum persona dicitur individua, tria significantur. Scilicet primo,
persona debet esse quaedam substantia singularis, ac proinde non potest,
quemadmodum natura universalis, esse communis pluribus 2; unde personalis
tessera in tali modo existendi consistere dicitur 3. Secundo debet esse
substantia completa; ita ut non possit communicari alteri substantiae, cum qua
compositum substan Cf s. Thom., Qq. dispp., De Pot., q. TX, a. 2 c. 2 /n lib. I
Sent., Dist. XXV, q. I, a. 4 ad 7.— 3 Qq. dispp., ibid. ad ONTOLOGIA tiale
efficiat . E g. anima separata est pars rationalis naturae, hnmanae ? et ^ ^ P
ona s hominiS et ideo non est pergooa 2 . Tertio, debet habere ubs.slent.am
propnam sibi , ita „1 persona dici nequeat ilh nalura, qoae etsi singularis, et
completa sit, tamen quia assumitur a persona excellentiori, propriam
hyTosthas.m am.ttit, alque in illa excellentior hyposthasf P a qunQ assumilur,
subsistit 4. jpusmas., a 3 Illa vox rationalis adclitur, ut subsistentia
cuiuslibel naturae singulans completae ab illa, quæ propria iuiel jqo naturac
est> distinguatur \ H liam „n"?0ne Personæ> uu' tradidimus, illud c
am peisp.citur, personam esse inlegrum operalionum ^nm pr.ncip.um, quippe quod
nulla natura^aliquid £ 1m>^!nrm su,)SlslatHi.nc i,,ud effatum, Actiones sunt
teer^1' 'T^ GlS1 natUra f°nS Sit' et Principium I mtegrum, et completum
pnnc.pium, quod operatur. VI. Nonnullæ absurdæ opiniones cuca nolionem pcrsonæ
refelluntur 140. Aliqui ex hodiernis Germaniæ Theologis personam
iciniuiit,naturam sui consciam \ Horum scntentia valde Uinis ; viflelur opioiom
Lockii, qui identitatem personæ in onscient.tvrpropr.arum actionum, seu in
actu, quo ouis e.LitPr 10mim SUarUm °St COnscius> Ponendam esse ontcia
Pr°P" ^' PerSOm PerPeram drfnitur, natura sui |J/n lib. I sent., loc. cit.
l/in^r'' D& P0L'.qIX' a' 2 ad J4— 3 /n »• ' ••. loc. cit. Vcrbo „„ L?
rnat,on,s 'ystcrio evenit, quia, cum humana nntura ipediJh np hP ' ( sua »ni°ne
IV i >,m,nana natura propriam personalitatem haberct (III aaUtaq nl, 3'urndc
naturac assumptæ non deest propria per pc t n^i ? æCtUm a,,'C,UJUS' aUOd ad P^fectionem
bumanac rac per tineat, sed propter additionem alicuius, quod est supra hu
itVtti? qU°d CSt uni0 ad div'nan pcrsonam »; ibid!, ad 2 ( J> LCetfriS
Zucri^> Defensio scientifica theoriæ christia5 inmtatis (germ.), Viennæ 184.
°P©., lib. II, c.
27, $ 9. Probalur. 1° Conscientia est actus, quo natura intelle 'ctrix se,
suasque operationes cognoscit. Atqui, aiente s. Thoma, actus omnis cst rei
subsistentis, et perfectæ , nernpe suppositi, et personæ. Ergo conseientia
personam iam conslitutam expostulat, tantum abest, ut lllam con stituat. 2° Si
persona in conscientia posita csset, anima etiam sine corpore persona esse
posset, quippe quod ipsa eorpore non eget, ut sui conscientiam habeat. Alqui
sola anima, utpole substanlia incomplela, persona esse nequit Ergo persona ex
conscientia sui ipsius exurgere non potest 3° li, qui hanc novam definitionem
personæ tradunt, s sibi constare velint, doceant necesse cst homines, cum si ne
conscientia sui ipsius nascantur, minime nasci ut personas, sed annorum cursu
fieri personas, proindequminis persona, sive eædem, sive diversæ eius
operationes sint. Diximus naturam singularem, nam quæstio circa naturam out
essentiam rei significat, non versatur; si enim, uti iam osten M (P lb),
existentia in rebus creatis ab essentia distinguitur iDitari non potest, quin
subsistentia quoque ab ipsa distinguatur 18. Uiom., Quodlib. II, a. 4 c).
Diximus etiam in rebus creatis rium enim est Divinas Personalitates a natura
ratione tantum sungui . 2 Unde s. Thomas
monet singularitatem naturæ efficere, ut ipsa næc natura, non vero hoc
subsistens. In tib. III Sent.. Dist. quemadmodum de nalura humana Christi a Verbo
assumpta factum esse docet Fides. Ergo
in rebus creatis natura a subsistentia reaiiter distinguitur. 144. 2a.
Subsistentia est aliquid positivum, non mera negatio. Probatur contra nonnullos
Scotistas, qui putant subsistentiam idcirco in mera negatione consistere, quia
ipsa id dumlaxat efficit, ut natura cum altero communicari nequeat. Natura ex
subsistentia valde perficitur, quippe quod per ipsam ita sui iuris fit, ut ei
non solum non sit opus, sed ne possibile quidem sit se cum allera communicare.
Atqui aliquid perfici non potest, nisi per id, quod est positivum, et reale.
Ergo subsistentia in mera negatione posita non est f. i VIM. De accidente 145.
Sicut substantia est res, cui esse^ n^nJj^aHo convenit; ita accidens est res,
cui convenit esse "in alio, tamquam in subiecto; siquidem accidens
nuncopaTuTTlle specialis modus essendi, qui modo, quo substantia est, opponitur
2. 146. Accidentia in absoluta, et modalia distinguuntur; nempe ipsa
accidenlia, quæ substantiam afficiunt, absoluta appellantur; modi autem,
secundum quos accidentia substantiam afficiunt, accidentia modalia dicuntur. E. g., motus est accidens
absolutum, segnities autem, vel velocitas motus est accidens modale ; item,
calor aquæ est accidens absolutum, intensio autem caloris est accidens modale.
Ut notio accidentis penitus intelligatur, veritatem harum propositionum, quas
Scholastici docuerunt, et plerique philosophi recentes inficiantur,
demonstremus oportet. Cf s. Thom., I, q. XXX, a. 3 c. Quod si quæratur, quodnam
sit hoc positivum, quod subsistentia supra naturam addit, responderi potest
esse quemdam modum, quo natura ultimo completur. sive terminatur, fitque sui
iuris. Hic agimus de accidente physico, seH
prædicamentali, non vero de accidente logico, seu prædicabili. Discrimen inter
utramque accidentis speciem eiplicavimus in Logica par, I, c. I, a. 6, p. 16,
jiot. 1. yoI. I. j la. Esse accidentis, etsi ab esse substantiæ dependeat,
tamen ab hoc reapse distinguilur. Probatur. Accidens est aliquid, quod
substantiæ addijtur, aut ab ea demitur, unde ex accidentibus fit, ut
subjStanlia aliquem modum, sive statum accipiat, vel amiltat jAtqui impossibile
est unam, eamdemque rem sibi ipsi addi (aut a seipsa separari. Ergo esse accidentis unum,
idemque cum esse substantiæ dici non polest, ac proinde esse accidentis ab esse
substantiæ reapse distingualur oous est K 14. Irop. 2 . Accidentia absoluta 2
ex virtute Divina 3 fxislere possunt, quin actu inhæreant substantiæ. Irobatur.
Omnia, quæ intrinsecus non repugnant, a Deo e Iici possunt. Atqui mtrinsecus
non repugnat, accidens ;absolulum aclu existere seorsum a substantia, a qua
naluraliter pendet. Ergo. 4 149. Minor probalur hunc in modum: Accidens,
etiamsi ictu non inbæreat suæ substantiæ, tamen propriam ac3ident.s essentiam
non amittit ; nam ad essentiam accilentis pcrlinet quidem necessario habere
ordinem ad sub.tantiam, ila nempe ut exigat esse in subiecto, quia esse
iccjdentis ab esse substanliæ pendet, sed non pertinet actu nessa substanliæ,
quia esse accidentis ab esse substan-,iæ d.slinctum est. Accidens, inquit s. Bonaventura,|uamy,s non sit in
subiecto, non tamen separalur a sua liflin.t.one imo ei convenit, quia aptum
est esse in subecto . Atqu. illud, quo rei essentia non destruitur, ntrinsecus
non repugnat. Ergo intrinsecus non repusnat ccidcns absolutum actu existere
seorsum a subslantia, a ua naturahter pendet s. Lt.l Sb.A?#;-efi/rt^ ™> ' '
" 2' Ct S' nV 2 Ide.n de modis dici nequit. Etenim, etsi modns revera
distin 8tBn!/l' C;UUS est rnodus' tamen sinc neutiqam esse po8t qu.a modus,
aiente s. Augustino (De Gen. ad litt lib IV • J, n. i) cst quædam mensura, quæ
rei præfiaitur ac nroinde pugnat ahquid esse modum alicuius rei, quamVevera non
men! irat. a s. Ihom., In Ub. IV Sent., Dist. XVI, q. III, a. 1, sol.
•ci£nHnn!, M rirtUtC DlYina; °mnes enim in eo consentiunt, quod cident
naturahter convenit inesse suæ snbstantiæ, ac proinde i vfrtnte naturali non
potest seiunctum ab illa evistcre ' OocVV6^" ^ XI1' Par' ' a" f' i
°9Quod si al.qua accidentia sint, quæ sine suis subiectis actu. Si accidentia
existerent sine subiecto, re ipsa existerent per se, unde essent veræ
substantiæ. Atqui repuffnat accidens cxistere per se. Ergo accidens ne virtute
quidem Divina seiunctum a subiecto existere potest. 151. Resp. Neg. mai., conc.
min. Neg. cons. Et sane nccidenlia, quamdiu seiuncta a subiecto existunt,
sustentantur a Deo, ita tamen, ut eo, quo diximus, modo ordinem servent ad
substantiam. Quocirca, cum sustententur a Deo, non subsistunt per se, quod est
proprium substantiæ, et cum ordinem servent ad subieclum, naturam accidentium
non amiltunt . Quin autem accidentia possint a Deo sustentari, dubitandum non
est; nam, ut optime s. Thomas observat, sicut Deus potest effectus causarum
naturalium producere sine naturalibus causis, sic potest tenere in esse accidentia,
sublracta substantia, per quam conservabantur in esse z. esse haud concipi
possunt, huius ratio non ei eo, quod sunt accidentia, sed ex eo, quod talia
accidentia sunt, desumenda est. E. g., intellectio humana non nisi in intellectu humano
esse potest, non prout accidens est, sed prout actio humana est. Gomparatio,
inquit idem Seraphicus Doctor, accidentis, ad subiectum secundum aptitsidinem
est essentialis, et hæc numquam privatur ab accidente ; Op. et loc. cit. in
resol. III, q. LXX.VII, a. 1 c. et ad 2. Hac de accidentibus absolutis theoria
Scholastici facile explicant, quomodo in venerabili Eucharistiæ Sacramento,
peracta consecratione, species panis, et vini permanere non repugnet (Cf s.
Thom., Quodlib. IX, a. 5 c, |et s. Bonav., Jn lib. IV
Sent., loc. cit.). Nonnulli recentes Theologi, cum doceant omnia accidentia
esse modos, ac proinde fieri non posse, ut accidentia a substantia unquam
separentur, contendunt accidentia in illo Sacramento non remanere, sed eorum
sensationes a Deo in nobis excitari ; Deus enim afficit organa sensoria eodem
prorsus modo, quo a pane, et vino naturaliter affici solent. Litem istam
dirimere nostrum non est. Dumtaxat iis recentibus in memoriam revocamus
receptam a tota Ecclesia doctrinam Gatechismi Romani, Tridentinæ Synodi
interpretis, quæ hæc est: Quoniam ea accideniia Ghristi Gorpori, et Sanguini
inhærere non possunt, relinquitur ut supra omnem naturæ ordinem ipsa se, nulla
alia re nisa, sustentent. Hæc perpetua, et constans fuit Ecclesiæ doctrina ; Pars
II, c. 4, n. 44. De secunda, tertia, et quarta categoria mScw !; ;:crSiSa a est
vel subsria> tia, re.iquæ novem cnt^HaS Sl "££ quæ acl quantitatem,
relationem, et auaLlem ZVtli ' n.co capite complectemur, qiiff'W u" •
lojfca disputatum nobisV/lH' pau^a „ L'^ earum nouones ontologice consideralas
Lx me LSnt modo aduciamus necesse est. peruncnt, Anr. I. Dc qu.intitale 153. Circa quantitatem in primis illhH nnnrl -nnmmus,
uherius explicandum UK-Wi^ srjasr si aa-aa 'w i~ ' ~ e />„,., q,,x a 7 c_
extensione partium ad se comparatarum posita esse non potest. 154. Probatur 2a
pars contra Cartesium , eiusque seclatores. Extensio partium quantitatis ad
focum est aliquid, quod essentiæ quantitatis iam constitulæ advenire
intelligitur. Ergo essentia quantitatis in extensione partium in ordine ad
locum ponenda non est. Antecedens probatur ex eo, quod partes quantitatis ad
partes loci extenduntur, quatenus metiuntur partes loci, ita ut pars
quantilatis sit in parte loci, et totum quanlum in toto loco ; id quod
intelligi non potest, nisi iam quantitas cum suis dimensionibus intelligatur.
155. Probatur 3a pars. Cunctæ proprietates quantitatis, omnibus concedentibus,
in extensione partium, sive prout ad se, sive prout ad locum referuntur,
fundamentum habent. Atqui extensio partium multiludinem ipsarum subintelligit,
multitudo autem parlium nec esse, nec intelligi potest sine divisione. Ergo divisibilitas
est prima radix omnium proprietatum quantitatis. Atqui illud, quod est prima
radix omnium, quæ in re sunt, essentiam rei constituit. Ergo essentia
quantitatis in divisibilitate ponenda est. 156. Notione quantitatis iam
perspecta, ad mquirendum progrediamur, utrum quantitas in infinitum augeri
possit. la. Quantitatem conlinuam 3 mathematice sumtam infinitam in potentia
esse haud repugnat. Probalur. Quantitas continua mathematice sumpta est, uti in
Logica diximus, abstracta a qualibet forma sensibili, ita ut in ea nonnisi
quantitas consideretur. Atqui ex parte quantitatis continuæ non est aliquid,
quod repugnet additioni 5 ; nihil enim prohibet, quominus successivum augmentum
partium sine ullo termino cogitemus : id autem sibi vult quantitatem mathematice
sumtam esse infinitam in potentia. Ergo quantitatem conlinuam mathematice
sumtam velut infinitam in polentia esse non repugnat. i Les principes de la
phil., par. 2, § 9-13. 2 In lib. IV Sent., Dist. X, q. I, a. 1 ad 5. 3 Quænam
sit quantitas continua, et discreta, explicavimus ip Logica, par. I, c. I, a.
7, p. 17 vol. I. Loc. cit., p.
17, not. 1. - b III, q. VII, a. 12 ad 1. J. '££ StSL"!,SSS.'SSS 'ssfr
fferi non notP^f pv™ ? naDet> In mfinitum au LnET^; S1^ a>i?ue a.iam -
==: ssssst-s polsft neaa?addlPnarSSinBmerB' • in°''"" esse L4
"Lfii Z no laTl^riaT^ m in !".?•• QUOd est An...; rt„n y "u .
ia0u> neqne mmws iritel cri nofpsf fitum esse rep^gnat2 '0rErg0nUmerUm
ac'" infi" II. De categoria relationis sse?diReSecunn,Prn°Ut
CateS°ria est>°enotat illm moclum br rs laxle -sr in e° ?f?Vodaa no
kcidentia sed etUam Pffi,;, sub,?ct0>,nes'> sicutcetera P ilind
referatnr' ' Ut substantia> in 1™ ineat, pomerari; „an! in'sola
reJeiotr.iVCi^°a J Cf s. Thora., loc. dt.~2 Quodlib. IX a 1 c Qq. dispp., De
Pot. a VII uui ad nu"u'u alium modum Fr.rn J ' sI,ecialem eategoriam
referenda sunt. trgo ahquem modum qualitatis esse specialem calegoriam pro
cerlo hahcndum est. lu.'iJ^"s vcritas cn"Stal cx iis, quæ in Logica
inImZL San°' (luanlUas' ^elatio, et alia actidentia non, TZ i '
°d,c"nse1ueler qualificant subieelum ; siquiJtm n 1IS quaftficaho
substantiæ consequitur modum enl'n,l,°,,!V,'1 'am ""lucu"t 3- At
e contrario, sunt quæ'is inehH ?' m'æ/,?r s. ue ert, quin alium modum L n
j"11' simPl)nler 7/ efficiunl. E. g., scientia, mu albedo, rcchtudo,
curvitas, aliaquc huiusmodi acww, sul)lec""n scientia, aut virtute
præditum, aibum, hS ! ™™um, ut aliis id genus modis ?n/C sim>nciter
elhciunt. J Cf s. Bonav., ln lib. l Sent.t Dist. XXX, a. i, q. 3 resol. Par. I, c. I, a. 9, p. 20-21
vol. I.-' Loc cit. De actione, et passione I.— Explicatur modus, quo ACTIO –
cf. Grice, Actions and events-- , et passio inter calegorias rccensentur 167. Aclio denotat illud, per quod aliquid ab aliquo
originem habet. Id, quod ex alio producitur, effectus;\a, a quo effectus
producitur, agens, vel causa efficicns; ld denique, in quod actio terminatur,
sive a quo aclio recipitur, patiens, et receptio actionis passio nuncupatur.
168. lam certum est actionem ab ipso esse substantiæ creatæ distingui, et hanc
non semper agere id, quod agere potest: quapropter aclio, quatenus est quoddam
accidens, quo substantia actu aliquid producens constituitur, inter categorias
recensetur, quia indicat specialem modum, quo ens determinatur. 169. In actione
autem considerare possumus quemdam motum, quatenus incipit ab aliquo, et ad
aliquem terminum tendit . lam, etsi actio, et passio conveniant m uno motu,
cuius origo est in aclione, et terminus m passione, tamen actio, ct passio ab
se invicem dislinguuntur, quia diversa est ratio, qua agens, et paliens ad
eumdem motum se habent, nempe in actione lmportatur respectus, ut a quo est
motus in mobili, in passione vero, ut qui est ab alio 2 . Hoc discrimen inter
actionem, et passionem luculentius manifestatur in iis actionibus, quarum
terminus, ut mox dicemus, est extra ipsum agens. btenim, monente Aquinate, si
actio est in agente, et passio in aliquo extra ipsum aojens, actio, et passio
non potest esse idem numero accidens,^ cum unum accidens nor possit esse in
diversis subiectis 3 . De disciimine inter actionera immanenlem ct transeuntem
170. Actio immanens ea est, cuius effectus in ipso agenu locum habet, ita ut
idem subiectum sit pnncipium, e terminus actionis; actio autem transtens est
ea, cuius i i S. Thom., In Ub. 1 Sent., Dist. VIII, q. IV, a. 3 ad 3. 2 I, q. XXVIII, a. 2 ad 1. 3
in lib. II Sent., Dist. XL, q. I, a. 4 ad 1. ao ipsius ?geP„tis
tSrnsPamemtpaS,VeS ? £? ... -hquid intel.igit, perficil sSJ^ ^it
exlnde^"^^/^0."15 l™'' Xntius ii acti^r ^oT si bani rad„°ccuurLans
sa!hurmo iransicns, non proul esi \r i t • 2• acl'° d,c,tur hoc modo spectata
in fjn ','Ve affecl'° aSentis> nam lini, sive C '"r, aen(.e mane!>
s' raUone ter lislinclum extra S1',h "m., ' h'C S" aliq-uid ab
actio"e ia non poicst uidem il '?1agenS eSSe D0,csl2°
Substa".ccidens' roppiun 1 1™ &'?' aualenus ali'luod •on potest
ePpcd"esXpr .commun>cet ; nam accidens cctum vo iiare nf alind i°i •
",q"° CSt'"enue ext,a sub" ri,,;,?; tem un,us entis in
Itera. non alin/re -2 "^.^TsirdSS .tj-rtar' sive ut towctim, mi evenit in
„ : ' ' ve per conlactum 'i per con,actur,,ttV £•.. vel spiritnsT corpt ? ™
^10"6,'ritM in S^adL^elrnp8.6 ^^' ^'^ ProPositioiS jcho transiens nihil
absurdi præsefert U& "ffi TSst /ibnitA' acti0 ua, qU,a, si substantw
in alteram agerel, aliquod --•), • . n P. 261, upt"'^^';;'"'0' M r-~'
Tæ potissimum tribuitur, de hac speciatim disserendum nobis est. Alque anle
omnia explicemus oportet, qua ratione causa efliciens prior suo effectu
dicatur, ne cum JEnosidemo notio causæ efficientis veluti absurda traducatur.
Elenim antiquus iste Scepticus, ut notionem huius causæ e medio tollercl, ipsam
duo secum pugnantia com 1 Finis dicitur primus in ordine intentionis, postremus
in ordine executionis, nempe finis, quatenus causam efficientem ad aliquid
operandum movet, est primus in ordine intentionis; quatenus vero non nis.
postquam acdo completa sit, obtinetur, est postremus in ordine executioms. Ex
his vides futile essc id, quod post Epicureos a Spinosa, BufTono, ct Laplaceo
obiicitur, nempe theoriani de Hne absurdam csse ex eo, quod statuit aliquid
esse prius, et posterius Eten.m, quamvis finis sit prior, ct posterior, tamen
id ex 'iiHMs.tate respcctuum, qua omnis repugnantia tollitur, contingit. bxinde
etiam aliud argumentum pro causis finalibus petitur. EteBm in ordine causarum, quarum una alii subiicitur,
una sublata, ræ tolluntur (1. 2-, q. j, a. 2 c.}. At(]lli causa ^ imnm> t
.luu.us, inter causas locum tcnet. Ergo, si nullæ causæ finaies essent, ne ullæ
quidem causæ efficientes darentur. ~ Qq> dispp., De Vcr., q. XXII, a. 2 c.
plecti putavit, nempe, quod causa existit ante effectum, secus non posset illum
producere, et quod non existit, nisi cum effectus existit, quia causa non
potest esse causa, nisi cum existit effectus '. 181. lam distinguendæ sunt causæ,
quæ actione successiva, nempeper motum producunt effectum, ab iis, quæ agunt
sine motu, idest actione instantanea. Præterea, causa spectanda est prout est causa, et prout
est in se, idest sine relatione ad effectum. Denique adnotandnm est discrimen
inter prioritatem temporis, et prioritatem naturæ. Prioritas naturæ illa
dicitur, qua aliquid, etsi simul cum alio existat, tamen eiusmodi est, ut
alterum ab ipso quoad existentiam pendeat. Prioritas temporis vocatur illa, qua
unum alteri præcedit duratione, ipsoque nondum existente, existit. 182. His præmissis, si prioritas naturæ spectetur,
indubium est omnem causam esse natura semper priorem suo effectu, quia omnis
effectus a sua causa necessario pendet. At si prioritas temporis consideretur,
causa, secundum diversos respectus, vel prior effectu, vel simul cum effectu
esse potest. Etenim id, quod aliquid efficit, si consideretur sud ratione
causæ, certe non potest esse prius, quam effectus, quia, antequam aliquid
effecerit, causa dici nequit; sed si spectetur in se, nempe sine ulla relatione
ad effectum, interdum simul cum effectu existit, interdum ipsi præcedit, quippe
quod causa, quæ effectum successive producit, effectui tempore præcedit, ut
pater filium; sed causa, quæ subito actionem suam exerit, simul cum effectu
existit, e. g., sol cum luce. Quæ cum ita sint, liquet commentitiam esse illam
repugnantiam, quam ^Enesidemus in notione causæ delitescere putavit. De vi
obiectiva causæ efficientis, et de principio causalitatis 183. Principium
causalitatis est illud, quo ab existentia effectus existentis causæ arguitur,
atque boc modo enunciatur: quidquid fit, sui causam habet, vel, omnis effectus
subaudit causam. Iam, secundum David Humium, experientia, quæ, ut ipse
opinatur, est unica cognitionis nostræ causa, vinculum consecutionis, non vero
conne Cf Sext. Empir., Hypoth. Pyrrh., lib. III, c. 3, sect. 25, et 26. xionis
inter facta naturalia palefacit; hinc ipse vim obiectivam notionis causæ e
medio sustulit, atque principium causahtatis, quo dependentia inter causam, et
effectum statuitur, inter præiudicia nostræ mentis amandavit . 184. la. Notio
causæ est obiectiva. Probatur. Mens nostra ad notionem universalem causæ
assurgit ex iis, quæ ope experientiæ comperit. Atqui notio, quam hoc modo mens
sibi comparat, realitate obiectiva gaudere dicenda est. Ergo notio causæ est
obiectiva. 185. Mawr probatur hunc in modum : Animam nostram novos modos in se
ipsa efficere intima, iugique expenentia edocemur. Vivere se, inquit s. Augustinus,
et meminisse, et intelligere, et velle, et cogitare, et scire auis dubitet ?
Insuper, cum factum sensalionis expendimus, animam in se ipsa passivam, atque
ab obiecti exterions actione affectam experiri facile agnoscimus 3. Iam
lntcllectus, si in hæc primitivæ experientiæ facta vim suam mtendit, facile
advertit quasdam esse entitates, quæ ex lnlluxu alicuius vis activæ originem
habent, atque hoc pacto notionem alicuius, quod fit, et alicuius, a quo nt, hoc
est, effectus, et causæ adipiscitur, quas notiones universales reddit, quatenus
ab ipsis quamcumque determinalionem, e. g., hanc, vel illam entitatem, quæ
producitur, alque hanc, vel illam producendi rationem, abslraiit. Ergo mens
noslra ex iis, quæ ope experientiæ compcrit, ad universalem notionem causæ
assurgit. 186. 2a. Principium causalitatis desumit suam vitn ''X ipso principio
contradictionis. Probatur. Principium causalitatis, nempe, quidquid fit, m
causam habet, est verum iudicium analyticum 4, in quo )rædicatum ita cum
subiecto connectitur, ut si habere cau'am de effectu negetur, ipse cffectus
evancsceret, ac pro"de simul esset, ct non esset effeclus. Ergo principium
'ausahtatis ab ipso principio contradictionis vim suam 'Uniit. Tract. de nat
hum (ang]#j f Iib IV ^ c 6 m ipsum me Humium asseruerat Glanwilleus, Scepsis
scientifica adversus ogmaticorum vanitates, Lond. 1605. \ De Trin., lib. X, c.
10, n. 14. Cf Dynam., c. III, a. 4, p. 117-120 vol. I. De his mdiciis analyticis
cf Idealog. c. I, a. 4, p. 202, not.l, . Antecedens ita demonstratur: Effectus, fatente ipso
Humio, est aliquid, quod incipit existcre, dum antea non existebat, seu quod a
statu possibilitatis ad statum existentiæ progreditur. Atqui aliquid de
potenlia non potest reduci in actum, nisi per aliquod ens actu ! . Ergo, ut
effectus existentiam accipiat, aliquid iam in actu esse oporlet, quod hanc
existentiam ei largitur. Atqui id, quod effectui existentiam largitur, non
potest esse idem effectus, sed debet esse aliquid ab eo distinclum 2. Ergo notio
effeclus expostulat notionem alterius rei, quæ sua virtute existentiam effectui
largilur. Alqui res, quæ existentiam alteri largitur, causa illius cst. Ergo
notio effectus est eiusmodi, ut notionem causæ necessario expostulet, ac
proinde si hæc causæ exigentia ab effectu auferatur, ipsa notio effectus
evanescit 3. 188. Obiicit Humius: Experientia
successionem, non vero connexionem factorum naturalium nobis patefacit. Ergo
alterum alterius esse causam colligere nobis non licet. 189. Rcsp. Neg. ant.
Perperam Humius contendit nos ex præiudicata nostra opinione dependentiam inter
res statuere, quia ipsas nonnisi sibi invicem succedere experimur. Etenim
distinguenda est cognitio dependentiæ unius rei ab alia, atque cogniti o
necessitatis huiusmodi dependentiæ . lam, quod ad primam cognitionem spectat,
experientia sæpe nobis patefacit non simplicem successionem, sed actionem unius
in aliud, ac proinde dependentiam unius ab altero, a quo producilur. E. g., ipsa nos edocet
sensationes in anima a corporibus, sensum doloris ex suscepto vulnere,
extinctionem famis, et sitis ex sumptione cibi, et potus, combustionem ligni ex
eius proiectione in ignem effici. Hoc adeo verum est, ut ea, quæ sibi invicem
succedunt, ab iis, quorum unum ab altero i i, q. II, a. 3 c., Nec est
possibile, quod aliquid sit causa efflciens suis ipsius, quia sic esset prius
seipso, quod est impossibile ; Ibid. 3 Inde Kantius etiam refellitur, qui
principium causalitatis intei sua principia synthetica a priori (cf Ideal.,
loc. cit.), recensuitNam in principio causalitatis, quemadmodum ostendimus, ex
notione subiecti notio prædicati evolvitur, id quod, secundum ipsum Kantium,
analyticorum iudiciorum proprium est. Cf Scot., ln lib. I Sent., Dist. III, q. IV, schol.
producitur, discernamus. E. g., nos dicimus ignem esse causam fumi ; at non
dicimus diem esse causam noctis, aut unam tempestatem esse causam altcrius.
Quod si de cognitione necessitatis huiusmodi dependentiæ sermo haheatur, sane
eam experientia non commonstrat, sed intellectus perficit, ope illius
pronuntiati, quod Scotus ita enunciavit. Quidquid evenit ut in plurihus ah aliqua causa non
lihera, est effectus naturalis illius causæ. Refutatur Occasionalismua 190. Non
pauci Cartesiani post Malehranchium 2 autumant Deum esse unicam causam agentem,
res autem creatas orani activitate destilui, nihilque aliud præstare, quam quod
Deo occasionem agendi præhent. Hæc
sententia Occasionalismus appellatur. Ipsa autem, quam etiam hac nostra ætate
ab. Dehreyneus 3, Buchezius , aliiquc propugnant, auctores habuit quosdam
veteres 5, ex quorum opinione Deus, dum res in quibusdam circumstantiis positas
intuetur, secundum leges, quas ad mundi conservationcm sihi præscripsit,
effectus producit, qui ab ipsis rehus produci videntur. 191. Vim agendi rebus
creatis inesse haud repugmit G. Probatur. Nulla ratio, cur rebus creatis vis
agendi repugnet, sumi potest neque ex natura rerum creatarum, m quihus illa
concipitur, neque ex natura Dei, qui illam cum ipsis communicat. Ergo vis agendi rebus creatis
haud repugnat. 192. Antecedens ita demonstratur: 1° Si res ipsæ considerentur,
vim effectricem eis inesse absurdum non est. Etenim vis agendi, quæ a causa Prima pendet,
limitibusque definitur, et pro diversa creaturarum indole di 1 Loc. cit. Cf Criteriol., c. IV, a. 2, p.
254 vol. I. De inquir. ver., lib. VI, pars II, c. 3. 1 Theorie biblique de la cosmogonie,
et de la gtiologie, Paris 1848. Introd. d V dtude des sciences mddicales, lec.
II, p. 67 sqq, Paris Joo8. Mlorum mentio occurrit apud B. Alb. M. (Phys., lib.
II, tract. II, C 8), ct apud s. Thomam, Qq. dispp., De Pot., q. III, a. 7. Id
tantum, ne Ontologiæ fines egrcdiamur, demonstrandum obis hic est. Utrum autem,
necnc vis quædam actuosa insit re^us creatis, in Cosmologia investigabimus.
versa est, naturæ rerum non modo non adversatur, sed etiam omnino convenit.
Atqui huiusmodi esl vis effectrix, quam nos creaturis adversus Malebranchianos
vindicamus; non enim nobis volumus huiusmodi vim rebus creatis convenire, ut
ipsæ quidquam ex nihilo efficere valeant; sed solum contendimus res creatas
posse a Deo eiusmodi vi ornari, ut, ipso Deo ad illarum actiones concurrente,
aliquid ex præexistente materia efficiant. Ergo vim effectricem rebus creatis
inesse, si res ipsæ considerentur, absurdum non est. 2° Nec, si consideretur
Deus, qui vim agendi cum rebus creatis communicat. Et sane, Deus potest communicare aliis similitudinem
suam, quantum ad esse, in quantum res in esse produxit . Ergo potest
communicare eis similitudinem suam quantum ad agere, ut etiam res creatæ
habeant proprias actiones . 193. Secundum Occasionalistas, creaturas quidquam
operari repugnat, 1° quia, cum Deus sit causa perfectissima, aliæ causæ, præter
Deum, admitti non possunt; 2° quia si Deus dumtaxat omnia, quæ in mundo fiunt,
operari dicatur, iidem effectus in mundo existerent, ac proinde Deus, si vim
agendi cum rebus a se creatis communicaret, frustra aiiquid moliretur, id quod
Divinæ Sapientiæ refragatur. 194. Ast ipsi longe opinione falluntur. Etenim
quod spectat ad primum, nos tuemur alias causas, præter Deum, admitti posse non
ex insufficientia, ut s. Thomas ait, Divinæ virtutis, sed ex immensitate
Bonitatis ipsius, per quam suam similitudinem rebus communicare voluit, non
solum quantum ad hoc, quod essent, sed etiam quantum ad hoc, quod aliorum causæ
essent 2 . Iamvero, quemadmodum infinita perfectio Dei non impedit, quominus
plurima alia imperfecta existant, cuiusmodi sunt contingentia, et finita; ita
non vetat admittere alias causas, quæ per virtutem a Causa Prima, nempe a Deo
acceptam, agant, ab Eaque in operationibus suis pendeant. Quin etiam sicut
perfectio Divina non esset dicenda infinita, si Deus non posset aliis extra se
rebus existentiam largiri, 1 Ita argumentatus est AQUINO, Contr. Gent., lib.
III, c. 69. 2 Op. cit., c. j ila ne infinila quidem ipsa dicenda essef n.
jrebus a, se creatis vira a^endiToLn are^os^ i 195. Quodaumet ad alterura, si
Deus dumtax-n>nn jeCus T^J^oL^^ P^88 lffi ue cura Deo iilos^roXS t^t vero
sTeSf qU°; ART.VIII.-De diversis causæ efficientis speciebus ;>rincipalis
oncris arliSi 1'. art,fex est causa litur ad opus cfficfen^ °n '. T6,nstrumeu
quibus 197 NatuVcSts^ Lr^RSlL cion™^ on in vir ute „r f™' secuuum quam operatur
sl u mentaV m £,£? n,nm -artls ! nou aute>n perfici WedicuZr rLæCtUS
Prod?conem concurrU, icuntur . Circa quas species causarum s. Tho m "'
riif "f\Disii' ' ' a' 4 ad "i q LAII, a. 1 ad 2 ?inSSateCSSaliaP„-
r,CaU!aS Pr01,'maS ' Si ad Prodnetionem Jus asponant Tur raaf„ " ' C' 8-'
P'Ures baiuli' "" ""icu"' ' d e umdem cffc 1, nLP K,
MUSæ Proli"' '"^om or uem ellectuni produccndum rcquiruntur, cum ipsæ
mas adnotavit naturam effectus ex conditione causæ proximæ, non vero remotæ
pendere, quia a causa proxima cffectus immediate promanat. E. g., ex causis
proximis aliqui effectus dicuntur necessarii, vel contmgentes, non autem ex
remotis causis ; nam fructificatio pJantæ est effectus contingens propter
causam proximam, quæ est vis germinativa, quæ potest impedin, et dehcere;
quamvis causa remota, scilicet sol, sit causa ex necessitate agens. Insuper
causa potest esse vel per se, siv epropna, vel per accidens. Causa per se
appellatur, quæ lllum producit effectum, ad quem naturaliter comparata est.
Lausa autem per accidens duobus modis præcipue dici potest. nempe vel ex eo
quod præler intentionem llle etteclm a tali causa sequitur sicut fodiens
sepulcrum ad sepe liendum, invenit thesaurum præter lntentionem ; ye ex eo,
quod est removens prohibens, sicut qui extinguit candelam, vel exportat ex
domo, dicitur causare tenebras3 , quia actione sua id removet, a quo teneora
dispelluntur. 200. Explicandum etiam est, quænam sit causa sm qua non. Hæc,
monente s. Thoma , quandoque est eius modi, ut nihil agat, quandoque eiusmodi,
ut aliquid aga ad productionem effeclus. Ita admotio lgms ad stupan sine qua
ipsa stupa non comburitur, nihil per se conter ad stupæ combustionem, quantum
ad rationem causandi e contrario, respiratio, sine qua animal non vivit,
aliqui' ad vitam eius servandam per se agit. Iam, si primum tiat causa sine qua
non est causa per acadens 5; sin alterum est vera concausa. incorapletæ sunt,
quia, si completæ essent, iam aliorum consoi tium excluderent. Cf s. Thom., I, q. LII, a. 4
c. i Contr. Gent., lib. III, c. 72. Gf I,
q. XIV, a. 13 ad 1, et I lib. I Sent.y Dist. XXXVIII, q. I, a. o sol. Oq.
dispp., De Pot., q. III, a. 6 ad 6. Cave tamen, ne in colligas aliquid
fortuitum in hac rerum universitate evenire. Jii nim, ea, quæ hic per accidens
aguntur, sive in rebus naturdi bus, sive in humanis, reducuntur in aliquam
causam præoruina tem', quæ est providentia divina ; I, q. CXVI, a. 1 c. 3 In
lib. I Sent., Dist.
XLVI, q. I, a. 2 ad 3. In lib. V Met., lect. VI. s Cf Clem. Alex., Strom.,
|s.mil.s ost ipsi causæ sccundum camdcmra^oZmlccTfl,cam uli bomo est eausa
univoca hominis, ZZZnfffi \Æqiiivoca dicitur a nino r„m „fr™ præseferunl f ' °
' ^™ " \)2. Porro quælibet causa præstantior est cffecin o, quod v.rtute
acliva illum produccndi pollet" I" ve 'Linuum esse qu.sque ex se
perspicil s. •ostde" tH uCniV0Ca° n°nnisi ••• speciei suæ eonsen.a ;
Quanam ratione efTectus a Deo creati in Vn Mn.i icabimus in TÆo^ia naft.roK.
contmeantur, cx De septima categoria, quæ dicitur ubi Art.I. Noliones ubi, et
loci declarantur 203. Illud accidens, quod substantiæ corporeæ adiacet, atque
efficit, ut ipsa quodam loco contineatur, et circumscribatur, nomine ubi
designatur. Hinc, secundum B. Albertum M., ubi est circumscriptio corpons a
loci circumscriptione procedens. Ex qua notione ubi perspicitur locum, ut idem
Doctor inquit, esse lllud, a quo, sicut a causa, fit ipsum ubi . Quare notio
ubi ex notione loci magis declaratur. 204 lam locus secundum Anstotelem
defanitur: lmmobilis superficies corporis, quæ aliud corpuspnmo ambit.i et
circumscribit, ita ut æqualem cum huius superhcie proportionem partium, sive
mensuram habeat . >oxpnmo significat locum proprie esse illam superficiem,
quæ corpori contigua est; ipsumque immediate continet; unde nos non dicimus
hominem in toto ære existere, sed solum in ea parte, qua circumscribitur.
Superucies autem, quæ corpus immediate ambit, etsi secundum se moveri possit,
tamen non habet rationem loci, sive continentis, nisi tamquam immobilis
concipiatur. E. g., etsi, tlante vento, superficies talis corporis, puta æns,
mutetur, tamen illa, quæ priori succedit, eamdem, quam præcedens, capacitatem
intra sua latera habere debet; quapropter ill^a superficiest prout aliud corpus
ambit, lmmobilis dicitur . 205.
Porro ubi categoricum significat ahquid esse ln loco per modum proprium loci 5.
Exinde intelhgitur
pri 1 De sex principiis, tract. V, c. 1. Ubi, inquit etiam, non est ]ocus, sed
in loco aliqualiter esse ; De Prædicam., tract. VI, c l. 2 De sex principiis,
tract. IV, c. 2. s Nat. ausc, lib. IV, c. 4, § 12. Aliud exemplum affert s. Thomas
hunc m modum: Est acc ipere locum navis in aqua fluente, non secnndum hanc
aquam, auæ fluit, sed secundum ordinem, vel situm, quem habet hæc aqua fluens
ad totum fluvium: qui quidem ordo vel situs idem rernanet in aqua succedente.
Et ideo licet aqua materialiter præterfluat, tamen secundum quod habet rationem
loci, prout scihcet consnieratur in tali ordine et situ ad totum fluvium, non
mutatur , m lib. IV Physic, lect. VI. ^j^y^ s I, q. VIII, a. 2 c. iTlud C Z hm
%t °-riCWm aPPel!etur '!™_m>_; nam in to,o socundum comm^l^ nem J",^
%££ hoc J, nonmsi substantiis corporeis con^enirc D0Ssi( ' nam nonn,SI mediis
quantitaliLs dimens™ auZ Lj WB-.^. diS^i^jrf. w ;erue in cumqne modo . Hac e
rai .. „K . ? "S ^0" aa e mc0ura"sttVOfiCa[,,r -•"•. nia
cnLluræ TpU ncorporeæ no„ Psun „ lTJr ?,sl,m?kx> qia substantiæ '(SM& i,
„, h, a''to sunt, s Cf s. Thom., (feotfHo. vil,,. 8 c - I loc cit b.H,c non
loquimur dc præsentin nei „.„„;, ? • 1 in Theologia naturali einli^MM, °™nibus
'° ai'ocinmd.it?n?nr "'^ quæst,'ones' q°00 circa corpora i„ '• esse possin
'"JT > utrum du0 "rpora i„ Peodc,„ esse,pi„ coiZ"z:s::1 unum
corpus iu p,uribus De spatio, et primura sententiæ Philosophorum, qui vacuum
admittunt, refutantur 207 Nos ex eo, quod conspicimus res corporeas secundum
locum ferri, et quem locum una deserit, alteram occupare, quoddam excogitamus
receptaculum, in cmo corpora sibi succedunt. Hoc receptaculum illud est, quod
vulgus nomine spatii intelligit. Inquirendum igitur nobis est, quidnam reipsa
hoc spatium sit. 208 Ex Philosophis nonnulli tuentur non ahua spatium esse
admittendum, quam externum, atque hi sunt, qui spatium esse vacuum, nempe
aliquid a corponbus distinctum, omnisque corporis expers putant. Hanc opmionem
inter veteres post Democritum, et Leucippum Lpicurus vehementer defendit,
quippe qui putavit nihil aliud esse in rerum natura præter inane, seu vacuum,
et corpora quæ in eo moventur . Inter recentes Gassendus, notionem vacui
declarare volens, dixit spatium esse ens æternum, independens, non productum,
quod non est substantia, nec accidens, sed quidquam incorporeum sui generis,
nemyt incorporeum, quod dimensiones longitudims, lalituclinis, et profunditatis
habet, sed a dimensionibus corporeis longe diversas 2. Denique Newtonus, post
Morum 3, docuit spatium non aliud esse, nisi ipsam immensitatem, JJei, quia
Deus, ex eo quod existit ubique, spatium constituit eoque usque progressus est,
ut spatium sensonum De\ nuncuparet4., . 209. At doctrinam vacui, quocumque modo
exponatur reiiciendam esse scquentes propositiones evincunt. la. Vacuum, sive
secundum Epicurum, sive secun dum Gassendum intelligatur, absurdum est. m
Probatur la pars. Yacuum, si secundum Lpicurum ln tellieatur, est purum,
putumque nihil; namque quidquK est, aliquid vel incorporeum, ve! corporeum sit
oporte Atqui Epicurus spatium admittere non potuit velu U m corporeum, quia
quidquam incorporeum esse negat, ne i Lucret., De nat. rerum, lib. I, p. 420
sqq. 2 Phys., lib. II, sect. 2, c. 1. 3 Enchirid. metaph., pars I. Londini
1671. ffpnpral 4 Principia rnathematica philosophiæ naturalis, bcnoi. Deuei et
Optic, nq que uti corporcnm, qnia corpus ab inani, seu vacuo rii lensioms
expers; corpora vero rnm p,.on, ? mnis e.xT a rcccpiacu/o, quod Unlum' e^
SS^Ty? jcuum,ff,iur nequit esse spatium. P SUtU' a' U3L £lT J^Z W Vacuum >
^cnndum Gas h Ataui nihll l^U?>S-a.nt,am' UCaue -acddeiu referi.ur. Aiqui
nihil medii inter ulrumiiiie ari potest !. Ergo vacuum a fi3n fj •' l
excoS'" hino abSurdum.°Pra2~ auiE , a?m,ssum est m &Tmx^ U
eSxlteent;Ualc it^l^K^ilT orporcum m ^, Gassendus excoSitav" nemnf n
orporcum, qnod (rinas dimensiones hfbet notionZ de" otal, quæ se ipsam
destruit. Denique Gassendus vnlnl, KhniusmodTr.' ™ ^™1™' SBS-SJ b-S^V?5^ Erg0
i,k,d baVutcmme;Si n°" Mt ihi1'" ^ fflS.^SfStt
praTtauiCD:on0nutPD0otatn.ri id'-UUOd-eX PC£. iqui i/eo, utpote qui omnino
simplex est, non ' of„S',AuS•, fle Gen00ntrMan., lib. I c i j 0?. ..., q. un.
De spir. creat. a ll'c msi,^s^:iLTvaacuiltncstorceusi1X7icj,lud • W" uuod
e" tiguurn, inde taiuen T, ul Llr °'pon aUnd corPus ^sset -voii, nisi
omnia^u?^;^,"^'-0 ft °™ eorpus ''/•', lect. X) docet nersni,!,. h ! '
T1>omas / H*. /r ndensatione cornon.,'n • Z t Ct pni"° "
rai'^ctione, et W. nemo nou vid™ 'nosi" •:"P"a rarcflcri > ct
conde„'sari kentur: sccundo cv P,,Ua Corum "10veri * partes antcriorcs
fluid, P^ t0tUm fl"iuum movcri sc'' !-. m iocum *::";tri^;z:mbit' ad
Iatcra rc solum partium, sed cuiuslibet etiam generis compositio repugnat. Ergo repugnat spatium esse attnbutum Dei. Præterea,
quodlibet attributum Dei est ipsamet Essentia Dei. Ergo, si spatium est
attributum Dei, dicendum toret Essentiam Dei esse quoddam corporum
receptaculum; et si addatur cum eodem Newtono spatium esse sensorium Dei
dicendum etiam foret mundum esse Divmum Animal, et hoc animal esse Deum. Atqui
hæc nonnisi a Pantheistis asseri possunt . Ergo opinio Newtoni de natura spatii
omnino absurda est. Art.III. Refelluntur aliæ Philosophorum opiniones circa
naturam spatii 212. Cartesius vacuum non solum reiecit, sed etiam spatium a
corporibus non distinguens, ipsa corpora spatium constituere dixit \ Leibnitius
autcm spatium m ordine, quo coexistunt res materiales, posuit . Quocirca,
secundum has opiniones, spatium non est aliquid extermm corporibus, sed
internum; nam vel ab ipsis corponbus, vel ab aliqua relatione, quæ inter ipsa
existit, emcitur. Denique Kantius
spatium esse visionem a priori sensibilv tatis externæ docuit4. 213. la.
Spatium non est idem ac corpus. Probatur. Spatium non est aliud, nec ahter
lntelhg i Hinc inter nuperos Bouillierius ( Thtorie de la raison imper sonelle,
c. 5, p. 83 sqq, Paris 1844) sibi constitit, quod sententian Newtoni, quam
amplexatus est, e pantheismi placitis denvavit. 2 Princip. de la phil., part.
II, § 9-12. 3 Recueil de divers. dcrits etc. passim. 4 Critique de la raison
pure, trad. par Tissot, Estetique trar. scend t. I. Ut hæc sententia Kantii
intelligatur, sciendum e. Kantium sicut quasdam ingenitas generales formas in
intellect (cf Idealog., c. I, a. 4, p. 201-202, vol. I), ita quasdam, form.
sensibilitatis agnovisse, sive quasdam repræsentationes, quæ a experientia non
pendent, et manent in nobis, etiamsi cogitationei, ab obiectis avocemus. Hæ ab
eo vocantur visiones puræ, ut a stinguantur a visionibus empiricis, quæ sunt
elementa sensilia p experientiam nobis manifestata; reducuntur autem ad
visiones 1 ras spatii, et temporis, quarum illa ad sensibihtatem externan ista
ad sensibilitatem internam spectat; quia res externæ nonn prout in quodam
spatio existunt, et affectiones rou ego nonnw pro sibi invicem succedentes, ac
proinde prout in quodam tempoi existunt, nobis necessario repræsentantur.
ONTOLOGIA 1 ! potest, quam id, quod corpora continct. Atqui repusrnat id, quod
corpora continet, cum eo, quod con inetur Tm . t-ræterea, Lartesius in suam
senlentiam ex eo adductus LeaS!i,qU°d eSSe"lam CorPoris in extensionc
consistere pu tav.t, ac proinde spatium, cum sit extcnsum iJem ar corpus esse
d.xit. Atqui hæc ratio futilis "" ' ( uia ex Iteoi? EUr°gol0CO
°StCnd— > -entiam 2poS"kS l!nt alZli%StatiUm ^ ^™' U° ~ ~ \JSZf' -
n°" P,ossumus ''ntelligere duo corpora ^fflere msi ea in diversis punctis
spatii existerJ Vi nol,„ elligamos ; nam corpora, quæ /oex stun procul fon.nr n
" T^ ^^ ' corPora tem disla? d"t.8eh?hif erSa, SpatU Puncta occupant.
Atqui" si ta ed cLosinh. TX,Sten -a corP°ru™ ^patium non effici? itum C tt
g° ^™ '" co"" corporum po \ici%PuT' SpaHUm ViSi° pUra
sensibi'ittis extemæ ia^cttniVcrsalis Tt^ ?eCwdam K™li™> est nccessa hli., j
-l AU|U1 necessanum.et uoiversale sen I at, adscr.bi nequit. Ergo spatium visio
pura sensl i oicm drenoæoitue, "7 PotestP™eterea, KaSsuTuS i n.onem ideo
lu.tus est, qu.a putavit nos non posse per afam r C°rpU,S' " si.
"o"onem spatii animo præfor• am habeamus. Atqu. id falsum est, quia
nos reaose po a pcrc.p.mus, anlequam nolionem sJatH habeamus He not.o spat.i
est poslerior perceptione corporls .Tgo A,u. IV.-Vera senlentia circa oa.uram
spatii adslrui.ur t redDif^AZi iNud °f ° intelliSimus' qod corpora I recipit.
Atqui receptaculum cuiuslibet corporis, SSlS?.KP' ^oncePtus,emPons in nobis
exurgit ex eo KLtfT PnUS' .et.P°sle™ 'n motu8 seuflu ?S™\: mxpurcicd,pTi"æ
numeramr prius Uo Aristoteles declaravit ^cS^^STSSS ^ uo
1mommlrs;nnon-adver,ere' uuia cum 'Huu Xs; " lo4° 72 ^TmUr>
exPe.r^facti coniungamus cum imu ;u„ ° " Sfl°mn0 exci'a'">-.
nullumrdum dor •n frantii'/^e0pini0nes circa sPatium et '>Pus Plos Kleut
o(La fiosofia antica esposta e difeea-ttei. vol II %,,, rv MtaSlrt id
„c.30(Sq°' ?°ma 1867) S0lidc -f"'a„!u "' lra"IV' m es aa»
HT!" faCCSSa'' nam> ut a sAugustmo observat imellil ! „""-) •
C,,npUS CSSC Dr° ccrt0 hbont. valde difliefle s Hin,. ;n„/ y^L XVII.— iVaf.
auscu/f., lib. IV c 11 8 4 r " " e i„Ud„„S; Ihn°maC •"'•'» Prios
et posteri s pounnl 'g„Uu "e „o„P "u^"'ur i„ motu eI K» '
VA;^"0n SCCUnd,,m,ro(d n>ensra„t„r ei tempore »; .negnit„di„e Ci;„riH„
',CCt pr""J Ct P0"r'»' ntea sunt uiotue. !!,' spat'°. 1uod
corP'»s decurrit auam mensu a,?æ'n m°tU' °Uam in t0-"Pre ; siqnidem empus
nicnsuralur tempore, cum idem non sit mensura sui ipsius . Circa temporis
notionem, quam tradidimus, hæc mente reputanda nobis sunt: 1° Tempus cum sit
mensura motus, ad modum entis successivi intelligitur, quippe quod non habet in
rebus esse fixum, sed fluens. Quare
partes tempons lta secum copulantur, ut una alteri succedat. Ulud, quo partes
temporis secum copulantur, aliquod indivisibile esse mtelligitur, atque est id,
quod vocatur, nunc, sive instans; hoc enim, cum sit finis præteriti, ac initium
futuri, veluti utriusque extremum intelligitur, ideoque, perinde ac punctum,
quod est extremum lineæ, indivisibile est . 2° Quoniam ens successivum plures
partes simul habere repugnat, ideo illud, quod est reale in tempore, consistit
in instanti. Hoc autem instans, ut s. Thomas monuit2, non est intelligendum
veluti nunc, quod mvariabiiiter manet, sed veluti nunc, quod variabiliter de
prion in posterius fluit, seu veluti aliquid, quod, dum ldem quoad substantiam
manet, in toto decursu tempons secundum modum variat. Hinc tempus ab eodem
sanctc Doctore dicitur etiam fluxus ipsius nunc, secundum quoa alternatur
ratione \ Hanc ob rationem tempus m prac senti etiam invenitur. Scilicet in
præsenti, si in se spectetur, tempus per se non invenitur, quia in eo prius, el
posterius non numerantur 4, sed invenitur ex eo, quoc præteritum, et futurum in
ipso copulantur ratione mstantis, quod, cum sit finis præteriti, atque initium
futurr i Eiusdem rationis, inquit s. Thomas, est tempus componi e> nunc, et
lineam ex punctis ; In lib. I Sent., Dist. XXXVII, qIII a. 3 sol. 2 Opusc.
XLIV. 3 lbid. Dicitur secundum quod alternatur ratione, quia connexn instantis
cum præterito, et cum futuro ab intellectu ponitur ; s quidem inter id, quod in
rerum natura est, nempe instans, et ea quæ in ipsa non sunt, scilicet
jiræteritum et futurum, reahs, at que obiectiva connexio existere non potest.
Hinc idem sanctus Docto monet mensurationem prioris, et posterioris esse
actionem, qua completur in operatione animæ numerantis (In Ub. I Sent. Dist.
XIX, q. II, a. 1 sol). Cave tamen ne inde inferas notioneD temporis esse mere
subiectivam, nam res, quas nos in tempor esse intelligimus, in mundo ita sunt
dispositæ, ut una alteri suc Id sibi voluit s. Augustinus, cum ait: Præsens, si
sernpc esset præsens, iam non esset tempus, sed æternitas ; Confess. loc. cit. §7 utruinque coniungit, atque
continuum successivum ef C A P V T XII. De duabus postremis categoriis, nempe
de situ et habitu I. De s itu 228. Quoniam res corporeæ propter suam
quantitatem locum occupant, huius partes quemdam ordinem habeaat jnecessc est.
E g corpus hominis in loco est sedendo vel stando, vel cubando. Iam illud
accidens, quod ex orJinc partium ad locum exislit, appeilatur situsX Diximus w
ordme parhum quantitatis ad locum, nam ordo oar lum quantitatis ad totum, e.
g., ordo, qucm caput, pedes t! 7Vn!mal'? habent' ^amvis "omine situs
les.gnetur, ad categonam situs non pertinet, et nomine oositionis magis proprie
denotatur. Ex hac notione situs perspicilur ipsum non esse ontundendum cum ubi;
nam corpus dicitur locatum, prout VT Drout hoc> vel i110 hio5o in oco est.
lioc s Thomas ex eo præcipue demonstrat, quod W mutato situ, potest mutari ubi;
e. g., si homo sedens .ermanente sessione, ab alio moveretu?, ipse ubi ^quidem
ed non situm mutaret 5. P 4 uem' .edlarlrceaditSUCCeSSiVa " UnU'"
a,te" ^ 1 Præstat hic adnotare, tempus Iato sensu acceptum in onera a vif
et crrerurarum inte,,i nossQod ^21: erus nnLV6rb,S: ((rIntCll6CtUS CSt SUDra
temPus > T[°nei aCCCpt0,0CUti SU,nus P 47> "ot. 7. • (to. /i Phys.,
lect. VII. 230. Nolionem silus e rebus materialibus ad spirituales transferre
solemus, atque his quoque situm metaphorice accommodamus . Hinc Deus, aiente
Aquinate, dicitur sedens propler suam immobilitatem et auctoritatem, et stans
propter suam fortitudinem ad debellandum omne, quod aversatur 2 . Art.II.— De
habitu 231. Inter accidentia, quæ substantiæ corporeæ adiacent, ea recensenda
sunt, quæ dumtaxat instar vestimenti, vel ornamenli ipsi accommodantur.
Huiusmodi, e. g., illa sunt, ex quibus Socratem tunicatum, vel loricatum
denominamus 3. Iam supremum genus, ad quod hæc accidentia referuntur, illam
categoriam conslituit, quæ nomine habitus designalur . 232. Hæc categoria a B. Alberto M. definitur,
Corporum, et eorum, quæ circa corpus sunt, adiacentia. Qua in definitione vox
corporum id denotat, ad cuius commodum habitus spectat, e. g., esse togatum est
hominis commodum. Voces eorum, quæ eirca corpus sunt, sigmfican! materiam, ex
qua habilus constat, e. g., toga est materia illius habitus, qui esse togatum
dicitur. Denique vox adia centia denotat ordinem, qui est circa corpus, nempe
inter habentem, et quod habetur, atque illud accidens constituit, quod habitus
vocatur. 233. Ex his pronum est duo intelligere. Pnmum est quod ad efficiendam
categoriam habitus duæ substantiat requiruntur, quarum una circa aliam
versatur; quaprop ter ex nullo accidente, quod substantiam afficit, e. g., e^
scientia, et sciente, categoria habitus constitui potest 8. Al terum est, quod
essentia habitus non consistit in alteru i Quod est, ait s. Thomas, in
corporalibus situs, est in spi ritualibus ordo ; nam situs est quidam ordo
partium corporaliur secundum locum ; Quodlib. III, loc. cit. 2 I q. III, a.
1-4. 3 Gf s. Aug., Qq. LXXXIIl, q. 73. Perspicuum est habitum, prout hic
accipitur, omnino diflerr ab habitu, quem in Logica (part. I, c. I, 9, p. 20
vol. I. esse quamdam speciem qualitatis diximus. s Des sex principiis, tract.
VII, c. 1. e Cf s. Damascen., Dialect., c. LXI. tra, aut utraque substanlia,
sed, ut s. Bonaventura inquit, ln adiacentia unius substantiæ respectu alterius
' ifcxinde etiam perspicitur habitum, etsi inter duas substantias sit, tamen
esse accidens categoricum, quia posi10 un.us substantiæ circa alteram, in qua
natura habitus consistit, est accidens 2. L£tl'dU Sent" Dist' VI' a> f
q3 resoL Hinc sThom^ ^cnpsit labitum neque mdumentum, neque habentem indumentum
esse, sed aliquid medium inter utrumque (la 2æ q XLIX a 1 c ) Ei quo vides
Suaresium (Dispp. mett., Dist. LIII, sect. I n 3) aliosque vim huius categoriæ
haud probe intellexisse, cum eius :sentiam vestem esse decreverunt; nam vestis
est materia, ei qua aabitus constat, sed essentiam habitus haud constituit. Cf
s. Thom., In lib. III Sent., Dist. VI, q. III, a. 2 soU COSMOLOGIA idem valet,
ac sermo de mundo; quem enim, ut Plinius ait, Græci Kq(J(j,ov nomine ornamenti
ap^ pellavere, eum et nos a perfecta, absolutaque elegantia mundum dicimus ' .
Iam mundi nomine designatur unimrsitas rerum creatarum, quæ coelo, terraque
continentur. Ex quo intelligitur, si nomen Cosmologiæ, qua late patet, sumatur,
scientiam hominis illius ambitu contineri, quia homo inter res, quæ coelo,
terraque continentur, invenitur. At vero scientia de homine a Cosmologia
segregari solet, atque speciali nomine Anthropologiæ appellatur. Neque
Cosmologia cum scientiis physicis est confundenda, sed potius ipsa est velut
illarum vestibulum, sive, ut aiunt, propedeutica, quia principia scientiarum
physicarum communia, earuinque studio inservientia exponit. Quocirca ipsa
definiri potest : Scienlia, quæ suprema principia, supremasque rationes mundi
sensilis exponit. 2. In ea autem tractanda hunc ordinem persequemur, ut primo
diversa genera rerum munduin constituenlia, excepto homine, qui est
anlhropologiæ obiectum, explicemus ; deinde nexum, quo ipsa inter sese
continentur, mundique systema efficiunt, exponamus; denique de mundi origine,
et perfectione disseramus. 3. Ad primam partem quod spectat, distinguenda sunt
corpora viventia a non viventibus. Viventia, uti iam alibi diximus 2, sunt quæ
sese ab aliquo principio intrinseco ad motum, sive operationem determinant ; et
non mventia illa, quæ ab aliquo principio extrinseco ad motum determinantur.
Illa dicuntur etiam animata, quia principium vitale, nempe illud, ex quo
corpora inter viventia numerantur, anima vocatur; ista autem inanimata. Insuper
illa dicuntur etiam organica, ista inorganica, quia illa organis, seu
instrumentis pollent, quorum subsidio opera i Hist. nat., lib. II, c. 4.
Dynam., c. I, a. 1, p. 98 vol. I. 9J tiones vitales naturæ suæ consentaneas
eliciunt, hæc autem nullis organis instruuntur. 4. Hoc djscrimen ex multiplici
causa ostenditur • sed præc.pue 1 ex origine, et perpetuitate. Nam corporum
viventium aha ab aliis sibi similibus procreantur et successiva sui generis
propagatione perpetuanlur; no'n viventia autem, quia omni semine carent, ideo
sui sirnile corpus gignere non valent; quare nec per generationem orijginem
habent, nec per successionem generationum perpetuanlur, sed ex fortu.to
causarum diversi generis concursu emciunlur, assiduasque vices subeunt. 2° Ab
exvlicatione, et modo se conservandi. Nam viventia ex vi sibi msita gradatim
succrescunt, donec perfectionem sui nropriam assequantur, iacturas suas per
assimilationem eiementorum, quæ in substantiam suarn convertunt, resarcmnt
vitamque tandem naturali cursu amiltunt; at non viventia ex se stalum suum
mutare non possunt, atque taon i nisi accessu novæ materiæ augentur, aut recessu
matenæ, quam habent, minuuntur, et non nisi aclione .causæ extenons
corrumpuntur. 5. Quæ cum ita se habeant, nos de diversis rerum -e leribus, quæ
mundum constituunt, ita agemus, ut pri num de natura, et proprietatibus
corporum non viven iurn,n universum, deinde de natura et proprietatibus
!>mguIorum generum viventium disseramus. Quænam sint principia constitutiva
corporis, investigatur 6 Prima principia intrinseca, quæ cuiuscumque cor•or s
si.bstant.am efficiunt, vulgo elementa corporum voantur . fca autem pnncipia,
ut Aristoteles ait 3, onor t nec ex se invicem esse, nec ex aliis, et ex ipsis
esse ninia . Lt sane, si non
omnia ex ipsis constituerentur, ve Acdn4U tdTnnh°^eS ! C°nn-a ^TrT ^^pologie
specula3rihC; V' ' P" 5 Sqq' D,JOn 1843^' alisque, qui cunctis corJnbus,
ahquam vitam inesse autumarunt. isUnguenda Tunt.' ^" ^™" ab
eIementis> ut Post dicemus, 3 iVof. auscult., lib. I, c. 3; cf Plat.
Parmenid. et Phædr. non forent prima omnium principia ; si essent ex aliis, ne
ullius quidem rei prima principia essent, quia principia illis priora darentur;
si demum ex se mutuo essent, nullum eorum esset primurn principium. Quare
naturam substantiæ corporis nosse volentibus in eo adlaborandum nobis est, ut
quænam hæc principia sint, investigemus. I. — Systema atomicnra, seu mechanicum
de elemenlis corporum exponitur, et refellitur 7. De natura elementorum, ex
quibus corpora componuntur, diversæ sunt Philosophorum opiniones. Atque in
primis systema atomicum, seu atomismus dicitur illorum philosophorum doctrina,
qui omne corpus ab aliis exiguis corporibus, quæ atomos vocarunt, dumtaxat
componi decernunt '. 8. Atomismum inter veteres post Leucippum, et Democritum
Epicurus propugnavit, cuius hæc fuit sententia: Principia corporum sunt
corpuscula atoma, nempe insecabilia, quæ, quamvis partes habeant, in illas
tamen dividi nequeunt, eaque ita exigua sunt, ut omnem oculorum aciem
effugiant, figuraque, magnitudine, gravitate, aliisque qualitatibus, quæ
quantitatem consequuntur, sunt prædita. lam corpora gignuntur ex eo quod atomi,
quæ per vacuum vagantur, similes cum similibus cohærent, atque ita secum
commiscentur; corrumpuntur vero, cum atomi, ex quarum coniunctione effecta
sunt, dissociantur; alterantur denique, si dispositio atomorum in ipsis
quodammodo turbetur. 9. Epicuri doctrinam omnino emortuam inter recentcs
Gassendus, duo, quæ ille admittebat, reiiciens, nempe æternilatem atomorum,
atque ex illarum fortuita concursione mundi productionem, exsuscitavit 2,
eamque magna ex parte Cartesius , et post eum diversa ratione Newtonus longe
celebriorem reddiderunt. Nostra
etiam ætate Hi philosophi ad hanc sententiam ei eo pervenerunt, quod
investigationem circa elementa corporum sola experientia instituendam esse sibi
persuaserunt. 2 Syntagma phil.,
pars II, Phys., sect. I, lib. III, c. 8. 3 Les princip. de la phil., part. 3, §
44 sqq; et Traitd du monde, § 8-10.— Optices, lib. III, q. 31. theoriæ atomorom
illi Physici suffrajrantur, qui omnem vanetatem corporum non ab aliis principiis
repelunt, quam ab atom.s, et a motu, quo atomi pelluntur '. ° 10. A tomismus
dicitur etiam systema mechanicum ex aliuS, mofnnien,eS e'US f3"!0^ V post
Gassendum, non alium motum, nisi mechanicum \ atomis concedunt! Lu i,UurLi ™™m'
ouocum quibus coUmpon : u i'va corDornn? T fU"?i ^0 repUg',at PrinciPia
consti" SuamPeP .eX part,UUS co^3^ æqoo ac repugnat luioquam esse s.mul
ynncyuwm, et principiatumt eql.e\ruie|aUmaat°p,iiCprrUm,Senlent,'a' m°tUS eSt
nalnraiis a'omis, ?Motus a Phvstofs dicitur™,!" '^ " CiC> C Fa(0> c" 10 ^20'
roducitur ct vh, „>„ 1L " " n,psi corPori insita Profieiscitur.
>os cssc ver.enS°er;m\nt0m'Smi' non ?. ouippe qai tradunl ato ' Uinc re^ : „
' P" 21 vo)'— e Cf P 91-92. sc in .i^rt^'' !,C- 2',§ 24> obscrvavi,,
atomos admitt Wredila r verum in " '""'If' nlt". ",0
analvsis !• "o" r, verum .n metaphjsica vcluti principia coustitutiva
cor- Probatur 2a pars: nempe non posse ab Alomicis ra- tionem reddi, quomodo
atomi corpora constituant. Et sa- ne, omne corpus quadam unitate per se, et
proprie di- cta gaudere debet, ita ut, dum ipsum in partes divisibile est, actu
sit indivisum, nempe per se unum. Atqui huius- modi unitas ex contactu atomorum
effici non potest, quia contactus congeriem, seu multitudinem atomorum
efformare quidem valet, sed efficere nequit, ut illa mul- titudo atomorum
unicum individuum constituat, siquidem congeries multarum rerum constituit unum
per accidens, non vero per se, cuiusmodi est corpus. Ergo ab Atomicis ratio
reddi non potest, quomodo atomi corpora consti- tuant. 14. Præterea intelligi
non potest, quomodo ex atomis diversæ naturæ rerum existant, et quomodo
generatione perpetuentur '. Et sane, dubitari non potest, quin res na- turales
secundum substantiam differant, e. g., homo a bel- lua, bellua a planta, plantaque
a lapide, et secundum sub- stantialem generationem perpetuentur. Atqui ex
fortuita atomorum coitione, sive conglobatione nulla in rebus sub- stantialis
diversitas produci, nullaque nova substantia ge- nerari potest. Ergo, si ex
atomis omnia efficerentur, haud possibile foret explicare, unde diversæ naturæ
rerum existerent, et quomodo generatione perpetuentur. 15. Minor ex eo
evincitur, quod atomi, antiquorum, recentiumque Atomicorum iudicio, eædem
secundum sub- stantiam sunt, nec nisi motu, figura, situ, aliisque huius- modi
differunt, quæ sunt mera accidentia ; manifestum autem est accidentia nec
diversitatem substantialem in re- bus, nec ullam novam substantiam efficere
posse, quia in effectu nequit plus contineri, quam in perfecta et com- pleta eius
causa continetur2. porum haberi non posse, quia, cum ipsæ quoque ex partibus
com- ponantur, in metaphysica adhuc quærendum est, quo modo for- mentur, et
usque eo quoad intellectu resolvi possint. 1 Id a Lactantio [De ira Dei, c. 10)
veteribus Atomicis iam obie- ctum fuit. His argumentis dedimus Atomicis atomos
posse inter se co- hærere. At vero ne id quidem ab eis explicari potest. Etenim
cum Epicurus, aliique veteres Atomici, tum Gassendus, eiusque secta- tores
docent atomos inter se coire ex eo, quod duplici motu, sci- licet
perpendiculari et declinatorio, pollent, Non aliud inter vete- De systemate
chymico 16. Fautores systematis chymici hæc docent: Corpora sensihilia in
simplicia, et mixta, seu composita distin- guuntur. Simplicia sunt, quæ in alia
corpora heterogenea, seu diversæ naturæ adhuc resoluta non sunt, e. g., hy-
drogenium, et ferrum ; mixta autem ea, quæ in corpora heterogenea resolvuntur,
e. g., aqua, aut lignum. At vero et corpora simplicia, et mixta in partes, seu
moleculas dividuntur, ita tamen ut in corpore simplici non aliæ moleculæ
inveniantur, nisi quæ sunt homogeneæ, nempe eiusdem naturæ, et dicunlur
integrantes, quia corpus ab ipsis integrum efficitur; in corpore autem mixto
non so- lum moleculæ integrantes, sed etiam constituentes, quæ sunt
heterogeneæ, et ita dicuntur, quia ex ipsis natura corporis mixti constituitur.
E. g., in aqua inveniuntur moleculæ integrantes ex quibus nempe massa visibilis
aquæ constat, et moleculæ constituentes, quæ sunt hydro- genium, et oxygenium,
ex quorum copulatione natura a- quæ efficitur. In hydrogenio autem non alias
moleculas, quam partes ipsius hydrogenii, nanciscimur. Tum molecu- læ
integrantes, tum constituentes ex quadam vi sibi insita coniunguntur, quæ
attractio molecularis appellatur, et pro- prie vis, qua .moleculæ integrantes
uniuntur, cohæsio, et vis, qua moleculæ constituentes coniunguntur, affinitas
chymica audit. Iam ultimæ particulæ, ad quas in divisio- ne molecularum
integrantium pervenitur, quæque humana arte insecabiles sunt, moleculæ, seu
atomi primitivæ di- cuntur, corporumque elementa sunt. 17. Hoc systema, præter
multos chymiæ cultores, duo res, et recentes Atomicos intercedit, quam quod
illi duplicem hunc motuiu atomis per se inesse, hi vero ipsis a Deo inditum
esse ar- bitrnntur. At duplici illo motu explicari non potest, quomodo ato- mi
inter se ad corpora constituenda eoire queant. Non motu per- pendiculari ; nam
si atomi gravitate feruntur ad perpendiculum, evenit profecto, ut una alteram
perpetuo insectetur, sed fieri num' quam potest, ut una alteram contingat, quia
omnes eadem vi deor- sum feruntur. Nec motu declinatorio; nam declinatio
atomorum non aliter iicri posset, quam si una atomus ab alia depelleretur; id
au- tem haud possibile est, quia atomi, ut moto diximus, ob motum "• ^™
^" fo™aH onus esse, ut ex us corpus mixtum constiluatur Ereo efementa
constKuentia corpus in systemate chymico pJE peram explicantur.
"j""" pcr AnT. III.— De syslemate djnamico 21. Hoc svstema
in recenli ætate Leibnitius ex indus ria exposuit, et propugnavit. Ipse staluit principia, seu
elemenla corporum esse subslantias simplices, et proinde corpora non aliter
esse substantias compositas, quam quod "as si?„mn? lXe'°neS
Substantiarui11 ^-Plicium. kls subs\annoLi,P •? . ' .CX qU!bus. corDOra
efficiunlur, monades, tibTn.r t6S aPpel,avit.1uia ex iis, velut ex unital res
monnTrSH 7"S 5°^ti luilur. Quomodo autem plu- hoc rild efficendum corpus
concurrant, explicuit 1,nm°i„m Monades' ex Ulb^ quodlibet corpus constat,
tensfonom p,° r 0CCupant cu°> ^int simplices, ex^ rma T2' • fiSuramrn0n
habent ; 2° in qualibet partiSS" |Unt lnfinitæ ' .uuia matcria est
divisibilis m lntinitum, 3 repræsentatione tolius mundi gaudent bscura tamen,
et confusa, hoc est sine conscienUa; 4 ppetitu, nempe pnncipio inlrinseco
activitatis pollent, x quo omncs mutationes in ipsis fiunt; 5° desliluunlur
>mc0enndnn,US ln aIteram2' Unde non Possunrad corJSs 2 TotZ Teg>m eX
mutua in se PS™ actio". cd Pus eis est aliqua causa exteriori, ex qua
congreffentur iæc autem causa est Deus, quia Deuslonades Tta "iHer"
comunxit, ut internæ mutationes unius cum mutatio ontinct. (Vid. Ferrariensem,
In lib. III Contr. Genl., c. 56). Ouam i.d ir °"Bm°C r,,nT 7nUnerrime
C°ntra ^versariorum obiectlne™ VII n M . W Z'ghara' De mente Cone ? n V1 secundum
Boschoviummodo occupanl, ita scse conlmil, i',,,PUnCtuni s° Eran L n unicum ium
punctum coalescant necesse p^ ^go ne phoenomenica quidem extensin L J, twf
monadcs, 's tse (Canl at!UnloccuPe'Vecesse est. -e4£^ antiam/ct ord?„em
inJftnSS. BoX0-!?1™ Di" v" ex vi altrahendi 7!, oschovichius repe W
-PB-at in eadelr „Pf "t.rricculf ^0"-'vcniri unicam vim,..,. j.! molccula corpons ri. qoia ?tlrTtioq el rr 1°
attractri?> ™odo repul•posiu eq E%o non ' 'ips in? 'S'° SUnt V-Ires
"atnrafiter fe?u\Ss\netU"li.teS' SeCUndum Dr»mlco., ita dicuntur i„ .
s tcrminus ™ „„i „, ', UJ,,",.nu">'. to tf.^ J&?J£1&»£ •
Præterea, etiamsi sumatur illa »tensa dirtantiam inter se servare, tamen ipsa m
unicum punctum protecto non coalescerent, sed phoenomenon conUnu.teUs efficere
numquam possent. Et sane, cum nec partes seu . extensa quæ corpus componere
d>cuntur, cont.nuæ sm, nec totom seu corpus, quod ab eis compon. d.c.tur,
sit continuum, omne fundamentum phoenomeno contmu.ta tis deest ART IV Quomodo
secundum Scholasticos quæstio circa pnncipia corpu. constituentia spectanda
s,t, expl.catur 27. Ut theoria AristoteHco-Scholastica circa Fincjia' ex quibus
corpus constituitur, probe intell.gatur, hæc iti antecessum scienda sunt: ...
nflm rr.r 1° Scholastici, post Aristotelem, ut compos.Uonem cor porum
explicarent, causas intnnsecas umversales eorun rParticularibus accurate
distmxerun . Atque id qu.den sapienter. Nam quælibet res mater.ahs cons.derari
potes etPin universum, prout est corpus et s.ng.l at.rc, p.ou est corpus
determinatum, nempe hoc corpus non ver aliud E e, ferrum, si in un.versum
specte ur, est cor p„s, non mi er ac aurum, argentum, aut al.ud e.usjno Si -\ed
si sc-ectetur, prout esl ns omnibus præd.tuu popter quat omnes 'illud vocitant
ferrum, atque ab aurc "Tllii dynanusmi propugnatores conlendunt cum Wol|io
phær,. nenum exLsionis repetendum ss. con us perc P_ £_e _ ( dum, ex quibus
corpus conflatur . nam ex eo qu r quibus corpus constat, confuse perc.p.mus, fi
t, n t .ps. T elu continuum efficientia nobis W>™"-J£^T æte q ua s. q
nades, uti ostendimu, . copnlsn non possnnt, qu,^ confuse ctum coalescant,
Wolnus pro LUI1^C3 absurdum, q nobis percipi, sen sentir, lam hoe es P™ » 1
est,q„ obiectum facultatum sent.end. ut ^ suo loc '™m0, qn „isi aliquid
corporeum esse potest ; monades _"1 ^n'J_e ^sjb sunt substantiæ simpliees,
shqi..d corporeum ac promd esse nequeunt. Neque aud.endus est Ga oPp.us_, qu •
l s. LXXXIII) docet nihil proh.bere, qu.n plura s mplrn», q _ gula scorsum sunt
insens.l.a, s.mul con uncta totu m ciant. Nam, si repugnat naturæ facul aM
»enuen t.se esse aliqnid simp.ex eerte repugna, ; . ™Pl ^J^ 'nla sinon seorsum,
sed cum alns muius tom romI)0Sjt0 non per plicia, cum, ipso Galluppio
consentiente in composno sceantur, naturam suam amittere non possunt. 101 et argento discriminant, est
corpus determinatum, nemne ferrum non vero aurum, aut argentum, aut aliud
simile lam J5Cholastici causas universales rerum principia et causas
particulares elementa appellarunt. E. £., hydroæmum, et oxygemum sunt elementa,
ex quibus corpus quod dicitur aqua, exurgit. Quare tum principia, tum elementa
sunt causæ intnnsecæ corporum, sed illa sunt causæ univcrsales, hæc autem
particulares, propterea quod ex lllis natura omnium corporum communis
constituitur atque ex his illa natura singularibus proprietatibus determmata
gignitur. l 2° Elementa, cum conflentur ex principiis, ex auibus jcorpus .n
universum constituitur , sunt corpora. Unde s. Thomas elementa definivit:
corpora, in quæ alia replvuntur, lpsa vero non resolvuntur in alia 3 3 i Cum
quæstio metaphysica de constitulione corporum instituitur, causæ universales
eorum, non vero particuares quæruntur, quia harum investigatio ad speciales
>cient»as physicas, non vero ad Gosmologiarn, quæ est inetaphys.ca physicæ,
spectat. Qua de re theoriaSchola.iticorum, quam exposiluri sumus, non de
elementis, sed le pnncipiis corporum versatur. Quoniam autem ipsa eementa, ut
diximus, sunt corpora, hæc quæstio non soum corpora mixta, sed etiam simplicia,
ex quibus illa iomponuutur, complectitur. ' Aht.V. Systema
Aristotelico-scholasticura exponitur ^ 28. Systemalis aristotelico-scholaslici
summa hæc esf Horpus, seu compositum naturale considerari potest vei in se,
nempe prout intelligitur seiunctum ab esse, quod P accipiL " m fierh nCmpe
Dr°Ut 6SSe in ™rum na" &pmSdnniPUS Primo '11,°do ?pectetur, ad eius
constitufonem duplex substantiale pnncipium concurrere intellipuw oportet,
eorumque unum est passivum, ex quo, ceu •t\in'![rm?r'nin(IUi,nU^Ut iMaS
distinSuaiuus a causis agente, rnus auo dnr " in^ed,lintur compositiooera
corporis, sed extra »rpus, quou producunt, exislunt. InI,(:iC"r!/rinCip/a'
Ut P°Stea dic"»us» sunt materia, et forraa. mælc0nTT;V,ni^irT? T\l0mdS>
CSt ^mpositioraateriæ,et rmæ», Contr. Gcnt., hb. III, c.23.- In lib.III De
Coelo, lect.VIII. radice, extensio corporis exurgit, alterum vero activum, ex
quo eius activitas emergit. Primum vocatur matena, et alterum forma l. ' . 30.
Hæc theoria ita explicatur: 1° Materia pro diversis modis, quibus ipsa
consideratur, \nprimam, et secundam dividitur. Vocatur prima, cum consideratur
m se, nempe prout nullam ex se habet formam, ob ldque ad quamlibet formam in se
recipiendam indifferens est; secunda autem, cum consideratur, prout iam formam
in se recepit, et, ipsam retinendo, ad alias determinationes non quidem
substantiales, sed accidentales, quas nalura, vel ars in ipsam inducere
possunt, in se recipiendas apta est. E.
g., fignum, si consideretur prout scamnum ex eo etfici&potest> materia
secunda appellatur. Quapropter materia, quæ, tamquam principium substantiale,
ad corpus efficiendum concurrit, est materia, prout est pnma; siquidem materia,
prout est secunda, iam quoddam corpus est, quia ipsa copulationem formæ cum
matena prima expostulat. Definiri autem potest materxa pnma: Altquid, quod cum
pcr se ab omni essentia, et proprietate vacet, in potentia est ad recipiendam
in se quamlibet essentiam, aut proprietatem 2. Id exemplo e rebus artificiosis
Petlt de_ clarari potest. Etenim materia prima ita se habet ad ens naturale, ut
lignum se habet ad rem artificiosam ; quia sicut li^num, cum nullam figuram
artificiosam habeat, m potentia ad omnes recipiendas est, ita materia prima,
cum i Theoria de materia, et forma dicitur Aristotelico-scholastica, quia ipsam
a Platone inchoatam Aristoteles ad umbihcum perdnxit atque Scholastici
perpoliverunt, et illustrarunt. At ante Doctores mediæ ætatis ingentem, ut
Moshemius ait, Doctorum numerum in primisque s. Augustinum illa theoria
fautores habuit. In recenti autem ætate Leibnitius primum a systemate atomico
ad dynamr cum gradum fecit, deinde, hoc etiam relicto, ad matenam et lor mam
confugit. Denique hodie non pauci hoc systema sectantur inter quos
commemoratione digni sunt Barth. Saint-Hilaire, ei ItalisBrentazzolius,
Gontius, Thommasius, Santius, Liveramus,trai ceschius, et præcipue P.
Liberatore, S. I. 2 Cf s. Aug., Confess., lib. XII, c. 6, n. 6, et De nat. bon.
eontr Manich., lib. I, c. 18. Hinc s. Thomas ait: Materia propne lo quendo non
habet essentiam, sed est pars essentiæ totius M dispp., De Ver., q. III, a. 5
ad ult.) Et s. B0^1.11^"^? r ria est indistincta, et passibilis ad
distinctionem per formam , / lib. I
Sent., Dist. XIX, p. II, a. 1, q. 3 resol. nullam quidditatem, proprietatemque
per se habeat, ad (juamlibet quidditalem, proprietatemque in se reciniendam m
potentia est. ' 2° Maleria, cum per se sit indifferens ad hoc, vel illud corpus
constituendum, indiget aliquo principio, ex quo determ.natur ad hanc, et non
aliam corporis speciem cfficendam. Hoc pr.ncpium dicitur forma' substantialis.
Mater.a inquit s. Thomas, per formam contrahitur ad ifiterminatam speciem • .
Hinc forma subslantialis defi ii linrrnif" F""" mat^ePrim°
cum dicitur ætus, lislingu.tur torma a materia, quia materia, ut diximus in
potentia cst ad quamlibet essentiam in se recipiendam orma autem est quæ
reducit materiam ad actL, nemi .e ad constituendam actu hanc, aut illam
speciem, sire ma er£ COmDOS,tl naturajisQapropter essenlia rei non i materia,
quæ per se ad omnia indifferens est, sed a orma repetenda est. Exinde eliam
intelligitur materiam e uti pr.ncipium passivum, et formam veluti principium c
tivum ad corporis effectionem concurrere ; nam forma pnncp.um, quo efllcilur
id, quod res est, et mateda t pr.ncpium quo eff.citur id, quod res est. Secundo
uin iorma substantialis dicitur actus primus, distin"uiur cum ab aclu
exislentiæ, quo res non iam essentiam, 1 suuul. acc'P't> tum a formis
accidentalibus, quTe ssent.am rei lam constitutam quibusdam modis afiiciunt
ertio, cum diclur actus maleriæ, distineuitur a uh^'nsseparatis, sive Angclis ;
hi 'enim JTulLu co ia aJpelklrT deSt",antur' ac nroiude ' rnate ' I,
qXLIV, a. 2 c. Et ibid. (q. L, a. 2 c.): Materia rcrinit nna.n, ut secundum
ipsam constituat'ur i„ esse ai.cu „ spec e 1 æris, vei .gn.s, vel cuiuscumque
alterius,, spec.ei, For.na accidentalis a substantiali diffcrt, quia forma
substan . .s fact hoc aliquid, forma autem accidcntalis advenU rei am . a
l.qu.d .stcnt,,,; Qq. dispp., q. un. De s „ ™ J ;> Al.quando potentia ad
esse, nomine materiæ, ct actttesse nt n formæ des.gnantur. Quocirca, cum formæ
creatæ nUac,„ "!> Ttu^af^V1 "°le'"iaus aqua conflatur; quapropter,
si substantia corporis, ex pio ahud ontur, eadem ac substantia illius, quod
oritur, jnaneret, una eademque substantia proprietatum, quæ ibi lnviccm
opponuntur, principium, et subiectum esset; d quod fieri non potest '. Atqui,
si corpora per mutatioicm substantialem oriuntur, tria illa principia
expostuantur, quæ materiam, formam, et privationem a Schoaslicis dicta fuisse
vidimus. Ergo. 34. Minor quoad singulas partes probatur hunc in moom: 1 Si ex
uno corpore aliud oritur per mutationem ubslantialem, dicendum est in corpore,
quod generatur, emanere aliquid eius, quod veterem formam in se reci•lebat,
quia secus vetus corpus non transmutaretur, sed a nihilum reduceretur: hoc
autem, quod de vetere cor'Ore in novo remanet, intelligendum est tamquam pura
otentia, nempe aliquid, quod, cum nullam peculiarem )rmam habeat, est per se
indifferens ad omnes formas scipiendas, alioquin plures formas, unam post
aliam, in J recipere non posset ; rursus, cx hoc, quod de vetere )rrupto in
novo remanet, quodque ad quamlibet formam i se recipiendam indifferens est,
substantia novi corpos educitur, quia si non educeretur ex hoc, educi debe5t ex
nihilo, seu, quod idem valet, non generaretur, sed •earetur2. Atqui illud, quod
de vetere corpore in novo (imanet; ex quo substantia novi corporis educitur; et
quod omnes formas in se recipiendas est per se indifferens, lua cst, quod
materia a Scholasticis post Aristotelem nun Cf s. Bonav., In lib. IV Sent., Dist. XLIII, a. 1,
q. 4 resol. s. Thom., In lib. IV Sent., Dist. XI, q. I, a. 1, sol. 3 c. Id iam
vulgo hominum persuasum est; omnes enim, e. g., putant iter ceram, aut lignum
mutari, cum novam induunt figuram, ær vero lignum cum in ignem convertitur,
quippe quod in cera t Ligno nova accidentia producuntur, quin ipsa substantia
cormpatur, sed substantia ligni perit, cum ignis ex illo efficitur. Necesse est, inquit s. Bonaventura, aliquo modo
formas nartfes esse in materia, antequam producantur ; In lib. IV Sent st. XLIII, a. I, q. 4
resol. 10g COSMOLOGIA cupatum est. Ergo, si corpus per generationem oritur,
unum principiorum, ex quibus ipsum efficitur, illud est, auod materia a
Scholasticis dictum iuit1. H 2° In generatione corporis præter pnncipium, quod
dicitur materia, aliud, quod dicitur forma, admittendum est Et sane, ad
cuiuslibet rei generationem oportet con currere aliquod principium, quo res ad
certam speciem entis determinatur, quo a ceteris speciebus entis distingui tur
et ex quo eius proprietates emanant, sive, ut aiunt, resultant. Atqui hocce
principium aliud, ac matenale, esse debet. Nam materia, si in se, et seiuncta
ab omni alio principio consideretur, neque principmm esse potest, auo res ad
certam speciem entis determinatur, quia ipsa intelligitur veluti mera potentia
; neque pnncipium, quc una res ab altera secundum speciem distinguitur, quis
conceptus materiæ aliquid, quod cunctis speciebus com positorum naturalium
commune est, denotat'; neque prm cipium, ex quo proprietates rei emanant, quia,
aientt s Bonaventura, (( est principium passivum s . Ergo ac o-enerationem rei,
præter materiam, aliud pnncipium con currere debet, ex quo illa tria, quæ
diximus, in corpor( efliciuntnr: huiusmodi autem principium illud est, quoc a
Scholasticis forma, sive actus materiæ appellatur. 3° Generatio sine privatione
intelligi nequit. Etenin intelliffi nequit, quomodo subiectum possit aliquod no
vum esse adquirere, nisi intelligatur illud actuahter no! habere, hoc est, eo
privari; quocirca transitus de non esj ad esse sine privatione intelligi
nequit. Atqui generatr est ille iransitus de non esseadesse. Ergo generatio cor
poris sine privatione intelligi nequit. % 35 Exinde etiam intelligitur in
corpore lam generatoris existit secundum realitatem jiotentiæ, sive per modum
inhoationis entis. s Quare materia, ut s. Thomas ait, participat aliquid dc
bono, >cihcet ipsum ordinem, vel aptitudinem ad bonum ; I, q. V, a. 3 ad 3.
ma est tantum in potentia, in quantum huiusmodi ) noi ostendit, quod materia
non sit creata, sed quod non si creata sine forma. Licet enim omne creatum sit in
actu non tamen est actus purus. Unde oportet, quod etiam ii lud, quod se habet
ex parte potentiæ, sit creatum, si to tum, quod ad esse ipsius pertinet,
creatum est f . 41. Neque repugnat
alterum. Etenim, etsi materia si in potentia, tamen ad totum substantiale
concurrere pot est ratione aptitudinis ad formam recipiendam. Ut auten causa
materialis ad totum substantiale constituendum con currat, non requiritur, ut
actu ante ipsum existat, se^; satis est, ut concomitanter, atque in eodem
instanti cun forma substantiali existat ; siquidem materia cum noi det esse
formæ, sed recipiat esse a forma, non expostu lat esse in se, sed solum
capacitatem ad illud, quod pe; formam recipit 3. 42. Obiic. 2° Repugnat in
materia, quæ nullam essen tiam habet, formas contineri. Atqui si formæ in
materi non continentur, profecto ab ea educi non possunt. Erg eductio formæ a materia,
quæ in systemate Scholasticc rum admittitur, absurda est. 43. Resp. Dist. mai.: repugnat contineri actu, Conc. mai.
in potentia, Neg. mai. Item Dist. min., si non continentu neque in actu, neque
in potentia, conc. min., si continen tur in potentia, neg. min. Neg. cons. Et
sane, illud, quo educitur, debet esse in eo, a quo educitur, non actu, se i I,
q. XLIV, a. 2 ad 3. Id iam s. Augustinus monuit, aiei materiam esse a Deo
concreatam; Confess., lib. XIII, c 33, n. 41 I Et ibid., c. 29, docet materiam
præcedere formam non tempor 4 sed origine, eo modo, quo sonus cantum: Cum enim
cantatu I auditur sonus eius. Non prius informiter sonat, et deinde form tur in
cantum . Cf p. 104, not. 4. 2 Secus res se habet de causa materiali, in qua,
tamquam subiecto, forma accidentalis inest, e. g., albedo non potest adv nire
homini, nisi homo iam actu eiistat. 3 Hic etiam cum Origene advertere præstat
materiam m gen ratione corporis numquam ita in potentia manere, ut non sit act
quippe quod cum non sit corruptio sine generatione, materia ser per alicui
formæ subiiciatur oportet; De principiis, lib. II, c. Et vicissim, cum non sit
generatio sine corruptione, materia, el ad generationem corporis concurrat,
prout est aliquid in potenti nempe prout capacitatem habet ad novam formam, qua
privatu tamen est aliquid in actu, habet enim formam corrumpendam. \\\ poOntia
nam educlio transitum de potentia in actum deS? L ?• mæ n°" quidem aclu
latitant in mateTia licIuet ma.nam ad productioncm formæ concurrere ex eo nnnfl
sa adiuval agens naturale ad productionem formTe • !uod quidem, monente s.
Thoma , non est intelli JXm' Ximaitenfa a'iqUid agat' Sed nt diximus 2S M n.ad
f°oomr'".> cipiendain apta est. 4 44. Obuc. 3° Privaho denotat defeclum
realitatis Fr .nonePotest quidquam conferre ad gcnerationem' ali • Cf s. Thom.,
I, q. XLV, a. 8 c. H.nc s Bonaventura secundum s. Augustinum (De Trin., lib.
III iL,,}', ?n,": " Rat'°nes seminales omnium formarum sunt .psa
(mater.a) ; /„ Ub. IV Sent., Dist. XLIII, i „ 4 "° uftta a ^lV,h°maS m°net
f0rmaS' secundm lud^uttin ten lia, a Deo materxa concreari (cf etiam s. Aug.
ibid c 0 16), ct, secundum quod sunt in actu, de potcnHamateriacedu In ipsa
matcria, inquit s. Bonaventura, aliquid est concreaSen qmstagVH n"™
a^j" 'T' e SUnt imn'eoia'e a Deo pro Ilnl, ad nutum obed"
"aleria, tamqnan. propriac cau "DW DeusTat7ni,iCand".m,M0ySeS
SingU"'S P^Tpr.e"?,. n P e "rbnm Dei"^ ' 9"°
significatnr formatio rc forin If" Cla' a ouo' seeundum Augustinum, est om
tnik et, c°rap.-"go, et concordia partium ; L q. L\V a 4r ' W. /f vel
mitmm generatioms est privatio formæ inducendæ 4 . De essentia corporis 46 In
rebus compositis ex materia, et forma, ait s Thomas, essentia signiBcat non
solum formam, nec soluu nTateriam, sed compositum matena t^ na\Tan i prout sunt
principia speciei . Quare ad naturan corooris intelligendam satis non est
cognoscere, quid s forma et quid sit materia, sed cognoscere etiam oportet quid
sit corpus, quod ex utraque conflatur, sive ir i qoc consistat essentia,seu
esse essentiale coroons, quod ex co pulatione formæ cum materia constituitur.
Aliquorum Philosophorura sentenliæ de corporis essentia reiiciuntur 47. Lockius
ratus essentiam corporis positam esse i: collectione omnium eius proprietatum,
statuit ™™ cornoris nobis latere, quippe quod non omnes eius prc Sates
exploratas habemus . Cartesius, cui, præter tqui, si extensio a substantia
reipsa distinguitur, sequi | Cf Ontol., c. VII, a. 1, p. 42.-2 Ibid c> n a „
De corpore physico hic agimus, nempe spectato cum qualita•us sensilibus quibus
i„ rerum natura existit; essentia enlm corns mathemaUci, nempe abstracti ab
omni qualitate sensibTli (Cf fac p. I, c. I, a. 7, p. 17, not. 1 vol. I) non
nisi in trina di| nsione posita esse potest, quia nihil aliud in eo præter tres
di|!nsiones mvenitur. F l fj[Ontol:, c. X, a. 3, p. 80-81. Hoc inde etiam
confirmatur I d s. spatium et locus essent corpora, cum locus et locatum I S
Tln lTeivUll duV0rp0ra GSSe Simu,5 °-uodest inconveRns , in lib. IV Phys.,
lect. II. Hima^nHtr08 aU: po „3' Ut h.°C ar,Kumenlura magis perspicuum fia(,
observandum est ex plunbus non posse aliqu d, quod est unum per se, effic, sine
a iquo principio, quod Ipsa ita pervadT ut unum cx ns existat, divisibile
quidemV^7n plu res partes, sed mdivisum actu. Quapropter partes corporis non
possunt constiluere corpus sine aliqua vi aua ron Unentur, alque unum efficiunt.
Iam, si præto paVles £ quibus corpus coalescit, opus est ad co^rpu effic[endum
a liqua vi, seu pnncipio activo, ex quo ipsæ cobæren? ; alque,n unum
coalescunt, liquet essentiam corporjs ex, eo constilu, non posse, quod corpus
ex pluribus substanI lns compositis, ceu sui parlibus, conflatur. At. Il.-Vera
sentenlia circa csscntiam corporis adstraitur .J^ Doctores mediæ ælatis, si
Ockamum exceperis concorditer docuerunt corpus tribus dimensionibus W pe
exlcnsione, nalura sua præditum esse, corpor, -,„. ! em essent.am non esse
positam in acluali o 0,scd m exigentia exlensionis, sive, ul nonnulli a unt in
ext ennone radtcali. Quocirca dimensiones, ex eorum sentontia, a corpore
virtutc Divina separari queunl.Ted si :ex0£;icZuslil,as semP"¥ t^S corPn,ro,J
• ' |U'Ppe quod' S1,lcet nobis substamiam corpoream sine actuali extensione
intelli^ere necesse KæmSusUt illam Ve'UU a",am °d hanc ^piendTmin!
p4rnnVC£latCm UUlUS sententiæ demonstramus sequenti tajomposita ad tnnam
dunensionem recipicndam apta. Brafes ' r°J'"n f°rma CSt °rd° ' VCl comP^i"o "on snnt
res p! lTb. IVf c. 05Um UnUaS P°SSU °iCi U"UaS naturac : Contr.
•t/.(ro0'uri;CiS hac,. adquirat. H "ucnsiones quantitatis 57. At vero
fautores Dvnamismi nli fcl.hi „,1 . • extensionem nonnisi phæ^nomeTc \^
ostendimus contra ipsos sequentem dammunt Qure Prop . Extensio corporum esl
realis. Use obieclivas in DynamilogtaVicTZTTrl ^0^ tas, s.ve cxtensio co/poris
i ^™ B'£da -2? Vnf"'1titas est fundamentum ceteroru.n nroiA^,yuan"
quia quantitas est VrirntToTnS^™ XCiaT '' pons advenire intelliffimiis m „,,-V
-5 sunstanl'æ cor E iutelligimus, non S^rou0' Pqe ' (lUt'eds eXditufst prout
est jikwKmot, intell.frere Dossumn ' n ' seH fxteosio, seu quan itas coSS^
>,;,?Uapr°'.ter si Comenic., .omnes qualitatef corpo s no„ a liid Vis PU°e'
mectio ammi . vel momm ^kJ anud, nisi mera .. jiivdd qaid,„,,r;„ P r,:
jk&^a '°r R-sxrar^~s£si •.. i. ricxv^rc4rxr^;re J 4ad. GWC, lib. I, c. 6.-2
Vid. p. 99 F £?xr dt, drm.rAT •' . • > . Ug IMPENETRABILITAS [Grice: Cf. Humpty
Dumpty -- ] est illa proprietas, qua omne corpus cetera expellit ab ipso loco,
quem occupat. 60 Omne corpus est impenetrahite. Probatur. Substantia corporea
ratione quantitatis m par tes, quarum una est extra aliam, distnbuitur, sive
exten ditur; quod quidem possibile non est, nisi quælibet par tium a liud, ac
ceteræ, spatium occupet; atque a spatio, quod occupat, ceteras expellat '.
Atqui sicut se habet pars corporis ad partem loci, quem corpus occupat, i ta se
ha bet totum corpus ad totum locum; nam quodl.bet corpus est ab omni alio
divisum. Ergo quemadmodum quæhbet pars corporis expeliit alias partes eius a
parte spatn, quocl occupat ; ita quodlibet corpus debet certum spatium sui
proprium occupare, ab eoque reliqua corpora expellere . Confirmatur hæc
propositio ab expenentia, ex qua com pertum est nullum corpus posse altenus
locum occupare, nisi ab eo ipsum expellat. . 61. Ut autem notio
impenetrabilitatis clanor fiat, hæ( ^l^VmpenltVabilitas explicari non potest,
nisi quædarr vis resistendi in corpore esse dicatur Namque unum cor pus
impedire non potest, quominus ahud corpus occupe Focum ei proprium; nisi
quidquam agat. Atqui hæc actirrooaiur. Magniludo cuiuslibet corporis
determina.a esse debet, quia quidquid in rerum natura existft e de ermmatum.
Atqui magnitudo non aliter delerm nata in lellig. potest, quam si uno,
pluribusve LnSSb^S^ hensa concip.atur; id qnod experientia confi"^ uam
itaui in h; T firne C°rpUS tenninis eomprehenditur. v„T,. . r figura corP°ris
posita est . Ergo omne c? ™ qua figura Peædilum est. 8 auæ' nM?nife8lu,n est
fi>'™ esse proprielatem corporis, quæ a for promanaL Nam lnaleria' . P,s
KndamnSi.ad ^3"1'1"6' substau^' corporeaS const EE™?',ta qU00Ue e-st
Per se "'differens ad quamlibet I m na reM qUant"atiSHinc' Sicut
mate" a forma iam itl .h -!j Tam Certamsubsta"tiam constituenjam,,ta
ab eadem forma quantitas eius ad unum nli. que term.nos in se recipiendos, ac
proinde adK "am figuram determ.natur. Quod si figura corooris a fnr
t&TT' Consequitur %-as esseSrScundum verSas corpomm species, quia forma est
principium ne" |uod corpora ab se specie differunt. Id, si in corpoHbus
Ita prædU.s, nempe plantis, atque animalibus S us ouoaue X" "S V'tæ
cxPertibus> hoc est mineraHus quoque observatur, cum a statu æriformi, vel
linuido wSifi. prantQ/are diTer?.itaS firæ nonqn,odo -centibus Physicis, sed
et.am a Peripateticis tutius in !n„'„„?U' in similitudfne corporea illos
Sanctos repræsentabant t Log., part. I, c. I, a. 9, p. 20-21 vol. I. e 'rJLT11'
a ad 2' Sensu autcm improprio hoc nomen fi-U andum T T qU0Hbet sino' ^uod ad
aliquid si fnl andum secundurn ass^imilationem ad aliud •; / lih. ?// £.,
8-cif.^a^Tc': ^11"6 termin°' VGl terminis comPrehenditur ; I, 1 scd m^
f'">e ub fTectn m T T' "" 'nstra'n^', quo eausa prineipalis
ad 'cTnatLPel CeDdT T"' "°n e° Spcctatnt cfrcctu"> simi!em
Wr^f ' J natUraC Cansæ P™eJPS, q„ia ab hac om B \Z nctaT „!!",?• ^,
EI,ectUS non ••1 ins.rumenm, >eu prmc ipali agenti; sicut lectus non
assimilatur securi sed ni luæ est in mente arlificis ; III, q. LXII, a. 1 c
primarias, et secundarias vulgo distinguunt. Illæ sunt, queniadmodum Lockius
ait, soliditas, extensio, figura, motus, quies, et numerus !; istæ autem
consistunt in quadam vi, qua primariæ pollent, producendi in animo sensationes,
e. g., colores, sapores, odores etc. Iam
in definiendo, utrum hæ proprietates re ipsa inveniantur in corporibus, ipsi
valde inter se dissident. Nonnulli, inter quos idem Lockius, docent qualitates
primarias esse obiectivas ^ secundarws autem esse subiectivas, nerape animi
nostri affectiones, quibus nihil simile in corpore respondet. Alii, inter quos
Berkeleyus, omnes qualitates primarias, non secus ac secundarias, esse
subiectivas contendunt, atque inde idealismum eliciunt . Leibnitius denique 3,
Garnierius , aliique non solum qualitates primarias, sed etiam secundarias esse
reales voluerunt, atque istis, perinde ac illis, aliquid simile in corpore
respondere arbitrati sunt. 73. Quid de hac controversia sentiendum sit, ita
breviter declaramus: 1° Certum est proprietates, quæ a recentibus primariæ
appellantur, esse reales, sive tales in corporibus, quales a nobis
cognoscuntur. Etenim proprietates primanæ aliquid denotant, quo extensio in
corpore determinatur, quia cum quantitas, tum figura, tum situs, tum denique
motus extcnsionem exhibent diversis modis determinatam. Atqui extensio in
corpore, uti ostendimus, est realis, hoc est, talis, qualis a nobis
cognoscitur. Ergo qualitates primariæ quoque sunt reales, nempe tales, quales a
nobis cognoscuntur. i Essai pkil., etc, lib. II, c. 8, § 9-21. Diximus secundum
Lockium, quia alii diversis modis illas enumerant. 2 Galluppius {Saggi o fil.,
lib. IV, c. 4, § 44), cuius sententiam Saissetus (vid. Dict. phil. art.
Matiere) nuper defendit, Berkeleyo concessit omnes proprietates, quas nos
corpori tribuimus, non aliud esse, nisi sensationes nostras, quibus res
extrinsecus obiectas mduimus, sed idealismum inde concludi posse negavit. Ast
perperam. Nam, corporum naturam nonnisi ex eorum proprietatibus cognoscere
possumus; quapropter, si cunctæ proprietates corporum non sunt tales, quales in
corporibus a nobis cognoscuntur; concluiendum est nos naturam corporum
ignorare, ac proindei dealismus Berkeleyi, sive scepticismus circa scientias
rerum naturalium admittendus est. 5 N. E., lib. II. c. 8. Qua in re Leibnitius
monadologiæ suæ placitis parum cohæsit Precis de Psycologief lib. I, c. 1,
sect. 2, § 4, Paris 1831. cosmologu 125 sensilSUsunf SnneCUndariæ' Si
sPec'entur relative, prout u., idcmqwquc°umpe;coprSu ?l per spec,em sensi,em
;cst%onu7s„UUnalseeSipSsTsUndat^ abS0,Ute> hoc • s>eipsis, atque
lmpressionem anm ; Ssti " Fgana SGnSOria Producnnt^uædariiffido existtt .
Emmvero compertum est qualitates se mi 1;, a corpore animnli pvrmi ™ j
4ua"i secunaanas dcrc. ur m,l n C°rp0re animaIi esse> si aterial ter
cons derelur,,d ipSum, quod es, in quo|ibe, co " "™ Ke vera, cnm
manun, igni admovcmus nrorn? ?l • I SSfcdHr" SCn"'mUS' ;Psamie
"' aft L S^an6 fejjfc s asrts ™ ca S& mter aualilates Secundarias
absolute snerinfr.c „, m apprehensiones sensibiles • non exirtfffl M ''"
be'mes-tan?r, Simili,ud° repraZZfon i KoTeM 1 ro m SMn'tUd0 -atUra^ a"ia
1ualita'es sccunda,æ 'Toris, seu abim csst„ '„„,! II d,s .ngu.tur ab
innnutatione 4 Cf Dynam., c.PI p^ voh ? "^" " °rSan° Producit
pore animali '; 2° sensationes, quamvis affec Uones animi nostri sint, tamen
non esse dumtaxat ahquid sub.ec . rum, uti Berkeleyus, et Humius voluere, sed
etam ob.ect.ram, quia in rebus obiectis aliqu.d rerera est, quod e.s re
spondet, et quod ipsarum causa est. De vegetabilibus 75 Postquam corporum vita
carentium naturam, et proprielates exploravimus, propositi nostr. ral.o
eiposlulat, ut de corporibus viventibus, seu animatis d.sseramus. Ab Hs in
quibus infimus gradus vitæ viget, hoc est a yegeabil bul" eu plantis
ordiamur. Quænam s.nt operat.one vege ativæ, e quomodo vita vegetat.va
defimatur, al.b expHcuimus ; quare. hic dumlaxat quære n J™ nobis es, utrum
principium vitale, seu an.ma .ns.t plant.s, et, s. v Um ™lanti inesse
invenerimus, cuiusnam specie, illa sit. ABT. I. Vitam plantis inesse
demonstratur 76 Aliqui veteres, secundum Epicureos, et Stoicos, alque non pauci
recenlcs, secundum Cartestum, nul um, principium vitale plantis inesse pugnant,
alque ex . s al.i mo tus ct effectus plantarum ex sola part.um extura t
repetunt, ita ut non alio discrimine plantæ a ceter.s corpori bus quam mcliori,
et nobiliori partium ord.ne distmguan tur \ rel per vires physicas, et chym.cas
fier. arb.tran tur Horum sententiam refellimus sequent. 77 Prop Principium
vitale, seu aliqua ammaplanhs tnest Probatur. Planlæ, uti s. Augustious inqu.l,
non tantun ex vi exlrinsecus impellente, velutt cum ventis agttantur sed ex
principio sibi intrinseco moventur, e. g., cnmsu cum attrabunt, quo nutriuntur,
et augescunt,e t fol a fructus, aliasque planlas sib. s.m.les edunt . Atqui prw
cipium vivens, seu anima iis conven.t, quæ se .psa ad ( ~7"cf s. Thom., In
lib. IV Sent., Dist.
XLIV, q. H, a. 2 sol. c et a. 4. sol. 1 ad 3. C \ cfVam., c. II, a. 1, et 2, P:
109-111 vol. I. i Præsertim Lamarck, Philosophie zoologique, t. I, p. JS, ris
1809, et Histoire naturelle des animaux sans vertebres, Inlrod. p. 85, ed. 2,
Paris 1835. 4 De Gen. ad litt. pcrandum movent . Ergo vila, seu quædam anima
plan ; 78. Prælerea, plantæ sunt corpora, quæ ex pluribus, IVTTT6 °rgan,S
^nflwtur, siquidem in eis, aienle B Aberto M., sunt radices ori similes, et
stinites " tram, et cetera d.versa officia habentia >,.' Atq Pp
rincfpinm substant.ale corporum organicorum debe e.sse anima qu.a ipsum
efficere debet, ut corpora se ex se ipsis moi veant, alioquin organa frustranea
essent. Ergo nrincipium substanliale, quod plantis inest, est anima 79.
JJenique admissa adversariorum sententia, princimum, per quod plantæ
constituuntur, et operantur deberet esse idem, ac illud, a quo corpora non
viventia essentian,, et operationes suas sumunt/ nempe, ut ipsi contendunt,
leges mechanicæ, sive vires chymicæ. Atqui hoc conseclanum cst absurdum. Ergo 4
J!!hi\fJZJu dem°nS(ratur: LeSes> ^ecundum quas veMtabiha constituunlur, et
operantur, ut alibi diiimus ' ib ns d.flerunt, quæ constitutionem,
operationesuue corlorum haud viventinm moderantur. Atqui diver has °e 5T„'. IT
r" con1s.tituti.°nem.. et operationes entium perincnt, specificam
divers.tatem principiorum arguunt Er 'hiueunaturSl prmCnip,Um' 6X
^^orporanonvivlntiaconhaniri e,'rhl peranlUr \consi?tat' quemadmodum Me-hanici,
et Chym.ci contendunt, in legibus mechanicis, vel iribus chym.cis, tamen
principium" ex quo vesre tabifia ^nst.tuunlur, et operantur, diversum
esseTebet ' ri ?'".';?•• C ' a • P 98 vo1 '•, q LXXVm; aM'l ? "> ^
'• " > "' °> "• "•. • f oTuf/ £ Tbom°9dispp-> •
unD •• •• entia' e ?" ',bl esPos"!mus. ddi potest corpora non
vi-,,,n'„i g'' Uum' lapu' 'oms' sub qualibet figura, et vcl exi d n
fi"arTT' VirSqUe SUaS retine'e: sed viventi; sinc ccru • Neouc Ur,V °i6
",eC C."Sterc' nec °Perari Possunt. Neque d.cas cum P. Tongiorgio
(Instit. phil., Psyeh.,lib. I c. imt.if'^ • P,antarum naturam dcrivari ex
viribus unæ ex s P vs'cT,e irT PnVSieari"net °"5micarum rcsuHant. N m
" is,7„, ' C' ehy|mcao, quocumquc modo coniungontur et ncrseeantur, supra
condilionem naluræ mor, J™?£ ner. ", qtbus ZT VeSetabiliu'usi'e borum
opcratioues sivc^le 'rP0qu n7norPSæieiCrUntU; ' sP.ee,averis • valdc pracs.a't
oaturæ P rum inorganicornm. Ergo s. non per vires physicas, et chy Ut hoc magis
perspicuum fiat, mente repetendum est plantas non posse nutriri, augescere, aut
simile s.bi jrienere' nisi aliquid in novam substantiam transmutent . Atcui
partes plantæ, quoad variæ sint, et exqu.s.ta slructura ornentur, hanc
transmutationem per vires phys.cas, et chvmicas efficere nequeunt; nam hæ
possunl quidem partes alimenti aliter, aliterve disponere, sed nequeunt illas
corrumpere, seu, ut aiunt, alterare, ut inde nova substantia producatur. Ergo,
ex adversar.orum sententia, operationes1 plantarum nullo modo fien possnnt H.nc
nobiliores Physici, et maxime nuper. mgenue fatentur nerennem circuitum
humorum, assimilalionem succorum, uuibus plantæ nutriuntur, et augescunt, et
maxime reJroauctionem per vires pbysicas, et chym.cas nullo modo
eX89CItraqueSpro certo habendum in vegetabilibus, nræ ter vires physicas, et
chymicas, exislere pr.ncipium h.sc. mulm præslantius, quod' illisveluti
inslrument.s ut.tu ad producendas operationes, quæ v.lales vocantur Hoc autem
principium nos non latet, quemadmodum Cuv.erkis" aliique contendunt. Nam
ex i.s, quæ de principiM constitutivis corporum statuimus, patet prmc.p.um
.llud esTe formam illam substanlialem, quæ mater.am ad veffetabilium speciem de
terminat, fonsque est omn.um operationum, quas in ipsis observavimus . mira,
uti ostensum est, ne per harum quidem combinationem na Sr. ve"ettW Ham
eiplicari potest. Accedit, quod chym.c, concor duer SeDntiun non posse fieri
ullum vegetabile per comb.nat.one v rium nhvskarum, et chymicarum, immo nc unam
qu.dem moleculaT orglnkam; cf Ber/elins, Traiti de ckimu, or,.m ^Hæ" tf
dS-n. (Dynam. c. II, a. 1, p. 109 vol. I), suutpra. cipue^
vegeUbiUum^opcrat.one, ^ ^ ^ ^ ^ ^ ^ ±> ^, § 1;3etzftt'neDani,n"',
l.lkLV^ lon oraannation, in.ro '" ^Ex^hofclnUn^Uquod ^l™ i"ividnum
sit eorpas inan |29 AaT.n.-Cuiusnau, speciei vita plantarum sit, inquiritur
Quoniam vegetabilia vivere norsnptimnc : bportet, num iJlorum vifn u
Pf.rsPex,mus > mvestigare 83. Plantas
vim sentiendi habere docuit PJafo • m.n i Si£S?' Clmtat SmsibuS hadPollent \
> re mtileASf fMt,træ "' saPientissi'us, Eum um est Ain ; rUStra eg,sse
Pro cert0 haben iH^L q -VSenSUS,n Planlis frastraoei forent Plan s ig.tur
sensibus carere certum esse debet., ™;!TC'tUr h0C modoSensus viveutibus datur
LStnr exterioribus, quæ ea destruere adnitun ur' Kr vRent^n C0USerVent> hoc
est > t quæ sibi no"fa Entar Atnn; ?afqUe ad v.,tam necessaria eis
sun" se quide? 6S im oCX nC:PUe P,antæ S6nSUS exP°s'Iau • W immnhilJf0r
P^i. ' nam' cum 'Psæ ob radicem telideS„ adbæreant, et facultate e loco se
moven asibu uaapns„d j : ips:s/r ^' quæ noxia sibTs^ allerofZ' '• qU a
effugei"e non possent. Nec ' ia Cf Clem Alex.( 5(roOT) j.b ^ senpni.
h-IpiniumVæ pZ ' ^e^S h,b; '• C' ^ • iir^ VCT, Jvmacip6 8;At 1818 1 .. Thom., 2 2-,. CLXVn7. ^'c?'
^' " a"b' :„; XCI- a- 3 ad 3.- i, „. x'vni> æ3 e. fHuos. Cbbist.
Compend. II. 7 q 130 cosMOLoaiA bare possumus. Re vera, plantæ nobis haud
præbent in se ulia illorum indiciorum, ex quibus nos an.maha sensibus pollere
colligimus. Primo enim in lpsis non invenimus^organa ad sensationes apta, sed
organa tantum, quæ nutritioni, augmentationi ..et.reprod^ ^ mserviunt: secundo,
non observamus in ipsis illos motus ex miibus arguere solemus ammal.a
sensationes, et anecuo ne quælpsas concomilantur, in se expennN.hil.gito in
plantis nobis occurrit, ex quo sensus in ip.s arguere possumus . CApvT y De
brutis Hactenus de infimo genere viventium, nempe planlarum nunc ad genus, quod
iilo proxime super.us est, nemp. brutorum, explicandum accedamus. Abi. I.—
Bruta non esse au.oinata demonstratur 87 Cartesius post Pereiram aliquorum
veterum sen tentiamTnstaurans, contendit belluam esse merum matum, seu machinam
affabre ™^WJ gium, ita ut omnes eius operat.ones^ non al.ud s.nt, ni. mntns aui
leeibus mechanicis fiunt ". 88
Pron Selluæ non sunt automata, sed mla gauden Pwbatur prima pars. Si bruta
essent automata secu. dum certas/immotasque naturæ leges moveren tun Atq belluæ
non moventur secundum has leges. Belluæ ig.t. non sunt automata. . 89. M inor
demonstratur ex præcipua lege ruotus, qu, huiusmodi est: Corpus in motu posilum
V^sevem eadt vploritate ataue in eadem direchone, msi ab ahqua extt tclusa^ aut
in alias partes deterrmnetu TTf Alb. M., Op. cit., lib. cit., c. 3. Qua in re
adyertend, est contra Robinetum motus herbæ, quæ a manu ipsam att ecta>; M
auæaue idcirco casta vocatur, et motus herbæ, quæ v, iXlTY^T^^ ° causara nomen
heliotropn^h S„ullumTndidum sensationis præseferre, sed ex pmcipio >nt ib ^
petendos esse, quod varias leges, propnetatesque in varns motum, yel vicissim
transeant; Xpe enuus aTlffl"1 ' v.is determinatus, ut ad hordeum acceda,,
TmediL K" sam mvenerit, cursum skfii &J ' ai.meuiam los vens in brutis
agnoscendum est g Pr'ncipmm vi T„STi.\C"^'" ".' "'io.ib..
"ffici,S "d" '•, qas,n bcllu.s compicimu,. E,go belluæ M ntr.;!.
' s' et Principim est operationum eius E" au.lem> 9.as in belluis
obse/vamus Tmodo :stend.mus, e.usmod. sunt, ut naturæ automati cartesiani 1 Vid
Dynam c. I, a. 1, p. 98 vol. I. 3 Cap ^'n,Ua?2 p. % iUqab^ contr; • 4, n. 4. •
omnino repugnent. Ergo Deus automata, qualia Cartesius belluas esse contendit,
condere non potuit. Il.-Cuiusnam speciei vila brutorum sit, investigatur Q4
Inter illos, qui animam inesse brutis tuentur, nemo contendit ipsam esse
dumtaxat vegetativam, sed cum ^mnes animam^belluinam esse pnnc.p.um yegetat.vum
faTantur, acriter disputant, utrum s.t pr.nc.p.um dumtaxat vegetativum, et
sensitivum, an et.am .ntelleclivum. Q^ Pron la. Anima brutorum est sensitiva .
Probatur Brutorum anatome nos edocet bruta nsdem exfernis internisque organis
instructa esse, quæ y.tæ tnsitWæ hominis cum externæ, tum mternæ inserv.unt.
Aau Torgana, ut scite advertit s. Thomas,.sunt propter noTnlias ' t Ergo in
belluis facultates sent.end. sunt P % Præterea, bruta actiones exerunt, quæ facultates
sentiendi expos tulant. Ergo anima brutorum est sens.U™ Anlecedel
expositkWoperationum brutorum demonsiratur 3 Et sane de sensationibus, quæ
referuntur ad res Sraas, dubTtandum non est ; belluæ enim .Uas.operatfones
edunt, quæ visui, auditui, gustu., odoralu., et tactuTtribuun ur '. Quod autem
belluæ sensat.ones suas, earumque differentias sentiant, ex eo ev.ncitur, quod
.psae Ttilia a noxiis discriminant s. Phantast.cas vero operaUones a brutis
exerceri vel sola illorum somnia ostendnT- '. Actiones autem memoriae
sensitivae valde persp cuae in ipsis sunt. Memoriam, s. August.nus inqu.t, non
i Ex huius propositionis demonstratione sententiae Cartesiana. abnormitas
magis, magisque confirmatur. I i„ ',2 Ms ^erationibus • ^J^gj,„ m,ihns vis
sentiendi, quantum illarum natura fert, tota evo.yi ur^ Sunt enim qnemauldum
inferius dicemus, quaedam sp.c. I,!!! nuTe cum ad plantas proxime accedant,
proindeque t fimo 0r,M.ViU. gradu polle.5., perpaucas operation.s v.ta TcfT
TuTTloann. c. II, tract. VIII, n. 2. Quin etian, . exercendo hominibus longe
exccllnnt. Irerum intelligibilium, sed harum corporearum et besliao
!c£rCbSennulrlUr rNCC fac". e ..-Lira d"! citur, belluae expcrles
sunl, quippe quod insae ut Ge deUreenSprreSdicUan1rr,CmUS' ?". 1oae 3S nam
sfS f,? 'w ?Se am,Ca' aut inimica P™esciunt; nam, s, amica fuermt, tolae se
comparant, ut blande a & exaCsepaeULt„Cr,P;ant; T" T° ' ™-ca
praesagian^ S" sfrl, V q,UC ad\.Proellnm veluti accingunl, °in au leva Pt
f ' Prod,turae,2 • enique non sunt mi6"cia I&nim reqUe" H? ln
belluis aPPetilns S3nsitivi infcra' So'™ 'PSae,C,b°S' el ea' auae vilae snnt
"ecesfSnl, q i 'U,ntur; e.a' uuae sibi noxia snnt, cavent; Cio
imnPqH?,bUS,,0n' sibi,.couve„ientiS adeptio,'aut p" .essio 'mpeditur, a se
amoliri conantur. ' w r°P' ' AmJna brutorum rationis est expers 3 tfontir
oCOU!ra Codillachu rationis investigatione el nstUutione soc.ah, perinde ac
homines, adquirerent At j ConL Epist. Fundam., c. 17. Cf Dynam., ib id. a 10 n
123 I „0lT;Uam bCS"æ; obse"'a„te s Basiiio BelaZ '/llom • mJri mZ
Sn°abcrrantc. luandoque iter eommonstr.m ionemleMuk^rfr' T^ VetCrUm ". qul
hacreticos ra m VI n /£i S vcbcmcntC1' redargucront. Cf s. Basil., . ""•
V11 w Juexæm., n. 2s Orno TVvcc n„ ^ •/? • i .' , c. 30; s. Aug., De W,'
Mfcf^^f -.^5^D' ^0 W 5 QZaniLaiiaTU^ C' ' 2 C' paSSim' Amsterdan. 1753. ' £ ^,
HeTmstad/ms^6 ra"'0'!e ^1"' melius "." • Montaigne, ,„,
ilb. n, c. 12, Paris 1725. I er b commcmo dus est Malcbranchius, De inauir. ve
• V..J-11 llbVI> Pars ". c. 7. :• obtln tC'crlPaUCi aI" SCC,,ti
sunlintcr na ?sitione , et sine hoc, quod ab alas doceantur, ut lia a noxiis
discriminant, qu.a, statim ac in lucem eduntur, ea nuæ sibi consentanea sunt,
sectantur, atque ea, quæ sunt rontraria, vitant. Ergo bruta ratione non pollent. 98 Præterea, si
belluæ ratione pollerent, nec seroper onerarentur idem, nec omnes operarentur
s.mi i mouo. K non operarentur idem, quia obiectum rat.on.s non est aliquod
particulare determinatum, sed universal, et ?udeterqminatum, ac proinde ratio
non ™^™AjT? determinatum, sed circa multa, atque oppo 't.a vrsatu^ Neque omnes
eodem modo semper operarentur, quia,, cum ratlnem libertas consequatur, ipsæ
pro l.bero ntellectus sui iudicio operationes suas diverso modo exererent. Id n
animalibus" quæ ratione pollent, nempe,n homin.bu, conspicimus; hi enim
multa, d.versaque agunt, neque- a, quæ agunt, simili modo agunt. Atqut belluæ,
n cu que exnerientia compertum est, idem semper operantur, e quæ unius speclei
sunt, cunctas suas operat.ones s.m.h ter exerunt f Ergo belluæ ration.s
experles sunt. 99 Exinde hoc aliud argumentum conficere lubet. Illu. nronrium
est aniroalium, quæ ratione pollent, quod s.ngu ?a cum a noto ad ignotum
discurrant, operat.ones suas i di'es P^rfidunt, et tota species ex singulorum
progress. sensim perficitur. Atqui belluæ nec singulæ suas opera tiones in dies
perficere valent, nec unaquæque spec. ex variarum ætatum success.one progredi
potest, qui •psæ, ut diximus, ad quasdam operat.ones e™nndasJg ural iter determinantur,
et quæ un.us spec.e. sunt, illa s"militer exercent . Ergo belluæ, cum
nulhus progre ssu peTfectionisque capaces sint.ralione carere d.cendæ sum 1 Qq.
dispp., De Yer., q. XVIII, a. 7 ad 7. 2 /„ lib. II Sent., Dist. XX, q. II, • 2 ad 5. 3 Qq.
dispp., De Ver., q. XXIV, . 1 c. tæ fuTricX "esdem ope^stiones edere,
emde=e modou £Jj edendis tenere, atque ex historns animabum de nt dem c on ^
discimus species brutorum, quse in prsetentis se a obus o tæ sunt, easdem
operationes, eodem modo, ac illas, qua Ttti.Trth.8; dimcultate se e.pediret,
contendit be.lu 100. Accedit quod, concessa brutis ratione, nihil certe :etat,
qu,„ loquela, quæ, aienle s. Thoma, e t proi.r.um opus rat.on.s • eis concedatur,
quia pleraque Z um organ.s ad voces edendas opporlunii instruuntur At .ruta
habent qmdem signa naturalia, quorum one afft Uones suas secum invicem
communicant '; sed ea a ner t aliniens,tirinn,Snnl0nge( d,Stant' qUia a brut's
dnturP„aliis manifes.Pn. "T, ^T n ^,' u t affectiones suas ttis
man.testent '. Itaque belluæ nulla vi intelligendi
nolnt. An.mæ best.arum, subdit s. Augustinul, vivun ftd non mtelligunt . ' ' I
101. Obiic. Sunt aliquæ brutorum operationes anw '"lO™ Xr
J"1611^6"^-" ^ commoP„strann Ergo .102. Resp. Neg. ant. Et sane
operationes illæ i„ ioclamTlu^us3,"009 ^^ ^ nerilicelle" loc lam
s.August.nus observaverat scribens: Multa mira nte oculos nostros de apibus
vera sunt, longe tamen ab u.usmod, .rrationabilium animantium, quamffs m?rabili
ensu d.stare rationem, quæ non hominibus et uecor ' us, sed hom.nibus,
ange^lisque commum's es^ PQuod nonnullac brutomm operationes quamdam rat onis
st aUur,nrdiP[rShCfe|rUnt' id ab Aauinate hac ra S ex" icatur lud.cia
brutorum, cum sint instinctiva ac Drn ide naturaha , operationibus rerum
naturalium sinfilia, tate reneetendi carent, ratio ipsis inesse 'nequu!' ^11"6 f' i, q. Xtl, a. 3
ad 3. 2 Cf s. Aug., De Doctr. Christ., lib. II c 2 n ? „ p-„, • .. Thomas,
habent valde paucos concep'tus' Jos pauc ' na~ rahbus signis exprimunt ; Qq.
dispp. De Ver „ iy f"l !i "n~ ; Etsi bruta animantia al^uid mnniE^
^tionem intendunt; sed naturali instinctu aliquid agu™t ad auod amtestationem
sequitur ; 2a 2æ a CX a 1 ° c' a quoa J >e Tnn., lib. X, c. 4, n. 5. ' ' J
/>o gestis Pelagii, c. VI n 18 Pf c Racn ct •/ •,,, Attende tibi ipsi n 2
lL' HomiL ln llIud: sunt. Quare bruta . . . sequuntur iudicium sibi a Deo inditum ;
et proinde (( habent motus interiores, et exteriores similes motibus rationis %
, ita ut (( habeant principium ordinatum de aliquibus s . Aht. III.— Utrum
anima brutoruua materiaiis, an immaterialis dicenda sit, inquiritur 103.
Animam, eamque sentientem, belluis inesse novimus. Iam anima, quæ in belluis
vegetat, et sentit, una, et eadem esse debet. Re quidem vera, pnncipium, quod
in brutis vegetat, et sentit, eorum forma substantialis esse debet, quia est
illud, ex quo bruta in sua specie constituuntur, et ex quo effectus sibi
propnos producunt. Atqui, ut alibi
innuimus 4, in quolibet composito naturali forma substantialis non nisi una
esse potest. Ergo unum, et idem
est principium, quod in brutis vegetat, et sentit 5. Quia vero brutum naturam
suam speciiicam sumit non ex eo, quod vegetat, sed ex eo, quod sentit G, con
~T~Op. Cit.a q. cit., a. 1 c.- la 2æ, q. XLVI,
a. 4 ad 2. 5 Qq. dispp., ibid. a. 2 c. Exinde sanctus Doctor rationem expo nit,
qua bruta quamdam prudentiam participare, et futura præ coqnoscere dicuntur.
Quod ad prudentiam attinet, ita inquit: ti hoc contingit, quod in operibus
brutorum animalium apparent quæ dam sagacitates, in quantum habent
inclinationem naturalem ad quosdam ordinatissimos processus, utpote a summa
arte ordinatos. Et propter hoc etiam quædam animalia dicuntur prudentia, vei
sagacia; non quod in eis sit aliqua ratio, vel electio: quod ex hoc apparet,
quod omnia, quæ sunt unius naturæ, simihter operan tur • la 2æ q. XIII, a. 2 ad
3. Quoad autem futurorum præ coqnitionem: Ex instinctu naturali movetur animal
ad aliquid tu turum, ac si futurum prævideret : huiusmodi enim instinctus es
eis inditus ab intellectu Divino ; Ibid.f q. XL, a. 3 ad 1. rræ stat etiam cum
eodem sancto Doctore illud advertere quod nullus habitus proprie acceptus in
brutis inveniri potest, quia habitus pro prie sumti, ut diximus in Dynam. (c.
I, a. 40, p. 108 vol. I), ra tione comparantur, vires autem sensitivæ in brutis
anmialibas non operantur ex imperio rationis (la 2æ, q. L, a. 3 ad 2). At
quoniam bruta animalia a ratione hominis per quamdam con suetudinem disponuntur
ad aliquid operandum sic, vel ater;n^ modo in brutis animalibus habitus
quodammodo poni possunt Ibid.—t Pp. 105-106. . f s Hoc magis perspicuum fiet in
Anthropologia, ubi de unnaie animæ in homine disseremus. „-mQi;c • e In hoc,
quod est sensitivum esse, consistit ratio animalis , De sensus et sensato
[Grice: Cf. Austen, SENSE AND SENSIBILITY, Austin, SENSE AND SENSIBILIA]
isequens est illud unicum principium, quod forma subistantiahsdicitur, esse
principium sentiens, seu principium vegetativum, quod ad altiorem ordinem
principii sensitivi assurgit. Et sane, nulli dubium esse potest, quin
principium sentiens pnncipio, quod mere vegetativum est, nalura sua excellat.
Atqui forma perfectior virtute continet quidquid est inferiorum formarum ! .
Ergo in brutis una eteadem anima, nempe sentiens, per diversas potcntias, quæ
ab eius essentia fluunt % non solum operationes sensitivas, sed etiam quidquid
anima vegetans in planlis præstat, exequitur. Quænam sit natura huius
principii, cruod vesretat et sentit, inter Philosophos non convenit; ipsi enim
pro suorum systematum varietate in diversas sententias dis3esserunt. At nos
secundum theoriam peripatetico-scholasticam de pnncipns, quæ compositum
naturale constiuunt, naturam animæ belluinæ explicamus. Atque in inm,s nonnullas
notiones, quæ illius systematis veluti con.ectaria sunt, in memonam revocemus
oportet 1 hsse materiale diversa ratione prædicatur de subtantns completis, ac
de forma, quæ, uti ex diclis in ^apite pnmo colligitur, est substantia
incompleta. Eteiim substantiæ completæ materiales dicuntur corpora pæ, cum actu
lam constituta sint, extensione, divisibiitaie, alnsque corporum proprietatibus
pollenl. Formæ utem matenales dicuntur illæ formæ, quarum esse, ut j. lnomas
ait, est per hoc, quod insunt materiæ 4 , icrnpe tormæ, quæ habent esse
concretum in materia la ut a materia in esse, et operari pendeant 5. E
contraio, lormæ immatenales, vel spirituales dicuntur illæ for™, quæ a materia
in suo esse non pendent, proindee abea separatæ subsistere possunt. Hinc formæ
imlatenales, secus ac materiales, subsistentes nuncupantur. j^Jnterme matenale
priori significatione acceptum, et I, q. LXXVI, a. 6 c. iuV^T 9b 6SS? tia animæ
• in brutis ' • • Potentiæ non soim a„!latlVæA Seletiam sensibi^s; a quibus
dcterminatur eo U Qq. dtspp., q. un. De Sp. cr., a. 3 c. • c Contr. Gent., lib.
II, c. 30.-3 lhid^,ib> Jy^ c 81 6 PoLa æ lmma'eriaIes sunt Per se
subsistentcs ; Qq. dispp., esse immateriale, sive inter corpus, et spiritum,
nihil i medium esse potest. At vero si materiale altera signincatione sumatur,
diversæ eius species esse possunt. Nam, cum formæ sint materiales ex eo quod a
materia in esse, et operari pendent, ipsæ ob diversam rationem, qua ad
roateriam deprimuntur , magis, vel minus matenales sunt, ac proinde minus, vel
magis ad immatenalitatem acce "lOo. His præstitutis, sequentes
propositiones demonstrandas aggredimur:, la. Anima brutorum non est materiahs
eo moao, auo materiale est corpus. m j„. Probatur. Corpus est aliquid ex
materia, et torma compositum . Atqui anima brutorum est forma.non^ tem ipsum
compositum ex materia, et forma. brgo lpsa aliquod corpus esse non potest. Præterea, anima brutorum est
principium, per quod ipsa vivunt, et sentium. Atqui principium huiusmodi non
potest esse corpus, secus omne corpus viveret, et sentiret. Ergo . 106 Prop 2a. Anima belluina non est forma
immatenalis seu quæ per se subsistit, sed ad genus formarum roaterialium
pertinet, ita tamen, ut ad immateriahtatem pro xime accedat. . • __ Probatur
prima pars. Natura uniuscumsque rei ex Cius operatione ostenditur s . Atqui
brutorum operationes huiusmodi sunt, ut nonnisi m corpore, et per corpn.
exerceri possint, quia operationes animæ sensitivæ, iiod complentur sine
corporalibus instrumentis 6 . Ergo amma belluina etiam in suo esse a corpore
pendet. Atqui tor ma, quæ a materia pendet, non est forma J"!e,"_
"f est forma, quæ esse suum concretum in materia nabc ac nroinde genus
formarum materialium non supergrem tur \ Ergo anima belluina ad genus formarum
matenalium pertinet. iQq. dispp., De Virtut., q.I, a. 1 ad4.-2 Contr.Gent lib. II, c.68 s I q III, a. 2 sed
contr.—1 Contr. Gent., hb. II, c. 08. s i' (j LXXVI a. 1 c— 6 Contr. Gent.,
lib. IV, c. 11. i Forma, quæ uon est per se subsistens, non habet alium m dnm a
modo subiecti, quia non habet esse, nisi in q™ntnm e. actus talis subiecti, et
ideo mensura compositi ; In hb. IV deni. Dist. XLIX, q. II, a. 3 sol. Idem
argumentum hac alia ratione exhiberi pojest: Omnis res secundum suam formam,
sive secundum uam speciem agere debet, quia forma est principium, x quo
acliones oriuntur; (juapropter, si anima belluina sset torma subsistens,
proindeque immaterialis, actiones ognitrices eius circa immateriale versari
deberent. Atui consequens est falsum, quia cognitio
brutorum, uti stendimus, supra sensilia non assurgit. Ergo anima beluina genus
formarum materialium non supergreditur 2. 108. Altera pars ex cognitione
sensitiva, quæ bellua;um propria est, facile colligitur. Enimvero ratio
comtionis ex opposito se habet ad rationem materialitais . Atqui sensus species
rerum sensibilium accipit quiem cum earum conditionibus materialibus, sed tamen
sine xaterxa . Ergo, sicut anima intellectiva ex eo, quod abstrahit speciem non
solum a materia, sed etiam a laterialibus conditionibus individuantibus 5 , est
immænalis; ita anima sensitiva, in qua sunt species rerum ensibilium, sine
propriis materiis, sed tamen secundum mgulantatem, et conditiones individuales,
quæ conseuuntur materiam 6 , non esse quidem forma immateialis, sed ad
lmmaterialitatem proxime accedere dicena est 7. IV.— Qua ratione anima belluina
indiyisibilis sit, explicatur 109. Brutorum anima spectari potest vel dumtaxat
prout [ Id iam Gennadius {De Eccles. Dogmatibus, c. 17, App. ad Opp. i Aug. t.
VIII) docuerat hisce paucis : Solum hominem credijius habere animam
substantivam . . ., animalium vero animæ non iiint substantivæ .—2 T) q#
LXXXIV, a. 2 c. lbid.—>> Ibid.—s Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 13 c.
Exinde perspicitur animarn belJuinam non esse materialem, peride ac formæ rerum
animæ expertium, atque animæ vegetabium. Etenim cognitio sensitiva
supergreditur non solum operatioes rerum vita expertium, quia hæ sunt a
principio extrinseco, ia autem a pnncipio intrinseco ; sed etiam operationem
animæ egetabihs. Nam operatio vegetabilis fit per organum corporeum t virtute
corporeæ qualitatis ; verum cognitio sensitiva expostuit quidem quasdam
qualitates corporeas, non tamen ita quod lediante virtute tahum qualitatum
operatio animæ sensibilis proeaat; sed requiruntur solum ad debitara
dispositionera organi • i q. LXXVIII, a. 1 c. est in se aliqua forma, abstracta
a corpore, quod infor mat, vel prout actu corpus informat. Iam, si priori modc
consideretur, nonnisi veluti indivisibilis cogitan potest Etenim divisibilitas
est proprietas quantitatis, atque hætelligi potesl IZnTTJi v f,m-' vel P-er
eorruptionem in destructio dumtax. W „2^?' " F huiusmodi rum,'redigit ;,„m
q^innoneTrjSZ^ '" "ihilura tan potesl, qu0'd esse sibi, onr um ha w
^•tUm ^ .Lelluina non habel alinrf „ P" et.' -an,ma autem Per se corrurnpi
dicf nol,. ^ n,M comPositiNeque ipsa p alibi diximPus ' noPn fo mCa°errUP^°
enira> et e\o, [tiali proprie conveni, Bni^ ' -ed comPos'l° substan animam
Uufoam" ex "E Tunli Ve Pot-' • V, a. 4. •.C;t"aoS'
caorr0unC,PuAnnt„m T a0'1","130' COrruPto corPn" ear„m
..tX^K."^ "Jum "^ T PCr h°C' •" "on potest „; Qq. 7W.,
Oe PolP'' V ". T-iT" Pdilos. Cdrist. Compend. II. ' gnitione sensitiva
pollet, est corpus, yel qnælibet forma I forporea. Atqui ex sentenlia
Scholaslicorum neque corI PuTneque quælibet forma corporea cogn.t.one sens.t.va
pollet ; nam anima bellnina, cui cogmt.o sens.t.va altr uitur, non est corpus,
imo indivis.bilis est, atque ets. forma materialis sit, tamen ipsa a celer.s
form.s matenalibus differt. Ergo illam sententiam mater.al.smo v.am s ernere
summa iniuria asseritur. Neque dicas; n.mam bellu.nam, etsi ceteris formis
mater.ahbus anteeellat, l ™n,£ iis non differre, tum quia est, per.nde ac
f%'^%e.r^' tum quia per virtutem corpoream produc.tur Eten.m quod spectat ad
primum, formæ mater.ales.ex Scholast^o rum sententia ',' non pollent eaden,
\.V^lf^™\\Z. III, c. 97. -•- Paf; 5 I a CXVIII a. 2 ad 3. Cf ln lib. II Sent.,
D,st. XVIII, q, • d 8 circf" uto um animam præstat legere noviss mum opus
£ tecriTnue- V inirnortalit, de V ame de, W' " m Thoma, d' Aquin, par 1'
abbe J. Beney, Autun. Igj ARr.I.-Rerura raundanarum colligatio exponitur Anol'
^ili^nl P°r NenJesium S Auctorem Librorum £ :$£: „p ';TkS^iv^'^-z lium infimn,Mo^
quoniam vita vegetativa est om SiftSs:; fs fiecnu„r^r!su,nuDv ct •" unt
belluan nnL -i d,cu.nlur Supra plantas assur 121 d15/ ?• eo infusas cognoscunt.
F lt ffii.™ erent,as>. nemPe qualitates essentialos, „uæ 1 cgui sabTicfuXr^
lamen SeCU-m consentiunt^er 1 #e naf. Aom., c. 1. : SSSSH'it • Deus
ellunt,consideran/æs„„ veZn^!!'' " "S0 hæ' Pr^'i"e alii "a,
qa.nt.im ein fmb cil ilas 1° £^5 S S' PCr q"°S menS h Comm.,„ ..
m/ceB^^-^^^^-onen.Deiascendit. j£g rent tamen in eo conveniunt, quod utraque
suiit substan tiæ.' Animalia a
vegetabilibus dissident, quod ipsa sen sum habent, quo plantæ carent; at in eo
consenliunt, quod ambo vivunt. Homiues a brutis discriminantur quod ra tfone
præditi sunt; sed, pcrinde ac bruta, sent.unt. Cum s int Angeli snbstantiæ mere
intellectuales, d.fferun ab hominibus; secl hi cum illis conven.unt, eo quod,„
eH, gunt. Insuper ex diversis speciebus una est altera perfe ctior', immo in
eadem specie sunt diversi essenl.ales gra dus perfectionis, indeque diversæ, ut
recentes, a.unt, clas ses existunt Ex hoc fit, ut nobilior natura per spec.enr
vel clasem inferiorem, quam complectitur, cum ea, qua et homiue" Juiumquc
sit gradus perfcctioms vel n planta, vel in brnln st connexioUsSmfillOS ^ ^
££££& si connexio, sed non continuatio. At vero non nv.fi r Mtes,,nter quos
Bonnetus , Leibnitium secmi K et gat.onem per legem continuitatis explicarc co
> cndun " mnes speces rerum, secundum ipsos, Ha intr se ve"
.continuam Imeam efforment, quæ a reeno minerali nd etabile, a vegetabili ad
animale, et ab°ani aiadho mem progred.tur. Hæc autem continuat o f per ste' cs
ac^nvocas, nempe species, quæ intcr duas quasJue" 'op^smu.01 Part,C,'PeS
W™™™, qæ ær 120 Lex continuitatis absurda esl. £ ner ^T^T et Leibnitius fassus
est nullam speciem mediam inter hominem et D( luam in nostro terrarum orbe
inveniri, sed contendit nihil Prohlb^ quin illam in alio orbe existere putetur
{N. E., lib. IV, c. 16, § U Denique impius Buchnerus hodie pertendit Æthiopes
esse speciem a quivocam, per quam species belluina cum humana continuatur, qu
ipsi in sua structura organica præ se ferunt multa, quibus ad simia proxime
accedunt {Force et matiere, p. 75, et 76, ed. cit.). Sed na commenta Lockii,
Leibnitii et Buchneri sunt adeo futilia, ut vix co futatione egeant. Et sane,
quod ad Lockium attinet, sicut, aiente s. A gustino, videmus infantilem animam
nondum coepisse uti ratior et tamen eam rationalem dicimus {De Gen. ad
litt.,\ib. VII, • n. 10); ita
homines, qui imbecilles a nativitate sunt, etsi ratio quivocam inler belluam,
et vegetabile. At id omnino falium est . Nam polypus, etsi, ob structuræ
or^anicæ sim)Iicjtatem, propius, quam celeræ belluæ, ad plantam iccedat, tamen
est animal, et non aliud, nisi animal; quia >ennde ac an.mal, sentit, se
ipsum movet, et nutrit, manucat et digerit 2. Art.III.— De ncxibus djnamico, ct
teleologico rerum raundanarum 130. Ncxus rerum mundanarum non solum ex eo exur
9n utantur tamen rationales, ac proinde homines, dicendi sunt uod ad Le.bnitium
spectat, quidquid sit de aliis mundis uos m hngit, procul dubio entia, ei
quibus hic mundus constat ita ) se irmcem pendere debent, ut inde unicum
systema eiurgat TVlTv rGrUm svstemate> Leibnitii iudicio, nullus hiatus se
debet. Ergo, si qua species æquivoca inter
hominem, et belam daretur hæc m nostro hoc mundo inveniri deberet. Denigue
ichnerus dehrat, non philosophatur. Nam, quæcumque sit simi;udo quæ, structura
organica spectata, inter simias, et Æthiopes tercedit, certum est Æthiopes
ratione pollere, qua simiæ, perinde rel.quæ best.æ, carent, eorumque aliquos
ipsam adeo eicoluisse viri in primis eruditi, atque acuti evaderent. Gf Flourens, Histoire des
travaux, et des idees de BufTon et ivier, Histoire des travaux, etc. ' 2 Magis
autem absurda est opinio illorum, qui cum Robineto (Conlcrauon phil. sur la
gradation naturelle des formes de V ttre ou Les wis de la nature, qui apprehende
d faire Vhomme, Amsterdam 1768) otquot sunt in mundo, diversas naturas, non
esse aliud, nisi diversa iimenta unius naturæ, nempe humanæ, et diversas
ætates, quas ica illa natura percurrit, usque dum formam omnium perfectissim
nempe humanam, assequatur. Sane, si omnes species sunt trans tationes unius
speciei, conscquitur unicam esse omnium rerum, æ sunt essentiam seu
substantiam, et dumtaiat accidentia diver Atqui hoc absurdum est, quia diversæ
naturæ, seu species ren,U iU,SffSCala mUndi constituitr, secundum essentiam, ut
viuas 1 r"' Ergo absurda est opinio eorum, qui 'omnes ^uras rerum ab un.us
speciei evolutione repetunt. Accedit 1° quod a, quicumque gradus eius sit, ei
evolutione naturæ, quæ in pri ei cvolutione materia bruta est, secundum hanc
sententiam, eiurU d quod de vita vegetativa et sensitiva abnorme esse ostendis,
ct mag.s absurdum esse quoad vitam rationalem hominis suo de.nonstrabimus. 2
Quod si mundus, uti philosophi isti conten \ Ura "ZZTT ^^,n-tti ^GCiUS
fuisset> Deus OIUoil" > r o nP SUCt0r n°n CSSet; id auod
"laximeimpium est w Z . UinnTT aUtCm I,UiC VaIdc allini' oua'u Lamarckiu
wm, aluque hodie propugnant, in Anthropologia dicemus git, quod ipsæ, eo, quo
exposuimus, modo, inter sese collio-antur, sed etiam ex eo, quod muluam in sese
actionem exercent, atque ex eo, quod una alteri inservit. Hinc duo modi
connexionis rerum, nempe per causarum efftæntium, et per causarum finalium
colligationem existunt; quornm primus nexus dynamicus f, alter teleologicus 2
ap peilari solet. . Nexus dynamicus in mundo invenilur probatur. Nexus
dynamicus in mutua rerum in se actione consistit. Atqui res, ex quibus mundus
constat, vim actuosam in sese invicem exercent. Ergo. 132. Minor ex ipsa
contemplalione rerum evincitur. htenim certum est res corporeas aliquid in
organa sensoria corporis nostri agere, quippe quod, nisi quidquam m ea agerent,
illarum sensationes in nobis fieri non possent. Certum quoque est nos in res
corporeas, quibus circumdamur, multa agere, ut illas ad nostræ vitæ utilitatem,
oblectationemque accommodemus. Certum denique est res corporeas in se ipsas
aliquid invicem agere; constat emrc inter omnes terram, et corpora coeSestia se
mutuo attrahere vi gravitationis, unde regularis ille motus planetarum
exoritur, corporaque, quæ in terra sunt, sive sim plicia, sive mixta, mutuas
actiones in se exerere ob vim attrabendi, et repellendi, qua poiient 3. 133.
2a. Nexus, qui per causas finales eflicitur, ii mundo existit . i Ita dicitur a
vi, seu energia {Svvapis), quam res naturales ii se exercent. . . . 2 Ita
appellatnr a /me {rekos), cuius gratia una res alten inservit 5 Hanc
propositionem demonstrantes pro certo sumsimus, omne res, quæ in mundo sunt, vi
actuosa pollere. Id enim tura ex us quæ de viventibus, immo de ipsis corporibus
manimis lam dict sunt, aperte coliigitur, tum ex theoria de principns
constitutivi rerum, materiali nempe, et formali; principium enim formaJe, i suo
loco vidimus, est principium activum, quia quælibet res ex e ipso, quo
constituitur, vim operandi accipit. Hinc s. Damascenu! Actus est vis, motioque
cuiusque substantiæ, qua caret lllud . lum, quod non est ; De fide orthod.,
lib. II, c. 23. Argument autem, quibus cum Malebranchio omnem activitatem, vel
cum LeiJ nitio activitatem transeuntem substantiis creatis repugnare pro tur,
nullum pondus inesse iam alibi {Ontol., c. IX, a. 2, p. e et a. 7, p. 71, sq)
ostensum a nobis est. Philosophis, quos causis finalibus infensos esse mnuimus
m unu Probalur Partes nniversi, ut s. Tbomas inqnit, ita ordmanlur admvicem,
sicut el partes exercitus adinvicem' Atqu, ex.nde nexus teleologicus exurgit.
Ergo ' 134. Mawr cx phænomenis, quæ in tota hac rerum an.versUa c cernunlur, ea
cvidentia probatur, qua nnl™ ma.or des.derar, potest. Enimvero sive in coclum
sive m lerram s.ve in mare oculos coniiciamus, in phænonena ...c.d.mus, quac
rerum alias aliarum finibus.comnodisque ...scrv.re luculenler commonstrant. E.
g. ex v i/ent.bus plantæ ad nutrimenlum belluarum, ct bominum cdum RoLClJellUæ
'n USUm' commodumque hominum nodf J LV|fe exPertes> P'a aqua, acr, aliaque
huiusnri ;; :, l A,rUm' telluarum> e' hominum bonum comrfhn! • AtmosPhera.
resp.rationi, et sustenlandis vawnbus, qu. ex aqu.s or.untur, deservit ; venti
vanores n nubcs cogunt, ct noxias exhalaliones dissipant; aPqnæ x mont.bus
decurrunt, ut planlæ, brnta, et nomines ad c s„,(„,„nem lpsls utantur. To(a ter
corpora. afconcenumTl|SeSe ""'T gravitant ' et 8™^°™ U' n! V m.' s,ve
hi,rmoniam efficiunl, quæ a ronomos incred.bili stupore percellit. Hic vero
concen is non modo inter diversas naturas rerum, ex cfuibus rial,', r ? h.°die
'U0ntUr> necnon Bttchnerus, ajiique Ma ".„,, uuntA' contra> cognilio
causarum finalium ad lese phæ : u0, ZZZTeZT r110 præsidi0 est' lr,ntu,n bes' nt
'" ' not : auæsun, „r CU'"S,!U0 "'' facile cst operationes ;
1'" 'ees phænomcnorum non sunt r. Co eo/„u'. fi„UKdUm qUaS feS corPorc0°
neeesssrio operan-es „1, 'n,r S lbus rerl"n • n""° nc?olio
Possunt cognosci .uui "on id, quod absolute, sed id ber ti iS ?
suPernaturaIe est> admittunt. Ut de uno Gio bertiu dicamus, hic pertendit
quamlibet naturam esse naturalem si h,s iiZ7 1PSa SnPeriore'n' supernaturalem,
siri aliam natuTam 384 et ^TrT Jafe:atUF ^eoHea del ^vrannaturale, not. XLV, p
seriPsi' quoqu/ pJrsuasione m de ex C rc DrotnSre?atUraliS ab ^noratione ™™
profuisci;quonitnr^Hc f casarum progreditur, ambitus ordinis super. naturahs
coarctatur. Yid.Filo,. della Rivel., § 3, p. 13, Torino 18o( dine morali, qui
circa humanas actiones versatur, prout hæ ad finem hominis spectant; denique,
ne cunctos enumeremus, ab ordine politico, in quo gubernatio civitatis
fundatur. . 139. Normæ, secundum quas ordo physicus eincitur, leges naturæ, vel
pkysicæ vocantur f; et consecutio eventuum secundum ordinem physicum, nomine
cursus naturæ designatur. Art.V.— Ordinis naturalis existentia, et ordinis
supernaturalis possibilitas adstruuntur His notionibus praestitutis,
inquirendum nobis est, an ordo naturalis in mundo exislat, atque an ordo
supernaturalis sit possibilis. Ordo naturalis in mundo existit. Probatur. Deus
mundum ita debuit, et scivit creare, ut fini, ad quem ipsum destinavit,
adamussim respondeat. Atqui mundus non potest finem assequi, ad quem Deus illum
destinavit, nisi ordo in ipso existat, quia ordo, ut diximus, est apta partium
ad finem assequendum dispositio. Ergo, si Deus est auctor mundi, ordinem m
mundo esse pro certo habendum est 3. 141. Quod si res ista cum iis agatur, qui
Deum esse auclorem mundi negant, argumentari adversus lpsos licet hoc modo :
Ea, quae in mundo sunt, ipsis Atheis non diffitentibus, unicum systema
efficiunt. Atqui ex pluribus, diversisque rebus, cuiusmodi sunt mundanae,
aliquod unicum systema exurgere non potest, nisi speciales, aiversique earum
fines ad finem unicum totius systematis con i Secundum s. Thomara hae leges
sunt quaedam impressiones a Deo factae in rebus ratione carentibus, ut hae in
certum finem mclinentur, atque determinentur ab uno prae alio modo operandum:
Sicut homo imprimit denuntiando quoddam interius principmm actuum homini sibi
subiecto, ita etiam Deus imprimit toti naturae Drincipia propriorum actuum; et
ideo per hunc modum Deus dicimr praecipere toti naturae ; la 2ae, q. XG, a. 4
c. Sed de hac re fusior sermo erit in Philos. morali, p. I, c. IV, a. 3, ubi de
lege aeterna verba faciemus. 2 Possibilitatem dumtaxat ordinis supernaturahs
PMlosopnus 10vestigare debet, nam Theologorum est inquirere, utrum, nec ne
aliquis ordo supernaturalis a Deo in mundo constitutus sit. 3 Gf s. Thom., la
2ae, q. CII, a. 2 c. Ciirrant; concurrere autem ad hunc unicum finem non
possunt, nisi res ipsae inter se colligatae sint, nempe nisi ord.ne inter se
contineantur. Ergo si cunctae res, ex quibus muridus conllatur, unicum svstema
efformant ordo, procul dubio in mundo existit1. 142. Advertendum etiam est
ordinem universalem quo, res omnes un.cum mundi systema constituunt, ex multis
ordinibus particulanbus inter se connexis efformari Id a s. Fhoma sequenti
comparatione declaratur: Oportet quod omnes particulares ordines sub illo
universali orchne contineantur, et ab illo descendant, qui inveniuntur 10 rebus,
secundum quod a prima causa dependent Humsmodi exemplurn in politicis
considerari potest Nam omnes domestici unius patrisfamilias ordinem quemdam ad
invicern habent, secundum quod ei subduntur. Rursus autem lam ipse
paterfamilias, quam omnes alii, qui sunt suæ civitatis, ordmem quemdam ad
invicem habent, et ad pnncipem civitatis, qui iferum cum omnibus, qui sunt m
re^no, aliquem ordinem habet ad regem2 . 143.
2a. Nihil prohibet quominus ordo naturalis in mundo cum supernaturali
coniungatur. Probatur. Ordo supernaturalis neque ex parte Dei ne•que ex parte
rerum creatarum, neque ex parte ordinis a Weo creah aliquam repugnantiam
exhibet. Ergo. Et sane non repugnat a parte Dei; nam sapientia, et potentia Dei
creal.onc naturæ non exhauriuntur, ac proinde Deus rebus a se crealis
perfectionem Iargiri polest maiorem ea iquarn earum natura expostulat, ita ut
actiones naivis suis |vinbus super.ores exercere queant. Nec mpugnat a parte
\rerum creatarnm; hæ enim, ut alibi diximus 3, potentiam obedientiæ a Dco
acceperunt, ut valeant ea in se recipere, vcl agere, quæ facultates suas
naturales præterorejfliuntur. Nec demum ex parte ordinis a Deo creati; nam ordo
supernaturahs ordinem naturalem distinctum servat et lpsum, qu.n perturbet,
perficit, quia naturas rerum ad ctiones supenons ordinis exerendas aptas reddit
•antInme„dUl,°S' 1ul.mala.. 1æ in mundo conspiciuntur, csagge Zia IJL v'-s 0f:
'I q. CV, a. 7 ad 3). Rousseavius (Rousseau, Lettres de la montagne. Lett.
III), aliique contendunt nos numquam posse cognoscere, an aliquod opus sit
miraculosum; quia, cum non sint nobis omnes leges naturæ perspectæ, cognoscere
haud possumus, utrum, necne aliquis effectus vires naturæ prætergrediatur. Ast
ii omnino falluntur. Ei sane, qnamvis non omnes leges naturæ nobis sint
exploratæ, ind( inferri nequit nobis exploratum esse non posse, utrum, necne
aliquis effectus vires naturæ prætergrediatur. Nam nos miracula dicimusilb
opera, quæ exploratis naturæ legibus adversantur. Atqui si non om nes, certe
plures naturæ leges, eodem Rousseavio, eiusque asseclis fatentibus, compertæ
nobis sunt. Ergo cognoscere nobis licet, nurr aliqua opera sint miraculosa.
Frustra regereres posse fieri, ut aliqii: effectus, qui cum legibus notis non
concordat, legibus nondum explo ratis sit consentaneus; repugnat enim dari in
rerum natura leges du plicis generis secum pugnantes; ideoque duos ordines,
quorum unun alterum tollit. Cf Bergier, Traite historique, et dogmatique de U vraie
rdligion, part. V, c. I, a. 1, Paris 1784. 2 De falsis definitionibus miraculi
verba non facimus, nam e theoria s. Thomæ, quam hic exponimus, quisque veram a
fals definitione miraculi dignoscere potest. > Contr. Gent., lib. III, c.
401. e. g., est compenetratio duorum corporum, quæ in resurrectione I. Chnsti
ex sepulcro non aperlo alque in Eius ingressu ad d.sc.pulos suos, clausis
ianuis, Ivenil quippe quod, cum omne corpus sit naturaliler impenetrab.le,
compenelrationem duorum corporum omnis creala visnullo modo efficere polest.
.151 Miraculum vero quoad subieclum diciluropus, ciuod vires tolius naluræ
crealæ superal non essentia sua sed [propler conditionem subiecti, in quo /it ;
ila ut causæ fcrcaiac sim.l.a, il . efficere valeant, sed non in subiecto? W
quo illud eflicitur. Ila certum nobis esl causas crea a Pd vilam, el vis.onem
in rebus producendam concurrere qma v.vens a v.venle gignilnr, alque visio in
animali pc.feclo per generat.onem oblinelur. At cerle vilam in jmortno
cxsusc.lare, aut visionem cæco reslituere nulla d.a causa po.esl, sed solus
Deus, 2. Uenique m.raculum quoad modum esl opus, ouod ec propler essentiam, ncc
propler subieclum, sed pro iredimr hT'qU° v' y,res,tolil,s namræ creatac
superTCdHur. Huiusmod. m.racula exislunt, cum ægrolus sine rævi.s remed.is, et
sine olla crisi cimvalescil, viresque lorpons sub.lo resum.i, vel cum tempeslas
in ranqu "iiatem subilo mulalur '. h-"" 153. Ex iis, quæ de
notione, et diversis speciebus mi-,lo Vffal,,:MU,S' /aci'e ™\em&™> qid
mirabileTuZ m !Aatmhh?yem> .iucu'enAue theoriam s. Tho iæ . Ad efliciendum
mirabile duo requiruntur : 1° ut a præter naturam cum codem Aquinate dici
possinl Mirarnlnm Cao~c nceo'' oo.d"' °Um Patet il,Ud "P-'
"esM,o™ •odi.,-i n ' . ° °d. fl,,acv,s na'" illiim cffcclum vel
omnino oduccre non potest, vel illum producere non polest in co subio:
",fluo. P;.od"C.um conspicitur. Miraculum ero coJa al m patrar,
d.cHor, si in rcbus, in quibus fit,,, rcmanet. „t s. Tho ;:i,'r": cvntraria2
:d„ TT' qnT Deus fadt • Cr n0tUni est i,,,,d esse eff"tnm, qucm na odnH
qU,dCm Produeere s^d non in illo modo, quo revera oduc.tur e. g., Ægyplum
repente ranis scatere , q. CX, a. 4 ad 2; cf s. Aug., De Trin., lib. III, c. 7,
8, et 10. Fhilos. Crrist. Compend. II.? ^ causa eius sit occulta; 2 ut in re in
qua fit, aliquid i insi repugnans esse putetur. lam utrumque duobus mod.s
conlinge?e potest. Etenim causa eventus, quem admiramur, vel est occulla
secundum se, hoc est, eiusmodi, u omnes lateat, vel occulta quoad nos, hoc est,
eius modi, ut nuosdam solum lateat. Item in eventu, quem adm.ramur vel vere est
aliquid repugnans in re, ad quam eventus pertinet, vel apparet esse, dum vere
non est. Si cansa eventus, quem admiramur, est secundum se occulta, atque in
re, circa quam ipsa versatur, est contrar.a d.spositto ad ipsum producendum,
eventus est illud, quod miraculum vocatur; quia Deus, quippe qui in rebus omnib
cretissime operatur, est causa occullissima, eiremotissima a nostris sensibus,
atque Ipse tantum in rebus operari potest aliquid, ad quod res non sunt
comparatæ. b causa eventus non omnibus, sed qu.busdam dumtasat s t occulta,
neque in se sit aliquid, quod e. vere repugna sed solum secundum opinionem, seu
apparenter, ellectus mirabilis vocatur '. VIII. — De miraculorum possibilitate
154 Miraculorum possibilitatem negant omnes ii, qui ob diversam, ut diximus \
rationem leges naturæ absolute necessarias, et immutabiles esse tenent. Nec
al.a est opinio Rationalistarum ; nam ipsi comm.n.scuntur haud possibile esse
ut facta, quæ leg.bus exper.ent.a umversim exploratis adversantur, cont.ngant,
et ideo omn.a nuracula, quæ Sacræ Litteræ narraut, veluti mythos interpretantur
3. T^ou desunt notæ, quibus miracula ri nomiuis a mirabmbus diseeruantur.
Eteuim illa ab istis dist.ngu. poss nnt on solom comparatione eventuum cum
explorat.s nstnrse leg bus sed e t. m 1° ex inenio, indoleque eius, qui
miraculum operatur num su pie tate nimique demiskne insignis, necne ; 2 ex
modc, opersnd scilicet uum omnia, quæ miraculum concom.tantur, "dolean
^rel gionem, gravitatem, et modestiam, n.h.Ique snpemtauosi, etndaml præ se
ferant; 3 ex fine cum operis, tum operant.s, hoc est numopu \i cultnm Dei
promovendum, hominumque corda amore De. mua". manda spectet, et num
operans glor.am De. un.ce quærat a pro priam gloriam et Iucrum aucupetur; 4° ex
.-^.'^ effectus, quia opera Dei sunt firma, præst.g.aque c.to evanescu Cf Bened
XIV, Op. cit., lib. IV, c. 4. 1 58 sq. 5 Horum commenta in unum collegit
Strauss, F.e de Jdsut, trac ^5 1 P.roV-Deus eflicere potest miracula. n£c°L ri
M,ra?ulu'"> t.ex dictis patet, existit ve! cam ootes, vJl a'T'.d
"0vi facil' (Iuod natura efficere non potest, vel cum efTectum impedit,
qui ab actione alicuius causæ natura ., consequi deberet '. E. g„ si Deus coeco
I mraTr ™lt' ^^ n°vi in coeco efficit, quod „a: tara efficere „o„ potest, quia
coecus visionem quam a effic ' ut "n" ^ rUrSUS aCWirer% non notest;
si autem ! tTlffol, 8 "0n con,l,urat> '"'Pedit combustionem, quæ
n,l5m,US pr°pnUS 'Sn,sAtuui "eum i„ rebus utrum • q !,?. d,w De Pot „ vi,
a. 1 c et a 2 a,I t ua Wv?nr°ad ali,a hUiUSm°di fta'dlendum est-;'namsi Dcus om
1 v.vent.a ereav.t nonne potest vitam largiri vel plantac, ul rursus 2 '
frciusquo ed, vel cadaveri, ut homo reviviscat V Si Deus otes" L
"""' h°m™1™ tem conficiendi panis edocuit; nonne
oranum„?,rPa,neS,tamultiplieare' ut non nl0d quinque muna mCf
rw,",nt'Se,let'am mu,U illoru,n >gment. supcrsint? Cf Cruerwl, c. IV,
a. 2, p. 232, not. 8, vol. I. nere, ut illud vel quiescat, vel alio cursum convertat.
At si homo hæc, aliaque huiusmodi præstare potest, nemo cerle negabit Deum, qui
ubique est, et operatur, cuiusque virtus humanam infinite excedit, potuisse
hominem e tecto præcipitem in ære suspendere, ut eum a mortis periculo
liberaret. Illud quidem inter actiones rerum creatarum, et actiones Dei, a
quibus effectus causarum naturalium impediuntur, interest, quod illæ ordine
naturali continentur, hæ autem vel quoad substanham, vel quoad modum \ires
naturæ prætergrediuntur, prout effectus causæ naturalis vel a nulla re creata
absolute lmpediri potest, vel impediri absolute potest, sed non in iis
adiunctis, in quibus a Deo miraculum efficitur. 158. Confirmalur propositio ex
eo, quod Deus, ut iam innuimus1, non ex necessitate, sed ex liberrima voluntate
ordinem, qui in mundo conspicitur, constituit. Nam, si ordo mundi non ex necessitate, sed ex
liberrima Dei voluntate existit, nihil prohibet, quin Deus aliquid præter
ordinem naturæ operari, seu, quod ldem valet, miracula patrare possit2. 159.
Obiic. Si miracula fierent, leges naturæ essent mutabiles. Atqui leges naturæ
esse mutabiles repugnat tum ex parte Dei, quia repugnat voluntatem Dei, qui
illas constituit, esse mutabilem, tum ex parte ipsius naturæ, quia, cum naturæ
rerum sint fixæ, et determinatæ, determinatæ etiam, proindeque immutabiles esse
debent leges, quibus ipsæ gubernantur. Ergo miracula fieri haud possibile est.
. 160. Resp. Conc. mai. ; neg. min. Neg. cons. ht sane, neque ex parte Dei,
neque ex parte ipsius naturæ quidquam prohibet, quin ieges particulares
aliquando mutentur. Non quidem ex parte Dei. Etenim Deus, cum leges naturæ
liberrime statuisset, illas eadem voluntate, qua constituit, mutare, aut
suspender e potest, quoties ordo Providentiæ id expostulat. Neque idcirco mutan
Deus dicendus est. Nara Deus, ait s. Thomas, ab æterno prævidit, et voluit se
facturum, quod in tempore tacit. bic ergo constituit naturæ cursum, ut tamen
preordinaretur in æterna sua voluntate, quod præter cursum istum quan i 158 sq.
Cf s. Aug., De
Gen. ad litt., lib. VI, c. 43, n. 23 et s. Thom., Contr. Gent., lib. III, c.
99. Jg5 (loque facturus esset '. Neque ex parte ipsius naluræ Nam rebus, quæ a
Deo crealæ sunt, ab Eoque conser' z °:;;i?r' r°n. repus,,at' --:: . est ipsas
nutui Dei obedire. Alqui, cum le-es mundi ob immediatam actionem Dei mutantur,
re frea æ nutui De, ipsascreant,s,conServantis,gubernandiSque obediant"
mnfarP Nkf ^T™ T rePaS™1 leges eius aliquando Hri^Lmn (l"0SCum leSes
"aluræ per miracu a mutari dicuntur, putandum non eSt miraculo lædi ullam
le I Srffen".eralem ',at,Uræ' 1uia' Ul e all"tis exempt col t I
gitur, Oeus miracula palrat non quia leeem ire, er-ilem • se statutam destrui.
s'euia iu atura,duci" sensibilem per se, et immediate pro CAPVT VII. De
mundi origine I.— Ulrum mundus a Deo sit crealus L..!61' Crefim\S n0mine
intelligitur productio rei in ksc secundum totam suam substantian, >, ita ut
causaNilas creant.s se extendat ad omne illud, quod i re in E uV
?naClldefini,Ur : Productio tot?uBr™eX jHimio, i ta, ut mhil antea exlet, ex
quo res ednratnr iHinc valde distat creatio ab illa 'actione quæ simplkl' Qq.
dispp., De Pot., q. III, a. i ad 6. Cf s. Bonav., In lib. I Sent., Dist. XLII,
a. 1, q. 3 ad ara. ' Vid. etiam quæ adnotavimus p. 159 not 2 is if^i C"m.1,niracula
™nt™ nataram fieri dicuntur, id de natuw particulanbus tantum intelligendum est
; neuue ita ut earuin .atun/aji?e;tTe|Ur;,meC enim i,,Ud tantu" Postulat
qu d 0 ^ i?P,7e/etUr' n°n niS/. °Pc™tiones sibi consentaneas exerere 01 Jes rwum,Vn
nilraCUllS eiFeCtUS Hant COntra ordines PartiinrpVovirn;Semper secuudl"
ordinem universalein Di aventurfoif,ff"'"' ^,'.1 '' "' 2 so'
Creali. inqt.it s. BoSl:; t i 2,Sq "! SeCUndUm t0lUm "; ter
effectio dicitur, nempe per quam subiectum, quod iam existit, immutatur. Duplex
modus est caussandi. Unus quidem, quo aliquid fit, præsupposito altero. Alio modo caussatur aliquid, nullo præsupposito. Et
boc modo dicitur aliquid fieri per creationem l . 162. Mundus a Deo esse suum
habet per crea tionem 2 Probatur prima pars, nempe mundum habere esse suum a
Deo. Omnes res, ex quibus
mundus constat, non sunt ex se ipsis, sive, ut Scholæ aiunt, non habent esse ex
se.± Atqui id, quod non est ex se, oportet ut sit ex alio, seu, ut babeat esse
ex alio, quippe quod nihil medii est inter esse a se ipso, et esse ab alio.
Quotquot igitur res sunt, ex quibus mundus componitur, esse suum ab aho habent.
Atqui boc aliud, a quo res mundanæ esse suum repetunt, nonnisi Deus esse
potest; nam ea, quæ non sunt a seipsis, cum habeant esse participatum, causam
sui esse m eo agnoscunt, cui esse essentialiter convenit; Deus autem i dumtaxat
est Ens, cui esse essentialiter convenit. Ergo omnes res mundanæ a Deo esse
suum habent 3. 163. Probatur altcra pars, nempe modum, quo mundus esse suum a
Deo habet, in creaiione consistere. Nequit
Deus dare esse rebus ex materia præexistente. Ergo res a Deo efficiuntur ex
nihilo, seu esse suum a Deo accipiunt per creationem. Antecedens ita
demonstratur: A Deo, quemadmodum ostendimus, esse omnium entium onginem habet,
proindeque esse ipsius materiæ, quæ et ipsa quoddam ens est, ita ut haud
possibile sit esse matenæ existere, antequam a Deo efficiatur. Atqui, si res
lta se habet, compertum est Deum res non producere ex aliqua materia
præexistente, sed eas ex non ente, sive ex nihilo educere . Ergo. i In lib. De
Causis, lect. XVIII. 2 Si quis, ita a Concilio Vaticano definitum fuit, non
conntea tur mundum', resque omnes, quæ in eo continentur, et spmtua les' et
materiales, secundum totam suam substantiam a Deo e: nihilo esse productas...
anathema sit ; Sess. III Const. dogm.
D Fide Cathol., Can. I, n. 5. I q XLIV a 1 c. Vid. etiam Contr. Gent., \\b. II, c. 13. Cf s.
Aug.,' De Vera Relig., c. 18, n. 36; s. Ansel., Monol . 6, et AQUINO (vedasi).
Demonstrationi directæ indirectam, quæ maiorem perspicuitatem habet, adiicimus.
Ut origo mundi explicetur, hæ hypotheses fingi possunt. Nam vel mundus semper
extitit, qualis nunc est, seu est æternus tum ratione matenæ, tum ratione formæ
f; vel ingenita, et æterna est matena informis, et ex ea mundus effectus est
per ordinem, seu formam, quam Deus materiæ in tempore largilus est 2; vel
æternæ sunt atomi, et ex iis per inQnitum mane vagantibus, atque in diversas
combinationes lemere coalescentibus, mundus, quem videmus, ortus lest3; vel
mundus ornnino cst emanatio, aut evolutio substantiæ Divinæ, ita ut ab ipso Deo
non distinguatur, ac promde sit, qualis Deus est, æternus ; vel denique a Deo e
nihilo eductus, seu creatus fuit, ab eoque ordinem, quem præ se fert, accepit.
Atqui ex his hypothesibus quatuor priores sunt absurdæ. Ergo, secundum leges
syllogismi disiuncti, restat, ut quinta, quæ creationem mundi staluit, sit
vera. 165. Minor probatione eget. In hac, relicta quarta hypothesi, de qua in
Theodicea disseremus, trium priorum rlumtaxat ratio habenda nobis est. Iam
abnormitas primæ, et secundæ hypothesis hoc ar^umcnto evincitur. Si materia,
quocumque modo conci 1 Præcipuus auctor huius sententiæ fuit Aristoteles. Cf
Jul. Sinon, de Deo Aristotelis, Paris 1839. 2 Hæc fuit Platonis doctrina, de
qua dignus est, qui legatur H. tfarlin, Etudes sur le Tim. etc, Argum., § 7, t.
I, c. 27, et not. .XIV; t. II, p. 179 sqq. 1 Ita opinati fuere Leucippus, Democritus, aliique
veteres defen•ores atornorum. ' Hæc omnium veterum, recentiumque Pantheistarum
sententia est. )piniones aliorum recentium, qui creationem impugnant, ad
primam, |t tertiam revocantur. Etenim ipsi cum atheismum vel manifeste
deendant, vel occulte insinuare adnitantur, mundum, vel qualis nunc st, semper
exlitisse, vel ex vi ipsi materiæ insita evolutum, sensim[ue efformatum esse
autumant. Prima harum opinionum defensa fuit i
multis Incredulis sæculi proxime elapsi. Altera valde probatur Juchnero,
aliisque materialistis Germaniæ. Ipsi enim, cum teneant lullam aham vim
existere, quam quæ matcriæ inhæret, eamque tonnisi in materia existere posse,
inde colligunt mundum ex vi ipsi natenæ insita evolutum, sensimque efformatum
fuisse, ac proinde totionem creationis esse prorsus absurdam, quia creatio vim
extra nundum positam, ab omnique materia seiunctam expostulat. piatur, nempe
vel sua forma iam prædita, qualis est mundus, vel omnis formæ expers, esset
infecta, ac proinde stricto sensu æterna, ipsa procul dubio existeret ex
necessitate suæ naturæ, ideoque immutabilis, atque ab omni successione immunis
foret; siquidem id, quod non est factum, ex se ipso esse debet ; id vero, quod
ex se ipso est, existit necessitate suæ naturæ, et quod necessftate naturæ suæ
existit, mutationi, et successiom obnoxium esse nequit, alioquin esset
necessanum, et non necessarium, nempe necessarium, et contingens Atqui repugnat,
docentibus ipsis adversariis, quosbic retelhmus, maleriam esse necessariam,
immutabilem, atque ab o-i mni successione immunem. Ergo repugnat matenam,
quocumque modo ipsa concipiatur, esse mfectam, seu stncto sensu æternam.
Secunda autem hypothesis alns, nsque validissimis argumentis oppugnatur. Et
sane, Deus non poterat materiæ ingenitæ largiri formam, quam habet, nisi ipsa
ab Eo penderet, Eique subiiceretur. Atqui repugnat materiam, quæ est ingenita,
atque infecta, ab ahqua causa anteriori pendere, ullique causæ extenon subnci.
Ergu, si materia informis esse infecta, atque ingemta dicatur, Deum ex ipsa
mundum, quem modo conspicimus, eftecisse dici nequit2. Præterea id, quod est
ingemtum, nullam mutationem admittit. Atqui nihil ex eo, quod est immutabile,
fieri potest, quia perspicuum est hoc lpso,, quod ex aliquo aliquid fit, mutari
id, ex quo ht. Matcn? ergo, ita concludit Lactantius, si facta non est, ne
tieri ex ea quicquam potest 3 . Accedit, quod Deus inhmt? potentia pollet, ac
proinde putandum non est Eum, nor secus ac homines, non posse efficere
quidquam, nisi e^ i Ex quo vides antiquos Patres philosophis, hæreticisque æter
nitatis materiæ defensoribus iure, meritoque obiecisse, quod lps materiam Deo
æqualem facerent, proindeque duos Deos commini scerentur; siquidem esse ei se
ipso, seu necessitate suæ naturæ immutabile, et stricto sensu æternum, est
proprium solius natura summæ, et perfectæ, scilicet Dei. Inter eos, secus ac Auctor Syst
natur. (Systeme de la nature, part. 2, c. 2, Lond. 1770), impuden ter asseruit,
recensendus est Tertullianus, qui æternitatem mund adversus Hermogenem ex
industria impugnavit. Cf s. Iustin., Ad Gentes cohortatio, c. 23. 3 De ira Dei, lateria iam existente; sed tenendum est
Eura, sicut nullo rtifice, ita nulla materia eguisse, ut mundum conderet ! 167.
Absurdior est tertia hypothesis. Enimvero, atomi bsis Atomicis fatentibus, etsi
insecabiles sint 2, tamen laites habent, materialesque sunt ; quocirca si
repu^nat jiatenam esse ingenitam, repugnat etiam ingenitas esse .tomos. Atqui
atomi, ex quarum fortuita concursione munSum ellectum esse Epicurus,
recentesque Increduli comUiniscuntur, sunt ingenitæ. Repugnat i^itur mundum ex
ftomis per æra temere convolantibus effectum fuisse. ' 108. Præterea, etiamsi
demus posse dari alomos, certe •ullo modo evenire potuit, ut ex ipsis et
singulæ res c quibus mundus conllalur, et ipsa mundi compages eflcerentur. Hoc
m primis ex eo demonstralur, quod illæ omi tamquam ingenitæ adstruuntur. Etenim
plures a!;mi non possunt ad aliquam rem efficiendam coalescere Mi quodammodo
lmmulentur, quia necesse est ut ipsæ Jiquid in sese invicem agant. Atqui id,
quod est in.Alteraai tem ratione asseritur rem creatam ordinem habere ad nih
lum, quatenus ipsa est natura sua post nihnum, æqi ac si dicatur c, mtel hgenda
est de duratione æternitalis, non vero pons, vel de æternitale temporis
imaginati non ve° •eal.s, quatenus durationem ælernam Entis increati e sme
successione est, sine aliqua successione imari nequ.mns. H.nc commode dici
polesl Deum fnigM | mundum, qu.n vel Dcum in tempore esse, vel tem ante mundum
fu.sse staluatur. Prius vero, ItmJu, seu ante, ct post si considerentur in ipso
tcmCore 1 dub.o quædam e.us differentiæ sunt ; vcrum si' udcrentur relata ad
æternilalem, non aliud den™ant rclat.onem temporis ad ipsam ; siquidem nos q i
ess.on, assuet, sumus, concipimus esse immoTunA mslanhs, quod est proprium
ælernilatis, fu?sse anam success.o temporis inceperit, et futu^um si'suc•o
tempor.s desmeret. Quare dicimus Dcum fuisse ante ndeV' mUudum esse P°s eum,
non quod Deum! nde ac mundum, tempore conlineri intel igimus sed . cum Deum
extra omne tempus esse intfSus udum reqUC De-Um fuiSSe aule muudi oKem lundum
esse incep.sse, cum iam Deus esset . i ¥• cit.t ibid., c. 23, n. 3. • q. XLVI,
. i ad 8.- Cf s. Aug,D0 Civ.DH, ]ib. xh,c. 17, nl Si Deus mundum in tempore
creasse ( catur, illud quoque dicendum est, fuisse tempus,inqmnium possibihum
optimus, non quod optimæ sunt sinplæ eius naturæ, sed quod ipse, totus quantus
est, a oono ad mehus in infinitum progreditur. Præter Platonem inter veteres,
Abælardum in media ætate, minHJ m W uhJecni[\ ætatis initium, sententia de
optimismo nundi MaJebranchio probata est. lifflr^WK desciene: !-. art
Optimisme. Leibnitius etiam, a .nmcuitatibus adversanorum pressus, eo tandem
devenit, ut theo rW par n"1 g n202OPtimO ' C°ntinU° Pr0greSSU derivaret5
vid' • Optiraismus raundi refellitur 192. Doctrinani de mundo oplimo, quocumque
modo accipiatur, admilti non posse sequentibus propositionibus evincitur: la. Optimismus Leibnitianorum et per
se absurdus est, et ad exitiales errores ducit. Probatur prima pars. Finis, ob
quem Deus mundum creavit, ut in Theodicea videbimus, est manifestatio
perfectionum Dei; qua de re mundus optimus ilie dicendus foret, qui perfectiones
Dei ita manifestet, ut nihil supra. Atqui mundus, quilibet ipse sit, utpote
finitus perfectiones Dei nequit ita manifestare, ut ipsæ magis, ampliusque
manifestari non possint. Ergo hunc mundum, vel alium quemlibet possibilem esse
omnium optimum absurdum est . Probatur altera pars. Doctrina de mundo optimo
potentiam Dei, quæ omnem limitem respuit, limitibus cogit; atque Deum, qui in
productione rerum extra se maxima libertate gaudet, necessitati obnoxium facit.
Ergo ad exitiales errores ducit. 194. Antecedens ita demonstratur. Et sane : 1°
Si Deus mundum omnium possibilium optimum creavit, Eius potentia iam exhausta
est; quia, cum mundo optimo nullus alius præstantior dari queat, Deus iam
effecit quidquid efficere potest. Atqui potentia, cuius obiectum exhauriri
potest, imo iam exhaustum est, non est infinita. Ergo theoria, quæ mundum
omnium possibilium optimum a Deo creatum esse statuit, infinitam potentiam Dei
tollit2. 2° Si Deus mundum creare volens, debuit optimum omnium possibilium
creare, non potuit ex infinitis mundis possibilibus 3 potius unum, quam alium
ad existen Cf s. Thom., Qq. dispp., De Pot., q. I, a. 5 c. Adeo verum est
optimismo mundi omnipotentiam Dei lædi, ut Abælardus, et Wiclefus, cum
docuerint Deum non posse alia facere, quam quæ fecit, id quod omnipotentiæ Dei
profecto adversatur, autumarunt quoque, uti paulo ante adnotavimus, illum
mundum a Deo creatum esse, qui est omnium possibilium optimus. 3 Series
mundorum possibilium, non diffitente eodem Leibnitio (Lettres d Borguet, Lettr.
I), est infinita. Et sane mundi, qui esse possunt, tot sunt, quot sunt modi,
quibus Deus esse suum cum rebos extra se communicare potest. Atqui series horum
modorum est inn tiam vocare, sed eum, quem creavit, scilicet omnium optimum
creare coactus est. Alqui ubi non est eleclio, ibi est necessitas. Ergo Deus
hunc mundum præ reliquis posjsibilibus non ex suæ volunlatis consilio, sed
necessilate coactus creavit. Quinimmo ex theoria optimismi illud etiam
sequitur, quod Deus mundum, quicumque sit, creare cogitur. Etenim,
Leibnitianorum iudicio, Deus mundum lomnium oplimum creare debet, ut
perfecliones suas, quoad fieri potest, manifestel; ergo eo magis ad mundum
creandum cogitur, alioquin perfcctiones suas non modo non quoad fieri potest,
sed omnino non manifeslasset . Optimismus cliam eo modo, quo a Bouillierio,
aliisque explicatur, reiiciendus est. Probatur. Ralio, ob quam repugnat ullam
particularem creaturam esse omnium possibilium optimam, in eo, his •Optimistis
non diffilenlibus, sita est, quod quælibet par ticularis creatura infinitum
Esse Dei modo finito repræ sentat, ac proinde aliæ sunt possibiles, quæ Divinum
>Esse magis, magisque manifestant; siquidem finito aliquid jsemper addi
potesl. Atqui, etiamsi detur mundum esse in continuo progrcssu, ipse, cum nonnisi
finitæ progres isionis capax sit, Esse infinilum Dei modo finilo semper
manifestat, ac proinde alii multi eo præstantiores fieri jpossunt. Ergo eadem
ratione, qua probalur, nuperorum jOptimistarum iudicio, nullam singularem
creaturam esse iomnium possibilium optimam, probalur simul ne totum iquidem
mundum, quicumque tandem sit, omnium pos •sibtlium optimum esse. 196. Adde his,
quod continuus progressus in infinilum, nita; quia, cum singuli modi finitam
entitatem, seu realitatem a Deo accipiant, horum series, quantumvis maxima
dicatur, vel cogitetur, Esse Divinum, utpote infinitum, exhaurire numquam
potest. Ergo series mundorum possibilium est intinita (cf s. Thom., In lib. III
Sent., Dist. XIV, q. I, a. 4 ad 3). Exinde aliud argumentum, quo mundus optimus
veluti in se absurdus redarguitur, confici potest; siquidem, posita doctrina de
mundo optimo, series mundorum possibilium non esset infinita; quippe quod,
postquam series a mundo minus perfccto -ad mundum magis perfectum progrediens,
mundum omnium optimum lassecuta est, supra ipsum assurgere nequit. 1 Cf
Fenelon, Rtfutation du systdme du p. Malebranchc sur la nature, ct la grace, c.
6, et Bonifas, ttude sur la Thtodicee de Leibniz, part. 3, c. 4. quem hi
philosophi mundo, prout totus est, considerato tribuunt, prorsus commenlitius
est. Etenim, cum mundus in tota rerum, ex quibus conflatur, universitate
consideratus non sit aliquid abstractum, sed ex diversis naturis rerum
compositum, non potest aliter ^inteiligi ipsum esse in conlinuo progressu, quam
si ipsas naturas rerum in naturas præstantiores continuo transmutari
admittatur, alioquin progressus non esset substantialis, sed accidentalis. Atqui repugnat naturas rerum ita progredi, ut aliæ in
alias continuo transmutentur . Ergo repugnat in mundo inveniri illum
progressum, quem nuperi Optimistæ commenti sunt. 197. Obiic. 1° Leibnitius,
eiusque sectatores: Si Deus inter mundos possibiles optimo alium prætulisset,
mundum sine ulla ratione sufficiente creasset. Atqui quidquain ne in Dei quidem
operibus sine ratione sufficiente esse potest. Ergo Deus mundum omnium
possibilium optimum creasse dicendus est. 198. Resp. Dist. mai., sine ratione
extra Deum posita, conc. mai.y sine ratione, quæ est in ipso Deo, neg. mai.;
eadem dist. neg. et conc. min. Neg. cons. Sane admittenda est aliqua ratio, ob
quam Deus mundum creavit, quia Deus, utpote sapientissimus, nihil sine ratione
moliri potest. At, cum Deus, ens sibi ipsi sufficientissimum, a causa extranea
delerminari non possit, illa ratio non in perfectione mundi, sed in ipso Deo
invenienda est ; nempe, ut s. Thomas inquit, est ipsa stia Bonitas z. Quod si
ratio, ob quam Deus mundum creavit, non est perfectio ipsius mundi, sed bonitas
Creatoris, consequitur rationem, ob quam Deus hunc mundum, non vero alium ipso
perfectiorem, aut imperfectiorem condidit, non in perfectione ipsius mundi, sed
in ipso Deo etiam quærendam esse. Hæc
autem inquisitio supervacanea, imo temeraria est, cum de re agatur, quæ ad
arcana Divinæ Sapientiæ pertinet. Talis quæstio, ad rem ait s. Bonaventura, est
irrationalis, et solutio non potest dari, nisi hæc, quia voluit, et rationem
Ipse novit 3 . 199. Obiic. 2° Si Deus crearet mundum 'omnium possi Cf Ontol.,
c. II, a. 3, p. 17. 2 Contr. Gent., lib. I,
c. 86. 3 In lib. I Sent., Dist XLIV, a. 1, q. I ad arg. Cf s. Aug., Epist. III
ad Nebridium, n. 2. COSMOLOGIA 183 hilium minime optimum, Sapientiæ,
Bonitatique suæ flerogaret, quia minus honum est quoddam malum, æ![uc ac minus
malum est quoddam bonum. Atqui conseimens est absurdum. Ergo et antecedens. | 200.
Resp. Neg. mai> ; conc. min. Neg. cons. Sane Sajnentia, Bonitasque Dei non
expostulant, ut Deus efficiat jnundum omnium possibilium optimum, sive absolute
op lmum, sed tantum ut quemcumque mundum ex omnidus possibilibus efficere
velit, ipsum efficiat relative, nemf>e m genere suo optimum, quatenus ei
omnia largiri debet, per quæ et omnem illam perfectionem, cuius natura ;ius
capax est, assequatur, et ad ultimum eius finem, qui bst manifestatio Bonitatis
Dei, perfectum ordinem habeat. llud autem omittendum non est, perabsurdam esse
ra jfionem, qua Leibnitius propositionem maiorem sui argujnenti probavit, quia
bonum, et malum privative sibi opponuntur, ac proinde prorsus repugnat ullum
bonum, >rout est bonum, esse malum, aut ullum malum, prout j:st malum, esse
bonum. 1 Cf s. Bonay. loc. cit., q. II ad arg. Homo omnia, quæ in reliquis
naturis rerum adhuc observavimus, in se exquisitiori modo continet1, atque ob
suam facultatem intelligendi particeps est proprietatum, Eer quas substantiæ
intellectuales, sive Angeli cæteris reus creatis excellunt2 ; quocirca ipse
annulus est, quo natura visibilis cum invisibili copulatur, ut unica inde
universitas rerum creatarum efficiatur $. Hinc tractatio de homine a Cosmologia,
uti diximus , segregatur, atque peculiarem Philosophiæ partem, quæ
ANTHROPOLOGIA vocatur, sibi propriam habet. In hac tractatione primo
explicabimus quidquid ad unionem animæ, et corporis in homine spectat; deinde
inquiremus 1° in quo essentia animæ humanæ consistat; 2° utrum, necne anima sit
immaterialis; 3° quænam sit origo animæ; 4° utrum, dissoluto corpore, anima
superstes sit, an cum corpore pereat. Quænam sit animæ et corporis uuio in
homine inquiritur I. — Substantialis animæ, et corporis unio in homine
adstruitur 2. Communis vulgo hominum persuasio est hominem non esse solam
animam, aut solum corpus, sed aliquid, quod ex anima, et corpore conflatur 5 ;
siquidem nemo, quantumvis plebeius, cadaver, aut animam a corpore separatam
hominem appellat, latumque discrimen inter ca Hinc homo fjVY.poY.ovfjLog,
parvus mundus, dictus est, quia, ut AQUINO (vedasi) advertit, omnes creaturæ
mundi quodammodo inreniuntur in eo ; I, q. X.GI, a. 1 c. 2 Cf s. Aug., De Civ.
Dei, lib. IX, c. 13, n. 3. 8 Cf Nemes., De natura hominis, c. i. 4 90. s De
Dicearcho, aliisque paucis antiquis, et recentibus Materialistis, qui in homine
corpus tantum admiserunt, alias disseremus. daver, animam, ct hominem non
agnoscit. Verum quoniam unitas, ut in Ontologia vidimus , cst vel substantialis,
vel accidentalis, non convenit inter omnes Philosophos, utrum unilas hominis,
sive, ut aiunt, compositi humam sit subslantialis, an accidentalis. Et sane non
pauci inter antiquos, recentesque vel aperte professi sunt animam per acadens
cum corpore coniungi, vcl hominem ita dennivere, ut nullam rationem corporis
haberent. Nos primum substant.alem, seu naturalem unionem animæ cum corpore in
homine adslruemus, deinde quædam contra oppositas sententias adnotabimus. 3. S.
Thomas, de unione anitnæ cumfcorpore disserens ait: (( fcx anima, et corpore
constituitur in unoquoque noslrum duplex unitas naturæ, et personæ 2 . Yentas
huius theoriæ, quæ in tota media ætate viguit, et iam a ss. latr.bus, al.isque
antiquis Scriploribus 3, post Aristotelem, trad.ta fuerat, sequentibus
propositionibus a nobis demonstratur: 4. la. Corpus, atque anima in homine adeo
inter se comunguntur, ul ex ipsis una natura, seu una substantia completa
constituatur . Probatur.Ea, quæ sunt diversæ naluræ, unam, eamuemque actioncm exerere
non possunt. Atqui anima et corpus quæ m se seorsum consideratæ sunt diversæ
res, nabent in hom.ne operaliones utrique communes Er^o corpus, et amma in
hornine adeo inter se coniunubstanUa completa, sive una natura constituatur
Minor probatur præcipue ex sensationibus, quæ non sunt >ohus an.mæ, aut
solius corporis, sed ulriusque. Re uuiIdm,Veransensat,0.nes non.sunt solius
corporis, quia cum psa s.t operat.o immalerial.s, a solo principio materiali,
sr;lest r:pus' proficisci -w •>^ 3 ri6Ptia comprobatur, quia corpus,
poslquam anima ab eo Cap. III, a. 1, p. 19.-2 in? q. rij a. j ad 2 W præ cetens
s. Iustinum (Fragm. libri De resurr. carnis • 8) A henagoram (De resurr., c.
12, 13, 18, et 21) s Irenacum yeirid.^: l\ t't t^}De CtvDei> libXIX> ; ™°
\ Contr. Gent., lib. II, c. 57. ° Cf DtJnam., c. III, a. 4, p. 119-120 vol. I.
seiuncta est, nihil sentire experimur. Neque sunt solius animæ, quippe quod,
cum anima sit immaterialis, res materiales nihil in ipsam per se, sive
immediate agere possunt *. 5. Itaque neutrum (neque corpus, neque anima) habet
speciem completam, sed utrumque est pars unius naturæ 2 . Quapropter homo nec
corpus, nec anima est, sed aliquid tertium, quod ex utroque componitur 3. ld ex
ipsa notione corporis animati clare intelligitur ; siquidem corpus animatum non
est solum corpus, quia corpus per se est expers animæ, seu vitæ, nec sola
anima, quia anima est naturaliter incorporea, "sed aliquid tertium ex eo
exurgens, nempe corpus, quod anima informat. 6. 2a. Ex anima, et corpore unica persona in homine
efjicitur. Probatur. Operationes in qualibet natura tribuuntur supposito, seu
personæ, secundum illud Scholæ, quod in Ontologia statuimus, Actiones sunt
suppositorum *. Atqui in unoquoque nostrum unum, idemque est illud, cui
operationes animæ, et corporis tribuuntur. Ergo ex anima, el corpore una
persona in homine constituitur. Veritas minoris ex interna experientia constat.
Et sane nos iu nobis ipsis experimur, illud, quod in nobis intelligit, ei vult,
essc idem ac illud, quod sentit, nutritur, deambu lat: unde unusquisque nostrum
sicut dicit, ego volo, el ego intelligo. ita dicit quoque, ego patior, ego
deambulo aut aliud huiusmodi. Atqui illæ operationes sunt sohuf animæ; hæ autem
animæ, et corporis, quod anima m format. Ergo unum, idemque esse in homine
illud, cu operationes animæ, et corporis tribuuntur, experientu interna
constat. 7. Præterea, hæc personæ unitas, quæ ex anima, e corpore efficitur, ex
iis, quæ in præcedenti proposition, nihil diciIfius; nam conlra istam opinionem
eadem valent argumenta mhm personam non posse definiri naturam sui consciam
stendimus 2; quippe quod rb ego secundum Kantium, alios>ue nuperos re ipsa
non aliud, nisi personam, denotat 14. Denique Kosminius docuit rb ego non esse
solam immam, uli Gartesius opinatus est, neque solam conscienHam, uu Kantius
contendit, sed esse animam, prout conpa sui ipsius esl; nam subiectum humanum
tum evant ego, cum per diversas operationes internas suarum fa;ultatum
conscientiam sui assequitur3 . At Rosminius DefinXIII, § 55. Modus, ait, quo
corporibus adhærent spiritus, et animalia Nihilominus Scholastici, Aristotelis,
ipsiusque s. Augu stini doctrinis adiuti, de modo, quo anima, et corpus u nicum
compositum subslantiale efficiunt, theoriam concin narunt, quæ cuilibet solidæ,
et cuiusdam momenti diffi cultati aditum præcludit. Quæ theoria huc redit,
quoartem formæ, non autem materiæ in homine expleret psum iorct principium, quo
homo vivit; at hoc fieri ne[uit, quia corpon per se inspcclo nec vivere, nec
esse inncipium vivendi convenirc polest, alioquin omne corius oporteret esse
vivens, vel principium vitæ * 19. Alterum argumentum ex ipsa notione formæ
subtant.al.s pet.tur: Re quidem vera, formæ subslantialis, oonenle Aquinate \
duo sunt propria. Primum in eo conistit, quod ipsa rei, cuius est forma, esse
substantiale *rgilur, veluti pr.ncipium inlrinsecum, ex quo res in ua specie
constituitur 2; alterum, quod a primo fluil, est, |UOd ex forma substantiali,
et ex materia, quæ ab illa eterminatur ad aliquam rem constituendam, unicum
esse jubstant.ale efficitur *. Atqui dubium non est, quin anima rga corpus hacc
duo munia obeat ; namque 1° anima, i ante vid.mus 5, esse corpori largitur
veluti principium, uo res cst id, quod cst; unde corpus, antequam ab anima
tormetur, non est corpus humanum, et staiim ac anima o eo separatur, corpus
humanum esse desinit. 2° Anima um corpore unum esse substantiale constituit;
namque si )sa intnnsece esse corporis constituit, necesse est ut una um corpore
unicum esse substantiale efficiat 6. Er^o nenm dub.um esse potest, quin anima
cum corpore*, veiti iorma substantialis cum materia, copuletur. £J. Frop. 2 .
Amma, quæ est forma substantialis cor7' /*on est> msi amma intellectiva,
sive rationalis. rrobalur contra non paucos, eosque præsertim recen§, qu. ut
intra videbimus, pugnant animam, qua corus vivit, non esse animam
intellectivam, sed animam ab Jc d.versam, quam principium vitale vocant. Forma, ut \ r'fqr LXXV' a* * ? 2
Con*r. Gent., lib. II, c. 68, n. 2. * Cf Cosmol., loc. cit., p. 102-103.
ninn!df^P* i104" •Pr°pter hæC duo forma sbstantialis, quæ prin E? ani n ?
rei.ctaV°CatUr' a Princiui0 efficiente discrimitur, quia pnncipium efliciens
largitur esse rei non ex eo aunrf a produc.t, atque esse eius non est idem ac
esse rei productæ est etiam ipsius animæ ; I, q. LXXVI sæpe diximus, speciem,
seu naturam cuiusque rei determinat. Atqui
natura cuiusque rei ab eius operationibus dignoscitur. Ergo in composito
substantiali, quod dicitur homo, forma ea esse debet, quæ illius operationibus
respondet. Atqui operationes
propriæ hominis sunt intellectivæ, quia per has a ceteris rebus discriminatur. Ergo anima intellectiva est propria hominis forma.
Nonnulla circa eamdem theoriam adnotantur 21. Ad eius, quam exposuimus, theoriæ
maiorem explanationem, hæc tria mente recolemus oportet: Horum primum est,
animam rationalem non posse informare corpus, prout est rationalis, quia ipsa,
prout est rationalis, naturam materiæ longe supergreditur. Hinc, cum dicitur
animam rationalem esse formam substantialem corporis, hoc intelligendum est,
secundum essentiam animæ intellectualis, non tamen secundum operationem intellectualem
2 , quapropter unio animæ ad corpus uon pertingit usque ad operationem
intellectus 8 . 22. Alterum est, animam humanam, secus ac animam belluinam, ita
informare corpus, ut per se, et sine corpore existere valeat, sive, ut Scholæ
aiunt, esse formarr substantialem subsistentem . Et sane, si anima humana.
secundum quidem suum esse, sed non secundum suam virtutem intelligendi est
forma corporis, sequitur aliquas operationes ab ea exerceri sine organis
corporeis 5. Atqui anima humana non posset ullas operationes sine organu
corporeis exercere, si esse eius a corpore omnino penderet. Ergo anima humana
ita informat corpus, ut per se; et sine corpore existere valeat. 23. Tertium
est, quod anima, etsi sit forma corpons. tamen operationes intelligendi exercere
potest. Secundum essentiam quidem suam [anima intellectiva) dat esse 1 I, q. et
a. citt. c. „ Qq. dispp.&xm. De Anim.,a.7 ad 11. Cf Contr.
Gent.,lib.IV,c.S& s Qq. dispp., De Fer., q. XIII, a. 4 c. . Quænam sit
forma substantialis subsistens, exphcavimus n Cosmologia, c. V, a. 3, p.
137-138. s Quamvis esse animæ sit quodammodo corpons, non tamei corpus attingit
ad esse animæ participandum secundum totam suan nobilitatem, et virtutem: et
ideo est aliqua operatio animæ, m qm non communicat corpus ; Op. cit., De
Anirn., a. 1 ad 18. GESm' • Secundum Potemiam vero proprias operationes
^fficil'; nam ipsa cum corpore ila coniungilur, ut per •at.onem vires eius
superet, eiusque dominelur . Vicissim tsi anima natura sua sit intelligens,
tamen ad opcra,V,es corporis concurrere potest. Etenim ipsa es? forma erleclior
form.s sensitiva, e( vegetaliva. Atqui quæ! bet uTcontST/ formarum> uæ Psa
inferio^es u„ se conhnet. Ergo an.ma humana, cum maleriam inforoat, e. largitur
esse, quod corpori inanimato convenit Wetare, quo planla super corpus
inanimatum exlolli tur Asentxre, quo brutum plantæ excellit; nihilque al u I
ibi kopnum retinet, nisi vim intelligendi, quam cum mabria commun.care non
potest . Itaque anima huma. a loæ seeundum essentiam suam est rationalis, ad oS
lones corpor.s concurrit non quatenus est rational? sed "t C„eVlil|U'rn
SCr. fTU,tateS Ve^tativas in ' conS '.inn ' ' • 0m'llenu"m est, animam
producere one Uiones corpons, non prout sunt mere materiales et cororeæ, secl
prout vilales, ac proinde aliquid simplex sunt. Abt. HI.-Argumenta, qaibus
Scholasticorum theoria impugnatur, solvuntur L% ^bi'C- °Si anima ratinalis
csset fbrma substaniJi.s corpons, ipsa cum corpore sese commisceret, ita ut 'ni
eo exteuderelur, et divideretur. Atqui id, quod est 1 fni!,' .Ct d,visibilc> est
materiale. Ergo Scholasticoim sententia animam humanam materialem facit. i I
n,n7P.' \eg"""':> concminNe9consEt sanc il".',?.,•
abadversar"s ob.icitur, quod nempe anima foret le nnn', V CUm .corPorc
commiscerclur, iam ab Aquiicen !u T f0lt Quæ miscen'r> ait, oportel ad m IZ
tt ? eSSe.; qux°d non onling'. "''! uis, quoWcr8 n °na eadem • At ex
eo> 1uod ^ima i"for« corpus, ipsam cum corpore commisceri haud seuui Un>
De PircreaL' a2 ad 10. ' hb. III Sent.,
Dist. I, a. 1, q. I ad arg. - 192 expostulat, ut ad coniunctionem cum corpore
ordinem semper retineat, non vero ut sine actuali cum corpore coniunctione in
suo esse perdurare nequeat l. IV.— Scotistaruni sentenlia expenditur 31. In
superioribus articulis diximus animam humanam, cum materiam informat, utpote
forma ceteris perfectior, quæ harum virtutes in se continet, ei largiri non
solura esse vegetans et sentiens, sed etiam esse corporis'-; ac proinde
informare materiam omni forma dcnudatam, ita ul ipsa sit illa forma, qua corpus
in suo esse corporis constituitur 3; neque id animæ simplicitati obesse . Qua
ir re silentio prætereunda non est sententia Scoti. Ipse enim, post Henr.
Gandavensem, etsi animam esse formam qua corpus vivit, seu, ut aiunt, animatur,
propugnaverit tamen, secus ac B. Albertus M., s. Thomas, et pleriquc Scholæ
Doctores docuerunt, contendit agnoscendam præ terea esse in corpore « formam,
qua corpus est corpus aliam ab illa, qua est animatum s. Hanc formam, qu et du
cor^' RdP°nse « • P Bottalla, •in «I i ! / «l8.? qUæ adversus Tongiorgium
disseruimus in Ne^fs^r^'^"^'' V°!HI' -ParS Prima' C' H ubl etiam solutas
invenies obiectiones Henrici und,,mSIS: U' neCn°n ill0rum receutiuu> qui
horum throriam unoum atomismi placita propugnant. ANTHROPOLOGIA corporis humani
per se, et essentialiter. Id Leo X confirroavit in synodo Lateranensi, cum
definivit, quod anima intellectiva « vere, per se, et essentialiter humanr
corporis forma existat 2 . Secundum utriusque synodi den nitionem, Pius IX in
suis ad Episcopum Coloniensen Lilteris questus est Giintherum, eiusque
discipulos lædere in suis libris « catholieam sententiam ac doctrinarr de
homine, qui corpore, et anima ita absolvatur, ut am nra eaque rationalis sit
vera per se, atque immediata cor poris forma 3 . . ., 35 Iam hisce
definitionibus, utr constat ex Eprstola, quan de mandato Pii Pp. IX D.
Wladimirus Czacki, nunc S. RE Cardinalis, D. Eduardo Hautcoeur, Rectori
Universitatn Cathol. Insulensis inscripsit 4, docetur unitas substantiafr humanæ naturæ, quæ
duabus constat substantns partxali bus, corpore nempe, et anima rationali. Et
hoc quidem a doctrinam theologicam spectat. Quod autem attinet ad con
troversias, quæ non ita pridem ab aliquibus Philosophis rt suscitatæ sunt,
scilicet circa principia constituentia corpc rum, unde unitas illa
substantialis diversa ratrone ab ei explicalurs, ipsæ doctrinas mere
philosophicas respiaum super quibus catholicæ Scholæ diversas sententias sequm
tur ac sequi possunt; quoniam suprema Ecclesiæ auctorxto numquam pro altera
iudicium tulit, quod alteram excludi ret. At vero, id non impedit, quominus
philosophrca argi mentatione demonstrari possit, sententiam Thomrstarun quam
nos amplexi sumus6, quoad unitatem substantralei humanæ naturæ, cum laudatis
Romanorum Pontrhcui definitionrbus potius, quam alias, consentire; scilrcet, ut
præfatam definitionem non nisi hoc sensu Doctois Scholarum semper acceperint6.
1 Vid. pp. citt. 2 Aliam formam diximus, non vero aliam nimam; nam de unite
animæ in homine controversia inter Catholicos, quemadmodum Lapite IV
ostendemus, cxistere haud potest. Cf
Cosmol., c. I, a. 5, p. 101-102. Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 9 ad 11. ibid.
ad 18. Hoc argumentum fuse evolvit Em. Card. Zighara, Op. cit., Pars
explicav.t, quod hæc media natura suggerit animæ ndquid rerum fit in corpore,
et in corpore exequitur ndquid amma ei præscribit, quin causas suarum opetionum
cognoscat 4. l 44. Systema mediatoris plastici absurdum est Vrobatur.Si inter
animam, et corpus natura media, iæ s.tutnusque parliceps, existeret, oporteret
ipsam se simul corporearn, cognilione præditam, et cogitatio5 cxpertem,
celer.sque oppositis proprietalibus pollen 1 Qq. dispp., De Ver., q. XXVI, a.
10 c. In Ioann. Evang. c. V, tract. XXIII, n. 5. "
Saggio su' temperamenti, Bologna 1864. Bibliothbque choisie, t. II, p. 113 sqq. 202 tem, quibus
anima, et corpus ab se discriminantur. Atqui notio huius naturæ est absurda.
Ergo. 45.Præterea, hæc natura media officio administræ inter animam et corpus
in homine ita fungi dicitur, ut conscientiam operationum suarum non habeat.
Atqui natura, quæ se, suasque operationes non cognoscit, profecto non potest
fungi officio administræ inter animam, et corpus in homine; nam haud possibile
est aliquam naturam officio administræ fungi, nisi dominium in suas operationes
habeat, alioquin ipsa, ut advertit s. Thomas1, non agit, sed potius agitur.
Ergo naturam plasticam, quam Clericus effinxit, ex eo etiam absurdam esse
patet, quod ipsa officiis fungi nequit, quæ in homine ei assignantur. 46. Obiic. Multæ operationes, e. g., respiratio,
molus cordis, in homine conspiciuntur, quæ nec a corpore, neque ab anima repeti
possunt. Ergo admittenda est in homine tertia natura, quæ sit illarum
operationum principium. 47. Resp. Dist. ant., non possunt repeti a solo
corpore, aut a sola anima, conc. ant., non possunt repeti ab anima simul, et a
corpore, neg. ant. Neg. cons. Re quidem vera, corpus, uti iam ostendimns, esse
suum ab anima accipit, unamque substantiam completam cum ipsa effieit, ac proinde
anima cum corpore est unicum principium respirationis, motuum cordis,
aliorumque, quibus corpus vegetat. Frustra Clericus contendit operationes
respirandi, aliasque id genus non posse animæ adscribi, cum quod nihil
convenientiæ inter ipsas, et intellectiones existit, tum quod anima nescit,
quomodo agantur in corpore ea, quæ ipsa peragi in illo vult. Etenim, quod ad
primum attinet, nihil vetat respirationem, aliasque einsmodi operationes, atque
intellectiones, quamvis sint diversi generis, ab anima tamen perinde proficisci
; siquidem anima per alias facultates est principium intellectionum, et per
alias facultatcs est principium yegetandi, et sentiendi. Alterum autem ex eo
fit, quod alia est in anima facultas, qua illas operationes vult, alia autem,
qua illas in corpore exequitur. i De unione Verbi Incarnati, a. 5 c. De
systcmate causarura occasionalium 48. Malebranchius, uli antea diximus , ratus
est Deum dumtaxat esse causam efficientem, atque cum corpora tum animas omni vi
agendi destitui ; ex quo confecit Deum esse unicam, et immediatam causam omnium
motuum, qui in corpore fiunt, omniumque operationum, quas anima exerit; atque
consensum, quem experimur inter certos motus corporis, et certas operationes
animæ, et vicissim, nonnisi a Deo esse repetendum. Itaque ipse statuit Deum ob
suum generale decretum, quod totum mundi ordinem complectitur, ita motus
corporis, actionesque animæ moderari, ut, quoties certi motus in corpore fiunt,
sensationes ipsis consentaneas, et quoties certæ operationes in anima fiunt,
motus ipsis consentaneos in corpore producat. Ex quo patescit nec ullos motus
corpons esse veras causas actionum animæ, nec ullas actiones animæ esse veras
causas motuum corporis, sed dumtaxat dici posse causas occasionales, quia
nonnulli motus corporis Deo occasionem præbent producendi in anima actiones
illis consentaneas, et vicissim 2. Hoc systema oczasionalismus, vel systema
adsistentiæ dictum est, quia animam, et corpus vcluti causas dumtaxat
occasionales ignoscit, Deumque animæ, et corpori conlinuo adsistentem ponit.
Hanc theoriam, eodem fere ac Malebranchii tempore, Sylvanus Regius 3, et
deinceps non pauci propurnarunt usque in hanc diem, in qua, uti ante vidimus 4,
heonam caussarum occasionalium a nonnullis Philosophis )ræsertim in Gallia
exsuscitata est. 50. Systema causarum occasionalium falso fundanento innilitur
; falsam philosophandi methodum sectatur ; mnem umonem mter animam, et corpus
tollit; impias con'lusiones parxt. Probatur prima pars. Malebranchius,
ceterique Occalonahstæ consensum inter certas operationes animæ, crtosque motus
corpons omnibus obvium ab immediata ictione Dei repetunt, quia omnem vim
activam rebus 1 Ontol., c. IX, a. 7, p. 71. 2 De inquirm V9r^,ib yI c 5
Cours entier de phil., M4t., par. 2, c. 1-5. 1 Ontol., loc. cit. creatis
repugnare arbitrantur. Atqui, ut in Ontologia ! vidimus, nihil repugnat vim
quamdam actuosam rebus creatis inesse, immo, si ea ipsis negetur, multa absurda
inde profluunt. Ergo nulla, immo absurda est ratio, ob quam occasionalismus ab
eius auctoribus excogitatus fuit. 51. Probatur altera pars. Occasionalistæ non
inficiantur nobis videri animam, et corpus aliquid in sese invicem agere, sed
causam huius phænomeni ex ipsa natura hominis non expostulant, sed ad Deum
omnium rerum auctorem, et conservatorem, confugiunt. Atqui hoc, ut s. Thomas
iamdiu observavit 2, indignum est viro philosopho ; Deus enim procul dubio est
causa universalis omnium phænomenorum naturæ ; sed philosopho quærendæ sunt
causæ phænomenorum particulares, seu proximæ, quia in harum cognitione,
quemadmodum in Logica vidimus, scientia consistit. Occasionalismus igitur
methodum philosophandi sectatur, quæ scientiam gignere non potest. 52. Probatur
tertia pars. Secundum Occasionalistas anima cum corpore neque secundum esse,
ita ut ex ipsis unica completa substantia exurgat, neque secundum operationem,
ita ut anima, et corpus aliquid in sese inyicem agant, unitur. Ergo
occasionalismus non modo unionem substantialem, quam ante demonstravimus, sed
quamlibet unionem animæ cum corpore tollit. 53. Probatur quarta pars. Si anima non est cum corpore principium omnium
operationum corporis, sed Deus est harum unica causa, certe non ei, sed Deo
tribuenda sunt, quæ anima per corpus bene, aut male operari videtur. Item, si
anima non est principium activum suarum cogitationum, sed has Deus occasione
motuum corporeorum in ipsa producit, liquet cogitationes, quæcumque sint, sive
bonæ, sive perversæ, neutiquam possc animæ imputari. Quocirca, posito
occasionalismo, homini Loc. cit., p. 171-172; cf etiam Cosmol, c. III, a. 4, p.
122-123, ei c. VI, a. 3, p. lol sq. 2 Si quis, ait sanctus Doctor, quærenti,
quare lignum est calefactum, respondet, quia Deus voluit, convenienter quidem
respondet, si intendit quæstionem reducere in primam causam; inconvenienler
vero, si intendit omnes alias eicludere causas ; In Ub. De Causis, lect. neque
actiones interiores animi, neque exteriores corpons imputari queunt. Atqui hoc
infinitæ perfectioni Dei maxime mdignum est, atque omncm moralitatem actio|num
humanarum destruit. Ergo systema causarum occaswnahum lmpias conclusiones
parit. 54. Obiic. 1° Anima nescit, quid sit, quo membra coripons moventur. Ergo
ipsa non est causa motuum corporis. 5o. Resp. Neg. cons. Etenim anima motuum
corporis causa est, quatenus eos præscribit, eosque per organa corpons exercet
'. Quocirca ipsa cognoscere quidem de bet motus, quos producere vult, non vero
modum, quo lorgana corporis illos exequuntur. oG. Obiic. 2° Nulla est connexio
inter voliliones anifcmæ, et motus corporis. Ergo. 57. Resp. Neg. ant. Nam si
anima, uti ostendimus, est !imul cum corpore principium omnium operationum,
quas |in corpore conspicimus, maxima connexio inter volitiojfies, ahasque
operationes proprias animæ, atque inter ouerationes corporis existere dicenda
est 2. III. — Doctrina harmoniæ præstabilitæ confutatur 58. Leibnitius, cum, ut
alibi diximus 3, possibilitatem >ciionis transeuntis, ac proinde actionis,
qua anima, et cor>us m sese mvicem agunt, inficiatus sil, consensum inter
jperationes animæ, et corporis ex eo repetendum esse do;'uit, quod Deus animam,
et corpus in singulis hominibus ta constituit, ut, dum anima, et corpus nihil
in sese mu|uo agunt, utriusque operationes mirifice sibi consentiant. lanc
theonam systema harmoniæ præstabilitæ vocavit, ||uia lpsa harmoniam inter
operationes animæ, motusque orporis a Deo præstabilitam cognoscit . Modum
autem, ||uo in singulis hominibus hæc harmonia a Deo præstabiatur, ita exphcavit:
Unaquælibet anima, prout schema, eu typus totius universi evolvitur b,
continuatam seriem J Cf Dynam., c. VI, a. 3, p. 190 vol. I. Cf s. Thom., Qq.
dispp., q. Un. De spir. creat., a. 3 ad 4. Alias mectiones, ci quibus
Malebranchius Deum non possc vim actuosam uin rebus creatis communicare arguit,
refutavimus in Onro/.,loc.cit Ontol., c. IX, a. 2, p. 63. Systeme nouveau de la
nat. etc, § 14. Cf Ideal., perceptionum, appetitionumque in se ex vi sibi
insita pro-1 ducit, adeo ut ratio posterioris perceptionis, et ratio poste-i
rioris appetitionis in præcedenti perceptione, et appetitio- 1 ne contineatur;
item, unumquodlibet corpus per se solum I ex legibus motus continuatam seriem
mutationum in sel producit, ita ut ratio posterioris mutationis semper existal
in præcedenti mutatione '. Quandoquidem autem infini-j tæ sunt animæ
possibiles, infinitaque corpora possibilia/ i liquet infinitas quoque esse cum
possibiles series perceptionum, tum possibiles series mutationum; ideoque, quæi
cumque anima sumatur, semper inveniri aliquod corpus in quo series mutationum
cum serie perceptionum illiu! animæ mirifice consentit. Quamobrem Deus
harmonian inter operationes animæ, motusque corporis præstabilini dicendus est,
quatenus cum anima coniungit illud corl pus, cuius mutationes curn
perceptionihus illius animac adamussim, et constanter concordant 2. 59. Systema
harmoniæ præstabilitæ falso funda mento superstruitur; effato rationis
sufficientis, quod Leib nitius adeo inculcavit, manifeste adversatur; unitatem
sub stantialem hominis, quam Leibnitius admittendam esse de crevit, tollit;
impiis, absurdisque theoriis latissimam vian sternit. Probatur la pars.
Leibnitius systema harmoniæ præ stabilitæ excogitavit ob illam rationem, quod
substantia' nihil in sese invicem agere possunt. Atqui hoc pronun tiatum,
quemadmodum ostendimus ', omnino falsum est Ergo. 60. Probatur2 pars.
Perceptiones,appetitionesque, quai in anima sibi succedunt, sæpe secum pugnant.
Atqui fier non potest, ut posterioris perceptionis, et appetitionis ra tio sufficiens
in opposita præcedenti perceptione, et ap petitione existat. Ergo systema
harmoniæ præstabilita effato illi rationis sufficientisy quod Leibnitius
maximope re exaggerat, manifeste adversatur. 61. Probatur 3a pars. Leibnitius
aperte asseruit, incul cavitque existere inter animam, et corpus veram unio
Lettre d Mr Arnauld, § 107, et 108. Thdodic, par. I, § 62-67; par. II, § 188;
par. III, § 291. 3 Ontol., loc. cit., et Cosmol., c. VI, a. 3, p. 152. nem, cx
qua fit suppositum ', atque to ego in nobis unitatc gaudere vera, non
collectiva, qualis ea est, quam horologium habet 2 . Iamvero unitas
substantialis hominis m systemate harmoniæ præstabilitæ non modo non
jadslruitur, sed manifeste tollitur. Etenim ipsa expostulat, ut unicum sit in
homine esse animæ, et corporis. Atqui anima, et corpus secundum harmoniæ
præstabilitæ placita, non solum non uniuntur secundum esse, sed ne secundum
operari quidem, quia anima omnes suas affectiones experirelur, etiamsi nullum
esset corpus, et vicissim. Ergo unitas substantialis hominis in systemale
harmoniæ præslabilitæ non modo non adstruitur, sed etiam manifeste tollitur.
Quin etiam in homine secundum placita harmoniæ præstabilitæ ne unitas quidem
collectiva admittitur, qua horologium gaudet. Etenim unitas collectiva in
horologio ex mulua partium in se actione constiluitur, ita ut, hac perturbata,
horologium destruatur; at Leibnitius sua harmonia non solum animam, et corpus
ab se secundum esse omnino separat, sed etiam nullam animæ in corpus,
corporisque in animam actionem cognoscit. io^h P™batur ^a pars. Systema
harmoniæ præstabilitæ ldeahsmo favet. Nam si corpora ad sensationes, quas anima
in se experitur, nihil prorsus conferunt, pronum ent Idcalistis inferre nullam
rationem esse, cur corpora existant, aut saltem nobis comperlum esse non posse,
num re lpsa existant. 2° Libertatem voluntatis humanæ destruit. Etenim
actiones, quas anima per se exercet, liberæ esse nequeunt, quia ipsæ hac lege
in anima evolvunlur, ut posterior in præcedenti rationem sufficientem mi habeat,
et ipsæ aliæ esse non pessunt, quam quæ motionibus corporis, quocum unitur,
adamussim respon1ent. Neque ullæ motiones corporis liberæ dici possunt, jmppe
quod omnes motus corporis non solum fiunt per ^es mechanicas, eoque nexu, ut
posterior rationem suficientem sui in præcedenti habeat, sed etiam ab omni
lctione, concursuque animæ adeo remoti sunt, ut, etiamsi mlla anima existat,
eodem modo fierent, ac nunc fiunt. Thdod., Discours de la conformitd d la foi
avec la raison, § 55, Eclairciss. du nouveau systdme. 3° Si illud systema admitteretur, nonnisi Deo cuncta
peccata lam interna, quam externa tribuenda forent. Cuius rei hæc manifesta
ratio est, quod omnes perceptiones, appetitionesque animæ sunt naturalis,
necessariaque sequela evolutionis schematis, quod, secundum Leibnitium
essentiam anima constituit, omnesque motiones corporis secundum leges
mechanicas fiunt, quin anima quidquam ad illas conferat. Atqui Deus et
unamquamque animami cum schemate creavit, quod necessario in ipsa evolviturJ et
leges mechanicas statuit, secundum quas omnes motus j corporis fiunt. Ergo et
quæcumque anima cogitat, acJ vult, et quæcumque corpus exequitur, Deo, secundum
harmoniæ præstabilitæ placita, tribuenda sunt. Hinc, si| quid anima cogitat, ac
vult, aut si quid per corpus, exequitur contra legem naturalem, aut positivam,
omne id i Deo dumtaxat imputandum foret. Igitur systema harmo-l niæ
præstabilitæ impiis, absurdisque theoriis latissimam viam sternit. IV.—
Systetna physici influxus, seu causarum efficientium expenditur 63. Systema
influxus physici, seu causarum efncientium i unionem anirnæ, et corporis ex
mutua utriusque actione deriyat. En quomodo P. Makus illud exponat: Docenl
nimirum eius [physici influxus) defensores, naturas has [animam et corpus)
plurimum dissimiles ita sibi strictas esse, ac devinctas, ut altera in alteram
vere, atque eflicienter influat, neque tamen ea actione ex una in alterarn
quidquam transferri: sed, impressis in sensu motionibus, et nervorum ope ad
cerebrum usque propagatis, mentem ad informandas rerum notiones determinari; et
vicissim, suborta in animo voluntate membri cuiuspiam commovendi, nervos
continuo impelli, motusque in eo membro voluntarios consequi . 64. Systema
influxus physici, seu causarum efficientium est reiiciendum. Probatur. Secundum
assertores physici influxus mutua 1 Compendiaria metaphysicæ Institutio,
Psychol.. c. II, § 450. Hoc systema, quod iam Newtonus, Clarkeus, omnesque
Angli barmoniæ præstabilitæ adversarii in primis adornarunt, post Makum
Storchenavius, aliique e S. I. tuiti sunt. A actio animæ, et corporis repetenda
est non ex eo, quod anima corpon esse, et operari largilur, sed ex eo, qubd
mima, et corpus, dum distinctum esse habent, vim suam jperandi in sese invicem
exercent; quapropter hæc actio jon consequitur unionem animæ, et corporis, sed
notius Ham constituit. Atqui duarum substantiarum unio quac x eo dumtaxat
exurgit, quod illæ vim agendi in sese nvicem exercent, est accidentalis, quia
actio esse rei iam onstitutum sequitur, quidquid autem rei adiungitur, postuam
esse eius constitutum est, accidens est C Ennf seundum assertores physici
influxus unio substantialis in3r animam, et corpus adstrui non potest, ac
proinde hoc fstema procul vero est. 65. Adhæc assertores physici influxus
rationem, qua corus in animam agit, reddere haud possunt. Et sane, si
adiittatur corpus unicam substantiam completam cum ani constituere, dicendum
est corpus in animam agere on qua ratione est corpus, sed quatenus ab anima
vitam! .virtutem agendi accipit, ita ut non tam corpus, quam nma per potentias,
quarum organa sunt membra corpos, agat . E contrano, secundum assertores
physici inixus, quoniam corpus non constituit cum anima unicam iDstantiam
completam, ipsum in animam agere dicendum I, prout corpus cst. Atqui corpus, prout corpus est,
non )test agere, nisi per contactum physicum, qui ab anima, læ immatenalis est,
excipi non potest. Ergo in systeate phys.ci influxus actio corporis in animam
explicari V.— Mutua animæ, corporisque in sese actio secundum Scholasticos
explicatur 66. Si theoria aristotelico-scholastica de unione animæ corporis
admittatur, nullo negotio intelligere licet muam ammæ, corporisque in sese
actionem ex eo esse relenciam, quod anima se ad corpus, velut forma ad mariam,
habet. Quod explanatur scquenti ^rop. Si anima est principium formale
corporis,necesse est, [ /n lib. II Sent., Dist. XXVI, q. I, a. 2 sol. Anuna, et
corpus conveniunt in unam personam, et in unam 21 / Ct liC0,didtur una actio
humana ; De unione Verbi '(iinati, a. 5 ad 11. Philos. Christ. Compend. II.? j£ ut anima aliquid agat
in corpus, motusque corporis in ani\ mam redundent. Probatur. Quandoquidem
anima est forma substantialis corporis, ideo unum est esse utriusque, quia
forma, ut sæ | pe diximus, est actus rei, seu id, quod dat esse rei . Atquij
operari, ut Scholæ effatum est, sequitur esse. Ergo, quoniam unum est esse
commune animæ, et corporis, inde necessario efficitur, ut anima, et corpus in
sese invicem effluant, atque ex suis operationibus sese invicem immuj tent. Præterea,
cum anima sit forma substantialis corpoj ris, ipsa debet esse intrinsecum
principium, a quo cor pus virtutem operandi accipit, ac proinde simul cum cor I
pore subiectum potentiarum, propter quas corpus opera tur 2. Atqui si anima est
principium, a quo corpus vir i tutem operandi accipii; et non cornus tantum,
sed totuni coniunctum, scilicet corpus cum anima, a qua constitui tur, est
subiectum potentiarum, propter quas corpus ope ratur, necesse est non modo ut
anima membra corpori: ad operandum movere possit, sed etiam operationes corj
poris in animam quodammodo redundent. Ergo, admiss; theoria, quam Scholastici
de principiis constitutivis homi nis tradidere, admittendum quoque est et
animam in cor pus, et corpus in animam aliquid agere posse. Deniqu ob eamdem
rationem, quod nempe anima est forma sub stantialis corporis, consequitur in
una essentia animæ : tamquam in radice, facultates tum superiores, tum infei
riores colligari 3. Atqui mutua facultatum colligatio in un radice expostulat,
ut earum actiones sint mutuæ. Ergo 4 Necesse est, si anima est forma corporis,
quod animæ, n est,mo pperæ pretium esse arbitramur rem tanU wi^declarare,
firmiusque stabilire, quia æstio de pnncipio vitali in homine magna contentione
ter recentes agitatur. b w"lc"one 'D' [.— Refulalur
organicismus,S"fil . ^ T mechan.ca Cartesii, qui quidquid in corire fit,
secundum leges motus, seu mechanicas in eo fieri rd.cus contendit, eorumque,
qui hodie in Anglia e •Hia, maximeque in Germania ad leges mechanicas,'ve yires
chymicas in explicanda vita corporis confugiunt «il h,c dicimus. Nam, quoniam
leges mechanicæ et -es chvmicæ, uli vidimus, non mod^o brulorum, sed em infimi
genens viventium, nempe plantarum onera;nes elbcere nequcunt «, liquido patet
ipsas eo S icerc posse opcrationes vitales corpVis hu^mani quæ T un longe
exqu.s.t.ores. Itaquc, hac sentenlia præterssa, systema, quod organkismus
vocalur, in primis exadcndum nobis cst. t ""Jis ex >9. Defensores
organicismi fatentur non posse sola phya, aut cbymica expl.car. omnia phænomena
vitæ, quac eUtu et c ZT' V0""Ua"f,nlensum qnitnr passio in
sensuali sa ;,„'," '"T con'e'"P^"one retrahuntur, vel
impediuntur edund"'' 1 ' JT aCUbUS; " " COnVerSO ei viribus
'nferioribus Zu,,. suPer'orssi°ncm afficitur, •>•, De Ver., q. XXVI, a. 10
c. Cf Cosmol., c. IV, a. 1, p. 126-128, ct c. V, a. 1, p. 130 et 131. in
corpore conspiciuntur, ac proinde admittunt proprietates vitales in corpore a
physicis et chymicis diversas; sed cum pro certo habeant nulium phænomenum vitæ
posse ab anima repeti, tuentur harum proprietatum vitalium principium, et
subiectum esse ipsam materiam corporis. j Quare, secundum ipsos, principium
vitale non distinguitur ab ipsa materia organorum ', sed est quædam vis insita,
propriaque materiæ, et mera eius affectio 2. Hoc systema a Sociis Academiæ
Parisiensis, quibus Bordeus præcessit, hodie propugnatur. Illud inter Bordeum,
atque hodiernos organicistas Academiæ Parisiensis interest, j quod ille cuique
organo corporis propriam vitam tnbuit s, hi vero, ut unitatem corporis, viventis
sartam, tectamque faciant, unicum esse principium vitale matenæ organorum
insitum pugnant. 70. la. Principium,
ex quo actiones vitales promanant, est distinctum a materia corporis. Probatur.
1° Corpus humanum, perinde ac quodhbet aliud corpus, non posset ex quibusdam
molecuhs, veluti partibus, constitui, nisi sit aliquod principium, quo ipsa£ congregantur,
atque ad unitatem substantiæ reducuntur. alioquin corpus non esset unum per se,
quale reipsa est, sed unum per accidens. Hoc præmisso, en argumentum: Illud
principium, ex quo corpus constituitur, seu ex quc moleculæ in unitatem
corporis coalescunt, a materia ipsius corporis distinguitur; quippe quod ipsum
efficit, u moleculæ, quæ potentia corpus sunt, actu corpus fiant; asUrenS' 6 la
W6> 6t de V itltelli9ence, p. I, sect. I, c. 5, irisf1862.iIlier' DU
prinCl'pe Vitale' et de '• pensante, c. 3, 3 Bordeum secutus cst Fouquet,
Discours surla clinique, Paris. in quolibet corpore animato inesse non solum
vitam to ti corpori communem, sed etiam tot speciales vitas, quot sunt organa
corporis. 1° Operationum principia, quæ ad unicum principium, tamquam sui
subiectum, non redu cuntur, diversa operationum subiecta expostulant ; nam
cuiuslibet generis operationum aliquod subiectum esse de bet. Quare, si tot
principia vitalia in corpore animato e xisterent, quot sunt organa corporis,
tot distincta, diver saque subiecta vitæ existere quoque in ipso deberent, quot
sunt organa corporis; ita ut quodlibet organum es set subiectum alicuius
specialis generis vitæ. Atqui quis quis
noslrum experitur unicum esse in se subiectum di versarum operationum, quæ per
diversa organa exercen tur. Quis enim non videt unum, idemque esse in se ipsc
subiectum, quod quinque species diversas sensationum ir, se excipit, earumque
differentias sentit, quod imagiua-, tur, quod corpus movet, quod, ne plura
dicamus, respi rat, alimenta digerit, aliaque opera vitæ exercet? f Fal sum
igitur est tot esse in corpore nostro principia opera tionum vilalium, quot
sunt organa eiusdem corporis J 2° Inter plura principia, quorum unumquodque pro
prias operationes habet, in iisque exerendis ab alio prin cipio non pendet, non
alia unio, quam accidentalis, ess potest. Quare, si singula organa non tantum
exerceren quasdam speciales functiones eiusdem principii vitalis quo ipsa
informantur, sed unumquodque ipsorum pro prium principium vitæ haberet, corpus,
quod ex ipsi componitur, esset totum per accidens, non vero per se Atqui,
secundum omnes et philosophos, et physiologos, e iusmodi consensus, sive harmonia
inter cuncta corpori organa existit, ut ex ipsis corpus unum totum per se, e
quodammodo unum organum efficiatur. Ergo pro cert Cf s. Aug., Conf., lib. X, c.
7, n. 11. 2 S. Thomas hoc argumentum ex natura zoophytorum perbellei lustravit.
Constat enim inter omnes, cum zoophytum in partes div ditur, quamlibet partem
diversas exercere operationes animæ, se principii sentientis, et vegetantis,
quo corpus zoophyti animatur. A qui hoc evenire non posset, si quodlibet
organum animalis propric operationes per principium vitale diversum a
principiis vitalibi reliquorum organorum exerceret. Ergo in corpore animato
unui principium vitale cunctis organis commune, non vero diversa pi diversis
organis admittenda sunt. Cf I, q. LXXVI, a. 3 c. babendum cst singula organa
corporis non gaudere proprio pnncipio vitæ, sed dumtaxat exercere speciales
fun:tiones umus eiusdemque principii vitalis, quod totum corpus mformat.
Vitalismu3 irapugaatur, siraulqje animismus asseritur 72. Postquam vidimus
vitam corporis non esse repetenlam a legibus mechanicis, et cbymicis, sed a
quodam prin•ipio actuoso speciali, quod vitale dicitur; atque hoc prin:ipium
vitale non esse vim insitam, propriamque materiæ, 5t meram eius aflectionem,
sed esse principium, quod ab >rganorum materia distinguitur; inquirere
debemus, utrum stud principium vitale distinctum a materia organorum sit psa
anima rationalis, an tertium principium, a corpore, )ennde ac ab anima
rationali, diversum. 73. Iam inter Philosophos antiquos disputatum est, urum in
homine sit unica anima, (qua ipse intelligit, senit, et vegetat, an duæ, quarum
una intelligit, altera auem sentit, et vegetat, an tres, quarum una intelligit,
alera sentit, tertia denique vegetat. In philosophia recenti thalius acriter
vehementerque reprehendit diversas eoum theonas, qui, præter animam
intelligentem, alias T ^m?/1!?1^ et seniientem n homine posuerunt2. Sæulus
XVIII Buffonus, Gassendi 3 vestigiis insistens, ex puna, quæ mter sensum, et
rationem existit, unicum utriusue pnncip.um, et subiectum esse non posse
contendit, t ideo in unoquoque individuo humano veluti duplicem ominem
agnoscendum esse decrevit . At, exeunte sæcu t Bordeus etiam in eo erravit,
quod unumquodque principium itæ sive unumquodque corporis organum propria
sensibilitate gauere decrevit. Hunc errorem iam s. Augustinus reprobavit, qui
aif Vun sent.endi non habet vita quælibet (De Gen. ad litt. Lib. V,''' c' V
n-/4) Sane non omnes operationes animalis, ut ^Thonias advert.t salvantur in
qualibet parte eius, maiime in nimal.bus perfect.s (Qq. dispp., q. un. De
Anim., a. 10 ad 7) uare, ets. quidquid est sensibile, sit vitale, tamen vera
non est ropos.t.o conversa, quidquid est vitale, est sensibile. edJaZta
TdiclZra^PhyS'> paSsim; P^ænesii ad aliena a re edica arcendum, § 39;
Disquis. de mechan., et organ. etc, § 69 sqq. 3 Physic, sect. III, Membr. poster., lib. III c
4 Discours sur la nature des animaux. Hominem duplicem Buf A lo XVIII, et
ineunte sæculo XIX, controversia de uni tate principii in homine vehementer
exarsit, atque in u tramque partem maximo animorum æstu inter Philoso phos,
Medicos, ipsosque Theologos adhuc agitatur. Omnet ii, qui cum Aristotele,
Ecclesiæ Scriptoribus, Scholasti cis !, et Sthalio tuentur animam rationalem
esse princi pium omnium phænomenorum vitæ, ita ut nullum aliuc principium vitæ,
præter ipsam, in homine sit agnoscen du m, Animistæ vocantur. li autem, qui
duce Barthezio sentiunt, præter animam rationalem, et corpus, esse ii homine
principium vitæ ab ipsis distinctum, quod es omnium phænomenorum vitalium
corporis principium vocantur Vitalistæ. 74. Una in homine est animd, nempe
rationalis quæ est principium cunctarum eius operationum. Prohatur. 1° Ab
eodem, ut verba s. Thomæ usurpemus res habet, quod sit ensy et quod sit una,
nam ens, et unun convertuntur 3. Hinc, cum quælibet res per formam ha' beat, quod
sit ens, per formam quoque habet, quod si una. Itaque res non potest esse per
se, seu simplicita una, nisi per unam formam ; ac proinde si in homim non esset
unum principium formale, quod intelligit, sen tit, et vegetat, sed vel tria,
nempe intellectivum, sensiti vum, et vegetativum, vel duo, ut ii volunt, qui
vim sen tiendi principio intellectivo, aut vegetativo adscribunt homo non
simpliciter unus, sed multiplex esset. Atqu quilibet homo est per se unus .
Ergo unum debet esse ii homine principium formale, proindeque una anima, sei
unum principium vitæ b. foni non sine aliqua laude Condillachus ( Traitt des
animaux part. I, c. 3) confutavit. Ab iis excipiendus est Guil. Ockamus, qui,
sicut multa alia ita hoc quoque philosophiæ Scholasticæ caput impugnavit, duaJ
que in homine animas admisit. Cf Quodlib. II, q. 10, et 11. 2 Nouveaux tUmens
de la science de Vhomme, 2e ed. Paris 1806 3 Cf OntoL, c. III, a. i, p. 18. 4
Id omnes Vitalistæ, si fortasse perpaucos exceperis, saltem verb fatentur. Nec
aliter sentire illi dicendi sunt, qui hominem cum Bui fono duplicant; hi enim
unitatem hominis non negant, sed durata xat duplex esse in eo principium
operationum sibi volunt. s I, q. LXXVI, a. 3 c. Ex quo vides hominem, si essent
in e plures animæ, non unum vivens, sed coacervationem viventium ft 2° Quæ
attribuuntur alicui eidem secundum diversas formas, prædicantur de se invicem
per accidens . E. g., esse musicum, et esse album, quæ sunt diversæ formæ in
Socrate, de se nonnisi per accidens possunt invicem prædicari; quia quandoque
re ipsa evenit, ut ille, qui est musicus, sit etiam albus, et ille, qui est
albus, sit etiam musicus ; at simpliciter, seu per se non potest unum de altero
prædicari, quia essentia, sive, ut aiunt, notio unius alia est, ac notio
alterius. Quapropter, si esse vivens^ animal, homo, tamquam diversæ formæ
cuilibet bomini inessent, esse vivens in homine non posset prædi:ari per se de
animali, nec animal posset prædicari per le dc homine. Atqui consequens cst
absurdum; quia ho110, secundum quod est homo, est animal, et secundum juod est
animal, est vivum . Ergo ab eodem principio iliquid est animal, homo et vivum 2
. 3° Anima rationalis, ut diximus, est in homine huiusnodi forma, ut
perfectiones ceterarum rerum mundi adpeclabilis adunatas in uno principio
contineat, ac proinle ipsa sola per se præslat ea omnia, quæ tum forma prporis
inanimati, tum animæ vegetabilis, et belluina iræstant 3. Ergo unica est in homine anima, sive unicum
•rincipium intelligendi, sentiendi, ac vegetandi. Ad hoc llustrandum excmpla
numerorum, et figurarum optimo onsilio afferuntur 4. Etenim numeri variantur
per addi }. Neque dicas cum Jouffroyo plures animas, quippe quæ ab se inicem
pendent, inter se consociari, atque inde unitatem hominis efci. Nam consociatio
principiorum substantialium, quocumque modo en dicatur, hominem per se, et
simpliciter unum efficere nequit. Et ine, consociatio plurium principiorum substantialium,
seu formaim, non aliam, quam ordinis unitatem, producit, quia plura prinpia
substantialia non aliter inter se consociari possunt, quam quod Qum habet
ordinem ad alterum. Atqui unitas ordinis, ut s. Thoas scite advertit, est minima unitatum
(Contr. Gent., lib. H, c. 58, . 2). Ergo si plures animæ in homine esse
dicantur, unitas hoinis ex illarum consociatione ellici nequit. Contr. Gent., ibid., n. 1.-2 ] q.
LXXV, a. 3 c. ' Cf p. 192-193, Cf s. Thom., Qq. dispp.,q. un. De Sp. cr.,a. 3
c. Aliud argumenim s{inctus Doctor conficit ex eo, quod facultates hominis in
suis :tioml)usimpedimento sunt, ita ut quo magis una intcnditur, altera
mittatur, id quod explicari non posset, nisi dicatur unam esse aniam,quæ
sitillarum facultatum principium; Contr. Gent., ibid.,n.7. tionem, aut
subtractionem unitatis, ita quidem, ut numerus superior numerum inferiorem
contineat. Diversæ quoque species figurarum ita inter se comparantur, ut una
alteram contineat, e. g., pentagonum continet tetragonum, et tetragonum
trigonum. Iam sicut numerus superior, e. g. denarius, non per alium numerum est
novenarius, auli octavus, et per alium denarius; atque pentagonus non pei aliam
figuram est tetragonus, per aliam trigonus, et pei aliam pentagonus; ita homo
non habet per aliam animaur esse rationale, per aliam esse sensitivum, per
aliam esse vegetativum, sed his omnibus per unicam animam gaudet. Neque dicas
operationes vegetativas, sensitivas, et ifl tellectivas, quippe quæ ab se
natura differunt, ab una, eademque anima produci non posse. Nam anima humana a
causis naturalibus in eo potissimum discriminatur, quod istæ, cum unica vi
operandi polleant, nonnisi eiusderc naturæ effectus producere possunt; illa
autem, cum habeai plures facultates, quæ sunt principia proxima operationum,
diversos effectus per eas producere potest. 4° Accedit communis hominum
consensio. Sane nos au dimus quemlibet e plebe dicentem non solum: Ego intel
ligo, sed etiam, Ego sentio ; et non solum, Ego intelligo et sentio, sed etiam,
Ego nulrior, Ego augesco, Ego prolem generOj necnon, Ego deambulo l. Atqui hæ,
aliæquc communes locutiones, quæ communis modi cogitand signa sunt,
persuasionem hominum vel plebeiorum dt unitate principii vitalis denotant; nam
si aliud esset prin cipium substantiale, quod intelligit, aliud vero, quoc
sentit, et vegetat, unumquodque illorum principiorun substantialium operationes
proprias, alterique haud com munes haberet, proindeque non possent eidem
subiectc omnes illæ operationes adscribi. Ergo ex communi homr num persuasione
confirmatur unum esse principium substantiale, quod intelligit, vult, sentit,
de loco in locun se movet, operationesque vegetandi exercet. 5° Denique si
principium vitale, præter animam rationalem, in homine admilteretur, ipsum aut
materiale, aul immateriale esse deberet. Atqui neutrius generis esse potest. Nam si materiale esse dicitur 2,
illud absurdum con * Cf Gerdy, Physiologie des sensations, et de V
intelligence, p. 8 Paris 1846. 2 Ita sentiuDt Gassendius, Buffoous, et
Martinus. ;equitur, quod nempe materia, cum sit vilæ expers, viilam corpori ln
homine largiatur. Sin immateriale ', illud ijuod etiam ialsum est, consequitur,
nempe principium /itale, dissoluto corpore, manere, ipsumque non esse
corfuptioni obnoxium. Etenim, secundum Vitalistas, principium vitale est
diversum a principio, quo corpus homiiis, vel cuiuslibetanimahs in specie
corporis constituitur. |rgo corpus hominis, vel cuiuscumque animalis posset
Iissolvi, qum pnncipium vitale dissolvatur ; immo non >osset pnncipium
vitale cum dissolutione corporis dissolvi, luia esse unius ab esse alterius non
pendet, atque illud >perationes habet, quæ huic, prout corpus est, non
coneniunt. 75. Illud autem omittendum non est, Philosophum Chritianum dubitare
non posse, quin anima rationalis sit uni:um pnncipium omnmm operationum
hominis. Nam in )nmis, hæc theoria est merum corollarium illius doctrilæ, qua
traditur, animam rationalem esse formam subtantialem corporis; siquidem, cum
forma sit in qualibet •e non modo pnncipium rol esse, sed etiam 7oz>
operari, dem est dicere, Antma rationalis est forma substantialis orporis, ac
Anima rationalis est principium cunctarum oyatxonum corporis. Insuper, Ecclesia in Concilio Constaninopohlano IV
duas animas in homine ponentes anatheoate confec.t 2; atque Pius Pp. IX ipsam
animam ratiolalem esse pnncipium operationum vegetativarum adverus 15altzerum
aperte declaravit 3. Pro immaterialitate principii vitalis stant Arhens,
Ubaghs, Ma alhæns, alnque non pauci. ° ' J Veteri et novo Testamento unam
animam, rationalem, et intel ctivam, habere hominem docente, et omnibus
deiloquiis Patribns et agistns EccJesiæ eamdem opinionem asseverantibus, in
tantum im etat.s qu,dam malorum inventionibus dantes operam devenerunt, t duas
eum habere ammas impudenter dogmatizare, et quibusdam rat.onalibus conatibus
per sapientiam, quæ stulta facta est, pro r lain hæres.m confirmare prætendant.
Itaque hæc sancta et uni ersai.s Synodus, veluti quoddam pessimum zizanium,
nunc germi anten, nequam opinioncm evelJere fcstinans. . ., talis
imp"etatis ventores et patratores, et his similia sentientes magna voce
ana lematizat ; Act. VIII, can. II. G ' Nototum præterea est, inquit Summus
Pontifex, Baltzerum in nrnnl0 1,.fc,,0.tu!n10mncm controversiam ad hoc
revocasset, sitne Prpor, vitæ pnncipium proprium ab anima rationali re ipsa
discre Vitalistarum argumenta refutantur 76. Obiic. 1° Nihil sibi polest
adversari. Atqui in homine appetitus rationalis curii appetitu sensitivo
pugnat. Ergo in homine non est admittendum unum principiucc operationum, sed
duplex, sive, ut Buffonus ait, duplea homo. 77. Resp. Dist. mai. Nihil sibi
adversari potest secundum idem, conc. mai., secundum diversa, neg. mai., sul
eadem dist. conc, et neg. min. Neg. cons. Sane, primo pugna, quæ inter actus
appetitus sensitivi et intellectiv in homine quandoque existit, animismo non
opponitur Etenim opposita, s. Thomas ait, prædicari de eoden secundum idem est
impossibile, sed secundum diversj. nihil prohibet ; quippe quod ratio veræ
oppositionis ut sæpe diximus, expostulat ut non solum idem de eo dem, sed etiam
secundum idem prædicetur. Atqui actu appetitus rationalis, et actus appetitus
sensitivi sibi noi opponuntur secundum idem, sed secundum diversa, nempt
secundum diversos modos, quibus obiectum apprehendi tur ; siquidem experientia
compertum cuique est actu appetitus sensitivi cum actibus appetitus rationalis
pu gnare, quoties aut sensus apprehendit velut delectabile jl lud, quod ratio
vetat, vel apprehendit velut triste illud quod ratio præcipit. Nihil igitur
vetat, quominus appe titus sensitivus, et rationalis eidem subiecto inhæreant
eorumque actus eidem subiecto, nempe animæ, tribuan tur. Accedit quod hæc ipsa
oppositio, quam inter actu appetilus sensitivi, et actus appetitus rationalis
exister diximus, nonnisi accidentalis est; nam ipsa ex eo oritur tum, eo
temeritatis progressum esse, ut oppositam sententiam e appellaret hæreticam et
pro tali habendam esse multis verbis ar gueret. Quod quidem non possumus non
vehementer improbare considerantes, hanc sententiam, quæ unum in homine ponit
vita principium, animam scilicet rationalem, a qua corpus quoque et mo' tum et
vitam omnem et sensum accipiat, in Dei Ecclesia esse com munissimam, atque
Doctoribus plerisque, et probatissimis quidei maxime, cum Ecclesiæ dogmate ita
videri coniunctam, ut huiu sit legitima solaque vera interpretatio, nec proinde
sine errore i fide possit negari . Videsis Ephem. La Scienza e La Fede, vol.
XI. p. 378 sq; nec non voll. XXXIII, p. 186 sqq, 284 sqq, 399; XXXIV 263 sqq,
Napoli 1857, 1860. III, q. XVI, a. 4 ad 1. uod interdum actus appetitus
sensitivi sunt adeo vehelientes, ut rationem ad se trahere conentur '. At ipsi
naira sua ad actus appetitus rationalis ordinem habent, ac 'roinde non solum
rationi subduntur, sed etiam libertais voluntatis quodammodo participes sunt2.
I 78. Secundo, pugna inter actus appetitus sensitivi, atue actus appetitus
rationalis animismo favet. Revera, um appetitus sensitivus in homine contra
rationem inurgit, homo sive secundum ipsum, sive contra ipsum a!at, unum actum
humanum exerit, qui principium ha[et in ipso appetitu, et terminum in ratione 3
; isque 'ctus dicitur vitiosus, si fit contra rationem, honestus, l fit
secundum rationem. Atqui non posset unus actus umanus ex utroque appetitu
exurgere, nisi unicum esset triusque subiectum ; quippe quod si aliud esset
subrctum appetitus sensitivi, aliud subicctum appetitus raonalis, unus
appetitus posset quidem in alterum agere, ;d ambo appetitus unum actum exerere
non possent. Ergo ugna, quæ inter actus utriusque appetitus in homine
)nspicitur, unitatem principii vitalis in homine arguit; ntum abest, ut ipsi
adversetur. 79. Obiic. 2° Homo potest usu intelligentiæ carere, quin tam
amittat. Atqui id demonstrat aliud in homine esse rincipium intelligentiæ,
aliud principium vitæ. Ergo. 80. Resp. Conc. mai.; neg. min. Neg. cons. Re
quidem ^ra, homo vivit, quamdiu anima cum corpore coniunitur, quia, uti
ostensum est, anima ex eo, quod corpus itbrmat, vitam ipsi largitur. Atqui
anima, aiente Aquiate, non unitur corpori ut forma mediantibus suis potenis,
sed per essentiam suam . Ergo nihil vetat, quomias anima cum corpore unialur,
atque homo ob hanc u onem vivat, quin usum alicuius suæ facultatis habeat5.
Dicendum, quod potentiæ animæ non se habcnt con irtibiliter cum essentia:
quamvis enim nulla potentia 4 Cf Dynam., c. V, a. 2, p. 165-166, vol. I. Cf
ibid. 3 l 2æ, q. LIX, a. 2 c. Qq. dispp., De Ver., q. XIII, a. 4 c. J Alicuius
facultatis, inquimus, non vero omnium, quia, cum vi'Otia non sint, nisi quæ se
agunt ad operationem, homo, quamdiu vivit, usu omnium suarum facultatum irere
nequit. animæ possit esse sine essentia, tamen essentia animæ potest esse sine
quibusdam potentiis, puta sine visu, et auditu, propter corruptionem organorum,
quorum huiusmodi potentiæ proprie sunt actus . Quomodo autem possit homo usu
intelligentiæ carere, quin vitam amittat, facile explicatur. Gerte, homo usum
intelligentiæ amittere potest; nam, cum intellectus sine phantasmatis in hac
vita nihil intelligere possit, imaginatione, aliisque facultatibus, quæ
intelligentiæ inserviunt, turbatis, usus intelligentiæ, vel minuitur, vel
omnino cessat2. At, cessante usu intelligentiæ, non idcirco cessat vita, quia
cessatio intelligentiæ secum non fert cessationem facultatum vegetandi, per
quas vita animalis existit. Et sane, perturbato, vel prorsus cessante usu alicuius
facultatis, non aliæ facultates inde perturbantur, aut cessant, quam quæ sine
illa actiones suas exerere nequeunt. Atqui facultates vegetandi, quæ ad vitam
animalis pertinent, sine usu facultatis intelligendi operationes suas exerere
possunt. Ergo, cessante usu intelligentiæ, necesse non est, ut vita quoque
cesset. 81. Obiic 3° Notum omnibus est in cadavere animalis. si qua scintilla
electrica extremas partes nervorum percellit, motus contractilitatis in
musculis produci ; ac in capitibus recisis, vel membris amputatis motus
contractilitatis aliquandiu perdurare. Atqui huiusmodi motus in cadavere, et in
membris corporis amputatis evenire non possent, si anima esset principium vitæ
corporis; quippe quod illi motus sunt vitales: in membris autem amputatis, et
in cadavere anima non est. Ergo
anima non esl principium vitæ corporis. 82. Resp. Conc. mai.; neg. min. Neg. cons. Falsum esl motus
contractilitatis, qui in cadavere, et in membris corporis recisis, aut
amputatis observantur, esse actus vitales. Primo, nihil vetat, quin aliquod
principium actuosum physicum, aut chymicum in musculis corporis nonnullos motus
producat Illis similes, quos, dum animal vivit, anima in ipsis producit;
propterea quod organa in cadavere non corrumpuntur illico, sed integra
aliquandiu perdurant. Verum illi motus
non sunt actus vitæ, sed operationee i Qq. dispp., De Virtut., q. V, a. 2 ad
17. 2 Cf s. Thom., Contr. Gent.
ocre physicæ, quia non proficiscuntur a principio ipsi adaveri insito, sed in
cadavere a principio, quod positum xtra ipsum est, excitantur. Secundo, motus
contractiliatis, qui in membris corporis recisis, aut in cadavere nimalis
yiolenta, subitaque morte perculsi observantur, on ab alia causa repetendi
sunt, nisi ab actione, quam irincipium vitac ante mortem animalis in musculis
exeuit. Nam, quoties animal morte violenta afficitur, aut liquo membro per
violentiam privatur, necesse est in adavere, aut in membro reciso motus, quos
anima iam i musculis produxerat, non illico cessare, perinde ac horda pollice
icta, digito amoto, non continuo vibrare esistit. Quapropter ne hi quidem motus
contractilitatis unt veri actus vitæ. CAPVT V. De sede animæ I. —
Philosophorurn diversæ opiniones recensentur 83. Mirum quot circa sedem animæ
veleres Philosophi rotulerint sententias 1. Ut præcipuas innuamus, Plato nimæ
sedem in capite locavit. Aristoteles, cum
animam >rmam substantialem corporis esse docuerit, eam singus partibus arcto
nexu coniunxit. Sloici animam rationam in corde præcipuum
locum obtinere, alque inde per ;Iiquas corporis partes se protendere opinati
sunt 2. De Cf Plut., De
plac. PhiL, lib. IV, c. 5. 2 Hic abs re non erit adnotare testimoniis ss.
Scripturarum, et Paom cos maxime abuti, qui sententiam Ghristianorum huic
stoicæ millimam probant. Nam aliquam affinitatem inter hanc de sede aniæ
opinionem, et illa verba sive quæ leguntur ad Rom., c. X, v. 10, •rde creditur
ad iustitiam, sive quæ Act., c. I, v. 24, et c. XV, v. 8, ; Deo cordium
scrutatore, et quæ alibi similia sunt, nemo umlam Scripturarum interpres vidit,
nec videre poterat; quoniam lec, aliaque ad internos animi sensus,
afFectionesque significanis dicta fuisse cuique perlegenti faciliter occurrit.
Item, ss. Pæs, si cor aliquando veluti animi sedem constituunt, id docuent, ut
cor principium alFectuum esse innuerent, atque Platoni obam irent, qui omnes
animi affectus a cerebro oriri senserat. Satis t verba profcrre, quæ s.
Hieronymus adhibet, nempe: Est prinpale non secundum Platonera in cercbro, sed
iuxta Christum in •rde ; Comm. in Ev. Matth., lib. II, c. 15. nique nemo est,
qui negat Epicurum animam posuisse ii pectore, seu, ut Tertullianus inquit, in
tota lorica pectoris1 84. Quod spectat ad Ecclesiæ Patres, ferme omnes A
ristotelem hac in re sequuntur. Audiatur præ ceteris s. Au gustinus. Anima,
inquit, non modo universæ moli cor poris sui, sed etiam unicuique particulæ
illius tota simu adest2 . Hanc
s. Augustini, aliorumque Patrum senten tiam Doctores Scholastici pro virili
parte defenderunt. Si quidem cum anima iuxta sapientes illos forma substan
tialis corporis sit, nec nisi una forma substantialis in cor pore uno esse
queat, profecto illam in toto corpore, e in singulis eius partibus esse
necessario consequitur. Quo niam vero anima una est essentia, multiplex
virtute, Scho lastici illam in toto corpore, et in singulis eius partibu
reperiri totalitate essentiæ, non totalitate virtutis conten dunt; nam anima in
singulis corporis partibus non eas dem operationes peragit, sed in aliquibus
vegetat, senti in aliis. 85. Quod si hæc theoria de sede animæ alteram dit, ac
proinde ita immediale forma subslantialis cum mæria coniungitur, ut nihil magis
. Ergo, si anima est clus tolius corporis, et non unius partis tantum, ipsa
imoediate in toto corpore, et non in aliqua eius parte tanum esse debet. Ex quo
argumento illud consequitur, quod i anima in una parte corporis ponerelur, non
esset actus olius corporis organici, sed unius organi tantum, puta ordis, aut
alicuius alterius, et reliquæ partes essent per[ectæ per alias formas 5; unde
una anima in uno corpore on esset. 89. Probatur altera pars. 1° Principium
illud, quod percit totum, et non partes, forma accidentalis esl, uti se es
habet in forma domus, quæ est forma tolius, et non lngularum parlium. Atqui
anima est corporis forma non ccidentalis, sed substantialis. Ergo (( sic anima
est forna totius corporis, quod est eliam forma singularum par Antropol. in serv.
della scienza morale, lib. II c. 7 a. 1 S S oroll. II. "> 1 Anirna,
inquit s. Augustinus, totum corpus nostrum anirnat, t vivificat ; De agone
christiano, c. XX, n. 22. 5 Cont. Gent.,
lib. II, c. 72. - Cf Cosmol., c. I, a. 5, p. 104. Qq. dispp., q. un., De Anim., a.
10 c. Philos. Curist. Compend. II." 15 a tium, ac proinde singulis
partibus corporis adesse debet f 2° lioc argamentum ex eo amplius declaratur,
quod si gulæ partes corporis ab anima speciem sortiuntur, hum næque appellantur,
ita ut anima sit actus singularum pa tium corporis. Atqui actus, seu forma est
in eo, cuius c actus. Ergo anima in qualibet corporis parle est 2. Exi de etiam
intelligitur ab iis philosophis, qui animam in c pite, vel corde collocant,
explicari non posse, quomodo nima, ibi suam sedem habens, singulis partibus sui
co poris speciem communicet; nam anima principium spec ficum partium corporis
esse non posset, nisi ipsis ita intri sece præsens sit, ut una cum illis
completam substa tiam constituat. 3°
Nobis non licet spiritibus locum præfinire, nisi ; illorum operationibus 3.
Atqui anima operatur in singul corporis partibus, et quiclem immediate. Ergo
anima singulis corporis partibus esse dicenda est. Minor proba potest ex eo
quod in sensationibus evenit. Et sane, unu quisque experitur sensationes in
illo puncto corporis fi ri, cui revera accidunt ab obiectis sensilibus. E. g.,
quis manum igni admoveal, profecto caloris sensatione in manu sentit, quin
totum brachium, vel cerebrum v alia corporis pars sit adusta . Atqui hoc esset
falsum, concipiatur anima uni parti præesse, ab iilaque motus corpore ciere.
Ergo anima immediate in singulis corpre, ut continens, et non ut contenta 3 .
Ergo ex eo, lod anima est simplex, ac proinde non est circumscripta co, pronum
est intelligere eam esse lotam in singulis rporis partibus \ 91. ld magis
perspicuum ex eo fit, quod anima est simex, quatenus extra genus quantitatis
constituitur, non ro ad modum simplicitatis puncti \ Sane, ea, quæ sunt 1 illud
tota sentit anima, quod in particula fit pedis, et ibi tann sentit, ubi fit ;
De immort. anim., loc. cit. ! Cap. X, a. 1, p. 7(>-77. 2 I, q. LH, a. 1 c. 1 Ibid. Cf s. Damasc, De
Fide orth., lib. I, c. 13. J Has rationes, quibus explicavimus quomodo anima
tota in sinlis corporis partibus esse possit, nos docuit Nemesius his paucis:
inima, quod corporis est expers, ncque loco definitur, tota per um et Iumen
suum, et corpus permeat ; De nat. hom., c. III. c spectat etiam illud FIDANZA:
Quia simplex, non est undum partcm et partem sui. non habet situm, et idco nec
in puncto, nec in parte determinata ; In lib. I Sent., Dist. VIII, 2, a. 1, q.
3 in resol. ' Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 10 ad 18. simplicia ad modum
simplicitatis puncti, cum habeant e| terminatum silum in continuo, non possunt
esse simul diversis partibus continui: e contrario, substantiæ, qu sunt simplices,
quatenus extra genus quantitatis cons luuntur, non sunt in loco per contactum
proprie diclui^ quippe quia hoc genus tactus nonnisi corporum est1, s per
contactum, quem vocant virtutisz. Hoc posito, tacl virtutis ab uno, vel
pluribus locis non discriminati prout hæc quantitative differunt; sed ab ipsa
virlule, q subslantiæ simplices in corpora agunt, fit ut ipsæ I uno, vel
pluribus locis simul sint 3, dummodo earum v tus ad hæc porrigatur. Atqui, cum anima sit simple
tactus, quo ea cum corpore coniungitur, est tactus virt tis. Ergo ex
simplieitate animæ explicatur, quomodo ip in pluribus partibus corporis tota
simul esse possit. 92. Ex his, quæ demonstravimus, plane consequitur ai mam non
esse totam in toto corpore secundum quantit tem, sed secundum essentiæ
perfectionem. Sane totalitas s cundum quantitatem nonnisi quibusdam formis
imperf ctis, atque insuper his nonnisi per accidens, ratione extem quod
informant, convenit 5; id quod de anima, quæ a cc Sunt enim tangentia, quorum
ultima sunt simul, et punc, vel lineæ, aut superficies, quæ sunt corporum
ultima ; Con Gent., lib. II, c. 56. z Agunt enim substantiæ intellectuales in
corpora, et mov( ea, cum sint immateriales, et magis in actu existentes; hic
auttam suam essentiam sunt in qualibet parte materiæ, )tiori iure id de anima
tenendum est . 93. 3a. Anima in
singulis partibus corporis non t tota secundum totam suam virtutem. Probatur.
Operationes sensitivæ, et vegetativæ per diirsa organa corporis exercentur, ita
ut diversæ partes >rporis conveniant diversis operationibus animæ. Ergo lima
secundum illam potentiam tantum est io aliqua par-, quæ respicit ad
operationem, quæ per illam partem ►rporis exercetur. E. g., anima est, secundum
visum oculo, secundum audilum in aurc, et sic de aliis 3 . III. — AdYersariorum
obiectiones diluuntur 94. Obiic. 1° Compressa, vel putrefacta medulla cere•i,
atque laborante cerebro, vel nervo inter organum nsorium, et cerebrum,
sensationes omnino deficiunt. tqui hæc demonstrant sensationes exerceri in
cerebro, ; proinde animam non nisi in cerebro esse. Ergo. 95. Resp. Neg. min.
quoad utramque partem. Re qui;m vera, in primis, ex allatis experimentis illud,
quod m oslendimus, sensationes nempe in singulis organis ;ri, haud evertitur.
Etenim opportuna eorum phænome>rum ratio ex eo reddilur, quod cum cerebrum
sit veti centrum totius systematis nervei, quin immo princium, a quo omnes
nascuntur ncrvi, qui sensationi inserunt, profecto nervi sensifici tunc
propriam naturam re(icbunl, si et suam cerebrum retinuerit; ac proinde si
nnprimitur, aut putrefit medulla cerebri, vel cerebrum borat, nervi naturam
sensiferam amittunt, atque funcliotm referendi impressionem sensilem obire
nequeunt. Ce visione continui,sicut albcdo perdivisionem superficiei;
Qq.dispp., un. De Anim., a. 4 c. Cf Cosmol., c. V, a. 4, p. 139 sqq. 1 Cf s. Bonav.,
In lib. I Sent., Dist. VIII, p. 2, a. 1, q. 3 ad arg. 1 Quod spectat ad
virtutes intellectivas, has, utpote nullo organo entes, nusquam corporis esse
diccndum est. Potcntiarum aniæ quædam sunt in ea, secundum quod eicedit totam
capacitam corporis, scilicet intellectus et voluntas; unde buiusmodi poten>e
in nulla parte corporis esse dicuntur ; I, q. LXXVI, a. 8 ad 4. 8 I, q. LXXVI,
a. 8 c. terum, allata obiectio in ipsos adversarios retorqueri potest. Nam,
quemadmodum, corrupto cerebro, sensatio deficit, ita hanc, corruptis organis,
deficere eadem experienlia testalur. Quocirca, si ex adversariorum obiectione
sequitur sensationes in cerebro perfici, pari ratione ab hac ultima testata
experientia inferre nobis licet sensationes in organis fieri. 96. Secundo,
præter vim sentiendi anima aliis virtutibus pollet, quas per alias corporis
partes exercel. Quapropter si experimenta ab adversariis in medium prolata quid
valerent,' animam in cerebro secundum totam virtutem sensilivam esse
demonstrarent , sed inibi tanlum ipsam residere numquam probabunt. 97. Obiic. 2° Anima est in eo
corpore, cuius est actus, hoc est in corpore organico. Atqui quælibet pars
corporis non est corpus organicum. Ergo.
98. Resp. Dist. mai., ita ut non sit in parlibus corporis organici primo, et
per se, conc. mai., ita ut non sit in eis, prout ad tolum referuntur, neg. mai.
Eadem ratione dist. min., quælibet pars corporis non est corpus organicum, sed
tamen ad illud ordinatur, conc. min., secus, neg. min. Neg. cons. Anima humana,
quippe quæ ceteris formis superior est, ea virtutis perfectione pollet, ut
diversas exerere possit operationes; et ideo corpus, quod anima informat,
diversis organis inslructum esse debet, ut per hæc ad diversas operationes
exercendas idoneum efficiatur2. Quapropter nonnisi totum corpus, quod nempe ex
diversis organis constiluitur, est proprie, sive prtncipaliter el per se illud,
quod ab anima informatur. At vero, quia partes habent ordinem ad lotum,
consequilur mimam, quæ est forma totius corporis, ac proinde est in toto
corpore, esse etiam formam singularum partium, ideoque in his singulis residere
3. 1 Alienum a veritate prorsus non est animam in cerebro esse secundum totam
virtutem sensitivam, non quod in cerebro omnia sensilium genere sentiat, sed
quia, ut in Dynam. (c. III, a. 7, p. 124 vol. I) diximus, encephalum, sive
systema cerebro-spinale est organum sensus communis, qui velut aliquis fons
totam virtutem sensitivam continet, ab eoque reliqui sensus, tamquam rivuli,
deducuntur 2 Qq. dispp., q. un. De spir. creat., a. 4 c. 3 Corpus organicum est
perfectibile ab anima primo, et per se, singula autem organa, et organorum
partes in ordine ad totum ; 99. Obiic. 3° Si anima in qualibet parte corporis
est, crescentibus partibus corporis, anima, ut esse possit ubi jprius non erat,
iterum creetur oportet ; et, a blata qua cunique corporis parte, vel illinc
excedit anima, vel com>migrat ex illa parle in alias. Atqui falsum
consequens. ! Ergo et antecedens. 100. Resp. Neg. mai. Et sane, quod spectat ad
primum, illa iterala creatio non exposlulatur ; nam, crescentibus parlibus
corporis, anima non proprie incipit esse, ubi prius non erat, sed, ciim sit
forma corporis secundum cssenliam, crescentibus huius partibus, anima eas
vivificare incipit !. Quod attinet ad alterum, dicendum, s. Thomas inquit,
quod, præcisa parte, non requiritur quod auferalur anima, vel quod ad aliam
partem transmutetur, Jnisi poneretur, quod in illa sola parte anima esset, sed
sequilur quod illa pars desinat perfici ab anima totius 2. 101. Obiic. 4° Nihil
eius, quod est totum in aliquo loco, ipotest esse ultra locum illum. Atqui in
una parte cor:poris anima est tota. Ergo nihil animac in ceteris corpo ris
partibus esse polest. 102. Resp. Dist. mai., si agatur de toto secundum
quantitatem, conc. mai., si de toto secundum essentiam, neg. \mai.\ dist. ctiam
min.: est tota secundum essentiam, conc. min., secundum quantilatem, neg. min.
Neg. cons. Equidem illud, quod habet parles extra partes, ita est in aliquo, ut
quælibet pars eius respondeat parti eius, in quo est; proindeque si sit totum
in aliquo, nequit esse in alio. j At e contrario, anima, ut diximus, ideo est
tota in qualibet parte corporis, quia simplex est, et loco non circumscri Op.
cit., loc. cit. ad 13. Exinde duo facile intelliguntur. Primum est, quod etsi
anima sit in qualibet parte corporis, tamen non singulæ partes corporis sunt
animal. Anima non est in qualibet parte corporis primo, et per se, sed in
ordine ad totum, et ideo non quælibet pars animalis est animal {Ibid. ad 2). Alterum est, quod anima, cum sit
in singulis corpons partibus, in pluribus locis non est. Etenim eo modo anima est in singulis corporis
partibus, quo ad eas veluti forma comparatur. Atqui forma comparatur ad partes
per posterius, secundum quod partes habent ordinem ad totum (I, q. LXXVI, a. 8
c). Ergo ex eo, quod anima in singulis partibus est, in pluribus locis eam esse
perperam infertur. Gf p. 228, not. 4. 1 Qq. dispp., q. un. De Anitn., a. 10 ad
17. 2 Op. cit., q. un. De spir. creat., a. 4 ad 15. bitur; proindeque est tota
non secundum quantitatem, seu aliquam totalitatem partium, sed secundum
essentiam, seu perfectionem guæ naturæ '. lam, cum anima sit secundum essenliam
tota in una parte corporis, profecto nihil animæ est extra animam, quæ est in
hac parte corporis; non tamen sequitur, quod animæ nihil sit extra hanc partem
corporis; sed quod nihil sit extra totum corpus, quod principaliter perficit 2.
De essentia animæ humanæ Discrimen inter animam, et corpus in præsenti pro
certo sumentes, hæc circa animæ humanæ essentiam inquirimus: 1° an ad genus
substanliæ pertineat; 2° quænam eius definitio sit ; 3° quid de illorum
sententia dicendum, qui essentiam animæ humanæ in cogitatione, vel in cogitandi
vi constituunt. I. — Subslantialilas aniraæ eonlra Sensistas yindicatur 103.
Humius 8, et Condillachus , secundum Lockii placita 5, animam non substantiam,
sed quamdam affectionum complexionem esse contendunt. Qua in re Protagoram,
veteresque Sensistas secuti sunt, qui animam non aliud esse, quam sensaliones
asseruerunt. 104. Anima humana est quædam substantia. Probatur. Anima in re
viventi contrarias qualitates ad concentum redactas conservat, et pugnantes
organorum affectiones, ne se mutuo perimant, rata lege cohibet, et denique tam
diversa munia tanto ordine, et consensu administrat ]. Atqui ea forma, cuius
merito, ac beneficio hæc omnia perficiuntur, accidentalis esse non polest, sed
1 In lib. I Sent., Dist. VIII, q. V, a. 3 ad 7. Qq. dispp., q. un. De Anim., a.
10 ad 3. 3 Tract. hum. nat. (angl.), lib. II, part. IV, c. 6. Traiti des
sensations, part. I, c. I, 2. s Cf Ontol., c. VII, a. 2, p. 42. Paucis abhinc
annis H. Janeus {La phiiosoph. Franc. du XIX siecle, p. 16, et 245, 2e ed. Paris 1860)
Condillachi doctrinam ad vitam revocavit. 6 Cf Lært., lib. IX, segm. 51. 7 Cf
s. Aug., De quant. anim.t c. 10, n. 17. ^substantialis; cum alicuius accidentis
tanta efficacia esse nequeat, tantumque imperium in membrorum rei viven Itis,
el contrariarum qualitatum quasi rempublicam. Er^o 10o. Adhæc, viventia sunt
quidem substantiæ Si igi tur ea, quæ vivunt, per animam vivunt, hæc profecto
non accidens, sed substantia est. Id ex
eo confirmatur, quod est commune omni accidenti, quod non sit de es I sentia
rei ! ; dum e contrario, anima ad essentiam viventis ita pertinet, ut vivens
idem prorsus ac animatum sit. 106. Denique quantum Lockii, eiusque asseclarum
placita a yentate abhorreant, ostendimus in Ontologia 2. Argumenlis, quæ ibi
retulimus, adiicere præstat, 1° quod attecliones, sive qualilates varias, et
sibi succedentes, a jnimam vero lmmotam in nobis experimur ; quapropter anima
exjpsis affectionibus, sive qualitatibus constitui Mneq.uK; 2 quod permultæ ex
hisce affectionibus ab ipsa anima in se gignuntur; ac ideo anima a suis
affectionibus, perinde ac causa ab effeclu, distinguenda est. II.— Quomodo
subslanliæ animac humanæ deQnienda sit, explicatur Postquam vidimus animam
humanam in genere substantiæ collocandam esse, quænam huius substanliæ essentia
sit, explicandum nobis est. Essentia animæ humanæ in eo consistit, quod nt
jprxnapxum intellectivum, et simul forma substaniialis "orporis. j
Probatur. Essentia rei illud significare debet, quod res j:um al.is commune
habel, atque illud, quo ipsa ab aliis liscnm.natur Atqui anima humana ex eo
quod est forma substantiahs corporis, ac proinde substantia incom^leta, quæ per
se, et naturaliler ad coniunctionem cum orpore ordinem habet, cum aliis
animarum speciebus ^onsenl.l; siquidem ipsa, æque ac istæ, suum esse cor>or.
commun.cat, .lludque vivificat, et informat : atque ^ eo, quod est pnncipium
intellectivum, ab iis distinZ rrsusLe,x eo quod ad coniunctionem cum cor ; ore
ord.nem habet, differt a substantiis intellectualibus, Piæ^ separatæ, sive
Angeli dicuntur: et ex eo, quod est 1 Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 12 ad 7.
Loc. cit. principium intellectivum, cum eis consentit; nam animæ hurnanæ ex eo,
quod intellectiva est, illud, ut mox ostendemus, convenit, non habere esse
concrelum in materia ', ac proinde a corpore separatam subsistere posse. Ergo essentia animæ humanæ in eo
consistit, quod est principium intellectivum, et simul forma substantialis
corporis. 108. Ex his colligitur, quomodo anima
humana sit definienda. Porro animæ communiter acceptæ definilio est: Actus
primus corporis physici organici potentia vitam habentis2. Voces illæ, actus primus, animam
esse formam substantialem, ac proinde a formis accidentalibus distingui
designant 3. Dicitur autem actus corporis physici organici, quia anima facit
ipsum corpus organicum, sicut lumen facil aliquid esse lucidum 4 . lis verbis,
potentia vitam habentis, significatur animam, cum sit actus primus corporis
organici, efficere, ut ipsum ad vitales operationes edendas potenliam habeat 5.
Iam prout huius 1 Gf p. 192. Ex hoc, quod anima humana non habet esse concretum
in materia, consequitur quod ipsa, etsi sit substantia incompleta, quia, cum
sit pars humanæ naturæ, non habet perfectionem suæ naturæ, nisi in unione ad
corpus [Qq. disj)p.,q. un. De Anim.,&. 2 ad 5); tamen est in genere
substantiæ non solum sicut principium, quod nempe totum substantiale
constituit, sed etiam sicut species. Guius rei ratio hæc est: Substantia
dicitur ens, cui convenit esse in se. Atqui esse in se non ipsarum formarum, si
materiales sint, nempe a materia pendeant, sed totius compositi substantialis
proprium est; e contrario animæ humanæ, quippe quæ est forma a materia non
dependens, proprium est esse in se, quod ipsa corpoii communicat. Ergo ceteræ
formæ non sunt in genere substantiæ, sicut species, seo solum sicut principia;
anima autem humana estin genere substantiæ non solum sicut principium, in
quantum est forma huius corporis, sec etiam sicut species, quia habet esse
absolutum, non dependens a ma teria. In lib. 11 Sent., Dist. III, q. I, a. 6 sol. 2 I, q.
LXXVI, a. 4 ad 1. 5 Cf Cosmol., c. I, a. S, p. 101-102. 4 Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 1 ad 15. b I, loc.
cit. Profecto vivens substantia constituitur in suo esse, a q' XV' a c ~x
hoc> ° pi7-z '• LIV> a. 1 c. -3 lhid, Dynam., c. I, a. 4, p. 101 ToI. I.
s Ibily a. „, p^™. q-lta. • oil. tennios foret, atqTSbC SCnSUm nroduccrct. q
er.„TraaCrra„tt0uraarennrd,U„m " "'"""'l
prtoC",l° "•. cmPe colara colligebenj . ' " C'USUC'"
principii act"°s' elapso Helvelius, Auctor systematis naturæ, DiderotuH
Lammetrie, multique alii Galliæ, Hollandiæ, et Anglia scriptores recensentur.
His sæculo XVII viam slraver Spinosa, Tolandus, et Hobbes. Ineunte hoc sæculo,
pra observation exacte De hominis creatione,et de substantia ammæ(
ejmO.Gottmg.l { s Gf Janet, Le maUrialisme contemporam, c.I,p.!4sqq, farib 117.
Itaque in immalerialilate animæ humanæ vindinda nos primum abnormitatem
materialismi generatira .tefaciemus; de.nde quædam contra materialismum
Xjolog,cum,et dynam.cum speciatim adnotabimus; lum amam sp.nlaalem esse
ostendemus; denique de phrenogismo pauca adnciemus. pureuu Il.-Animam hnmanam
simplicem esse demonslratur 118. Si anima humana forma substantialis corporis
adittatur, ipsa neque aliquod corpus, neque ulla ratione v.sib.l.s d.ci
potest;nam neque^corpus potes es,e for a, neque forma potest esse aliquod
corporeum ma humana s.t huiusmodi forma, ut animal perfeCum Z ITrllZn a mJe:
"; seVliara per $%?%£ >nem respuit At vero materialismum argumentis alinn ! pet.t.s refe
llere ndbis lubet sequenti ? '"" Pmh P,roPJiAntma humana ^quit esse
corporea. Probatur . Præcipuum argumenti genus ex natura illam operationum
ammæ, quæ cogitationes dicuntur e nmur atque,ta se habet: Cogilationes, quæ ad
\\ni m spectant, nempe noliones rerura sens Iran, vel slmcium, .ud.c.a
rat.ocnationes, conscienlia, a substa™ corporea profic.sci nequeunt. Alqui
operari seauiTv 20 if an'ma humana neauit ess corporea ? 1^0. Hoc argumentum evolvitur
hunc in modum • Pri "sfbi' coamn0ara°tneSu[enr ^'T' ™ ^osUarJra ;,,' '
comparat, ut per iinam formam, sive sneciem us omnes partes rci compositæ, prou
sunt in toln 'co actu percpat. lam substant a corporea ac nroin' xtensa, et
divisibilis, huiusmodi notioCm numlam ectæ now tmm veI s,nSulæ eius partes
singulal re, ectæ porliones per diversas harum snecies Dereinf.rnf s.ngulæ
partes per speciem totiusC eam tofam s ' I complecterentur Atqui neutrum sumi
po, N ' ™peVPe,ræn,tu,ndiVerSæ Par,eS a'icuius ^Smi^ maP to, Fus N„„
\n,UraqUanl Vero simul iutegr n sub na tot.us . ]\on alterum, qu.a tunc quot
partibus ani Cf Cosmol., c. V, a. 3 n 117)1 2 n. -i-j 'Cf s. Thom., I, q.
LXXXV, a 4 adl " ""^ ' ' P' " "il' natura cognitionis
species oportere esse immateriales adstruim, ut animæ simplicitas inde
patescat. Cf s. Aug., De quant. anim., c 13, n. 22. 9iq quid compositum, non
nosspf iH et Pr,nc'P'um, a quo tantia corporea^imW,?, """"
-SSOt 1uæda™ subleretur iosa non„ 2i, 'US coSn'trlx convenire po io inter 7U0 fr
n Ul, C°nS,St.at ; siqoidem compa >ec duo percipS VmTi P°! ' '
""" ab, 6° ' uul simu' 'dicium eonfi ' ifiimsk „• V7 mtellcclus
conclusioncm ex 26 Ouarm0 1 US fleducitur> "uerc cognoscil '. IS s„i ?'
An,ma' q"e"ia''modum sæpc observavi S c'ieenttiSamre7enT^irUm f'
consc'a e" C _,cient,am ex eo habet, quod ipsa se, tamquam Op. cit., lib.
XV, c. 22. Ws. Thom. Contr. G.„,., Iifc, „ c. 49 "|æA"-Vm
"'-rt-. !"•,. 8, n. 22. . n n b esse rem, quæ omnes operationes ehct.
Atqu, nullu. horum explicari posset, si substanUa. cogitans ; e teus,,
divisibilis in partes poneretur. Eten.m 1 ill > depende tia operationum
haberi nequ.l, n.s. n i bis, quæ secu dum ordinem naturalem procedunt ab uno •;
2 cm cur operatio unius potentiæ operat.on. altenus,mpeens ei vitam, quod
nullum corpus præstat corpori 3 . ^ræterea. Quemadmodum ipsi physiologi docent,
corpus >er leges assimilationis, et excretionis quoad particulas, x quibus
constat, sensim sine sensu commutatur, adeo ut :emporis fluxu prorsus
renovelur. Si igitur anima sive trincipium vivendi
non nisi ipsum corpus esset, princi•ium vivendi in dies variare, ac tandem in
aliud renoari deberet. Atqui unusquisque nostrum experitur prinipium cogitandi
conslanter manere idem; ita ut nos, qui unc vivimus, eosdem esse, qui antea
viximus, consciaaus. Ergo. 134. Quod si anima a corpore distinguitur, ipsam
neue ln temperamento, neque in harmonia corporis conistere consequitur. Non
quidem in temperamento. Nam mma corpus sibi subdit, atque haud raro reluctatur
iis ppehtionibus, quæ ex corporis temperatione oriuntur; iquidem multi homines
appetiliones illas sedanl, et effilunt ut rectæ rationi pareant. Anima igitur
non est ip temperatio corporis; secus idem effectus simul ab eæm causa
oriretur, atque destrueretur . 135. Neque est harmonia, seu ipsa compositio
partium orpons, vel ralio, qua partes corporis secum invicem onnectuntur.
Etenim in diversis partibus corporis sunt lversæ compositionis rationes; ac
proinde si in hac corons partium compositione anima consisteret, singulæ artes
corpons haberent singulas animas, nempe aliam nimam haberet os, aliam caro,
aliam nervus, utpote quæ ttundum diversam proportionem sunt composita. Alqui
'oc manifcsle falsum est. Ergo 8. 136. Advcrsus materialismum dynamicum
observasse iuerit, quod, ctsi portenlum illud assumatur, maleriæ espntiam ln vi
activa quadam positam esse ; hæc tamen ^tiones illas, quæ vilales dicuntur,
numquam efficere post : 1 quia effectus aliquis non subest potentiæ aliJius
agentis.... per hoc, quod non habet cum agente af 1 Cf Cosmol, c. V, a. 3, p.
137-138. I, q. LXXV, a. 1 c. s Conf., Iib. X, c. 6, n. 10. Contr. Gent., lib.
II, c. 63. -5 ibid c. 64> finitatera, vel similitudinem ; atqui actiones
vitales nullam curn materia similitudinem habent ; viventia enim quemadmodum
alibi a nobis ostensum est % a non vivea tibus multum distant; 2° quia si
actiones vitales, uti etian demonstravimus, per principium vitale organis
corpori insitum explicari nequeunt s, ipsas materiæ vi longiu præstare dicendum
est; 3° quia subiectum, in quo per ficiuntur actiones vitales, est ipsum
vivens, siquidem a( genus actionum immanentium illæ spectant; dum e con trario
materia non in seipsam, sed in aliud extra se dum taxat vim suam exercere
potest. 137. Ad cuius rei maiorem explanationem mente recola mus oportet
materiam ad aliquam speciem actionum deter minari: Res corporales habent
determinatas actiones >} siquidem corpora non operantur, nisi naturaliter 5;
natu ra autem est determinata ad unum. Quocirca, si activa ma teriæ vis ita evolvi
sumatur, ut sicut naturæ mortuæ ita naturæ viventis actiones exerat, illud
admittendum fo ret absurdum, utrasque illas actiones eiusdem esse spe ciei.
Itaque, etiamsi concedatur materiam nihil aliud esse quam vim per seipsam, seu
sponte sua activam, illa ta men ex essentia sua et differt ab anima, et aniraæ
actu cfficere nequit. IV. — Materialistarum obiectionibus satisfit 138. Obiic.
1° Substantia corporea afficitur qualitatibuj quæ non sunt divisibiles, e. g.,
gravitate, vi motrice, e aliis eiusmodi. Ergo ex eo, quod cogitatio est aliquid
iii divisibile, inferri nequit ipsam ad substantiam corporear pertinere non
posse. 139. Resp. Dist. ant., et illæ qualitates sunt indivisi biles, si in
seipsis considerentur, conc. ant., sin relata ad corpus, cui insunt, neg. ant.
Neg. cons. Sane, sicu formæ corporum dicuntur inextensæ, seu simplices, i
considerentur abstractæ a materia 6, ita illæ qualitates nempe gravitas, vis
motrix, aliæque huiusmodi, si abs tractæ a corpore, cui insunt, in se
spectentur, nihil, nif i Contr. Gent., lib. II, c. 22, n. 5. 2 Cosmol., Introd. p. 90. Cf etiam c. IV,
a. 1, p. 126 sqq. 3 Cf quæ diximus p. 211-214. I, q. CX, a. 1 ad 1. * Contr. Gent.j lib. III, c.
102. Cf Cosmol., c. V, a. 4, p. 139-140. llimplex, atque uniusmodi exhibent. At
prout corporeæ fiubstantiæ insunt, non sunt indivisibiles; gravitas enim luxta
divisionem massæ corporis dividitur; item, vis mo|nx in omnes partes corporis
dispergitur, ita ut si vis [aotrix in corpore est, ut duo, in dimidio sit, ut
unum. Wj contrano quævis cogitatio lum in se, tum in subiecto ogilante prorsus
indivisibilis est. 140. Obiic. 2° Nullatenus fieri potest, ut extensi obie ti
imaginem anima indivisibiiis in se contineat. Ergo si inima res extensas
percipit, ipsa indivisibilis esse nequit. |. . -L .rp# Neg' anL et cons' Nam
anima non est ini ivisibihs, ut punctum habens situm in continuo, sed er
abstractionem a toto genere continui * . Sane indi jisibile habens positionem,
cuiusmodi est punctum 2, i laginem extensi obiecti totam, quanta re ipsa est,
in se 'Ontinere non potest. At virtus integram extensionem ob |>cti
percipiendi non indivisibili, instar puncti, sed sub Itantiæ omnino
indivisibili, quæ nempe nullum ad par s;s ordinem habet, et ad genus continui
nullo modo per net, propria est. Quod si ad obiectum extensum perci lendum
extensio in subiecto percipiente requiritur, i j.ud tantam, et tam variam
reipsa habere debet dimen jonem, quanta est dimensio diversorum, quæ ab ipso
ercipiuntur, obiectorum; id tjuod est aperte falsum 3. Ac ;?dit, quod integra
rei extensio sub una simplicissima, pe itusque indivisibili ratione formali
percipitur; ergo hu lismodi pcrceptio non nisi ad principium omnino indi sibile
pertinere potest. 142. Obiic. 3° Vulgatum est illud effatum: Quidquid repitur,
per modum recipientis recipitur. Atqui anima repilur in corpore. Ergo est
corporea. 143. Resp. Dist. mai., ita ut nequeat unum ab altero Cipi, nisi sit
inter utrumque quædam proportio habitunis, conc. mai., nisi sit inter ea
naturac convenientia, Qq. dispp., q. un. De sp. cr., a. 4 ad 16. De hoc
indivisibilitatis genere cf /n lib. I Met., lcct. II. 5 Tam multas, ad rem
inquit s. Augustinus, et tam magnas corrum imagmes, si anima corpus esset,
capere cogitando, vel memoi continendo non posset.... Qua igitur magnitudine,
quæ nulla illi, miagines tam magnorum corporum, et spatiorum, atque re>num
capit? De anim. et eins
orig., lib. IV, c. 17 n 25 neg. mai. Dist.
etiam min., anima recipitur in corpore, ut perfectum in perfectibili, conc.
min., ita ut in corpo-, re contineatur, ncg. min. Neg. cons. Sane anima non
recipitur in corpore, ita ut contineatur, nam, ut s. Augu stinus inquit, anima
continet corpus * . Quapropter cor pus recipit animam eo modo, quo materia
recipit formam scilicet ita ut per ipsam perficiatur: seu ut secunduu ipsam
constituatur in esse alicuius speciei * . Utauten corpus hoc modo in se
recipiat animam, non requiritui ut huius natura cum natura illius conveniat,
ita ut animj extensa, æque ac corpus, sit 8, sed solum quædam inte illud, et
istam proportio, quæ in eo consistit, ut corpu, habeat ordinem ad animam, et
capacitatem, ut ab ea in formetur *. Iam simplicitatem animæ haud impedire, quo minus hæc
talem cum corpore proportionem habeat, an tea a nobis ostensum est . Ex eo igitur, quo.d anima re cipitur in corpore,
nihil contra eius immaterialitatem in ferri potest. . |j 144. Obiic. 4° Anima
non potest movere corpus, ms illud tangat. Atqui tactus non est, nisi corporum.
Ergc 145. Resp. Dist. mai.: nisi illud tangat contactu virtu tis, conc. mai.,
contactu corporeo, neg. mai. Sub eader dist. neg. et conc. min. Neg. cons. In
primis, cum movet sit actus existentis inpotentia* , producere motum ms gis ad
substantias immateriales, quam ad materiales, pei, tinet. Etenim nihil potest transire de
potentia in actun nisi per id, quod est actu. Atqui substantiæ mtellectu! les
magis actu sunt, quam corpora. Ergo ad illas magii quam ad substantias
corporeas pertinet aliquid moven Agunt substantiæ intellectuales in corpora, et
movei ea, cum sint immateriales, et magis in actu existentes \ Ut vero quomodo
substantia immaterialis corpus tanga et moveat, intelligatur, distinguendus est
contactus qim titatis} qui proprius corporum est, a contactu virtutis i Contr. Epist. Man., c. 16, n. 20. Cf
p. 227. 2 I, q. L, a. 2 c. -3 Cf p. 193-195. 4 Debita proportio materiæ ad formam est duphciter,
scihc per ordinem naturalem materiæ ad formam, et per remotione impedimenti ;
In lib. IV Sent., Dist.
XVII, q. I, a. 2 sol. 1 Loc. cit. 6 In Ub. I Sent., Dist. VIII, q. I, a. 3 sol.
7 Contr. Gent.,\ib. II, c. 56.— Cf Dynam., c. VI, a. 1, p. 188 vol. j rimo
contactu langenlia dicuntur ca quæ uniuntur lcundum ulfma quanlitatis ; unde in
corporibos ono" t mutuum esse tactum ' >,. Contactus virtutis pert net
? 1 ea quæ etsi i„ quantitatis ultimis ncn tanganf bcuntur mhilominus tangere,
in quantum agunlV^Hoc,tem tactu substanfa immaterialis, quæ est indivisibi
fcff' %[ mT? C°rpUS' quod est auædam quantitas div i bil.s.Nam lactu corporeo
id, quod est indivisibile puta inctum, non potesl langere, nisi aliquod indivis
b^ile • tac u vtrtutts substanlia immaterialis potest langere JTnT
•d-,,V!f.lb,lem Substantia intell/ctualis qufm! | nt ind.vis.bihs, potest
tangere quantitalem divisibifc,.n quanlum ag.t in ipsan,8 Alio enim modo est
inni.bile punctum, et substantia intellectualis. Punctum .dem est S1cut
quantitatis lerminus, et ideo habet s™ a, determmalum m continuo, ullra quem
porrigi no„ l|,lest ; subslanf a autem intelicctualis est indivisibihs itur tt
irnr.i8veinUKS,f|Ua,ntil?!iS eX,SlenS' Unde U°" ^'e Itur ei indmsibile
al.quid quantitatis ad agendum In animam non n,s. tactu virtutis movere \st. XIX in arguendo. I, q. LXXXV, a. i Diximus sæpe, non
semper, interdnm enim operationes meni in iuvenibus languidiores sunt, et e
contrario intelligentia in qu busdam hominibus usque ad ultimam senectam in
dies magis, m. sisque viget. Guius ratio, aiente Aquinate, ex parte ipsius tnze
;rescentis animæ argumentum est, vires in maiori ætale ;naiorcs . Exinde etiam
perspicitur, quomodo organorum perturbatio exercitium intellectus perturbet:
Debiitatur intellectus ex læsione alicuius organi corporalis 'ndirecte, in
quantum ad eius operationem requiritur operatio sensus habentis organum . Ob
eamdem rationem i causis, quæ in corpus agunt, intelligentiæ evolutio penderc
dicenda est. Hæc omnia ila s. Thomas paucis complectitur: Cum anima sit forma
corporis, consequens est, quod unum sit esse animæ, et corporis; et ideo,
corpore perturbato per aliquam corpoream passionem, necesse est quod anima per
accidens perturbetur, scilicet quantum ad SSSe, quod habet in corpore 3 . V. —
Lockii error ex iam ostensis refellitur 150. Lockius etsi animam simplicem esse
fassus sit, tamen ea permotns ratione, quod non omnes materiæ proprietates
perspectas habemus, in dubium revocavit, utrum, necne cogitandi vis inter
proprietates materiæ, quæ nobis compcrlæ non sunt, revera sit, aut saltem
divinitus 3ssc possit4, Lockii dubitatio a Voltairio 5, aliis;(ue malimo plausu
excepta fuit. 151. Dubitatio Lockii futilis est. Probatur. Ut certo asserere
possimus aliquod attributum substantiac cuipiam repugnare, non requiritur ut
omnia huius attribula perspecta nobis sint, sed sufficit, ut aliquod unum in ca
certo dignoscamus, quod cum dato atlribulo evidenter pugnat; nam una, eademque
substantia constare nequit cx attribulis, quæ se mutuo destruunt. lla, etsi
geometræ nondum omnes circuli proprielates calleant, tamen pro rc certa
cxplorala habent, quadraturam inter eius proprietates nondum cognilas minime
contineri, (juippe illa rotunditalis proprietati in circulo iam perspcctæ
evidcnter opponitur. Alqui cogitatio curn notis proprielatibus materiæ, nempc
extensione, divisibilitate, so lectus, qui est perfectior, repetenda est,
quatenus nempe hi cum babeant corpus mclius dispositum, sortiuntur animam
maioris virtutis in intelligendo »; loc. cit. 1 Op. cit., c. 22. 2 In lib. II
De Anim., lect. VII. 8 III, q. XV, a. 4 c. Op. cit., Iib. IV, c. 3, § 6. s tUm.
de la phil. de Newton, part. I, c.
6. liditate, figura, inertia, adversa fronte pugnat; quæ auU secum
pugnant,Divina Omnipotentia non continenlur.Erj vis cogitandi nec divinitus
materiæ convenire potest. 152. Iam cogitationem cum illis maleriæ
proprietatibuj pugnare comperlum cuique est. Sane 1° pugnat cogitatic cum
extcnsione, et divisibilitate ; nam, quemadmodurr. satis, superque a nobis
ostensum est, cogitatio est quidquam unicum, et indivisibile. 2° Pugnat cum
soliditate; neque enim integrum obiectum cum omnibus eius partibus percipi a
nobis posset, nisi species singularum partium in unam confluerent; neque in
iudiciis et ratiocinationibus plures notiones secum comparari possent, nisi
illæ in unum compenetrarentur . Accedit quod cogilatic seipsam reflexione
permeat, el insuperduo subiecta percipientia possunt se invicem comprehendere:
si vero es-j sent solida, unum non posset alterum penetrare, ideoquc unum non
comprehenderet alterum, comprehensio enim rei habetur, cum ipsa tota
cognoscitur. Pugnat cum inertia, materia enim, utpote iners, ab extrinseca
causa determinatur; unde consequitur lex illa Newtoni, mutalionem motus
proportionalem esse vi motrici impressæ, ei, fieri secundum lineam rectam, qua
vis illa imprimitur. Al nos de multis rebus cogitamus, quin ulla actione
externa agitemur, atque insuper seriem unius demonstrationis interrumpimus,
aliamque prorsus diversam aggredimur, ac præterea ab imaginatione ad
intellectionem, atque ab hac ad illam rursus pro lubitu transimus. 4° Pugnat
denique cum figura; quod enim est figura præditum, habet terminum, cum figura
sit quæ lerminis continetur : at potentia cogitandi est quodammodo infinila; in
infinituni enim inlelligit species numerorum augendo; et similiter species
figurarum, et proportionum: cognoscit etiam universale, quod est virtute
infinitum secundum suum ambitum, continet enim individua, quæ sunt polentia
infinita 2 ». 153. Itaque
cogitatio præcipuis, ct valde notis mate 1 « Impossibile est duo corpora se
invicem continere, cum continens excedat contentum. Duo autem intellectus se
invicem continent, et comprehendunt, dum unus alium intelligit »; Contr. Gent.,
lib. II, c. 49, n. 6. « Ibid., n. 5. iæ proprielatibus adversatur; quapropter
si materia pos•et cogitare, ex proprietatibus secum pugnantibus conlaret. VI.— De animæ huraanæ spiritualitate 154. Animam
humanam non esse aliquid extensum, sed p una simplici, et indivisibili
realitate consistere contra mnes materialistarum classes demonstravimus. At
aliquid obilius ipsi est tribuendum; etsi enim corpus informet, amen huiusmodi
est, ut a corpore haud pendeat ; unde,on solum simplex, sed etiam spiritualis
appellatur. j 155. Anima hurnana est spiritualis. i Probatur. Operationes
propriæ animæ humanæ, eæ iempe, quæ ad intellectum, et ad voluntatem spectant,
|me organis corporis exercenlur ; ac proinde a maleria on pendenl. Atqui
similiter unumquodque habet esse, et oerationem. Ergo esse animæ humanæ
huiusmodi est, ut \ materia non pendeat, ac proinde ipsa spiritualis di3nda
est. 156. Ad maioris veritatem perspiciendam satis est mente Jcolere ea quæ in
Dynamilogia statuimus. Sane operaones cognilrices, quæ corporeis organis
indigent, ad iquod genus rerum materialium percipiendum determianlur: neque
aliud, nisi quod maleriale est, atque prout )nditionibus materialibus
adstringitur, apprehendere posint; unde obiectum illarum proprium non nisi
singulare 'Se potest : super seipsas denique converti nequeunt '. tqui
operationes intellectrices circa quodlibet rerum mainalium genus versari
possunt, easque cognitione immanah, umversali, et necessaria attingunt2; lum
super sesas reflectuntur 3; atque ad ea se porrigunt, quæ rerum
latenaliumordinem transiliunt 4; intellectusque in eorum 'iHemplalione quam
maxime delectatur 5 ; atque, secus 1 Cf Dynam., c. IV, a. 12, p. 161-162 vol. I. \ I, q. LXXXIV, a. 1 ad 4;
Cf Dynam., loc. cit. et a. 3, p. 136. J Cf ibid., p. 162. 4 Ibid., p. 161. Hinc
Lactantius aiebat: « Nullum est animal, præ • hominem, quod habeat notitiam
aliquam Dei. Solus enim sapientia structus est, ut religionem solus intelligat;
et hæc est hominis, jue brutorum vel præcipua, vel sola distantia ; De ira Dei
c. 7 b Cf s. Aug., De lib. arb. ac facultas organica, quæ quoties ab obiecto
sensili vehementer impellitur, ad aliud eiusdem generis obiectum sentiendum
inepta evadit, ipse ex obiecto valde intelligibili ad intelligendum obiecta
minus intelligibilia validior fit f. Ergo operationes intellectrices supra
corporeum omnem ambitum sic evebuntur,ut materiæ determinationes omnino
transcendant, ac proinde a materia non pendent. 157. Idem de actibus voluntatis
est dicendum. Etenim voluntas bonum intellectivum, nempe incorporeum appetit 2;
neque ad hoc, vel ad illud bonum determinatur, sed in quodcumque obiectum,in
quo ratio boni deprehenditur, libere ferri potest 3; super suos ipsos actus
reflectitur, quia vult se velle, et diligit se diligere 4; denique corpus sibi
subdit, illisque cupiditatibus, quæ ab appetitu sensitivo proficiscuntur,
adversatur. 158. Obiic. Anima nihil potest
intelligere sine ope sensuum, qui per organa corporea exercentur. Ergo in ipsa
operatione intellectiva ab organis corporis pendet, ac proinde non est
spiritualis. 159. Resp. Dist. ant.f quatenus sensus ad actionem intellectricem
intrinsece concurrunt, neg. ant., quatenus sensus præbent intellectui
phantasma, in quod ipse snarrj actionem, quin a sensibus pendeat, exerit, conc.
ant. Neg. cons. Responsionem istam, quæ ex theoriis in Dynamilogia statutis
satis superque declaratur, Aquinas noster hh verbis tradidit: Dicendum, quod
corpus requiritur ad actionem intellectus, non sicut organum, quo talis actic
exerceatur, sed ratione obiecti; phantasma enim comparatur ad intellectum,
sicut color ad visum s. Et alibi : Intelligere est propria operatio animæ, et
non egreditur ab anima mediante organo corporali, sicut visio me Cf s. Bonav.,
In lib. I Sent., Dist. I, a. 3, q. I ad arg., e Alb. M., De Anim., lib. III, tract. II, c. 15. Cf
Dynam., c. V, a. 3, p, 166-167 vol. I. 3 Cf Dynam., ibid., a. 8, p. 175 sqq. In
lib. I Sent., Dist. XVII, q. I, a. 6 ad 4. Noli ergo mi rari, inquit ad hanc
rem s. Augustinus, si ceteris per liberam vo luntatem utimur, etiam ipsa libera
voluntate per eam ipsam ut nos posse, ut quodammodo se ipsa utatur voluntas,
quæ utitur ce teris, sicut se ipsam cognoscit ratio, quæ cognoscit et cetera De
lib. arb., lib. II, c. 19, n. 51. I, q. LXXV, a. 2 ad 3.
iante oculo. Communicat tamen in ea operatione corpus x parte obiecti; nam
phantasmata sine organis corporeis >se non possunt . VII.— Refutatur
phrenologismus 160. Ut quid hoc systcma sit, facilius explicemus, ilid in pnmis
memoramus, a diligentioribus, et peritis ituræ scrutatoribus, propter intimum
nexum, qui inr animam, et corpus intercedit, ex huius eonformatio!, et
habitudine nonnulla non quidem certa, sed probalia indicia de illius interiori
statu perspecla fuisse. Exde ortum habuit physiognomia. Quæ inler veteres haut
cultores Empedoclem, Platonem, Aristotelem, Galcim, ahosque; medio ævo præ
ceteris Avicennam, et AIrtum Magnum ; in recenti ætate magnopere adaucta it a
nostro Ioanne Baptisla Porta, Lavater, Camper, asque pluribus. 161. At, ineunte
hoc sæculo, Gall, ciusque discipulus urzheim usque adeo processerunt, ut
systema phrenopcum, seu cranioscopiam invexerint, hæc præcipue ituentes : 1°
Cerebrum non est unicum organum, sed multis organis inter sese distinctis
constat. 2° Hæc gana, prout magis, minusve explicantur, et evolvun', maiores,
aut minores circumvolutiones in cerebro, ldemque in calvaria protuberantias
istis circumvolutio)us respondentes efficiunt. 3° Singula hæcorgana, ideoe
smgulæ calvariæ protuberantiæ sunt primilivarum imi facultatum sedes, imo ipsæ
facultates organorum mme appellari possunt. 4° Nomine facultatum primitium non
veniunt iilæ, quæ a Psychoiogis vulgo reiscntur, nempe facultas sentiendi,
imaginandi, volun-, et aliæ huiusmodi, sed potius naturales propensio' >
quas quisque sortitur, uti propensio in poesim, in lCitiam, in malhcmaticam.
Unde Phrenologi in cerebro (inguunl organum matheseos, amicitiæ, iracundiæ,
mcidn etc. Facultates vero a Metaphysicis recensitæ sunt, nisl secundariæ, sive
subieclæ facultatibus nnlivis, harumque veluli atlributa generalia. 5° Hæ
ultales secundariæ tot vicibus in eodem homine repee mveniuntur, quot
facultalibus primitivis iste pollet. Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 1 ad 11.
Philos. Christ. Compend. II. 7 47 Iamvero non omnia organa, ideoque non omnes
facultates ipsis propriæ in singulis hominibus extant, nequt organa, quæ in eis
extant, eodem modo explicantur, ei evolvuntur; proindeque neque æqualis est
protuberantiarum numerus in singulis calvariis, neque quælibet protuberantia
eiusdem est magniludinis. Hinc fit, ut si qui L rnaterialisme et la phrdnologie
rtnlr a seos/0ndement°, Paris 1840; Flourens, Examen dela rm i ; 2/ atqUG
interSer'nan°s,Friedreich, Arch. psychol. mLk £ 131;194' Heidelbergæ 1824, et
Reichlin-Meldegg., Psyeh. m"s (germ.), sect. I, p. 358, Heidelbergæ. nibus
hominibus communes, tamquam facultatum specia lium proprietates, spectare. 2°
Absurdius etiam est ratio nem, et voluntatem e facultatum numero extrudere,
curr ipsæ ceteris omnibus facultatibus præstent. 3° Si una quæque facultas
primitiva propriam sibi percipiendi, re miniscendi, ratiocinandi facultates
habet, tunc illud vald. yuod si physiologice hæc theoria spectetur, multis
ctiam ab Probatur. 1° Exemplaris,
aiente s. Thoma, propriurr est eo spectare, ut illa, quæ ad normam sui
eftingantur similia sibi reddat . Atqui id de homine cum reliquh animalibus
comparato dici nequit. Namque homo ob ra tionem, qua solus inter animalia
poliet, a reliquis ani malibus essentialiter differt. Ergo homo exemplar, seii
typus totius vitæ animalis esse nequit2. 2° Si homo esset ultimus terminus, ad
quem evoluti embrionis pervenit, facultates cognoscendi, appetendiqu in homine
a principio quodam maleriali producerentur quippe quod embrio, horum Physicorum
senlentia, ex v sibi insila seipsum evolvit. Atqui hoc, ut ex dictis II
Dynamilogia patet, perabsurdum est. Nam facultates ratic nales, cum sint
inorganicæ, principium alius naturæ, a animas a Deo creari) opinionem elegerit,
vel adhuc dubitandum putaverit ; In lib. II, Dist. XVII, § 15. Cf etiam Melchior
Ganus, vc locis theol.,hb. 12, c 13). Hoc adnotatum voluimus, quia Casimirus
Ubaghs (Anthrop. Philos. Elementa, Pars synthetica, c I) asserit opinionem,
animas a parentibus generando propagari, probabilibus n rationibus minime
spernendis, edimque cumnullo catholicæ Fidei dogmate pugnare, dummodo generatio
illa non velut ma'erialis divisio, Obiic. 1° Parentes hominem generare dicuntur. Atqui homo
constat ex anima, et corpore. Ergo non solum corpus, sed etiam anima per
generationem oritur. 177. Resp. Dist. mai.: quatenus operantur ad unionem corporis, et animæ, ex
qua unione homo est homo, conc. lmai,; quatenus gencrant quamlibet partem
hominis, neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Et sane, licet anima rationalis non
sit a generante, unio tamen corporis ad eam est quodammodo a generante f ; nam
generans disponit corpus, ut coniunclionem cum anima secundum leges naturæ
expostulet, et acquirat2. Quoniam vero ex unionc animæ ad corpus homo est homo,
oplimo, meritoque iure parenles hominem generare dicunlur, quia generatioiis
finis, ut sæpe monuimus, non est forma, sed compoitum ex materia, et forma.
178. Obiic. 2° Si corpus per generationem, et anima per creationem oritur, unum
non est esse hominis. Atqui :onscquens est absurdum. Ergo anima per ipsam gene'ationem corporis oritur.
179. Resp. Neg. mai.; conc. min. Neg. cons. Ex eo, quod jorpus per
generationcm, et anima per creationem prolucitur, esse corporis ab esse animæ
minime separatur; lam creans dat esse animæ in corpore, et generans dis)Onit
corpus ad hoc, quod huius esse sit particeps per inimam unitam s . 180. Inst.
Unum esse hominis produci non potest a cauW diversis. Ergo. 181. Resp. Dist.
ant., si illæ diversæ causæ non sint nter se ordinatæ, conc. ant., sccus, neg.
ant. Neg. cons. ausæ,
inter quas nullus ordo existit, eumdem effectum Mf diffusio quædam concipiatur.
S. 0. Congregatio tum ob traduciani'iww, tum ob aliquas doctrinas, quas prof.
Lovaniens, propugnabat, f quac sunt similes aliquot ex septem propositionibus, quas
eadem -ongregatio die 18 sepf. 1861 haud tuto tradi posse iudicavit (cf quac
ixi.nus in Ideal., c. I, a. 8, p. 212, not. 2, vol. I), tum ob alias opilones,
quas cautc minus, quam fas est, ille exponebat, decrevit in bns philosophicis a
Gerardo Casimiro Ubaghs hactenus in lucem litis, et præsertim in Logica, et
Theodicea invcniri doctrinas, seu pmiones, qure absque periculo tradi non
possunt . Cf La Scienza La lede, vol. LXII, p.
390-391, Napoli 1866. 1 Q(f. dispp., De Pot., q. III, a. 9 ad 19. Ibxd. ad 2.-3
n,^ ad 2Q. producere nequeunt. At vero in productione hominis generans cum
operetur usque ad ullimam dispositionem, qua corpus exigit informari anima
rationali, eum ordinem habet ad Deum, qui animam creat, ut ad Ipsum, veluti
causa instrumentalis, referatur. Etsi igitur Deus creans, et homo generans sint causæ
diversæ, tamen unum esse hominis ex iis producitur. . Natura est sicul
instrumentum Divinæ virtutis; unde non est inconveniens si Virlus Divina sola
faciat animam rationalem, actionc naturæ se extendente solum ad disponendum
corpus f 182. Obiic. 3° Filii similantur parenlibus non solum secundum physicas
qualitates corporis, sed etiam secundunc qualitales animæ. Atqui hoc
demonstrat, sicut corpora. Falsum est animam sensitivam hominis iroduci per
generationem. Probatur. Unum est esse animæ humanæ, quæ simul ensiliya est, et
rationalis. Atqui anima humana, prout :st rationalis, quemadmodum ostendimus,
per generatio Tcpn°u °ritUrEr^° necue Prout est sensitiva. lSb. Hoc argumentum,
quod ab unitate animæ huma-,æ depromitur a s. Bonaventura his duobus modis
exiibe ur: 1 Philosophus dicit quod sensitivum est in ntellectivo, sicut
tetragonus in pentagono; et vegetativum n sensilivo, sicut tngonus in
tetragono. Si ergo ab eoem pnncipio est tetragonus, a quo est pentagonus, ab
odem erit anima intellectiva, et sensitiva; sed intellectia non est a
generante, ut demonstratum fuit supra Er 0 nec sensitiva . 2° Quæcumque sunt
idcm in subtantia, ab eodcm principio educuntur in esse. Sed aniia sensitiva,
et intellectiva in eodem homine sunt idem B substant.a, qma unius perfectibilis
una est perfectio -rgo si rationalis non est per generationem, videtur, uod nec
sensibihs 3 . 187. Præterea idem Seraphicus Doctor ita etiam argulentatur: Quæ
simul corrumpuntur, simul etiam projucuntur; ergo, pan ratione, quæ simul
separantur, si-,iul et mtunduntur. Sed,
recedente in homine anima raonah, nullo modo remanet potentia sentiendi in
corpop. fcrgo sicut amittitur polenlia sentiendi in recessu amæ, ila infunditur
in adventu. Non est igitur a geneitione, sed a creatione . ° et 1 I, q. CXVIII,
a. 2 ad 2. 2 cf . n 1,6. II
Sent., Dist. XXXI, a. 1, q. I, £ opp. Ex
his argu n perspictur, quare anima sensitiva in brulis, non vero in im r,Prr
Seneratlonem Producatur. Etenim ex hoc, quod ipsa Thol r/n c°rp0ri 6SSe
sensiti^^equitu'r;monente nl itiv n/fn 1 U Sen^ DiStXVI11' "• a3 ad an™'n
nsitiyam in homine, et brutorum ad eamdem speciem non referri rt;,^^ ori*inis
modnm- c' . Obiic. Embrio, antequam anima rationali infor metur, vivit, et
animam habet. Ergo anima, prout es vegetativa, et sensitiva in homine, diversam
ac prout es rationalis, originem habet. 189. Resp. Dist. ant., ita ut,
adveniente anima ratio nali, maneat anima vegetativa et sensitiva, neg. ant.,
it; ut hæc abiicialur, conc. anl. Neg. cons. Hic memoria re colendum est rem a
prima forma substantiali in sua es sentia constitui, et quidquid essenliæ rei iam
constitutat advenit, esse accidentale. Quocirca, si, manente anima ve getabili,
vel sensitiva, ei adiungeretur anima intellectiva, hæc inveniret subiectum iam
in sua essentia constitutum; ac proinde anima intellectiva hominis essentiarc
non constitueret, sed accidentaliter animæ sensitivæ velut quædam eius
perfectio adveniret; id quod absurdun: est1. Hinc s. Thomas hæc docet: 1° In
generatione ani i malis, et hominis plures sibi succedunt formæ, ac proin de
plures generationes 2. 2° Quoniam generatio unius es corruptio alterius,
adveniente forma perfectiori, 6t cor ruptio prioris, ita tamen, quod sequens
forma habet quic quid habebat prima, et adhuc amplius 3 . 3° Quare ii fine
generationis humanæ abiicitur anima vegetativa, e sensitiva, atque creatur a
Deo anima intellectiva, quæ si mul est et sensitiva et vegetativa. Primo
inducitur a nima vegetabilis; deinde, ea abiecta, inducitur anima sen sibilis
et vegetabilis simul ; qua abiecta, inducitur noi per virtutem prædictam (nempe
virtutem formativam, quw a principio est in semine), sed a creante, anima, quæ
si mul est rationalis, sensibilis, et vegetabilis. Et sic embrio antequam
habeat animam rationalem, vivit, et habet ani mam, qua abiecta, inducitur anima
rationalis * . Qq. dispp., De Pot., loc. cit. 2 Cuius rei hanc rationem
assignat: Quanto aliqua forma est nc bilior et magis distans a forma elemehti,
tanto oportet esse plures foi mas intermedias, quibus gradatim ad formam
ultimam veniatur, etpe consequens plures generationes medias ; Contr. Gent., loc. cit. s I, loc.
cit. Cf p. 217. * Qq. dispp., De Pot., ibid. ad 9. Hæc D, Thomæ theon hisce postremis annis probata est
inter alios doctissimos physiologo a Vincentio Santi, Della forma, genesi,
corso naturale e modi c viventi, Perugia 1855. Cf etiam Liveranum, Su principii
del mi derno Ippocratismo, Fano. 190. 2a. Repugnat animam sensitivam transmitti
p parentibus, cl postea fieri intelkctivam pcr manifestatiolem ideæ cntis.
Probatur. Abnormis est illa opinio, ex qua vel plures inimas, sive formas
substanliales in bomine esse, vel inimam intelleclivam veluti corruptioni obnoxiam,
et tam|uam quamdam perfectionem accidcntalem animæ sensilvæ advemre
consequitur. Atqui alterutrum admiltenlum essct, sj anima sensitiva transmitti
a parenlibus, et jostea heri intellecliva per manifestationem ideæ entis
llicatur. Ergo. 191. Minor ex
D. Thoma ita demonstratur : Tcrminus jictionis Divinæ revelantis ideam cntis
aut est aliquid ubsislens, aut non subsistens. Atqui si primum, anima, [uac per
huiusmodi manifestationem fit intellectiva, diersa secundum essentiam est ab anima
præexistente, icmpe sensiliva, quæ non est subsistens, ac proinde non ina est m
homine anima. Sin alterum, anima intellectiva b anima sensitiva secundum
essentiam non differret, sed uædam esset eius perfectio, et sic ex necessitate
seuilur, quod anima intellectiva corrumpatur, corruoto orpore f . 192. Accedit
1° quod manifestatio ideæ entis nonnisi nimac lntellcclivæ fieri potest, ac
proinde animam innllcctivam, nedum constituit, expostulat; 2° quod ex dotnna
Ecclesiæ Catholicæ anima intellectiva ex nihilo reatur 2, non \ero per aliquam
perfectionem animæ seuHivæ adiunctam producitur. V.— Animas anle corporis
formationem non existeic demonstratur 193. Plato post Pjthagoram 3, et
Empedoclem * censuit nimas ante hanc vitam terrestrem vixisse aliam coeletem,
atque ob ahquod crimen, aliamve causam nobis motam, in terrena hæc corpora
detrusas fuisse s. Hanc * I, Ioc. cit. 1^2-133, Romæ 1876. 3 Cf Meiners,
Histoire des sciences dans la Cr^cfl,etc.,lib. III, c.4. U Karstcn, Empedociis
Agrigent. carminum reliquiæ etc. ihædr., p. I. Non convenit autem inter
Platonis interpretos, Piiilos. Cbrist. Compend. II. 7 j o Platonis doctrinam,
quam secundum emanatismi sui ph cila Plotinus* evolvit, amplexi sunt Origeniani
4. 194. Animarum præexistentiam alia ratione docuit Leil nitius. Eius sentenlia
fuit, omnes animas simul cum mund a Deo conditas, cum propriorum corporum
germinibu quæ in Adamo continebantur, coniungi, atque ex illi, ubi lapsu
temporum cuiusvis corporis germen evolvitu: singulos homines constitui V 195.
Gommunis autem est Philosophorum, ac Theok gorum opinio, humanas animas tunc a
Deo creari, cm humano corpori coniunguntur, novusque homo genitt existimatur.
Ut huius postremæ sententiæ veritas patc scat, scquentes propositiones
slatuimus : 196. la. Animæ humanæ creatæ non fuere an\ corpora. Probatur. In
anima naturalis ordo ad coniunctionei cum corpore agnoscendus est 4:
quapropter, si anima, ai tequam cum corpore coniungatur, creatur, dicendum e
ipsam a Deo creari, ita ut perfectione sibi naturali d nam animæ, corpor ™ iæ
con.uncfo, quæ neque ex nalura, neque ex volun>ate .ps.us an.mæ, sed a causa
extrinseca proficisci tur *r v.olent.am an.raæ illatara fieri dicenda est ; et
auobam omne violentum est conlra naturam, coniunctio ilh amquam ahqu.d naturæ
conlrariura babenda foret -2 Weo homo, qux ex utrogue componilur, est quid
innaturah quod palet esse falsum 3. "a'ra 198. Eamdem ob rationem, animam
in corpus ad sni upphc.um delrudi falsissirnum est. Et san Pf u Sf rgumentatur
Angelicus Doctor, poena bono naturæ dversalur, et ex hoc dicitur mala.Si igitur
unio an; >æ, et corporis est qnoddam poenale, C est bonura aturæ; quod esl
.mpossibile: est enim ntentum per „? .ram, nam ad hoc naturalis generatio
terminatur Fr erura sequerelur quod esse horainera non eTset bonum icundum
naturam ; cum taræn Geneseos 1,31, fa™ p^XWT" vm Deus cuncta t^PS, .2°
Animæ coniunctionera cum corpore poenalem esse Hmitt. nequ.t, qum graviora
scelera l.aud iuste a Dr * jp.bus ull.mo supplicio puniri su.natur. U enim Lre
ie d.spmav.t s. Cyrillus Alexandrinus : Si aUe cor" ex.stens an.ma
peccavit, et idcirco innexa es carni an, ob causam lex graviora quidem peccata
mo rto lc ^rf Ver° Vivere ^^ Præstaret quippc ^rmutere turp.ss.morum criminum
reos diu in coVoon! s hærere, u hoc paclo gravius punirentur innTen rium esse
recepit a Deo, ita quoque ab Eo naturalem suam immoralitatem recepit; camque
cum dependentia ab Ipso retinet. 2 Incredibilia prorsus videntur, quæ his
postremis annis, præserim ab Heghelianis, contra animorum immortalitatem disputata
sunt, idlaborantibus, duce Ruge, Annalium germanorum scriptoribus. .itrauss
aperte professus est animorum immortalitatem esse postremum ;iostcm in scientiæ
speculativæ campo prolligandum. Eorum oinnium [ma ferme, eademque sententia,
quæ ex pantheismi principiis fluit, læc est: Unica est omnium, quæ sunt, vita,
eaque infinita, universa tinui progressus *, qui immortalitatem animarum per
metempsychosin explicanles contendunt hominem modo sub ista, modo sub illa
forma in hac rerum universilate apparere, atque cum moritur, formam, sub qua
seipsum in præsentia manifestat, amittere, et post mortem superstitem esse,
quatenus novam induit formam 2. Aut. II.— Aniinam huuianam intrinsece
immortalem esse dciuonslralur 204. Quoniam immortalitas in continuatione vitæ
consistit, ut anima humana intrinsece immortalis dici possit, requiritur eam
huiusmodi esse naturæ, ut 1° a corporis yinculis soluta existentiam perpetuo
continuet; 2° ut acliones sibi consentaneas exercere pergat, secus haud proprie
vivere diceretur; 3° ut sui conscientiam, et præteritarum affectionum memoriam
retineat, secus, ut iam innuimus, \itam non continuaret, sed potius novam
inchoaret, et præmii, aut poenæ capax non esset. Iam hæc in animam humanam quadrare sequentibus
propositionibus a nobis demonstralur : 205. la. Anima humana est nalura sua
incorruptibilis, ita ut separata a corpore perpetuo suum esse retineat.
Probatur. Anima humana est immaterialis ; ergo natura sua est incorruptibilis,
ac proinde nalura sua corpori post mortem superest. Consequens his s. Gregorii
Neocæsariensis, sive Auctoris Disp. De Anima, verbis demonstratur: Consequens mihi videtur,
ut quod est simplex, etiam sit immortale. Nam omne, quod corrumpitur,
dissolvitur; quod dissolvitur, compositum est; compositum multarum est
partium.... Quamobrem cum simplex sit anima, neque ex pluribus partibus
constet, quia lis, divina; homines huius vitæ unicæ partieulam hahent; post
corporis corruptionem hæc particula in vitam universalem illico transfunditur;
ex quo fit, ut homines sui conscientiam, rerumque præteritarum memoriam
amittant, hoc est personalitate expolientur. Inter hos præcipue commemorandus
est Petrus Leroux, infensissimus Ghristianæ Religionis hostis (De V humanite,
de son principe et de son avenir, Paris 1840). 2 Non alia ratione de animi
humani immortalitate alius eontinui progressus defensor Lamennais sentire
\idetur (Esquisse d' une phU losophie, Paris. nec composita esl, neque dissolvi
potest, sequitur eam incorruplibilem, et immortalem esse . 206. Hoc argumentum ex Aquinate nostro ila explicatur
: Rei corruptio duplici ratione contingere potest, nempe vel per se, vel per
accidens. Priori corruptionis generi obnoxia sunt ea, quæ ex materia, et forma
constituuntur; ipsa enim suum esse amittunt, si forma a materia separelur ;
alteri subiiciuntur omnes formæ illæ, quæ m se non subsistunt, sed quoad sui
exislentiam a subiecto corruptibili pendent, ita ut illo, cui insunt,
dissolulo, et ipsæ desinant necesse est \ Alqui anima humana eius naturæ est, ut
neutro modo interire possit ; non quidem priori modo, quia est subslantia
intellectuans: (( nulla autem substanlia intellectualis est composita ex
materia, et forma 3; neque altero, quia est forma, quæ habet essc non dependens
ab eo, cuius est forma . Ergo. 207. Confirmatur eadem proposilio tum ex
operatione, quæ intellectio appellatur, tum ex ingenito illo desiderio, quo
anima appetit semper esse. Et sane 1° intellectio exeritur eo quod inlellectus
agcns eificit speciem rei actu intelligibilem, nempe immaterialem, et idco
incorruptibilem, atque intelleclus possibilis illam, prout huiusmodi est, m se
recipit 5. lam faciens est honorabilius facto ; quocirca si intellcctus agens
facit actu intelligibilia, quæ, tn quantum huiusmodi, sunt incorruptibilia, multo
fortius ipse erit incorruptibilis, ac proinde et anima humana, cuius lumen est
intellectus agens \ Item, unum J In Maxima Bibliotheca Patrum, t. III, p. 320,
Lujrduni 1677 2 Cf Cosmol., c. V, a. 5, p. 145. Contr. Gent., ]ib. II, c. 55. «
Qq. dispp.,q. un. De Anim., a. 14 ad 9. Sanctus Doctor fibid. c.) Hac aha
ratione argumcntatur: Esse est aliquid, quod per se consequitur formam. Ergo si
forma sit subsistens, nempe talis, ut ipsa sit Uliid, quod habet esse, nequit
profecto privari esse; esse enim ab hulusmodi forma separari idem foret, ac
formam separari a seipsa id quod impossibile est. Atqui anima humana est forma
subsistens. Ergo non potest desinere esse, nempe est incorruptibilis. Cf
Dynam., c. IV, a. 4, p. 137 vol. I. « Oportet facientem melius aliquid habere
ad faciendum, quam cst id quod facit ; s. Aug., De imm. anim., c. 8, n. 14. 1
Contr. Gent., lib. II, c. 79. quodque, quod recipitur in aliquo, recipitur in
eo secunduni modum eius, in quo est . Igitur intellectus possibilis, cum in se
recipiat formas rerum, prout sunt incorruptibiles, incorruptibilis sit oportet;
ex quo conficitur ipsam animam natura sua incorruptibilem esse, nam intelleclus
possibilis est aliquid animæ . 2° Unumquodque naturaliter suo modo esse
desiderat; hinc animantia bruta, cum non percipiant esse, nisi hic, et nunc,
desiderant quidem esse nunc, non vero semper, quod non apprehendunt; e
contrario, cum anima humana vi suæ intelligentiæ apprehendat esse absolute, et
secundum omne lempus, naturaliter desiderat esse perpetuum. Atqui impossibile
est naturæ desiderium esse inane. Ergo impossibile est, ut vi suæ naturæ anima
humana ab existentia desistat 2. 208. 2a. Anima humana a corpore separata
intelligere, et velle pergit. Probatur 1° Operatio cuiuslibet rei est quasi
finis eius 3. Ergo si anima post corporis fatum est superstes, operationibus
sibi consentaneis, quæ sunt intelligere, et velle, expoliari nequit. 2°
Intellectus, et voluntas sine organis corporeis exercentur. Ergo remanent in
anima a corpore separata . 3° Experimento constat animam, quo magis a sensuum
impulsionibus seipsam avocat, eo melius actiones suas i tellectuales exercere
5. Ergo a corporis impedimentis soluta expeditius actiones illas excrcebit. 4°
Quamvis eadem sit natura animæ ante mortem, et post morlem quantum ad rationem
speciei; tamen non est idem modus essendi, et per consequens nec idem modus
operandi fi . Ergo, animæ, secundum illum modum essendi, quo corpori est unita,
competit modus intelligendi per conversionem ad phantasmata corporum, 1 Contr.
Gent., lib. II, c. 79. 2 Ibid. Qq. dispp., De Ver.% q. XIX, a. 1 c. Contr.
Gent., lib. II, c. 81. 5 Anima nostra quanto magis a corporalibus abstrahitur,
tanto abstractorum intelligibilium fit capacior (I, q. XII, a. 11 c.) Idem observavit s. Augustinus:
Quis bene se inspiciens, non expertus est tanto se aliquid intelleiisse
sincerius, quanto removere, atque subducere intentionem mentis a corporis
sensibus potuit ; De imm. anim., c. 10, n. 17. 6 De Ver., loc. cit. ad 5. quæ
in corporeis organis sunt. Cum autem fuerit a corpore separata, competit ei
modus intelligendi per conversionem ad ea, quæ sunt inteiligibilia simpliciter
; sicut et alns subslantns separatis ! . 209.
Hæc postremi argumenti conclusio, nempe modum, quo anima a corpore separata
intelligit, cum illo qui substant.arum separatarum proprius est, similitudinem
nabere, sequenti argumento comprobatur. Anima numana, ut sæpe diximus, medium
locum lenet inter substantias intellectuales, et substantias corporeas; quia
insa per intellectum attingit ad substantias intelligibiles, in quantum vero
est aclus corporis, contingit res corporaJes . Atqui omne medium quanto magis
appropinquat -uni exlremorum, lanto magis recedit ab alio; et quanto magis
recedit ab uno, tanto magis alteri appropinquat. Lrgo amma quando tolaliter
crit a corpore separata, perlecte assimilabilur substantiis separatis, quantum
ad modum mtelligendi 3 . ' 210. 3a. Anima separata a corpore perqit habere
conscientiam sui, et præteritarum affectwnum. 1 I, q., a. 1 c. ; 2 Rationem, ob
quam anima in sui creatione non ita a Deo in stituta est, ut modus intelligendi
substantiarum separatarum pro pnus ei conveniat, explicavit s. Thomas, I, q.
cit. a. 4 Cf d 234 (et Idealog., c. I, a. 2, p. 194 vol. I. ' Cf In lib. IV Sent.,
Dist. L, q. I, a. 1,ol., et Contr. Gent., iib. II c. 81. Quinam autem sit hic
intelligendi modus, ab eodem sancto Doctore ita breviter explicatur: Dicendurn,
quod anima jseparata non intelligit per species innatas, nec per species, quas
tunc abstralm, nec solum per species conservatas; sed per species ex influentia
Divini Luminis participatas, quarum anima fit particeps, s,cut et aliæ
substantiæ separatæ, quamvis inferiori modo. tnde tam cito cessante conversione
ad corpus, ad superiora convertitur. Nec tamen propter hoc cognitio, vel
potentia non est natural.s: qu,a Deus est auctor non solum influentiæ gratuiti
lumi|Jis, sed et.am naturalis (I, q. cit. ad 3). Exinde etiam patet -nunus
intellcctus agentis, et possibilis, qui, ut paulo ante adnotanmus, rcmanent in
anima separata a corpore, diflerre ab illo quod in præscnti vita obcunt.
Audiatur idem Aquinas : Operatio inie lectus agent.s, ct possibilis respicit
phantasmata, secundum quod 3St annna corpori unita; sed cum erit a corpore
separata, per in-euectum possibilem recipiet species effluentes a substantiis
supe(ionbus, et per intellectum agentem habebit virtutem ad intelngcndum ; Qq.
dispp., q. un. De Anim. Probatur prima pars. Ab immaterialitalc animæ, ut in
Dynamilogia diximus1, repetendum est quod ipsa conscientiam sui hahct. Atqui,
si ita res est, animæ separatæ a corpore potiori iure, quam coniunctæ cum
corpore, coguitio sui tribuenda est. Ergo. Probatur allera pars. Anima præsenti
vita affectionum intelleclivarum recordatur, quatenus pollet intellectu, in quo
species rerum, quas antea intellexit, conservantur, et per quem se supra se
convertit, ut actu istas species consideret. Atqui, cum anima a corpore
separatur, remanent tum intellectus, tum species intelligibiles antea acquisitæ,
quia hæ, ut diximus 2, stabiliter in intellectu recipiuntur: tum vis
convertendi se supra seipsam. Ergo 3. III. — Utrum anima ab aliqua causa in
nihilura redigi possit Hactenus demonstravimus animam humanam eius esse naturæ,
ut nullum in se habeat destructionis principium. Jnvestigandum modo est, utrum ipsa ab aliqua causa
possit suo esse privari, ita ut in nihilum redigatur. 211. la. Nulla causa
creata virtutem habet animam in nihilum rcdigendi. Probatur. Quæcumque, aiente
s. Thoma, incipiunt e-sse, et desinunt, per eamdem polentiam habent utrumque .
Atqui animæ humanæ, quippe quæ per creationem originem suam habent, ex virtute
causæ finitæ incipere esse non possunt. Ergo s. 212. 2a. Deus, si Eius potentia
absolute spectetur, 1 Cap. IV, a. 8, p. 147 sq vol. I. Reflectere se super se,
inquit s. Bonaventura, hoc est virtutis cognitivæ subliraatæ a materia ; In
lib. II Sent., Dist.
XXV, p. I, a. 1, q. 3 resol. 2 Dynam., c. cit., a. 11, p. 160 vol. I. 3 a
Reminisci, cum sit actus per corporeum organum exercituf, non poterit post
corpus in anima remanere; nisi reminiscentia æquivoce sumatur pro intelligentia
eorum, quæ quis prius novit; quam oportet animæ separatæ adesse etiam eorum,
quæ novit in vita, cum species intelligibiles in intellectu possibili
indelebiliter recipiantur ; Contr. Gent., Ioc. cit. Op. cit., lib. II, c. 55. s
In nulla creatura est virtus, quæ possit vel de nihilo aliquid facere, vel
aliquid in nihilum redigere ; Qq. dispp., DePot., q. V, a. 3 ad 15. polest
animam in nihilum redicere; sed hoc, si Eius poHntfacum alns atlribulis
consideretur, velle non potesl Probatur 1 pars. Hoc, quod Deus creaturæ esse
commun.cat, ex Dei yolunlate dependet ; ncc aliter res in esse conservat nisi
in quantum eis conlinuc influit esse. Sicut crgo anlequam res essent, potuit
eis non commun.care csse, et sic eas non facere; ita postquam iam factæ sunt,
potest eis non inlluere esse: et sic esse desinercnl; quod est eas in nihilum
redigere 2 213. Probatur 2"
pars. Deus ea velle non potest, quue cum suis attnbut.s pugnant. Alqui
destructio animæ Sap.entiæ, Bon.lati, et lustitiæ Dei adversatur. Ergo.,"
In,Pnm,s> destructio animæ Dei Sapientiæ adversatur. Quod ut mlelligatur,
memoria repetendum est destructionem animæ Deo, ut auctor naturæ est, attribui
non posse. Lten.m, ut s. Thomas argumentalur: Sic Deus unamquamque naluram
instituil, ut ei non auferat SOam naluralem propnetatem. Rerum autem
immateria!ium...proprietas naluralis est earum sempiternitas, quia Z rinT
•,P?le-"a ad "r0n esse • ul suPra osten um It ?n,.f . J?" •DOn a,,fert tralem
inclinationem, E!,„?i,. ™ nd"; !la "°n, auferl rebus P'ædictis
semp.tern tatem, ut eas in n.h.lum redigat '. Quocirca animæ destructio præter
ordinem naturalem creaturis indi!um even.ret Iam ea, quæ hoc modo fiunt, a
Divina Sapientia ord.nantur ad gral.æ manifestalionem... ; redi?ere autcm
aliqu.d m nihilum non perlinet ad graliæ firit 1T6?' CUm magis, per hoc Divina Polentia, et B;r"1
ord.ne ur seu ostendatur, quod rcs in esse con versa nr DeSlruct,°,8,tur anlmæ
Dei Sapicnliæ ad 21o. Insupcr destructionem animæ Sapientiæ simul ct Bon.lat.
Dei repugnare hoc alio argumento conlicilur Hon.num ammis inest vehemens
perfectæ bealitatis cupidiM, quac, cum nccessana sit, et constans, a Dco
auctore -aturæ ips.s indita est, proindeque inanis esse nejuit' ' Dc hac
diversa rationc, qua Potenlia Dei considcrari noipsf l!, Civ!"'
3ftcK" "' Se"'-' D!St'' q" ' 3 "'• ' Qq. dispp'., De
Pot., q. cit., a. i c. 4 I, qcil., a. 4 c. 1 Beate certe, inquits. Augus.inus,
on.ncs vivere volumus; neque Atqui nemo diffitetur nullam hac in vila esse
veram, et perfectam felicitatem, quæ scilicet expleat omnes animæ facullates.
Ergo, si Deus animam in nihiium redigeret, ac proinde altera post præsentem
vita non superesset, fruslra hunc appetilum ab Ipso singuiis hominibus insitum
esse consequeretur, atque Eum admodum crudelem, et homini inimicum fingere
deberemus, quia hanc cupiditatem hominum animis inserendo, eos maximopere
excruciaret, efficerelque brutis animanlibus deteriores, quorum appetitiones
hac in vita plenissime satiantur. Iam horum alterum Bonitati, alterum Sapientiæ
Dei repugnat; nam contra rationem sapientiæ esl, ut sit aliquid frnstra in
operibus sapientis j. Ergo destructio animæ cum Divina Sapienlia, et Bonitate
stare non potest. 216. Hæc autem altera vita perpetua sit oportet; tum quia, ut
inquit Auctor libri de Spiritu, et Anima, nullum bonum, præter summum, homini
sufficere potest2; tum quia, observante s. Augustino, bonum, quod perfectæ
beatitalis cupiditatem explere potest, tale esse debet quod ( homo) non amittat
invitus. Quippe nemo potest confidere de tali bono, quod sibi eripi posse
sentit, etiamsi retinere id, amplectique voluerit. Quisquis autem de bono, quo
fruitur, non confidit, in tanlo timore amiltcndi beatus esse qui potest ? 3
217. Huic argumento respondet Auctor Systematis na~ turæ, homines desiderare
vitam corporis, itemque esse divites, etc., nec tamen semper vivunt, nec omnes
sunt divites. At reponimus
distinguendam esse cupiditatem^nmitivam, et universalem a cupiditatibus
secundariis, et particularibus. Illa, cum omnium animis insit, a Deo auctore
naturæ originem ducit, proindeque non potest non expleri; hæ autem illi
subiiciuntur ; et quoniam ad illam contingenter referuntur, neque in omnibus
inveniuntur, neque semper expleri possunt. quisquam est in hominum genere, qui
non huic sententiæ, antequams plene sit emissa, consentiat ; De morib. Eccl., lib. I, c. 3, n. 4. i Contr. Gent., lib. III,
c. 69. 2 Cap. 14. 5 De morib. Eccl. lib. I, c. 3, n. 5. * Omnis homo
naturaliter vult beatitudinem. Et ex hac naturali voluntate causantur omnes
aliæ voluntates, cum quidquid homo vult, velit propter finem »; I, q. LX, a. 2
c. anthropologia 287 218. Quod aulem ad iuslitiam Dei atlinet, certum est neque
.mprobi.atem sua poena, ncque virtutem suo nræ S flffl„ræSe,nt' VL'a aflici;
nam ^gitiosos homines bon,s afflucre, el probos toto ætalis suæ curriculo multis
; bem; at:^us oppressos sæp° videmus0°°° ^ SS Si np„l cums,Ioanne Chrysostomo
argumenlamur: non f?teh t.^ a!CUI- feVera CSl ' Eum iustum esse nemo,n°n„an •;•
tqU,Ls',ustus est> et his> e0 Zll'T nræm,um '» Præse"ti vita
retribui. 'm£ii aTnlemU?: ^ Aut peCCa,um est sulliciens P°ena oeccati, aul non.
S primum; ergo in hoc mundo iniuste olunU,S,if^n,n,Ur 'mpii,' S6d
reh"qnendisunt omnes ut oluptal.bus hbcre indulgeanl suis; quod quam
iniquum, t urpe sit, nemo non videt. Sin allcrum ; ergo aliam os corpor.s morlem,
admit.amus vitam oporle,, ne sc,n:et,ns,gn,s improbitas sine poena maneat'. 2°
Neque mpn,n hac v,(a scelerum suorum stimulis exagitantur! e ?„ 2i'mPaCe
rUUnt,Ur' "iS! aU,'a Utriuue eert0 sciun sse mdicem, qu,,n altera vila
singulos præmio vel VZ^TT^1 3° SæPe venit? t"um im ii in qui latis
fastigium atdgerint, non amplius conscienæ i slimuli eos mordeanl ; atque e
conlrario, ut iusli ravionbus anxielahbus torquoanlur. Proderit ergo per 1 De
Lazaro, Concio IV. AmSi;nqUiSi MiCer,et P°enarn peccali in eo consistere, quod
Deus aniam in mhil rcdigat, ita a nobis cum s. Thoma redar-ueretur m" ^i
I°n ntaS r°nt,a DeUm H ; ^^1"; pessima quacque flagitia vitam ducere, cum
virtus in iusto sine præmio maneat. 4° Probi homines quandoque, ne sua violent officia,
mortem ipsam oppeterc debent. Ergo nulla huic præslantissimæ illorum virtuti
merces rependeretur, si hæc dumtaxat esset recte facti conscientia, atque nulla
post præsentem vita animarn maneret1. 221. Rursus contra vim eiusdem argumenti
ex iustitia Dei depromptum obiicitur, ex ipso probari quidem animam corporis
fato superesse, non vero in æternum esse duraturam. At contra res se habet. Et
sane, quod ad præmium spectat, numquam vera forent præmia, nisi huiusmodi sint,
ut naturali desiderio perfeclæ felicitatis satisfiat. Aqui perfecta felicilas non est,
nisi æterna, ut superius probatum est. Ergo.
222. Quod ad poenam attinet, eius æternitas cum ratione non pugnat, imo
consentit. Non pugnat, quia poena peccato proportionatur secundum acerbitatem,
atque in nullo iudicio requiritur, ut poena adæquetur culpæ secundum durationem
2. Cum ratione
consentit. Etenim 1° eaderri iustitiæ ratione poena peccatis infligitur, et
bonis acti Cf Lact., Div. Inst. Epit.y lib.
III, c. 12. 2 1 2æ, q., a. 2 ad 1. Hanc rationem adhibuit s. Augustinus, ubi
eos refutavit, qui iniustum putabant, utpro peccatis quamlibet magnis, parvo
scilicet tempore perpetratis,poena quisque damne tur æterna. Quoniam idem, ac
illi veteres, Rationalistæ, inter quos Reynaud [Terre et Ciel, le ed., p.
371-391), hodie repetunt, præsta hæc pauca sancti Doctoris verba proferre:
Damnum, ignominia exilium, servitus, cum plerumque sic infliguntur, ut nulla
venia re laxentur, nonne pro huius vitæ modo similia poenis videntur æter nis?
Ideo quippe æterna esse non possunt, quia nec ipsa vita, quaax est, quia semper
defcctus, quo subtrahitur princi)ium, lrrcparabilis est...; sicut si
corrumpatur principium isivum, non potest fieri visionis reparatio, nisi sola
virute divina.... Et ideo, si per peccatum corrumpatur prinipium ordmis, quo
voluntas hominis subditur Deo, erit nordmatio, quantum est de se,
irreparabilis, etsi renaan possit virlute divina 2 . Quod cum ita se
habeat,'ita rguimus: Ideo peccato poena irrogatur, quia ordo 'per psum
evertitur; et sicut, manente causa, manet effectus a quamdiu pcrturbatio
ordinis durat, nccesse est ut tiam pocna duret. Atqui perturbatio ordinis ex
parte realuræ, uti paulo ante ostendimus, semper durat ac roinde peccatum est
quoddam malum æternum. Er"o oena mterminata erit 3. et 3° Apud Divinum
ludicium voluntas pro facto comutatur: quia, sicut homincs vident ea, quæ
exterius gnntur, ita Deus mspicit hominum corda. Qui autem proter ahquod
temporale bonum aversus est ab ullimo fine ui jn ælernum possidetur, præposuit
fruitionem temoralem illius boni temporalis ætcrnæ fruitioni ultimi rus; unde
patet quod mullo magis voluisset in æternum lo bono temporali frui. Ergo, secundum Divinum Iudium, ita punin debet, ac si
æternaliter peccasset. Nulli Jjcm dubium est, quin pro æterno peccato æterna
poena fceatur. Debetur igitur ei, qui ab ultimo fine avertitur, >ena æteiVia
. 4° Habet quodlibet peccatum contra Deum commisim quamdam infinitatem cx partc
Dei, contra quem comUtitur. Manifeslum est enim quod quanto maior per>na
cst, contra quam peccatur, tanto peccatum est graus; sicut qui dat alapam
militi, gravius reputatur, quam oaret rustico, et adhuc multo gravius, si daret
Prinpi, vel Regi. Et sic, cum Deus sit infinite magnus, ofnsa contra Ipsum
commissa est quodammodo infinita; \ %??' Gent-> Uh' ni c W-2 la 2æ, q. cit.,
a. 3 c. f Ibld— Contr. Gent., loc. cit. Philos. Ciirist. Compend. II. ? |Q unde et aliqualiter
poena infinita ei debetur. Non
autet potest esse poena infinita intensive, quia nihil creatuc infinitum esse
potest. Unde relinquitur, quod peccato moi, tali debeatur poena infinita
duratione 4 . IV.— Refutantur argumenta contra animæ immorialitatem 223. Obiic.
1° Forma non habet esse, nisi in eo, in qu est. Atqui anima humana est forma
corporis. Ergo no potest esse, nisi in corpore, ac proinde perit, perempt
corpore. 224. Resp. Dist. mai.: si sit forma, quæ dependet al eo, in quo est,
conc. mai., secus, neg. mai. ; sub eadei dist. neg., et conc. min. Neg. cons.
Anima, ut sæpe d: ximus, est talis forma, quæ habet esse non dependens a eo,
cuius est forma; ac proinde, corrupto corpore, in su esse perseverat. Exinde
etiam patet, quod etsi anima, tj corpus in uno esse hominis conveniant, tamen,
corrupt corpore, adhuc remanet anima, quia, ut etiam alibi d ximus2, illud unum
esse est ab anima, ita quod anim, humana esse suum, in quo subsistit, corpori
commun cat 3 . 225. Obiic. 2° Naturalis est animæ unio cum corpon Atqui hæc
naturalis coniunctio expostulat, ut anima no nisi cum corpore existere possit.
Ergo anima separata corpore in existentia perdurare nequit. 226. Resp. Dist.
min.: si nihil obstaret ex parte corpc ris, conc. min., secus, neg. min. Neg.
cons. Sane, cum m turale sit animæ esse corpori unitam, ipsa ex sui natur 1
Opusc. III, c. 183. Aliud pro æternitate præmiorum, et po narum argumentum
desumi solet ex eo, quod efficacia sanctionis 1 gis moralis illam exigit. Cum
enim Deus hominibus leges simul, libertatem largitus sit, consentaneum fuit, ut
eos aptissimis incit mentis, salva tamen eorum libertate, ad legibus
obsequendum mov ret. Præmia autem, et poenæ temporaneæ ad id obtinendum inep
sunt; siquidem ista, utpote et adhuc multum remota, et non perp tuo duratura,
homines facile posthaberent. Quapropter necesse fui ut Deus præmia, et poenas numquam
desituras humanis animabi statueret, easque proinde immortales efficeret. Cf
Nicolas, Z^wdes ph los. sur le Christianisme. t. II, c. 8. 2 Cf p. 191, not. 6.
5 Qq. dispp., q. un. De Anim., a. 14 ad 11. xigit esse cum corpore. At, quoniam
corpus est corrutibile, ipsum recedit a dispositione, per quam est apim ad
recipiendum vitam ; atque ita fit, ut anima a Drpore separetur2. Quocirca
propler corruptionem corons evenit, ut ipsa persevcret essc sine corpore. Illud
Btem monendum est, statum, in quo anima sine corpore ustit, esse quidem præter
naturam ipsius 3, quia anima t.sacpe diximus, ex se exigit esse cum corpore,
sed non nusmodi, ut animæ naturæ adversetur ; nam anima lamsi separata sit a
corpore, tamen naturalem inclina^nem ad ipsum retmet 4. 227 Obiic. 3° Id, quod est ex
nihilo, in nihilum redijri ooq ^,U1 anima humana ex nihiJo est. Ergo. J2H. Ilesp. Dist. mai.y ita ut natura sua in
nihilum tent, neg. mai., ita ut nisi a Deo conservetur, in nihilum digatur,
conc. mai. Neg. cons. Re quidem
vera tenre in nihilum non est proprie motus naturæ, qui semr est in bonum b . Quoniam vero creatura a seipsa non istit, neque
idcirco ex vi suæ naturæ in existcntia rseverat, in n.hilum redigi non potest,
nisi quatenus sisut virtus, quæ illam in esse conservat6. Hæc au Qq. dispp.,
loc. cit. ad 20. Hinc mors, per quam anima a corpore separatur, est, docente em
Aqmnate, naturalis homini ratione corporis, non vero animæ: orma nominis est
anima rationalis, qoæ est de se immortalis: et ) mors non est naturalis homini
ex parte suæ formæ. Materia em hom.nis est corpus tale, quod est ex contrariis
compositum, quod sequitur ex necessitate corruptibilitas, et quantum ad hoc s
est hornini naturalis ; 2a 2æ, q. GLXIV, a. 1 ad 1 CUm fuerit a corP°re
separata, habcns aYvvm' C 4mc\mllonc™ naturalem ad corporis unionem ; I • tem
virtus solius Dei propria est. lam vero satis a nobis demonstratum est animi
annihilalionem cum Dei altributis contradicere. Refutalur metempsychosis
Metempsijchosis, sive transanimatio, vel transcorpo nj ratio vulgo dicta est
illa theoria, qua animarum ab un^ in aliud corpus transmigratio adstruitur !.
lam, teste D Thoma, cc omnes, qui posuerunt animas extra corpora crea ri,
posuerunt transcorporationem animarum, ut sic anim exuta a corpore uno, alteri
corpori unirelur, sicut honn r exutus uno vestimento linduit alterum2 . Sane
Plato, qui ut iam diximus3, censuit animos ex astris in humana coi pora
immissos fuisse, docuit etiam illos, qui recte vitai, egerint, ad astra
reversos vitam beatam potituros essq contra, eos, qui immoderate vixerint, in
corpora deteric, ra, et, si ne tum quidem finem yitiorum fecerint, in bru,
torum figuras suis moribus sirnillimas mutatum iri, n6; que ante ab huiusmodi
mutationibus cessaturos, quarr affectibus sedatis, ad primum, optimumque sui
habitui redierint4. Hac nostra ætate a Petro Leroux, et a ceti ris continui
progressus assertoribus metempsychosis, i in primo articulo diximus 3, ad vitam
revocata est. E adstipulati sunt Remy 6, Michelet1, Reynaud 8, et Andi
Pezzani9. lh i Palingenesia, idest regeneralio appellari quoque solet, quia
priori corpore vivere desinit anima, et in alio, quod de novo sumi vitam
auspicatur. 2 Qq. dispp., De Pot., q. III, a. 10 c. — 3 273 sq. 4 Ante Platonem
a Pythagora, eiusque discipuiis metempsycnos decretum in Græcia ubique
propagatum fuit Pythagoram vero h decretum ab Ægyptiis, aliisque Orientis
populis didicisse comper res est. Sane metempsychosi Ægyptios, et Chaldæos
adhæsisse v teres passim tradidere, eaque in omnibus Indicæ philosophiæ ScboL
æque inveniebatur. 3 278-279. 6 J)e la vie, et de la mort, par le Dr Remy, Paris 1847. i Ipse
in libro Le peuple eo impudentiæ devenit, ut ob hanc ai marum transmigrationem
inter bruta, et homines cognationem agn yerit, et bruta fratres sæpe
appellaverit. 8 Terre et Ciel, PariS 1854. 9 La pluralite' des existences de
Vame, lib. IV, c. I, p. 38b sq Paris. Ficri nequit ut unius hominis anima de
suo n aliud corpus commigret. Probatur.
Animarum numerica differentia ex ordine d ^diversa corpora, quorum sunt formæ,
inspicienda st2; quapropter si corpora sunt numero diversa, necesse st, ut
animæ sint numero diversæ. Atqui, si animæ unt numero diversæ, prout sunt
diversa corpora, fieri lequit, ut una, eademque anima, quæ aliquod corpus
nformat, in aliud corpus commigret. Ergo . 2° Si una anima diversa corpora
generata informaret, dem numero homo per novam generationem ilerum exiteret,
sive, secundum Platonem, homo non nisi anima orpore indula esse dicatur, sive
anima tamquam sublantialis forma corporis agnoscatur; sicut enim esse, ita t
unitas formam rei consequitur, et ideo illa, quorum orma est numero una, sunt
idem numero. Atqui fieri equit, ut per novam generationem idem numero iterum
xistat homo; na m, cc cum generalio, et corruptio sit mojs in subslantiam, in
his, quæ generantur, et corrumuntur, non manet substantia eadem, sicut manet in
his, uæ secundum locum moventur. Ergo absurdum est nimam, quæ hoc corpus
informat, in aliud corpus com)!grare. Quod si anima ex uno in aliud corpus
humanum ansmilti nequit, ipsius in corpus belluinum transmi^rao inter humana
deliramenta adnumeranda esl. Etenim nima est forma corporis et motor eius.
Atqui determinate formæ determinata materia debetur, et determinato mo)ri
determinatum organum, sicut quælibet ars in agenle titur propriis instrumentis.
Ergo anima humana nonisi cum corpore humano coniungi potest. Præterea, si nimæ
humanæ ad corpora brulorum informanda transent, seu brutorum formæ fierent,
operationes horum roprias exercerent, suamque naturam amitterent. Iam
Metempsychosis, ut s. Thomas advertit, Fidei contradicit, hæc um animam in
re>urrectione idem corpus resumere prædicat quod jponit ; Contr. Gent., lib.
II, c. 44. 2 Cf Ontol., c. VII, a. 3, p. 48. Ex corpore recipit esse
indiduatum; quod quia non dependet ex corpore, remanet individuatio, iam
destructo corpore ; In lib. II Sent., Dist. III, q. I a 4 ad 1 s Contr. Gent., lib. II, c. 83. i In
lib. II Sent., Dist. XIX, q. I, a. 1 sol. hoc in primis absurdum est, cum rerum
naturæ sint immotæ; deinde, si admitteretur, finis, ob quem anima ad huiusmodi
corpora deprimi dicitur, ut nempe scelerum poenam luat, et beatitudinem assequi
possit, inanis foret ; nam si animæ sint formæ brutorum, poenarum capaces non
sunt, neque mereri possunt, ut ad vitam meliorem revertantur. Quin immo ipsa
metempsychosis rueret; non enim eadem anima, quæ antea corpus humanum
informabat, sed anima diversæ naturæ corpus belluinum informaret. Si
demutationem capit, ita arguebat Tertullianus, amittens quod fuit, non erit quæ
fuit; et si quæ fuit, non erit, soluta est metemsomatosis, non adscribenda
scilicet ei animæ, quæ si demutabitur, non erit. IIlius enim metemsomatosis dicetur, quæcumque eam in
suo statu permanendo pateretur. Mirum itaque non est, si nonnulli Ecclesiæ
Patres hanc sententiam seria refutatione indignam habuerint Abiiciamus hæc, s.
Augustinus aiebat, et vel rideamus quia falsa sunt, vel doleamus, quia magna
existimantur Sunt ista, Fratres mei, magna magnorum deliramentf Doctorum.
Modus, quo ab hodiernis Pantheistis immortalitas animæ explicatur, refellitur.
lam Plotinus putavit mentem humanam ita natura sua comparatam esse, ut paullatim
ad simplificationen pervenire queat, scilicet ad illum statum, in quo, destru
cta dualitate subiecti, atque obiecti, se unum, idemquc cum Uno, sive Absoluto
agnoscat 3. Hæc doctrina, quam Plotinus magna ex parte £ Stoicis accepit,
palingenesia, sive regeneratio dicta est, eam que omnes Pantheistæ, in
primisque hodierni heghelia ni , licet diversis modis et sub diversis
nominibus, illan amplexati sunt. Hinc, ipsi, ut antea diximus s, animai^ ex eo
immortalem esse docuerunt, quod post corruptio nem corporis in Divina
substantia, sive, ut aiunt, Abso luto absorbetur. Iam, omissis vitiis
pantheismi, ex qu que. Ceterum, etsi Essentiam Dei non comprehendamus, seu non
cognoscamus, quantum in se cognoscibilis est, tamea aliqua imperfecta ratione,
ut mox dicemus, Eam atting 1 Cf Criteriol., loc. cit., p. 284 vol. I. Cf etiam
definitionem Con cilii Vaticani,quam exscripsimusin JeZeaZ.,c. I,a.9,p.214,
not. 4, vol.I z I, q. III, a. 4 ad 2. Nec hoc, idem sanctus Doctor inquit,! debet movere, quod
in Deo idem est Essentia, et Esse, ut primi ratio proponebat. Nam hoc
intelligitur de Esse, quo Deus in seips> subsistit, quod nobis quale sit,
ignotum est, sicut Eius essentia; noi autem intelligitur de esse, quod
significat compositionem intellectus sic enim esse Deum, sub demonstratione
cadit, dum ex rationibu demonstrativis mens nostra inducitur huiusmodi
propositionem deDe formare, quæ exprimat Deum esse ; Contr. Gent. THEOLOGIA
NATVRALIS nus; et quoniam inter existentiam Dei, et Eius essentiam listinctio
rationis admittenda est, optime possumus illam,:ognoscere, quin hanc adæquale
cognoscamus. > 6. 2a. Deum existere etsi sit
veritas per se nota, ta~ \nen est per se nota tantum secundum se, non vero
etiam nons, acproinde indiget demonstratione, ut anobis cognoscatur. Probatur.
Quælibet propositio, cuius prædicatum est q ratione subiecti, per se nota
dicitur. Iam propositiones ;er se notæ vel huiusmodi sunt, ut constent terminis
imiQediate notis apud omnes, e. g., omne totum est maius ]ua parte; vel
huiusmodi, ut carum termini non sint apud j-mnes noti; unde licet prædicatum ad
rationem, sive esjentiam subiecti pertineat; tamen, quia definitio subiecti on
est omnibus nola, necesse non est tales propositiojes ab omnibus concedi, e.
g., omnes recti anguli sunt {equales. Islæ per se notæ appellantur tantum
secundum b, et non quoad nos; illæ per se notæ dicuntur non so>jm secundum
se, sed etiam quoad nos. Hoc posito, ita arpmentamur: Propositio per se nota
secundum se est, cu-,us prædicatum includitur in ratione subiecti, atque
projositio per se nota quoad nos est, cuius prædicatum injolvitur in ratione subiecti,
et nobis innotescit ratio sub-,^cti, et prædicati. Atqui in hac proposilione,
Deus exiit, prædicatum includitur in ratione subiecti ; cum nim Dcus sit suum
esse, existentia ad ipsam Eius essen-,am spectat; nobis tamen nota non est
ratio subiecti, et rædicati ; nam terminos secundum propriam rationem on
apprehendimus, atque illos invicem necessario conecti, sive esse ad ipsam Dei
essentiam pertinere, simplii mcntis obtutu non cognoscimus. Ergo hæc
propositio, }eus existit, est per se nota secundum se, nobis tamen iOn est per
se nota, sed demonstrativo discursu indiget1. 1 I, q. II, a. 1 c. Existentiam
Dei sine ulla demonstratione admitndam esse Kantius, Fridericus lacobi, atque
Lamennaisius alia ra ^ne^tuentur. Kantius enim, uti alibi diximus {Criteriol.,
c. III, a. 1, 271 vol. I), Dei cxistentiam ratione theoretica probari non
posse, d tamquam rationis practicæ postulatum fide morali illi vcritati edendum
nobis esse autumat. Iacobi autem, hodiernæ scholæ seninentalisticæ auctor, Deum
a nobis cognosci contenditnon ratione, d instinctu, nempe sensu interiori
invincibili, qui tum existcntiam ;3i, tum alia dogmata ad mundum intelligibilem
spectantia, ncc non undi sensilis existentiam nobis revelat (vid. Sermones de
Religione 7. Obiic. 1° Veritatem esse, est per se notum etiar quoad nos. Atqui
Deus est ipsa Veritas, Ergo Deum esse, e; per se notum non solum secundum se,
sed etiam quoadno, 8. Resp. Dist. mai.: si agatur de veritate communitc
accepta, conc. mai., si de veritate per se subsistente, neu mai.; item dist.
min. Detis est ipsa
veritas per se subs stens, conc. min.; est verilas communiter accepta, neg. mir
Neg. cons. Sane veritatem esse in communi ita est per gj nolum, ut nulla
demonstratione a nobis cognoscatur; qi enim veritatem esse inficiatur, iam
aliquam verilatem æi cognitionem pervenire nobis liceat, mox explicabiius.
Satis sit hic observare nullam ex eiusdem Carlesii rincipiis rationem esse, cur
idea Dei nobis innata dicen De Fide orthod., lib. I, c. 1. 2 Ideal., loc. cit., p. 214-215 vol. I.
Idipsum ex mox dicendis mplius dcclarabitur. 3 ln lib. I Sent., Dist. III, q.
I, a. 2 ad 1. 4 I, q. II, a. 1 ad 1. 5 Contr. Gent., lib. I, c. 11. Yid.
Kleutgen, La Filos. antica cspofa e difcsa, t. III, tratt. V, c. 3, § I, p. 134
sqq; § II, p. 149 sqq, oma 1867. da sit. Etenim Cartesius hæc docet: In
infinito duo spei ctanda esse, rem ipsam, quæ infinita est, et infinitioneml
quæ in re illa infinita est: rem infinitam nos posse per cipere positive quidem,
sed non adæquate; siquidem cunj finiti simus, infinitum comprehendere non
possumus : in finitionem vero a nobis cognosci negative, quatenus ab in finito
omnes limites per mentis actionem removemus1 Ex quibus ipsius Cartesii
principiis colligitur ideam re infinitæ finitam esse et quoad ipsam rem
infinitam, quiil eam perfecte non comprehendimus, et quoad infinitioneml cjuia
quod negative cognoscitur, sane non cognoscitu: infinite. Quod si idea rei
infinitæ, quam in mente habe mus, non est infinita, patet eam aliunde
proficisci posse quam a re itidem infinita; atque ideo nulla est ratio, ol quam
illa debeat esse innata. Accedit 1° quod mens irj cognitione rerum eas non
producit, sed detegit 2, aosse. Quocirca argumentatione a posteriori adhuius
ve•itatis cognitioncm nos pervenire dicendum est: Per cfeclus de Deo
cognoscimus quod est, et quod causa alioum est ; cum enim res coeperint esse,
oportct, ut ab iliqua causa sint, quæ dat omnibus esse. Ecquis, ait )amascenus, hoc
nobis non assentiatur, omnia, quac sunt, nulabilia esse? Cum ergo mutabilia sint, sane etiam creata 5>se
oportet. Si vero creata, haud dubium, quin ab aliuo opifice sint condita. Alqui
Creatorem increatum esse ecessum est; nam si Ipse quoque creatus est, aquodam
rotecto crealus erit, sicque donec ad aliquod increatum enenmus2 . 20. Ex his
autem argumcmis a posteriori illud, quod x eilecluum, sivc mundi existentia, et
natura depromiir, metaphysicum; iliud autem, quod admirabilis mundi rdo nobis
suppctit,^%52^m, seu physico-theologicum apeilatur. His argumentorum generibus
addi solet argulentum morale, quod nempe ab omnium populorum conmsione petitur.
Argumentum metaphysicum iis quinque, fo-iD Tho™ proponilur3, rationibus hic
exhibemus: l\. Frima ratio ex motu,
seu mutatione rerum mundaarum ducitur: Existit motus in rerum natura. Atqui hic \ n°nZ'fent'S Hb' m
c 49' Cf s' Bonav Lum&l; Serm. V. De Fide orth.y lib. II, c. 3. Unde scio,
inquit s. Augustinus, na vivis, cmus animam non video? unde scio? Respondebis:
Quia quor, quia ambulo, quia operor. Stulte!
ex operibus corporis agnoo viventem; ei operibus creaturæ non potes agnoscere
Creatorem ? wrr.in Ps.LXXIIT, n. 25. Cf De Civ. Dei,\\h. VIII, c. 6; Conf., lib. ij, c. 17 n.
23; De Gen. ad litt.y Jib. IV, c. 32, et alibi passim. "i ' " ac toas
,,?£ Er r^^-8-^ entibus ^o^Str^ffi-et tos rj„° bi .nutuo ca,sa simu, et
X',1:110 f""0' ' I,od dno enti° sin mstare entibus i T C ^0^8.
Silne.,Pona'n^ circulum istum ..,„ entis B, et remoum ;„n n °S' ""V
>j la 2o, q. I, a. 2 c. Cf Ontol., e. IX, a. 4, p. 66. Hoc argumentum, cum
in illud recidat, quod pht/sico-theolonieum passim appellatur, fusius in quinto
articulo proscquemur. rium existit, profecto ab existentia entis contingeniis
pcndere haud potesl. Atqui in
argumento melaphysico existentia Dei ab existentia mundi pendere adstruitur.
Ergo. 33. Resp. Conc. mai.; neg. min. Neg. cons. Sane, cum arguitur, Mundus
existit ; atqui mundus existere nequit, quin existat Deus : ergo existit Deus ;
mundum esse causam, cur Deus existat, minime adstruitur, sed mundus habetur,
uli principium cognoscendi, seu uti signum, quo cognosci possit Deum existere,
et Deus uti principium essendi, seu uti ratio, cur mundus existat. 34. Obiic. 3° nlii passim: Nulla
inter creaturas, et Deum est proportio. Ergo ex crealuris ad Deum assurgere
nobis non licet. 35. Resp. Dist. ant.: nulla est proportio entitatis, sive
naturæ, conc. ant.; nulla est proportio connexionis, et dependentiæ, neg. ant.
Neg. cons. Etenim, etsi creatura qiioad sui naluram infinite distet a Deo,
lamen potest esse proportio creaturæ ad Deum, inquantum se habet ad ipsum, ut
effectus ad causam, et ut potentia ad actum ! . Iam ob hanc connexionem inter effecturn, el causam,
non vero ob identitatem naturæ, ab existentia creaturæ existentia Dei infertur.
Hæc autem illatio rite, recteque concluditur; nam per effectus non
proportionatos causæ non potest perfecta cognilio de causa haberi, sed tamen ex
quocumque effectu polest manifesle nobis demonstrari causam esse ; et sic ex
effectibus Dei polest dernonstrari Deum esse; licet per eos non perfecte
possimus Eum cognoscere secundum suam essentiam2 . 36. Inst. Eorum, quæ sunt
relativa, et connexa, eadem ratio est. Alqui ab Enlis necessarii existenlia
nequit entis contingentis existentia inferri. Ergo a pari ne ab existentia
quidem huius potest illius existentia argui. 37. Resp. Dist. mai., si connexionis
relatio est mutua, conc. mai.,s\non est mutua, neg. mai.\ conc. min. Neg. cons.
Relatio inter contingens, et necessarium non est mutua ; ens enim contingens
postulat, ut sit Ens necessarium, a quo in suo esse delerminetur, secus absque
causa existeret ; e contrario, Ens necessarium, sibi soli suffi 1 I, q. XII, a.
1 ad 4. Cf s. Bonav., In
lib. III Sent., Dist. XIV, a. 1, q. 3 ad arg. 2 Ibid., q. II, a. 2 ad 3. cicns,
nihil in sui nalura includit, quod productionem contingentis exigat. Quod si
relatio inter Deum, et creaturas non est mutua, paritas illa, quæ obiectione
institui| tur, consistere non potest !. 38. Obiic. 4° Effeclus finilus a causa
finita potest produci. Ergo ab existentia mundi, qui est effectus finitus,
existentia Dei, qui cst infinitus, perperam colligitur. 39. Resp. Dist. anl.i
supposita causa infinila, conc. ant., secus, neg. ant. Neg. cons. Sane effectum
finilum causa finila gignere potest, ita tamen, ut Causa prima, sive infinita
subaudiatur. Etenim 1° quælibet
causa finita, et contingens cum a se neque existere, neque agere valeat.
Causam, quæ a se existit, et a qua pcndet, exigit, ut ahqucm operetur effectum.
2° Causa finita, cum non producat ex nihilo substanliam alicuius rei, sed
tantum quemdam modum essendi in substantia iam existente inducat, causam, ex
qua substanlia rei, super quam agit, e nihilo producitur, expostulat. Iam
causa, quæ a se existit, et quæ virtute producendi substanliam rei ex nihilo
pollet, infinita est. Ergo intelligi non polest, quomodo a causa finita
effectus finitus proficiscalur, nisi existentia Causæ infinilæ adstruatur.
Exinde illud etiam perspicitur, quod eisi mundus sit effectus finilus, tamen,
cum eius origo nonnisi per productionem cx nihilo explicari possit, causam
postulat infinitam. 40. Obiic. 5° A
sensu distributivo, ut aiunt, ad collectivum non valet illalio. Ergo, etsi
singula entia contingentia nequeant ex sui natura in exislentiam prodire, idem
de tota serie non licet colligcre. 41. Resp. Dist. ant.: si de proprietatibus accidentalibus
senno habeatur, conc. ant., si de proprietalibus essenlialibus, neg. ant. Neg.
cons. Cum de proprietatibus accidentahbus agitur, non licet argumentari a
singulis ad totam collectionem, quia id, quod convenit loti collectioni, potest
noii convenire singulis. At vero, si de proprietatibus cs>enlialibus, valet
argumentatio a singulis ad lotam collectionem, illæ enim æque singulis, ac toti
collectioni conveniunt. Iam esse ab alio essentiale est entibus contin
(pntibus. Ergo neque ea singula, nequc lola ipsorum coljlectio, etiamsi
infinita supponatur, possunt esse a seipsis. 1 Cf Logic, p. I, c. I, a. 8, p.
19-20 vol. I. Declarari id potest exemplo collectionis lapidum, quæ, etsi
infinita ponatur, nihil continere potest, quod lapidis ad ratiocinandum
impotentiam excludat. V. — De argumento physico-theologico 42. Argumentum
physico-theologicum ex mundi specie, et apta partium dispositione sumitur. Iam
hoc argumentum, ut Hoockius ait, qui copiosius velit pertractare, illi tota
Physiologia est percurrenda . At nobis, qui compendio studemus, satis est
existentiam Dei ex ordine mundi generatim spectato comprobare. 43. Itaque
argumentum hoc modo conficimus: Mirificus in hoc mundo ordo existit. Atqui,
nisi Ens infinita intelligentia præditum, nempe Deus, auctor huiusmodi ordinis
assignetur, admirandi illius effectus causa sufficiensj tollitur. Ergo 2. Quod
spectat ad maiorem, res mundanæ, quemadmodum alibi a nobis ostensum est 3, etsi
variarum specierum sint, tamen ita inter se colligantur, ut unicum, mundi
systema efforment; alque non obstantibus innumeris, variis, et partim
contrariis, quibus præditæ sunt, viribus, per causas efficienles, et finales
secum invicem connectuntur, et per constantem harum, quas inter se ha-l( 1
Theol. nat. et rev. principia, t. I, pars I, sect. I. Sane, quælibet' res in natura attente
consideretur, nos ad agnitionem Dei ducere pot-' est. Hinc quamplurimi fuerunt,
atque sunt, qui ex uno tantum entium>i genere, e. g., ex oculi dumtaxat, aut
auris, aut manus artificio, aut| ex pluviæ, vel grandinis, aliarumque
meteorarum generatione, vel, ex sola dispositione, et cursu astrorum, vel etiam
ex insectis, etj vegetabilibus Sapientissimi Conditoris existentiam
demonstrarunt. ' Atque quo rerum naturalium studium magis perficitur, eo plura
huiusmodi argumenta a sapientibus explicantur. Gf \ Ubaghs, Inst. phil.y pars
IV, Theod., Appendix notarum, nota A. 2 Huius argumenti vim senserunt, et
prædicarunt viri omnium ætatum sapientissimi. Ex antiquis satis erit memorare
Platonem,!i Aristotelem, Ciceronem. Ex Ecclesiæ Patribus laudari inter omnes
debent s. Iustinus, s. Gregorius Nazianzenus, s. Gregorius Nyssenus, s.
Basilius, et s. Augustinus, quorum præclaram expositionem protulimus in Op. Elem. seu Inst. phil.
christ., vol. III, Theol. natur., c. I, a. 4, p. 36 sqq (vel 367 sqq alt. edit.
Neapol. 1873). Ex recentioribus meminisse iuvat rerum naturalium peritissimos
Keplerum, Copernicum, Newtonum, Eulerum, Leibnitium etc. 5 Cosmol., c. VI, a.
1, p. 147 sqq, et a. 3, p. 151 sqq. bent, rclationum harmoniam, et consensum ad
unicum filem concurrunt. Atqui
ex his ordo Universi exurgit. Ergo le ordinis mundani existentia nulla
occurrere potest dubitatio. 45. Quod autcm ad minorem attinet, in primis, cum
>rdo sit apta dispositio mediorum ad finem, liquido palet •ausam mundani
ordinis non nisi intelligentem esse posse; !iam intelligenlis est finem
præfigere, atque apta media iccommodare. Deinde huiusmodi causa infinite
intelligens, lempe Deus, sit oportet. Re quidem vera, constantia orlinis m
rebus mulationi obnoxiis subsistere haud posset me fixis legibus, quæ nec per
mutuam collisionem, nec er vicissiludincs, contrariosque eventus umquam
labeactarentur. Qui igitur ordinem constantem instituit, deNiit omnes
possibiles legum collationes prævidere, easue dumtaxat seligere, quæ numquam ad
collisionem perenirent, et nullo adverso eventu subverterentur, aut sal2m per
oppositam rerum vicissiludinem ad pristinam dipositionem redirent; hinc debuit
etiam omnes possibiles ventus, qui ex causarum activitate provenirent, omnesue
eorum concursus perspectos habere; quinimmo cum t homines partem huius ordinis
phjsici constituant, ab orumque hbera cooperatione constantia ordinis ex parte
ependeat, plurimaque entia libero eorum usui subiilantur, debuit futuras eorum
Hberas actiones prævidei Atqui prævisio omnium possibilium eventuum, atue
actionum libcrarum infinitam intelligentiam necessao expostulat. Ergo '. 46.
Obiic. Multa sunt in mundo impcrfecta, immo inuha, et noxia. Ergo ordo mundanus
Causæ Sapientissiæ attnbui nequit. 47. Uesp. Neg. ant. In primis, eoruni, quæ
in hoc undo occurrunt, si in seipsis spectcntur, nihil imperfeum dici putest.
Etenim quænam non est vel in vilissio cuhce ordinata constructio parlium ?
quinam vel in Cf Suarez Met., tom. II, dispp. 29, scct. 2. Imprudcnter noniili
philosoplu catholici nullam vim argumento physico-theologico esse docuerunt,
nisi metaphysico fulciatur. Sane huiusmodi arguJntum ea, quæ a nohis propositum
fuit, ratione, non cuiuslihet usæ ordinantis existentiam, sed causac infinitæ,
ncmpe Dei, per evincit. 'x 7 r minima plantula fibrarum contextus ? Quod si
aliqua res cum aliis nobilioribus conferantur, minus perfecta quidem sunt; at
vero hæc diversa partium perfectio a, compositionem totius plurimum confert;
aiente enim s. Ai gustino, cc ita ordinantur omnes (res) officiis, et finibi
suis in pulcritudinem universitatis, ut quod horremus i parte, si cum toto
consideremus, plurimum placeat2, 48. Insuper, monente eodem sancto Doctore, de
singi, larum rerum utilitate recte non potest iudicari, nisi earui relatio ad
totum universum perspiciatur 3. At vero nr tot, tantarumque rerum, quæ in mundo
sunt, nesjUm variorumque finium subiectionem, eorumque ad ultimun finem
relationem mente assequi non valemus. Si igitu totus ordo, singularumque rerum
nexus perspectus nobr non est, inutile, vel noxium dicere nihil possumus. i
inlrares forte, ad rem ait s. Augustinus, in officinam fij bri ferrarii, non
auderes reprehendere folles, incude malleos. Et da imperitum hominem nescientem
quidj quare sit, et omnia reprehendit. Sed si non habeat per tiam artificis, et
habeat saltem considerationem homini quid sibi dicit? Non sine causa hoc loco
folles positi sun artifex novit quare, elsi ego non novi. In officina non av
det vituperare fabrum; et audet reprehendere in hoc mui do Deum ? Ceterum, ut
aliqua ratione apprehendi po, sit, quantum in iis, quæ videnlur noxia, Divina
Sapieii tia eluceat, audiendus est D. Chrysostomus, sic inquien c Pcrv'gata est
illa sententia Tullii: [Nulla est gens tam immansueta, tamque fera, quæ •n,
etiamsi lgnoret, qualem Deum hahere debcat, tamcn bcndum esse sciats . Accedunt
historici veterum popurum. Nulli enim sunt, qui non sui populi, et aliorum,
lorum historiam scribunt, religionem referant; in assenda Dei exislentia
unanimes, licel in reliquis sæpe disntiant. Quoad autem nationes rccentioribus
temporiis detectas, pariter nulla est, quæ in admittendo Nuine non consentiat,
testibus ipsis historicis religionis stræ inimicis. Fuere quidem, qui linguæ
aliquorum pulorum haud satis gnari spcciem quamdam atheismi ler cos detexisse putabant;
verum viatores posteriores, rn magis lnstructi, eadem loca pcragrantes, non
obscura hgionis indicia invenerunt . Nec quemquam moveat fuisse quosdam, et
esse etm modo, qui nullum extare Deum putent. Etsi enim admittalur b, tamcn
argumenti vis nullo modo minui 1 Vid. Ginoulhiac, Histoire du dogme catholique, t. I, par. I, .
I, c. V, p. 21 sqq, Paris 1852. i Strom., lib. V, n. 260. s De Legibus., lib.
I, c. 8. Vid. Feller, Catdchisme philosophique, t.I, c.l, etBrenna,Z)e gene
humani consensu in cognoscenda Divinitate, par.l, lib.I, c.II et III. 1 Qui
Deum esse inficiantur, athei, uti iam diximus, ' vocantur. loniam autem
diversis modis Deus negari potcst, multiplex extat leorum genus. Si qui essent,
qui ob mcntis tarditatem omni pror5 Dei cognitionc destituantur, athei negativi
dicerentur. Qui vero um ab aliis agnosci, ct adorari non ignorant, ipsi tamen
summa ellectus excæcationeEum agnoscere detractant, aut cavillationibus lerc
nituntur, athei positivi, vel dogmatici audiunt. Ii autem, qui n verbis Deum
negant, sed tarn pravis moribus vitam suam instimt, quasi nullum timeant Deum,
athei practici vocitantur. Iam •o multos osse practicos atheos, et qui
simulate, et fallaciter perisioncm de Deo in suis, et aliorum mentibus,
conquisitis undique nunculis, labefactare, et delere conantur, lugenda
experientia docti mus. Utrum autem veri athei negativi, atque dogmatici
extiterint. extent, decertatur inter Scriptores. Quæstio hæc ita enunciari tur,
quippe sicut non a raonstris forma humana, ita nec a paucis, brutorum instar
depravalis, natura rationalis inquirenda est. 54. Obiic. Opinio de Deo ortum
ducere potuit ex igno potest: 1° Sunt ne homines aliqui tam ignari, ut Deum
esse omnin( nesciant ? 2° Num homo
quisquam ratiocinando ad eam opinionun perversitatem pervenire possit, ut re
ipsa sibi persuadeat, non ess#nita corriguntur. E contrario, opinio de
existentia Dei er totum orbem diffusa, sæculorum progressu magis, 1 Vid. p.
312, not. J, ct 2. magisque
innotuit, eamque ipsi quoque sapientes, quorurr est præiudicia corrigere,
constanter lenuerunt. CAPVT II. De
natura Dei I. — Dei naluram infinitc perfectam esse oslenditur 56. Ex ipsa
existentiæ Dei demonstratione colligitui Ipsum esse Causam Primam, quæ ab aiia
non pendet et ideo a se ex necessitate suæ naturæ existit. lam e: hoc, quod
Deus est Causa Prima, quæ a seipsa est, Ip sum infinite perfectum esse oportere
planis argumenti conficitur. Quod cum ita se habeat, nostrum est primt illud
enucleare, quod Deus ex necessitate suæ naturæ se existit, deinde infinitam
Eius perfectionem evincere 57. la. Dens est ex necessitate naturæ a seipso.
Probatur. 1° Deus ex necessitate suæ naturæ existit Etenim : Omne, quod est
possibile esse, et non esse" indiget aliquo alio, quod faciat ipsum esse,
quia quan tum est in se, se habet ad utrumque. Quod autem faci aliquid esse,
est prius eo. Ergo omni, quod est possibil esse, et non esse, est aliquid
prius. Deo aulem non es aliquid prius. Ergo non est possibile Ipsum cssc, et no
esse, sed necesse est Eum esse l . 2° Existit a se. Ei sane, in iis, quæ ita
sunt necessaria, ut causam suæ nt( cessitatis habeant, hanc causam priorem eis
esse oportel Atqui nihil prius Deo esse potest. Ergo Deus non habi causam suæ necessitatis, ac
proinde ita necessario est, i a se, et non ab alio sit2. 58. Ex hac
propositione illud, veluti corollarium, ir fertur, quod Esse Dei sit ipsa Eius
Essentia. Etenim i lud, cuius esse est aliud ab essentia, aliquarn sui esse cai
sam agnoscit. Cum igitur Deus
habeat esse a se, et no ab aliqua causa, dicendum est Eius Esse esse ipsam Eiu
essentiam 3. Hinc Deus dicitur ipsum esse per se subsistem ila nempe, ut per
ipsam suam essentiam existat. 59. 2a. Divina Natura omnes possibiles perfectit
nes complectitur. Probatur. 1° Deus est rerum omnium, quæ sunt, sterc dcbent.
2° Cum Deus sit ipsum e, ",ubs>stcns, nihil dc pcrfectionc essendi Ei
deessc potest lic pro.nde habet esse secundum perfectam rationem ' A ui haberc
esse ; secundum perfcctam rationem, idem est,c ommbus pollere perfectionibus ;
nam, cura pcrfecrto;es esse denotent, c. g iustitia esse iustura, sapientia e
te'l"nm1elC-'l-ub,.erU tota Pleniludo essendi, ct totTus -m d do'olb' ent
oranis Pcrfectio.Ergo. I W. i rop. 3 . Deus est simpliciter inplnitus, ita ut
nul plk, %S6A et V^rfectionibus limes assignari possit. IProbatur. 1° Deus uli
antea diximus, esse secnndum .. rfcctara rationem habet. Atqui limitcs non
aliud°quam I quem defcc ura essendi denotant. Ergo in Esse, hpT lciombus Dci
nullus potest limes præstitui. 2 Omnis gtus, ct perfectio lerminis definitur
vel intrinsece ex sub cio, in quo recip.tur, quidquid enim recipitur, per mo m
recipienhs recipitur, vcl extrinsece a causa, a uua oducjtur Atqu, Esse, ct
Perfectioncs Dci neque in T Mio sub.ccto rccipiuntur, quia Deus, quemadmodum a
• juis ostensum est, est ipsum suum esse subsistens ne ie ab aliqua causa
pendent. Ergo 3. |Art. II.— Heghelianorum error
circa Dei inGuitatem refellitur i61. Secundum Heghelium, aliosque
Transccndentales Irmamæ, quibus in Gallia Vacherotus, Benanus, ali? I
auoTdhs,!naaHiiHXem,?!0 Cal°riSl Ct calidi decIarat: Manifestum i 'deo es „ T i,
dUm "°n habcat totam Vd"m calidi, Ised • ',?.", °r n°n
Partlc'Patur secundum perfectam ratio irtil 1, '°r.CSSC,t pCr SC subsists. nn
posset ei aliquid deesse r ute calor s: unde, cum Deus sit ipsum csse per se
subsistens •i I de perfect.onc essendi potest Ei dcesse ; I, qP IV, a. 2 c ' tl
s. fliom., I, q. VII, a. 1 c. toruT IT.J^J™?™ Pcrfcctissi'"'>' i
communi etiam tam torum, quam mdoctorum sensu manifcstum cst. Omncs in m MTS '
CCrtatin' Lpro eeentia Dei dimicanl; ncc quis N e t It „'„r,tCSt' qU1 h0c Dcum
crcdat cssc. qo meliusV us om„ h„,C n °mnCS DC„Um C0nscntil"'t csse, quod
ccteris m omn.bus anteponunt ; De Doctr. Christ., lib. I, c. 7. n. 7. ' Philos. CnRisr. Compend.
It.' qj que se adiunxerunt , Absolutum, sive Deus ea ratione in finitus, seu
indeterminatus est, ut aliquid reale, seu, ij aiunt, personale esse non possit.
62. Absurdum est Deum esse infinitum ea rationt qua ab Heghelianis explicatur. Probatur. Sciendum in primis est indeterminationem
ess vel privativam, vel negativam. Privativa ea est, qua enf cum actu non sit
hoc, vel illud ens, seu ens individuui i et singulare, natura sua ita
comparalum est, ut hoc, ai I illud ens esse, sive per hoc, aut illud ens
determina; j queat. Negativa vero ea est, qua aliquid est simplicite I eos,
quod per se subsistit, quodque idcirco, cum sit i] 5. Obuc. Jnfinitum totum
esse in se complectitur. Ereo i nulla re, quæ extra Ipsum sit, distingui
potest. M>. Kesp. Neg. cons. Et sane, summa perfeclio, quæ otum esse
continet, minime prohibet, quominus Deus ab llns ex ralpsum distinctus dicalur;
siquidem Deus totum sse continet, non quatenus Eius esse cum esse, quod pror.um
rebus extra Ipsum est, confunditur, eas enim perxtiones, ex quibus hæ
constituuntur, ut mox dicemus iversa prorsus ratione Deus complectitur; sed
quia eius 1 Quodlib., VII, a. 1 ad 1. Ibid. Hinc alibi (In lib. I Sent., Dist.
VIII, q. IV a. 1 ad 2) ise Z2Per Tm ESS1 absolutum n™ ^tum esse,\ed aliquid ise
Unde monet cavendum esse ab illorum errore, qui Deum Z eniemlIUd GSSe
"nniVerSa,e' qU° UUælibet res fomaSe™ ki ?hSv 7 "' qU°d DeuS est>
huius conditionis est, ut nulla tinctu TJGri P°SSiL UndG Per iDSam Suam
Puritatcm' est esse tionis mJ,°T e^j.P.roPter uuod in Commento nonæ Propo loms
Hbn de Causis dicitur, quod individuatio Primæ Causæ E c l l? enlatn ^Vr? Pero
pUram Bonitate Iicet >gitctur absque additione, Ua dXenr reH;eCCptlblIitate
additionis est-' nam si animali um vZ n tddl P°SLet' genuS non esset E
contrario, Di rJSnm n.. SqUC additione non solu™ cogitatione, sed ctiam,eptl
h\vZTaaLel n°n S°lum absque additione, sed etiam absque -eptibilitate
additionis ; Contr. Gent., lib I c 26 modi est, ut nihil addi Ipsi queat, per
quod ad aliqueu modum entis determinetur; ex hoc ipso autem, quod noi recipit
aliquam adolitionem, individuatury et a cunctis alii dividitur l. Quanam
ratione perfectiones creaturarum Dco sint attribuendæ 67. Perfectionum aliæ
dicuntur absolute, vel simplicitei simplicesy aliæ secundum quid. Priores sunt,
quæ secun dum propriam notionem consideratæ nullam includun imperfectionem,
neque cum meliori perfectione pugnant e. g., vita, sapientia. Posteriores vero
sunt, quae licet in tra genus suum perfectae sint, tamen in ipso sui concepti
aliquem complectuntur defectum, et cum aliis excellen tioribus pugnant; e. g.,
esse corpus1. 68. Iam perfectiones, quae purae, et simplices sunt, s||
spectentur secundum illud, quod in sui conceptu deno tant, formaliter, hoc est,
aiente s. Thoma, secundum ve\ rissimam sui rationem 3, in Deo continentur,
secus Deui infinite perfectus non esset. E. g., sapientia, si considel retur in
sui conceplu, prout nempe est cognitio per al tissimas causas attingens simul
unico actu principia, e conclusiones, formaliter in Deo reperitur, quia nihil
im perfectionis in se claudit. Hinc Deus absolute bonus, iu stus, sapiens
appellatur. Ob eamdem rationem perfectio nes secundum quid, cum in ipso sui
conceptu defectun aliquem includant, non formaliter, sed dumtaxat eminen tery
excellentiori nempe ratione, Deo sunt attribuendae 69. Diximus perfectiones
absolute simplices in Deo for maliter contineri, si considerentur secundum
illud, quodi'. sui conceptu denotant. Nam si spectentur secundum ean rationem,
qua in creaturis sunt, plures complectuntur im perfectiones; e. g., sunt
qualitates, quae intendi, et re mitti possunt, limitibusque circumscribuntur;
ac proind non secundum eam formam, qua in creaturis existunt sed modo
eminentiori in Deo continentur. Quapropter sta tuendum est perfectiones
creaturarum, cuiuscumque ge neris sint, eminentiori ratione Deo esse
attribuendas i Qq. dispp., De Ver., q. XXI, a. 4 ad 9. 2 Cf s. Anselm., Monol., c.
15. 3 In lib. I Sent., Dist. II, q. I, a. 2 sol. U Oportet quod omnes
nobililatcs omnium creaturarum invemantur in Deo nobilissimo modo, et sine
aliqua imperfectione . 70. Ex his intelliges, quod sicut tempus additum
aeernitati durationem ipsius non auget, quia omnes duralones llli inferiores in
ea eminentissimo modo continenur; ita Dcus, et creaturac non sunt aliquid
perfectius, !|uam solus Deus, quia lota creaturarum perfectio in Deo
>erfectissimc continetur2. Audiatur Aquinas noster: Boium creatum addilum
bono increalo non facit aliquid naius ; quia si duo participantia coniungantur,
augeri >otest ln eis quod participatur, sed si participans addatur i, quod
per essentiam est tale, non facit aliquid maius; icut duo calida adiuncta ad
invicem possunt facere mais calidum; sed si esset aliquid, quod esset calor per
essntiam subsislens, ex nullius calidi additione intendereir. Cum ergo Deus sit
ipsa cssenlia Bonilatis, omnia au;m aha bona per participationem, ex nullius
boni addione fit Deus magis bonus, quia cuiuslibet rei alterius onitas
continctur in Jpso 3 . IV. — Modus oxponitur, quo Dei nalura a nobis
cogaoscilur 71. Ex iis, quae adhuc de Divinis Perfeclionibus deliivimus, quonam
modo ad illarum cognitionem perveniaus, facile est coniicere. Sane ex ipsa
existentiae Dei de klbid. Hinc Arcopagita docet omnia de Deo affirmari
quodam)do, et negari, Illumque vocat omnium positionem, et omnium latto)iem;
quia cminenter ponit omnia, tamquam omnia continens formaliter omnia aufert, quia
omnem rationem formalem crean, ct finitam a se cxcludit ; De Div. Nom., c. 13. Et s. Au^unus: Omnia possunt
dici de Dco, et nihil digne dicitur de Deo. tiil latius hac inopia. Quaeris congruum nomen, non invenis; aeris quoquo
modo dicere, omnia invenis : In Ioan. Ev. c Ili ct. XIII, num. 5. '• Adnotandum
hic cst cum s. Thoma eminentiorcm illum modum, 3 Dcus crcaturarum perfectioncs
in se complectitur, non solum conimunihus. et gcnericis, sed etiam
individualibus earum ratio iUS esse intelligcndum. Omnia in Deo praeexistunt,
non solum linium ad id, quod commune est omnibus, sed ctiam quantum Bi,
sccunilmn quae res distinguuntur ; I, q, XIV, a. 6 c. Qq. dispp., De malo, q.
V, a. 1 ad 4. monstratione colligimus, Ipsum esse Causam Primam,quamnia, quae
sunt in mari, quae volant per aerem; non ;;st hoc Deus: quidquid lucet iu
coelo,..., ipsum coelum, lon est hoc Deus: Angelos cogitas..., non est hoc
Deus. pt quid est ? Hoc solum potui dicere, quid non sit . 73. Verum, quamvis
notitia, quae negatione constat, [fnagis congrua, quam quae affirmatione,
dicenda sit, non ideo tamen cum Iul. Simon 2, aliisque inferendum est ni^il de
Dei natura a nobis sciri posse. Etenim cum ea, quæ Ireaturis insunt, de Deo
negantur, Ipsi excellentia perlectionis quovis defectu immunis adscribitur, ac
proinde Uæ negationes abundantiam, et excessum præseferunt. | ipposite sanctus
Damascenus, postquam enuntiavit conjenientius esse ita de Deo aliquid
prædicari, ut Ei jmnia detrahantur, quippe nihil est eorum, quæ sunt »; jubdit,
non ut nihil sit, sed ut sit supra omnia, quæ •unt, lmmo vero supra ipsum esse
3 ». 74. Nisi quod, ut ex iam dictis patescit, hæc, quam Je summa Natura Divina
per rationem naturalem nobis aomparamus, cognitio nonnisi admodum manca, et
rudis st; siquidem mens nostra ad naturalem cognitionem Dei jonnisi per
similitudines a rebus creatis arreptas assurlere potest ; per effectus autem
non proportionatos causæ m potest perfecta cognitio de causa haberi .
Quapropter ukimum, et perfectissimum nostræ cognitionis in hac Mta in hoc
consistit, quod de Deo cognoscimus quia Ht, et quod causa aliorum est, et aliis
supereminens, et p omnibus remotus 5 ». V.— Quænara ex Divinis Perfectionibus
veluti Essentiara Dei constituens a nobis intelligatur 7o. Perfectio illa, quam
primam in unaquaque re esse imcipitur, ac veluti radicem ceterarum ipsius
perfectioim, atque per quam res a ceteris distinguitur, essentia 1 Enarr. in
Ps. LXXXV, n. 12. 3 LZ
^onnatureile, par. 1, c. 2, p. 34 sqq, Paris 1857. . iJG Fide orthod., hb. I, c. 4. Cf p. 310 8 Contr. Gent., Ub. III, c. 49.
appellatur. Iam etsi perfectiones omnes in Deo, uti mos demonstrabimus, Eius
Essentiam constituant, tamen no bis, qui non possumus Eas uno mentis intuitu
comple cti, inquirere licet, quænam ex ipsis tamquam Divinan Essentiam
constituens spectari possit. 76. Aseitas, sive esse a se tamquam Essentiæ Di
vinæ constitutivum assignari potest. Probatur. Aseitatem tamquam aliquid primum
in Dec esse concipimus; nam si aliud prius aseitate in Deo ess\ ideo autem nihil
Deo addi potest, quia est Ipsum esse, e] proinde Ens a se. Denique Aseitas, ut
ex primo articul constat, tamquam ratio intelligitur, ex qua omnes per
fectiones in Deo esse debeant. Ex hoc, ait idem Aqui nas, quod Deus est ipsum
esse per se subsistens,...opor tet, quod totam perfectionem essendi in se
contineat 2 Ergo. 77. Accedit, quod, docente s. Hilario, « nobis loquen dum non
aliter de Deo, quam ut Ipse ad intelligentian nostram de se locutus est 3». Iam Moysi interroganti, qui
esset, respondet: Ego sum, qui sum. Sic dices filiis Isræl Qui est, misit me ad
vos 4. Quibus verbis lamquam pro prium Naturæ suæ characterem, ens per
essentiam, a, alio independens, nempe aseitatem a nobis concipiendan esse designavit
5. CAPVT III. De attributis Dei, et primum de iis, quæ absoluta dicuntur 78. Perfectiones, quas ab Essentia Dei secundurn no strum
concipiendi modum manare intelligimus, Attribut Dei nominamus. Ex iis quædam
dicuntur absoluta, uf Sapientia, Bonitas, atque hoc nomine ab iis distinguun
Contr. Gent., lib. I, c. 26. °I, q. IV, a. 2 c. De Trin., lib. V. 4 Exod. III,
14. s Gf s. Damasc, De Fide orthod., lib. I, c. 12. tur, quæ appellantur
relativa, quia aliquam Dei perfe;tionern sigmficant cum relatione ad creaturas,
vel nojus cum relatione creaturarum ad Deum, siquidem uti ihln adnotavimus «,
creaturæ realem ad Deum habent realionem, non Deus ad illas. De his pauca
attingemus, ieteraque Iheologis disputanda relinquimns. I.— De Simplicitate Dei
79. Nomine simplicitatis illud attributum intelligimus, juo a Deo quæcumque
compositio sive physica, sive meaphysica, sive logica removetur. Gompositio
physica ea Wt, quæ ex parlibus re ipsa distinctis exur-it. Metaphvtca pertinet
ad ea omnia, in quibus potentia et actus, ubstantia et acadentia, essentia et
existentia, atque attrimta dislinguuntur. Denique compositio logica dicitur de
ebus, quatenus hæ sub aliquo genere continentur, ita ut !X«nCnprC' d,fferentia
constent. j 80. Quodvis
compositionis genus a Deo removeniUtn est . Probatur ex eo, quod Deus summe
perfectus est. Sane,in quohbet genere tanto aliquid est nobilius, quanto
imphc.us; sicut, iq genere calidi, ignis, qui non habet ali uam pcrm.xlionem
fngidi. Quod igitur est in fine noilitatis omnium entium, oporlet esse in fine
simplicitatis. E?ma„0.n ' qU°d eStxrnnfine nobili^tis omnium entium,
otest" ' a igitUr comP°sitio Ei accidere (.81. Speciatim autem quoad
singulas compositionis spepes, tres sequcntes propositiones demonstramus :
Frop. 1. Quævis physica compositio Deo repuqnat. Probatur ex eo, quod Deus est
primum Ens. Re quijem vera, (« amm., a. 6 c. 3 Cf Op.
cit.f q. un. De sp. cr., a. l c. ab essentia realiter distinguitur, non
exislunt per ipsan suam essentiam, sed habent esse per participationem. At qui
Deus per ipsam suam essentiam existit. Ergo. Præ terea, cum existentia sit
actus essentiæ \ si essentia De ab Eius existentia distinguerelur, illa ad
istam se habe ret ut potentia ad actum, ac proinde Deus realiter e: actu, et
potentia componeretur; id quod, uti osteedimus absurdum est 2. 86. Tertio.
Attributa Divina neque ab Essentia, nequ ab se invicem realiter distinguuntur.
Re quidem vera Deus per ipsam suam Essentiam perfectionem essendi, a proinde
omnes perfectiones, sive attributa habel. Erg Attributa Dei ab Eius Essentia
non distinguuntur. Adhæcl si Attribula ab Essentia Dei distinguerentur, hæc
illairi perficerent, novumque esse ipsi adderent: quod sane Di' vinæ Naturæ
prorsus repugnat 3. 87. Quod si attributa Dei ab Essentia non distinguun^ tur,
ea ne inter se quidem distingui consequitur 4. Ih Deo est sapientia, bonitas,
et huiusmodi, quorum quod1 libet est ipsa Divina Essentia, et ita omnia sunt
uiiud re 5 . Idipsum ex eo amplius declaratur, quod altribut H inler se
distincta diversos modos essendi significant, quo! profecto in Deo, qui est
ipsum Esse, ponere absurdum est6 Cf Ontol., c. II, a. 1, p. 13. 2 Cf s. Thom.,
I, q. III, a. 4 c. 3 Perfectio Divini Esse non attenditur secundum aliquid addi
tum supra ipsum, sed quia ipsum secundum se ipsum perfectun ^t. Bonitas igitur
Dei non est aliquid additum suæ substantiæ sed sua substantia est sua bonitas ;
Contr. Gent., lib. I, c. 38. Nos hic non loquimur de attributis, quæ relativa
ab intra api pellantur, nempe Paternitas, et Filiatio, Spiratio activa, et
Spiratl passiva; Paternitas enim et Filiatio, item Spiratio activa et passiv;
inter se invicem opponuntur, atque ideo inter ipsas realem distin ctionem
intercedere Fides docet. 5 In lib. I Sent., Dist. II, q. I, a. 2 sol. p Deus,
egregie ad hanc rem s. Augustinus inquit, multiplicite quidem dicitur magnus,
bonus, sapiens, beatus, verus, et quidqui aliud non indigne dici videtur; sed
eadem magnitudo Eius est, qua, non sunt ; Conf., lib. VII, c. 11, n. 17. 3 I, q. XII,
a. 4 c. inhæret, esse, et intelligi potest. Nomen substantiæ, ait s. Thomas,
imponitur a substando ; Deus autem nulli substat1. Quare, cum categoria
substantiæ e rebus finitis in Deum transfertur, duo, uti Henricus Gandavensis
advertit, in ea mutantur, quæ aliquam imperfectionem habent, et tertium manet,
quod perfectionem denotat. Ea,
quæ mutantur, sunt, primo, quod substantia Divina, secus ac substantia creata,
esse ab alio non accipit; secundo, quod non est, uti substantia creata,
subiectuni accidentium. Illud vero manet, quod esse in alio non habet, seu quod
in se subsistit 2. Quare Scholastici post Dionysium Areopagitam 3, et Boetium
4, ut hunc perfectum, quo Deus substantia est, modum designarent, lpsum non tam
substantiam, quam supra omnem substantiam dicendum esse sanxerunt 5. 93. Ex
hac, quam demonstravimus, tertia propositione, tamquam corollarium, deducitur
haud posse Deum defi niri: Omnis enim diffinitio ex genere, et differentia
constat . . . ; ostensum est autem quod Divina Essentia non concluditur sub
aliquo genere. . . Unde non potest esse Eius aliqua diffinitio G . II. — De
immutabilitate, atque æternitate Dei 94. Nomen mutationis, aiente s. Thoma,
ostendit esse aliquid aliter se habens nunc, quam prius a . Iam ex summa Dei
simplicitate, et infinita perfectione mutatio 1 In lib. I Sent., Dist. VIII, q. IV, a. 2
sol. 2 Op. cit., a. XXXII, q. V, n. 19. Cum hæc ita se habeant, liquet ss.
Patres, et Scholasticos pugnantia secum haud composuisse eo quod Deum esse
substantiam modo asseruerunt, modo negarunt. Etenim, cum ipsi substantiam,
prout denotat esse, quod essentiæ subest, et quod subiectum accidentium est,
considerarunt, Deum non posse dici substantiam docuerunt. At cum
consideraverunt substantiam, prout non esse in alio denotat, non modo Deum esse
substantiam, sed etiam quidquid in Deo est, nonnisi substantiam esse statuerunt
(ef s. Aug., I)e Trin., lib. VII, c. 4, n. 9, et De Fide, et Symb., c 9, n.
20); immo Deum potiori iure, quam ullas res creatas, substantiam dicendum esse,
quippe quod Ipsi perfectus actus subsistendi convenit. Cf s. Bonav., ln lib. I
Sent., Dist. XXIII, a. 1, q. 2 resol. 3 De Divin. Nomin., c. 1. — De Trin., lib. I. 5 Cf s.
Thom., Qq. dispp., De Pot., q. VII, a. 3 ad 4. 6 Comp. TheoL, c. 26. ' Contr.
Gent., lib. II, c. 17. iem cuiuscumque generis ab Ipso amovendam esse nromm est
mtelligcre. ! 95. Neque in natura Dei, neque in Eius
decretis vla mntatio adstrui potest. Probatur prima pars. 1° Deus, cum sit
primum Ens, st ipsum esse absquc alicuius potentiæ permixtione. Atiii ipsa
notio mutationis aliquam præsefert potentialitæm; nam omne, quod quocumque modo
mulalur, est liquo modo m potentia . Ergo. 2° Subiectum, quod lutatur quantum
ad aliquid manet, et quantum ad aliuid transit, sicut quod movetur de albedine
in nigrediem, manet secundum substantiam 2 ; ac proinde quamam composilionem
saltem ex substantia, et accidente in ) admittit. Atqui Deus, utpote
simplicissimus, quamcumue respuit compositioncm. Ergo. 3° Illud, quod mutatur,
31 ahquam formam acquirit, vel amittit. Atqui nulla )va pcrlectio Deo acccclere polest, et nulla
demi, cum eus sit simphciter infinitus, et omnes perfectiones esnlia sua m se
continet. Ergo 3. 9G. Probatur altera pars. Mulatur decretum voluntatis,
latenus cognoscitur eius mutandi ratio, quæ anlea ignoibatur; quocirca
innovatio consilii voluntatis ex eo orir, quod intellectus ab initio non omnia
diligcnter per'iidit, nec omnia singillatim novit. Atqui Divino Intelctui omncs
rerum connexiones in qualibet temporis cirimslantia pos^sibiles innotescunt.
Ergo. 97. Obnc. 1° Deus poenitere, et irasci dicitur. Atqui Qft "lax,mum
mutationis argumentum sunt. Ergo. J. Kesp. Dist. mai. : extrinsece, et quoad
effectum, ic. mai., mtrinsece, et quoad affectum, neg. mai.) sub fiem dist.
neg. ct conc. min. Neg. cons. Neque enim, egrogie monet s. Ambrosius, Deus
cogilat sicut homih ut ahqua Ei nova succedat sententia ; neque irasci I, q.
IX, a. 1 c. ^ lhid. Hoc Dei attributum s. Bernardus præclaris his verbis
declara Deus hanc sibi vindicat meram singularemque suæ Essen'Bimplicitatem, ut
non aliud, et aliud, non alibi quoque, et a!ibi, ne modo quidcm et modo
inveniatur in Ea. Nempc in semet æns, quod babet, est; et quod est, semper et
uno modo est. In multa in unum, ct diversa in idem rediguntur, ut nec de
wositate rerum sumat pluralitatem, nec alteraiionem de rarie sentiat ; /n
Cant., Serm. 80, n. o. Pbilos. Ciirist. Compend. II.' 10 tur quasi mutabilis:
sed ideo hæc leguntur, ut exprima tur peccatorum nostrorum acerbitas, quæ
Divinam mej ruit offensam, tamquam eo usque increvit culpa, ut etiar Deus, qui
naturaliter non movetur aut ira, aut odio, arj passione ulla, provocalus
videatur ad iracundiam l . 99. Obiic. 2° Deus alternis vicibus diversa, imo
oppc sita vult. Ergo mutabilis est. 100. Resp. Dist. ant., ita ut successio
illa, et varieta; spectet effectus Divinæ Voluntatis, conc. ant., ipsum actui^
Voluntatis Dei, neg. ant. Neg. cons. Sane, etsi ea, quai Deus decernit, sibi
succedant, et interdum cum mutui oppositione eveniant, tamen Voluntas Divina,
quippe qusj æternitate, et unico actu voluntatis illa decernit, imnu bilis
permanet. Aliud est, scite ad hanc rem mon: s, Thomas, mutare voluntatem, et
aliud est velle aliqui rum rerum mutationem. Potest enim aliquis eadem vi, fuit
et erit; quia et quod fuil, iam non esl; et quod rit, nondum est: sed quidquid
ibi est, nonnisi esl2. 107. Deus est
ælernus. Probatur. Dei existentia, ac vita nec i nitium, nec finem, ec
successionem ullam in se admittere potest. Alqui id 3ternilatis notionem
præbet. Ergo. Et sane in primis, eus, cum ita natura sua necessario existat, ut
non exiere non possit, semper extitisse debet; alioquin, si aliaaiido
incepisset esse, cum prius non existcret, tunc non isentia sua, et necessario,
sed contingenter solum exieret, atque illud esse, quod habet, ab alio
recepissel. 108. Ila quoque perspicue apparet, quod Deus ipse scmJr existere
debebit; alioquin si aliquando desinere post, non essentia sua, ac nccessario,
sed conlingenter exieret, ac illud esse, quod habct, ab alio ipsi auferri post,
Eiusque duratio ab alio penderet; id, quod ab Entis scessarii natura manifestissime
abhorret. 109. Denique Dei aeternitas quamcumque successionem spuil. Nam 1° ubi
nulla cst mutatio, ibi nulla est sucssio ; in Deo autem nulla mutatio est. 2°
Id ipsum ex nnimoda perfectione Dei cvidenlissime consequitur. Etim ens, cuius
duralio, ac vila successive evolvitur, per tales aclus, quos successive promit,
successive ad se rljciendum tendil, siquidem vivens per vitales acfus seStipsum
perficit. Atqui Deus est ens
absolute perieim. Ergo ab Eius duratione, ac vita successio quaevis lovenda
est. Quocirca Dei aeternitas dififerentias
omncs cludil, quae in tempore dislingui solent, alque ideo I, q. X, a. 1 ad 2.
Enarr. in ps. C/, Scrm. II, n. 10. 342 THEOLOGIA NATVRALTS neque prius, neque
posterius in ea admitti possunt, seIum rerum compagi actu praesens sit ; Divina
tamen tomensitas, quemadmodum paulo ante innuimus, aliorum tttributorum instar,
infinita esl; nam omnibus rebus posbilious praesentiam suam exhibendi virlutem
habet 3 Exfcde quoque intelligitur Deum ab aeterno immensum esi, quamvis effectum
nullum extra se produxisset, nulque promde rci extrinsecae praesens esset ;
quia nimiim ab aeterno res produccre, ipsisque adesse poterat. eque ex eo, quod
Deus incipit, vel desinit csse in re, iquarn mutat.onem Deo advenire argui
potesl; nam hoc, ente Seraphyco Doctore, solum est secundum rei muitionem, non
secundum mutationem Eius, ut pula si >re illuminato, inlelligatur creari
cryslallus, radius inpit esse m eo, et, crystallo amoto, desinit esse, nnlla
cta mutalione m radio. Deus extra mundum eodem modo est, quo fuit, an Moral., Iib. XVI, c. 5. 2 De
Fide orthod., lib. I, c. 8. 0 lllud, monet s. Bonaventura, cogitandum est, quod
Divinum •se sicut non potest cogitari habere terminum in duratione; sic non
tfest cogitari, nec debet habere terminum in existentia, et praentiahtate. Et sicut non potest cogitari habere intercisionem in
duttone sic nec in praesentialitate ; ibid., c. 1, q. 3 ad arg. ' Ibtd., a. 1,
q. 2 resol. Item, quemadmodum subdit ipse sanctus •ctor, (( cum res movetur,
Deum non dimittit, nec ad Deum acait, nec Deus cum re venit; quia sic est in
re, ut sit extra rem 3in; ; ideo nec res Eum dimittil, ncc novum invcnit. Et hoc est inligilMJe, si quis
potcst intelligcrc, quod Deus sit immensus,simplcx m imtus. Quia enim est
immensus, ita est intra, quod extraquia jplex, secundum unum, et idem est
intra. et extra; quia infinitus 0 nec dim.ttitur, nec acquiritur aliud in re,
nec ab ipso itur ad 'Um cum dimittitur, ut alibi, et alibi inrenialur ; Ibid.
ad arg. tequam ipsum mundum crearet. Antequam, ait s. Au gustinus, Deus faceret
coelum et terram, ubi habitabat In se, et apud se habitabat !. Et s. Bernardus
: Ut erat Deus, antequam mundus fieret ? Ubi nunc est. No est, quod quaeras
ullra, ubi erat ; praeter Ipsum nih eral: ergo in seipso erat 2 . IV. — De scientia Dei 115. Tria circa Divinam
Scientiam enucleanda suscip mus, nempe illius existentiam, obiectum, et
proprietate in quorum tractatione illud s. Augustini memorare pra lbid., a. 9
c. " Ibid. ad 2. ' Ibid. 8 Ibid. c. Quoad animi cogitaliones, ait etiam:
Sicut Deus cognocendo suum esse. . ., cognoscit esse cuiuslibet rei; ita
cognoscendo uum intelligcre, et Yelle, cognoscit omnem cogitationem, et
voluniatem ; Contr. Gent., lib. I, c. 68. Iamvero, licet scientia Dei, ut nox
dicemus, sit in se simplicissima, et maximc una, nihilominus secundum divcrsam
babitudinem, quam concipimus habere ad sua Ex his consequitur 1° Deum
cognoscere infinita. Etenim Deus suarn virtutem perfecte cognoscit. Virtuc
autem non potest cognosci perfecte, nisi cognoscantur om-| nia, quae potest;
cum secundum ea quantitas virtutis attendatur. Sua autem virtus, cum
sitjinfinita, ad infinita se extendit. Est igitur Deus infinitorum cognitor .
2° Co-J gnoscere etiam futura contingentia, et libera; cum eninii ut cum
Aquinate ioquamur, cum a Deo, prout actu est in sua praesentialitate,
cognoscatur, sic necessarium erit esse', sicut necessarium est Sortem sedere ex
hoc, quod Sortes sedere videtur. Iam baec necessitas contingentiam rerum haud
toiiit, siquidem non est necessitas absoluta, sed consequens, qua nempe omne
quod est, dum est, necesse est esse, Quare, sicut haec enunciatio, Quod videtur
sedere, necessi est sedere, accipienda est in sensu composito, non autenc in
sensu diviso, ita hæc enunciatio, Quod Deus scit faciendum, illud necessario
fiet l. 124. Exinde etiam illa, quæ in medium affertur, diffi cultas
extricatur, nempe qui fieri potest, ut creaturarurr actiones, dum a Deo iam
futuræ prævidentur, sint libe ræ2. Sane futura a Deo prævisa, ut iam diximus,et
certo et infallibiliter, non tamen necessario fient. cc Sicut tu, u s.Augustini
verba adhibeamus,memoria tua non cogis factt esse, quæ præterierunt ; sic Deus
præscientia sua nor cogit facienda, quæ futura sunt s . Quin immo tantun:
abest, ut præscienda Dei imponat causis liberis necessi •! tatem, ut potius ab
ipsa Dei præscientia conservetur li Deus successive cognoscit contingentia,
prout sunt in suo esse, si cut nos, sed simul: quia sua cognitio mensuratur
æternitate, sicu etiam suum esse: Æternitas autem tota simul existens ambit to
tum tempus. Unde omnia, quæ sunt in tempore, sunt Deo ab æ terno præsentia, non
solum ea ratione, qua habet rationes rerun apud se præsentes, ut quidam dicunt,
sed quia Eius intuitus fer tur ab æterno supra omnia, prout sunt in sua præsentialitate.
Undbiecto suo pendet, et a rebus ipsis hauritur; 3° quod deaonslratiombus
conficitur; 4° quod est multiplex, et pro arietatc obiectorum cognitorum
variatur. Atqui scientia |i est subslantialis; non hauritur a rebus, quas
cognocit, sed ipse Deus omnia in sese, et in natura sua conoscil; est
intuitiva, ncra discursiva; est unica, ac sim iorS1 o3'^0,n Se omnino
immutabilis. Ergo. llb. Probatur minor quoad singulas partes: 1° Nulla in eo
compositio esse potest, nihilque in Eo est, nisi simncissima, et perfectissima
substantia. Ergo scientia Dei on est ahud, quam ipsa Dei substantia. J Deus, ut
diximus, perfecte comprehendit suam Esentiam, quæ prima omnium rerum causa est.
Atqui ad errectam comprehensionem alicuius causæ requiritur ut i ea sic cognita
omnes eius effectus cognoscantur. Er"o eus non haurit scientiam a rebus,
sed omnia in ipsa sSa latura cognoscit 2. F ilnn^fp L?' J°' 8-( nihil
præscivit. Porro si illc, niiPc.i 1 ?uld futurum csset n nostra voluntate, non
utique noJrl lq Præscivit, profecto, et illo præsciente, cst aliquid nost a
volnntate ; De Civ. Dei, Ioc. cit. Eiinde concludit: Quo J(™V! cogiinur, aut,
retenta pracscientia Dei, tollere vo Sl?.n am' 3Ut' rCtCnt° vo,ulitatis
arbitrio, Deum (quod 1 nc?are Pracscfum futurorum; scd utrumque amplectimur,
rumque fidehter, et veraciter confitemur »; Ibid., c. 10. Licet, s. Ambrosius
inquit, omnia coelestia ct tcrrcstria ac THEOLOGIA NATVRALIS 3° In cognitione
discursiva, quæ, ut diximus !, quidarc motus est, intellectus ex potentiali ad
actualem conclusionis cognitionem progredilur, atque hanc non eoden actu, ac
præmissas, sed novo actu, qui illi succedit, cognoij scit 2. Atqui neque
aiiquid in potentia, neque actuum plu ralitas in Deo admitti potest. Ergo
scientia Dei non es discursiva. Præstat verba D. Thomæ proferre : « Scienj tia,
quæ in nobis invenitur, habet aliqnid perfectionis i et aliquid imperfectionis.
Ad perfectionem eius pertinei certitudo ipsius, quia quod scstur,
certitudinaliler cogno! scilur ; sed ad imperfectionem pertinet discursus
intellej ctus a principiis in conclusiones, quarum est scientia; hi vina
Essentia, cointellectis diversis proportionibus rerum ad eam, q idea
uniuscuiusque rei. Unde, cum sint diversæ rerum proportiom. necesse est esse
plures ideas; et est quidem una ex parte Essentia sed pluralitas invenitur ex
parte diversarum proportionum creatui rum ad Ipsam »; Qq. dispp., De Ver., q.
III, a. 2 c. * I, q. XIV, a. 8c. Cf s. August., Tract. llnloann. Ev.cap.I,n.l 2
« Quæ sunt, inquit s. Gregorius M., non ab æternitate Eius ' scienliam nostram,
ct scientiam Divinam ex eo etiam assignat, quod c quac nobis videtur, non
oniungitur. E g., cum Deus præccpit Abrahamo, ut iilium suum .aacurn immolaret,
putabat ille Deum velle huiusuodi sacr ficium bnanan^ scd ut inanifcsta «s.
prahami fides, et obedicntia. Ita ctiam Deus permittit neccatum ius tamcn
voluntas beneplaciti non est peccatum, S, i pSSSfc Jmus, bonum, quod ex peccato
eruit. * P ie lfJmU\' cUb:IitTS-Th°maS' pronric est rci nond™ "*bie in hb.
I Sent., Dist. XLV, q. I, a. 1 ad i. j Loc. cit., in resol. 8 « Diccndum,
scribit s. Thomas, quod voluntas in nobis pertinet Obiectum primarium Divinæ
Voluntath est ipsa Divina Essentia; secundarium sunt res extra Deum. Probatur
prima pars. 1° « Bonum intellectum est obiectum voluntatis. ld autem, quod a
Deo principaliter intelligitur, est Divina Essentia. Divina igitur Essentia est
id, de quo principaliter est Divina Voluntas * ». 2° « Unicuique volenti
principale volitum est suus ultimus finis ; nam finis est per se volitus, et
per quem alia fiunt volita. Ultimus autem finis est ipse Deus, quia Ipse est
summum bonum. Ipse igitur est principale volitum suæ Voluntatis. Probatur altera
pars. Voluntas consequitur intellectum. Sed Deus suo intellectu intelligit se
principaliter, et in se intelligit omnia alia. Igitur similiter principaliter
vult se, et volendo se, vult omnia alia 3. 137. 3a. Divina Bonitas est Deo sola
ratio volend\ quæcumque extra se vult. Probatur. lllud, quod voluntas propter
seipsum vult : est unica ratio, qua cetera velit; hinc ultimus finis, cuir
propter se appetatur, ratio est, cur cetera appetantur Atqui illud, quod Dei
voluntas propter seipsum vult, es Eius Bonitas. Ergo 4. Præterea, si Divina
Voluntas aliqua ratione a bo nitate creata moveretur, amor, quo diligeret
creaturas non tantum effectivus, sed etiam affectivus esset ; siqui dem amor
effectivus bonitatis obiecti, cum ipse sit, a c{U( illa oriatur, nequit ab ipsa
allici, seu moveri. Atqui a mor, quo Deus diligit creaturam, non est
affectivus, se I, q. XIX, a. 1 ad 2. Contr. Gent., lib. I, c. 74. Ibid. 3
Ibid., c. 73. 4 I, q. cit., a. 1 ad 3. Exinde etiam sanctus Doctor infert
obiect( rum multitudinem, quæ Deus vult, Eius infinitæ simplicitati minim
obstare. Nam sicut intelligere Divinum est unum, quia multa no videt, nisi in
uno; ita velle Divinum est unum, etsimplex; quia mult non vult, nisi per unum,
quod est Bonitas sua ; ibid., a. 2 ad 4. s Quia voluntas nostra non est causa
bonitatis rerum, sed ab i format amantem in amatum; dum e contrario Deus omnia
trahit ad seipsum, repugnatque lpsum in creaturam transformari. Ergo Divina Voluntas nullo modo a bonitate creata
movetur. 139. 4a. Dens necessario seipsum, libere autem res extra se vult.
Probatur prima pars. Voluntas necessario inhæret ultimo fini, ita ut opposilum
nequeat velle. Atqui Divinæ
Voluntatis non est alius finis, quam ipse Deus. Ergo Deus inecessario vult se
ipsum. 140. Praclerea, omnis perfectio, et bonitas, quæ in creaturis est, Deo
convenit essentialiter. Diligere autem Deum, est summa perfectio rationalis
creaturæ, cum per hoc quodammodo Deo uniatur Ergo in Deo essentialiter esl;
ergo ex necessitate diligit se, et sic vult se esse. Probalur altera pars. Voluntas necessario vult ea,
sine quibus finis esse non polesl; non autem ex necessitate, sed libere vult
ea, sine quibus finis esse potest. Atqui Deus vult alia a se, in quantum
ordinantur ad suam bonitatem, ut in finem. Bonitas autem Dei est perfecta,
et esse polest sine aliis, cum nihil Ei perfectionis ex aliis accrescat. Ergo Deus res extra se non necessario, sed libere
vult . 142. Porro perspicuum est tum potestatem faciendi malum, tum
deliberationem, tum mutationem a Divina libertale amovendas esse. Sane 1° ad
rationem liberi arbitrii non pertinet, ut indeterminate se habeat ad bonum, vel
malum ; sed hoc ad libertatem arbitrii pertinet, ut actionem aliquam facere,
vel non facere possit. Et hoc Deo convenit; bona enim, quæ facit, potest non
facere, nec tamen malum facere potest 8. 2° Deliberatio, seu inquisitio rationum
ex deieetu cognitionis oritur ; quocirca, movetur sicut ab obiccto; amor
noster, quo bonum alicui volumus, Qon est causa bonitatis ipsius, sed e
converso, bonitas eius vel vera, vel æstimata provocat amorem, quo ei volumus
et bonum conservari, quod habet, et addi, quod non habet, et ad hoc operamur.
5ed amor Dei est infundens, et creans bonitatem in rebus ; I, q. XX, a. 2 c. 1
Contr. Gcnt. Cf Cosmol., c. VII, a. 2, p. 172. 3 In lib. II Sent., Dist. XXV,
q. I, a. 1 ad 2. cum in Deo cognitio sine discursu sit, etiam electio in Ipso
est sine deliberatione. 3° Item libertas electionis in eo consislit, ut eligens
illo, quo eligit, momento possit, prout mavult, eligere, vel non eligere. At,
iam posita illal electione, cum Enti omniscio nulla deinceps innotescere possit
prudens ratio mutandi sententiam, electio illa immota manet. Quocirca ratio,
cur Deus sententiam non mutet, non defectus liberæ electionis, sed plcnitudo
perfectionis est, qua fit, ut nihil novi umquam possit addi-t scere. lllud
etiam observandum est, liberam volitionem Dei spectari posse aut ratione
entitatis Divinæ, quatenus nempe est in Deo, autratione terminationis ad
creaturas. Sfr priori modo considerelur, est quidem necessaria, sin alteroi
modo, est libera. Quare illud, quod actus Dei liber addit supra necessarium,
non est aliud, nisi relatio buius actus ad creaturas, scilicet habitudo, seu
respectus, et terminatm ad creaturas. Rursus hæc terminatio potest ex parle
Dei, et ex parte creaturarum spectari. Si ex parte Dei consideretur, quatenus est
actio vitalis, et intrinseca, non distinguitur ab ipsa substantia Dei; si vero
ex parte creaturarum, est aliquid defectibile, seu, quod deesse possibile sit.
144. Ex his, quantum tenuitas nostræ mentis patitur,i illa expeditur
difficultas, quomodo nempe actus liber sit Deo internus, et tamen, cum liber
sit, possit esse, vel non> esse. Sane, cum in relatione Divini actus ad
creaturas,: duplex respectus sit distinguendus, alter ex parte Dei, sub qua
ratione intrinsecus est, ita tamen ut ordinem ad creaturas habeat, alter ex
parte creaturæ, sub qua ratione est mere extrinsecus, dicendum est actum
liberum Deo internum posse esse, vel non esse, non quidem ratione entitatis,
nec ratione solius meræ terminationis extrinsecæ, quia hæc actum intrinsece
liberum constituere non po- test, sed ratione terminationis intrinsecæ ad
aliquid extrinsecum 2. Quare Divina libertas consistit in intrinseca in-
Dicendum quod Voluntas Divina se habet ad opposita, non quidem ut aliquid
velit, et postea nolit, quod Eius immutabilitati repugnaret, nec ut possit
velle bonum, et malum, quia defectibi-. litatem in Deo poneret, sed quia potest
hoc velle, et non velle ; Qq. dispp., De Ver., q. XXIV, a. 3 ad 3. 4 Circa hanc
quæstionem cf Gonet, Op. cit., tract. IV, c. 2. lifferentia relationis Divini
actus ad obiecla extrinseca. 145. Obiic. 1° Deus vult alia a se propter
Bonitatera uam. Atqui Deus Bonitatem suam necessario vult. Ergo )eus necessario
vult alia a se. 146. Resp. Disl. mai., ita tamen, ut sine illis Bonitas ua esse
possit, conc. mai., ita ut sine illis esse non pos- it, neg. mai.; conc. min.
Neg. cons. Licet Deus ex ne- essitate velit Bonitatem suam, non tamen ex
necessitate ult ea, quæ vult propter Bonitatem suam; quia Bonitas lius potcst
esse sine aliis . Id ex eo magis perspicuum t, quod Deus non agit propter suam
Bonitatem, quasi ppetens quod non habet, sed quasi volens communicare uod
habet; quia agit non ex appetitu finis, sed ex amore nis . 147. Obiic. 2° In
Deo intellectus, et voluntas non diinguuntur. Ergo sicut Deus quidquid
intelligit, necesirio intelligit, ita quidquid vult, necessario vult. 148.
Resp. Dist. ant., si considerentur in ipso Deo, mc.ant.y si considerentur
relata ad res, neg.ant. Neg. cons., paritatem. Hanc obiectionem s. Thomas iam
sibi pro)suit, et iuculenter confutavit. Porro sanctus Doctor adMftit,
intelligere, et velle non distingui inler se, si conderentur in Deo, quippe
quod, prout in Deo sunt, unum, emquc sunt cum Essentia Divina; sed si relata ad
res msiderentur, unum ab allero distingui. Etenim, quoniam >gnitio, ut sæpe
diximus, in ipso subiecto cognoscente ta perficitur, pcrspicuum est res a Deo
sciri, prout ipsæ Eo sunt; atqui quidquid in Deo est, ab Eius Essentia aliter
non distinguitur; crgo res, prout a Deo sciuntur, i Essentia Dei non
discriminantur. Unde Divinum scire em est, ac Divinum Esse. E contrario, res,
prout a Deo litæ sunt, idem non sunt, ac Divinum Esse; nam volun s Dei ad res
refertur, prout hæ sunt in seipsis; res autera, out sunt in seipsis, ab
Essentia Dei realiter distinguun r. Ex quo facile conficilur Deum non velle
res, quæ tra se sunt, eadem necessitate, cjua illas scit, quia quid jiid est
unum cum Essentia Dei, est absolule necessa |iim, sed quidquid existit extra
Deum, non est absolule 'cessarium 3. :! S.
Thom., I, q. XIX, a. 3 ad 2. 2 Qq. dispp., De Pot., q. III, a. 15 ad 14.
Dicendum, quod sicut Divinum Esse in se est necessarium, ita . Obiic. 3° Cousinus: Deus est
causa absoluta. Erg non potest non producere res extra se. 150. Resp. Neg.
cons. Re quidem vera ex notione causær actio Dei non est aliud ab Eius
potentia, sed utrumjue est Essentia Divina '. Ex quo illud etiam consequiur, Divinam
Potentiam esse quidem principium effectuum, fui per ipsam producuntur, non vero
principium actiolis, qua res producuntur; nam actionis, quæ ipsa Divina
ISssentia est, nullum principium esse potest . Potentia Dei est infinita.
Probatur. Unumquodque, secundum quod est actu, et erfectum, secundum hoc cst
principium activum aliuius 8. Quapropter unumquodque tantum abundat in irtute
agendi, quantum est in actu . Atqui Deus est ctus infinitus. Ergo. 154.
Præterea, in omnibus agentibus hoc invenitur, uod, quanlo aliquod agens
perfectius habet formam, qua git, tanto est maior eius potentia in agendo.
Sicut quanto st aliquid magis calidum, tanto habet maiorem potentiam d
caIefaciendum...Unde, cum ipsa essentia Divina, per uam Deus agit, sit
infinita; sequitur, quod Eius potentia it infinita b . Exinde sequitur Dei
Potentiam ad omnia, uæ sunt absolute possibilia, producenda parem esse.
iuilibet enim potentiæ aclivæ respondet velut obiectum roprium quoddam
possibilis genus; sicut potentia calefahva refertur^ ut ad proprium obiectum,
ad esse calefactiile; Divinæ igitur potentiæ, quæ est infinita, respondeat
ecesse est obieclum, quod omne genus excedit, seu quiduid ralionem entis habere
potest. Atqui huiusmodi est uodcumque est
absolute possibile. Ergo Divina Potentia d omnia, quæ sunt absolute possibilia,
extenditur8. 1 Ibid. ad 2. Cf locum s. Ansclmi cit. p. 343, not. 3. Qua in 5 s.
Thomas monet non oportere quod potentia Dei semper sit conmcta effectui, sicut
nec quod creaturæ fuerint ab æterno; siquim Potentia Dci semper est coniuncta
actui, idest operationi: m operatio est Divina Essentia: sed effectus sequuntor
secundum nperiiun voluntatis, et ordinem Sapientiæ ; Qq. dispv. De Pot. • I, a.
1 ad 8. I, loc. cit. ad 3. 3 I, q. cit., a. 1 c. Qq. dispp., loc. cit., a. 2 c.
I, q. cit., a. 2 c. 6 Ibid., a. 3 c. Exinde perspicitur magno in errore versari
Abælar um, ahosque, qui, ut in Cosmologia (c. VIII, a. 1, p. 179, not. 1, et •
180, not. 2) adnotavimus, Deum non potuisse alia eflicere, quam uæ fecit, nec
plura his, quæ fecit, blaterant. Sane omnis virtus errecta ad ea omnia
porrigitur, circa quæ proprius eius effectus . Diximus ad ea, quæ sunt absolute
possibilia; na ea, quæ sunt absolute, sive intrinsecus impossibilia, ad D vinæ
Omnipotentiæ obiectum non pertinent. En quomod ad hanc rem s. Thomas argumentatur : Hoc, quod
e affirmationem, et negationem esse simul, rationem ent habere non potest, nec
etiam non entis; quia esse toil non esse, et non esse tollit esse: unde nec
principalite nec ex consequenti potest esse terminus alicuius potenth activæ
.... Cum Deus sit actus maxime, et principa 1 versatur; sicut perfectus artifex
ea omnia potest efficere, quæ su, artis propria sunt Est autem Virtus Divina
infinite perfecta, atqi proprius Eius effectus est quidquid habet rationem
entis. Igitur dictis (p. 353 not. 4), non est aliud, quam ipsa Essentia Divn De
attributis Dei relativis 157. Iam diximus ' allributa Dei relativa ea esse, quæ
iliquam relationem ad crcaturas involvunt, ita nempe, ut reaturæ referantur ad
ipsum Deum, sed in Deo non sit diqua relatio Eius ad creaturas, sed secundum
rationem antum, in quanlum creaturæ referuntur ad lpsum2. Ea, [uac ad buiusmodi
attribula scitu necessaria sunt, ad reationem, conservationem, concursum, et
Providenliam ediguntur. I. Quomodo Deus causa mundi sit, explicatur 158. Causa, qucmadmodum in Ontologia statuimus, in
fficienlcm, materialem, cxemplarem, et finalem distinguiur. Iam Deum csse
causam effcctricem mundi, atque illi ier crcationcm cxistcntiam largitum esse
iam planum in ^osmologia b fecimus. 159. Deum aulem neque esse, nequc unquam
concipi ossc causam materialem, aut formalem mundi cx eo, uod Ipse est causa
effectrix mundi, manifeste evincitur! iara causa effectrix saltera numero a re,
quam efficit, ditinguatur oportet ., quia aliquid esse causam efficientem in
lpsius repugnat5. Ex. gr., si bomo gignit bominem, erte alius est homo, qui
gignit, alius vero, qui gignitur. >ncepta a Divino Intellectu, ut imitabilis
ad extra; 3° Interna reim possibilitas, præcisa rcali existentia, habet esse
ideale, et in oc ordinc habet esse obiective verum: atqui esse ideale est'ab
inillcctu, ct in intellectu; atque res denominantur veræ a veritate itellectus,
unde si nullus intellectus esset æternus, nulla veritas itet æterna (I, q. XVI,
a. 7 c). 4° Si possibilium fundamentum, • ratio a Divina Natura nullo modo
penderet, Deus in possibilium )gnitione a re sibi extrinscca, ct a sc prorsus
independente pcr^eretur; id quod maxime repugnat. 328 sq. -^Cfl, q. XIII, a. 7
c. a Cap. VII, a. 1, p. 165 sqq. David de Dinando, ut est apud s. Thomam,
stultissime di\it: Deum csse materiam primam (I, q. III, a. 8 c), seu causam
atenalcm mundi. Almaricus autcm Carnotensis, Dcum, ut est ?ud euindem s. Thomam
(ibid.), esse principium formale omum rerum effutivit. 5 Cf Ontol., c. IX, a.
6, p. 70, not. 2. Atqui causa materialis, et formalis, quippe quæ essentiam rei
effectæ constituunt, unum, idemque cum ipsa sunt Ergo Deus, cum sit causa
effectrix mundi, causa materialis, aut formalis eius esse nequit . Contra ea,
quoniam Deus est causa cffectrix mundi, consequitur Eum essei quoque causam
exemplarem1; quippe quod, cum Deus sit causa effectrix mundi infinite
intelligens, res mundanas e nihilo condere non potuit, nisi secundum ideas, seu
exemplaria illarum, quæ in se habuit 3. Itaque explicanduncj superest, quomodo Deus causa finalis
mundi dicendus sit.i 160. Deus,
cum infinita Sapientia polleat, finem aliqueirj in mundi creatione operi suo
præstituere debuit; secusi illud temere, et insipienter confecissct 4. Porro
quæstionis huius, cur Deus voluit mundum creare? duplex sensus esse potest: 1°
quænam fucrit ratio ipsius actionis Dei;i 2° ad quem finem Deus suum
ordinaverit opus s. Vid. s. Thom., I, loc. cit., Contr. Gent., lib. II, c. 17, et 26
Pluribus afferendis abstinemus; errores enim Davidis de Dinando et Almarici
Carnotensis pantheismum omnino redolent, de quo in postremo capite agendum
nobis erit. 2 I, q. XLIV, a. 3 c. s Hino antiqui Patres discrimen inter mundum
intelligibilem, qu in Intellectu Dei ab æterno est, et mundum aspectabilem, seu
sen\ sibilem, quem Deus ad mundi intelligibilis instar in tempore conJ didit,
accurate adnotarunt. Vid. præ ceteris
Clem. Alex., Strom. lib. IV, c. 14 ; s. Iustin., Cohort. ad Gent, n. 30;
Origen., Ho mil. III in Cantic; Euseb., Fræp. Evang., c. 23-25. Quis, s.
Augustinus inquit, audeat dicere Deum irrationabi liter omnia condidisse ? Qq.
LXXXIII, q. 46. Investigatio finis, ol quem mundus a Deo creatus sit,
temeraria, quemadmodum Iul Simon (La religion naturelle, part. 2, c. I, p. 128,
ed. cit.) con tendit, haud est. Etenim, docente Aquinate, cum finis respondea
principio, non potest fieri ut, principio cognito, quid sit rerun finis
ignoretur ; I, q. CIII, a. 2 c. 3 In harum quæstionum solutione hæc præ oculis
habenda sunt 1° Cum actio Divina sit Essentia Eius, non quæritur ex hac parte
fi nis eius,sedex parte illa, qua effectum creaturæ communicat{Inlib. Sent.,
Dist. I, q. II, a. 1 ad 4). 2° Ex eo, quod Voluntatem Dei J causa extranea
determinari repugnat, negandum non est cum Clar keo (Lettres etc, 3e Repl., §
2), Deum ex aliqua ratione res extr; se producere; siquidem Voluntas Dei
rationabilis est, non quo uuæ suntadfinem,ordinariin !'•,m Crg0^0C. CSSC
propter hoc' sed non ProPter uoe vult c , Ibid., c. Cf Contr. Gtmt., lih. I, c. 87. Ex cuius
(Divinæ Bonitatis) amore est, quod Deus Eam com "pagr.e3V58. ^ Qq' diSPP''
D§ P°L' q Il}' a' 1B ad U' IDe(;lT'r^^Gen^ lib h C' 93 Ihidem ^' m> c' 18)
ait etia^,"'.qnU1 est Pnmum agens omnium rerum, non sic agit quasi .
act.one ahquid acquirat, sed quasi sua actione aliquid largia n ?n,a n°n C9rl ^
P°tentia' ut aliu-Uid acquirere possit, sed so|Q In actu perfecto, ex quo
potest aliquid elargiri . Philob. Cbrist. Compend. II.7 q Deum esse demonstrat:
Finis non nisi in bono consistenj potest; et sicuti finis particularis rei est
quoddam bonunl particulare,ita finis universalis rerum omnium est quoal dam
bonum universale. Atqui bonum umversale est, quni est per se, et per suam
essentiam bonum; huiusmodi autenl bonum aliquid ex iis, quæ mundum constituunt,
ess>| nequit; siquidem in tota universitate creaturarum nuUur.l est bonum,
quod non sil particulare, sive partxcxpatiye bcl num Ergo illud bonum, quod est
finis totius umversj oportet, quod sit extrinsecum a toto universo , nempj Deus
Insuper finis inter alias causas primatumobtinet atque finis posterior est
causa, quod præcedens finis interi datur, ut finis; non enim movetur aliquid in
finem prox\ mum, nisi propter finem postremum. Exinde consequitiil ultimum
finem esse primam omnium causam. Atqui pnmi omnium causa est Deus. Ergo Deus
est ultimus ominuii 163! lamvero creaturæ irrationates ad Deum ordinantxl ut in
finem per viam assimilationis tantum, nempe, I auantum participant aliquid de
Dei simihtudine ; creaturai autem rationales super hoc habent, ut ad ipsum
Deumci qnoscendum, et amandum sua operatione pertingant . Hii intellieitur cur
finis huic rerum universitati prætixus esi dicatur Divinarum Perfectionum
manifestatio, ex qua e.j trinseca gloria Dei exurgit 5. Etenim res mundanæ, cu
in eo, quod sunt, et in eo, quod agunt, aliquam, simi.1 tudinem Dei pro modulo
suo participent, præstantiam s Opificis veluti impresso vestigio naturahter
exhibent, I mnesque simul sua varietate, et apta dispositione bapiel tiam,
Pulcritudinem, Bonitatem, ahasque Divinas pern i I q. GIII, a. 2 c. Gf Cosmol.,
c. VI, a. 3, p. 156. etor.Tood Sr Pronrl e 16, v 4: Universa ^ H ipsum operatus
est Deus; et Apocayp., c. ult. v.ld 9° alpha, et omega, primus, et novisstmus
P™"P1™"^ : t rtn rf.:o De Ver.. q. V, a. 6 ad 4, el q. XX, a. ; Contr. Gent. lib.
III, c. "• Dicitur gloria externa, ut a gloria tnterna Dei distingua quæ
in notitia, et dilectione sui ipsius consistit. btiones pandunt. Creaturæ autem
rationales non solum in ] ;ui excellcntia et pulcritudine excellentiam
pulcritudilemque Gonditoris manifestant, sed etiam, cum facultalbus
cognoscendi, et amandi Deum polleant, Eius perfe:tiones laudare, Eiusque
potentiæ se Iibere subiicere telentur, atque ita pertingunt ad lpsum per suam
operatiolem, bealitudinemquc asscquuntur 4. 164. Atque hinc patet quantopere
sit a vero aliena senfi entia Kantu, Arhensii, aliorumque asserentium Deum
®\\reasse hominem propter hominem, cetera omnia non nisi " Topter hominem
facta esse. Creaturæ enim homine infelores, etsi ad eius utililatem quadam
ratione ordinatæ mt, tamen ad Dei gloriam manifestandam tendunt, tamuam ad
ultimum suum finem, quem tum immediatey tum %ediate attmgunt. lmmediate quidem,
quia ex ipsa sui atura sapicntiam, bonitatem etc. Divini Opificis palam aciunt,
et in semetipsis, tamquam in speculo, quædam Hvinorum atlnbulorum veluti
vestigia expressa gerunt; lediate, quia homini inserviendo concurrunt ad eamdem
hvinorum attnbulorum manifestationem, quam homo raone, et Iibertate præditus
peculiariter præstare debet . Aht. II. — De Divina rerum conservatione 165.
Actio Divina, qua fit, ut creaturæ in existentia erdurcnt, Lonservatio Divina
nuncupatur. Qq. dispp., De Ver.,
q. y, loc. cit. Audiatur s. Bonaventura: Est notandum, quod finis, ad quem s
ordmantur, duplex est. Quidam enim est finis principalis, et ulmus; qmdam est
finis sub tine. Si primo modo loquimur de fine sic noium creaturarum tam rationalium,
quam irrationalium finis' est eus, qU,a omnia propter semetipsum creavit
Altissimus, omnia enim cit ad laudem suæ Bonitatis. Si autem loquamur de fine
non prinpali, qui est finis quodammodo, et finis sub fine, omnia sensibilia
latacta sunt propter hominem. Et hoc insinuat Philosophus, cum cit: Sumus finis
nos quodammodo omnium eorum, quæ sunt. Insiiat et.am Scr.ptura multo
excellentius, cum dicit: Faciamus homim ad imaginem, et similitudinem nostram,
et præsit piscibus ma etc. Qu.a ennn homo rationis capax est, ideo habct
libertatem nurii, et natus est piscibus dominari. Quia vero pcr similitudim
_natus est in Dcum tendere immediate, ideo o.nnes creaturæ ^ationales ad .psum
ordinantur, ut mcdiante ipso in finem ultium perducantur,>; In lib. II Sent.,
Dist. XV, a. 11 q. I resol. etiam s. Thom., 2^ 2, Crealuræ omnes Divina
conservatione indigent j ut esse pergant. Probatur. Si ponas ens quodpiam a Deo non con
servari, hoc ipso ponis non omnia omnino pendere a Deo Atqui id cum Dei
perfectione aperte pugnat. Ergo. 2 iam ad ipsa entia finita mentem convertas,
ultro hoc yi debis. Ipsa enim sunt contingentia : quod autem contin gens est,
huiusmodi est pro quocumque momento tem poris. Ergo, quemadmodum creaturæ,
ulpote continger tes, non vi naturæ suæ existere coeperunt, aut mciper
potuerunt, sed vi actionis Divinæ ; lta nec vi natura suæ permanent, aut
permanere possunt m existentia, se vi ipsius Divinæ actionis. 167. At quamquam
philosophi in hoc conveniant, quo nempe creaturæ Divina ope servantur,
dissentiunt tame in explicanda ratione, qua eiusmodi conservatio perficii tur
Alii enim conservationcm directam, et positivam; ali inter quos Crousatius ,
Bayleus z, et Galluppius 3, ind> rectam tantum, et negativam propugnant.
Conservatio rf. recta, et positiva ita explicatur, ut Deus lugi quodam 1 fluxu
res conditas in existentia retineat. Conservatio aii tem indirecta, et negaliva
in eo tantum consistit, quod re postquam e nihilo conditæ sunt, propna virtute
sua continuant existentiam, atque a Deo eatenus pendent, qu' tenus Ipse eas non
destruit. Quapropter, posita
consei vatione directa, res in nihilum abirent, statim ac ab e. influxus Divinæ
actionis cessaret. E contrario, si
tantu indirecta conservatio agnosci velit, ad rerum annihilati nem positivus
actus Divinæ Voluntatis requintur. 168. Admittenda est conservatio dirtcta, et
posihv Probatur. 1° Argumenta, qua creaturas, ut existere pe gant, Divina
conservatione indigere demonstrant, conse °luo quidem nil absurdius effingi
potest |i Denique omnes Ecclesiæ Patres, atque Theoloffi in iii ostram
sententiam concedunt. Satis sint hæc s. Auffutini verba: Creatoris potentia, et
omnipotentis, ataue mnitenentis virtus causa subsistendi est omni creaturæ uæ
virtus ab eis, quæ creata sunt, regendis si aliquando essaret, simul et illorum
cessaret species, omnisque nalra concideret 2 . Immo s. Anselmus adeo hanc
veritaim persp.cuam esse docet, ut nullum de ea dubium ocurrere queat. Dubium,
ait, non nisi irrationabili menti ise potest, quod cuncta, quæ facta sunt,
eodem ipso suinente, vigent, et perseverant esse, quamdiu sunt, quo iciente, de
nihilo habent esse, quod sunt 3 . • I, q. CIV, a. 1 c. Gf Ibid., q. , a. 1 c.
Fusius s. Bona^ntura: Quia creatura est, et accipit esse ab alio, qui eam fecit
se, cum pnus non esset, ex hoc non est suum esse, et ideo non t purus actus;
quia habet possibilitatem, et ratione huius habet ixibilitatem, et
variabilitatem, ideo caret stabilitate, et ideo non •test esse, nisi per
præsentiam Eius, qui dedit ei esse. Et exemam huius apertum est in impressione
formæ sigilli in aaua ^æ non conservatur ad momentum, nisi præsente sigillo. Et
item, quia creatura de nihilo producta est ideo habet vanitatem qu.a nihil
vanum in seipso fulcitur, necesse est, quod omnis satura sustentetur per
præsentiam virtutis; et est simile, si quis [neret corpus ponderosum in ære,
quod est quasi vanum, si non stentaretur; sic et in proposito ; In lib. I Sent., Dist. I, a. 1, q. 1
resol. 1 De Gen. ad litt., lib. IV, c. 12, n. 22. Gf ibid., lib. VIII c. 12 De Civ. Dei,
Iib. XXII, c. 44. ' ' Monol., c. 13. Doctrinam hanc sic tradit Gatechismus
Goncilii Ad maiorem rei perspicuitatem duo hic sunt ad notanda1° Conservatio
rerum a Deo non est per ali quam novam actionem, sed per continuationem
actionw, q-ua dat esse . Eadem nempe actione, qua Deus dedif 2reaturis esse,
cum eas produxit, conservat illas in ess quod causæ secundæ non ipsum esse, sed
tantum qut Tridentini : Quemadmodum omnia, ut essent\ Creatoris sxaM potestate,
sapientia et bonitate eflfectum est; ita etiam, nisi, con tis rebus perpetua
Eius Providentia adesset, atque eadem >i, q ab initio constitutæ sunt, illas
conservaret, statim a [™™u™ ciderent; atque id Scriptura declarat, curo inquit:
Quomodoaw posset aliquid permanere, nisi Tu volmsses ? Pars 1, n. 2 Deus eadem virtute, qua esse rebus
tribuit, eas in i esse p prio conservat. Unde non magis ostendit Divinam
Potentiam i ductio creaturarum, quam earum conservatio ; ln no. Dist. XV, q.
III, a. 3 ad 5. iam modos producunt ; Deus autem ipsum esse largitur :reaturis,
quæ proinde a Deo dependent, non solum ut aant, sed ut permancant in esse, quod
acceperunt. In ioc autem Deus est causa perfectissima, et efficacissima, juia
Ipse solus est a se; cetera vero sine Ipso esse non 30ssunt. Quælibet res naturalis
tendit ad esse. Ergo potest naturaliter conservari in esse, ideoque Divilæ
actionis influxu non indiget. | 173. Paucis sic respondet s. Thomas: Licet
quælibet pes naturaliter appetat sui conservationem, non tamen quod l se
conservetur, sed a sua causa 2 . De concursu Divino, dependentia creaturarum in
agendo ab actu Divilæ Voluntatis concursum Divinum constituit, qui pronde
definiri potest : Aclus Divinæ voluntatis efficienter 3 nfluens in creaturarum
actiones, quæ acl ordinem naturæm 4 spectant. 175. Distinguitur autem hic
concursus in mediatum, atue immediatum. Mediatus in eo tantum consistit, quod
)eus vires, quibus creaturæ agunt, conservet; immediaus in eo, quod Deus, ut
causa prima, cum ipsa creatura operante, ut causa secunda, operetur, atque
eumdem efectum cum illa producat; sive existentiam effectus sua t ipse Deus
actione immediatc attingit ; ex quo fit, ut oncursus immediatus etiam
simultaneus in scholis dici oleat. P Cf s. Thom., In lib. I Sent.t Dist, q. I, a. 1 sol.
et ad 3. (inc s. Augustinus aiebat: Neque enim, sicut structor ædium cum
labricaverit, abscedit, atque illo cessante, atque abscedente, stat opus ius;
ita mundus vel ictu oculi stare poterit, si ei Deus regimen sui |ubtraxerit ;
De Gen. ad litt., lib. IV, c. 12, n. 22. Qq. dispp., De Pot., q. V, a. 1 ad 13. 3 Diximus
efficienter, ut intelligatur concursum, de quo hic Jouimur, esse physicum, seu
huiusmodi, ut Deus per modum agentis i actiones creaturarum influat. Qui quidem
concursus ab illo, qui lcitur moralis, et in alliciendo, consulendo,
adhortando, terrendo onsistit, apprime distinguitur. Diximus ad ordinem
naturalem, quia supernaturales actus creaararum speciali, et supcrnaturali
auxilio, quod qratia dicitur, exostulant. u i Quoad concursum mediatum, quin
sit creaturis ad singulos actus necessarius, nemo est, qui dubitet. Quare
inquirendum nobis est, utrum, nec ne concursu simultaneo creaturæ, ut agant,
indigeant. Immediato Dei concursu creaturæ indigent ad singulas suas actiones.
Probatur contra Durandum,qui Deum existimavit non nisi mediate cum creaturis
agere, quatenus scilicet operandi facultatem iis a primo ortu concessit, et
iugiteii conservat : 1° Quidquid babet rationem entis, Deum habet immediatum
auctorem; cum enim Deus sit primum Ensi Ipse est, qui omnibus principaliter dat
esse. Atqui quihbet effectus creaturarum habet rationem entis. Ergo oportetJ ut
creaturarum effectus immediate pendeant a Deo. Præ ctus est. Ergo creaturæ, dum
agunt, effectum propriuir Dei aliquo modo attingunt. Atqui causa, quæ effecturr
proprium alterius excellentioris causæ producit, non nis: per eius influxum
agit. Ergo . 2° Effectus immediate dependet ab eo, per cuius actio-i nem
existit; quapropter si effectus causæ creatæ imme^ diate ab ipsa creatura, et
tantum mediate a Deo pendereti ipse magis a creatura, quæ est causa secunda,
quam i Deo, qui est Causa Prima, penderet. Atqui id absurduir est. Ergo. Hoc
argumentum ex eo maius accipit robur • quod ceum agere cum creatura, ita ut eam
adiuvando comiitur dumtaxat, non præveniat. Isti autem arbitrantur 'eum non
solum adiuvare creaturara inter agendum, sed tiam ipsam ad actum efjicienter
præmovere . Quare se cercet operationom; constat tunc quod C exercet
operationem per ^rtutem suam; et quod per virtutem suam hoc possit, hoc est per
rtutem B, et ulterius, per virtutem A. Unde si quæratur, quare C Jeratur,
respondetur per virtutem suam, et quare per virtutem lam ? propter virtutem B;
et sic quousque reducatur in virtutem ausæ Primæ . Cf etiam Con(r. Gent., lib.
III, o. 70. Et alibi: Si consideremus supposita agentia, quodlibet agens
particulare est imediatum ad suum effectum. Si autem consideremus virtutem, ia
fit actio, sic virtus superioris causæ erit immediatior effectui, iam virtus
inferioris; nam virtus inferior non coniungitur effectui, si per virtutem
superioris ; Qq. dispp., De Pot., loc. cit. J Contr. Gent., Jib. III, c. 70 cit. 2 r, q. IV, a. 5
ad 2. 1 Contr. Gent., ibid. Cf Ontol., c. IX, a. 7, p. 71 sqq. Hinc concursus
prævius nomine promotionis physicæ etiam apJllari solet. Eius notionem
perspicuis his verbis tradidit Goudinus: Pnysica pracmotio, sive
prædeterminatio est induxus Causæ Pri cundum hos Philosophos Deus non solum
dedit, et conservat activas virtutes causarum secundarum, et simultanee cum
illis concurrit ad producendos effectus, sed etiam eas ad agendum physice
applicat, seu movet. Quæstionem huiusmodi hic pertractare nequaquam va cat.
lllud tantum ostendendum nobis est, concursu Di vino, quacumque ratione
explicetur, libertatem nostrarun actionum nequaquam adimi, sed potius
confirmari. Sane admisso concursu dumtaxat simultaneo, res manifesta est
Etenim, secundum huius concursus propugnatores, Deui causis liberis concursum
indifferentem exhibet, quo nemp narum distributionem non admiltere,
æternitatemque mundi, et. qui ab ipsa oritur, fatalismum traderet. Cf de Margerie, Essai su„ la
philosophie de saint Bonav., c. 2, p. 40-49, Paris 1855. Sed donum ordinis in
rebus creatis existens a Deo creatum est. ktqui Deus est causa rerum per suum
intellectum, ac >roinde oportet in Ipso rationem cuiuslibet sui effectus
•ræexistere. Ergo necesse est, ut ratio ordinis rerum
in nem in Mente Divina præexistat B. 181. 2a. Admittenda est Divina
Providentia, prout æc rerum gubernationem significat. Probalur. Quicumque facit
aliquid propter finem, litur illo ad fincm. Oslensum est autem quod omnia,
uæ babent esse quocumque modo, sunt effectus Dei; et uod Deus omnia facit
propter finem, qui est ipse. Ipse ^itur utitur omnibus, dirigendo ea in finem.
Hoc autem st gubernare. Est igitur Deus per suam Providentiam mnium gubernalor
6 . 182. Aliud argumentum ex Bonitate, et Sapientia Dei etitur, atque ita a s.
Damasceno exhibetur: Natura bous est ct sapiens (Deus). Igilur, quatenus est
bonus, proidet. Qui enim non providet, non esfc bonus. Nam et ho)ines,ctbcstiæ
propriorum foetuum providentiam habent, se in mundo quamdam genetricem, seu
procreatricem naturam, aæ Deo ad singulas res corporeas efficiendas,
gubernandasque, mquam instrumentum, inservit. Cf Dissert. ad cap. II System. tell., De natura
genetrice, 1-4. 1 Ili in quorumdam veterum, quorum meminit s. Thomas (I, q.
XXII, 2), sententiam iverunt. 2 Deistæ dicuntur qui omnem Religionem
supernaturalem, veluti Smentum Pontificum, aut Principum respuunt, aliaque
capitalia sius Religionis naturalis dogmata impugnant. Varias deismi foras exposuit
Samuel Clarke in suo opere, Traite" da V existence des attributs de Dieu. Cf Cosmol., c. VI, a. 6, p.
152, not. 1. Cf ibid., not. 4. 5 Cf
I, q. XXII, a. 1 c. e Contr. Gent., lib. III, c 64. naturali quodam instinctu ; et qui non
providet, vituperari solet. Quatenus autem sapiens est, optime prospicit . Id,
quod ex ipsa Dei natura demonstravimus, es constanti rerum ordine, earumque
stahili in suis agendij motibus harmonia, atque consensu confirmatur. Profectc
omnes res ad suos ordinantur fines, atque inter eas extai nexus plane
mirabilis, ita ut una alteri inserviat, et es omnibus apte connexis consurgat
Universi pulcritudo. At qui ex hac
rerum ordinatione, sive dispositione Divim Providentia ostenditur \ Ergo 8.
184. Idipsum ex perpetua, atque manifesta omnium gen tium consensione
evincitur. Homines, ait Nemesius, ne cessitate aliqua compulsi statim ad Numen
divinum, i preces confugiunt, velut natura eos ad Dei opem perduj cente. In
repentinis perturbationibus, et timoribusj sine electione, neque deliberate,
Dei Numen invocamus Quidquid autem naturaliter quamque rem insequitur, 1 eo
tanta vis est ad demonstrandum, ut contradici nihi possit. Denique, sublata Dei
Providentia, omnis rehgii est reiicienda. Quis bonos, ait Lactantius, deberi pc
test nihil curanti, et ingrato ? An aliqua ratione obstricl esse possumus Ei,
qui nihil habeat commune nobiscum? b i De Fide orth., lib. II, c. 29. Eadem ratione
argumentatur s. Th( mas: Non convenit summæDei Bonitati, quod res productas ad
pei fectum non perducat. Ultima autem perfectio est uniuscuiusque in cor
secutionefinis. Unde ad divinam Bonitatem pertinet, ut, sicut prodi xit res in
esse, ita etiam eas ad finem perducat, quod est gubernare > I, q. CIII, a. 1
c. Hinc Lactantius contra Epicurum rem agens, ii quit: Si est Deus, utique
providens est, ut Deus; nec aliter Ei potei Divinitas attribui, nisi et
præterita teneat, et præsentia sciat, et fi tura prospiciat. Cum igitur
Providentiam sustulit {L’ORTO), etiai Deum negavit esse. Cum autem Deum esse
professus est, et Prov dentiam simul esse concessit. Alterum enim sine altero
nec ess prorsus, nec intelligi potest ; De ira Dei, c. 9. Ipse ordo certus
rerum manifeste demonstrat gubernationei mundi; sicut, si quis intraret domum
bene ordinatam, ex ipsa dotest; aut providendo fatigatur ? Nihil profecto minus; )eus enim
est infinite omnipotens, atque simplici volunatis nutu omnia peragit. Neque
dici potest, nolle Eum es gubernare, aut res creatas incapaces esse
gubernatiojs. Nam Dei voluntas est omnis boni, cum sit ipsa boltas; bonum autem
eorum, quæ gubernantur, in orine gubernationis maxime consistit 3 . Non sunt
aulem es creatæ incapaces gubernationis; reipsa enim ordinanur ad invicem,
earumque multæ gubernantur etiam huiianæ rationis induslria. Nulla igitur, concludimus cum ^usebio, mundi
Particula Dei Providentiam effugit . 188. Observandum autem est singulas res
diversimode us, non præsidet rebus humanis, nihil cst dc rcIii?ione satagenum .
(De util. credendi, c. 16, n. 34). Enimvero, si, inquit Sallanus, negligit Deus
in hoc sæculo genus humanum, cur ad Coeim quotidic manus tendimus ? Cur ad
altaria supplicamus ? De ubern. Dei, lib. I. i Ibid., c. 8, et 12. 1 I, q.
CIII, a. 5 c. Eadem ratione ita argumentatur s. Ambrous: Quis operator negligat
operis sui curam? Quis deserat et deituat, quod ipse condendum putavit ? Si
iniuria est regere, non est '( iaior iniuria fecisse ? cum aiiquid non fccisse
nulla iniustitia sit, non Iprare quod feceris, summa inclementia ; De ofRc.
lib. I, c. 13. 8 Contr. Gent., Iib. III, c. 75. ! De præp. Ev., lib. XII, c,
28.gubernari a Deo, secundum earum diversitatem. Hinc crealuræ rationales, cum
sint per se agentes, tamquam habentes dominium sui actus, peculiari quodam modo
a Dec gubernantur, nempe ab Eo inducuntur ad bonum, e retrahuntur a malo per
præcepta, et prohibitiones, præ mia, et poenas. Hoc autem modo non gubernantur
a Dec, creaturæ irrationales, quæ tantum aguntur, et non a gunt . 189. Obiic. 2
1° Manifestum experientia est impios pro speram in hoc mundo vitam agere, e
contrario iustos in^ numeris affligi calamitatibus. Atqui id repugnat Divina
Providentiæ, quæ profecto iusta esse deberel. Ergo • 190. Resp. Transeat maior;
neg. min. Neg. cons. Dixi mus, transeat maior; tum quia non semper fit, ut boni
ii^ ærumnis, impii vero in prosperitate versentur; tum qui1 falsum est lætos
florere impios, dum suis deliciis, a corporeis voluptatibus fruuntur, et vexari
pios, dum mi seriis affliguntur; potius enim illi perpetuis conscientia
stimulis, et curis dilacerantur ; hi vero in suis miserii, maxima voluptate
perfruuntur. Ceterum ex eo, quod mal in bonos, et bona in malos proveniant,
tantum abest, u vel iniustitiæ accusari Deus possit, vel lUius negari Pro(
videntia, quin potius et summe iustus, et maxime prc vidus hinc Deus ipse
appareat . Exinde enim ostenditu Providentiam Divinam etiam ultra huius vitæ
termino protendi, ita ut Deus utrisque, sive bunis, sive malis, i vita altera
pro meritis vel præmia vel poenas imperti? tur 5. Quoniam vero nullus est tam
bonus, qui non ali quando delinquat, neque tam malus, qui aliquod bonur i I, q.
CIII, a. 5 ad 2. Hac
significatione, ut idem sanctus Dt nfi. 'ec omittendum f.uod Do Tmnin n! 'S
•bc?set '•' s bonorum a Deo receDt0r„™ ?™.M ? Permmi° t ^emplo ad meCm
t^Zrtnwtor -T^ ^0? m ios, ut in virlutum exerrllin fw r' Vexan autem |m.xt,0
semper ordinatur ad id, ouod est nrr \o h mis bonum Muuu est per se ho
iDf.NonTrefer.lnr .",(£,' "! 1U"V'' .' 1 cn ^'^.?tfsr.issa°rs
Humiliter cogitantes, quamvis ]onp ihsin. . f • osis atque impiis tamen nn„ .
aDsnu a facinoros s, /la os, ntq nec tem or a pro e.s 2' "de° "
" UC,ictis •! !-.c. 9. Et c. 8, !.TarT. ni ^ '"a P,CrDetl se iudint
dignos ; lrum bona 'ustis ou >,,, 'n„ 'rnaC ProTd> præparare i„ non
excrSbuStnr b„M " frUCntUr inius,i'et ""'• "!
^''"riVo^"^^; °mnibus eas ("• -) P„aos r '°C C"~ ' '•
qCI"' a7 8d • rHaos. Chuist. Compend. II 7 2o duorum servorum, si ad ipsos
servos referatur, casuali est,quia accidit præter utriusque intentionem; si
auten referatur ad dominum, qui hoc præordinavit, non es casuale, sed per se
intentum '. lamvero ita se res babe circa ea, quæ fortuito evenire in mundo
dicuntur; nemp, præter ordinem alicuius particularis causæ aliquis ei fectus
evenire potest, non autem præter ordinem Causa universalis. Guius ratio est,
quia præter ordinem part cularis causæ nihil provenit, nisi ex aliqua alia
caus, impediente; quam quidem causam necesse est reducere i primam causam
universalem. Sicut indigestio conting præter ordinem virtutis nutritivæ ex
aliquo impedimcatc puta ex grossitie cibi, quam necesse est reducere in i liam
causam;et sic usque ad Causam primam univers^ lem. Cum igitur Deus sit prima
Causa universahs nq unius generis tantum, sed totius entis, impossibile est
quod aliquid contingat præter ordinem Divinæ gubern^ tionis. Sed ex hoc ipso,
quod aliquid ex una parte vid. tur exire ab ordine Divinæ Providentiæ, qui
consider, tur secundum aliquam particularem causam, necesse es quod in eumdem
ordinem relabatur secundum aliam cai sam Itaque nihil fortuiti in hac rerum
universitate venit, quippe quod ea, quæ hic per accidens agunh sive in rebus
naturalibus, sive in humanis, reducunti, in aliquarn causam præordinantem, quæ
est Provident Divina 3 . . Obiic. Si Providentia Dei ad omnes, et singul
etYectus pertineat, Divinæ Yoluntati iniunosus est, q in gerendis negotiis et
suam, et aliorum curam mterp nit; qui morbo laborans sanitatem in remedns quæn,
hæc enim omnia Deo summe provido committenda sut Atqui falsum consequens. Ergo
et anlecedens. 194. Resp. Neg. mai. Et sane « Divina operatio to excludit
causas secundas4; atque « Deus unicuique \\ ordinavit actiones secundum
proprietatem suæ naturæ; quapropter « expectare a Deo subsidium, in quibus i I,
q. CXVI, a. 1 c. 2 Ibid., q. CIII, a. 7 c. ^ Ibid., q. CXVI, a. 1 c Cf s. Aug.,
Dq Civ Dei lib V c. 1. Contr. Gent., lib. III, c. 77. Quare Divina Providentia
etsi ' tingat a fine usque ad finem fortiter, tamen dispomt omma suavu diquis
potest per propriam actionem iuvare, prælermissa .ropria, aclione.est
insipientis, et Deum tentantis Hoc n.m ad Div.nam Bon.latem pertinet, ut rebus
provideat lon immed.ate omn.a faciendo, sed alia movendo ad I nromas actiones.
Non est igilur expectandum a Deo ut onm act.one propria, qua sibi aliquis
subvenire potest ræterm.ssa, Dcus ei subveniat; hoc enim Divinæ ordiationi
repugnat, et Bonitali Ipsius «. Id unum noslulag ab co, qu Divinam Providentiam
agnosci™ ut sci t et lotum soi labons evenlum Deo commitlat, et refcra ft.nsque
voluntatera Jn omnibus animo submisso veneHur. « Hoc, subd.t idem sanctus
Doclor, disposilioni Dinæ sub.acel, qu.d cuique ex actione sua proveniat Præp.
ergo Dom.nus nos non debere esse ollicitos de eo od ad nos non pcrtinet,
scilicet de eventibus nostrarum t.onum; non aulem prohibuit nos esse solicitos
d o To-anlnOS $& scilicet de nost™ opere ». ' rte3fru '.rni-i n.A ut Pe" nos I re bant ».
Idera d.cendum de contingentil us • Deus m ipse prov.d.t, ut quacdam
necessarioD, quædara con fenter even.rent. « Quibusdam effectibus
præp«av"t assas necessar.as, ut necessario evenirent, ouibusdam ro caussas
contingentes, ut cvenirent cont »S« s£ dum cond.t.onem ; proxiraarum caussarum
^Nm, cAo urura hoD'i:n(a dCHCrC-ta; namc72 « 73. > q. XXII, a. 4 c. genter:
sequilur ergo infallibiliter quod erit contingenter. non necessano. De unitate
Dei. Refutatnr Polytheisrnus. Ex ipsa Dei nalura, huc usque secundum intelli
gentiæ noslræ angustias explicata, Ipsius unitas manife stissimc demonstralur.
Turpissimus ille error, quo plure admittuntur Dii, appellatur Polytheismus.
Deus ita unus est, ut plures esse Deos absolule r% pugnet., j Probatur primo ex
summa Eius simplicitate. Sane « u lud, unde aliquid singulare est hoc aliquid,
nullo mo& est multis cornmunicabile. E. g., illud, unde Socrate, est homo,
multis communicari potest; sed id, unde est Ai homo, non potest communicari,
nisi uni tantum ». Atqui cum Deus ex sui natura sit ipsum Esse subsistens, « ips Deus est sua
natura », ac proinde « secundum idem m Deus, et hic Deus ». Ergo, sicut si
Socrates per id esst homo, per quod est hic homo, non possent esse plurt
homines, æque ac non possent esse plures Socrates; it impossibile est plures
esse Deos. Contr. Gent. Hinc sanctus doctor monet admit, posse fatum, si eius
nomine intelligatur ipsa divina providentu, omnia, quæ fiunt in mundo, iuxta
naturam et conditionem causi rum, a quibus proveniunt, idest libera libere, et
necessaria necessario disponens. Divina providentia per causas medias suos e
fectus exequitur. Potest ergo ipsa ordinatio effectuum dupliciU considerari.
Uno modo, secundum quod est in ipso Deo; et sic ip£ ordinatio effectuum vocatur
Providentia. Secundum vero quod pra dicta ordinatio consideratur in mediis
causis a Deo ordinatis aliquos effectus producendos, sic habet rationem fati.
Sic er£ est manifestum, quod fatum est in ipsis causis creatis, in quantu sunt
ordinatæ a Deo ad aliquos effectus producendos. Nihilominus, monente eodem
sancto Doctore, non deberm hoc nomine uti, quia non convenit Catholicos habere
nomina cu paganis communia {Quodlib.). Prorsus, inquit etia. Augustinus, divina
providentia regna constituuntur humana; qui si propterea quisquam fato tribuit,
quia ipsam Dei voluntatem, t potestatem fati nomine appellat, sententiam
teneat, linguam corr gat; De Civ. Dei. Secundo demonslralur ex infinita Dei
perfectione Ens enim summe perfectum non nisi unum esse S fcqmdem si plura
essent, certo quodam discrimine inter .e d.stmguerentur; ahoquin, si eadem
prorsus natura s n rohs .Ihs communis csset, non multiplex, sed unicam ens
sumræ pcrfectum admitteretur. Iam vero illud ifferrent, imperfectio esse non
polest, quippe Tepu-naUn inte summe perfecto imperfectionem iliqwm esse Dif
errent gltur a|i &,,„ J. ™fg- ^Df Iter, non conveniret: ideo nullum ex
entibus illis nfinhe •erfeclum er.l. Itaque Ens summe perfectum num esse
potest. Deus ergo ita est sumræ unus ut om jino repugnet plures esse Deos ZZ
ST.T ^,lem 0rd,'n,ata rerum °™ uis" Mtio, et apla (ot.us mund, per leges
constantes eober o supremæ Causæ intelligentis' uni.atem man feste h.bct. S.
cnira plures hæ causæ essent, et ta.nen in 'tatem ordmis, et dispositionis
convenirent, una abal I, q. XI, a. 3 c. cit. « Neque artificem, ad rem inquit
s. Athanasius, inter homines olutum dueni sed imbecillem, si non soius,
«de.mmn.Js im opus expcdiat ; Adv. Genl., a. 38. tera penderet, nec proinde
essent Dii; si vero non con-l venirent, non existeret ordo . Errore autem
tenentur, qui polytheismum ubiquectonbus erumpit. Refutatur Manichæismus
Refellendus hic venit error turpissimus de duobus rincipns, bono altero, altero
malo; quorum illud omnium ' ? noc orbe bonorum, alterum malorum caussa sit. OpiH ionis huius absurdæ originem eruditi a Zoroastro
vetutissimo Persarum doctore repetunt. Persarum vestieiis istitere hæretici
Manichæi, ita dicti a Manete, insanisJ imæ huius sectæ auctore. In recenti
ætate Manichæoer um patrocinium Petrus Bayleus suscepit, nullumque non i lovit
lapidem, ut eam lmpietatem tot prostratam vicibus ?novaret. Statuit nempe
Manichæorum hypothesim ratiof ibus apriori absurdam demonstrari, sed a
posteriori con| deratam approbatione esse dignam 2. III! i qi ei existentiam.Hoc
adnotandum est adversus Buchnerum, qui (Force matidre, Leipzig) ex
superstitioso populorum cultu msensum pro Dei existentia non realem Entis
supremi notionem, i aliquid ab ipsis hominibus excogitatum præseferre
hlaspheat. bane, intellectus noster, apposite inquit s. Bonaventura, de:it in
cogitatione Divinæ Veritatis quantum ad cognitionem, quid t tamen non deficit
quantum ad cognitionem, si est. Ouia ergo tellectus noster numquam deficit in
cognitione Dei, si est, id?o !c potest ignorare Ipsum esse, similiter non
cogitare non esse. Jia vero dcficit in cognitione, quid est, ideo frequenter
cogitat .um esse, quod non est, sicut idolum, vel non esse, quod est, cut Deum
non lustum: et quia qui cogitat Deum non esse, quod, ut nori lustum, per
consequens cogitat Ipsum non esse, ideo Hione defectus intellectus Deus potest
cogitari non esse, non men simpliciter, sive generaliter, sed ex consequenti,
sicut qui gat heatitudinem esse in Deo, negat eam esse (In lib. I Sent., isi.
viu p. I, a. 1, q. 2 resol.). Quocirca ii, qui falsam divinitem profitentur, se
nullum Deum profiteri haud putant. Unde nparLhaCtarUn,n" ?e°rU,n cultores
^ligiosos se putant, cum sint perstitiosi ; Div. Inst.y lib. IV, c. 28. 1 Op.
cit., lib. II, c. 1. l',fiCt' J\iSt' icrit'> artL ManicMens, Marcionites,
Paulicient, gene, Xdnophon, et in Dialogis, et in Rep. d un Provincial Ut
commentum istud reiiciatur, tres propositione: demonstrandas suscipimus : la.
Dualitas principiorum a Manichæis admissc a ratione prorsus abhorret. Probatur.
Per principium summe malum vel intelligi tur ens infinite contrarium principio
bono in omni re, u tenebræ opponuntur luci; vel intelligitur principium con
sors earumdem perfectionum, excepta sola benevolentia ita ut sit quædam natura
Divinarum perfectionum par1 ticeps, sed ad malum maxime propensa. Atqui utroquf
sensu repugnat principium summe malum. Ergo. 204. Prima pars minoris ita
demonstratur: 1° Cum ma lum opponatur bono , summum malum, si re ipsa dare tur,
omne bonum tolleret. Atqui bonum convertitur cun ente. Ergo si summum malum
daretur, hoc tolleret omm ens, sive esset non ens absolute sumtum; et ideo
summuir malum non aliter concipi potest, quam veluti Nihil ab solutum. Atqui notio Nihili absoluti se
ipsam destruit, qui esset simul omne ens, et nullum ens. Ergo notio mal summi
est notio, quæ se ipsam destruit. 2° Malum, u alibi ostendimus2, in bono
fundatur, ac proinde non pot est esse omnino separatum a bono. Atqui summum ma
lum oportet esse absque consortio omnis boni. Ergo nih\ est summum malum 3. 3°
Nihil intelligi potest veluti sum mum malum, nisi quod per suam essentiam malum
est quemadmodum non aliud summum Bonum, nisi quod pel suam essentiam est bonum.
Atqui repugnat aliquid ess per essentiam suam malum, quia omne ens, prout et'
ens, est bonum. Ergo summum malum
esse repugnat. 205. Altera minoris pars demonstratur hunc in modunc Gf Ontol.,
c. V, a. 2, p. 32. s Contr. Gent., lib. III, c. 15. Cf Ontol., loc. cit., p.
34. Quæ ut magis perspicua fiant, illu monendum censemus, quod nullum est
argumentum, quo inferti^ mala, quæ in mundo sunt, ad aliquid, quod est per
essentiam sua malum, reduci, æque ac bona ad aliquid, quod est per essentiai
suam bonum. Enimvero, bona, quæ in mundo sunt, ad aliquid, quc est per suam
essentiam bonum, reducuntur, quia omnes res bom sunt ex eo, quod participes
sunt infinitæ Bonitatis Dei. At nullu ens, ut s. Thomas ait, dicitur malum per
participationem, sed p> privationem participationis. Unde non oportet fieri
reductionem s aliquid, quod sit per essentiam malum ; I, q. XLIX, a. 3 ad • j
Ens infinite perfectum nonnisi unura esse potest Enro lT n9oq^Una]l(IUa natura
Pivinarumpcrfectionumparti.eps. 2 JNulla natura attributis secum pugnanlibus
contare potest. Alqui hæc duo, naturam aliquam esse Diji.marum perJcctionum participem,
et esse simul ad ma„ um maxime propensam, sibi adversantur. Ergo. 3° Inelligi
nequit, quomodo Ens infinite perfectum possit ma?ra Pr°sequi. Etenim ens
intelligens capere mala consi-,ia non potest, nisi ex ignoratione recti, vel
utilitatis ali|ius spe Atqui ens, quod æternum, et independens, atue innnile
lntelligens adstruitur, rectum ignorare nequit l sibi suinciens nullius
utilitatis consideratione a recto re V9nrni P°lCSt' Erg0 ma,um prosequi nequit.
Mj zub. Jlaque evidentibus rationibus a priori repuffnantia .uahsmt ev.ncitur.
Quod cum ita sit, illud systema nullo joao potcst demonstrari verum a
posteriori ; sic enim iem esset, et non esset repugnans. Fallitur igitur
Bayleus, -que ral.ocinandi Ieges ipsis tyronibus perspeclas ignou, cum
dualismum falsum a priori fatetur, sed verum posteriori demonstrari
contendit.,207 Prop, 2a. Manichæorum hypothesis fini, ob quem vcogitala fuit,
adversatur, seu inepta est ad bonorum et \atorum quæ in mundo sunt, originem
explicandam. rrobatur. Duo principia, quæ Manichæi fingunt, vel >qualis sunt
virtutis, vel inæqualis. Atqui si prius, tunc que Donum, neque malum erit in
mundo, quia vires quales, el oppositæ sese mutuo eJidunt. Si vero posteus, tunc
vel unice bonum, vel unice malum obtinebit; mpe, si prævaleat principium bonum,
malum bacchari I >n sinct, nec sinere poterit; si principium malum viri
Contr. Gcnt. Cf Cosmol. Græcarum affectionum curatio, Serm. V De natura hominh
\\ 3 Ad malum morale quod attinet, ipsum inest in actione, quæ a morum regula
deficit. Causa igitur huius mali in voluntate tantum creaturæ rationalis sita
est, quæ, cum Jibera sit, et limitibus circumscripta, deficiendi capacitatem
habet, atque iibertate uti ad bonum, vel abuti ad malum potest. Malum culpæ, quod privat ordinem ad bonum Divinum,
Deus nullo modo vult ' . Et sane, malum, quod in defectu actionis consistit,
seraper causatur ex defectu agentis. In Deo autem nullus defectus est, sed
summa perfectio. Unde malum, quod in defeclu actionis consistit, vel quod ex
defectu agentis causatur, non reducitur in Deum, sicut in causam. Quin immo
malum moraie prorsus a Deo reprobari ostenditur ex eo, quod severissime illud
prohibet, et insuper notiones iusti, el iniusti hominum cordibus inscripsit, et
valida media, quibus ad bonum incitamur, et a malo abducimur, nobis largitur.
Quare neutiquam Deura velle malum morale, sed illud permittere tantum dici
debet, quatenus nempe illud non impedit, sed sinit, ut agentia ratione, ac
proinde libertate prædita pro lubitu operentur. lud autem prætermissum nolumus,
quod mala, quæ nostram vitam, comitantur, atque ipsa mors locum non habuissent,
nisi a primævo innocentiæ statu natura humana deturbata fuisset. Quare illorum malorum origo ex peccato originali
repetenda est. Deum vero hunc generis humani lapsum permittere potuisse, ex
dicendis constabit. Hæ voces nullo modo significant Deum ne; per accidens
quidem posse velle malum morale. Etenim aliquodj malum appetitur per accidens,
in quantum consequitur ad aliquod bonum... Malum autem, quod coniungitur alicui
bono, est privatio alterius boni. Numquam igitur appeteretur malum...per
accidens, nisi bonum, cui coniungitur malum, magis appeteretur, quam bonum, quod
privatur per malum. Ntillum autem bonum Deus magis vult, quam suam bonitatem...
Unde malum culpæ, quod privat ordinem ad bonum Divinum, Deus nullo modo vult ;
Ibid. I, q. XLIX, a. 2 c. Cf p. 378-379. AOSTA (vedasi), ut ostendaf Deum nullo
modo velle malum culpæ, hoc utitur argumento: Iusta voluntas hominis est ea,
qua vult id, quod Deus vult eam velle, iniusta vero e contrario est ea, qua
vult id, quod non vult Deus eam velle. Unde sequitur, quod si Deus vellet
hominem peccare,: homo peccando non peccaret, simulque voluntas eius iusta, et
iniusta foret: iusta, quatenus conformis esset Divinæ voluntati, qua Deus
vellet illam peccare; iniusta, quatenus eidem Voluntati repngnaret, quæ
prohibet peccare ; De lib. arb. Iamvero hæc mali moralis permissio Divinæ perfectioni
haud repugnat. Etenim 1° ita Deus permittit peccatum, ut hoc ex iis, quæ Deus
intendit, necessario non :onsequatur; Deus enim hoc unum intendit, ut creatura
rationalis hbertale sua recte utatur, atque ita felicitatem, id quam lllam
destinavit, assequatur. 2° Adminislratio universitatis, uti post s. Augustinum nquit FIDANZA
(vedasi), est ut Deus sic res conditas admiustret, ut eas agere proprio motu
sinat 2. Deus autem Jermittendo malum morale, naturam rationalem modo, qui lli
consentaneus est, gubernal; eam enim validis auxiliis nstruit, ut peccatum
cavere possit; sed si ipsa ad peccaum libere se determinet, non impedit,
quominus pro suo ubitu se determinet. Deus
neque ex sua sanclitate, neque ex sua benigniate, neque ex sua sapientia
peccalum impedire tenetur. \on quidem ex sua sanctitate; siquidem sanctitas Dei
e:igit, ut Deus peccatum odio interno infinito improbet mn vero ut tenealur
omne peccatum depellere, quemadnodum ex eo, quod Deus virtutem necessario amat,
non icet concludere Eum teneri efficere, ut omnia virtutis, et uetahs opera
existant 3. Neque ex sua benignitate; Deus nim non tenetur omnibus donis
possibilibus hominem cunulare, nec proinde privilegium non peccandi ei
conceere. Neque ex sua sapientia ; tum quia, ut paulo ante lximus, sapientis
est removere hoc modo impedimenum, quod natura non lollatur ; tum quia
sapientia Dei aud postulat, ut Deus illa mala permittere nequeat, quæ b Ipso ad
maximum bonum, et ad finem sibi præstituum ordman possunt 5. lam mala morali a
Deo ad boium, et ad fines suos ordinantur, non quidem quatenus >eus velil
illa mala, ut bonum consequalur, sed quatekus vertit malum m bonum, et ex ipso
malo elicit bo 1 De Civ. Dei, Jib. VII, c.
30. ln lib. I Sent., Dist. XLVII, a. 1, q. 3 resol. Cf s. Bonav., ibid., ad
arg. ln lib. II Sent., Dist. XXIII, q. I, a. 2 ad 3. Quamvis malum, secundum
quod exit ab agente proprio sit ordinatum, et ex hoc per privationem ordinis
definiatur: tamen nn pronibet, quin a superiori agente ordinetur ; Qq. disnu.
Tr., q. V, a. 4 ad 3. ^ lF num. Vult bonum consequens, ex quo malum ordinatur;
ex quo sequitur, quod velit mala facta ordinare, non autem, quod velit ea fieri
!; nimirum, si homo sua pravitate bonum in malum convertit, Deus, e contrario,
sua Sapientia efncit, ut bonum ex malo nascatur. Hinc s. Augustinus aiebat: Neque
Deus. . . ullo modo sineret mali aliquid esse in operibus suis, nisi usque adeo
esset omnipotens, et bonus, ut bene faceret et de malo 2 . Ex. gr.J ut advertit
s. Thomas, non esset patientia Martyrum, si non esset persecutio tyrannorum 3 ;
atque ex scelere omnium atrocissimo in Christum Filium Dei patrato Deus bonum
omnium maximum, nempe opus nostræ redemptionis eduxit, et, ne plura
consectemur, Divinæ iustitiæ, clementiæ, aliorumque attributorum manifestalio,
quæ mun-i di ordinem maximopere commendat, absque mali moralis permissione
nuilum haberet locum . 216. Itaque Deus non vult, sed dumtaxat permittit ma]um
morale. Atqui hæc permissio Divinis Perfectionibus nihil obest. Ergo mala
moralia sub unico Ente infinite perfecto locum habere possunt. 217. Rem totam
ita perstringimus: Ex malis nihil Divinæ Perfectioni detrahitur. Ergo frustra,
præter priricipium summe bonum, aliud principium summe malum Manichæi
comminiscuntur 5. i In lib. I Sent., Dist. XLVI, q. I, a. 4 sol. 2 Enchir., c.
11, n. 3. Unde Deus non eis [creaturis liberis) ademit hanc potestatem
{peccandi), potentius, et melius esse iudicans etiam de malis bene facere, quam
mala esse non sinere ;' De Civ. Dei, lib. XXII, c. 1. 3 I, q. XXII, a. 2 ad 2.
Perbelle ad hanc rem inquit s. Bonaventura: Vis divina, eliciens bonum ex malo,
præpotens est malo, et ideo bonum, quod inde elicit, prævalet bono, quod malum
corrumpit; et ideo plus valet Universum nunc, quam valuisset tunc, in quod nunc
modo commendatur Sapientia Creatoris. Unde Gregorius in benedictione cærei
paschalis, Ofelix culpa, quæ talem meruit habere Redemptorem. Et exeraplum est
de scypho sano, qui frangitur, et religatur filo argenteo vel aureo, quia
melior est post, quam ante, non ratione fractionis, sed ratione religationis ;
In lib. I Sent., Dist. XLVI, a. 1, q. 6 resol. 5 Ex iis, quæ adhuc
demonstravimus, excluditur etiam, ut s. Thomas advertit, quorumdam error, qui
propter hoc, quod mala in muodo evenire videbant, dicebant Deum non esse...
Esset autem e contrario arguendum: Si malum est, Deus est. Non enim esset
malum, sublato Effcctuum oppositorum oppositæ sunt causæ. Atqui bonum, et malum
sunt effectus sibi invicem oppositi. Ergo sicut summum Bonum est causa boni ita
summum malum admittendum est, quod sit causa rnali. 2W. Kesp. Dist. mai. Si
sermo habeatur de causis proximis, et particulanbus, conc. mai., si de causa
remota, et umversali neg. mai. Dist. etiam min.; ita tamen, ut ad 3umdem finem
ordinari possint, conc. min., secus, neq mn. J\eg cons. Llramque distinctionem
ex D. Thoma ac;epimus. Quod ad primam
attinet, contraria, inquit ;anctus Doctor, conveniunt in genere uno, et etiam
con/eniunt in ratione essendi. Et ideo, licet habeant causas larticulares
contranas, tamen oportet devenire ad unam arimam causam communem . Atque id
generatim circa tfectus contranos intelligendum est ; nam cum de malo, uod
oppositum bono est, sermo est, illud etiam observanlum est, malumproprie
effectum dici non posse siquidem nalum cst mcidens effectibus, sed non est
factum per se oquendo. Alteram distinctionem ex his sancti Doctoris erbis
confecimus : Res habent contrarietatem ad inviem, quantum ad proximos effectus
; sed tamen concorlant etiam contraria in ultimo fine, ad quem ordinantur
ecundum harmoniam, quam constituunt ; sicut etiam pæi in mixto, quod componitur
etiam ex contrariis ; et ex oc sequilur quod agentia proxima sunt contraria,
licet gens pr.mum sit unum ; quia iudicium de agente, et fine oon^, CUmaohtn
duæ causac in idem incidant. Obnc. 2° Dcus aut vult tollere mala, et non pots, aut
potest, et non vult ; aut neque vult, neque pot ^ . VUiU'^J01^' Si vull. non
potest, imbelllis est, quod in Deum non cadit. Si potest, et non vult, ividus,
quod æque est alienum a Deo. Si neque vult, equc potest, et invidus, et
imbecillis est. Si vu t, et potst, unde ergo sunt mala ? [ Responsio ex dictis
constat. Deus enim potcst utiueomn.a mala tollere, non vult tamen, ne
impediatur onum Un.versi. Neque propterea est imbecillis, aut mi rdine boni, cuius
privatio est malum: hic autem ordo non esset si eus non esset ; Contr. Gent.,
lib. III, c. 71. ' Ib.d. ad 3. - In lib. II Sent., Dist. I, q. I, a. 1 ad 4.
nus bonus, quia omnipotentiam, et bonitatem suam patefacit, cum ex ipsis malis
bona eliciat. 222. Obiic. 3° Secundum illud effatum, Quidquid est causa causæ,
est causa effectus, peccatum, cuius causa est liberum arbitrium, reducitur,
tamquam in causam, ad Deum, qui est causa liberi arbitrii. Atqui id sanctitati
Dei repugnat. Et sane illud effatum ad rem non facit ; nam effectus causæ mediæ
procedens ab ea, secundum quod subditur ordini causæ primæ, reducitur etiam in
causam primam ; sed si procedat a causa media, secundum quod exit ordinem causæ
primæ, non reducitur in causam primam ; sicut si minister faciat aliquid contra
mandatum domini, hoc non reducitur in dominum, sicut in causam. Et similiter
pec| catum, quod liberum arbitrium committit contra præc©r ptum Dei, non
reducitur in Deum, sicut in causam l . Obiic. 4° Prævidit Deus hominem male
usurun: libero arbitrio. Ergo, cum sit infinite bonus, debuisse id impedire. Quod si bonitas finita patrisfamilias necessario
exigit, ut impediat, quominus sui filii bonis, qua( accepturi snnt, abutantur,
multo magis bonitas infinita i( præstare debuit. Equidem, cum homo
essentialitei sit rationis particeps, atque libertas sit essentialis ratio nis
proprietas, idem fuisset condere hominem libertafc carentem, ac non hominem,
quod intrinsecus repugnat Nec libertas est de se matorum scaturigo, sed solum
ilj lius abusus, cum mala non fataliter, ac necessario, sec contingenter ab illa
deriventur. Neque ullum tam fatuun hominem esse putamus, quem libertatis a Deo
sibi con, cessæ poenitere possit, cum illa sit etiam innumerabiliuq bonorum
fons. Potuisset utique Deus absolute impedire ne homo peccaret, retenta
nihilorninus libertate; ast, cu id noluit, tantum abest, ut malorum permissio
Eius infi nitæ bonitati obsit, quin potius illam mirifice manifester uti iam
demonstratum est.i 4a 2æ? Peccatum, alibi ait, jefertu in voluntatem, sicut in
causam; et quamvis voluntas sit creata Deo, in quantum est quoddam ens, non
tamen quantum ad ho( quod defectus ex ipsa incidere potest; In lib.II Sent.,
Dist. Exemplum autem patrisfamilias, qui bonus non sset, msi prospiceret, ne
fiiius abuteretur bonis ei traitis, nullam vim habet; nam pater est provisor particulris;
Deus vero est provisor universalis. Aliter autem ocente AQUINO (vedasi), de eo
est, qui habet curam alicuius articular.s, et de provisore universali; quia
provisor parcularis excludit defectum ab eo, quod eius curæ subdiir, quantum
potest; sed provisor universalis permittit iquem defectum in aliquo particulari
accidere, ne imediatur bonum totius. Accedit quod pater naturali officio
impedire teneir quæcumque filii mala impedire potest; Deus autem ti
demonstravimus, non tenetur omnia impedire mala læ potest. Quocirca Deus
peccati causa etiam indirecta ci non potest nec debct: quia tametsi non præbeat
frxi Iium, quod si præberet, homines non peccarent >c totum facit secundum
ordinem suæ sapientiæ et iuitiæ, cum Ipse sit sapientia, et iuslitia; unde non
imputar Jii, quod a ius peccet, sicut causæ peccati; sicut ibernator non
d.citur causa submersionis navis, ex hoc lod non gubernat navem, nisi quando
subtrahit -uberitionem, potens, et dcbens gubernare. Pantheistarum placita
recensentur Ex iis, quæ superius de infinita Perfectione Dei cta sunt, non
solum eorum error, qui nonnisi unam esse )sse Divinam Naturam inficiantur, sed
etiam commenm illorum, qu, Deum cnm hac rerum universitate conndunt,
refellitur. Illud philosophiæ systema, in quo nnia, quæ sunt, unicam
substantiam constitucre dicun cl,HJfl(IfnrXI,I,I n°tanda ^st vox illa aliquem,
i,t c udatur Baylci sopinsma, quo Deum mala permiuentcm assimilat ?i, qui
smeret crescere seditiones, et perturbationes iti toto renoVL9JVam
acouireretPr°™rati remedii. Nam l.ac agendi ra"n al loua reSm mala
Particularia rex permitteret, sed age r Zlr Um commune re^N qod ipse curare
debet. Quoca ineptissimum
est Baylei exemplum. V la 2, q. Philos. Cerist. Compend. IJ.7 9/? tur quæ Deus
appellatur, panlheismi nomine designatur • Iam insania hæc, etsi antiquissima
sit, tamen hac nostra ætate late longeque pervagata est, ac veluti culmen atti
gisse videtur. Ut veteres2, atque aliquos mediæ ætatis prætermiUamus 3, pessimi
huius erroris origo in philosophia re i Hoc ipsa pantheismi vox, a verbis tcat
et 0eog effecta, lucu ^Omnes fernie indorum philosophorum Scholæ pantheismum ma
eis minusve redolent, sed eum, omni remota ambage, docuit philo soohia Vedanta,
quæ cum libris sacris, Vedas appellatis, consentane sitorthodoxa putatur.
Vedantici philosophi contendunt unicum extari ens infinitum nomine Brahma,
resque multiplices, et compositas, qua. nræter illud existere dicuntur, esse
calentis phantasiæ ludibna. Ind se in s° £%%;, |c promde se,n sub.ectum, atquc
obiectum reflexionis distinLit J" Z '3° Per reflcx.onem limitcs sibi
imponit, scquc in eoosSbl '';."" e9° 0l?,eCt,,,,n Uividit, oniam a,
om subicctun/ rcflex ornsob.ecto oppomtur, liquet ego obiectum, comparatum cun
eoosul l um'^sum T Ca°QaarVt°r ^punLper reflexion^, po°iviUh purum' hoc est'
cum conscientt sui ipsius |r;: z::^sT:zrcicntia sui ipsius - est sk xitramque
rem cum cogitatione unum idemque esse contendit, illud pronuntiatum staluens:
Quidqnid est reale, est ideale, et quidquid est ideale, est reale. Quare, ex
eius sententia, illud, quod cetera omnia complectitur, non est neque subiectum,
neque obiectum, verum cogitatio, seu idea, \el Idea-Ens, quæ quidem in se est
absoluta, et indeterminata, sed cum seipsam secundum quasdam leges, quæ ab
Hegbelio momenia appellantur, evolvit, egoy mundum et Deum producit.
Pantbeismus opera Cousini e Germania in Galliam transmigravit. Hic eclecticorum
Galliæ dux se panlbeistam esse præfracte inficiatur; sed quod yerbo negat, re
fatetur. Revera ipse docet Deum esse unicum, et multiplicem, æternitatem, et
tempus, summum, et infimum gradum entis, finitum, et infinitum, simul Deuny
naturam, et humanitatem; Deum, cum mundum creat, non quidem e nihilo, sed e
seipso illum educere, ldeoque creationem aliud non esse, quam evolutionem, et
apparitionem Dei in mundo; creationem esse necessanam, quippe quod Deus, cum
sit caussa absoluta, non potest non creare, hoc est, seipsum manifestare, et
cum sit causa infinita, huiusmodi manifestatio erit constans, et infinita; Deum
idcirco necessario, et semper creare. Exinde intelligitur, cur Heghelius unam
esse reruni, et seientiæ rerum originem, et in scientia formam, et id, quod forma
continetur, unum, idemque esse decreverit. Quamobrem ipse totam philosophiam
intra logicæ cancellos coegit; ex quo sequebatur rationenr philosophandi esse
ipsam philosophiam; siquidem logica, ut ab initn diximus, non est aliud, quam
communis ratio philosophandi, siy ctitati detrimentum affert. Vid. Allocut. Pii
PP. IX, Maxima quidem, in 0.; cit. Atti Pontificii. onc. min. Neg. cons.
Distinctionis, quam attulimus, ratio x iis, quæ alihi docuimus, evidenter
perspicitur. Obiic. Substantia infinita cum substantiis finiis comuncta est
quidquam maius unica substantia infinifc Atqui hoc est absurdum, siquidem
illud, quo quiduam maius esse potest, non est infinitum. Ergo absurum est esse
substantias finitas præter infinitam. Resp. Dist. mai., quidquam maius quoad
nume^m, conc. mai., quoad perfectionem, neg, mai.; conc. in. Neg. cons. Iis,
quæ ad huius rei explicationem abi tradidimus % hunc alium D. AQUINO (vedasi)
locum adiicius: Finitum infinito additum non facit maius, sed fat plus; quia
infinitum et finitum sunt duo. Deus dicitur esse omnium; et omnia dimtur esse
in Deo, atque esse participationes divinæ esmtiæ. Atqui hæ loquendi rationes
significant res extra eum ab ipso Deo reipsa non distingui. Ergo. Resp. Neg.
min. Et sane, (( Deiias dicitur esse mmum eiTective, et exemplariter, non autem
per essenam. Creaturæ in Deo esse dicuntur dupliciter.
no modo, in quantum continentur, et conservantur virite divina; sicut dicimus
ea esse in nobis, quæ sunt in islra potestate. Et hoc modo intelligendum est
verum Aposloli dicentis: ln lpso vivimus, movemur, et su~ us, quia etiam
nostrum vivere, et nostrum esse, et nostrum moveri causanlur a Deo. Alio modo
dicuntur res ise m Deo, sicut in cognoscente. Creaturæ non cuntur divinam
bonitatem participare, quasi partem ln lib. IV Sent., Dist. q. sol. ad i.
Præclara sunt hæc D. Bernardi verba : Sane esse omnium dixerim Deum, non quia
illa sunt, quod est Ule, d quia ex Ipso, et per Ipsum, et in Ipso sunt omnia.
Esse est er omnium, quæ facta sunt, Ipse factor eorum, sed causale, non
itenale; Serm. IV in Cant. Cf s. Aug., Solil, lil. I, c. 1, ct Damasc, De Fide
orthod., lib. I, c. 12. 5 I, q. XVIII, a.
4 ad 1. Cf Qq. dispp., De Pot. Ex his, et aliis, quæ antea passim exposuimus,
intelligis facere fundamentum Pantheismi Krausii, eiusque discipuli Arhensii;
inidem eoruni sententia in illa verborum æquivocatione superstruir, qua omnia,
et proinde etiam mundi essentiam in Dei Essentia sentur contineri. essentiæ
suæ, sed quia similitudine Divinæ Bonitatis i esse constituuntur, secundum quam
non perfecte Divinai Bonitatem imitantur, sed ex parte. Obiic. Nolio essendi in
se, sive subsistendi, i alibi dictum est 2, dumtaxat Deo plenissime convenit.
Erg nulla substantia, præter Deum, dari potest. 248. Resp. Neg. cons. Sane
aliquid, ut s. Thomas doce? potest dici proprium alicui, vel quia ipsi ita
convenit ut nulli alii subiecto convenire queat, ut cum dicituJ proprium
hominis esse risibile, quia nulli extraneo a ne tura hominis convenit ; vel
quia i!lud,quod de subiect prædicatur, etsi aliis subiectis quoque conveniat,
tame eo modo, quo ipsi convenit, nulli alii subiecto convenir1 queat; ut cum
dicitur hoc proprie esse aurum, qui non habet admixtionem alterius metalli 3 .
Hoc præstf tuto, de substantia Dei idem, ac de esse Eius dicendur est; nempe
quemadmodum esse est proprium Deo non e quod res creatæ non sunt entia, sed eo
quod esse illo md do, (juo convenit Deo, nempe, prout est purum, seu sin>
admixtione ullius privationis, aut potentiæ, nuili natura oreatæ convenit; ita
Deus proprie substantia est, nof quia nulla res creata substantia est, sed quia
substantia prout perfectum actum subsistendi denotat, nulli rei crea tæ, sed
Deo dumlaxat convenit. Itaque ex eo, quod Deu proprie substantia est, non fluit
res creatas non esse, ne^ dici posse substantias, non secus ac ex eo, quod esse
pro; priissime de Deo prædicatur, non sequitur ipsum noi posse prædicari de
rebus creatis s. i In lib. II Sent., Dist. Et alibi: Essei tia Divina non secundum
se augmentabilis et multiplicabilis est; se solum multiplicabilis estse^undum
similitudinem, quæ a multis par ticipatur ; Contr. Gent.. Sent., Dist. Id
luculenter s. Thomas docuit; siquidem, postquam monuit Deun dici substantiam,
quantum ad id, quod est perfectionis in substantia" adiecit: Et ideo non
sequitur, quod omne, quod est substantia, si Deus; quia nihil ab Ipso recipit
prædicationem substantiæ sic acce ptæ, secundum quod dicitur de Ipso; et ita
propter diversum mo dum prædicandi non dicitur substantia de Deo; et creaturis
univoce sed analogioe. Quædam adversus Spinosam, aliosque Panlheislas
adnotanlur n Totum, quanlum est, spinoziani systematis ædifir?(,cium ambigua
substantiæ notione innititur, qua explicala, funditus illud corruit. Sane
Spinosa Deum unicam e(2sse substantiam ex eo deduxit, quod cum dixerit subit
stantiam csse id, quod per se, seu in se est, iliud per se tmjita accepit, ul
non solum inhærenliam in aiio subiecto, na>ed etiam causam effectricem a
substantia distinctam excKPluderel, unde nonnisi unicam substantiam Divinam
exilenitere posse collegit. At hoc falsum est, quia in definitionjbe subslantiæ
esse per se, sive in se non denotat eam hu^usmodi esse debere, ut non recipiat
esse suum ab alio itj,ed denotat eam non habere esse suum in alio, tamquam jn|n
subiecto1. Quamobrem s. Thomas scite advertit sube( tantiam dici posse rem, quæ
non habet esse suum per mjihud, si pcr 7 ahud intelligatur causa formalis,
quippe i[uod causa formahs est intrinseca cuique rei; non vero, faiii per To
ahud causa effectrix intelligalur, quia res creaioi æ esse suum a Deo
accipiunt. Spinosa subslantiam ila definivil, ut in ea essentiam M|l> esse
non distingueret, quia non dixit substantiam esse )U|Ssentiam, seu rem, cui
convenit esse in se, sed ens, quod ie i se est, seu ipsum esse in se; unde
pronum ei fuit omnem miausam ab ipsa subslantia diversam excludere; siquidem 0i
m subslanlia essentia ab csse non distinguitur, necesse st, ul ipsa per essentiam
suam exislat. At vero,' ut idem lhomas scite advertit substantiæ nomen non
siffni cat hoc solum, quod est per sc esse, quia hoc, quod est sse, non potest
per sc esse genus, sed significat esscn am, cu. compet.t sic esse, idest per se
esse, quod la ien^essc non est ipsa eius essentia 3 . Et sane, subslan Ontol..
Esse creatum non est per aliquid aliud, si ly per dicat caum formalem
intrmsecam ; immo ipso formaliter est creaturasi tem d.cat causam formalem
extra rem, vcl causam effectivam '^c IPC,F ^Tr^ Gt n°n Per SC,); /n 7 S'nt->
>t. Ferranensem,, In lib. I
Contr. Gent. Le rePræstatVGatti,Ord.Præd.,/nSr/r.a/,o^fl-co-;,o/e,r^^ )• I,
tract. I, Djss. Roma. tia, cum sit quædam categoria, rem secundum aliquem modum
essendi determinatam significare debet; ac proinde intelligi non potest, nisi
in ea et aliquid, quod quodam modo est, et quidam modus, quo ipsum est, distin
guantur. Illud prætermissum nolumus, duo vitia quoque la tere in
demonstratione, qua Spinosa unicam substantiam Divinam existere statuit. Primum
est, quod huiusmodi demonstratio in seipsam incurrit. Philosophus hebræus primo
suhstantiam ita definivit, ut nonnisi esse Dei re vera significaret; deinde ex
notione substantiæ, quam sua definitione tradidit, Deum dumtaxat esse
substantiam de duxit. Alterum est, quod Spinosa ex solo conceptu sub stantiæ argumentum
ad existentiam eius petivit. Enim vero, cum notio substantiæ dicitur esse res,
cui conve nit non esse in alio, vel secundum Spinosam, ens, quod per se est, et
per se concipitur, procul dubio non affir-' matur esse revera in natura rem,
cui convenit non esse in alio, sive ens, quod per se est, sed illud tantummodo
decernitur, si quid est, cui convenit esse non in alio, hoc esse substantiam.
Quocirca ex notione, quæ definitione suhstantiæ continetur, illud minime licet
absolute inferre^ quod substantia re vera existit, sed illud dumtaxat, quod re
vera existit substantia, si res, cui convenit non esse in alio, existat. Ad
Pantheistas transcendentales quod attinet, 1 iam demonstratum a nobis fuit
absurdam esse tum illan. methodum, qua ipsi cognitionem nostram a priori inve
stigare conantur2 ; tum illam sententiam, qua animan obiecta suæ cognitionis
sibi construere tenent 3. # 2° A vero longe abest pronuntiatum illud, quod ipsi
r Neoplatonicis acceperunt, ideas nostras a rebus non dis tingui, atque subiectnm
cogitans, et obiectum, quod cogi tatur, unum, idemque esse. Sane, quemadmodum
s. Tho5 mas contra Neoplatonicos argumentatus est 5, in pnmil intellectio non
est eadem cum re intellecta, quia mens noi Hinc, ut alibi adnotavimus (p.
335-336), substantia, prout cate goria est, in Deum cadere nequit, quia in Deo
essentia ab esse dis tlngui haud potest. 2 not. 2. Contr. Gent. solum
intelljgit rcm sed per lacultatem in seipsam redeundi, qua pollet, inlclligit
intellcctionem rei; L quo, non solum scent.æ rcrum cxislant, sed etiam scienth,
cogn.fon.s rerum confici possit. Secundo, intefiecUo d ! stingui ur al>
intclleclu, sive a subieclo cognoscenle, quia si intellectus idem esset cum
inlellectione, ipse numquam in potcnlia, sed semper in actu foret, hoc cst semner
™ fZT% ^'^«W cogposcit, neque unquam novas^gni." rimin1turU,rnrCtTerU°J
inlC!'eC'US a re intC,,ccta u" criminatur, qu.ppe quod res intellccta est
princinium per^qiiod anima eam intelligit '. '"cipmm, >t iJn E9\P"
Fichlei, Identitas absoluta Schellingii, . enf nos trf FS"T ^™' SmL Re
fluidem '« mH ronrnn.in Chlc° doJc?nle ' 0',e al>stractionis ad ego mri
conceptionem ascendit. Atqiii nemo vel in logica 110 ' o USn!,goT
illVhSlraCrti0nem n?n nosse confici sinc su-> en° 'Fqrm COnf!C"' Ct
°,,ieCl° ' circa quod eonfici nhi^f T e9°x Puriconc?Pt« exurgere non potest,
nisi '"('>. «qu obiect, rea,kas praoslUuatur At ept.o rcv egopun,
secundum Fichleum, quamlibel lum ESf Vs "m TIUSSuh,e.CU repræsentationcm
excludit. ^rgo Fictheus lurp.ter sibi contradicit, cum conceplioem „s C5,0 pun
ve,ut| sui systematjs fundameiUulT1 niliii?! aUtem-' a-ouo Schellingius supremum co Te, s n... an?e Pr,nc,P,um derivat, est
aliquid, quod io.cn,,. .0tTem omns rcalitat. nempc perabstra ules Lv >ieC{0'
Ct Su,.,iect0 in sc eontemp latur, et si KL i, rea,,ss,mum • «u'a illud non
solum reale, sed Mt 1^^. tat6m' °i f°ntem 0mnis rca,itatis cssc eonraroif n»Un
'• ' qU.°d ex rcmolio"e subiecti et obiecti er«m „ " r rcal"?l'S
sit, est prieotfo oftscbta, seu *rum mhil. Ergo (dent.tas absolota Schellingii
manife terCsi b!hCt C,;"tr 'li,',i"",""• Deni1ucsi
Sclu.lfi, g™ turter sibi conlradix.t, cum Absolutum, quod ment ner re ouonem
omnis realitatis in se contemjlatur in Ens rea «qronufll",™0,,^ SKbieC,nm
intelli8e"s.ot ren intcl.ccum »« 91 9S, m,™ observanlc B»lmesio(F«M. /«»
et s°> »«wSr& A«g.; ^«rTm;.!,bi,b.,a^Ua8,;cStUb:CC10 oognosccnti, opnonil.
Cf Puilos. Gurist. Compend. lissimum transmutavit, idem Heghelio obiiciendum
est, auia ipse asseruit ldeam esse ultimam abstractipnem, ad duam mens, a rebus
proprietates earum gradatim remoTendo, pervenit, et simul eam fontem omnis
real.tatis, ac proinde cum idea omnium max.me concreta unum, idemque fecit.
Accedit, quod, cum idea visionem, sive repraesentationem significet, admittere
ideam, quae neque ad obiectum, neque ad subiectum uilo modo refertur, idem est,
ac admittere visionem sine re, quae videtur, et sine subiecto, quod videt; id,
quo nib.l absurd.m Quae^cum ita se habeant, nihil est, cur dicamus. quantum
impia, et ahnormis sit notio De, quam, sti Phv fosophi obtrudunt. Sane,
secundum Fichteum, Deus 1 est ro eqo vururn, quod seipsum tamquam purum ponit s
ive! nt ipse blaterat, creat; 2° est nostrae ment.s figmen tum naro,
quemadmodum Fichteus ingenue fassus esl tres illae positiones, non ego, ego
nonpurum, et Deus pmn obiecliva realitate deslituuntur; est infinitum, et s.mt
sihi limites assignat. Secundum Schel ing.um, 1 Absc uturo, sive Deus non
tamquam illud, in quo omne act est sed tamquam illud, in quo aliqu.d potenhale
est, n te igendnm Vet. Etenim evolutio Absoluti non pote concipi velut quaedam
manifestat.o; s.qmdem repugn quXam manifesturo se facere, nisi sit al.ud cuisem
nifestel; nihil autem omnino est, cu, Absp utum manif stare se potest, quia
nihil, secundum Schellmg. um, rea esi!praeterquaro quod ipsum Absolutum, et
qu.dqu.d ^pj ter Absolutum existere videtur, re ipsa non ex.stit .(Jua.
"tiamsi demus ro ego purum, ut ut infinitum P°f ^Uquem ™i,»m «ihi nonere a
Fichteo quaerere nobis hcet, utrum aU limn Sm sTgnandos psum se moveat, an a
caussa externa impcllatt Shoc Postremum.agnoscercnecessc cst causam
eyopurosupenore nuae in ipsum vim aliquam exercet, ob idque quandam passion coo
tribucre quae duo Fichtei systemati adversantur; .pse emm uit qu1dquldqexistit
ab ego puro originem habere atque^ uk, . scl* tari uobis liceat a Fichteanis,
cur ego purum – H. P. Grice, THE PURE EGO -- Iim.tes s.b, ponat? S sane ex se
siquidem nulla res ad imperfectionis statum spectat aue ex eo quod in quodpiam
obstaculum incdit, nam ex F.ch S"hil extra ego, eiusque ideas existit. Cf
Nicolas, Introd. a l r Bistoire de la Phil., Paris Cf Ancillon, Essai de phil.
et de htterat., raris lla evolutio in ipso Absoluto ponenda esset. Atqui si in
I ibsoluto omne actu esset, nulla evolutio in eo esse, et inm ell.gi posset,
quia cum illud, quod evolvitur, a potenlia lti. id actum progredi debeat,
repugnat in aliquo evolvi iim ud quod iam actu in eo est. Ergo, ut illa evolutio in sil knsoluto explican
posset, aliquid potentiah in eo intellijendum esset. Iam Absolutum, in quo
aliquid potentiale est, secum pugnarc manifestum est. 2° Immo Absolutum
>cnellingianum non est, uti vidimus, nisi Privatio absouta, sive merum
Nihil. Hinc Oken
Schellingii discipulus o usque insannt, ut Absolutum, sive Deum Magnum NiU
appellant. Denique, secundum Heghelium, 1° unium ens, sive absolutum, et
Infinitum, quod ipse vocat aea-±,ns,Qstahquodprivative indeterminatum, seu
omnis eterminationis expers2, unde collegit Ideam-Ens esse puum putumque nihil
3; et quoniam nihil est negatio enis, Idea-hns esset ens, quod non est ens,
sive ens, et non ns; 1 fcxevolut.one ldeae-Entis, ut Heghelius ait, emer £
«Tnfr sP^tus> et »Pse Deus. Quare, cum Idea uu">ns cvolutioncm
Absoluti S"f° bsnrdam cssc demonstravimus, absurdam etiam cv„Iun„c/
«^'^l.anac prcdunt. Insupcr pcsitiones Ideae He«helii po icncs, s.vc ad
creationcs ?ou ego puri Vicblei rcducuntur! quo Uramcnu^rndaet,^8 °StCUSU,U
U°biS CSt' VC'Ut "hantaSiaC seu devenit, etcausam, per quam fit,
subaudiat: haud enim possibile est, ut aliquid de potentia in actum, nisi per
ens iam actu, progrediatur. Adhaec, quis tam vehementer allucinari potest, ut
Deum, cuius natura, ut AQUINO (vedasi) inquit, maxime et purissime est actus in
aliquo, quod per continuas evolutiones fieri indigeat, ut realiter sit, seu
potius quod semper fiat, et numquam sit, consistere effutiat? Denique in
refellenda sententia Cousini nihil immorari nobis opus est. Etenim illa, quae
docet, nempe res necessario a Deo creari, atque creationem in eo consistere,
quod Deus mundum ex seipso educit, ex theoriis antea statutis 8 nullo negotio
explodere licet. Unum, et alterum dumtaxat hic adiicimus. Sane, quoad
creationis necessitatem, quam Cousinus ex absoluta Dei natura inducit, audiatur
iterum AQUINO: Quidquid in Deo est, est sua essentia; et ideo totum est
aeternum, et increatum, et necessarium; sed tamen effectus, qui ex Eius
operatione procedit, non necessario procedit, quia procedit ab operatione,
secundum quod est a voluntate, et idec producit effectum secundum libertatem
voluntatis. Fal sam autem omnino esse cousinianam notionem creationis: a
Augustino docemur. Creatura, sanctus Doctor ait ita esse dicitur ex Deo, ut non
ex Eius natura facta sit Ex Illo enim propterea dicitur, quia Ipsum auctorem
habet, ut sit: non ita, ut ab lllo nata sit, vel processerit sed ab Illo
creata, condita, facta sit s. Atque inde iU 1 Qq. dispp., De Pot., q. II, a. 1
c. 2 Circa haec Transcendentalium commenta vid. etiam quae diximu: in cap. II,
a. 2 Cosmol, c. VII, aa. 1 et 2. In lib. 1 Sent., Dist. XLIII, q. II, a. 1 ad
3. Et ibid. ad 2 Sicut voluntas, et essentia, et sapientia in Deo idem sunt re,
se Optimismus mundi refellitur. Antonivs
Can. D'Amelio Joseph Ca>\ Molinari Censor Theologus Depnt. cx-a, CZ-o-a
4Pf&}. Gaetano Sanseverino. Sanseverino. Keywords: segno naturale, Boezio,
Aquino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sanseverino” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Santilli: la ragione
conversazionale -- dal soggettivo all’inter-soggettivo – la scuola di Sant’Elia
Fiume Rapido -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sant’Elia Fiume Rapido). Filosofo italiano. Sant’Elia
Fiume Rapido, Frosinone, Lazio. Segue il
corso liceale presso la Scuola di Murro a Napoli. Discepolo di GALLUPPI, e
amico -- fra gli’altri – di SETTEMBRINI, FIORELLI, e SANCTIS. Si laurea in
filosofia. Apre una scuola di diritto morale e costituzionale. Fervente
giobertiano – GIOBERTI (si veda), e attivo propugnatore, nei circoli culturali
napoletani, di un'Italia federate. A frequenti rapporti epistolari con MAMIANI,
GIZZI, e COUSIN. Quest'ultimo lo introduce nel giro culturale del socialismo
utopistico ma modula il suo socialismo secondo i propri valori umanitari,
rifiutando la logica della lotta di classe. Ha comunque a scrivere che nel
regno di Napoli occorre una savia distribuzione della ricchezza. Presidente
della società dantesca (ALIGHERI – si veda) -- e prolifico filosofo. Fonda "L'Enciclopedico"
in cui vivacemente sostene che occorreva occuparsi della piaga della povertà. La
nazione italiana vuole pane e lo dimanda incessantemente, lo chiede nel pianto
dell'indigenza, tra le sciagure della desolazione, lo chiede non a titolo di
preghiera, ma diritto necessario, assoluto. Il popolo italiano non capisce la
speculativa astrazione di alcune verità filosofica, non sa i titoli di libertà,
di costituzione, di uguaglianza. Una riforma che dimentica affatto la fisica
prosperità del popolo italiano non è che riforma di solo nome. “Le idee" e
testo di studio nelle scuole di Toscana; "Sul realizzamento del
pensiero"; "Sviluppo filosofico dell'autorità"; "Cenno
psicologico sull'attività dello spirito"; "Individuo e Società";
"Princìpi dell'imanità razionale"; "Il socialismo in
economia" e "Lavoro, industria e capitale". Si batté
politicamente per l'ottenimento della Costituzione da parte di re Ferdinando II.
Malvisto e considerato individuo pericoloso dalla polizia e ucciso a
baionettate da soldati che fanno irruzione nella sua abitazione in Largo Monte-Oliveto,
accanto a Palazzo Gravina. Venne ucciso a seguito della delazione di una donna,
che lo indica come il predicatore alla soldataglia. Lo ricordano due epigrafi:
una sulla facciata della sua casa natia e una sulla facciata della sua palazzina
in Largo Monteoliveto. Di lui scriveno SANCTIS, PEPE, SETTEMBRINI, VANNUCCI,
MASSARI, GROSSI, GUZZARDELLA, e MANDALARI -- che volle raccogliere i suoi saggi
in "Memorie e Saggi” (Roma). Peruta. “Il Giornalismo Italiano del
Risorgimento”; Ghiron, Peruta, “Storia del quindici maggio in Napoli; Settembrini
"Memorie e saggi”; Mandalari, Memorie, Roma. Guzzardella, “Martire del Risorgimento”
Milano, Ghiron, Il valore italiano, Tip. nazionale degli editori Ghione e
Lovesio, Peruta, Il Giornalismo Italiano del Risorgimento, Angeli, Mambro, in
Sant'Elia Fiume Rapido, il Sannio, Casinum e dintorni Roccasecca, Settembrini,
Ricordanze della mia vita, Morano. COMMEMORAZIONE DI ANGELO SANTILLI FILOSOFO E
PATRIOTA SANTELIANO FU UCCISO A NAPOLILa cerimonia a Sant’Elia – ntensa
cerimonia commemorativa, a Sant’Elia Fiumerapido martedì 20 maggio scorso, per
la ricorrenza del 160° anniversario della tragica morte del filosofo e patriota
risorgimentale santeliano, Angelo Santilli. Promossa dalla locale Pro Loco,
la commemorazione ha avuto il convinto
sostegno e patrocinio dell’Amministrazione Comunale, per interessamento degli
Assessori alla Cultura e al Turismo Antonio Trelle e Giancarlo Vacca, oltre a
quello della scuola media statale, intitolata proprio al Santilli, tramite
l’impegno del dirigente scolastico prof. Graziuccio Di Traglia. La cerimonia ha
avuto inizio al mattino, con raduno di studenti, autorità civili, militari e
religiose, degli eredi del Santilli e di un gran numero di cittadini, in Piazza
Antonio Riga dove, all’imbocco di Via Angelo Santilli è stata scoperta una
nuova targa toponomastica marmorea, con su scritto: “Via/Angelo
Santilli/1822-1848/Filosofo e Patriota”. Nella Chiesa di Santa Maria la Nova è
stata officiata da don Rosino Pontarelli una S. Messa in memoria di Angelo
Santilli seguita da una orazione commemorativa dell’illustre santeliano a cura
di Benedetto Di Mambro. Dopo la messa è stata deposta una corona di alloro
presso la casa natale del Santilli al suono delle note de “Il Silenzio”, . Nel
pomeriggio, presso la sede della scuola media, si è tenuto un approfondito
convegno sulla figura e l’opera dell’illustre santeliano e sulla continuità tra
il pensiero liberale dell’800 e la Carta Costituzionale italiana di cui proprio
questa’nno ricorre il 60° anniversario della sua adozione. Al convegno, seguito
da un folto ed interessato pubblico, hanno preso parte: il sindaco di
Sant’Elia, dott. Fabio Violi che ha preannunciato, dietro donazione degli eredi
Santilli, l’istituzione di una Biblioteca Comunale proprio nell’abitazione
natale di Angelo Santilli e a lui intitolata; la professoressa Silvana Casmirri
dell’Università di Cassino che ha sottolineato come il patriota risorgimentale
santeliano fosse “un prototipo, un modello di una gioventù idealista durante la
fase del Risorgimento italiano”; il Prefetto di Frosinone, dott. Piero Cesari
che, rivolto ai giovani studenti, ha rimarcato come fosse importante, nel
ricordo del Santilli, costruire insieme “il sentimento della cultura della
legalità”; infine il giudice Tommaso Miele, primo consigliere della Corte dei
Conti, che ha sottolineato l’attualità del pensiero di Angelo Santilli,
rimarcando il concetto della Costituzione “come fonte di democrazia e di
uguaglianza”. È stata quindi la volta dello studente Giacomo Vettraino della
classe III A che ha chiuso il convegno illustrando la vita e il pensiero di
Santilli. Angelo Santilli, filosofo e
patriota – Angelo Andrea Santilli era nato il 28 ottobre 1822 a Sant’Elia,
Comune che all’epoca si trovava in Provincia di Terra di Lavoro ed in pieno
Regno delle Due Sicilie su cui governava Re Ferdinando I di Borbone. Era figlio
del giovane medico santeliano Silvestro Santilli, che sarebbe stato anche
Sindaco di Sant’Elia dal 1827 al 1829 e della giovane Giuseppa Mancini,
originaria di Castel Baronia, in Provincia di Avellino, ma residente a San
Germano, l’odierna Cassino. Il nonno materno di Angelo era il medico
Evangelista Mancini, bonapartista e fra i promotori della Repubblica Partenopea
del 1799. Di odori libertari il piccolo Angelo ne respirò a pieni polmoni nella
sua casa di S. Elia, nei pressi della chiesa di San Cataldo in cui, fra l’
altro, era stato battezzato. Compiuti i primi studi giovanili a S. Elia, nel
1835, a 13 anni, Angelo Santilli si trasferì a Napoli per proseguire gli studi,
andando ad abitare in Largo Monteoliveto nei pressi di via Toledo. L’ingresso
alla sua abitazione era il Vico Gravina 1. Con Angelo andarono a Napoli anche
la madre Giuseppa, i fratelli Vincenzo, Giuseppe e Giovanni ed il giovane
compaesano Filippo Picano. Angelo e Vincenzo entrarono nella scuola di
Francesco Murro per l’apprendimento della grammatica, della retorica, della
filosofia, della storia e delle scienze. Nel 1838, a soli 16 anni, il giovane
Angelo si iscrisse alla Regia Università di Napoli avendo fra i suoi insegnanti
il maggior filosofo italiano dell’epoca, il kantiano Pasquale Galluppi. Amici e
compagni di studi del Santilli furono, fra gli altri, Francesco De Sanctis,
Luigi Settembrini, Silvio e Bernardo Spaventa, Antonio Scialoja, Giuseppe
Fiorelli e Pasquale Stanislao Mancini, suo cugino per parte di madre, questi
avrebbero tutti avuto ruoli politici, letterari e filosofici importanti
nell’Italia postunitaria. Nel 1842, a soli 20 anni, Angelo Santilli si laureò
in Filosofia ed in Legge, aprendo così uno Studio Legale e divenendo anche
docente di Diritto. L’attività filosofica, giuridica, letteraria e politica del
Santilli si sarebbe svolta, incessante e copiosa, nell’arco di sei anni. Sempre
nel 1842, a soli 20 anni, dette alle stampe la sua prima opera filosofica “Le
idee soggettive” che ebbe grande accoglienza negli ambienti intellettuali ed
accademici dell’intera Penisola a tal punto da doverne fare una seconda
ristampa per la vasta richiesta che ebbe quale testo di studio nelle scuole del
Granducato di Toscana. Santilli non si fermò: continuò a scrivere di diritto,
di filosofia, di critica letteraria e fu anche esperto verseggiatore in terza
rima. Famosa la sua ode dedicata all’amata Margherita. La fama letteraria del
Santilli ebbe grande risonanza a Napoli e nel 1846, su proposta del Ministro
della Pubblica Istruzione del Regno Borbonico, fu nominato Presidente
dell’Accademia Dantesca che però dopo qualche tempo fu fatta chiudere dalla
Polizia Borbonica perché, ricorda Atto Vannucci, “sotto apparenze letterarie
mirava ad intenti liberali ed umanitari”. Santilli ebbe anche una fitta corrispondenza
epistolare con Terenzio Mamiani; con il Cardinale Gizzi, Segretario di Stato di
papa Pio IX e con il filosofo eclettico francese Victor Cousin, professore di
estetica presso l’Università La Sorbona di Parigi. Tramite gli scritti del
Cousin entrò in contatto con il pensiero socialista del filosofo utopista
francese Pierre Joseph Proudhon e nel 1846 lo stesso Santilli volle esporre le
sue idee in proposito in tre pubblicazioni: “Il socialismo in economia”,
“Individuo e società” e “Lavoro, industria e capitale”. Lo sviluppo filosofico
e politico del Santilli partiva dal criticismo kantiano per approdare al
positivismo sociale, attestandosi, alla ricerca di certezze e verità, allo
spiritualismo neo-hegeliano che sarà l’espressione filosofica di Bernardo
Spaventa e che si esplicherà nel socialismo meridionalista di Antonio Labriola
e Gaetano Salvemini. Intanto in tutta Italia si andavano sempre più propagando
idee libertarie. Santilli, non vedendo attuabile al momento l’istituzione di
uno Stato Repubblicano, abbracciò il federalismo di Vincenzo Gioberti e scrisse
al Cardinale Gizzi perché il Pontefice si facesse promotore e guida di un
federalismo fra tutti gli Stati in cui l’Italia era divisa. Stava fiorendo il
Risorgimento e da ogni parte si chiedeva la Costituzione. Santilli cominciò a
dedicarsi alle pubbliche assemblee ed alle pubbliche predicazioni contro il
governo assoluto di re Ferdinando II, assieme al popolano Michele Viscusi.
Quando, il 29 gennaio del 1848 il Governo Borbonico concesse la Costituzione,
Santilli non smise di parlare pubblicamente perché tramite la Costituzione si
potessero migliorare le condizioni civili e sociali della popolazione e ci
fosse “una savia distribuzione delle ricchezze”. Ma dopo qualche giorno, mentre
lo stuolo degli ascoltatori del Santilli andava ingrossandosi sempre di più, la
cosa cominciò a creare preoccupazioni e timori nella polizia borbonica che dopo
un mese interruppe un discorso del Santilli in Largo del Castello e disperse
gli ascoltatori. Santilli denunciò il fatto sul suo giornale “Critica e Verità”
la qual cosa gli creò ancor più inimicizia e sospetti dalla parte della
polizia. Intanto alla fine di febbraio del 1848 moriva la mamma di Angelo
Santilli, Giuseppa Mancini, a soli 57 anni di età. Nell’aprile del 1848
Ferdinando II ritirò la Costituzione ed in tutto il Regno si diffusero ancor
più le idee libertarie e di uguaglianza sociale del Santilli. A Napoli
addirittura vi furono anche degli scioperi. Agli inizi di maggio Angelo
Santilli iniziò a scagliarsi con violenza contro la monarchia assoluta. Il Re,
temendo una insurrezione popolare, nei giorni dal 12 al 14 maggio fece disporre
l’esercito nei punti strategici di Napoli. Angelo Santilli continuò incessante
con le sue orazioni contro re Ferdinando. Nella serata del 14 maggio i
napoletani iniziarono ad innalzare barricate contro l’ esercito. Barricate
vennero erette anche in Largo Monteoliveto, vicino all’abitazione del Santilli.
La mattina del 15 maggio 1848 iniziarono gli scontri tra i rivoltosi e l’esercito
borbonico rafforzato da truppe austriache e svizzere. La battaglia si protrasse
per tutta la giornata e man mano le barricate furono smantellate dai soldati
con largo spargimento di sangue. Ai soldati svizzeri fu dato ordine di scovare
ed uccidere il Santilli e nella tarda serata giunsero fin sotto la sua
abitazione facendola oggetto di fucilate che uccisero il giovane Filippo Picano
e la serva di casa Carmela Mega. Irruppero quindi nella casa e trucidarono a
baionettate Angelo Santilli e suo fratello Vincenzo. Gli altri due fratelli,
Giuseppe e Giovanni, erano riusciti in tempo a trovare riparo presso
conoscenti. Molti degli scritti di Angelo Santilli furono dati alle fiamme ed
il suo corpo martoriato assieme a quello del fratello; entrambi furono gettati
in una fossa comune. Furono in molti a ricordare Angelo Santilli nelle loro
memorie: Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Salvatore Di Giacomo, Marco
Lanni, Mario Mandalari, Atto Vannucci e, più recentemente, Franco Della Peruta
ed Alberto Guzzardella. Nel 1865 l’ antico Corso Dante che attraversava il
centro storico di S. Elia fu intitolato ad Angelo Santilli ed ancora oggi porta
il suo nome. Dal 1886 e dal 1889, per volere del maggiore medico Antonio Riga
(1833-1918) e del pittore Enrico Risi (1855-1915), due lapidi lo ricordano, la
prima sulla facciata della casa natale di S. Elia, in via Risorgimento, e la
seconda a Napoli in Largo Monteoliveto sulla facciata della casa dell’eccidio.
Dal 1981 anche la Scuola Media Statale di S. Elia Fiumerapido porta il suo
nome. Ora è in animo dell’Amministrazione Comunale di S. Elia ristrutturare la
casa natale del Santilli e farne sede della biblioteca comunale e di un centro
studi.Angelo Santilli. Santilli. Keywords: dal soggettivo all’inter-soggetivo. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Santilli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Santorio: la ragione
conversazionale del pendolo di Santorio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Capodistria). Filosofo italiano. Capodistria, parte
dell’Italia – attuale Slovenia. Padre della fisiologia sperimentale. Il primo a
comprendere l'importanza dell'esperimento e dell'adozione dei parametri
quantitativi per valutare i quali inventa alcuni dispositivi tra cui il
termometro e il tachimetro. Studia sperimentalmente la struttura della materia,
di cui descrisse la struttura corpusculare e meccanica, anticipando le ricerche
di GALILEI. Studia a Padova. A Venezia fa amicizia con SARPI, SAGREDO e GALILEI.
Adatta il pendolo alla pratica, precedendo gli esperimenti condotti da Galilei
con i pendoli. Poniere nell'impiego delle misurazioni fisiche in medicina; il
suo dispositivo più famoso fu una grande bilancia usata per studiare
l'equilibrio omeostatico e le trasformazioni metaboliche Tra i soggetti che si
prestarono alla sperimentazione vi fu anche GALILEI. Insegna a Padova. Pubblica
descrizioni di congegni termo-metrici e di precisione che divennero di largo
uso nella pratica medica. Pioniere nell'impiego delle misurazioni fisiche. Il
suo dispositivo più famoso fu una grande bilancia – la stadera medica -- usata
per studiare le trasformazioni meta-boliche in soggetti sperimentali tra i
quali vi fu lo stesso GALILEI. Pioniere nell'uso del metodo sperimentale di cui
comprese l'importanza e la necessità replicando i suoi esperimentil Considerato
a torto il fondatore della iatro-meccanica, ne e uttavia ispiratore con i suoi
importanti studi sul meta-bolismo e sulla termo-regolazione umana. È il primo a
quantificare la perspiratio insensibilis e ad usare il termometro clinico che
egli stesso idea. S. inventa anche altri
strumenti – il pulsilogio, l’igrometro, il "letto artificioso", l’"eolopila
medica", ed il "termometro lunare" -- intesi a tradurre in
numero e determinare con esattezza matematica i para-metri vitali umani. I suoi
saggi hanno numerose edizioni, diffusione europea e ampia popolarità. Classico
il “De statica medica” -- uno dei saggi più importanti della storia della
fisiologia; “Methodi vitandorum errorum omnium qui in arte medica contingunt
liNunc primum ccessit eiusdem authoris De inventione remediorum liber (Aubert);
“Ars de statica” (Leida, Haro); “Commentaria in artem Galeni”; “Nova pulsuum
praxis morborum omnium diagnosim prognosim et medendi aegrotis rationem statuens,
sine eorum relatione”; “Commentaria in primam fen primi libri canonis
Auicennae”; “Commentaria in primam sectionem aphorismorum Hippocratis”; “Societate
si politica”. Galilei -- Storia della Scienza di Firenze. Castiglioni, “Storia
della Medicina” (Mondadori, Milano); Pazzini, “Storia della Medicina” (Libraria,
Milano); Premuda, “Storia della Medicina” (Milani, Padova); Premuda, “Storia
della fisiologia” (Del Bianco, Udine). Treccani Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Santorio Santorio. Santorio.
Keywords: il pendolo, il pulsi-logio, l’igro-metro, l’eolo-pila. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Santorio” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Santucci – Leech e la
prammatica come rettorica conversazionale – simulazione, superlazione, e
compagnia – By Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo italiano. Grice: “There
was a time when Italians – indeed Romans – would NOT stand a hellenism like
‘eironia,’ ‘hyperbole,’ or ‘metaphora,’ and there you would have them – and
Cicero, too – uttering Varronesque formations like, respectively, SIMVLATIO,
SVPERLATIO, and TRANSLATIO! I simplify the vocabulary by calling them all
‘figures of speech,’ or IMPLICATURAE, that is!” -- Retorica. RHETORIC JEu
PRÆCEPTA V E SELECTISSIMIS AUCTORIBUS COMPILATA EDIT PRIMO PETRUS ANTONIUS S.
DE CORTONA, Unus ex Presbyteris Congregationis Oratorii DIVI PHILIPPI NERII
ejufdem Civitatis. Excudebat Joannes Baptista Recurti. SUPERIORUM PERMISSU, AC
PRIVILEGIO. Illujirifs. et Reverendifs. D. D, GABRIELI RICCARDIO Viro
nobiliffimo, et Ampliflfimo, Patritio Florentino Marchioni eximio Metropolitanæ
Ejcclefiæ Florentinæ Canonico PETRUS ANTONIUS SANTUCCI U JE magna Junt, eadem
et tnagnis deberi iifque folii nuncupan da fore, nemo unquam inficias ivit,
lllufiriffime, C9* Reverendtjfime Domine. Cum enim omnibus a natura comparatum
fit, ut coeli faciem obviam fibi quifque contempletur; huic profetto totius
Orbis fublimi /lima parti, O' non alii, ea quce Orbis ipfius fublimi /fima
ornamenta fiunt, nempe fydera, ab eademmet natura merito donata fuiffe facile
ipfe animadvertat, ne et 2 ceffe Cfjje eji % Quavem, et meritis, fi forte virum
quem Confprxerc, filent, arreBifque auribus aflant: Ille regit diBis animos, et
pcBora mulcet. At Eloquentix majefias, fe mavult, et admiratione coli, et
filentio pradican;ejl enim admiratio prxeonium glorix, et filent tum fidus
interpres majefiatis ‘, neque major illa commendatio effe potefi. quam omnis
frujlra tentata laudatio. Denique Do&orum omnium Coryphæus, ac facile
Princeps D. Augutt. fic de præcellenti hac Arte tertatus habetur: Hxc nobis cum
Angelis, cum Deo ipfo quodammodo communis efi; In ea fe ille exercet; in ea
deleBatur: in ea triumphat dum nos fine firepitu verbot'um intus alloquitur.
Ejufdem Artis Utilitas. E Tfi non defuerunt aliquando, qui maximum hoc hominum
adjumentum turpiter dctreXare non dubitaverint, quod ex illorum numero, qui
Iiaia Propheta tefte 5. zo. malum bonum dicunt, et bonum malum, fallo judicio
deceptionem fimplicium iiatuerint, quod deceptionum imo, fraudum, et doli
cujufque infenfiflimus hodis eft; fiquidemvera benedicendi latio veritatem amat
femper, illam tutatur, et cunXis Eloquentis nervis prsdicat, fubdinet, fovet,
admifcendo quidem interdum Auxefes, hyperbolefque, fed fatis eas moderate, et
eo tantum coniilio, ut veritatis ipfius magis affulgidus emicet nitor,
auditorefque eleganti, ac faceta interdum varietate deieXet; Illud nihilominus
pene Sapientes omnes firmiflimumed, jugiterque erit, quod veluti præfulgens hæc
Ars dignitate, ac majeftate ceteris artibus prædat, atque antecellit,
quemadmodum fuperius vidimus; Ita illas quoque plurimis in nos commodis,
uberrimaque utilitate facile fuperat, evincitque. Nam quid ego dicam in primis,
quod ipfa, quæ ex univerfis rebus condat, ut cum Cicerone loquar lib. 1. de
Orat, quibus ia fingulis elaborare permagnum eft, quæque omni laude cumulatum
Oratorem non efficit, ni/i erit ille omnium rerum magnarum, atque artium
Scientiam confequutus; ipfa inquam prædiXis artibus qujbufcumque, earumdemque
rerum omnium magnarum fcientia maximam opera fert, ut dignofeantur,
amplexantur, amentur, teneantur, et in deliciis fint: iisetiam lumen, et decus
impertitur: Clientes, amicos, defenfores conciliat: ab inimicis injude,
impieque adverfantibus tuetur, &eripit: eas denique dicendi vi, et
libertate magnanime fervat, ftrenue confirmat, et apud poderos omnes perpetuo,
et immortaliter vivere mirifice facit? Addere dejude licet cum laudatiflimo
perfeXi eloquii Patre lib. quod hac, et non 'alta facultas ejl, qua potuit, aut
difperjos homines anum in locum congregare j aut a fera, agrrflique vita ad
hunc humanum cultum, civilemque deducere; aut /aw conflitutis civitatibus
leges, judicia, jura defribere. Hæc alibi cutn eodem, ceterifque omnibus in ea
prædantibus viris tum antiquorum tum noftrorum temporum eft, qua: Urbibus jam
conditum fidem colere; juftitiam retinere, labores communis caufa commodi
fufeipere docuit: Hæc eft qua facinorofos homines invadimus, virtute præditos
laudamus, nocentes condemnamus, innocentes abfolvnius, prudentes exornamus,
imperitos docemus. Hæc eft quæ fola res honefias, atque ntiles perfuadere
poteft: qua conlolamur afflidos, qua deducimus perterritos a timore, qua
gelbentes comprimimus, qua cupiditates, iracundiafque reilinguimus, qua
quidquid eft in omni vita redum, ac laudabile gubernamus. Hæc eft, quæ
adoleicentes acriter a vitiis revocat, et ardenter ad virtutem cohortatur, quæ
feniores languentes excitat, et ad Reipublicæ gubernationem attentiores
efficit, qua Imperatores in bello milites fuos ad patriæ defenfionem, et
vidoriam acquirendam alacriores reddunt; Quæ populos ad Religionem, et cultum
Dei optimi maximi, ad patriæ pietatem, ad communem utilitatem tuendam inducit,
quæ conciliatrix eft humanæ focietatis, quæ deniqur femper, vel in otio» vel in
negotiis ma-xime commoda eft humanitati, fidei, Sapientiæ, fit hæc fatis dida
fint, ut fi non tota, ex parte faltem aliqua attingatur Rhetoricæ utilitas.
Quanta prarcipui Studii neceffitas fit ad hanc ipfam Artem acquirendam. E X iis,
qux hu^ufque attulimus, facile conflat etiam nectffitas, de qua modo fermo. Nam
quum qux pulcia, eadem et difficilia fmt ex, communi adagio; utique quanto
ceteris artibus hxc antecellit, tanto quoque illis "difficultate prxller,
ut acquiratur, neceffe eft. Sed rem hanc totam potius abfolvit, et ftatuit
Magiftrorum omnium caput, ac Princeps prxcelUntiffimus Tullius, quum fupracit.
lib. r. de Orat, camdem Rhetoricam lermone perfequens, cunftis illam artibus
adeo eminere oflendit, ut in unaquaque ipfarum excellentes permultos homines
fateatur, perpaucos autem omni tempore in hac benedicendi ratiore; et quidem
fic ille: Ac mihi quidem fixpe numero in fummos homines, ac fummis ingeniis
prxditos intuen ti, quxrcndum ejfie vifum eji, quid effiet, cur plures in omnibus
artibus, quam in dicendo, admirabiles extitififent. Nam quocumque te animo, et
cogitatione converteris, permultos in quocumque genere videbis, non msdiocnium
artium, fied prope maximarum. Quis enim eji, quis, fi clarorum hominum
fidentiam rerum geflarum, vel utilitate, vel magnitudine metire velit, non
anteponat Oratori Imperatorem ? Quis autem dubitet, quin belli duces ex hac una
Civitate prxflantififiimos pene innumerabiles, in dicendo autem excellentes vix
paucos proferre poffimusl Jam vero, confilio, ac fiapientia qui regere, ac
gubernare rempublicam poffent, multi nofira, plures patrum memoria, atque etiam
majorum exti terunt: cum boni per quandiu nulli, vix autem Jingulis xtati bus
finguli tolerabiles Oratores invenirentur. Ac nequis forte cum aliis Jludiis,
qux reconditis in artibus, atque in quadam varietate litterarum verfentur,
rmagts hanc dicendi rationem, quam cum Imperatoris laude,,nt cum boni Senatoris
prudentia comparandum putet: Convertat animum, et ea ipfa artium genera
circumfpiciat, qutque in iis jloruerunt, quamque multi: fic facillime, quanta
Oratorum fit, femperque fuerit paucitas, fudtcabit. Neque enim te fugit,
laudandarum artium omnium procreatricem quamdam, et quaft parentem, eam, quam
ot-kaaopin* \ GV.cn vocant, ab hominibus doitilfimis judicari: in qua difficile
ejl enumerare, quot vin, quanta /cientia, quantaque in fludtts tuis varietate
et copia fuerint: qui non aliqua m re feperatim elaborarmt, Jed omnia,
quacumque effient, vel flentia pervcjhgattone, vel differendi ratione
comprehenderint, quis ignorat, 11, qui mathematici vocantur, quanta in obj
curitate rerum, et quam recondita in arte, et multiplici, Jubttltque verfentur
? Quo tamen in genere ita multi perfetti homines extiterunt, ut nemo fere
fluduiffie ei f cientia vehementius videatur, quin, quod voluerit, confequutus
Jit. Quis mu ficis, quis huic Jtudio litterarum, quod profitentur it, qui
grammatici vocantur, penitus fe dedidit, quia omnem illarum artium pene
infinitam vim, et materiam f cientia, et cognitione comprehendent ? Iere mihi
hoc video effie diElurus: ex omnibus iis, qui in harum artium ftudus Uber aU
(fimis fint, doElnniJqu verfati, minimam copiam poetarum egregiorum
extiffiljje; atque in hoc ipfo numero, in quo perraro exoritur aliquis
excellens, fi diligenter et ex nofirorum et Grxcorum copia comparare voles,
multo tamen pauciores oratores quam Poeta b| (C>> « )b7)fe7lfa>t«7|(.
W7) V?> is faciliorem aperiam ab elocutione aufpicabor, &. ideo.
ELOCVTIO tanti eft in arte dicendi, ut inter alias illius partes, primum fibi
vindicet locum; artem enim, et artificem denominat, et a Dialeftica Oratoriam
fecernit; dum enim prxtiofa fuppelle&ile argumenta contexit, fe gemmæ
orationis parentem efle contendit. Definitionem elocutionis jam fuperius
afiignavimus, cum eam elfe diximus: Idoneorum verborum, ac fententiarum ad
inventionem accommodatio. Sed c\uia de Orat. Cic. inquit: Erit eloquens, qui
ita dicat, ut probet, delcElet, et fleciat; probare neceffiratis eft, deieftare
fuavitatis, fle&ere viftorise ;& cum de probatione agendum fit
ininventione, de motibus in amplificatione, noverit hic orator candidatus fibi
proponi delegationem per fuavitatem orationis comparandam; quod ut facilius
attingamus, fecutil CICERONE (vedasi) elocutionem per divifionem traftabimus.
Dividitur ergo elocutio in elegantiam, compofitionem, et dignitatem. Elegantia
agit de puritate Termonis, compofitio de connexione verborum, de oratione
numerofa, et de periodis, dignitas de tropis, et de figuris. De Elegantia. E Legantia, ut inquit Cicer. efi
y qua facit ut unumquodque pure, et aperte dici videatur. Hxc diftribuitur in
Latinitatem, et explanationem. Latinitas eji, qua fermonem purum confervat, et
ab omni vitio remotum, ut grammatica docet. Explanatio efl, qua reddit
apertam, et dilucidam orationem. Harc autem comparatur duobus verbis, fcilicet,
et ufitatis, et propriis. Ufitata
funt ea, quæ A 4 veriantur in fermone, et quotidiana confuetudinff. Propria
vero, qua» ejus rei verba lunt, de qua loquimur; ita Cicero, et Quinftil.
verba, inquiunt, tum propria funt, cum id Jigmficant, in quod primum denominata
funt. Pro hac explanatione fervanda tradunt Rethores deleflum fimpliciutn
verborum, ex quo rejicienda funt, quæ fcquenti diftico compleftuntur. Sordida,
pri/ca, nova, antiquata, poetica, dura, Turpia, rara nimis, vel peregrina cave:
Nam &faciuntorationem nimis lordidam, obfcænam, obfcuram, afperam, et nimis
ampullolam. De novandis verbis inquit Fabius: Nova non fine quodam periculo
fingimus, Ji tamen fingere audebimus, praceptum Horatii fervandum erit de arte
Poetica. Dixeris egregie, notum fi callida verbum Reddiderit / untlura novum
Hujufmodi effe poflent Verfutiloquor, ruricola, bandiloquens &c. Poetica
non arcerem ab oratione, fi remotis ampullis, et quibufdam poetarum fabulis
propriis verbis illuftrantur. Afperitas confurgit ex tribus, continuatione
confonantium, aflidua ejufdem litterx repetitione, et heco in vocibus. Exemp:a
elTe poflent i. O felix Xerfefque. 2. O Tite tute tati tibi tanta tiranna
tuhfti. 3. Non cauponantes bellum, fed belligerantes. Contrarius afperitati eft
ferino hiulcus, et hians, qui rafcirur e vocalium concurfu, ut Baccæ Eneæ an
æniflimx pendebant. Sed hoc loco fervandum, quod aliquando non eft infuavis tum
vocalium tum confonanrium concurfus, cujus ufus prudentis Oratoris relinquitur.
De Compofitione. D Efinitur compofitio verborum flruSlura, qua facit omnes
orationis partes aqualiter perpolitas. Compofitionis ergo officium eft, ita
inter fe verba con nette-. p ne&ere, ut nihil in oratione fit, aut
obfcurum, aut ptæpofterum,aut hiulcum, aut afperum, deinde omnia diftinguere in
conci fa, membra, et periodos, ut verba ita conjun&a numerofe, et fonore
cadant. Vis hujus ftru£urse tali fuavitate orationem concinnit, ut licet res de
qua agitur, perquam levis fit, fapor tamen, et mira dele&atio fua fponte
fluat, atque emanet. De Oratione numerofa D Uo orationis genera communiter
traduntur a Rhetoricæ magiftris; alterum pendens, alterum convolutum. De
oratione pendente inquit LIZIO dico pendentem j qux nullum per fe habet exitum,
nift res, qux dicitur in exitum pervenerit; qux ejl infuavis, quoniam prifinita.
Oratio convoluta ejl, qua circuitu effertur. Notandum ergo, quod fuavitatem
orationis maxime curarunt poeta? i unde per eam adeo aflentati funt auribus, ut
compofita fint commenta, quæ de Orpheo, Amphione, et aliis circumferuntur.
Antiqui oratores cum animadvertiflent fe in oratione illa pendente, et in
longum produ&a, quæ nullis inciditur membris, nullis clauditur periodis,
ejufmodi fuaviiatem fruflra eonfe&ari, poetas imitari ftatuerunt, et in
primis Trafimacusi, et Gorgias numerofam orationem in medium attulerunt, qux
quia ambitu artificiofe comprehenfa, dimenfa membris, partibufque finita, mira
fuavitate aures, animumque auditoris afficiebat, obviis ulnis ab omnibus fuit
excepta. Sed quia circuitum orationis Arifloteles periodum appellavit, de hac
nobis hoc loco agendum eft. De Periodo. Periodus definitur: Continuatio quadam
commatum, et membrorum, ita apte inter /e, et rotunde connexorum, ut et plenam
fententtam, O" conclufionem referant. Arift. vocat orationem 4 qua
principium, et finem /c, licet paulo utilius attingam. Methaphorx igitur
hauriri poliunt. A coelo, et a rebus divinis, ut fi princeps dicatur lumen majrjlatis, regni
Sol. z. Ab clementis, ut flumen ingenii. 2. A quinque lenfibus, ut a vilu
Jplcndor glori, e, claritas vita: ab auditu Sonus eloquentia, concentus
orationis: ab olfattu odor San&itatis, fator vitiorum; a guflu dulcedo
fermonis, morum acerbitas: a tatlu durities ingenii, afper it as orationis. Ab
artibus, ut a re ruflica fruSus virtutis, colere tnge libet oric# Prcecepta. at
ingenium: a militari certamen liter arum, dimicare cum vitiis: ab equeliri
calcar honoris, frxnare cupiditates: a. medica vulnus animi, ulcera Rei
publica: a nautica portus (alutis, difficultatum vortices: a elementaria,
xdtficium orationis, panegeum orationis. Ab epithetis, vox ferrea, Ingenium plumbeum, cor lapideum. d. Si res
animata pro alia animata aflumatur, ut Aquila pro ingeniolo, canis pro
maledicente. Referuntur hqc omnes ilis translationes, cum dicimus hominem
dentibus (cadere, rudere, rugire, pipdlare, volare, et fimilia, quæ cum fint
irrationabilium animalium, ad rationabilia transferuntur. Si res inanimata pro
inanimata, ut mentis caligo pro ignorantia. 8. Si res inanimata pro alia
animata, ut flumen eloquentia pro viro eloquente. Si res animata pro inanimata;
utrifus pratorum pro floridirate. Quatuor in Methaphoris vitanda funt, rerum
diflimilitudo, turpitudo verborum, vocum afperitas, et diminutio
fignificationis. De Synedoche. S Ynedoche latine intellectio, tropus eft ex
parte totum fignificans ut Cic. Telia tpfa mi fera, qua difpari domino
tenebantur j vel eft contra, ex toto partem, ut Virgilius. Ipfius ante oculos
ingens a vertice Pontus In puppim ferit. Vel ex fpecie genus, ut Cic» Ne hic
parricida civium-, vel ex genere fpeciem, ut idem Cic. Illud funejlum animal
Clodius. Vel ex pluribus unum, ut Cicero de fe loquens. Nos, Nos oratores vifi
fumus; vel ex uno plures ut Virg. Hoflis habet muros. Vel ex materie r#m ex
ipfa confeCtam, ut Virg. B 3 Litore ah e na locant alii. Vel ex pra?c. dentibus
fcquentia ut Cic. F«/>, fuit quondam ijla in Repubhca virtus. De Metonymia.
M Etonymia five Hippallace, latjne tranfnominati>», tropus eft, qui fit Cum
inventorem pro re inventa ponimus, ut Ter. Sine Cerere, et Bacco friget Penus.
Cum ponitU' pratles pro re, cui praceft, utNcptunnus pro mare, Mars pro bello.
Cum continens pro re contenta ufurpamus, ut Virg. Pateras libate &c. Cum
res contenta pro continente fumitur; ut Virg. Crateres magnos Jlatuunt, et vina
coronant. Cum ex effe&ibus caulas fignificantur ut Virg. Mejiumque timorem
Mittite. Vel ex caufis efte&us ut Mart. Occubuit tandem cornuto ardore
petitus. Cum nomina locorum proipfis incolis ufurpantur,fciUt Cic. Sicilia tota
ft una voce loqueretur, hoc diceret. Cum ex adjun&is res lubjeftas
inteliigimus, ut cum licet ex virtutibus, vel vitiis homines ipfos,feu bonos,
feu malos fignficamus, ut Cicero: Quas res luxuries in flagitiis, crudelitas in
juppltciis, avaritia in rapinis, fuptrbta in contumeliis efficere potui ffet.
Cum lumimus ducem pro luis militibus, ut Tejlis Metaurum flumen, et Asdrubal
dtv.Bus, vel auctorem pro opere, ut fi dicamus: Scmpcr habendus cjl prx manibus
Cicero. De Antonomafia. A Ntor.omafia latine pronominatio ejl illa, qiue quodam
externo cognomine demon flrat id, quod proprio non poffumus, aut nolumus
dcmonjlrare. Fit autem tribus modis. Si ponatur nomen appellativum pro proprio,
ut Philofophos pro Arillotele,latinus Orator pro Cicerone, Anpehcus Dottor pro
Divo Thoma Aquinate. Proprium pro appellativo, ut Nero, pro crudeli, Sardanapalus
pro luxuriolo, Irus p'o paupere. Patronimicum pro proprio, ut P elides, pro
Achille, Anrhinades pro F.nea, Cytherea pro Venere. Tropus ille cum fit fumendo
appellativum pro proprio, ita accommodari debet, ut Iit tantum proprium illius
perfono, quam antonomadice explicamus; quod facile conlequemur, fi nomen
appellativum limitetur aliqua circumdantia, quotantummodo conveniat eidem
perfono, quam per Antonomafiam delcribimus, ut fi pro Scipione dicamus
everforein Cartaginis. Hoc lemper obfervari debet, nifi aut paulum obfcure
perfonam aliqua nominanda ellet in oratiooe, aut ex procedentibus
antonomallicis nominibus fatis, fuperque incelligi eadem poffet, tunc etenim
licet Oratotori ita Antonomafiam effingere, ut communis etiam fit aliis.
Onomatopeja latine NOMINATIO ejl fiilio nominis; cum fcilicet nova verba
condimus, et procipue cum in iis conciendis imitamur naturam rei, quam per ipla
nomina de novo condita explicamus, ut Ennius; At tuba terribili fonitu
taratantara dixit. Catacresis latine ABVSIO nominis efl licentior, et audacior
Mcthaphora, in qua abutimur fignificatione ad aliu d fignificandum, ut
Parrutda, pro Matricida, breves vires pro exiguo Armo parcus pro brevis. B 4
Huc pertinet acriologia, quse eit impropria locutio, ut fperare pro timere. Differt
Catacrcfis a Methaphora, quia hscaccommooat vocabulum rebus proprium etiam non
habentibus, quod fiepe non facit Catacrefis, ut G dicatur facies domus pro
anteriore parte; infuper quia liberius, et audacius abutitur Ggnificatione
alicu;us vocis, uc mox dicebam. Metalepsis latinc TRANSITIO tropus ejl ex alio
in a liud gradati m conducens, ut Virg. Me quaterundenos fetat impleviffe
Decembres et Ovidius. Ut fumus in Ponto ter frigore conflitit Ifier. Tropus
orationis non in unius di&ionis mutatione, fed totius fermonis translatione
fervatur; ita ut aliud ftnfu, aliud verbis Ggnificetur; Hujus generis primus
eil, et facile omnium pulcherrimus. Allegoria larine inverfio, quje aliud
verbis, aliud fenfu demonGrat, ut Horatius: Contrahes Vento nimium fecundo Turgida
vela. Hoc eft, in rebus profperis re te infolenter efferas. Allegoria fecundum
QuinCdilianum ornatur duobus, fimilitudine fcilicet, et translatione.
Similitudinem adhibet Cic. pro Mil. Quod fatum, quem Euripum, tot motus,
tantas, ac tam varias habere putatis agitationes fluBuum, quantas
perturbationes, et quantos ccftus habet ratio comitiorum. Translatione utitur
idem Cic. 7. in Verrem: Ipfc inflammatus Jcclere in forum venit, ardebant
oculi, totoque ex ore crudelitas emicabat. Allegoria, vel eft pura, vel ed
mixta. Pura ed, quæ condat perpetua methaphora, ut ORAZIO (vedasi). O navis
referent in mare te novi FluElus. O quid agis ? fortiter occupa Portum, nonne
videt ut Nudum remigio latus ? Et malus celeri faucius Africa Antennaque
gemant, ac fine funibus Vix durare carina Poffmt imperiofus Equor &C. Mixta
ed, quando methaphoricis verbis propria verba admifcemus, quæ methaphorica
explicent, ut Cic. Ego meam Jalutem deferui, ne propter me civium r vulneribus
Refpublica cruentaretur. Illi meum reditum non Pop. Rom. fuffragiis, fed
fulmine fanguinis intercludendum putaverunt. Hic adnotandum opus eft, ut
allegoria inhæreat afliimptæ methaphoræ, ne eum cæperit a tempedate, definat
incendio. Ad allegoriam reduci poffunt æquivocus, ænigma, et ironia. Voces
æquivocar illæ dicuntur, quæ duplicem habent fignificationem, ut Cic.: Jus
Vertnum nequam; et hæc duplex fignifkatio dupliciter haberi poted in vocibus,
vel cum eadem vox duplicem haber phyficam fignificationem, ut eam videre
potuidis in exemplo aliato, vel cum idem vocabulum idem fignifieat, fed diverfo
fenlu,hoced,idem in lenfu phyfico,& idem in fenfu morali, ut vita quæ
fignificare poted, et vitam corporis, quæ cibo, et potu nutritur, et vitam
animæ, quæ alitur Deo. Equivocus valet, tum ad copiofam, tum ad ornatam
argumentationem in orationibus, et præcipue in heroum, feu in alterius
laudibus, in quibus argumenta non egent tanta efficacia; fed fatis ed, ut
habeant aliquam fpeciem veri. ENIGMA eft oblcurior allegoria, in qua duplici,
fed paulo obicuriore verborum (enfu mentem audientium, (eu legentium decipimus.
In componendo ænigmata aflTumi folet mahaphora, quæ fit fundamentum totius
enigmaticæ textura?, eaque dum producitur, ornatur verbis, quæ faciant
oppolitum fenfum, qux alio nomine dicuntur paradoxa, et mirabile quidquam
prsfetertur. Hxc fundamentalis Metbaphora, quo obfcurior ed, eo venullius
apparet ænigma. En vobis exemplum. Padre fon io di dodici figliali I quali ad
un, ad un vado occidendo, Mentre l' un dopo C altro va najcendo, II ciel vuol
poi che 1' ultimo m incoli. Ma non s) tofio fon di vita privo Che fon unato, e
nova vita to vivo. Ironia latine SIMVLATIO – Grice: “He’s a fine friend” –
“He’sa scoundrel” --, vel illufio deludit adverfarium, fuorumque argumentorum
vim vertit in rifum Cic. pro Lig. Novum crimen C. Cxfar, et ante inauditum tulit,
&c. Ligarium in Africa futjfe. Venufius ed hujus tropi contextus, cum pod
ironica diida oratio gravis infurgit, vel prorumpit in inflammatas
exclamationes. Cic. in Pif. At audijlis Philofophi vocem: negabit fe triumphi
cupidum futjfe; O f celtis,* o pejlts ! o labet ! Hic tropus omnem vim habet in
pronunciatione, qux debet ede amarulenta, et farpe adjuvatur iflis particulis,
o, profe&o, equidem, fane, quidem &c. ex quo evenit, quod Ironia aliud
verbis, aliud lienfu fignificat. Periphrafis latine circumlocutio tropus ejl, in quo,
pluribus verbis explicatur, quod poterat uno, aut certe paucioribus; Fit autem
pluribus modis. Primo pofito
nomine Se&s, vel Patris loco proprio, ut voluptuaria Schola Princeps pro
Epicuro: Venufimts Poeta pro Horatio. Secundo per definitionem dialeidicam, cum
odenditur quod fit res per intrinfeca, et elTentialia rei, ut fi pro homine
dicas animal rationis particeps. Tertio per ethimologiam, ut fi pro duce dicas:
ille, qui prxejl Rei publica :, feu militibus. Quarto per definitionem
rhetoricam, cum oftendi^ tur qualis fit res per extrinfeca, et accidentalia
rei, vel quamcumque circumllantiam, ut fi pro homine dicas: animal ercElum, in
plume, providum, plenum confilti &c. et fi pro ignaro dicas: ignorantia;
tenebris obciccatus. Cavendum eft ne in perifologiam migret periphrafis,
vertitur enim in vitium, quod eft virtus. Hiperbaton latine verbi tranfgrellio
tropus ejl, quo tranfgredimur grammatici ordinis leges, ejus etenim ejl, nulla
habita ratione grammatica: conftitutionis, ita vebra inter fe conne&ere, ut
inde in oratione confonantia confurgat. Cic. pro L. Man. Fidem vero ejus inter
joctos quantum exijhmari putatis, quam hoftes omnium gentium SanEiiflimam ejfe
judicarint. Hinc nafcitur Tmefis, qua: ejufdem vocis compofitæ partes,
interpofito vocabulo, feparat, ut per mihi gratum feceris, et Virg. Hac Tiojana
tenus fuerit fortuna fequuta. Hiperbole latine SVPERLATIO – Grice: “Every nice
girl loves a sailor” -- tropus eft excogitatus ad aliquid augendum, vel
minuendum, ut Cic, Meile dulcior fluebat oratio; et Juvenalis de TigmeiS: Tota
cohors pede non eft altior uno. Fit autem variis modis. Cum ponitur fubftantivum
loco adje&ivi, ut peftis pro pefiilenti, fcelus pro fcelefto. Deducitur a
fimilitudine, ut Caribid voracior, vitro fragilior. Ab exemplis, ut Sampfone
fortior f Penelope caftior. De Verborum Luminibus, sunt quædam figuræ quæ
habent fuum fplendorem, et lumen in verbis: ita ut verbis iis mutatis, quæ
figuram effingunt, figura penitus deperdatur. Ea figuræ compreh.ndunt illis,
quæ fiunt, vel ad/ettione, vel detratlione, vel fimilitudine.De Figuris, qua:
fiunt per ' Adjectionem. Fiunt iftar figuræ repetitione alicujus vocabuli, quod
ponitur in oratione, non ad necelfitatera, ied ad ornatum lermonis, qua:
repetitio cum vocetur adjetlio, quia adjicit verbum non neceflarium; ideo ifix
figuræ dicuntur figura adjectionis. Harum prima eft Epixeufis, latine duplicat
o, qua: duplicat idem vocabulum, vel fiatim, ut Cic. Crux, crux, inquam,
infelici, et xrumnofo parabatur j vel interpofita aliqua conjundione ad majorem
vehementiam dicendi, ut idem Cic. Vivis, et vivis, non ad deponendam, Jed ad
confirmandam audaciam; vel parenthefi, ut ditius Tullius 2. Phil. n. 64. Hajla
pofita pro xde Jovis Statoris, bona ( me mi i erum, confumptis enim lacrimis
infixus tamen animo h.tret dolor ) bona, inqi-am G. Pompei voci acerbiffimx
præconis fubjcBa. Praterea non tantum verbum, fed etiam aliquando, fervefeente
oratione, integrum fenfum congeminat, ut Cic. Nunc etiam audes in horum
confpeSlum venire, proditor patrix, proditor, inquam, patrix nunc audes etiam
tn horum confpeBum venire. Hæc figara fit tum ad vehementiam, tum ad dilucidationem orationis.
Anaphora latine repetitio, in principio membrorum repetit idem vocabulum. Cic.
1. in Cat. Nihil ne te noBurnum prxfidium palatii: nihil urbis vtgilix; nihil
timor populi; nihil confenfus bonorum omnium moverunt? Antiflrophe latine
converfio, contraria ell anaphornt; nam repetit idem vocabulum in fine
membrorum. Cic. Doletis tres exercitus P. R. ejfe tnterftBos} interfecit
Antonius. Defideratis cives ? eos eripuit Antonius. Res affliBa cfl} afflixit
Antonius. Com Audetque virn concurrere virgo. Hæc figura habet majorem
venullatem, fi antithefis equilitate membrorum continuetur, e. g. Fatla
juvenum, conjilia virorum, vota fenum; fi verba invertantur, e. g- Dum cogitas
agenda, non agis cogitanda; vel fcmibovemque virum, femivnumque bovem; fi
conjugatis ornetur, e. g. Divites odit, dividas amat\ aut ii idem fit agens, et
patiens, c. g. Qj, omnibus repudiatis melius totum concluditur. Hæc maxime
illufirat orationem, præcipue, cum aliquem interrogamus, et fubito nos ipfi per
firmam fententiam refpondemus. Divus Hieronymus Epifi. xi. ad Ruffinum. J Quid
agis, frater, in hoc feculo, qui major es mundo ? Paupertatem times ? beatos
pauperes Chriftus appellat: pavore terreris ? j 4 t nemo Atbeleta fine fudore
coronatur; de cibo cogitas ? fed fides famem non timet: fuper nudam metuis
humum exafa jejuniis membra collidere ? Sed Dominus tecum f acet: Squali: di capitis horret inculta c a fanes?
Sed caput tuum Chrijftus eft i te terret infinita eremi vafittas ? fed tu Pa
radifum mente deambula: Delicatus es, fi et vis gaudere cum faculo, et regnare
cum Chrifio. Fit etiam fine interrogatione. Div. Cyprianus Epifh, 77. Non
fovetur in culcitris corpus molliter / fed refrigerio, et Chrifii folatio
fovetur. Humi jacent feffa laboribus vi/cera ’, Jed pxna non ejl cum Chrifio
jacere &c. Valet ad ornandum, h ortandum, dehortandum, docendum ac
refellendum. Communicatio figura eft, qua caufx noftra confidentes, vel ipfos
adverfarios confulimus, vel cum judicibus quid faciendum fit, quidve faBum
oportuerit, deliberamus. Cic. 2. in Verrem. Nunc ego Vos confalo, judices, quid
mihi faciendum putetis •, id erum confilti profeBo taciti dabitis, quod ego met
mihi neceffario capiendum intelligo. Interdum communicationi conjun&a eft refponfio,
et expeditio propofitæ dubitationis. Cic. pro Quin&il. Ego pro te nunc boc
confulo, pofl tempus in aliena re, quod tu in tua, cum tempus erat confulere
oblitus es. Qucero abs te C. Aquili,' L. Luculle, M. Marcelle, vadimonium mihi
non oh jit quidam f ocius, et affinis meus, qui cum mihi neceffitudo vetus,
controver/ia de re pecuniaria recens intercedit: Poftulante a Pratore, ut ejus
bona mihi poffidere liceat ? an cum Roma domus ejus, uxor, liberi fint, domum potius
denuncicml quid eft, quod hac tandem de re vobis poffit videri ? profetlo fi
reBe vefiram bonitatem cognovi, non multum me fallit, fi confutamini, quid
fiiis refponfuri: primum expeBarc: deinde Ji latitare, ac diutius ludificare
videatur, amicos convenire, quarere, quis procurator fit, domum denunciare
&c. Valet pjJ refellendum, efficax eft ad ftuporem, ad faciendam fidero, ad
fedandam iracundiam, ad excitandam commiferationem &c. C 2 Con- :f a
c•ctmufque, quid futurum fuiffet, fi fe res aliter habuiffet ». Sit e. g.
demcnllranda infidelitas Hebræorum, qui negent in Chriitum credere, ex eo quod
figna in Coelo viderint; fuppofitis fignis, ita eorum incredulita-' tem
probabimus. Heja furfum dentur de
coelo figna, quid inde? Fortajfc credent in Cbrijlum? Quid fecerint de iis, qua
c alitus venerint ? Argumentum equidem fu ment pervicacioris incredulitatis,
iifque refpondebunt, et Magos in JEgypto Signa multa de coelo feciffe. Partitio res plurimds i
aut per fanas, aut negotia divU' dit, et quod fummatim dici poterat,
accuratius, et fufius in fuas partes dijlribuit. Cic. pro Muren. commendans
Catfaris clementiam: ut vero hujus gloria Ca rjar, quam es paulo ante adeptus,
focium habeas neminem: totum hoc, quantumcumque eji, quod certe maximum ejl,
totum efl, inquam, tuum. Nihil fibi eoe ifia laude Centurio: nihil prafeElus:
nihil cohors: nihil' turma decerpit; quin etiam illa ipfa rerum humanarum
domina fortuna, in ifiius fe focietatem gloria non offert; tibi cedit",
tuam effe totam, et propriam fatetur. Huc refertur divifio, quæ difiribuit rem
in fuas partes. Cic. pro Quin. Qua res in Civitate duce plurimum poffunt, ex
contra nos ambx faciunt in hoc tempore fumma gea-’’ tia, et eloquentia, quarum
alteram vereor, alteram metuo. Revocatur
etiam fubdivtfio, qux divifa iterum di vidit. Cic. pro Quine. Juffit bona
profer ibi ejus qui eum familiaritas fuerat, focietas erat, affinitas, liberis
ijlius vivis, divelli nullo modo poterat j qua cx re ia telligi facile potuit,
nullum effe officium tam fanEium, atque folemne, quod non avaritia comminuere,
atque violare f oleat. Etenim fi veritate amicitia, fide focietas, pietate
propinquitas colitur, ncccfie ejl ijle, qui amicum, foetum, affinem, /irma, ac
fortunis fpoliare conatus ejl, vanum te, O' perfidiojum, impium ejfe fateatur.
Subdivifioni additur redditio, qua finpulis divifionis, partibus fengula
inferius rej pandent. Cic. pro Rab. Atqui videmus hac in rerum natura jutffe
tria, ut aut cum Saturnino e[fet aut cum bonis, aut later: f y Latere mortis
injlar erat turpiffima, cum Saturnino e[Je furoris, et [celeris, virtus,
honejlas, et pudor cum confulibus effe cogebant. Placuit mihi huc referre
expolitionem, qua commutatis verbis eadem fententia varie verfatur, et effertur
quo gratior, clariorque fubjictatur oculis. Cic. pro S. R. Am. Vides Eruti,
quantum di fiet argumentatio tua ab ipfa re, atque veritate: quod confuetudine
patres faciunt, id quafi novum reprehendis: quod benevolentia fit, id odio
facium criminaris: quod honoris cauf a Pater filio fuo conc effit, id eum
fupplicii caufa feci ffe dicis. De Figuris aptis ad deleflandum, trita loquendi ratio perfsepe moleltiæ
eft, et faftilio, unde confugiendum eft ad figuras, quoniam ex iis paritur
delc&atio fermonis. Harum prima eft. Defcriptio, qua: definitur: perfpicua
rerum, ac dilucida cum gravitate expofitio; fitque per colledf ionem
proprietatum adjunctorum, et conlequentium rei ejufdem, qua: deferibitur.
Varia: funt hujus fchematis fpecies, videlicet. Profographia latine nominatio,
qua deferibit veram, vel falfam perfonam, expreffis animi, corporis, ac fortuna
attributis. £thopa?ja dicitur h.rc figura, cum vitam, et indolem deferibit; ita
ut in morum cognitionem aliquem adducant Cic. poli Red. in Sen. deferibit
Gatinium mollem, et effæminatum hoc pa&o Primum proceffit, qua autloritate
vir? Vini, fomni,/iupri plenus, madent i coma, cpmpcfito capillo, gravibus
oculis, fluentibus buccis, prejja voce, temulenta. Defcriptio fiftæ perfonx,
vel rei fit, fenfu, ac corpore carenti, fenjton, vel perfonam, € corpus
affingimus j cujus rei exempla innumera apud poetas inveniuntur. Topographia e
fi: veri loci defcriptio. Cic. 4. in Ver. defcribit urbem Syracufas hac
methodo: Urbem Syra cujas, maximam ejfe gr ac arum Urbium, pulcherrimamque
omnium Jape audijiis: ejl ita, ut dicitu r j nam et Jttu ejl communita, tum ex
omni aditu, vel terra, vel mari praclaro ad afpeBum: et portus habet prope in
xdijicatione, afpcbluque urbis inclufos; qui cum diverfos inter fe aditus
habeant, in exitu conjunguntur, et confluunt. Ea tanta ejl Urbs, ut ex quatuor
urbibus maximis conflare videatur, quarum una ea ejl, quam dixi, infula, qua
duobus portubus cintta in utriufque portus oflium, aditumque projcfta ejl
&c. Cronographia ejl defcriptio temporis qua fubjiciun tur, qua in tempore
dicuntur, et accidunt. Vir. Cr. iEne. Nox erat, et terras animalia fejfa per
omnes Alituum, pecudumque genus fopor altus habebat. Poflera Fhabea lujlrabat
lampade terras, Hument emque Aurora polo dimunerat umbram. Hypotipofis
deferiptionem rei ita exprimit, ut videri potius, quam audiri videatur, Cic.
pro S. RofcioAn. Etiamne in tam perfpicuis rebus argumentatio quarenda, aut
con/ftlura capienda fit ? Nonne vobis bac, qua audijiis, cernere oculis
videmini? Non illum mi ferum
ignarum caJus fui, redeuntem a cana videtis ? Nonpojitas infidi as? Non impetum
repentinum? Non verfatur ante oculos vobis in cade Glaucia ? Non adefl i fle
Rofcius ? Non fuis manibus in curru collocat Automedontem illum, qui&c.? Eft
alia Hypotipofis, qux fit per Dialogifmum. Per hanc exprimuntur geftus
perfonarum; quæ futura funt, tartique prsefentia exhibet, et tandem in maximis
affe&ibus dominatur, fitque conglobatis affe&ibus rerumque adjungis;
vel ex comparatione majorum, minorum, et parium. Hypotypofis quemadmodum, et
reliquat defcriptionis fpecies, fimilitudine illuflratur non parum. CICERONE (vedasi) 6. lib-. in Verr.
Jlrtagathum, et argentum in UElica cubans ad mare injra Oppidum expeSlabat.
Quem concurfum fa flum in Oppido putatis ? Quem clamorem ? Quem porro fletum
mulierum? Qui viderem, equum Trojanum introduclum, urbem captam effe dicerent.
Profopoparja ejl perfonx fiblio, qua rebus mutis aut fenfu carentibus fermonem
accomodamus; vel vita funblos, tamque fpir antes, et viventes loquentes
inducimus: hæc tunc dicitur Hydolopatja. Profopopæja exemplum fuggerit Cic. i. in Cat. cum eo
loquentem Rempublicam inducens his verbis. Qua tecum Catilina fic agit, et
quodammodo tacita loqui tur. Nullum jam tot annos facinus extitit ni fi per tet
nullum flagitium fine te: tibi uni multorum civium neces: tibi vexatio,
direptioque f ociorum impunita fuit, ac libera. Tu non folum ad negligendas
leges, et quxfiiones, verum etiam ad evertendas, perfringenda) que valui fit
Hydolopæja facit idem Cic. pro Catcin. Exi fiat igitur ex ifia familia aliquis,
ac potiffimum cæcus ille ? Nimium enim dolorem capiet, qui ifiam non videbit,
qui profeblo fi extiterit fic aget, et fic loquetur. Mulier quid tibi cum Ccelio? Quid tibi cum homine
adolefcentulo ? Qjiid cum alieno ? Cur, aut tam familiaris huic fuifli, ut
aurum commodares ? fiut tam inimica ut venenum timeres ? Patrem tuum non
videras ? Non patruum, non atavum audieras Confules fuiffe ? Non denique modo
te Metelli matrimonium tenuiffe f ciebas, clariffimi, et fortijfimi Cfc. Huc
fpeftat Pathopatja, qua* adhibetur ad exprimendos, majores motus, ut
indignationis, doloris &c« Ethopteja vero utimur ad minores affe&us,
iit pudoris, benevolentiæ &c. Alterum Profopopeja genus eft. DIALOGISMVS,
qui definitur fitla perfonartm collocutio, et in hoc differt a Sermocinatione,
quod per illam orator recitat verum fermonem, vel unius tantum, vel duorum
inter fe, vel unius, qui inter alios quafi fequefter fit. Cic. pro Plan. At ego
cum cafu diebus illis, itineris faciendi caufa, decedens e Provincia Puteolos
forte veni Jf em, conci di pene, judices, cum ex me quidam quafijfct, quo die
Roma exiffem, et numquid in ea effet novi ? cui cum refpondiffcm, me e
Provincia decedere: etiam mehercules, inquit, ut opinor ex Affrica. Huic ego
jam flomachans faffidiofe, immo ex Sicilia inquam, tum quidam, quafi qui omnia
fciret, quid ? Tu nefeis, inquit, hunc Syracufis quæftorem fuiffe.^ Hæc figura
movet, et delebat. Obfervandum eft, quod in hujufmodi collocutioni* bus
confentanea perfonis vox, et oratio tribui debeat, effet etenim maximum vitium,
fi a moribus perfonarum difereparet oratio. Quare ridiculum effet, orationem
probi affingere improbo, ffultoque fapientis. Apoftrophe convertit fermonem,
aut ad Deum, aut ad hominem, aut vero ad res inanimes, quas veluti per fonas
quafdam compellat. Cic. in Cat. Tu, Tu, Juppiter qui iisdem, quibus hac Urbs,
aufpiciis a Romulo es confiitutus, quem Statorem hujus Urbis, atque imperii
vere nominamus, hunc, et hujus f ocios a tuis aris, ceterifque templis, ac
teclis urbis, ac manibus, a vita, fortunifque civium omnium arcebis:& omnes
inimicos bonorum, hofles patria, latrones Italia, fcelerum fadere inter fe, ac
nefaria Jocietate conjunftos at emis fuppliciis vivos, mortuofque mælabis. Hæc
figura urget, increpat, com- mendat, cohortatur, commiferatur, monet,
vituperat. Obfervandum primo in reprehenfionibus, cum ad judices, vel auditores
fermonem habemus, qui gravis fit auditu, ad alium quempiam orationem efle
convertendam, ut ipfi in aliena perfona, quid peccent, intelligant, et quid
faciendum, fentiendumque fit, in aliis edifeant. Notandum fecundo, hanc figuram
tantam habere vim, quantam accipit ab aliis dicendi luminibus, ea vero nihil
cfTe ineptius, fi vel immodice ufurpetur, vel fine dcleftu verborum, vel fine
gravitate fententiarum. Servandum tertio, quod licet apud oratores non deljeat
eflfe frequens ad res inanimes Sermo, qui fæpiflime poetis permittitor, valet
tamen plurimum, tum in orationibus panegiricis, quando appellantur loca, in
quibus aliquid infigne geftum fit; tum etiam in aliis, quibus concitandi tunt
animi motas. Comparatio, vel fimilitudo ejl cognata quadam inter res dijfimiles
affeftio; cum Icilicet duæ res inter fe ob quamdam fimiTitudinem componuntur.
Hæc figura, et animum audientis fuavitate, et orationem dicentis gravitate
perfundit, maximcque accommoda eft ad fuaves motus, tum ad exornationem, tum ad
perfpicuam dicendi methodum. Fit autem tribus modis. x. Similitudo petitur ex
rebus bere paribus, ut fi conferatur orator cum oratore, Philofophus cum
Philofophos Sen. Epift. 44. Nec rejicit, nec elegit quamquam Pbilofophia.
Patritius Socrates non fuit. Clot antes aquam traxit et rigando hortulo locavit
manus. Platonem non accepit nobilem pbilofophia, fed fecit. Quid ejl, quare
defperas, his te po ffe fieri parem, Deducitur ex re difpari, cum Icilicet res
alioquin diverfas in aliqua re fimiles efle offendimus. Seneca de ira: Ut
furentium certa indicia funt audax, minax vultus, triflis frons, torva facies
&c. ita irafeentium eadem jigna funt flagrare et micare oculis, vultu et
ore toto rubere. Trahitur ex rebus fi&is. Cic. pro leg. Man. Primum ex fuo
regno fic Mitridates profugit, ut ex eodem Ponto Medea illa quondam profugi ff
'e dicitur, quam prxdicant in fuga fratris fui membrain bis locis, qua fe
parens ptrfequeretur, diffipavtffe, ut eorum colleElio difperfa, mxrorque
patrius celeritatem perfequendi retardaret. Sic Mitridates fugiens maximam vim
auri, atque argenti, pulcherrimarumque rerum omnium, « majoribus acceperat, £?*
ipfein ponto reliquit &c. e manibus effugit. Huc pertinent parabola?,
Apologi, fabula;, et exempla. Comparationum duæ funt fpecies; aliæ enim funt
fimplices, aliæ compofiræ. Simplices unam tantum complebuntur fimilitudinem.
Compofitæ in duo genera dividuntur. Primum efi, cum res una pluribus
fimilitudinibus illuftrarur,- alterum cum res multæ multis comparationibus
exprimuntur. Primum variis modis fieri poteft. Cum fingulis membris fingulæ
fimilitudines referuntur. Cum fimilitudines in modum definitionis colliguntur.
3. Cum frequentia adjunba, five epitheta congeruntur, quæ fimilitudinem
contineant. Cum ex eadem re, fimilitudinis membra deducuntur, quod fit per
defcriptionem. Alterum genus multas res fingillatim multis compararationibus
illufirat. Obfervandum efi breves fimilitudines plurimum habere ornamentum, fi
per totum orationis corpus fundantur: longiores aptas eflfe ad docendum, et
probandum. Apologos, et fabulas infrequentes efle debere, fed plurimum recreare
animum, et audientiam excitare. Dc Figuris aptis ad permovendum. T? rgura»,
qua; majorem vim habent ad permovenJL dum, funt qua; fequuntur. Exclamatio, quæ
definitur a Cic. Schema conficiens SIGNIFICATIONEM DOLORIS, indignationis per
compellationem hominis, aut rei cujufpiam quadam expre[fa, aut tacita inter
jeSlione: inventaque e fi ad augendum re? magnitudinem, fitque per elationem
fermonis; Cic. a. Philippica. 0 audaciam \immancm. Tu ingredi illam domum aufus
es 1 Tu illud SanBiJJimum limen intrare ? &c. Sive per fignificationem
iracundiæ. O pejlis. O labes. O tenebra. O lutum. O for des. O portentum in
ultimas terras deportandum. Vel miferationis.Cic. pro Sylla: O miferum t et
infelicem diem illum, quo conful omnibus centuriis P. Sylla tenunciatus erit'.
o falfam fpem\ o volucrem fortunam ! « exeam cupiditatem', o prxpofleram
gratulationem'. Vel admirationis .Cic. in Cat. O tempora, o mores, Senatus hoc
intelligit: Conful videt; hic tamen vivit. Vel per ironiam gravitate
temperatam. CICERONE (vedasi) in Pif. O finitos Camillos, Curios, Fabricios, o
amentem Paulum ! Suaviflima efl hæc figura, cum poft fingulas fententias brevem
exclamationem fubneflimus. Tertull. in Apol.: Empodocles totum fe fe at n ais incendiis donavit. O
vigor mentis ! Aliqua Carhaginis conditrix rog o fe pojl fecundum matrimonium
dedit. 0 praconium ca (litatis ? Regulus me unus pro multis hojlibus viveret,
toto corpore, cruces patitur. 0 virum fortem, et in captivitate vittorem ! Huic
fimilisefl ea figura, quæ licet exclamatione non fiat, in brevi interrogatione
judicium de re pofita fubneflit e. g. Dominus Omnipotens templum efl cale/lis
illius domicilii; quid San&ius? Hæc Civitas non eget Sole neque Luna; nam
lucerna ejus efl agnus. Quid fplendidius? Utimur exclamatione, cum res maximas
perfuaferimus, et grave aliquod fa&um propofucrinau, vel illatum, vel
acceptum. Habet
locum in amplificatione, et epilogis, fed in minimis controverfiis frigida efl,
et puerilis. Acclamatio, sive epiphonema e/l oratio, qua rei narrata, aut
probata fubjicitur gravis quadam diSlio ex fuperioribus rubus exprejfa.
Cic.poflquam docuit oportere legibus, et judiciis vitam tueri; leeum'.vim vi
repuifunda fubdit pro S. 'IulL Hoc fentire prudentia, facere re fortitudinis,
fent ire vtrt, nones. 1. /''XUalis eft ifte finis, five bonus, five malus, talis eft res, qua:
ad ijlud finem per fe ordinatur. Si honefta eft Icientia, honeftum erit et
illius ftudium. Hoc tamen dicitur, cum res per fe mala non eft, tunc enim non
honcftatur a fine bono, ut patet in furto, quod fiat ad ferendum fubfidium
pauperibus. 2. Cujus finis bonus eft et id bonum: cujus optimus eft, et id
optimum tft: Si eloquentiæ finis melior eft, quam juris prudentiæ, etiam
eloquentia melior eft, quam juris prudentia. Qui finem expetit, eadem et
ample&itur media, quæ ad ilium obtinendum conducunt, fi pace frui volumus,
vel fcedus eft ineundum, vel bellum cum hoftibus eft conficiendum. A fine
removenda funt contraria media. Ex negatione caufæ finalis, fequitur effedlus
negatio. Si Milo occidit Clodium, his tantum occidit de caufis; vel quod eo
adverfante non poterat effe conful, vel quod ipfe conful erat eligendus;
neutrum verum fuit, ergo Milo Clodium non occidit. Sic Cic. defendit Rofc. de
parricidio his verbis: Vita hominum cjt 1 ut ad maleficium nemo fine fipe, ac
emolumento conetur accedere', oftendens deinceps nullum non foluro emolumentum
evenifle Rof. exparentis nece, fed etiam graviflimum detrimentum ex ea
reportafle. A fine non acquifito,
varia infertur caufa; Dux non eit aflecutus viftoriam; ergo inepte; ergo
incaute; ergo infeliciter pugnavit. De effectibus E Ffefta definduntur a
CICERONE (vedasi) qute sunt orta de caufiu; quapropter ex omnibus causis
educuntur, ii que causas qua ( cumque probamus. Princeps deleftum habet
militum, confcribit legiones, duces convocat, ergo bellum meditatur. Eadem
quoque fi negentur de aliquo, de eo pariter negatur caula, cujus funt effetfa.
Adolefcens non vagatur otiofe per urbem; non obiter, ac perfundorie res fuas
agit :non ad multam diem fternit mens; igitur eum male nominas negligentem.
EfFt&a cum magna oieendi copia tra&ari poliunt in omn>bus caufarum
generibus; in fuafionibus, et difluafionibus, in accufationibus, et defenfionibus:
in laudibus, et vituperat ion bus. Habent etiam iocutn, cum aliqua obiefla funt
ab adverfanis, tunc etenim ea refelluntur oppofitis effe6 Iibus, quod venulle
fiet ab oratore, fi interrogationibus frequenter utatur, fubjettionibus,
repetitionibus, apodrophe &c. Huc revocantur Metonymiæ, qux caufam per
effatum declarant, et contra, valerque hic dicendi modus, tum ad varietatem
locutionis, tum ad numerum orationis, circumfcrtprionemque periodi. Prxterea
amplificant, et deferibunt, quod prædari debet per longam effe&uum
congeriem, five laudemus, five vituperemus. F 4 Canones hujus duo funt. "C
Xpofito effeSu, necefle eft prarfuiffe caufas ad JLj efferus neceftarias. Homo eft conditus, eft igitur
ad sternam felicitatem corpore, et anima compofitus. 2. A bonitate, f«i pratftantia efferus, bonitas caufa:
arguitur, et prsftantia. Sic Cic. pro Mur. demonftrat effetlibus ad confulatum
adipifeendum plus valere virtutem militarem Murena: quam C. Sulpitii juris
prudentiam. Comparatio ea efl, per quam duo, vel plura in aliquo tertio
conferuntur quod illis commune fit e. g. Catoni licuit fequi bellum civile;
ergo et Ciceroni licebit; ubi fequi bellum civile commune eft ambobus, Ciceroni
fcilicet, et Catoni, qui in eo conferuntur. Quoniam vero in triplici genere res
quatpiam conferri poteft, ideo triplex eft comparatio. Kes etenim alis majores
funt, hoc eft verifimiliores, et quibus id, de quo agitur, potiori jure
conveniat; aliæ insquali gradu veritatis funt pofitse, ut non fatis agnolci
poftit, utrum res potius conveniat iis ne, quæ conferuntur; an iis, cum quibus
conferuntur. Hinc nafeitur triplex comparationis genus, a majori fcilicet ad
minus, a minori ad majus, et a pari. A majori ad minus argumentamur hoc pafto;
cum fcilicet ex eo, quod verifimilius eft, et convenientius, et tamen nec
convenit, nec verum eft; aliud, quod verifimile, minufque conveniens fit, nec
convenire, nec verum efle colligimus. Cic. pro dom. fua docet Deos immortales
domum fuam non concupiffe, quod ne Homines quidem fceleratiflimi illam
expetiverint, Qua in re vobis eft advertendum, quod in comparatione id non eft
majus, quod majus eft, fed quod verius, et convenientius eft. Præterea in hoc
argumenti genere, tum id, fitione fidem conciliat; amplificatio fubtiliter
enucleando fingula, lucem rebus addit. Illa ftilo concilo fua explicat
argumenta: illa fententiarum pondere, orationis ubertate, ambitus magnitudine,
et ingenti quadam vi comprehenfionis eadem impellit. Itaque tribus rebus ab
argumentatione diferepat amplificatio: materia fcilicet, traflatime, &fine.
Materia quidem: nam argumentatio adhibetur ad omnia quxftionum genera;
amplificatio non nifi ad magnas, gravelque caufas, in quibus debeat oftendere
orator aliquid effe calamitofum, indignum, lætum, trille, tnilerabile, amabile,
deteflabile, formidandum, optandum, fugiendum. Tra&atione; nam argumentatio
preffe, et argute proponit; amplificatio fule, et graviter exponit. Ilia ad
pugnam le>iter procurrit, fa&aque plaga confefiitn fe fubducit; illa in
apertum, ac patentem campum procedit, tela, et tormenta omnia excutit, donec
fatigatus holtis, et pene fra&us concidat. Fine; nam finis argumentationis
eft cognitio; amplificationis motus; quare hxc non adhibetur, nifi cum
perlpefta rei veritare, dignitas, amplitudo, gravitas, aut contra indignitas,
vel atrocitas per motum eft demonftranda fervit farrun et fidei faciendæ; quod
ubi motus fuerit auditor, multo firmius rebus creditis adhærelcat, quam
anrequam moveretur. Exemplum aliquod a Cic. petitum clarius illuftrabif, quee
hucufque de amplificatione locuti fumus. Qui igi H ter tur diceret ejiciendum a
Repubiica Antonium, ilium >er argumentationem patriæ diceret proditorem;
Tulius vero ita eum per amplificationem urget, et confligit Phibppica 3. Hanc
vero teterrimam Belluam quis fare poffet, aut quomodo? Quid ejl in Antonio prater
libidinem y crudelitatem, petulantiam, audaciam, ex his totus conglutinatus
eji; nihil apparet in eo ingenuum, nihil moderatum, nihil pudens, nihil
pudicum. Quapropter 9 quoniam res in id diferimen addatta efi\ utrum ille
poenas Reipublica luat, an nos ferviamus; aliquando per Deos immortales P.C.
patrium animum y virtutemque capiamus y ut aut libatatem propriam Romani
genatSy et nominis recupæmus, aut mortem fervituti anteponamus. Multa qua in
Ubera Civitate ferenda non ejfent, tulimus, et perpeffi fumus, alii fape
recuperanda libertatis y alii vivendi nimia cupiditate; fed fi illa tulimus,
qua nos neceffitas ferre coegit j qua vis quadam pene fatalis; qua tamen ipfa
non tulimus i e tum ne hujus impuri Patronis referemus teterrimum,
crudelijfimumque dominatum ? Quid hic faciat; fi potuerit, iratus, qui cum
fuccenfere nemini poffet, omnibus bonis fuerit inimicus l Quid hic viElor non
audebit, qui nullam adeptus viElo riam, tanta fcelera pofi Cajaris interitum
fecerit > refertam ejus domum exbauferit, hortos compilant, ad fc omnia ex
his ornamenta trandulcrit, cadis, et incendiorum caufam quafierit ex funere. Et ea quam plurima, qua in hoc loto videre
poteritis. Qu.t res amplificationem admittant, quæque fint ejus fedes in
oratione. Rerum, quæ in fermonem cadere poffunt, aliæ graves funt, ali* exiles,
aliæ mediæ; quod graves amplificationem admittant, ex di&is fatis colligi
poteft. Quæ funt mediæ magnam oratoris ©peram re quirunf, ut amplificationem
recipere poffmt; iri exilK bus vero nihil eft, cur allaboremus, ut
amplificatione illuflrentur; oleum enim perdemus, et operam. Locus
amplificationis in oratione proprius eft peroratio, in qua confertim opargit,
quæ figillatim emiferat; et licet inter argumenta fingula fpargenda fint
amplificationis femina; tamen ubi ad extremum orationis ventum fir, ea omnia
recolligi folent; ut vehementioribus arfeftibus in fine motus auditor, palmam
oratori cedat, ac vi&oriam. Unde fumantur amplificationes. D Uplici ex fonte profluit
in oratione amplificatio, ex verbis fcilicet, et rebus. Verba, qua:
amplificationi deferviunt ea funt, qua; illufiria dicuntur; de quibus multa
fatis diximus in exordiis hujufce noftræ pratceptionis. Illuc vos remitto.
Amplificandæ autem rei 4. fontes aperuit Quinft. Incrementum fcilicet,
comparationem, rationem, conriem. Congeries duplex efl, una verborum, da que
plura admodum diximus, altera fententiarum, in qua fentcntiæ plures ejufdem
fignificationis componuntur; cujus ufus triplex efl; vel ut iis, qua; minus
apta funt, lucis aliquid afferamus, priora pofterioribus explicando; vel ut
orationem pleniorem, et modulatiorem, expleto numero, reddamus; vel ut
inflandi, honorandi, vel exprobandi criminis caufa exagerationem aliquam
faciamus. Qua in re cavendum maxime efl, ne multis verbis quamlibet fententiam
pueriliter oneremus; videndumque, ut pofteriores fententiæ, vel aliquid lucis
prioribus afferant, vel plus acrimonia: contineant, incendantque vehementius
orationem. Quæ ufque diximus, non fatis explicarunt ad propofitum quid fit
rerum congeries; ne igitur quidquam omittamus. Rerum congeries efl, cum ad
inflandum, Ha augendumque, a nobis variæ adiones, refque enumerantur et io unum
quafi acervum congeruntur, fublatis aliquando conjundionibus, ut acrins
inflemus. Adhibetur, cum
incalefcit oratio ad amplificandum, quæ bene, quæ male gefta funt. Multæ enim
virtutes fimul collatoe admirationem, et amorem, plurima vero vitia faftidium
et odium conciliant. Congeries adeft etiam definitionum, partium, caufarum,
effedorum, concomitantium,&confequentium, contrariorum, et adjundorum. Quæ
definitionum eft, naturam rei explicat, vel per partes, vel per caufas, vel per
effeda, vel per adjunda, five accidentia, vel per fimilia, vel per negationem.
Exempla omittuntur, ne paulo fufiores fimus, quam par eft. Incrementum alter vi
amplificanda: modus fit, cum per gradus crefcit oratio, et ad furumum pervenit.
Differt a congerie, quod hæc coacervat multas fententias, et voces; In
incremento femper crefcit oratio. Hoc fit duobus modis. Primus eft, cum citra
diftinftionem graduum, in ipfo contextu, et curfu orationis, femper aliquid
priore majus infequitur. Cic. pro S. R. Am. Petimus a vobis Judices, ut quam
acerrime maleficia vindicetis; ut quam fortijfimi hominibus audacijfimis refijlatis,
ut hoc cogitetis, nifi in hac caufa, qui vefier animus fit, ofiendetis, eo
prorumpere omnium cupiditatem, et ficelus, et audaciam / ut non modo clam;
verum etiam hic in foro, ante tribunal tuum M. Fanni, ante pedes ve Jlros,
judices, inter i pf a fiubfiellia cades futura fimt. Secundus, cum fingulos
gradus dividimus, et infingulis commoramur; et tunc ea, quæ minora funt, magna
facimus, ut quod ultimo loco ponitur' maximum effe videatur. Si velis ergo
martyris alicujus fortitudinem efferre, per fingulos fortitudinis gradus ab imo
ad fummum affurgas. Huc pertinet illud amplificandi genus, quod dicitur
extenuatio, quæffiperiori oppofita, fif, cum procedentia, quo vere maxima funt,
et videntur, omnibus elevamus; ut quod fequitur, minus appareat. Ratiocinatio
fit cum ut aliud crefcat aliud augetur; unde ad id quod extolli volumus, ratio
deducitur. Uc fi quis Annibalis virtutem amplificet, ut major gloria Scipionis,
quicum debellavit, eluceat. Comparatio diverfa inter fc, et majora cum mi*
noribus comparat,- non eo tantum, ut rem probet; fed ut exageret, et majorem
vim faciat, ut fi quis obedientiam Chrifii cum illa Abrami conferat, ut
alterius prxftantia magis emineat. Vel fi qui amplificandum alTumeret alterius
calamitatem, eam comparare deberet cum priflina illius calamitate, vel cum
aliis calamitatibus, ut offenderet hanc efle graviorem. Notandum in hujufmodi
comparationibus, utriufqite partis circumftantias, quæ rem augere poffunt,
diligenter efle excutiendas,, neque folum virum cum viro, faftum cum fa&o,
rem cum re; fed partes etiam lingulas cum aliis partibus efle componendas. Cic. pro Dom. fua Caflium
Cenforem cum Clodio comparat his verbis. Quuefo Pontifices, et hominem cum homine, et tempus
cum tempore, O* rem cum re comparetis. Ille erat fumma modejiia, et gravitate
Cenfor; hic tribunus plebis fcelere, et audacia fingulari: tempus illud erat
tranquillum, et in libertate populi, et gubernatione pofitum Senatus: tuum
porro tempus libertate populi Romani opprejfa, Senatus auEloritate deleta: res
illa plena juflitis, fapienthe, dignitatis; Cenfor enim &c. et cetera
quamplurima fequuntur &c. Quod di&um eft de exemplo, dicitur de illuftriqaadam
fimilitudine, qua res interdum vilis multofit magnificentior. Qua in re advertendum eft, ne rempropofitam ita
fuperet fimilitudo, ut convenire cum ea pulchre non poflit. Sed quoniam nihil
in oratione erit decorum, quod fuis non illuftretur figuris, in eadem nonnullas
fibi peculiares, et proprias expofcit amplificatio. iEdem funt hypotipofis,
profopopæja, exclamatio, optatio, imprecatio, commonitio, et aliæ fim.^ qua»
motum faciant. Affectus illi funt, quorum vi ftc auditorum animi, voluntate/que
mutantur, ut aliud, quam ante de rebus propofitis judicium ferant. Secundum
alios affettus efl animi quidam impetus, quo ad appetendum, averfandumque
aliquid vehementius, quam pro quieto mentis flatu, impellimur, Alii vero ita
definiunt: Effetius efl animi fentientis ex alicujus rei bona, vel mala
opinione rata commotio. In his permovendis totus efle debet orator, ut enim ex
definitionibus patet, auditorum animos, nunquam ille triumphabit, etfi
validiflimas afferat probationes, nifi motum faciat. Unde inquit Fabius:
Probationes efficiunt fane, ut caufam noflram meliorem effe Judices putent:
affettus pr a flant, ut etiam velint. Sed id, quod volunt, credunt quoque j nam
cum Judex fuerit occupatus affettibus, omnem inquirenda veritatis rationem
amittit. Antequam vero numerum affefluumftatuamus, &de fingulis difTeramus,
opportunum erit præmittere, qua: in hac re de fe ipfe prædare debet orator.
Motum excitaturus ille debet efle, vel faltemfefingere, iifdem affe&ibus
incitatum, quos parat in aliis movere. Prudens fit, ut tempori inferviat; in
dicendo acer fit, nervofus, difertus, voce plenus. Præterea confideret, apud
quos dicat, et quibus moribus informati auditores fint j qua educatione
inflituti $ quibus opinionibus imbuti, et quibus rebus moveantur, an pietate,
an ira, an odio, an amore, et hujufmodi, quarum rerum conje&uræ colligi
poflunt ex qualibet cujufque natione, ex corporis drufiura, et temperie, et
tandem ex iis, quæ de auditoribus prædicet fama. Cujus rei occafione
obfervandum, quod dofli homines refpuunt molles affc&us, ac dolore
incenfos, quos tamen admittunt fimplices. Apud feros, &agreftesopus eft
lateribus firmis, voce truci, iracunda, et formidabili; in curia ritus fit
vividus, et acer. Ut igitur ad pertra&andos dcfcendamus affcftus, omitlis
variis illorum divifionibus, quas varias varii au&ores a dignant, hos
tantum placuit enumerare, et funt, qui fequuntur. cn Amor. Defiderium Gaudium
Spes Metus Ira Mifericordia Invidia Pudor Odium Fuga Dolor Defperatio Audacia
Manfuetudo Indignatio Æmulatio Gratia. Amor definitur ab Arift. 20. Rhef. cap.
4. Affcttus, quo volumus alteri, qua bona funt, idque ejus, qui diligitur, »0»
no (Iri caufa, et in illis rebus comparandis pro virili elaboramus. Amor
multiplex est, Divinus, Angelicus, intelleftualis, animalis, et naturalis. Amor
Divinus eft, quo Deus omnia creavit, tuetur et fubflentat, fine quo ntc ipft
Angeli vitam habere poffunt. Angelicus eft, quo Angeli Deum amant, et illius
imperio hominibus famulantur, t 9 “ creata fervant. Intellectualis eft, quo
humana mens quaque bona, et honcfla defiderat, et inquirit. Animalis est, quo voluptuarii
appetunt, et hic brutis quoque communis efl. Naturalis eft, quo res fe mutuo
dilidunt, fibique naturalis dileUionis vinculo coharent,* et hic dicitur etiam
Sympathia, cui opponitur Antypathia, qua res naturali odio fe fe expellunt.
Hinc fiunt miranda illa natura arcana, ut magnes attrahat ferrum, Elitropium le
vertat ad Solem, penna Aquilæ aliis admixta pennis, ab illis evolet,
effugiatque. Quia vero in tra&andis affectibus oratoris eft, eos aliquando
excifare, aliquando reprimere, aliqua de lingulis attingemus, quibus et ii
excitentur, et ii reprimantur. Amorem igitur excitant honeftum, utile,
jucundum. Ad Honeftum pertinent virtus, et probitas, vitæ æquitas, modefta
pulchritudo, comitas, et manfuetudo, innocens, et fimplex urbanitas, conflantia,
fidelitas. Ad utile fpeCtant
beneficia, grati animi fignificatio, liberalitas, communicatio bonorum, et
confiliorum. Ad jucundum revocantur amor ipfe, bonorum, et malorum communitas,
morum, ftudiorum, et periculorum fimilitudo, fiducia, familiaris, et domeftica
confuetudo, aliens virtutis commendatio, injuriarum oblivio. Præterea amorem in
aliquem conciliabis,* fi eum oflenderis natura lenem, facilem, popularem,
dignum, cui fe credant alii, cui arcana fua committant, apertum tandem, et
candidum moribus. Adverte quod in amore intelleCluali excitando judicio, et
prudentia opus eft,* quare eligendæ funt illas res, quæ maxime argumento
fufeepto conveniant. Amor non folum excitatur illum commendando, fed etiam
deferibendo; pro quo multiplices ejus vultus, variaque illius effe&a
enarranda funt. Nos igitur ut aliquid de illis dicamus, turpi amore deje&o,
divinum. educemus in medium, quem modo lacrymantem inducimus, modo extra fenfum
raptum, modo fævientem in fefe, modo pauperem, modo divitem, modo flammarum
inftar ardentem, modo liquidi fluminis inftar gaudio colliquefcentem, modo
velat piftorem, modo velut oratorem. Non eft, cur reprimi debeat amor honeftus
/"fi tamen reprimendum aliquando arbitremur, idonea funt ea quæ in
contrariam partem fumi poliunt ex iis, quæ ilium excitant, et aliqua pariter,
quæ amorem improbum reprimere poffe dicemus. Reprimemus igitur amorem improbum,
fi offendemus vitia, et deformitatem rei, quæ male diligitur, fi infamia eX
illa redundet, fi fufpicionem injiciamus amanti, aut perfidiæ, aut doli, aut
frigidioris animi, aut injuriæ ex re amata profe&æ: fi adducamus amantem in
defperationem rei exoptatæ; fi ponamus ob oculos nihil utilitatis, aut
jucunditatis, fed damni plurimum, ac moleltiæ ineffe rei, quæ diligitur: fi
affirmabimus puerilis efie naturæ, quem amamus, inqonftantem fcilicet,
erraticum; faftidiofum: fi dicemus miferam fervire fer.vitutem, qui legibus
amoris obfequitur; fi tandem infinuabimus peffime in rebus fædis collocari
temporis illud quod aliqui majori cum fruftu voluptatis, et gloriæ confumere
poffunt. Amor, five ille bonus fit, fi ve malus, multiformis exprimi potefl,
five ut defcribatur, five ut excitetur, five ut reprimatur; et primo amatæ rei
fibi femper reprehenfentat imaginem, habitum, incertum, motum; verba, geftus,
vultum, femperque eft in peftore; et in rebus ipfis, qua: amantur; fecundo
imitatur omnia, quæ in amico intuetur:’ idem cum eo lentit, idem loquitur: idem
probat: dolet cum dolenfe, cum ridente ridet; negat cum negante; 3. focietate
gaudet, ac præfentia amici, reditu gaudet, eoque abfente afpernatur omnia,
cibum, fomnum &c. 4. in amicum liberaliter effundit omnia; 5. laudat,
miratur, extollit fa£la, di£U, fpeciem, et dignitatem; 6. audet viribus, mente
agitatur, doloribus, et curis anxius, et inquietus eft; 7. quæ fluita funt, et
inepta facit, huc, et illuc volitat, has illafque ineptias facit; 8. vigil efl,
et infomnis; 9. modo loquax eft, et garrulus, modo mutus; 10. timet non fua fed
amici caufa; 11. nihil arduum, aut difficile reputat, fed pericula fubit intrepidus,
fi quid forte aggrediendum fit, rei amatæ caufa 12. fufpicax eft, et carnifice
cordium Zelotypia agitari folet 15. fui contemptor eft, proque re amata
luperbus, et magnanimus mortem negligit, et pericula quantumvis formidanda,
immo etiam te ipfum 14. conftans eft, ac firmus in amicitia 15. ftudia,
exercitationefquc omnes oblivifeitur 16. fui oftentator eft 17. blandus eft
erga amicum, contemptus vero ardet iracundia, exprobat vehementius, cbjicitque
beneficia 18. ad lacrymas valde facilis eft 19. defperans eft, et ubi definit
fperare, finem doloris eligit mortem. Quemadmodum amor animi motus eft, quo
fertur in bonum, quatenus bonum eft; fic ODIVM eft animi affeElus, quo fe
avertit ab eo, quod malum eji, vel certe malum exijiimatur. Odium inflammant,
quæ amori, et benevolenti* adverfantur; quemadmodum virtutes, et eæ præcipuæ,
quse fummam aliquam Reip. afferant cum utilitate dignitatem, vehemens funt
incitamentum amoris; ita e contra ad inflammandum odium, admovent faces vitia
omnia, et illa præfertim, ex quibus calamitates oriantur, tum in fingulos, tum
in Rernp. uni erfam. Verum, ne omnia generatim dicamus, præcipua capita
proponamus, per quæ vis odii gravioris in animis exardefeat. Odium igitur
inflammabunt 1. incommoda, feu jaftnræ five futuræ fint in animi dotibus, five
in bonis corporis, five in fortunæ donis 2. calumniæ, quibus maxime læditur
nominis exiftimatio, atque hominum opinio 3. contemptus, quo non parva fit
homini injuria, qui honoris retinens fit. Ex hoc capite odium vehementius
incalefcet, fi perfonæ, quæ injuriam intulit, fpeciem indignam exprimemus; fi
virtutem, et dignitatem ejus, qui læfus eft cum fcelerc, et indignitate
comparemus ejus, qui Ixferit; fi tandem utemur comparatione minorum, et
colligemus exempla magnæ cujufdam injuria:, qua: cum hac improbitate eollata,
longe minor videatur. Quod etiam felicius prxftabit orator, fi fublimes quafdam
adhibebit figuras, Hypotipofim prxfertim, qux injuriam ob oculos ponat,
exclamationem, et Apoflrophen, quæ acrioreta faciant fermonem. Præterea ad
inflammandum odium peridonea eft vitiorum expolitio, qua: in aliquo fint, ut
libidinis, audaci*, et impudentia:, injuftitix, fuperbiæ, crudelitatis,
avaritiæ, animi ingrati, nimia: potentiæ, et impietatis. Odium reflinguitur, fi
in animo exulcerato lætitiæ fenfum aliquem ingeneremus, aut generofum quemdam
impetum ad magna, et honorifica incitemus. Sed ad particularia remedia
deveniamus. Odium igitur emollitur, fi res Ixtas, ac profpere fluentes proponas
illi, quem ex hofle amicum habere volueris. Confert etiam plurimam ad fedandum
odium, quod orator fciat, quibus de caufis fufeeptum fuerit, &quid fit
illud, quod oderit hoftis in hofle. Quare fi vitiofum fibi perfuadeat, delenda
eft hæc opinio ex ejus animo, fed occulte, et quali aliud agendo / ita ut in
principio ei alfentiri videaris, et mox alterius laudes fubjicias/ Si odium
proficifcatur ex injuria illata, tum ifta minuenda erit; vel fi qui læferit in
repentinam aliquam calamitatem irrepferit, hæc erit deploranda, et fulis
lacrymis profequenda. Poterit etiam ofiendi dolor, et pænitentia perfonx
illius, qux lxferit. Denique quoties odii caufas fufluleris, toties et
abfolveris odium. Dicas in alinm mutatum elfe, qui in odium venerat, vel
propinquum efle, autneceflarium, ve) aliqua virtute nobilem fa&um, aut
eruditione clariorem, et Reip. laboranti perquam utile, et neceffarium.
Prxterea odium definiunt preces, et lacrytnx, quibus hominum animi facile
emolliuntur. Rurfus fi dices, ipfum fibi nocere, qui alterum odit, levia effe
illa, quas odii caufa fuerint, fapientem hominem do* Iere potius, quam odiffe
fortem illius, qui cascus animo, et voluntate deerrans, caufam odii fecit; ad
inclinatam, jacentemque fortunam, a florente, et erefta cecidiffe illum, qui
odio dignus fit, odium facile remittes. Ut autem fciat Orator optime fe gerere,
tum in concitando, tum in defcribendo odio, aliqua illius ef*. fefta enucleanda
videmur. Odium igitur hofli malum imprecatur'; perniciem infert, et ulcifcitur;
eam exprobat, quæ pudorem inferre poffunt, conviciis impetit, minatur; aperte
fefe odiffe jprofitetur; ut crudelius noceat aliquando tegitur; ubi hofli
perniciem attulit, plenum lætitia triumphat; ut hofli noceat, et fibi nocere
non reformidat; adeo crudele efl, ut quafcumque pænas fumat, leves femper fibi
videantur fempcrque acerbius aliquid excogitet; ita immortale,* ut ad nepotes
tranfire peroptet; ita inflexibile, ut in bonam partem neminem velit, ita
prasceps et furibundus, ut abeat in omnia fcelera,& veneficia; aliquando
indignatur, queritur, gemit, defperat, fi decidat a fu is conatibus cum hofli
perniciem expetit: aliquando folatur vindi&æ fpe; alterius confpe&um,
confortiumque devitat, et exeeratur; importat denique omnia, quas amori
contraria funt. DESIDERIVM efl appetitus boni dclcElabilis, fed abf entis. Affe&us
ifte variis explicatur nominibus { >ro varietate rerum, quas defiderantur ?
nam auri deiderium dicitur avaritia, honoris ambitio, voluptatis libido,
inutilis fcientias curiofitas et fic de aliis. Cum autem tot, fere fint hominum
defideria, quot homines, oratoris erit diligenter confiderare quo cujufque
natura maxime feratur. Apud mercatores lucrum, et utitatem propones, apud
imperatorem, et nobiles gloriam, et laudem, et apud alios alia, pro ut hominum,
apud quos egeris, defideria mutantur. FVGA, qua: ex odio proficifcitur,
quemadmodum ex amore defiderium, ajfeBus e/i, qui conatur recedere a malo illud
fugiendo, Jeu dctcjiando. Orator in auditorum animis defiderium accendet, fi ea
revolverit, qua: difta funt de amore, fugam excitabit, fi qua: de odio docuimus,
mente recogitaverit. Ne autem omnino prattereamus, qua: ad exprimendos,
reprimendofque afreftus hofce pertinent, aliqua, qua: defiderium tangunt,
explicabimus, ut ex illis, qua: fuga: funt, facile colligere poflfis.
Defiderium accendendum eft, cum aliquem excitare volueris, vel ad optimum
flatum capiendum, vel ad ardua quxdam perficienda; et tunc ut affe&um iflum
inflammes, rei præflantiam, ac magnitudinem exprimas oportet; laudem, ac
gloriam commemorare poteris, vel illius, quem adhortaris, vel illam, qua: ex re
optime perfe&a fibi certe proveniat, fpem eriges feliciter nancifcenda:
rei; demum proponere tibi licebit difficultates, refque adverfas qua: obvia:
efle poflunt in tanta re, fed adverte omittendum non efle majorem inde gloriam,
et laudem fore nafeituram.' Ad coercendum defiderium ea omnia percommoda funt,
quK de defperatione dicentur inferius, illud tamen facile reftringes, fi probes
haberi non pofle illud, quod ab auditoribus expetitur; fi damnum multiplex, et
varium, fi duram ex hoc defiderio nafeituram fervitutem defcripferis; fi in
cohibitione defiderii pofitam efle vitæ felicitatem oflenderis, fi vilia efle,
et inania, qua: appetantur, docueris; denique fi bonum non efle, fed tantum
apparenter efle, quod defideratur edixeris. Qua: in defiderio poflunt
defiderari ad deferiptionem illius, eadem funt qua: in amore; fed quia affeftus
ifle ex bonitate rei defiderata: voluptatem habet, ex absentia vero dolorem,
prxeipue illiu effefta ex i (lis nafcuntur: Qui igitur defiderio, ac frequenti
angitur rei concupitæ cogitatione, (omnians habet ejusdem imaginem inter lomnum
excitatam, cum re defiderata colloquitur, cum fylvis, et rupibus, iifque rebus
omnibus, e quibus folatium fperat: erumpit inardentiora vota, querelas, et
nuntios votorum fuorum zefiros optat: teftes quoque locos appellat; ad preces
etiam humilis defcendit,& obteftatur; per quidquid rei amatæ gratum eft:
dolet ex ablentia rei exoptatæ, in fufpiria erumpit, tetrofqfie gemitus fxdium
rerum aliarum experitur quæ minus jucundæ funt, macie conficitur; narrare folet
ambitiofius quid vldefideri i patiatur, ait fe diu, no&uque m illis
cogitationibus effe, vias, &veftigia, et litora, et loca omnia relegere, ut
aliquid dicere poffit et audire, unde cxpe&ationis fuæ fallat faftidium,
afpirat, et anhelat in rem, quam expetit, mors impatiens eft, longiores fibi
videntur dies, et breviflimum tempus annum putat; alas fibi addere vellet, ut
ad rem amatam velocius accederet: vana, et impoffibilia interdum defiderat,
nihil denique arduum, et difficile reputat, reperitque, dummodo optata re fibi
liceat frui. De Gaudio, feu Lartitia. L iEtitia eft opinio recens boni
prafentis, in quo efferri retium effe videatur: five fenfus boni prxfentis
quatenus prxfens eji, cujus effetius ejl deletlatio\ boc efl tranquillitas
animi in bono prxfenti Juavitcr acquiefeentis. Ad concitandam lætitiam duo
fervare debet orator, fiilum fcilicet, et materiam. Stilus is effe debet, ut
perpetuam quamdam feu occultam voluptatem ingeneret; quare utetur Orator
argumentis exquifitis, novis, et ingeniolis; fermo occultus fit, et floridus,
numerus fuavis,[& mollis i oratio tota figurata, plena acutis fententiis.
Materia ea fit oportet, ut in ipfa habeatur ratio geniorum, quibus aguntur
auditores; et quia aliis alia placent, ea funt afferenda, quæ cuique funt in
delitiis. Sunt tamen quædam, quæ in nominum animis communem habent fenfum
voluptatis, eaque funt commutatio malæ fortunæ in meliorem, comparatio propriæ
cum aliena, bonum infperatum, novitas, et irrfolentia rei alicujus, confcientia
virtutis, et innocentiæ, deferiptio rerum lætarum, ut viftoriæ, alicujus
triumphi, ludorum, et hujufmodi; præterea locorum amznitas, florum, gemmarum,
veftium, odorum. Infuper ipfa lætitiæ deferiptio animum excitat, fpeque fua
oble&at; jdenique caufa lætitiæ calamitas eft improborum; cum fcilicet
illos deprimi videmus, atque opibus, et honoribus fpoliari, quos przter jus, et
æquitatem obtinuerunt. Ad reprimendam lætitiam reprehefentanda eft boni, unde
oritur lætitia, aut turpitudo, aut brevitas: exponendi funt rerum futurarum
incerti eventus, fortunæque dominantis arbitria, quæ nihil conftans, ac
perpetuum pollicetur fuis; fed eos fallit afTiduis, et frequentibus
mutationibus, afferendum videtur voluptati, et lætitiæ mærorem femper adhzrere,
et triftitiam. Præterea coercebis lætitiam, fi in auditorum animis timorem
ingerere fatages. Denique majoris boni fpc, aut cupiditate, voluptatem minoris
imminues, vel potius abforbebis, et quibus dolorem excitare didiceris, iisdem
lætitiam remittes. Ut autem lztitiam noveris pro rerum opportunita* ' te in
aliquibus f aliquando reprehefentare: Hæc funt ejus effefta, et primo ciet
lacrymas, deliquiis artus relaxat, mortem infert, corpori gratum colorem,
floridamque venuftatem conciliat, ad choreas excitat, ad tripudia, et convivia,
animum refolvit, et abjicit curas, timorem, et fenfum doloris; fucum detrahit,
et Hmulationcm, Spem excitat, et amorem; facit, ut in gratulationes erumpamus,
et alios ad hilaritatem in citemus, provocat defuieriutn earum ? rerum, quæ
gSu* dium augere (olent, cietque nos, ut Optemus foles fulgeie melius, terram
luxuriare floribus, mella fundere flumina, montes fudare balfama, præterea qui
lætantur, cum aliqua delegatione præterita pericula enarrant, erumpuntque iit
votaV optantque eamdem diem voluptatis caufam fa-pe redire, verlantur in
cogitatione, ac delegatione boni, quo fruuntur, gaudentque libi prorogatam
vitam, ut ea videant, ex quibus voluptatem capiunt. Affe&us ifte exprimi
folet in epitalamis genetliacis, et orationibus, quæ fiunr in adventu virorum,
et Principum in triumphis, feftis diebus, aliifque hujufmodi argumentis, quorum
exemplis artificium exprimendæ lætitiæ nos docebit antiquitas. Dolor, feu
trifiitia fenfus efl ex opinione preftntis mdlt. Affe&us ifte exprimitur
iifdem fere rebus, quæ odium concitare foient, valentque plurimum hipotipofes,
qux caulam doloris exprimant, oculifque fubjiciant; Sunt enim quædam præcipua,
quæ dolorem vehementius acuunt, ut confanguineorutn vincula, irortds, funera,
bonorum amiffio, vexatio rerum, quæ funt nobis invita charifiimæ, et
jucundiflfimæ. Dblorem ler.iet Orator; fi naturam mrii (peftaverit, unde oritur
dolor, alia quippe dicenda funt, fi de exilio agatur, alia, fi de morte, alia,
fi de bonorum jacfura, ceteiilque fortunæ acerbis cafibus: funt autem communia
hæc capita mitigandi doloris, innocentia affli&i, qua orator oftendat,
innocentiam non pffnam fteleris fubire,fed ob facinus aliquod egregium, vita£
conditio, quæ patiendi neceflitatem affert inexplicabilem, fortunæ
inconftantia, quæ fuos muneribus ampliffimis orna os flarim ex alto præcipites
agit: exempla virorum illufirium, qui eadem immo, et «lamna multo graviora
fortiter tolerarunt r gloriæ mef izp fis, quæ ex conftantia colligi poteft.
Infuper triftitix lenimentum dabis; fi docueris fortis efie viri nec adverfis
frangi, nec profperis infolefcere; fed ubique parem animi conftantiam retinere;
fi dixeris præmeditatum fuifie malum, quo quis dolet; fi perfuaferis inutiles
efie lacrymas, nec tales,, quæ malum repellere pofiint; fi animum itfbcaveris a
rerum cogitatione, qua: horrorem excitant; fi monueris ex divinx voluntatis
arbitrio femper et ubique vivendum; five lenitur, et blande nobifeum agat; five
ad virtutis exercitationem, et præmium afpera, et dura nobis evenire permittat;
fi animum ad ftudia litterarum convertas; fi earumdem miferiarum focios habere
pronunciaveris; Sin autem de vita funbis agatur, dolorem de illis minueris, et
ex fiatu melioris vitse quam funt confecuti, et ex commendatione rerum ab illis
prxclare geftarum. Trifiitia prxoccupatus homo hos fentit fui doloris effebus
.* effufus eft' in lacrymas; nullis delebatur, nifi trifti rerum imagine,
fquallore corporis, vefte fordida, neglebo capillo, genarum, et capillorum
laceratione, percuffione peboris, et foemoris, contrabione frontis, dejebione
luminum, folutione membrorum, ac potifiimum brachiorum.* dolorem fecum
oftendit: odit lucem, et confpebum hominum; in folitudinem, et fylvas fe abdit,
et cum ipfa interdum loquitur folitudine; filens obllupefcit, et ad lacrymas
impotens quafi lapideus torquet: in querimonias abit; calamitatem fuam, ut
inopinatam, deplorat; fi dolor ingens fit, diuturnitas temporis dolorem
confirmat, augetque, fi levis, imminuit.* mollis eft et viribus frabus, ac
mericulofus: prxfentem calamitatem cum felici fuperiore fortuna componit;
eumque dolet, et queritur; profitetur animum fibi præfagum fuifie calamitatis;
læta omnia fpernit; velletque in focietatem lubus fui, non modo homines
trahere, fed etiam fylvas, et bruta; invehitur acerbius in eos, qui fibi caufa
fuerunt mæroris, et lubus, conliliumque omne refpuit: defperat ex impatientia
mali; fuperos crudeli I tatis Deprimitur audacia propofitis periculis, et
virium imbecillitate: commemorando nimiam virtutem plus fæpe nocere, quam
prudeffe: fidendum non effe fortunæ, fi lemel faverit; fragile totum eflfe,
quidquid in hominibus, aut in rebus, efi, robur, fanitatem, opes, dignitates,
potentiam,* neque in iis reponendam fpem. Audax homo, fi quem defcribere
occurrat, periculum nullum reformidat, aut rejicit; fed ad omnia paratus eft;
periculum elevat, illudque ridet, et infultat; armorum afpe&um gaudet,
atque equorum fremitus, bellique avidus hofiem ad pugnam iaceffit; materiam
quærit exercendæ virtutis, qua; fi non adfit, ludicram pugnam fingit in animo,
et in fomnis bella meditatur; fuperbia elatus in fe uno fpem omnem figit, nec
ab incepto revocari fe patitur: gloriæ (limulis incitatus cupiditatem incendit,
et ardorem mentis acuit ad ardua.- magnifice dc fe loquitur: Superiora facinora
repetit,'doletque., parum fibi credi: fibi fpondet omnia ^ felicemque rerum
exitum pollicetur; fc votis fuis potitum extfiimat, cum alii fpem nullam
vident: Ii per ægritudinem, vel grave Senium, aut rem alum non poflit, quod
antea, dolet ademptam fibi facultatem agendi, optatque redire vires priftinas
in pefruantur optatis; fi eum, in quem iram accendere vultis» dolo, fraude, ac
verborum integumentis uti dicatis. fi ingratum, ac beneficiorum immemorem efie:
ii cum offenfione id beneficium negare, quod fibi deberi arbitrantur.* fi obtre&ationibus
horum aures præbere, quos angi putant oportere; fi de illorum honore detrahere,
vel apud eos, quibufeum de honore contendimus, vel apud eos, qui nos magni
faciunt, vel apud eos, qui nos verentur, et obfervant. Nota ad amplificationem
injuria: referenda efie verba, geftus, a&iones, omnia ad contumeliam
compofita; lubjicicnda efie oculis per hypotipofim, et Ethoparjam; opus efie
indignatione, et epiphonemate, et fimilibus figuris; virtutes ejus, qui læfus
eft, cum vitiis ejus, qui lieferit, præferendas; variis exemplis exagerandum
faftum; fifoli, fi primo evenerit; fubjiciendum damnum, quod inde fufpicatur.*
dicendum turpe efic non ulcifci, et fine ultione æftimationem penitus
perituram: deinde docendum fpem efleulcifcendi, eamque juxta præcepta incitandam:
fiudiofe captandam temporum, et locorum occafionem, ut fi doleat animus; fi
cupiat; fi corpus male affe&um fit; fi laboret aliqua fufpicione, tunc
etenim promptiores fumus ad iram &c. Cavendum Oratori, ne crudelior
appareat in puniendo; ne majores ex atquo pamas repofeat: ne denique
intemperanter furere ipfe videatur. Sed decorum fervet, incenfus fit, et
grandiori orationis genere utatur. Mitigatur ira iifdem ferme rebus, quibus
mifericordia excitatur; orator vero amorem in dicendo præfeferat, et venerationem
ejus, quem mitigare contendit, doceatque nullam illatam efie injuriam, vel
culpam non fuifle voluntariam; moneat eum, in quem iræft, potentiorem efie, et
dignum omni veneratione, et cultu, nec tutum efie cum illo habere inimicitias;
abeo prius difceffiflfe injuriam; eum, qui lzferit, demitto anino mifericordiam
Suppliciter implorare, jam depreffum, viftumque hortem efle; injuriam latam
tuifle non per contemptum, fed per dolorem, et iram impotentem in eo, qui lzfus
eft, eumdemefledefeftum, propter quem in alium irafeitur: proprium fortis animi
cfle iram vincere; enumeret damna omnia, quæ ex ira accidunt irato: excufet
perfonx lædentis conditionem; ut et imminuat contumelias: deferibat irati
hominis turpitudinem; dicat iræ primum nafcenti e fle occurrendum, ne in
perniciem noftram adolefcat; perfede enucleat, optimeque cognofcendam det
illatam contumeliam; proponat, quæ illa fit, et quo animo fada, ne ira
perturbatæ rationis major videatur; rurfus infinuet gloriofius cfle hortem
fervare, quam perdere morte, ad vitam revocare, quam licet meritum ad mortem
damnare; eam efle veram de horte viftoriam, quæ nulla venia, dignos clementia
fuperat, ac bonitate; ad Deum propius accedere, qui dat falutem immeritis, dum
vitia profligantur; denique ad fle&endum iratum exoptanda ert opportuna
temporis ratio, expe&andumque tantifper dum fe fregerit impetus iræ,
eligendumque potiflimum tempus illud cum honore, aut lucro aliquo recens
affe&us fit .* cum judicio vel armis hortem vicit, cum ludis, vel
conviviis, vel hujufmodi vacat. Ad deferiptionem hominis irati, irx effe&a
funt hzc; rationem perturbat, et ob mentis inopiam cæco, ac przcipiti motu ad
furorem inflammat; totum adeo corpus deformat, ut in alium mutatus homo
videatur; oculos, et vultum in ignem accendit; hominemque præcipitem agit;
ulcifcendi fefe flagrat cupiditate: inferendæ ultionis diligenter occafiones
obfervat, eoque periculoflus, quo fimulatius; in defperationem abit, fi
potertas ulcifcendi non detur.* prorumpit in contumelias, et imprecationes;
excandefcit, et indignatur, quod Dii non ulcifcantur injuriam; terrere gaudet
eos; in ipfos irafeitur, et minas addit maledi Rb et oriæ P recepta &is;
voluptatem capit fi dc inimico ulcifeatur; eoo* temnit eos, in quos commovetur,
et contemptu contemptum ulcifcitur,* contemni fe dolet, graviterque patitur
fefe interdum fperni > dum minas fonat, et fupplicia; amplificat, quantum
poteft, contemptum fui; commendat fe pluribus, ut ex eo capite augeatur
contemptus, et ex contemptu ira .* eludit eorum refponfa, qui eum placare
volunt: poli contumelias, et injurias incufat fe quod occafionem ultionis
oblatam non arripuerit, eamque revocat defiderio multo gravius irafeitur, et (e
magis excruciat, fi fpes ultionis adempta fit; pznaro non concupifcit, quam non
fperet, fortunæque inconfiantiam ingerit, quæ pofitos in fupremo dignitatum
faftigio, deturbet præcipites. Mansuetudo ab Arift. definitur deprejfio, atque
fedatio ira. Ab ira ad Manfuetudinem animos traducet Orator, fi fufpicionem
contemptus ab illis tollat, doceatque fentirc de ipfis, ac dici magnifica; fi
moneat per impudentiam, vel aliquo alio cafu,non certo confilio lapfos effe,
qui eos offenderunt, vel præter voluntatem deliquiffe humano errore deceptos,
et necefiitate coaftos; fi oftendat culpam cum dolore fateri, qui eam
admiferunt; fi afferat fupplices fedemittere, et puniendos ultro permittere,
qui offenderunt, fi beneficia commemoret ab eo fufeepta, de quo eft contemptus
fufpicio; fi fub orationis initium non pauca dicat, quibus qui læfus-fuit,
intclligat fe diligi ab eo, qui læfitj fi pronunciet eos, a quibus læfus eft,
graviores pænas pependiffe, quam ipfemet exegiffetjfi virtutes, et res
pratclariffime geftas ab co prædicet, qui læferit; fi fenfim metum ei injiciat,
in quem exardefeit; fi fupplicem, ac deprecantem, qui fecit injuriam, inducat;
fi proponat cumdem femper effe cum omnibus i fi adferat, exemplifque probet,
non exguam gloriæ mertem manere eos, qui iram manfuetudine vincunt, miferumque
erte crudeliora meditari, ac facere: fi tandem affirmet, feveritatem cum
lenitate mifcendam; licet enim iracundia inftrumentum fit virtutis; inclinandum
tamen eft in mitiorem partem; et fi peccandum, remirtione quam crudelitate,
melius, aut tutius peccandum. Manfuetudo defcribitur moderatione vultus, et
Termonis; orationis illecebris, et fuavitate; modeffia totius habitus: et demum
iis omnibus chara&eribus, quibus poetæ pacem adumbrant. Claud. omnia Martis
infirumenta, fub Clementis pedibus fubjicit. Misericordia eji motus animi, [eu
dolor quidam fufceptus ex cogitatione mali alterius, quo fe, vel fuos affici
pojfe videt, qui miferetur. Hinc elt, ut ad miferationem moveatur; qui adduci
poreff, ut ad femetipfum, vel ad res fuas revocet, quæ de altero deplorantur,-
non autem ille, qui nihil tale fe pati poffc credit. Ad commovendam
mifericordiam plurimum valet augere extra modum calamitates, et incommoda, ex
qumus eam natam volumus, quod potirtimum fieri poteft comparatione intur
prioris fortunæ felicitatem, et fequentis mi feriam.Movet etiam hunc affeSum
affli&a, calamitate feneftus, et adolefcentia, fi recordatione fui
fuorumque auditorum fenfus leviter pertentet Orator, ut prsffat Cic. in Pif.
Mors præterea propinquorum, et orbitas, corporum vexatio, morbi inopia,
exilium; quarum calamitatum comitem præ miferatione feipfum Orator offerat, ut
mifericordiam vehementius accendat. Attingat Orator fingulas circumrtantias:
perfona: quæ cruciatur, aut crucianda ert; videatur, fi fuerit innocens, fi
præcellens aliqua virtute, fi litteris exculta; fi fortis an imbecillis in
tormentis; fi florenti, an tenera xtate; fi tandem iis valeat, qua folent in
generare fcnfum doloris molliorem ætatis; fi in adoleicentiæ flore, fi in
cadente feneftute excrucietur; et hujufmodi; loci, fi coram iis patiatur quos
calamitatis teflesminime vellet; temporis, fitum exitium patiatur, cum laborum
mercedem fibi pollicebatur et præmia; caularum; fi aliorum injuriis non propria
culpa calamitas fibi obvenerit; finis; fi virtutis caufa infelix repente
extitit; modi: fi quis nobilis, fi quis fapiens, fi quis in dignitate
conftitutus fubiturus fit idem fupplicium quo plebei homines folent
animadverti; fi perpetuam quamdam malorum feriem patiatur; fi nihil unquam boni
percipiat, fed unius mali finis gradus fit ad lubfequentia graviora. Præterea
modefle petet Orator, quæ pro fuis vult ab auditoribus, oflendatque; occulte
tamen leve efle, quod petit homini calaraitofo, ærumnas cum aliis comparet,
dicatque calamitatem fuperiorem, tametfi graviflima fit, levem tamen etiam cum
graviore præfenti comparatam; utatur obfecratione,depreceturque auditores per
quidquid eis gratiflimum efl; fermocinatiojiem adhibeat, et per Dialogifmum
loquentes inducat, tum eis qui acceperunt injuriam, tum qui intulerunt, figna
doloris palam exhibeat: ita Erutum confodiam Lucretiæ corpus, Antonius
interfe&i Cæfaris togam adhuc cruore flillantem P. R. produxit; videat
tamen ut id prudenter, non frigide fiat. Rurfus fenlum hunc auditorum animis
injiciat, quod nihil acerbum fit in vita, quod non ducant evenire pofle fibi,
aut amicis, aut ceteris hominibus, doceatque nihil magis decere hommem, quam
efle humanum: Denique caveat, ne muliebres unquam Nænias habeat, fed femper
graviter doleat; cum procul abeftalacrymis, non dicat ab illis fe retinere non
pofle, gemitufque vocem intercludere; hoc etenim puerile efl: non ambitiofe
conferetur tropos, figuras, et periodos, fed ita orationem fuam contemperet, ut
non videatur parata, fed dolore potius elicita. Mifericordia reprimitur; et iis,
quibus inflammari diximus iram; et iis, quæ de invidia dicenda fuperfunt. Quod
fl auditorum animos jam firmiter occupaverit mifericordia, fenfim, et quali
aliud agendo, erit remittenda; quod femper obfervandum erit; cum vehemens
aliquis affc&us erit extinguendus. Præterea mifericordiam infirmabit orator
/ fi rerum calamitate, qua quis premitur, dignum probet; fl doceat nulla
miferatione dignum effe, qui judicesad mifericordiam deprecatur; fl dicat
juflumefTe, utmalismaleveniat, fl offendat fe de eorum fupplicio gaudere / fl
tandem efficiat, ut judices, aut invideant bonis adverfarii, aut de ejufdem
malis lætentur, aut indignationem aliquam concipiant ob vitæ pravitatem. Qui
miferatione tanguntur, faciunt, quæ fequuntur. In lurorem, et jnfaniam
vertuntur, eaque admittunt omnia, quæ dolentis conveniunt/ triflitiam vultu,
lacrymas oculis, gemitus ore præfefcrunt, fpiranti fimiles: funt taftis fæpius
deliquiis: corpore, et corporis indumentis fquallidi funt, et fordidi; infortunia
repetunt, etfi ea ab aliis audiant, fuis lacrymis, et fuo dolore pafcuntur:
fenfum præferunt alieni doloris, ac profitentur; non minus aliorum infortuniis,
quam fuis, tangi, optantur accidiffe flbi, ut faltem illorum aliquam partem
cupiunt. Indignatio, quæ locum habet in genere deliberativo, J[ et judiciali
dolor efi perceptus ob res fecundas alterius, qui illa fortuna judicetur
indignus. Difcrepat ab invidia, quæ bona digni etiam hominis infeftatur; et
quemadmodum mifericordia refpicit malum; fle indignatio bonum refpicit
immerentis. Bona vero hoc loco non intelliguntur, quæ animi funt, nec quæ
naturæ; feu fortunæ, ut funt divitiæ, opes, potentiæ, honores, amicorum copia,
et hujufmodi. Indignatio concitatur; fi vita: prioris forditas, ac vilitas cum
pra:fentis temporis opibus, ac potentia conferantur; fi quam dicamus per vim
appetere ea, quæ illi minime competunt, ut abutatur iis ambitiofe prodigus, in
aleis, conviviis, et commefTationibus; fi eumdem inferamur, quia infolens, et
improbus alicujus bona effufis largitionibus diffiparit, vel in profundum
libidinum fuarum gurgitem immerferit; fi inferiorem doceamus, cum fuperiore
contendere in eodem ftudio, vel honoris æmulatione; fi divitias, fi honores
alicui præter meritum contigifle adferamus; quod tamen cum diftin&ione
agendum videtur, ut hæc apud eos dicantur, qui fibi eadem mereri videantur;
fingula tamen apud fingulos juxta cujufque meritum. Sedatur indignatio, fi cui
indignantur; cum dicas virtute, ac rebus præclare gefiis bona fibi comparaffe,
non recens ascepiffe; fi probes ingeniofum, ac nobilem nunquam degenerem animum
habuiffe, ac proinde naturam ei femper favifTe; fi moneas jampridem bona illa
poffediffe, nec iis unquam ad fcelera, velinReipublicæ aliorumque perniciem
abufum fuiffe; fi doceas non arrogantem, et fuperbum in meliori fortuna fc
prsebuifle, fed modefium, et communem, eumque de aliis magnifice, de fe
humiliter locutum fuiffe. Indignatio deferibitur admodum libera, quæ amplificet
vitia, vel in malam partem virtutem detorqueat, nec fortem, fed temerarium,
neque prudentem, fed ignarum eum dicat, in quem indignatur furens, et amens,
quæ fibi interdum violentas afferat manus; irreligiofa, qua: in ccelefie numen
obftre&etur; exprobrans, qua: recenfeat ea, qua: recenfeat ea, qua: ab
ingrato fafta funr, et alterius improbitati cum aliqua eorum exageratione
beneficia opponit. Denique
indignationis cffe&a eadem pene funt, qux in iracundia. Invidia, quæ locum
habet in genere judiciali poti (fimum, ejl dolor de profpera forte, qua alicui
prope pari evenerit, non quod, qui invidet, commodum ex eo percipiat; fed quod
nollet eos, quibus invidet, bona illa polfidere; quia fuam putat immunui
dignitatem. Invidiam concitaveris; fi doceas homini improbo vel citra laboris,
ac periculorum aleam turpi quadam gratia contigiffe bona, ut dignitates, opes,
honorum titulos, quæ ceteris non nifi fummo diferimine cottfequi poliunt, li
dicas eum ob divitias, fecundamque fortunam ita infolefeere, ut prx fe alios
arrogantius contemnat; fi commemores eum celeriter aut nullo labore, vel parvo
fumptu confecutum fuiffe, quod alii magnis fumptibus aut tarde, aut plane
nunquam alfequuntur; fi ofiendas alienæ laudis æmulum, ambitiofum, multa
molientem, nocentem, tum auditorum, tum aliorum glorix, cumdemque dedecus ex
aliena fortuna quxrere: fi in auditorum animis laudis imprimas (ludium, et
ardorem glorix retinendx; fi proponas antiqux familix decora, et ipforum
proprias virtutes, vulgique honorificam de iis mentionem ;& contra, fi
vulgi recites honorificam mentionem; de eo, in quem movere invidiam fatagis; fi
exageres populi in illum animi voluntatem, et propenfionem; fi deferibas
multitudinis voces, et prxeonia, modo tamen laus illa fuptrari facile poflit,
et impediri. Prxterea ad concitandam invidiam profuerit nofle mores eorum in
quibus excitare volueris; quare eam concipere folent, pares loco, gente,
cognitione, xtate,lcientia, dignitate, fortunis, qui denique pufillo funt
animo, ut opifices, foeminx, rullici. Reprimitur invidia capitibus contrariis,
ac excitatur. Quare bouum minuas, cui invidetur .• merita illius ollen
oftendas, qui illo potitur nullam tailam efte injuriam demonftres, ac doceas
illum fortuna: bonis, atque honoribus, honefte, ac moderate uti: dicas non
fuis, fed aliorum commodis bona illa adhibere, quæ invidis funt incitamenta;
parta fuifie laboribus, ac mife* riis; adferas ingentis animi ede, fi magna in
aliis quis fpedet, nec virtuti, nec felicitati invideat j aperias damna, qua:
invidiam fequuutur; ipfa etenim partim lædit eos, ad quos intenditur, dirius
vero, a quibus procedit, quippe qui fua fine fine fubllincnt fupplicia. Invidis
delcriptio præclara eft apud OviJ. met. 2. fab. 12. at eadem fere habentur apud
Scaliger. inAppend. Virg. Ceterum fsvit ipfa in parentem ejufque interiora in
modum tineæ depafeitur: fimulat gaudium: non vult videri invidere: trillatur,
fi invidis nota. afficiatur .• Unum expedat mali folatium, fi cui invidet, ex
alto prscipitem datum adverterit Virtuti inimica eft olfentat fe magnifice,
virtutifquefus prsco nobilis; alios facile contemnit 5 qua poteft animi
vocifque contentione rivalem fuum infedatur et quantum poteft veteras
commendat, et extollit, ut.recentes deprimat, cum rivali eod. timida femper, et
querula veretur ne fi quis honorem confequatur, gloriam fuatn ille fplendore
fuo obfcuret; aliens felicitatis inimica eft, in odium, et ultionem
inflammatur, vitiorumque omnium radix eft. Enulatio eft dolor ex aliena bona fotte fufeeptus, / l
i non quod id alteri contigerit, fed quod nos illa careamus. Differt ab
invidia, qus fi pollet, aliqua ratione fpoliaret bono, quod in alia perfona
animadvertit . Æmuiatio autem fieri talis defiderat, qualis dida perfona eft;
&ficex amore, et ftudio virtutis hsc oritur: Illa e contra ex malevolentia,
et odio. Concitatur smuiatio majorum virtute egregie fa K dis cum jam fatis
multa di&a fint ubi de elocutione fuperius. N Rerum dilpofitio duplici modo
fieri poteft, aut ex arte) aut ex tempore. Si ex arte ) eum ordinem habeat
oratio, quem fibi præfcribit ars, ut fcilicet primam ejus partem complettatur
exordium, fecundam narratio, tertiam confirmatio, quartam epilogus. De
argumentorum dilpofitione paulo ante di&um eftj hic (atis erit annuere,
quod ea præcedere debent, ex quoram intelligentia cetera pendent. Ceterum quid
primum, quid poftremum effe debeat in oratione, quid adhibendum fit in fingulis
caufis, non facile definitur. Unum, quoad fieri poteft, nafcatur ex alio,
fitque mutua quædam inter orationis membra connexio, quod fiet, lilervetur ordo
propofitus, et in divifione promiflus. Ad hanc rem commodæ funt tranfitiones,
quibus ab uno vel argumento, vel orationis capite devolvimur ad aliud; in
delenfionibus cum refpondendum eft adverfario, fequi illum ordinem debemus,
quem ille tenuit. Ceterum hæc difpofitio tota pendet ex prudentiæ methodo, quæ
quid locus, quid auditor, quid caufa pollulet, oratorem docebit. De
difpofitione paflim difta funt multa inter has rhetoricæ præceptiones; unde
nihil ultra progrediar, utfiatim agatur. Memoria adeo neceflaria eft oratori,
ut ex Ciceronis mente omnia præclariffima in eo peritura fint, nifi inventis,
et excogitatis adhibeatur memoria, ex qua tamquam ex thefauro, et pcenu dicenda
promanant. Duplex eft, alia a natura, alia ab arte. Quæ eft a natura,
exercitatione augetur adudua mentis agitatione, et frequenti rerum meditatione
adjuvatur;, fi per partes edifcatur oratio; (i delicatis herbis vefcamur, fi
optima ciborum digeftio; fi cibi 9 potufque parfimonia, et a crapulis
abftinentia confervetur. Quæ eft ab arte parum prodeft, ni fuam vim accipiat a
natura. Adjuvatur tamen quibufdam imaginibus, quibus reroinifcentia excitatur;
quare proderit lingulas periodos lingulis a capite inlcriptis numeris apponere;
rurfus quæ pars orationis e. g. de navigatione, ea connotari poterit anchora;
quæ de bello armis; quæ de re ruftica, ltgone, et fic de aliis; tandem
proderit, nullo affeilu vehementiori concitari, et cogitationum multitudine
minimi diftrahi. Pronunciatio inter orationis partes ordine poftrema, fed prima
poteftate, oratoria artis totius omnem in fe continet vim; omnis enim oratio
languet, evanefcit, emoritur, nili eam aftio animet varietate vocis, motu
corporis, mutatione vultus. Idcirco nemo inter oratores fummos adfcribendus,
qui voce infuavi, et immoderato geftu oculos auditorum, et aures male afficiat.
Patet igitur bona: pronunciationis elfe, vocem moderari et geftum. Vocis duplex eft
proprietas, quantitas, et qualitas, e quibus tum vitia, tum virtutes illius
eveniunt. Vitiofa igitur erit vox primo fi fit pufilla, qualis eft eorum, qui
pipire magis, quam loqui videntur. Angufta quæ non implet auditorum animos. Si
fubfurda, qua: non exprimit verba, fed in faucibus emoritur. Si confufa, qua:
non diftinguit fonis, et articulis, quæ dicit. 5. Si rudis, et
intra&abilis, qua: magno negotio fuum peragit curium. Si alpera, quje
flrepitu aures offendit; fi difcer pta, quæ imparibus fpatiis, et fonis
dilaniat orationem; fisenea, qua? vehementi Velut aris tinnitu, ferit aures; fi
acuta, quæ fonantius quam par efi, eaidcm penetrat.Vox fuas habebit virtutes.
Si erit alta, quæ firmis fparfa lateribus aures impleat pleniffime. Si eicelfa,
quæ et plenios audiatur, et durabilis fit. Si clara, qua; clare perfonet. Si
prægrandis, qua; admixta fuavitati laudatiflima efi. Si fuavis, flexibilis,
culta, rotunda, traftabilis, volubilis, dulcis, canora, et plena. Advertite
vocem accommodandam effe rei, de qua agitur; ficuti enim non convenit in
frigidis exclamare; ita ridiculum foret in gravibus languefcere. Proferatur
perpulfa animi motu, ut ex perpulfis fidibus profertur fonus. Lætitia lenem,
hilarem, tenuem poflulat vocem; metus demiffam, abjeftam, timebundam,
exhitantem, commiferatione plenam, flebilem, interruptam, ira acutam,
incitatam, incidentem; mceftitia gravem, et fono depreffam y et demum tot fiant
vocis mutationes quot erunt animi affe&iones. Illud infuper univerfis
præcipitur, quod depreffa vox adhibeatur in exordiis y ita tamen ut poflit
audiri, necnon verecunda, temperata, venufta, et lenis. In narratione aliquanto elatior, et quodammodo
familiari fermoni proxima fit. In expofitione validiorum argumentorum vehementior, acrior, et levior,
et juxta naturam rei nunc attollatur, nunc deprimatur, nunc arrideat, nunc
abhorreat. In conclufione attenuata fit, et æquali fono probata, fi hortamur,
fi conquerimur depreffa, et dillin&a crebris intervallis: fi enumeramus,
quadam incitatione gravis. Geflus, quem mutam eloquentiam appellavit Tullius,
tanti eft ut moderetur, ut quoniam per illum animi fenfus dignofeuntur, fatis
inepta fe gereret, qui iis, qua: profert, geftum non accomodaret. De eo multa
priecipiuntur/ en vobis magis neceflaria.Vitanda: funt leves, et hiftorica:
gefticulationes, quæ fingulis verbis geftum efformant j quare Orator meminerit,
fe faltatorem non efle, et ad fenfum magis, quam ad verba geftum accommodet. Componendus
eft vultus decenti eompofitione, ita ut refla fit facies, non detorqueantur,
non mordeantur labia, non corrugentur nares, non immodicus hiatus difiendat
riftum, non fupinus fit vultus, non dejefti in terram oculi, non inclinata
cervix, non elata, aut deprefla fupercilia, non rigidi, non extenti, non
languidi, non torpentes, non lafcivi, non mobiles, non pofcentes, poUiccntefque
aliquid oculi eife debebunt Peftus ad ventrem projicere indecorum eft, variare
fupra modum extando, deforme j quibus, fi motus accedat, prope obfccenum.
Vultus Sententiarum fenfum præjudicare debet j quare cum ridentibus rideat, cum
triftibus mæreat, cum iratis itetur. Oculi, caput, facies tali geftu
conformentur, ut fenfum exprimant j brachium, et manus aflionis potiorem partem
fibi vindicant, habentque plures fignificationes: brachium tamen tanquam telum
adhibetur in contentione potiflimum, in narratione non nimium, fed cum decore
movetur. Manus hinc inde extentæ difponantur intra fuggeftum, dextra incipiat
motum a medio peflore, tendatque in latum dexterum mediocri diftantia,
aliquando reflo, alias flexuofo duftu, prout membrum uno, aut pluribus
conftabit incifis j geftus enim uti cum voce inchoandus, ita protrahendus ad
finem vocis, et fenfus. Si periodus conftabit tribus, vel quatuor membris,
fecundum, vel tertium occupet finiftra, qua: cum dextera ultimam, totamque
claudat fententiam, iterumque deponenda manus hinc inde intra fuggefti limbum,
Rbetoric H iEC oratio habetur in natalitiis hominis alicu jus. Ejus exordium
fumitur. Ab aliqua circumflantia loci, vel temporis, aut perfonarum. A publicis
votis, precibus, et facrificiis, qus ante nativitatem, et poft illam fafta
funt. Ab antiquorum ritibus. A fabulis. Ab aliqua hifloria, feu fa£lo infigni
Ab exclamatione, et larto plaufu futurorum bonorum. Confirmatio multipliciter
abfolvi potefl; nam fi nativitas fatis uberem fuggerat rerum copiam ad juflatn
orationem, his poterit efle contentus laudator. Sin minus, incipiendum erit a
Patria, parentibus, fplendore natalium, prodigiis, fiquæ præcefferunt; rurfus
attingere poterit Orator nativitatis circumflandas, locum, tempus,
antecedentia, confequentia, auguria, di£la, oracula, fomnia, concurfus rerum
variarum in id tempus. Item auguria fiqus puer ipfe det futuræ virtutis, et fortunæ;
quæ quidem divinatio peti potefl, vel ex iis, quæ nativitatem, aut puerum ipfum
nafcentem attingunt, vel ex genere, facie, futuraque apud parentes infantis
inflitutione. Peroratio vota continet, fauflafque precationes puero, et parentibus, ut
ille ad multum tempus felix vivat, et fuis, et Patris ornamento aliquando
futurus. Item provocabit ad lætitiam, defiderabitque, utcrefcat infans ad cos
honores, apud quos patus efl; divos aliquando, feu virtutes producet
contendentes inter fe, cui potiflimum fit ille puer primum natus. Oratio
Genethliaca, quæ dicitur adulto, partim coalefcit ex fuperioribus præceptis,
partim non jam tigna, et prsfagia futura: virtutis attingit, fed Virtutes N a
ipfas recenfet, aut amplificat, dicitque aufpiciis, et ominibus jam fatis
refpondiffe virtutes. In peroratione optandum, ut fxpe diem illum natalem
celebrare contingat, utque lætior femper recurrat, illiufque ortu ita
gaudeamus, ut nunquam audire velimus interitum. De Oratione Luftrica. H iEC
oratio dicitur Lufirica, quod dies ille, quo nomen infantibus imponebatur
luftricus apud veteres appellabatur, habeturque in nominum impofitione.
Exordium ducitur, vel a circumfiantiis, vel ab aliquo ritu antiquo in
imponendis nominibus, vel a lætitia communi, vel ab honoribus, quos ille prius
retuliffet, cui nomen imponitur, vel certe dubitando exquirere poterit orator,
quo præmio tam præclara: res geltte donari potuiffent, et ad nomen defeendens
nulJum inventum docebit majus ipfo nomine, dequo breviter dicet præmium effe
virtutis. Confirmatio, vel una, vel duabus contineri partibus poterit; fi una,
eam inllituat Orator ab iis locis, quæ in commendationem nominis cadere
poffunt; a compofitione fcilicet cum aliis præclaris nominibus; acaufis propter
quas impofitum fuit, et ab ipfa nominis fignificatione; fi aut omnes virtutes
ea complebatur, aut omnium maximam, aut omnia, quæ in omnibus nominibus effe
poffunt. Si duabus, in prima ponantur tes gefiæ, ac virtutes, propter quas
nomen fuit impolitum; in fecunda nominis excellentia laudetur, inftiruaturque
collatio tum perfonarum, tum hominum, tum caularum, propter quas aliis etiam
aliud nomen impofitum fuerit, five hoc fiat per fimplicem comparationem, qua
paria omnia effe dicantur, five per contentionem, qua qui laudatur probetur
effe fuperior. ^pilogus occupatur in votis, et faufiis precationibus,
gratulationibus, et adhortationibus, ut tanti nominis gloriam fubfiineat, ac
tueatur. De Epithalamio, feu Nuptiali Oratione, Epithalamium habetur in
nuptiis. Ejus exGrdium inchoabitur, vela lætitia, fefiaque diei celebritate,
vel ab argumenti difficultate; vel a caufis, curO* rator ad dicendum
acceflerit, vel a commodis, optimaque conjugii æflimatione. Confirmatio i. per
modum panegyris laudes fponforum continebit; five a Patria, parentibus,
aliifque laudationis locis, five per comparationem unius cum altero, ut nullus
alterutro dignior eft potuifTe offendatur, five per collationem nuptiarum
hujufmodi cum felicibus antiquorum nuptiis, five per certamen aliquod, aut
inter divos, aut inter homines, aut inter virtutes contendentes invicem in
conferendis variis muneribus recenter nuptis. Juverit etiam comparationem
inflituere inter genus utriufque fponfi, ut ex illa confiet fimilem fimili
conjungi, quam quidem comparationem ornare aliquando poterunt fymbola quædam ab
antiquorum ritibus accepta, puta a floribus, feu frondibus, quibus, nuptorum
coronæ antiquitus intexebantur, ut fponfum uno fponfam altero exprimamus
fymbolo. 2. Poft celebratam fponfi, fponfæque affinitatem, qua: ex illo
matrimonio contrahitur, commendari nuptiæ poffunt ex iis, quæ inde creduntur
proventura, aut ex aliis felicioribus matrimoniis, quæ inter eafdem familias
olim intercefferunt; laudantur fponforum parentes, ad laudes quoque eorum
excurritur qui ad nuptias celebrandas convenerunt, et ad commendandum thalamum,
domum, urbem, ubi nuptiæ fatis funt. Finguntur liberi coram parentibus
lufitantes, five a?ta N 3 te crelcente maxima meditantes. Ad nuptam, et virum
cum laude convertitur fermo, utrumque ad lætitiæ fenfum excitando, et in fpem
adducendo fobolis virtutis non imparis. Epilogus vota facit pro liberorum
felici proventu, ut parentes thalami pignora cito confpiciant, diu felicem
vitam degant, et diem videant, quo et ipfi liberorum nuptiis interfint. Itidem
ad mutuum amorem, et fidelem concordiam conjuges adhortabitur .Legantur Claud.
de Nupt. Honorii, et Maria», Statius lib. i. in Epithal. Stellæ Maxim, in Nupt. Conftantini. De Epinicio feii
Oratione Gratulatoria. E Pinicium adhibetur in quovis eventu felici, ut iis
gratulemur, quibus ille feliciter contigit. Exordium hujus maxima parte eflfe
poteft rei obtentæ gravior amplificatio, et defumi potell, vel a communibus
locis publicz lætitiæ, aliarumque circumftantiarum, vel ab ipfa mutatione, et
incremento fortunæ melioris. Confirmatio variari poteft pro rerum varietate,
qua: ad gratulationem nos excitant, fi etenim alicui vi&oriam gratulamur, dicendum
erit non tam pares gratias, quam dignam gratulationem haberi polle illi, qui
debellatis hoftibus tantis incommodis patriam liberavit. Hujui rei caufæ mox
afferendæ; fubjicienda inde viftoriæ narratio, qua: explicetur ex adjunflis, et
amplificabitur perHypotipolem, diftributiones, deferiptiones, et per
comparationes præfentis fortunæ cum fuperiori. Licet nonnunquam vifforiam
conferre cum ipfo duce, ejufdem merita amplificare, in quorum fidem aliqui
nominandi erunt, quorum egregia facinora fuerit æmulatus. Si dignitatem
acceptam gratulemur, illius magnitudo erit demonftranda: commemorandum adeptam
meritis, et virtute, dicendumque dignitatem eam efle, ex qua immortalitatem
confequi ille poflit, quxque a multis expetita, paucis admodum obtigerit. Obliqua
oratione interdum alicui gratulamur, cum dicimus nolle nos amico, qui
dignitatem obtinuit, fed Reipublicæ quæ tantum virum in ea dignitate (ibi
adepta eft, gratulari; quod Reip. utilitas ab amici honore acceflerit; qui fi
junior fit, dicendum hunc diuturniorem, et Reip. utiliorem fore; fi fenex,
(pecimen virtutis amplum dediffe/ fi eruditione confpicuus, florentem, ac
beatam fore Rempublicam. Epiiogus continet preces pro imperii diuturnitate,
felicitate, gloria, incremento. [Optat, ut qui ad dignitatem afeendit,
opinionem de fua virtute conceptam faftis fuperet, neque cum aliis, fed fecum
ipfe certet, ut ad majores gradus poflit afeendere. Cohortatur ad amorem, et patriæ
defenfionem, ut eam ita compenfet. Commemorat, qui reges, et præclari viri eam ornarint, et
auxerint. Monet tandem, ut et Deo, et largitori Principi gratus fit. De
Oratione Lamentatoria, H iEc oratio fuperiori contraria eft, majus tamen
requirit artificium, ut dolore potius, quam arte videri debeat fa&a. Duabus
omnino partibus abfolvi poteft. In prima fignificetur, quantum fit malum
illud*, in quod incidimus, tum ad levandum dolorem, tum ad excitandam in amicis
mifericordiam, et odium in inimicos, fi ex iis tantum matum obtinuerit. In
feeunda metus aliis injicitur quafi et illis poflit idem contingere. Epiiogus fuperos orat, ut a
cervicibus omnium tantam depellant tempeftatem. Postulatoria oratio adhibetur,
cum quid debitum, aut tamquam debitum a Deo, vel ab homine peti oportet.
Exordium, fi petitio oblique fiat, per infinuationem benevolentiam conciliet,
ad excitandam nedum attentionem, fed etiam liberalitatem; quæ quidem infinuatio
peti debet ab illius laude, a quo beneficium expetatur, maxime vero a laude
liberalitatis. Quod fi res, qua: poftulatur, difficilior obtentu fit, majore
infinuationis artificio, fin minus difficilis, minore opus habet i Si vero reta
petitio fit, aperte exordiendum, non tamen procul ab arte. Confirmatio fi de liberalitate benefatoris
nihil ditum fuerit in exordio, ab ea inchoari poterit. Petitio proponenda,
explicanda,. exornanda erit, attenta perfona, a qua petitur, et re ipfa quæ
petitur; nam fi petitur ab homine gloria: cupido, dicendum erit virtutem ineffe
maximam in re conferenda; fi ab alio aliter agendum. Si qui petit, benemeritus
fit, enumerare poterit, modefte tamen, fua beneficia. Si nullum habeat meritum,
narret, quomodo immeritus tantum beneficium petere audeat, caufamque petendi afferat,
dantis liberalitatem. Si res, qua: petitur magna fit, inque ea obtinenda
laboreiur, recurrendum ad locos deliberativi generis, a poffibili fcilicet,
ofiendendo nullo difpendio conferri poffe beneficium; ab utili probando, utile
efTe Reip. ab honefio oftendendo honorem, et gloriam inde futuram. Proderit
parentum laudes, et majorum utriufque rccenfere, qui fi in neceffirudine
conjunfti fuerint, addendum erit eos, qui fubfequuntur, non tam paternarum
opum, quam amicitia: harredes efle debere. Preces adhiberi poffunt, et
obtefiationes per res, aut perfonas, quibus nihil charius haberi confiet.
Docendum erit, petere nos rem honestam, piam, juftam, et nobis neceffariam,
quam, ut obtineamus, ciendi funt mifericordiæ motus ab indigentia noftra. Epilogus
promittit animum gratum, et deficiente facultate referendi gratias, fummam
animi propenfionem, et voluntatem. De Oratione Enchariftica, feu in gratiarum
aftione. E Xordium bene contextum, fplendidum, grave, ac ferium effis debet,
fine ulla fufpicione fimulationis, feu affentationis, in quo amorem profiteatur
Orator, magnifice beneficium acceptum enarret, cum rerum enumeratione} præterea
exordiri potefi Orator, nunc ab ea virtute, quæ maxime lucet in, beneficio
collato, modo a perfona largientis, et ab adjuntlis, (i Rex, fi Senatus fit,
qui dedit, fi cito datum, ficum verborum ornatu, et vultus hilaris
fignificatione ;nunc reddendo rationem, cur tot ante beneficiis acceptis, nunc
tantum agere gratias incipiat. Confirmatio, vel inftitui poteft per panegyrim,
ia qua infifiendum erit commendando virtutem a qua profeftum elt beneficium,
vel tripartita effe debebit, quæ primo occupetur in laudibus bencfa&oris,
mox in beneficii magnitudine amplificanda, et exornanda, ex adjun&is, et
circumfiantiis, per multas comparationes, inquirens caufas beneficii, tempus,
locum, et hujufmodi; demum in explicando modo, quo datum efi beneficium.
Epilogus officii recordationem pollicetur, fpondet, memorem animum, rogatque
Deum, ut cum nos ob virium imbecillitatem id minime poffimus, ipfe gratias
beneficio pares rependat. Si gratiarum a&iones ob falutem fient,
obfervandum erit, incolumitatem reftitutam, mala adverfa, miferias, et morbos
procul amandatos, magnam dicendi copiam fuppeditare. Ideo exageranda tunc erit
prxdi&otum maiorum gravitas, a quibus fuimus liberati > ut tanto majus
beneficium collatum eluceat. De
Oratione ad inaugurationem. H iEC oratio dici folet in un£Iione regum, aut
creatione magiftratuum, vel Gubernatorum. Exordium fumitur a votis bonorum, qui
optabant, a gratulatione populorum, a meritis iplius ele&i, a pompis,
quibus elucent viæ, forum, templa, palatia, a reliquis denique circumflantiis,
vel etiam condolere dignitatem novo Principi Orator poterit, quod eam fubeundo,
novas caulas, laborefque fubire cogatur. Confirmatio fefe effundet in laudes
novi Principis, a fontibus, quos fupra monuimus, a laboribus pro patria
exantlatis, a clementia in cives. Differet de corona, de fceptro, de purpura,
de ftemmate, deque ceteris omnibus, quæ peauliares fint illius pompæ; adhibebit
defcriptionem iplius Principis, a quo effulgeat amor, et raajeftas; neque
omittet oracula, prodigia, et fiquid aliud infigne evenerit, et honorificum,
qua: omnia ad laudem Principis referenda funt. Epilogus erit idem, qui in
gratulatoria oratione. Præclara eft Sidonis Panegyris ad Auguftum Romæ
di&a, et optime etiam Claud. in Conful. Manlii Theodorcti etc. u I De
Stemmate Praxin. S Temmata, quæ familiæ infignia efTe dicuntur, ad laudes
heroum plurimum conferunt, quorum encomia inde petuntur, quod fint, et figna
quadam ad ornamentum, et difcrimen familia; dedu&a, et præmia virtutis, ac
poderis incitamenta laborum, et fuavis, et grata re£te fa&orum recordatio,
et documentum aliquod artis, et officii, et amoris, ac infitæ virtutis
argumentum. Rurfus ad laudem conlideratur materia, ut aurum, vel argentum;
color ut cæruleus, rubeus; forma, vel figura, ut ancile, palma, clypeus;
pi&ura, ut rofa, oliva, globuli, arma, cruces, Leo, Aquila, et hujufmodi, e
quibus fiudeat Orator magnam copiam laudum haurire, &c. De Paranimphara;
five in Creatione Doctoris. Exordium petitur a circumftantiis perfonarum, vel a
ritibus veterum, cum laude illius fcientiz, ad quam initiatur Doftor.
Confirmatio tres partes habet; prima rationes continet, ob quas mox
promovendus, honore dignus videri poffit; altera rituum expolitionem; tertia ad
dolorem panegyrim inftituit. Ritus effc folent, traditio libri ad legendum
Quidquid officii fui fit; pileoli, infignia veritatis, ac fan&itatis;
anulus, qui fidei, veritatis, et conflanti cft argumentum; Zona aurea, qua
utatur, tanquam cingulo fidei, et fortitudinis, modeflixque vinculo, quo animi
motus cohibere poffit • Epilogus multa libi promittit de inaugurando Dolore,
clauditurque in ejufdcm gratulatione. Exordium inchoabitur ab ipfos juftitite
templo, in quo Prarfes admittitur, vel ab ipfo tribunali, in quod afeendit, unde
promant: oracula coelo digna, hominique metuenda, quod quid ornari poteft
aliqua, fimilitudine deiumpta e Salomonis throno, autaliunde. Confirmatio
vagabitur per locos communes laudis in Prsefidem, eleftum, et quserer, cur
purpura induatur, an quta ea regiam induat au&oritatem, an quia in legum
'violatores infurgere debeat tanquam elephas, qui a rubro in bella accenditur;
commendabit fapientiam præfidis, ex qua, velut ex trypode promentur oracula
jufla, veneranda, et patriæ falutaria. Epilogus gratulatur, non tam præfidi,
quam urbi, quæ fe regendam commifit tanto viro, cujus fapientia, vigilantia,
prudentia quæque* optima fibi polliceri poffit. De Oratione in dedicatione, H
iEC oratio contexitur, cum alteri opus aliquod nuncupandum occurrit: ejus
artificium tribus veluti gradibus affiirgit, primo occafione dedicandi, qua:
fumitur vel a dedicantis officio, vel a dignitate lilius, cui dedicatur, vel ab
opportunitate aliqua, ut fi devi&is hoftibus tribmphet, et cetera
quamplurima; fecundo rei dedicata: vel explicatione, vel excufatione. Tertio
commendatione, et obfecrationc, addito fidei, arrernique obfequii Sacramento.
De Oratione ad receptionem Principum, aut ma- f giftratuutiK O UI orationem
hanc contexendam aggreditur prius animadvertere debet, quæ fuerit caufa regis
adventus in urbem. Si ut eam per fe invifat, vel ut (i in ea Princeps exterus
fit, luas celebret nuptias, et hujufmodi; et talis erit oratio, qualem, eam
exigit caufa: adventus. Si caufa adventus fit, ut per fe Princeps urbem illam
invifat tunc Exordium ducetur ab expedatione, et votis totius Civitatis, vel a
defiderio communi videndi Principem, vel ab exukatione, qua geftieruot emnes,
cum primum acceperunt- nuntium, vel ab ipfa regum providentia quorum eft, non
per legatos tantum, fed per fe quoque fuis regnis confulere, a thefi ad
Bypotefim mox defeendendo. Confirmatio per laudes regis excurrat, providentias
præcipue per aliquas comparationes, et fymbola, poteritque recenfere antiqua
ejus beneficia in urbem illam collata, ea conferendo, cum prxdeceflorum ipfius
beneficiis. Immo differere etiam poterit multa de urbis Felicitate, et meritis,
eaque omnia uni regi accepta referre. Neque erit inconveniens, fi ad publicum
apparatum defeeudat, in quo deferibat, vel civium concurfum, vel regis ingreffum
magnificum ad triumphum, aut modefium, ne gravis populis eflet. Oicet relida ab
eo fuifle clementiæ, fortitudinis, liberalitatis, ceterarumque virtutum, quam
ille tranfierit, veftigia. Epi logus ejus armori, et tutela: commendabit urbem,
ipfuroque tutelaribus Diis; vota faciet pro ejus felicitate; vovebit, ac
dedicabit animas, pedora, fortunas, opes. Populorum explicabit lætitiam, et
amorem, et fi quid petendum erit, obfecrando id efficere poterit. Legatur Oratio Pacati ad Imperatorem
Theodofium, in qua ille magnifice. Exordium tefiabitur non levem doloris
fignifica* tionem ex illorum difceffu, quibus familiariter urebamur,• mox
moderationem adhibebit aliquam ex honefia difceffus caufay et fi orator fit
ille, qui difeedat, diuque a patria extorris abire debeat, mifericordix ciet
affe&um» Confirmatio commendabit multi populi, apud quem vixit Orator,
fidem, humanitatem, pietatem, et cetera, quibus conciliantur animi, tum urbem,
a qua ille difcedit, dilaudabit, loci nimirum naturam, fitum falubrem, et
amoenum, facra ejus fefia, facrafque ceremonias. Epilogus beneficiorum, qua;
ifiic acceperit, memorem Oratorem pollicebitur, uxores, liberos, affines
commendabit plurimis, iifque bene precabitur. Si alius fit qui difcedat, ifque
vel mul&atus exilio, vel acerbiore coa&us fortuna, Exordium petendum
erit ex querimonia, vel indignatione in fortunam ipfam. Confirmatio queratur quod abire
parantem non retinuerint non frequens virorum illuftrium concurfus, non
deambulationes, non amæna loca, non cetera, qux urbem exornant. Revocat
promifta; quod alter ab altero nunquam effiet difceffiuruS, confert priorem felicitatem
cum praffienti miferia, dicit, fe, qui jam in amico folatium, nunc prseter
follicitudines, et curas, nihil in eo habere, conqueritur nimis longam futuram
ejus abfentiam, commemorat pericula itineris.difficiles navigationes, et vita:
infclicioris incommoda, eoque dolet abeunti. Modo tamen folatur Te, fpe expeftati felicioris
reditus. Si vero qui difcedit, legatus vel imperator difcedit, Exordium illi
gratulatur. Confirmatio dilaudabit, et cum ipfum, et collegas fuos, comitefque,
a genere, virtutibus, fama nominis, ac rebus antea feliciter geftis:
deprecabitur eundem quoque, ut memoriam noftri abfens non deponat, locorum
amamitate delinitus, ac fociorum humanitate, urbiumque nobilitate, qua iter eft
habiturus, quas ca occafione proderit laudare. Epi logus continet preces, et felicia
omnia difcedenti defiderat. De Oratione poft reditum, Exordium vel fuperis
gratias aget, quod incolumem patria, civefque omnes tantum virum receperint;
vel defiderium exprimet, quo cives ejus re-‘ dit^im affe&abant, votifque,
et precibus accelerabant; vel circumftantiam quamdam temporis continebit, uc ii
Sol ferenior effullerit, quafi tanti hominis reditum fibi fuerit gratulatus.
Confirmatio deferibet hominis indolem, dilaudabitque virtutes, eas potiffimum
per enumerationem recenfendo, quibus acceptus fuerit iis, apud quos dum
abefTet, eft commoratus, qua in re optima* erunt comparationes conglobata:
hominum ilJuftrium, qui apud alias nationes magni habiti fuerint. Inducet
exteras urbes, apud quas diutius fuerit, qua: partim invideant patria: illius,
partim cives fuos cum eo conferant, minorefque eo arbitrentur, et partim fecum
ipfc doleant, quod hofpitem non retinuerint abire cogitantem. Reditum amico
gratulabitur, gratiamque referet, quod apud illum valuerit plus Patriæ
charitas, quam ceterarum gentium benevolentia: teffificatio, oblati honores,
locique amoenitas, et delicis. Exponet tandem quid commoditatis, et privatiTh, et
publice tanti viri afferet reverfio. Epilogus hortabitur, ut diu cum fuis
maneat, redibit ad preces, orabit coelites,• ut quemadmodum ia profe&ione,
et reditu ita fofpitent in Patria. De Oratione in funere. Exordium occupabitur
in deploratione, ac gemitibus, ordieturque vel ab indignatione pro eo, cujus
mortem dolemus, quafi indignemur ereptum nobis effe, aut nos fupcrftitcs ad
dolendum rtli&os; vel ab aliqua exclamatione, vel ab inve&iva, in
mortem maxime, fi in ætatis flore ille obierit, vel a deploratione cum
indignatione mixta, humanam conquerendo conditionem, quæ nos ad tantam miferiam
vix natos dejecit, vel a circumflarttiis qaibufdam, ut funtoftenta, prodigia,
alisrque quamplurimæ, quæ in hac re meffe poffunt, vel ab aliqua figura,
dubitationem puta, quafi ambigat Orator loquine, an filerc debeat, ciere
lacrymas, an confolari, et hujufmodi, autexcufationem quamdam, quafi non audeat
vulneris memoriam refricare, et affligat domus fpeciemdefcribere; vel ab aliquo
gravi difto præfertim, fidolorem lenire velimus, vel a lugubri exequiarum
apparatu, vel ab aliquo lymbolo, vel a diverfis gentium ritibus, vel a luftus
deferiptione, præfertim fi luftuofo cafu obierit ille, cujus mortem dolemus.
Denique exordium dabunt affinitas, dignitas, et hujufmodi, quæ fubihneat ille,
cui onus dicendi impofitum fuit, tamquam ea caufæ fuerint, cur loquendi partem
fufeeperit Confirmatio duabus potiffimum partibus abfolvi poteft, laude
fcilicet, et lamentatione*, ea demortui vitam commendamus . hac mortem dolemus;
quare omnes .inveniendi funt fontes laudis, locaque omnia ciendi mæroris motus;
quibus addi potefl et tertia, folatium fcilicet ad parentes, vel ad fuperflites
documentum. Interdum tamen una pars tantum ponitur, eaque occupatur in
laudatione; ita tamen conftru&a, ut referatur ad excitandum dolorem/ in
crdum adhibe» tur et fecunda, quæ aut dolorem movet, aut confolatar, aut
adhortatur ad mortui imitationem: melius autem ifla fparfim per totam orationem
diffundentur, ita tamen ut in epilogo perficiantur. Epilogus æternam
felicitatem mortuo deprecatur, vel lacrymas in auditoribus movet, vel„ad
debitos honores deferendos, aut ad recordationem beneficiorum ab eo acceptorum,
vel ad virtutum ejus imitationem, vel ad impendentis omnibus certe mortis
memoriam hortatur. Si filius fuperfit paternæ virtutis hæres, auditores
Colabitur, proponens iis, parentem in filiis fuperflitem efTe. Tandem claudi
poterit celebri quodam epitaphio, quod concifutn efTe convenit i et paucis
verfibus continere genus, vit® feriem, geftos honores, facta præcipua, mortis
genus, et monitum aliquod viatori. Egregixfunt Orationes funebres Nyffeni in
morte Pulcneriæ, D. Amb in Theodofii fenioris, Naziazeni in Athanatis etc.
Exordium, quod quidem furoitur a perfona regis, et ejus, a quo mittitur, et
ejus ad quem mittitur legatus, affinitates, foedera, amicitia, negotia inter
illos ante id tempus habita, et cetera hujufmodi occupabunt; vel etiam fumi
potellaritu, et jure gentium in mittendis legatis. Confirmationis nulla certa
præcepta efTe poflfunt, cum enim tot, et tam vari® poffint efferes, quas
legatus agere debeat, talem muituat confirmationem. Orator, qualem exiget res,
de qua agitur. Quare cum legatus mittitur, vel ad gratulationem, et amicitiæ O
offi- lio 'Rhetorica Pracepta. officia, vel ad excipiendum aliquem alterius
nomine, vel ad aliud petendum, vel ad repetendum, et expofiulandum aliquid
propter acceptam injuriam, vel ad (uadendum aliquid, recurrere ille debebit ad
lingulares oraticfieS cuilibet caufat conformes. Epilogus pariter caufis, quæ
traftantur, accomodabitur. Consecratio apud antiquos Idolatriat cultores ea
dicebatur, qua vel aliquem hominem in numerum Deorum referebant, vel templum,
aut aram numini alicui confecrabant. Sacrilegus ifte cultus cum ipfa
fuperftitione jam exfolevit, eique fan&ior fucceffit, coefuetudo fcilicet
piorum hominum in numerum, albumque Sanftorucn referendorum. Quare hæc oratio
adhibetur a nobis in alium ufum abeo, in quem ab antiquis adhibebatur -, cum
nempe non jam fceleftiflimis hominibus divorum nomen tribuitur, led cum homines
vere pii maturis Ecclefia* Catholicæ fan&ionibus inter Beatos,
Sao&ofque adferibuntur. Artificium hujus orationis idem eft, ac orationis
in funere, præterquamquod exordium, et epilogus, ipfaque confirmatio ad
hilaritatem penitus compafti cfFe debent. Poterunt et aliqua recenfcri de
ritibus, qui in /Ethnicorum confecrationibus adhiberi folebant, vel eos
afliimendo, vel rejiciendo. Etiam epilogus continebit exhortationem, qua
excitentur auditores ad venerationem Sanfti hominis, et ad vota illi facienda;
poterit pariter vel nobis, vel noftris a Divo illo aliquid jjoftulari. Si ha?c
oratio habenda fit in confecratione templi cujufdam, ilia fota occupabitur in
commendandis ritibus hujufmodi confecrationis, nec non templis iif dera ut dem
fibi a Deo electis tanquam in propria sede ad habitandum in terris; curabitque,
ut venerationem, religionemque, et cultum in illud ipfum in auditoribus
excitet, quod ut melius prædet, ornanda erit aliquibus imaginibus ex Sacra
Scriptura defumptis. Genus hoc nedum deliberativum, fed& fuaforium dicitur,
et difluaforiura, difceptatorium, concionatorium, et confultorium. Ejus
materies poflibilia funt, et non neceflaria, non tamen omnia, fed ea tantum,
quæ ed in nodra potedate, ut aut dant, aut omittamur, et ad nos ipfos
pertineant, hæc vero eadem publica funt, vel privata, de quibus difceptari
poted. Finis utilitas ed, ac
detrimentum i officium fuadere, et dififuadere. De Inventione Generis
deliberativi, triplicem hujus generis fontem aperit Quintilianus, cum inquit:
fuadendi partes quidem honedum, utile, necedarium. Neceditas tamen non ideo ed
pars deliberationis, quod in deliberationem cadat, fed quod fi quid neceffarium
probari poflit, fidem afferat deliberationi. Cum autem CICERONE (vedasi) in
partition. &c. ha?c habeat: Suafori proponitur Jimplex ratio, fi et utile
ejl t et fieri poteft, ut fiat: diffuafori duplex: una, fi non xjl utile, ne
fiat: altera fi fieri non potefl, ne fufeipiaturj cumque idem dividat utile,
inutile honedum, et utile commodum, condat tres eflfe fontes inventionis
generis deliberativi; honedum fcilicet, utile, et poffibile. Ad honedum ea
referuntur omnia, quæ proficifcnntur a virtutibus, quæque funt laudabilia ipfa
per fe, qualia funi animi bona, quibus et additur materies fubjefla hon. flati,
qua? maxime fpeflatur in amicitiis; amici autem charitate, et amore cernuntur.
Quare cum nobis honedum proponimus materiem deliberationis, illud attinui
potett. Si bonum, quod fuidemus, cum virtute conjunflum demondremus; tunc
etenim honedum illud probaverimus; ideoque faciendum. Si offendamus cum re,
quam fuademus, conjungas ede virtutes, ita ut qui, quod fuademus, fufceperit,
prudens, juftus, clemens habeatur. Quod fi jam iile hifce virtutibus fuerit
inflruftus, alia ratione erit impellendus, ut nempe fuis virtutibus opera
refpondeant. 3.- Si metu dedecoris, et infamia? aliquid fufefpiendum ede
fuadeamus, qui modus efficax ed, et dicitur cum contrario. Notandum oratori ed,
quibus affeflibus auditores maxime ducantur, et quantum apud imperitos
adhibendus ed ad fuafionem ignominia? metus, tantum apud Sapientes gloria?
propofitio, et honedatis, apud quos nunquam illius jaflura. Ad utilitatem, ut
inquit CICERONE (vedasi), ea revocantur, quæ funt in corporis, aut fortunæ
bonis expetenda; quorum alia funt quafi quodammodo cum honedate conjunfla, ut
honos, et gloria; alia diverfa, ut vires, forma, valetudo, nobilitas, divitiæ y
clientelæ, de quibus fatis multa in genere demondrativo. Igitur multiplici
ratione ea ad fuafionem deflefli pofiunt, et •» - rf» - k 1. Cum nobiles avidi
funt honoris, et gloria?, di gnitatum, et fama?, divitiarum, dominationis, et
imperii; fi probaverit orator in re, quam fuadet 3 ida contineri. Apud eos, qui
aut lucri cupidi funt, aut fuffl*mum decus ponunt in reflo divitiarum ufu, ut
hofce per- Peti orias Præcepta. at} perfuadeat, his liberalitatem divitiarum
ornamentum, illis fpem lucri proponet.. ublica. Tertio ab auditorum perfona
cognolcendo ilorum inditura, mores, Reipublicæ adminidrationem, ut omnia nodra
accommodemus tpforum ingenio, ex eorum opinione ducamus argumema utilitatis, et
honeflatis, declaremufque nos id perfefturos, quod ii maxime in votis habent.
Quarto abi pfa re, magnitudinem, dignitatem, momentum, aut proprietatem
auditoribus odendendo, ut eos ad audiendum excitemus. In diffuafionibus
nonnunquam. longius principium requiritur præfertim, fi quæ diduadentur, utilia
ede auditoribus videantur. Cavendum in hifce exordiis, ne abrupta fint, nec
concitatam femper orationem, et in verbis effufionem, cultumque affe&ent.
Narratio ut plurimum non ufuvenit in hoc genere; funt tamen duo tempora, quibus
adhibere eam occurrit, yel cum aliqua habemus exempla rerum ante gedarum,
quibus utamur tamquam argumenta ad fuadendum; vel cum auditor docilis fieri
debet, fi nondum fatis præcepit, in quo fit tota controverfia, unde orta,
quomodo terminari poflit, aut fi periculum rei, difficultatem, et magnitudinem
ignorat. Quod fi nulla narratio occurrat, datim ab exordio fubjicienda erit
propofitio, quam explicare copiofe, et fumma cum au&oritare conveniet.
Contentio, leu confirmatio eo major effe debet, quo minor fuit narratio; itaque
pod jam ditia probatio in certa qua?dam capita didribui debet ; qua: traftentur
ab honedo, utili, podibili, neceflario, ut fupra monuimus. Ad majorem copiam poterit Orator per alia
genera excurrere, vel eos accufando, qui funt contraria; opinionis, vel eos
laudando, qui nobifeum confentiunt. Inventio generis judicialis tum ad
accufationem, tum ad defenfionem, pendet ab affumptis locis faftorum, et rerum
; ii autem continentur omnes in adjunftis, antecedentibus
&confequentibuscaufis,& in locis omnibus extrinfccis ; cum
diilin&ione tamen, ut alii faciant ad flatum conje&urar, alii ad flatum
definitionis, alii ad flatum qualitatis. De illis fatis diximus, cum de locis oratoriis, ea
huc referatis. Exordium artificiofum effe debet quam maxime, inquo femper
auditor docilis, attentus, et benevolus reddendus efl, et ea quidem ratione, ut
flatim a principio, vel attentus, vel docilis, vel benevolus fieri debeat.
Benevolentiam captabit orator primo a propria perfona, fi vel extenuet virtutes
fuas, et eloquentiam, vel oflendat fe non leviter angi difficultate agendi, et
officio ipfo accufandi; vel doceat fe quodammodo opprimi auftoritate, gratia,
potentia partis oppofita; vel dicat fe ad dicendum veniffe, ut exiflimctur
fufcepifle illam caufam duplus officio cognationis, et amicitiæ j aut alia ex
caufa, feu honefla ratione, ux femper videtur neceffario afferenda, z. ab
adverariorum perfona, feu eorum, qui eum illis conjun&t funt, quod ita
tra&ari debet, ut in invidiam, et odium adducantur, detegendo eorum
fraudes, crimina, corruptelas, et hujufmodi. A perfona Judicum, vel cos
commendando vel declarando, quam fpem concepimus de ipforum integritate, vel
obfequendo, vel mitigando eorum naturam, ad quod necefTe erit eorum mores
cognofcere, vel liqua de eorum officio attingendo cum Iaude r leviter ramen ne
tam doceri, quam exorari, et laudari videantur. 4. A caufa, vel ex ea defumendo
aliquod grave di&um, feu fententiam maxime probaram a Judicibus, vel ejus
magnitudinem exponendo, ut fi dicamus conjun&am habere ftbi Reipublicæ, aut
civium falurem, vel aliqua confiderando de ipfius conditione, eumque
affe&um movendo, quem ipfa poftulat, ut fi in ea gravi aliqua affefti
injuria $ mifericordiam in nos, invidiam, et odium in adverfarios concitemus.
Ab adjun&is, temporis fcilicet, loci, aliarumquecircumftantiarum. Attentio
aptatur vel fi rem novam, atrocem, et magnam, atque ad exemplum pertinentem agere
dicamus, vel fi jpauca nos di&uros, eaque tantum, quæ ad caufam pertinent,
promittamus. Docilitas comparatur clara partitione, rerumque dicendarum
divifione, tunc maxime cum caufa videtur involuta multis rebus \ at cum judex
nimium adverfario attendit, ab illa nimia attentione avertendus erit, quædam
imminuendo, vel elevando. Narratione non opus eft, ni forte accufator, cujus
eft faftum exponere, minus fideliter illud narraverit, vel aliquid omiferit,
quod reo favere poflit. Cum illam adhiberi oportuerit, fi quando perfpicua, et
probabilis effe debuerit, maxime in hoc genere efle debebit. Præterea ita
componenda eft, ut caufæ noftræ æquitatem, nequitiamque adverfariorum fubjiciat
oculis, conformandaque judicum moribus, et auditorum, ut oftendamus adverfarios
maxime in eo peccafte, a quo omnes potiffimum abhorrent, quod quidem ultimum
pluribus modis præftare poteft; t. oftendendo propenfionem cujuslibet ad vitia,
et virtutes, qua impulfus aliquis hoc vel illud prælegit. 2. expvmendo ea, quæ
ab illis moribus oriuntur, ut incedat hoc, vel ilJo gradu, furens, anhelans,
titubans, et hujufmodi. 3. Si res videatur incredibilis, caufas proferendo, quæ
ad eam impulerunt, quod fi nulla legitima caufa inveniatur recurrendum erit ad
primam illam libidinem, quæ cæco impetu huc, vel illuc homines proripit. Si res
aliqua crudelis, et atrox apponatur, tunc concitandi funt motus animorum
graviores per exclamationes, objurgationes, reprehenfiones, comminationes,
increpationes, et hujufmodi. Sunt etiam narrationes quædam totæ flebiles,
quibus atrox alicujus maleficium, naturæque immanitas, aut innocentium pæna
exponitur. Quia duplex narratio, altera, quæ fumraas rerum colligit tantum,
altera quæ lingula exponit: hæc fecunda adhibenda eft, quotiefcumque permovendi
funt auditores, prima vero cum rei geflaf feries, aut nobis non multum favet,
aut ingrata eft auditoribus, aut communis, et trita. Confirmatio, vel fimplex
eft, quæ crimen unum, vel conjunfta, qux plura compleftitur. Si fimplex eft,
qux firmiflima funt, partim in principio collocentur, partim ad finem
referventur, quæ autem mediorra, in mediam turbam conjiciantur. Si conjun&a, et accufemus, quo ordine
crimina reo commiffa funt, eo a nobis referantur, fi vero, quæ poftremo fafta
funt, leviffima fint, ea nunquam in fine collocanda. Tunc etenim notanda
tempora, dignitates, et officia', in quibus fefe reus exercuit, et crimina, qux
quoquo tempore, aut officio fufceperit, quorum graviffima quxque primum, et
poftremum locum obtineant, cetera vero medium. Notandum unumquodque crimen
probandum cffe ex locis, qui pertinent ad llatum, in quo caufa verfatur, ut
fingula argumenta vehementer proponantur, hoc eft, nt ftatim initio
conglobatione criminum omnium utamur, qua reus obruatur, et judex obftupefcat.
Ubi crimina conglobata fuerint, erunt comprobanda, et confirmanda tabulis,
decretis, teftimoniis, accuratiufque in fingulis commorandum i quod certe fiet,
fi vehementiori aliquo motu crimen augeaxqus. Aliquando inflandum eft,
acriufque urgendum, interrogandum, minandum, blandiendum, et cgreftto1 nes
Rbetoric* Prcecepta. 223 nes etiam adhibendas funt. Nonnunquam propofitis rationibus
in amplificationem graviorem exardefcit Orator, laspe lenta gravitate pondus
adjungendo iis, quas dicuntur. Si defendimus eodem ordine utemur, quo ufus eft
advcrfarius, quem tamen mutare polfumus, et leviffima primo refutare, partim ad
extremum remittere; firmiflima in medium locum conje6fa, aut obfcurare dicendo,
aut digreffionibus obruere. Denique optimi oratoris erit, quid judices, quid
res poftulcnt, iemper advertere. Peroratio fi accufemus, iras prascipuas, et
indignationis motus, fi defendamus, conqucfiionis, fcu miferationis funt
excitandi / tametfi cum defendimus, iram movere polfumus ininjuftos
accufatores, dum accufamus, mifericordiam in alium. Praster hofcc affe&us
alii etiam pro rerum opportunitate excitantur, ut odii, pudoris, amoris,
miferationis, doloris, lenitatis, mjfericordias per frequentes hypotipofes,
Apoftropbes, deferiptiones, profopopejas, contentiones, de quibus ad fatietatem
luperius. Hasc funt generalia prascepta, quas pertinent ad artificium orationis
in genere judiciali ; ea monenda lupe r funt, quas ad particulares quafdam
orationes fpe6fant, et primo dicendum. De Oratione accufatoria. I N qua
modefiiam prasfeferre debet Orator, et molliter, ac frigide profiteri
necelfitatem a&i I Nvediva ad hominum mores ftringendos accommodata duplex
eft, una in homines, quas non eft ufurpanda temere, nifi publica notentur
infamia, vel nullum bonas fpei locum relinquant: Altera in hominum corruptos
mores invehitur, et prima longe hasc melior eft. Quascumque ilia fint,
cavendum, ne liberius frarna maledicentias laxemus. Exordium ducitur, vel ab
admifto fcelere, quod explicari debet: vel a caufa magni momenti, et adftatum
Reipublicæ pertinenti ; vel a perfona, in quam invehit, qua; defcribenda eft;
vel a circumftantiis loci, temporis, et hujufmodi. Narratio, vel vitam omnem a
Puero incipit, fingulaque momenta percurrit cum verborum apparatu, vel certa
quædam capita defumit ex pluribus, quas fibi proponat exagitanda. Confirmatio
vitii perniciofos effedus expendit, contraque pietatem, leges divinas, humanas,
Patriæ mores, majorumque inftituta' efte, contendit. Per amplificationem
recenfet incommoda, quas inde vel fequuntur quotidie, vel in pofterum fequi
poftiint, nifi judices fasviant in audores. Per Comparationem multorum, qui ob
fimilia, vel etiam minora crimina graviter affedifunt, urget hujufmodi hominem,
dignum efte extremo fupplicio, exilia, et hujufmodi. Nonnunquam in invidiam, et
odium perditum hominem vocat,- fi prsfertim beneficiorum immemor', quam tueri
debuerat, Rempublicam everterit. Tradatur interdum per argumenta, et figuras,
quæ ad intimos tenlus percellendos pius habeant virium. Epilogus graviores
affe&us ciet, iræ, odii, invidiæ, pudoris, et aliorum effe&uum, quibus
criminis atrocitas urgeatur, et judices ad pænas repetendas accendantur.
Objurgatio, quæ eft fuperioris ad inferiorem reprehenfio, dicitur, quæ fibi
proponit emendationem ejus, qui contra officium, et honeftos mores aliquid
peccaverit. Quare cum duræ cervicis hominibus ea debet efle intonans, minax,
intenranfque pænas, cum illis vero, qui mollis animi funt, pavidique ingenii,
fruflra laboratur, fi feveritas induatur. Exordium peti poteft: vel a
vituperatione perfonæ, feu facinoris admifli ; vel a rei turpitudine, criminis
atrocitatem explicando, cui etiam adjungi debet tif moris motus, et oppofitio
vehemens i vel ab admiratione, quæ et rei novitate, atque infplentia nafcatur,
ubi et exprobari poterit ja&antia inanis, et fiducia, præfertim, fi ignaviæ
fcelus reprehendatur ; vel a (pe virtutis ejus, cui tradita fuerat Reipublica
(alus, quam tamen (ubftinere non potuit: vel a dubitatione, quando dubius erit
Orator, quo nomine fcelus, quod arguitur, appellet. Interdum etiam caufam, cur
queramur, expendit,- nempe quod res acerba contigerit ex fa£lis ejus, quem
verbis emendamus; quod inapertum diferimen homines, et negotia per
imprudentiam, aut animi demiffionem adduxerit. Narratio non tam objurgationi
neceffaria eft, quam commoratio quadam in reponendo crimine, quod per
hypotipofim fubjici oculis debet, ut ejus gravitate, vel feritate moveatur js,
quem reprehendimus; Obfervandum tamen eft, ne alio nomine crimen vocemus, quam
convenit. Confirmatio
exagerationem criminis continet, qux et fit pene tota per adjun&a loci,
temporis, perfooarum, et hujufmodi. Epilogus acrimoniam orationis verborum
lenimento mitiget, quod facile fiet, fi noflram objurgationem ab amore
proficifci viderit is, quem objurgamus. Proderit rejicere culpam in aliam,
fciiicet in fubitum furorem, vel in alios, qui ad id excitaverint, quibus
fubjici poterit vernæ- promiffio, totiufque injuriæ oblivio ; quod fi aliquid
fupplicii fit imponendum, id fieri non tam ad repetendas pænas, quam ad eos in
officio retinendos, et ad poenitentiam adducendos dicetur. Nonnunquam atrocior
efle potefi Epilogus, et tunc ex ante ditiis exagerabitur turpitudo contradi
dedecoris. Addi aliqua poterunt ad excitandos motus fpei, metus, amoris, præfertim
ab honelto. Poflunt et minis admifeeri preces, ut ii fiedatur aut terreatur
illis; ita tamen, ut omnia magis ad amorem, et lenitatem infledantur. Tandem
^propofitæ emendationis finem confequemur, fi eam quam concepimus, bonam de reo
fpem aperiamus, et fateamur. EXPOSTULATIO dicitur gravis quædam quærimonia.
Cavendum ne fiat ob leves caulas, et fi rem damnamus, voluntas cll excufanda.
Infuper habenda efl ratio eorum, apud quos, et ob quas injurias fiat
expoitulatio, ufendumque in Omnibus prudentia, ut non ulceremus plagam, quam
fanare cupimus; præfertim fi a.pud fuoeuorem potelfatem conqueramur. Exordium
duci poteft a laude, et commemoratione beneficiorum, quæ in eos contulimus,
apud quos querimur; vel ab ipfis injuriis', quas patimur, præfertim cum noftro
jure utimur, nec jam precari opem, et auxilium poftub mus ; vel a quadam
excufatione, qua profiteatur Orator fe non fua caufa, fed honeliatis, aut
alienæ voluntatis expofiulationem aggredi. Interdum libet oric ce Præcepta. zig
dum etiam malevolentia suspicionem amovet, et per dubitationem eruditam nititur
de amico queri; aliquando fimulat dolorem, ut gravior fiat conqueftio. Narratio
exponit injurias, aliquando etiam prius venia petita, et conquerendi facultate.
Confirmatio poft injuriarum expofitionem amplificat eorum magnitudinem, et cum
læfar perfonæ patientia confert, cujus rei teftes nonnunquam producit ;
Defcriptiones adhibet, profopopasjas, hypotipofes, et alia dicendi lumina, quas
motum ammorum excitant. Epilogus precibus ad eos confugit, a quibus folis
remedium expeftari porefi, quo in loco affeftus excitat mifericordiaj,
clementiæ, ac metus. Si expoftulatio privata fit, nudam, et apertam narrationem
poflulat, et nonnunquam excufationem potius, quam accufationcm adhibet. Tamen
inexpofitione injuriarum amplificare poteft earum gravitatem, fi præter merita,
atque adeo contra jus oilendantur acceptæ. Confirmatio, aut brevis, aut fere
nulla efle potefi, in qua per præteritionem profiteri debet Orator, fe generofo
filentio multa fupprimere. Qui tamen confirmatio tum eft adhibenda, cum tales
funt injuriæ quæ ultra diffimulari nec poflint, nec debeant, pnefertim, dum
majora timentur. Conclufio vehementem excitat dolorem cum interpofitis minis,
quibus etiam • aliqua deprecatio adjungi potefi, habita femper dignitatis
ratione. De Exprobatione, hoc genus orationis exprobat beneficia in alios
collega j quod quidem fieri debet opportune, et e re illius, qui beneficium
accepit. Exordium tefiatur et appellat confcientiam illius, qui labem ingrati
animi contraxit, eamque grandibus fententiis ob oculos ponit, ut vitii
turpitudi- nem primo afpedu cognofcat, et cum dolore conde- mnet. Narratio rem
totam artificiofe proponit, in qua et noflra in illum beneficia, et ingratum
illius in nos animum amplificamus. Confirmatio duas habet partes; in prima
benificium commemorat, fed ex acceptarum injuriarum impulfu $ in altera
exponit, et amplificat alienum maleficium, quod fiet, ex hypothefi defcendendo
ad thefim. Epilogus timoris, et verecundis motus excitat. De Comminatione, In
hac Oratione totus eflfe debet orator, ut timorem inferat ei, cui minitatur.
Exordium abruptiflimum effe debet, ut velut ex ino- pinato feriat. Oratio tota
concifa erit, concitata, minax, gravibus fenteotiis, et axiomatibus redundans,
non tamen af- fe&ata, et puerilis. Adhiberi folet vehemens amplifi- catio
fceleris, autfacinoris, cui fupplicium intentatur, in qua longiori verborum
traftu fefe efferat Oratio. Fingere poteft orator, vel ipfam fceleris
cogitationem, et memoriam adeo atrocem effe, ut ad eam vel gra- viffimi viri
perhorrefeant. Interdum etiam ne motus langucfcat, utetur communicatione, et
pedetentim progredietur. Præterea rem ipfam, ac futurum incommo- dum ita clare
defaribet, ut jam non dici, fed cerni oculis videatur. Conclufio' optationem,
et adhortationem continebit, ue orajtio cx odio, et malevolentia videatur
profetta. DEPRECATIO similis est defensioni in hac tamen fupplex venit Orator,
cujus erit, obfervare prudenter circumdantia temporis, ac perfonarum, ne
incongrue deprecetur. Exordium fumi potefl, vel a qualitate criminis, cui
veniam precamur, vel perfonx, pro qua petimus . t Narratio non efl, cur crimen
exponere debeat, ni- fi forte occupemus eos, quos offendimus, et tunc om- nia
funt narranda, ac verbis amplificauda, deinde fubjicienda deprecatio.
Confirmatio in eo confumi debet, ut per vim argu- mentorum dandam effe veniam
fuadeat, quod quidem prædari debet primo a perfona lxfa, vel lædentis, de
quibus ea dicenda funt, quæ cuique convenient, fpe- ftata cujufque conditione .
.Sciatis tamen prodeffe fem- per, ut dilaudetur, qui læfus eft, præcipue a
laude clementis, et ut commendetur, qui Isferit, cum ab ante aifa vita nulla
vitiorum labe refperfa meritifque ejus in Patriam, et alios, tum a fpe nempe
eum fore perutilem Reipublicx; A crimine ipfo una cum fuis circumdandis, quæ
crimen minuere poflfunt, ut fi di- catur errorem admilfum, vel aliorum
fuafione, vel im- petu aliquo iracundis. Quod fi hac aftione nainus excufari
poterit, odendendum nocere illum duntaxat Au£fori, et illi fatis effe fupplicii
cogitaffe, aut fecifle crimen. Si vero crimen fit occultum, orator dicat non
prodeundum illud in vulgus, quia ejus tupitudo ad vin- dicantem redibit; A
fupplicio inferendo, de quo quaeri poteli, cur inferatur, et cum certum fit
inferri illud, ne reus amplius peccet; polliceri debuerit Ora- tor ex illius
bona indole fpem vits melioris, fuam- que au&oritatem interponat, et pro eo
reconeiliando, fi opus fuerit, fpondeat, oftendat quoque jam odium eoncepiffe
in fcjeius, ut fupplicii ad emendationem non opus videatur. Ad Clementiam
excitandam dicateum, qui peccavit, fic affligi dolore, et concuti metu, ac
timore, ut milericordia dignus videatur meminerit tandem fervandum eflfe
decorem. Epilogus vehementiflimos motus contineat, et fi ad parentem agat,
orabit, ut meminerit in filium agi, non in fervum, obfecretque, per majorum
cineres, per clara facinora. Si vero ad fuperiorem agat, im* ploret ejus
Clementiam aliis exhibitam in atrociori et- iam flagitio, proferat exempla
majorum ejus in re fi- wili, fidem et obfequium perpetunm polliceatur, ca- ptet
interdum benevolentiam, dicatque, quidquid ac- cidit, fc contentum fore ejus
judicio etc. AdLaudem Dei,
femperque Virginis Mariae, et Reliquorum Sanftorum. Santucci. Luigi Speranza,
“Grice e Santucci.” Santucci.
Luigi Speranza -- Grice e Santucci: la ragione conversazionale dell’idealismo
– scuola di Mira – filosofia veneta – filosofia veneziana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Mira). Mira,
Venezia, Veneto. Filosofo italiano. (quarto da sinistra) con Pedrazzi,
Battaglia, Matteucci e Contessi. Muore a Bologna. è stato un filosofo italiano.
È stato docente di Storia della filosofia all'Università di Bologna.
Socio dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, è stato tra i
fondatori della casa editrice il Mulino. Studioso di Hume, dell'illuminismo
scozzese e del pragmatismo americano, ha indagato inoltre le varie forme in cui
positivismo ed esistenzialismo e, più in generale, il rapporto con le scienze
hanno orientato il pensiero italiano tra Ottocento e Novecento. È sepolto
alla Certosa di Bologna.[1] Opere principali Esistenzialismo e filosofia
italiana, Bologna, Il Mulino, 1959. Il pragmatismo in Italia, Bologna, il
Mulino, 1963. Sistema e ricerca in David Hume, Bari, Laterza, 1969.
Introduzione a Hume, Bari, Laterza, 1971. Storia del pragmatismo, Roma-Bari,
Laterza, Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana, Bologna, CLUEB, Eredi del
positivismo. Ricerca sulla filosofia italiana fra '800 e '900, Bologna, il
Mulino,, 1996. ISBN 88-15-05178-3. L'età dei Lumi. Saggi sulla cultura
settecentesca, Bologna, il Mulino, 1998. ISBN 88-15-06712-4. Filosofia e
cultura nel Settecento britannico, 2 voll., a cura di A. S., Bologna, il
Mulino,, 2000. Comprende: Fonti e connessioni continentali, John Toland e il
deismo. Hume e Hutcheson, Reid e la scuola del senso comune. ISBN
88-15-08098-8. Ricerche sul pensiero italiano fra Ottocento e Novecento,
Bologna, CLUEB, 2004. ISBN 88-491-2232-2. Note ^ Fonte: totem informativo di
Bologna Servizi Cimiteriali. Collegamenti esterni Santucci, Antonio, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Santucci,
Antonio, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009.
Modifica su Wikidata Antonio Santucci, «Pragmatismo» la voce nella Enciclopedia
del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1980. Addio al
filosofo Antonio Santucci, da Il Mattino di Padova, Archivio.Portale
Biografie Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX
secoloNati nel 1926Morti nel 2006Nati il 26 settembreMorti il 20 gennaioNati a
Mira (Italia)Morti a BolognaMembri dell'Accademia delle Scienze di
TorinoSepolti nel cimitero monumentale della Certosa di Bologna. Antonio
Santucci. Santucci. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Santucci”. Santucci.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sanzo:
il deutero-esperanto e la ragione conversazional tra natura ed artificio – la
filosofia lizia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Insegna a Brindisi, Milano, e Salento.
Fonda “Apollo Licio” o Lizio. Sube il fascino dell’esistenzialismo e il orazionalismo.
Rivolve la propria attenzione ai rapporti tra filosofia, scienza e società. Si
occupa di filosofi quali Becquerel, Boutruox, Corbino, Couturate Curie, Enriques,
Fermi, Frola, GEYMONAT, PEANO, VAILATI. Sui fondamenti della geometria” (Brescia, La Scuola, Collana "Il Pensiero");
“L’artificio della lingua, -- Grice: “I like that: it’s my Gricese, a language
I invent and which makes me the master; there’s the arbitrary and there’s the
artificial, and Sanzo, reconstructing Peano’s project, fails to distinguish
this” -- Milano, Angeli, Collana di Epistemologia, Cimino; Sava, Il nucleo
filosofico della scienza, Galatina, Congedo, Collana di Filosofia, Scritti di fisica-matematica,
Torino, POMBA, I Classici della Scienza, Poincaré e i filosofi” (Lecce, Milella);
Corbino, Scienza e società, Saggi raccolti e commentati, Manduria, Barbieri,
Collana di Filosofia Hermes/Hestia, Scritti di fisica-matematica” (Milano,
Mondadori, "I Classici del pensiero", Unione Tipografico, Torino,
Scientia, Rivista di sintesi scientifica, “Apollo Licio”, Museo Galilei,
Firenze. 1. I PRODROMI Il problema della
comprensione internazionale nel campo della scienza inizia, come è noto, con i
primi testi scientifici scritti in lingue nazionali. Il latino, che per secoli
era stato lo strumento della cultura scientifica dell'Occidente, si era estinto
nella parlata comune e si andava lentamente estinguendo anche nella sua
funzione di unica lingua comune ai dotti. Trattati scientifici in lingue
volgari appaiono già alla fine del Duecento e la matematica commerciale è
sempre più frequentemente scritta in volgare; in italiano la prima trattazione
di algebra è di Jacopo da Firenze e appare nel 1307; nel 1344 appare un vero
trattato di algebra del Maestro Dardi da Pisa . Il Seicento è comunque il
secolo di passaggio, nel quale i testi scientifici scritti originariamente in
lingue nazionali cominciano ad essere molto numerosi, benché a qualsiasi
pubblicazione scientifica in italiano, inglese o francese segua quasi
immediatamente la traduzione in latino. Le menti più attente cercano di trovare
uno strumento che possa sostituire il latino, che tuttavia vive ancora un
lunghissimo tramonto: tesi di laurea o lavori scientifici di matematica o di
filosofia saranno scritti in latino ancora nella seconda metà dell'Ottocento,
ma si tratterà ormai di casi sporadici . Per ovviare a questo rischio di
mancanza di comunicazione tra le persone colte, rischio che cominciava a
diventare molto concreto, numerosi pensatori del Seicento, tra i quali
Cartesio, Mersenne, Comenius, Leibniz, Kircher avevano dedicato tempo e sforzi
all'idea di una lingua universale ; sulla storia di questi tentativi e di tutti
quelli che li precedettero e li seguirono, la letteratura è vastissima .
Difficile dire chi fu il primo ad ideare una lingua completa ed effettivamente
usata al di là di qualche progetto e di qualche prova. Comenius presenta
ampiamente e con molta lucidità la necessità di una lingua universale nella Via
lucis . L'opera fu scritta in Inghilterra negli anni 1641-42 e circolò
manoscritta per un quarto di secolo; fu poi pubblicata ad Amsterdam nel 1668.
Lo scopo del grande pedagogista moravo è una riforma della scuola, la quale
dovrà uniformarsi ad una luce universale. I quattro requisiti della "via
universale alla luce" sono i libri universali, le scuole universali, il
collegio universale e una lingua universale . A questi quattro requisiti
Comenius dedica cinque dei ventidue capitoli della sua opera, e il più esteso è
quello dedicato alla lingua universale. In superamento di Luis Vives, del quale
egli cita la propensione all'adozione del latino come lingua universale dei
dotti, Comenius propone con coraggio una lingua del tutto nuova, e cita a
sostegno di questa idea varie ragioni: la prima è che […] con la lingua universale si provvede a
tutti nello stesso modo, mentre con la latina provvederemmo soprattutto a noi
che già la conosciamo, non ugualmente, invece, ai popoli barbari (per i quali,
in proposito, c'è una ragione in più, perché essi costituiscono la parte
maggiore della Terra), ai quali la lingua latina, come le altre, anzi, ancor di
più, è ignota e difficile. Le
complicazioni delle lingue sono opera degli uomini, e alle confusioni della
comunicazione si deve ovviare tramite una lingua nuova: Auspichiamo, quindi, una lingua assolutamente
(1) razionale, che nella sua struttura materiale e formale non abbia nulla
(nemmeno il più piccolo apice) di non significativo, analogica, che non
contenga di fatto nessuna anomalia, armonica, che non inserisca discrepanza
alcuna tra le cose e i loro concetti, così da esprimere con la stessa parola la
natura e la differenza delle cose, divenendo così quasi un imbuto della
sapienza. Alla domanda su quale sia il
modo migliore per costruire tale lingua, Comenius indica due possibilità: o
perfezionare le lingue più note, o perfezionare le cose stesse. Questa seconda
ipotesi è quella che Comenius preferisce, perché più realistica, "anche se
talvolta, per esprimerle esattamente, sarà necessario riordinare tutto".
Comenius cita le menti illuminate che già hanno pensato a questo: è noto
l'interesse di Mersenne che scrive sia a Cartesio che a Comenius stesso
sull'argomento. Comenius non costruisce una lingua universale, ma dice quali
dovrebbero essere le sue caratteristiche; egli pensa che sia possibile
costruire una lingua dove le singole parole stiano "al posto delle loro
definizioni, perché composte secondo le esigenze delle cose stesse". Nella
lettera che gli scrive Mersenne (22 dicembre 1640) viene citato un
"carattere universale" elaborato per circa venti anni da Maire, un
gentiluomo della corte di Luigi XIII. Il "carattere universale" è un
sistema di segni che ognuno può leggere nella propria lingua, e che sono posti
in corrispondenza delle cose stesse. Si tratta quindi di una specie di alfabeto
piuttosto che di lingua, e certamente non usabile oralmente. Le Maire aveva
anche inventato una nuova forma di notazione musicale. I tempi sembrano maturi
per l'effettiva costruzione di un linguaggio universale . Un altro scienziato che si dedicava in quel
tempo al problema è Leibniz. Matematico, diplomatico, storico, egli ha
armonizzato antiche idee con progetti nuovi al fine di creare una lingua
universale. Tutti gli ideatori di lingue universali del XVIII e del XIX secolo
sono stati sotto l'influsso di Leibniz, che a sua volta aveva studiato ed
ereditato idee da Bacone, Cardano, Kircher, Raimondo Lullo e, soprattutto, da
Dalgarno e Wilkins . Leibniz, slavo di
origine e tedesco-orientale di nascita, viaggiò molto; scrisse principalmente
in francese e in latino, progettò una unione di cattolici e protestanti, studiò
e incoraggiò a studiare lingue dell'Asia allora sconosciute, ebbe
corrispondenza col re di Francia e con lo zar di Russia, e progettò di fondare
una società mondiale di missionari. Scienziato universale ed enciclopedico, fu
fondatore di una filosofia dell'armonia, secondo la quale "l'universo è
regolato da un ordine perfetto" e "l'anima e il corpo si incontrano
data l'armonia che c'è in tutte le sostanze, perché tutte sono rappresentazioni
del medesimo universo". Nella matematica fu il fondatore nell'Europa
continentale del calcolo differenziale, e ancora oggi si usano le sue
notazioni; può considerarsi un precursore dell'informatica, in quanto fu
l'ideatore del sistema binario. Da idee piuttosto diverse, come crittografia,
ideografia, geroglifici, Leibniz concepì l'ispirazione di una lingua
universale, o piuttosto di un complesso universale di segni che potesse
esprimere il pensiero umano, espresso così nebulosamente con le parole.
"Dio creò la lingua" era la credenza degli indiani antichi; "Adamo
creò la lingua" credevano i saggi dell'Europa medievale. In entrambe le
filosofie la lingua si presentava come un prodotto artificiale, in principio
perfetto e unico, e in seguito degenerato, frantumato, rotto a causa
dell'imperfezione e limitatezza umana. Già da adolescente Leibniz aveva sognato
una lingua universale: la sua Ars combinatoria fu scritta quando non aveva
ancora 19 anni, ma i suoi studi più intensi sul problema si pongono attorno al
1679 . Leibniz non scrisse un'opera specifica sulla lingua universale, ma le
sue idee sono sparse in vari suoi scritti, dei quali molti ancora inediti:
nella biblioteca di Hannover esistono ancora manoscritti non pubblicati, in
francese, in latino, in tedesco. Per quanto finora è stato pubblicato, due sono
stati i suoi progetti sull'argomento: uno è un sistema di calcolo logico sotto
il nome Characteristica universalis, che ricalca la classificazione di Wilkins
e che dovrebbe essere applicabile a tutte le idee e a tutti gli oggetti del
pensiero: Tutte le idee complesse sono
combinazioni di idee semplici, come tutti i numeri non primi sono prodotti di
numeri primi. La composizione delle idee tra loro è analoga alla
moltiplicazione aritmetica, e la decomposizione di un'idea nei suoi elementi
semplici è analoga alla decomposizione di un numero nei suoi fattori primi.
Ammesso questo, è naturale rappresentare le idee semplici con i numeri primi e
le idee composte di questi o quei numeri primi tramite il prodotto dei numeri
primi corrispondenti. Il secondo
progetto è una vera lingua internazionale pratica su base latina con una
grammatica semplice e regolare, nella quale Leibniz descrive dettagliatamente
la derivazione dei verbi dai sostantivi. In un altro manoscritto Leibniz dice
che in questa lingua universale verranno scritti poemi e inni da potersi
cantare. Altrove Leibniz sogna un "Ordo caritatis” e una ”Societas
Pacidianorum", una società di teofili che celebri le lodi di Dio e si
opponga all’ateismo . Questa società di saggi raccoglierà tutto il sapere
dell'uomo, elaborerà una lingua opportuna e organizzerà missioni tra i popoli
selvaggi per diffondere tra questi l'idea della cultura. È dunque proposta una
vera operazione culturale mondiale. E scrive ancora: Questa lingua sarà il maggiore strumento
della ragione. Oso dire che questa sarà l'ultima fatica dello spirito umano, e
quando il progetto sarà realizzato, dipenderà solo dagli uomini la loro
felicità, perché avranno uno strumento che servirà per entusiasmare la ragione
non meno di quanto il telescopio serva per rendere più acuta la vista. Sono
certo che nessuna invenzione sarà importante quanto questa, e nulla potrà
rendere del pari famoso il nome del suo ideatore. Ma ho motivi ancora più forti
per pensare ciò, perché la religione, che seguo fedelmente, mi assicura che
l'amore di Dio consiste nell'ardente desiderio di raggiungere il bene comune e
il mio intelletto mi dice che nulla contribuisce maggiormente al bene di tutti
gli uomini quanto ciò che lo perfeziona.
Leibniz pensa di usare numeri per tradurre le lettere dell'alfabeto di
qualsiasi lingua e costruisce una tavola di corrispondenze a questo scopo; egli
annota sulla sua copia della Ars signorum di Dalgarno un commento relativo a
suoi contatti con Robert Boyle ed Enrico Oldenburg riguardanti la scrittura
universale, ed annuncia una propria relazione su tali tentativi ; tuttavia di
questa relazione non si ha poi notizia.
La costruzione di un linguaggio universale si prospettava dunque
principalmente sotto due aspetti, e con due proposte di soluzione: la scelta di
una lingua basata sul latino, che pur sempre era conosciuto e studiato dalle
classi colte, ma più facile, oppure la scelta di una lingua logica, senza, o
quasi senza, connessioni con una lingua esistente; una lingua che potesse far
riferimento a figure, o a suoni, o ad altri segni ritenuti universali.
BELLAVITIS Leibniz non fu mai professore
all’Università di Padova, ma nel primo ventennio del 18° secolo ebbe una forte
influenza sulle chiamate alla cattedra padovana di matematica. Tale influenza
fu effettuata tramite lettere e colloqui e condusse alla chiamata di Jakob
Hermann e quindi di Bernoulli, entrambi ginevrini . Tra i successori di Leibniz
nell’idea di un linguaggio universale si colloca il matematico bassanese
Bellavitis. Appare un suo lungo scritto, Pensieri sopra una lingua universale e
su alcuni argomenti analoghi, nelle «Memorie dell'I. R. Istituto veneto di
scienze, lettere ed arti» . Bellavitis è, all'epoca, professore ordinario di
geometria descrittiva all'Università di Padova, cattedra assegnatagli nel 1845,
dopo due anni di insegnamento di matematica elementare e meccanica al Liceo a
Vicenza, dove era subentrato a Domenico Turazza, chiamato alla cattedra di
Geometria Descrittiva all’Università di Pavia. Figlio unico, Bellavitis non
aveva seguito corsi scolastici regolari perché la famiglia temeva che potesse
frequentare cattive compagnie; era stato istruito in casa da un maestro e
principalmente dal padre, ragioniere municipale del comune di Bassano.
Estremamente desideroso di apprendere, aveva letto fin da ragazzo moltissimi
libri, spesso presi in prestito, perché le finanze della famiglia, nobile ma
decaduta, non consentivano molti acquisti. A quindici anni già conosceva ed
usava il calcolo differenziale e integrale, aveva appreso il latino, il tedesco
e il francese, e ancora giovanissimo aveva compilato un dizionario di tedesco
organizzandolo non alfabeticamente, ma per radici fondamentali, attorno alle
quali si raggruppavano le parole derivate; scriverà poi per il figlio quattro
vocabolari di tedesco, dei quali il secondo è ordinato per consonanti, che
costituiscono gli elementi immutabili della radice, mentre le vocali possono
mutare. Successivamente si dedicherà anche ad altre lingue: inglese, spagnolo,
portoghese (di cui scriverà un dizionario nel 1878), danese, russo. Nel 1825 fu
per tre mesi a Padova, dove ascoltò alcuni corsi di matematica all'università.
Nel 1826 tentò un inizio di carriera universitaria nell'ateneo patavino, ma la
mancanza di titoli di studio gliela precluse. Quindi fu impiegato del comune
del suo paese natale, Bassano, come "alunno" senza ricevere uno
stipendio per buoni dieci anni, fin quando non fu nominato
"cancellista", carica pagata che tenne per altri dieci anni fino al
1843. Veniva a Padova spesso, con viaggi a piedi che duravano una decina di
ore. Di matematica è semplicemente un autodidatta, copia testi e impartisce
lezioni private; costruisce la sua teoria delle equipollenze dal 1832 a casa
dell'amica carissima Maria Tavelli, che sposerà appena avrà uno stipendio
stabile, e dalla quale avrà l'unico figlio, Ernesto. Pubblica articoli di
matematica, fisica e chimica e la sua fama comincia a diffondersi; nel 1832
viene nominato membro dell'Istituto Veneto; escono due suoi importanti lavori
sulle equipollenze, che preludono allo sviluppo del calcolo vettoriale ; nel
1840 l'Istituto Veneto lo nomina membro pensionario, posizione alla quale è
annesso un emolumento. Bellavitis partecipa ad un concorso per una cattedra
all'Università di Corfù, per la quale viene invece scelto il fisico Mossotti;
tre anni dopo è proposto come professore all'Università di Malta, ma rifiuta.
Data la mancanza di laurea e di diplomi, all'assegnazione della cattedra
all'Università di Padova una “sovrana risoluzione” dell'imperatore d'Austria
del 4 luglio 1846 lo promuove “dottore in matematica” senza domanda e con
dispensa dagli esami . All'Istituto Veneto dedica una non piccola parte della
sua vastissima attività: negli «Atti» escono, in quarantadue dispense, delle
rassegne commentate di giornali scientifici nazionali ed esteri dal 1859 al
1880. In tali commenti egli risolve ben 857 questioni matematiche: 228 proposte
da 94 matematici italiani e 629 di 247 scienziati stranieri. Le pubblicazioni
al termine della sua vita sono 223, e altre 24 sono ancora manoscritte. Nei
suoi scritti usa abbreviazioni varie, mostrando una grande tendenza alla
sintesi e all'organizzazione gerarchica di concetti e parole. All'idea di una lingua universale Bellavitis
aveva pensato fin da giovane. Già il 18 ottobre 1818, cioè a nemmeno quindici
anni, egli scriveva in un libriccino legato in pergamena alcuni appunti
sull’argomento sotto il titolo Principi di una lingua universale . Il libretto
raccoglie suoi pensieri fino al 1826, e nelle prime quattro pagine vi è un
compendio di grammatica. A pagina 6 sono esposti dei "principi di
grammatica universale per tutti i filosofi", principi ispirati alla
geniale nomenclatura degli elementi chimici dovuta al Lavoisier. Bellavitis è
attratto da questi principi generali, nei quali vede una grande possibilità di
semplificazione della conoscenza e della sua divulgazione. Alla teoria sono
uniti due esempi completi. Vengono trattate lettere dell'alfabeto, sillabe,
nomi, generi (viene introdotto il neutro), aggettivi, verbi; ma solo quando è
già scienziato largamente affermato Bellavitis esce con una proposta, invero
del tutto teorica. All'inizio della citata comunicazione del 1862 egli allude
con rammarico alla decadenza della lingua latina: È antico desiderio quello di una lingua
universale, che almeno servisse pei dotti: si tentò di rendere tale la lingua
latina; ma sia insufficienza di una lingua condannata a rimanere stazionaria in
tanto progresso di idee, sia uso di trasposizioni poco conformi alla schietta
esposizione di cose scientifiche, sia desiderio degli scrittori di rendere a
tutti accessibili i loro pensieri, l'uso della lingua latina, anche nelle opere
puramente scientifiche, fu quasi del tutto dismesso. I matematici s'intendono
facilmente tra loro, e ben di rado hanno opinioni differenti; per lo contrario
i filosofi difficilmente s'intendono, ed ancor più difficilmente si accordano
nei loro sistemi; forse è precipua ragione il linguaggio preciso e chiaro di
cui si servono i primi, mentre i secondi sono costretti a servirsi di una
lingua che creata dal popolo è tutta basata sugli oggetti fisici, e soltanto
mediante traslati giunge ad esprimere imperfettissimamente quelle idee
astratte, quegli enti d'immaginazione, che formano l'oggetto della filosofia.
[…] Mi pare non infondata supposizione che l'uso di una lingua filosofica
spargerebbe una luce affatto inattesa sulla filosofia e sulle scienze che hanno
con essa qualche affinità; sicché quella lingua sarebbe di grande vantaggio,
anche indipendentemente dall'universalità che essa potrebbe acquistare fra i
dotti, e quindi del legame che stabilirebbe tra tutte le nazioni. Il Bellavitis sembra non conoscere né gli
scritti di Comenio né quelli di Leibniz e questo era certamente comprensibile
all'epoca dei suoi primi appunti di ragazzo. La grande opera del Comenio - i
sette libri della De rerum humanarum emendatione consultatio catholica (spesso
abbreviata nelle citazioni in Consultatio) - non fu scoperta che nel 1935 ad
Halle da Dimitri Cicevskij, però il Bellavitis maturo avrebbe dovuto conoscere
l'articolo, di una certa ampiezza, sulla lingua universale apparso sulla
Encyclopédie di D'Alembert e anche la citata lettera di Mersenne a Cartesio
sullo stesso argomento. Invece egli menziona soltanto opere precedenti con
parole vaghe e permeate di un certo scetticismo: Parmi che alcuni lavori pubblicati al
principio del presente secolo intorno ad una lingua filosofica tendessero
piuttosto a complicare che a semplificare il meccanismo del linguaggio, il che
sarebbe, io credo, tutt'altro che opportuno. I suggerimenti che il Bellavitis
dà per la costruzione di una lingua filosofica sono divisi in paragrafi
riguardanti sezioni diverse: etimologia, grammatica, pronuncia, scrittura.
Nella sezione dedicata all'etimologia egli propone che un letterato faccia la
scelta delle idee fondamentali e vi attribuisca un termine derivato dalle
lingue più conosciute: egli vede nel sanscrito la madre "delle lingue di
popoli, a cui noi riserbiamo il nome di civilizzati; così i materiali sono tutti
pronti per la grande opera". È attento all'eufonia, prevedendo un
alternarsi di vocali e consonanti, ma con un'indeterminazione delle vocali per
poter poi utilizzarne una possibile modifica per esprimere parole derivate. La
scelta dei concetti fondamentali sarà necessariamente una scelta di concetti
materiali, ma dovranno anche considerarsi "i principali esseri od azioni
morali", dato che la lingua è concepita come una "lingua
filosofica". Attorno ad un concetto base si raccoglierebbero altre parole
derivate che hanno somiglianza di significato, e queste verrebbero create con
delle preposizioni (probabilmente si tratta di quanto attualmente si dice
"affisso"); una tale idea era già presente nei suoi primi appunti, e
ricalca, senza una esplicita citazione, le idee base di Wilkins. Una proposta
interessante è che venga costituito subito un vocabolario con la corrispondenza
delle principali lingue europee, "notando per ciascuna parola di più
significati qual è quello in cui essa s'intende presa." Bellavitis
suggerisce quindi un'uscita della lingua già come universale, mentre le altre
lingue che concretamente verranno proposte dopo qualche decennio, come il
Volapük o l'Esperanto, usciranno con dizionari, peraltro estremamente limitati,
in una lingua europea per volta. Bellavitis è ben conscio della grandiosità
dell'impresa, ma ha fiducia che anche solo una realizzazione parziale, come la
traduzione in una sola lingua e la classificazione metodica di tanti concetti,
possa essere utile indipendentemente dalla realizzazione dell'intero progetto.
Egli suggerisce anche una riduzione del vocabolario, ritenendo tante parole
ormai cadute in disuso. Una certa sua diffidenza si nota quando parla del
lessico attinente alla filosofia: ritiene infatti che con l'obbligo di definire
con precisione i concetti filosofici apparirà palese che i "pensamenti di
alcuni filosofi sieno non solamente non dimostrati, ma eziandio senza un
preciso significato." La terminologia matematica invece sarebbe facile ad
idearsi data la sua limitatezza, in quanto si tratterebbe soltanto di quelle
poche parole che accompagnano le formule.
Un interessante suggerimento è quello di derivare aggettivi da
sostantivi o viceversa, o verbi da sostantivi o viceversa, e di costruire
quindi parole riferentisi ad alcuni concetti centrali, attorno ai quali altre
parole si aggregherebbero, distinte soltanto per una vocale o per una
consonante di suono affine. Le "voci radicali", che dovrebbero essere
costruite come somiglianti a quelle delle lingue viventi, sarebbero abbastanza
poche, data l'ampia capacità di formare derivati tramite particelle prepositive
(oggi si chiamerebbero preposizioni o affissi) e di comporre parole composte
come in tedesco. L'Esperanto, il cui primo embrione è del 1878 e la cui uscita
in pubblico si ha a Varsavia, seguirà molto da vicino questi principi, per
quanto sia da escludersi che il suo iniziatore, il polacco Zamenhof, legge il
lavoro di Bellavitis . A sua volta il Volapük da Schleyer, sembra una
trasposizione concreta dei principi di Bellavitis, anche per quanto riguarda le
parole composte e la presenza dell'aspirazione in principio di parola; ma anche
in questo caso è da escludersi una conoscenza del lavoro del Bellavitis da
parte di Schleyer. Il Bellavitis propone poi un singolare vocabolario in un
ordine alfabetico che consideri soltanto le consonanti, dato che le vocali
avrebbero valore diverso a seconda della loro posizione all'interno del
vocabolo. Ogni parola che cominciasse per vocale sarebbe preceduta da
un'aspirazione. Bellavitis si ispira al tedesco, dove l'apofonia vocalica
interconsonantica indica funzioni diverse (ad esempio nel verbo, dove in voci
come sprechen, sprichst, sprach, gesprochen il cambiamento di vocale indica un
cambiamento di funzione della voce verbale). Egli dice di aver trovato molto
comodo un dizionario tedesco basato solo sulle consonanti, dove la vocale della
radice era sostituita da un punto, nonché un dizionario inverso limitato alle
desinenze. La grammatica proposta dal Bellavitis è piuttosto astrusa e non
basata su nessuna lingua esistente, e certamente di fruibilità concreta
difficile, se non impossibile. Egli propone varie possibilità opzionali che
renderebbero la lingua non rigida e sostiene che una lingua basata sui
precetti, come la sua lingua a priori, piuttosto che sugli esempi, come sono le
lingue etniche, avrebbe una maggior semplicità. È prevista una declinazione con
quattro casi, ma anche le desinenze di questi non sarebbero fisse, ma variabili
a seconda che la parola si legasse come significato al termine seguente o a
quello precedente. Sugli articoli (nei quali il Bellavitis comprende anche gli
aggettivi e pronomi dimostrativi) vi sarebbe un'ampia variabilità. Questa così
vasta libertà, che davvero sembra sconfinare nell'anarchia, appare non tener
conto della difficoltà di imparare una tale lingua: il rendere non obbligatorie
certe forme o certe desinenze, o certe congiunzioni, non semplifica la lingua,
in quanto la scelta tra tante forme non aiuta chi scrive, che si troverebbe
senza un criterio di scelta, e ancor meno chi legge, che dovrebbe tenere a
mente tutte le possibili varietà di espressione. Le opzioni che il Bellavitis
dà per le successive evoluzioni della lingua sono tutte di possibili
estensioni, che sembrano essere così vaste che ognuno sembra poter costruire la
lingua a suo piacimento. Anche per i pronomi egli prevede una lista assai più
ricca di quelli attuali: essi si diversificherebbero anche a seconda del caso
del nome a cui si riferirebbero, e a seconda del fatto che si riferiscano ad un
oggetto collocato vicino o lontano non già dal parlante, ma nella proposizione
(un po’ come nell’italiano l’uso di “questo” e “quello”). Un suggerimento
interessante riguarda i tempi dei verbi, che si potrebbero fissare una sola
volta per ogni paragrafo: quando un racconto fosse al passato, basterebbe
mettere il segno del passato all'inizio tramite un avverbio, e tutte le voci
verbali assumerebbero nel seguito un significato passato. Come esistono i pronomi, così esisterebbero i
"proverbi", termine che va inteso come "parola al posto del
verbo" per evitare una ripetizione di questo, così come il pronome evita
la ripetizione del nome. In questo il Bellavitis dice di aver preso ispirazione
dall'inglese, e infatti l'inglese a volte usa le voci del verbo to do al posto
del verbo precedentemente espresso. Interessante è la proposta dei suffissi,
per indicare il diminutivo o il peggiorativo, unitamente alla possibilità di
usarli entrambi in successione, come se in italiano si potesse dire cavallinaccio;
tale possibilità sarà codificata poi sia nel Volapük che nell'Esperanto. Si
noti tuttavia che il succedersi di più suffissi, ancorché lecito in queste due
lingue, rimane poi, nella pratica, estremamente limitato proprio perché non
comune nelle lingue etniche, che sono comunque una buona immagine del pensiero
umano, dove la sintesi che porta all'uso dei suffissi e alla loro combinazione
è temperata dalla impossibilità di tenere a mente una serie troppo lunga di
particelle. Bellavitis auspica nella lingua universale la possibilità di
indicare con suffissi all'interno della stessa parola le varie età o le varie
qualità della persona, riprendendo alcune possibilità della lingua araba. Sui
verbi matura l'idea che numeri e persone non abbiano bisogno di distinguersi
tramite una desinenza diversa, principio applicato poi nell’Esperanto, e
tuttavia egli caldeggia un ulteriore pronome personale, oltre ai sei usuali,
per indicare l'unione dell'io con il tu, e un altro per indicare l'unione del
tu con una terza persona. Un atteggiamento singolare il Bellavitis lo ha nei
confronti dei tempi verbali, che gli sembrano di poco vantaggio: nelle scienze
e in moltissime altre circostanze ciò che si asserisce fu, è, sarà sempre vero,
e la distinzione del tempo od è un imbarazzo o si adopera in significato alcun
poco differente, come quando si pone in futuro la conseguenza delle asserzioni
esposte in tempo presente. La distinzione dei tre tempi passato, presente e
futuro è quasi sempre insufficiente, occorrono degli avverbi per indicare qual
sia il tempo passato o futuro, e quanto ristretto sia il presente: ora dal
momento che si pongono tali avverbi riesce affatto inutile modificare il verbo;
così per esempio il dire: ieri lessi, oggi riposo, domani scriverò non è niente
più chiaro di: ieri io leggere, oggi (il nominativo si sottintende) riposare,
domani scrivere. Altre semplificazioni
il Bellavitis propone nei modi verbali, ricalcando un po' una lingua nella
quale il verbo è sempre all'infinito e la forma morfologica diversa verrebbe
sostituita da avverbi: se oggi tu venire, domani io partirebbe. E tuttavia ad
una semplificazione dei modi indicativo, congiuntivo e condizionale si
aggiungerebbe invece un arricchimento con i modi potenziale e dubitativo,
mentre non si darebbe luogo all'ottativo. Del pari verrebbe abolito il passivo,
dato che ogni frase passiva può essere volta all'attivo, e, se si vuole dare
risalto a chi riceve l'azione ponendolo al primo posto nella frase, esso viene
contrassegnato dall'accusativo che indica l'oggetto. La costruzione diventa
così più libera e si presta ad una maggiore espressività rispetto alle lingue
che non hanno declinazioni e che quindi sono costrette nella massima parte dei
casi ad utilizzare la struttura soggetto-verbo-oggetto. Una sistematica critica Bellavitis la rivolge
ai grammatici, che vogliono studiare una lingua secondo i principi di un'altra,
e quindi nell'italiano riconoscono forme e differenze che invece in italiano
non esistono e sono proprie del latino. Sulla poesia il Bellavitis esprime
posizioni contraddittorie. Da una parte egli sente che nessuna lingua può
esistere senza poesia, e che la ricchezza di immagini si potrà trovare anche
nella lingua filosofica; dall'altra egli dichiara: Debbo però confessare che non so scorgere
qual sia la vera cagione del diletto che recano nella poesia il metro e la
rima: quelle artificiose canzoni, in cui si succedono a lungo periodo le stesse
misure di versi e lo stesso concatenarsi di rime; quei sonetti architettati in
alcune speciali maniere; quelle terzine che si seguono in modo sempre uniforme
e terminano con un primo verso;… sono desse belle soltanto perché
difficili? La critica che egli
successivamente muove alla rima, che ritiene stucchevole, menziona il fatto che
la rima non è sempre stata una componente essenziale nella poesia, dato che la
letteratura latina non la conosceva neppure e che lo spagnolo preferisce le
assonanze. Nella pronuncia Bellavitis segnala la necessità di una grande attenzione,
ma non cura l'importanza delle vocali, essendo state quelle le prime a
trasformarsi con il passare dei secoli nella lingua greca stessa, che pure è
rimasta fino ai giorni nostri abbastanza uguale come grafia a quella classica.
Sulla scrittura egli propone come unica soluzione plausibile una scrittura
fonetica, cosa che sia l'Esperanto che il Volapük applicheranno come ovvia
base; le vocali sarebbero sette, cioè quelle italiane compresa la "o"
aperta e la "e" aperta. Ma egli rifiuta i vari caratteri corsivo,
tondo, o il tutto maiuscolo, nonché l'uso delle maiuscole per l'iniziale dei
nomi propri, ritenendo che questi si possano rendere riconoscibili in altro
modo. D'altra parte caldeggia un sistema che consenta di leggere con senso a
prima vista, con dei segni particolari al principio del periodo, come il punto
interrogativo rovesciato dello spagnolo, o dei segni che consentano di indicare
il modo di recitazione, dove alzare e dove abbassare la voce, e pensa che anche
le lingue etniche potrebbero introdurre questi segni, una volta che fossero stati
studiati e decisi nella lingua universale. La parte didascalica di un colloquio
orale è magnificata rispetto alla lettura di un testo scritto, perché appunto
il tono della voce può far risaltare la parte fondamentale del discorso
rispetto ad altri elementi inessenziali. La scrittura potrebbe anche
effettuarsi tramite un sistema di segni corrispondenti a numeri e parole, così
come avviene nell'alfabeto Morse. I segni fondamentali sarebbero tre: il punto,
la lineetta e la linea (più lunga). Ogni lettera verrebbe espressa da tre di
questi segni, che darebbero 27 combinazioni, e le cifre da 1 a 9 verrebbero
indicate con due di questi segni. Si potrebbe inoltre costruire un
dizionarietto di frasi già fatte e numerate, per cui sei segnali consecutivi
potrebbero indicare il numero d'ordine di ciascuna di queste frasi, e si
potrebbero riunire sotto lo stesso numero anche frasi diverse che avessero
significato simile. Bellavitis propone quindi, pur senza menzionarlo
esplicitamente, un frasario utilizzabile durante i viaggi, con frasi di prima
necessità. A questi tre segni fondamentali si potrebbero sostituire tre gesti,
la mano chiusa a pugno oppure stesa orizzontalmente o verticalmente: si
potrebbe così comunicare, oltre che con le lettere, con le mani, e anche le
mani potrebbero essere usate per indicare i numeri corrispondenti alle frasi
del dizionarietto. Una significativa attenzione il Bellavitis la dedica alla
possibilità di evoluzione della lingua filosofica proposta. In più punti egli
indica come il lessico non debba restare ingessato, ma debba consentire un
adeguamento che segua l'evolversi della scienza. Per la numerazione egli
suggerisce di fissare un termine ogni due potenze di dieci, per cui dopo il
cento come 102 verrebbe il miria come 104 e il milione come 106, e la potenza
corrispondente al mille diventerebbe dieci centi. La giustificazione di questo
modo di contare egli la vede nel fatto che spesso nella lingua parlata i numeri
molto lunghi vengono letti a coppie di cifre: 30472308,02157 verrebbe letto
trenta milioni quarantasette miria ventitré centi otto e due centesimi quindici
miriesimi e sette decimi di miriesimo. Già CARDANO (vedasi), nel suo trattato
De numeris, aveva proposto una nuova scansione della numerazione utilizzando le
miriadi; singolarmente il Bellavitis propone "centi" come forma
plurale di "cento", e rifiuta il "mille" che non si adatta
alla scansione ogni due potenze di 10. La nota termina con la proposta di un
alfabeto per le segnalazioni in mare, di fatto una semplificazione del
semaforico, come pure di un alfabeto per ciechi, anch'esso basato su triadi di
segni. Alla lingua universale il Bellavitis applica anche una stenografia.
Giunti al termine della lunga nota del Bellavitis ci si chiede se una lingua
così a priori, alla quale peraltro manca ancora tutto il lavoro riguardante il
lessico, possa essere appresa facilmente. La risposta è fatalmente negativa.
Altri progetti di lingue a priori proposti nello stesso periodo, come il
solrésol del Sudre, non uscirono mai dalla fase di proposta. Il solrésol era un
progetto di lingua universale basata sui "sette segni" della musica,
cioè sulle sette sillabe che costituiscono i nomi delle note. Maturato da una
prima idea del 1817, tale progetto fu presentato all'Accademia francese delle
Scienze nel 1827; un testo completo vide però la luce soltanto nel 1866, dopo
la morte dell'ideatore. I segni musicali, veramente universali, almeno nella
musica del mondo occidentale dell'epoca, offrono varie possibilità di
espressione: la lettura vocale dei segni stessi, la loro cantabilità, la
scrittura su un pentagramma, la trascrizione in cifre arabe, la presentazione
tattile toccandosi con l'indice della mano destra le falangi della sinistra. Il
contrario di un'idea si indicava invertendo i segni: mi-sol = il bene, sol-mi =
il male; do-mi-sol = Dio, sol-mi-do = Satana. I gradi di un aggettivo erano
indicati con un aumento del sonoro, il femminile con la ripetizione (e quindi,
foneticamente, con l'allungamento) della vocale finale. Il progetto incontrò anche
consensi tra persone importanti, come Napoleone III, Victor Hugo, Humboldt,
Lamartine. Probabilmente il Bellavitis aveva avuto notizia del solrésol, in
particolare poteva aver apprezzato l'idea di una utilizzabilità e di una
possibilità di forme di espressione così ampie, per quanto, come abbiamo visto,
egli fosse piuttosto critico nei confronti di progetti precedenti. Ma la logica
non è l'unica caratteristica della nostra mente, e un linguaggio puramente
logico che non avesse agganci a lingue esistenti non ha mai avuto un benché
minimo numero di parlanti. Il Bellavitis non propone nulla di concreto, non la
scelta di una radice, non un esempio di applicazione. I suoi discorsi si
mantengono teorici e non trattano minimamente della fatica necessaria per imparare
una serie di corrispondenze tra le parole delle lingue etniche, a cui l'uomo è
già abituato, e le parole, o le successioni di segni, della nuova lingua ancora
del tutto sconosciute. La conclusione è un lungo elenco di cose che i
costruttori di tale lingua filosofica dovrebbero fare, senza nessun
suggerimento pratico. Il Vailati vede in
queste semplificazioni proposte dal Bellavitis un concetto di linguaggio
"suscettibile di venir compreso indipendentemente dalla conoscenza di
qualsiasi regola grammaticale" . In realtà è arduo aderire a questo
giudizio: la mancanza di regole grammaticali fornisce una lingua estremamente
povera dal punto di vista espressivo, il che fa dubitare della sua possibilità
di funzionamento. La totale mancanza di scelte lessicali, che costituiscono pur
sempre la parte più impegnativa di un qualsivoglia apprendimento di una lingua,
rende non verificabile qualsiasi possibilità di applicazione pratica. Il
Bellavitis spesso esprime i suoi concetti con una certa foga. Le recensioni che
egli fa dei lavori che sistematicamente appaiono nelle riviste sono talvolta
laudative, talvolta fortemente critiche; è abituato a dire il suo pensiero
senza remore. Critica i cultori di geometrie non euclidee, considerandole
"false". Uomo anche politico, Senatore del Regno dall'anno in cui il
Veneto fu annesso al Regno d'Italia, nelle Utopie egli disquisisce di politica e di rapporti
sociali: propone una anagrafe elettorale con una tessera (cosa che in Italia ha
trovato realizzazione solo da pochissimi anni), e dice, a proposito di elezioni
indirette: "Io credo che le donne che sanno scrivere possano scegliere gli
elettori più opportuni tanto bene quanto gli uomini" (in Italia il voto
alle donne si è avuto ottant'anni dopo quello scritto). In tema di successione
ereditaria propone considerazioni su figli legittimi e naturali che hanno
trovato applicazione soltanto nel diritto di famiglia di oltre cento anni dopo.
Nelle Reminiscenze della mia vita
ricorda le conquiste tecnologiche e sociali di cui è stato spettatore:
la litografia, la distribuzione dell'elettricità, la decomposizione dello
spettro luminoso, il magnetismo, la posta, il telegrafo; e non manca il
patriottismo nel pieno senso risorgimentale nelle parole con le quali conclude
le Reminiscenze: "Quando vidi entrare in Padova Vittorio Emanuele II
liberatore, e quando in Roma udii proclamare dall'augusto labbro che l'unità
Nazionale è compiuta potei dire: ho vissuto abbastanza." Bellavitis si colloca quindi in una posizione
con lo sguardo rivolto al futuro, ma con una corretta percezione del passato e
dell'evoluzione della tecnica. Riguardo alla lingua universale aveva colto nel
segno al tempo giusto: il problema da lui indicato stava esplodendo, e in varie
altre parti del mondo si proponevano soluzioni. Nei primissimi anni del
Novecento si andò costituendo un forte movimento di accademici, filosofi e
matematici favorevole all'adozione di una lingua internazionale per la
scienza. 3. GLI SVILUPPI SUCCESSIVI E
LA PARTECIPAZIONE DEI PADOVANI La
recente uscita del carteggio tra i due logici Giuseppe Peano e Louis
Couturat offre un interessante spaccato
sul problema della lingua internazionale come fu visto non solo dai due
protagonisti, ma dalla comunità scientifica del primo Novecento. Purtroppo nel
carteggio, che è di 101 lettere, abbiamo quasi soltanto le lettere di Couturat
a Peano, ben novantasette, conservate nell'Archivio Giuseppe Peano di Cuneo;
delle risposte sono conservate invece soltanto quattro minute del matematico
torinese, ma non gli originali, di sicuro molto più numerosi, che, giunti a
Couturat, sono poi andati perduti. Il volume termina con un'interessantissima
Appendice che contiene altri 15 pezzi: lettere scambiate da Peano e Couturat
con altri matematici e il necrologio di Couturat scritto da Peano. L'apparato
critico, consistente di un'ampia introduzione, di una completa bibliografia di
entrambi gli autori e di un vastissimo corpus di note colloca il volume tra le
migliori pubblicazioni sull'argomento. Il carteggio fornisce tutta una serie di
elementi finora poco noti sul pensiero e soprattutto sulle attività
organizzative dei due scienziati. L'epistolario edito inizia già a scena
aperta, in quanto la prima lettera registrata è del 30 ottobre 1896, e in essa
Couturat ringrazia Peano dell'invio del suo Formulaire, che Couturat apprezza
come raccolta sommaria di proposizioni e come repertorio bibliografico,
riservandosi ancora un commento sull'utilità della logica matematica e del
linguaggio simbolico di Peano. A Padova
era nata la geometria a più dimensioni di Veronese, con il quale Peano ha una
feroce polemica. Infatti il Veronese nei suoi Fondamenti di Geometria lamenta che Peano, nella «Rivista di
Matematica» di cui è direttore, critichi gli iperspazi intesi nel senso di
Veronese. La risposta di quest'ultimo è contenuta in una nota a p. 613
dell'opera citata: Il sig. Peano ha
torto nella forma e nella sostanza, ma per quanto non sia difficile rispondere
alle sue affermazioni, siccome egli accusa di mancanza di buon senso quei
geometri che non possono pensare come lui […] è resa così impossibile ogni
amichevole e dignitosa discussione. Io sono convinto che le questioni sui
principi della matematica e specialmente della geometria siano già di per sé
abbastanza difficili senza che vi sia bisogno di aggiungervi nuove difficoltà
di altra natura con polemiche appassionate e intolleranti, come sono altresì
convinto che certe critiche pel modo con cui son fatte portano chiaramente in
sé la loro condanna. Il Peano
continuerà la polemica nella sua recensione dei Fondamenti di Geometria del
Veronese, che appare nella «Rivista di Matematica». La stroncatura è netta e
addirittura Peano scende dalla confutazione scientifica all'ironia. Vengono
menzionate "sgrammaticature, abituali all'autore", e viene fortemente
evidenziata la poca chiarezza logica: successioni di insiemi che diventano
sempre più grossi, tautologie evidenti presentate come postulati. Peano si
lascia andare a frasi come: "Le conseguenze di questo principio assurdo
sono evidenti", e conclude: "E si potrebbe lungamente continuare
l'enumerazione degli assurdi che l'A. ha accatastato. Ma, questi errori, la
mancanza di precisione e rigore in tutto il libro tolgono ad esso ogni
valore." In realtà i concetti del
Veronese, in particolare quelli sugli infiniti e infinitesimi, avevano ricevuto
critiche da più parti, e Veronese scriverà a difesa parecchi articoli,
confutando le critiche, ma non quelle di Peano, con cui non ebbe più rapporti.
Tuttavia nel carteggio tra Peano e Couturat, che riguarda un periodo
posteriore, compare il nome di Veronese. Vediamo in quale contesto. Nel 1900
Léopold Leau, un matematico francese, compagno di studi di Couturat all'École
Normale Supérieure, pubblica un opuscolo sulla necessità di una lingua
internazionale a scopi puramente pratici, invitando gli uomini di scienza e di
cultura ad aderire all'idea . Egli lancia anche la costituzione di un comitato
che sensibilizzi al problema l'opinione pubblica; Couturat dal canto suo pone
la questione al primo Congresso di Filosofia che si tiene a Parigi nella prima
settimana di agosto del 1900. A questo congresso partecipano vari matematici
italiani, in particolare i logici collaboratori di Peano: tra questi Alessandro
Padoa, un veneziano che aveva studiato ingegneria a Padova e che venne poi
attratto da argomenti più teorici, laureandosi infine in matematica a Torino.
Padoa è un logico matematico: tiene molte conferenze in varie università, tra
cui Padova, partecipa con relazioni a congressi, ma non ha un cattedra universitaria.
Insegna nella scuola media, dapprima a Pinerolo, poi a Roma e a Cagliari, e
infine in un Istituto Tecnico di Genova. Nel 1934 vincerà il premio
dell'Accademia dei Lincei. È conosciuto tra i matematici e tra i filosofi: al
congresso di Filosofia di Parigi tiene una conferenza sulla teoria algebrica
dei numeri, preceduta da un'introduzione logica a una qualsiasi teoria
deduttiva. Il congresso di Filosofia
approva l'idea di Couturat e all'unanimità lo nomina suo delegato al Comitato
lanciato da Leau e in fase di costituzione. Il secondo congresso dei Matematici
si tiene a Parigi immediatamente dopo quello di filosofia, e vi è quindi una
parziale continuità di presenze. Ancora ci sono i collaboratori di Peano, e
ancora figura Alessandro Padoa. Al congresso dei Matematici viene di nuovo
proposta la questione della lingua internazionale, ma, a differenza di quanto
era successo tra i filosofi, si fronteggiano due linee di azione: quella
caldeggiata da Leau, che insiste per la formazione concreta del Comitato al
quale partecipino i matematici con cinque delegati, e invece una mozione
proposta da Vasilev, che demanda alle accademie il compito di esaminare il
problema del proliferare delle lingue ed eventualmente di restringere soltanto
ad alcune lingue la produzione scientifica. Padoa si dichiara esplicitamente a
favore della mozione di Leau, ma la maggioranza si colloca sulle posizioni di
Vasilev. I matematici quindi respingono l'idea di una lingua unica e in
particolare una lingua artificiale, mentre Couturat e Leau sono fautori di una
lingua unica, che non può essere altro che pianificata, ritenendo che nessuna
lingua nazionale abbia la possibilità di essere imposta a scapito di altre:
quale scienziato si sottoporrebbe a una simile diminutio? Peano dal canto suo
sta elaborando una lingua internazionale artificiale basata sul latino, che
verrà presentata nel 1903 nella «Revue de Mathématiques» sotto il nome di
latino sine flexione. In realtà i matematici scelgono di non scegliere: il
demandare la decisione ad un altro organismo è una tattica chiaramente
dilatoria. L'Associazione Internazionale delle Accademie, che raccoglieva
diciotto accademie tra cui quella italiana dei Lincei, si era creata nel 1900 e
tenne la prima assemblea generale il 9 aprile 1901. Couturat e Leau ritengono
la strada indicata dai matematici non percorribile e nel frattempo iniziano ad
agire, raccogliendo, da diverse associazioni e congressi, un gruppo di
delegati. Questi escono in pubblico con una dichiarazione sugli scopi e i
metodi del loro lavoro: una lingua internazionale unica è necessaria; essa
dovrà essere di facile apprendimento anche per persone di cultura elementare,
non dovrà essere nessuna lingua nazionale, e dovrà essere usata in tutti i
campi, dal commercio ai rapporti culturali. Nasce così La Délégation pour
l'Adoption d'une Langue Auxiliaire Internationale, di cui Couturat è il
tesoriere e Leau il segretario generale. La Delegazione dovrà pertanto
scegliere la lingua artificiale più adatta e quindi sottoporla alle Accademie
europee per un riconoscimento. Qualora l'Associazione delle Accademie dovesse
ricusare tale compito, la DALAI avrebbe dovuto a sua volta costituire un
apposito Comitato elettivo composto di personalità internazionali che
perseguisse tale fine. Nell'aprile 1901
si riunì dunque per la prima volta l'assemblea dell'Associazione delle
Accademie, e qui Hippolyte Sebert
presentò una petizione per inserire la questione della lingua
internazionale nella successiva assemblea dell'Associazione, che sarebbe stata
nel 1904. I tempi iniziarono quindi ad allungarsi, anche perché l'elaborazione
e l'approvazione dello statuto della DALAI non fu semplice: esso comunque
prevedeva che la Delegazione si prodigasse affinché le singole accademie
proponessero ai propri governi il riconoscimento della lingua e il suo
insegnamento nelle scuole. Il tempo per queste azioni era definito in tre anni,
in previsione del secondo congresso di filosofia. Il tempo tuttavia non è
sufficiente perché si concludano i lavori e pertanto l'azione della DALAI si
sgancia dal collegamento con il congresso di filosofia. Couturat nel frattempo
pubblica un ponderoso saggio sulla logica di Leibniz, in cui riconosce una
sostanziale unitarietà tra i progetti di Leibniz sulla lingua universale e la
scienza universale. L'opera suscita l'approvazione incondizionata di Russell e,
con qualche riserva, della scuola di PEANO (vedasi). La scuola francese invece
espone alcune critiche di fondo. Ancora, nella sua intensa opera di studioso,
Couturat, insieme a Leau, pubblica nel 1903 la già citata Histoire, che diventa
l'opera fondamentale dell'epoca sulla questione. Tuttavia non conosce la nota
del Bellavitis, e ne apprende l'esistenza soltanto da Peano: a lui domanda se
si tratta dell'ideatore della teoria delle equipollenze . Couturat ha
conosciuto e provato vari progetti di lingue universali, come il Volapük,
creato dall'abate tedesco Schleyer, ma ne è rimasto deluso per l'estrema
complicazione nella formazione delle parole, la cui riconoscibilità era
fortemente ridotta. Couturat diventa quindi un appassionato fautore
dell'Esperanto, che egli per il momento considera la migliore delle lingue artificiali,
soprattutto per il numero già non piccolo di parlanti, che costituisce
un'ottima dimostrazione della sua capacità di adempiere al compito di una
lingua internazionale. Non vuole tuttavia che i giochi sembrino già fatti, e la
Délégation si ripromette di prendere in considerazione anche altri progetti. I
progetti di lingua internazionale hanno sempre oscillato tra il tentativo di
una massima regolarità di formazione delle parole derivate da una radice, come
proposto anche da Bellavitis, e il polo opposto, cioè la comprensibilità quasi
immediata da parte degli europei colti: per ottenere questo secondo scopo una
lingua internazionale avrebbe dovuto presentare parole formate con quelle
irregolarità di derivazione che si trovano nelle lingue nazionali. Come emerge
dal carteggio tra Peano e Couturat, il matematico torinese, pur fortemente
interessato alla soluzione del problema tramite una lingua artificiale, non si
fa coinvolgere dagli entusiasmi del filosofo francese: ritiene che
l'apprendimento di una lingua a livello tale da poter essere parlata da tutti
sia impresa ardua, e cita il fatto che anche dell'italiano stesso larghi strati
della popolazione non sono sicuri padroni, nonostante che la lingua standard
sia insegnata in tutte le scuole del Regno. Peano conosce l'Esperanto e
Couturat lo incoraggia a partecipare ai congressi: lui stesso vi ha partecipato
ed è rimasto sorpreso di come la lingua funzioni bene e metta in comunicazione
senza nessuna difficoltà persone di provenienze e lingue molto diverse. Sulla
stessa lunghezza d'onda è il matematico Charles Méray, dell'università di
Digione. Tra Méray e Peano erano intercorse due lettere nel luglio del 1900: il
giorno 14 Méray scrive una lunga lettera che magnifica le qualità e la
semplicità dell'Esperanto, e Peano gli risponde il giorno 27 con un tono
piuttosto scettico e facendo una critica puntuale all'Esperanto, pur riconoscendo
che questo est plus scientifique que toutes les autres langues artificielles.
Il nome di Peano figura tra i partecipanti al secondo congresso mondiale di
Esperanto nel 1906 a Ginevra, ma non vi sono altre notizie sulla sua
partecipazione. La DALAI spinge perché
il problema dell'adozione di una lingua internazionale venga posto all'ordine
del giorno della terza assemblea generale dell'Associazione delle Accademie, da
tenersi a Vienna nel maggio 1907, e cerca di acquisire consensi di accademie e
associazioni scientifiche; pertanto Couturat chiede l'intervento di Peano per
ottenere appoggi di scienziati italiani ad una petizione in tal senso. In
particolare egli segnala come desiderabile il consenso della Association
Géodésique Internationale e ne elenca i membri italiani: tra questi vi è
Lorenzoni, astronomo e ingegnere, direttore dell'Osservatorio di Padova.
Giuseppe Lorenzoni era entrato come assistente all'osservatorio astronomico nel
1863 ancora prima di laurearsi (si laureò in ingegneria nel 1864) e dieci anni
dopo era professore. Nominato direttore dell'Osservatorio, contribuì a fare di
Padova un centro di insegnamento dell'astronomia; si occupò di gravimetria, di
spettroscopia, di stelle cadenti, di ottica. Autore di oltre un centinaio di
pubblicazioni di astronomia e geodesia, fu membro dell'Accademia dei Lincei e
dell'Istituto Veneto. Il suo appoggio era quindi da considerarsi di estremo
prestigio. L'attività frenetica del Couturat raggiunge qualche risultato
concreto: l'Accademia di Vienna proporrà una mozione a favore della lingua
internazionale e l'Accademia di Copenaghen voterà a favore. Per tale mozione
vengono raccolte firme di associazioni e di singoli, e il conteggio finale dà
307 associazioni e 1251 scienziati, tra i quali vari italiani. Nel dicembre
1906 Couturat e Leau inviano una circolare per definire l'azione
dell'Associazione in vista dell'assemblea e la circolare riporta una decisone
della DALAI che esclude dalla DALAI stessa gli inventori in prima persona di
lingue artificiali. Couturat non si illude che le accademie si incaricheranno
di risolvere la questione e comincia un'azione per costituire il Comitato
elettivo di personalità scientifiche previsto dallo statuto della DALAI;
infatti il 29 maggio 1907 l'Associazione delle Accademie respinge la mozione.
Couturat ritiene quindi che non siano più differibili i tempi per la
costituzione del Comitato, nel quale devono essere rappresentati tutti i paesi
culturalmente avanzati, ciascuno con un singolo membro, e si adopera per
invitare scienziati autorevoli ad entrare nel Comitato. La sua ricerca parte da
quelli che avevano già firmato la mozione che chiedeva che l'Associazione delle
Accademie si occupasse del problema della lingua internazionale. Peano è
escluso a priori dalla DALAI e quindi dal Comitato, perché Peano è l'ideatore
del latino sine flexione, ma in una lettera del 30 marzo 1907, scritta da
Parigi, Couturat chiede a Peano di adoperarsi perché un italiano di prestigio
entri a far parte del Comitato. Peano è membro dell'Accademia dei Lincei, e può
parlare con altri membri. Couturat elenca alcuni nomi che gli appaiono adatti,
tra i quali anche Giuseppe Veronese, professore di grande fama, deputato,
senatore del Regno d'Italia dal 1904 per meriti scientifici, schierato tra i radicali.
Veronese era succeduto a Bellavitis sulla cattedra padovana di geometria
descrittiva. Siamo ormai nel 1907, le polemiche tra Peano e Veronese sono di un
quindicennio prima, ma forse non del tutto sopite . Non ci sono testimonianze
del coinvolgimento di Veronese nel costituendo Comitato, ma si può
ragionevolmente supporre che Peano non gli abbia fatto nessuna proposta. Un
rappresentante italiano che aderisse al Comitato non fu trovato: per acquisirne
uno fu violato lo statuto, in quanto fu cooptato proprio il Peano, ancorché
autore di un suo progetto di lingua internazionale. L'azione del Comitato fu
certamente seria e minuziosa, ma la probabilità che ne conseguisse la scelta di
una lingua con reale possibilità di essere accettata da accademie e governi
andò rapidamente scemando. Nel frattempo
i sostenitori dell'Esperanto erano cresciuti di numero e nel 1905 avevano avuto
il loro primo congresso internazionale a Boulogne-sur-Mer, dove avevano
dichiarato immutabile la struttura della lingua, codificata nell'opera
Fundamento, consistente nella Grammatica, in un Eserciziario e nel Vocabolario
in cinque lingue. L'Esperanto dunque veniva sottratto alla tentazione di
continue modifiche e miglioramenti: i suoi utenti ritenevano che la lingua
andasse abbastanza bene così, e che qualsiasi tentativo di miglioramento
avrebbe soltanto portato ad una destabilizzazione. Gli esperantisti avevano già
rifiutato delle proposte di miglioramento nel 1894, e ormai, a venti anni
dall'uscita della prima grammatica della lingua, erano diventati fortemente
conservatori. Il Comitato scelse formalmente l'Esperanto, ma con una notevole
quantità di proposte di cambiamento nell'alfabeto, nella fonetica, nella
morfologia, nelle preposizioni: alcuni si illusero che questi miglioramenti
sarebbero stati gli ultimi e definitivi, e quindi aderirono a questa nuova
forma dell'Esperanto, che prese il nome di Ido (che in Esperanto significa
"discendente"); ma la gran parte degli adepti restò fedele
all'Esperanto già consolidato. La nuova lingua fu oggetto di successive
modifiche e alcuni membri del Comitato produssero a loro volta altri progetti,
nella supposizione che la mancata diffusione di una lingua internazionale
dipendesse dalle qualità della lingua in sé, piuttosto che da motivi di sociopolitica,
come le vicende successive dimostreranno ampiamente. Couturat aderì pienamente
all'Ido, convinto che la scelta del Comitato fosse la migliore, e ne fu un
propagandista entusiasta come prima lo era stato dell'Esperanto; Peano, che
pure aveva partecipato ai lavori del Comitato, ma non all'ultima votazione
perché era impegnato in esami a Torino, non rispettò le conclusioni del
Comitato e continuò a usare e propagandare il latino sine flexione. Ciò causò
un rapido raffreddamento dei rapporti con Couturat, che lo accusava di
tradimento; seguì tosto un'interruzione definitiva: l'ultima lettera di
Couturat. Il filosofo francese morirà in un incidente stradale: la sua
automobile verrà investita da un camion militare che porta alle truppe francesi
la notizia che la Germania aveva dichiarato guerra alla Francia. È il secondo
giorno del primo conflitto mondiale. PEANO ne scriverà un commosso necrologio
in latino sine flexione, pur ricordando anche i dissensi . La lingua
caldeggiata da Peano assume nel 1909 il nome di Interlingua ; il matematico
torinese fonda anche una Academia pro Interlingua, che rileva una precedente
accademia volapükista, la Kadem Volapüka . Negli anni Peano scrive vari
vocabolari di Interlingua e altre lingue; i suoi adepti si raccolgono intorno
alla rivista «Schola et Vita», una rivista fondata e diretta a Milano da Nicola
Mastropaolo; vi scrive anche, in Interlingua, un illustre docente dell'ateneo
patavino, Tullio Levi-Civita . Peano viene contattato per redigere alcune voci
dell'Enciclopedia Italiana, ed egli accetta di scrivere voci sulla logica
matematica e sulla lingua internazionale; la voce “Esperanto” sarà invece
scritte da Stefano La Colla sotto la direzione di Bruno Migliorini, entrambi
partecipi per molti anni del movimento esperantista. Peano muore nel 1932 e la
rivista cessa le pubblicazioni nel 1936.
Sia l’Ido che l’Interlingua avranno i loro adepti e le loro
pubblicazioni ; tuttavia l’idea, originariamente unitaria, di una lingua
pianificata si divide in rivoli che appoggiano l’una o l’altra delle varie
soluzioni, spesso con polemiche molto accese. Il movimento esperantista, più
forte per numero e per tradizione consolidata, subisce la scissione degli
idisti, scissione sensibile più a livello di dirigenti che a livello di singoli
fruitori; tuttavia l’Esperanto resta, ancora e certamente più oggi, la lingua
pianificata con il maggior numero di adepti e di realizzazioni in tutti i campi
. Ciò è dovuto anche allo spirito diverso con cui certe soluzioni al problema
linguistico erano nate: il latino sine flexione, poi Interlingua, era iniziato
come mezzo per gli scambi scientifici e per persone colte del mondo
occidentale, e tale sempre rimase. L'Esperanto invece era stato pensato per una
dimensione assai più vasta, si era già diffuso in ambienti di lavoratori, ed
erano in piena vita parecchie associazioni di vario genere, da quelle
cattoliche a quelle socialiste. All’Esperanto fu rimproverato dagli idisti e
dagli adepti dell’Interlingua di avere gravi pecche dal punto di vista linguistico
e di essere stato prodotto da un singolo dilettante, e a questi fatti veniva
imputata la sua scarsa diffusione; ma l’Ido incorse nel difetto opposto. Esso
nacque dal lavoro di un comitato di linguisti, che, andando alla ricerca della
perfezione teorica, persero di vista un fatto fondamentale: l’affermarsi di una
lingua ha bisogno di tempi lunghi, e per tali tempi è necessaria la stabilità.
Stabilità che non significa immobilismo o fossilizzazione, bensì possibilità di
evoluzione alla stessa stregua e con gli stessi tempi con i quali si evolvono
le lingue etniche. A Padova fu un convinto assertore della necessità di una
lingua internazionale il cristallografo Ruggero Panebianco, professore di
mineralogia all'Università. La sua attività presso il nostro Ateneo durò oltre
quarant'anni e segnò alcuni momenti importanti: nel 1883 si ebbe con lui la
costituzione del Museo di Mineralogia come entità a sé stante, con la divisione
amministrativa dei Gabinetti di Mineralogia e Geologia. Il Museo di Mineralogia
andò poi rapidamente ingrandendosi dall'originaria collezione del Vallisneri
che ne aveva costituito la base, acquisendo doni e lasciti di importanti
collezionisti e studiosi del tempo. Nel 1923 Panebianco ne lascerà la direzione
ad Angelo Bianchi. Ruggero Panebianco usa l'Esperanto in pratica e partecipa
anche attivamente al movimento per la sua diffusione. Lo troviamo attivo
dirigente nel Circolo Esperantista di Padova. Sulla «Rivista di Mineralogia e
Cristallografia Italiana», che egli fondò e diresse troviamo alcuni articoli
scientifici in Esperanto, ripubblicati poi come opuscoli a sé stanti dalla
Società Cooperativa Tipografica di Padova. Il primo di questi è un opuscolo di
50 pagine e tratta di un problema al quale Panebianco dedicherà sempre grande
attenzione: la validità dell’approssimazione numerica dei risultati quando si
opera su dati aventi approssimazioni diverse. Il libretto, edito dapprima in
Germania, ha un’interessante introduzione che termina con queste parole: L’apparenza copre la scienza con un mistero,
e il mistero scientifico è, come il mistero comune, una superstizione; ma la
superstizione scientifica è forse peggiore della superstizione comune. Un altro
lavoro è anch’esso piuttosto corposo e tratta di leggi della cristallografia
verificate con i raggi X ; ad esso seguono alcune pagine sul problema che darà
luogo ad una lunga polemica: se certi indici dei cristalli siano oppure no
numeri razionali. Il Panebianco sostiene giustamente che tutti i numeri con cui
si tratta praticamente sono razionali, anzi, decimali finiti, e sostiene che la
legge fondamentale della cristallografia debba a ragione denominarsi
"legge di Haüy", e non, come altri dicono, "legge degli indici
razionali", come se altri indici non fossero razionali. Interessante per
quanto riguarda la lingua è la prefazione a questo lavoro (scritta in
Esperanto, inglese, francese, tedesco e italiano): in essa Panebianco cita
Leone Tolstoj e il suo giudizio sull'Esperanto, sulla sua facilità e
sull'opportunità di fare, almeno, lo sforzo di provare ad impararlo. Quindi
menziona le basi essenziali dell'Esperanto, citando come particolare vantaggio
l'esistenza dell'accusativo, in quanto consente libertà nella costruzione della
frase; in nota, egli critica l'abolizione dell'accusativo, operata da altri
linguisti che hanno voluto riformare l'Esperanto, e cita specificamente l'Ido,
che, come abbiamo visto, era il risultato di una modifica dell'Esperanto
effettuata dalla DALAI. La parte scientifica di questo lavoro è molto
interessante perché Panebianco diventa anche un creatore in Esperanto della
terminologia specialistica della cristallografia. Sulla precisione della
determinazione di certi indici Panebianco obbietterà ancora una volta che non
ha senso spingere il calcolo fino ad una certa cifra decimale quando i dati
sono approssimati con un ordine di precisione minore, e ripeterà questa sua
tesi in un lavoro, sempre in Esperanto, dell'anno successivo . Altri lavori
sono rifacimenti di lavori in italiano. Panebianco fu un militante socialista fin
dai suoi anni giovanili. Del 1893 è la sua traduzione dall’inglese in italiano
di un capitolo di un'opera di William Morris, Un paese che non esiste; il
capitolo appare sotto il titolo La futura rivoluzione sociale, ed è edito a
Milano dall'Ufficio della Lotta di Classe, Tipografia degli operai . Si tratta
della descrizione di un paese senza capi e senza leggi. Nella prefazione il
traduttore critica gli anarchici, dicendo che la loro rivoluzione è quella
stessa dei borghesi, e termina con queste parole: Soltanto le generazioni dello Stato
socialista - Stato che, occupandosi solamente della produzione e dello scambio
dei beni, è la negazione di quello attuale - potranno forse realizzare quella
negazione assoluta di organizzazioni, anche socialiste, che per ora è un sogno,
un bellissimo sogno: quello descritto dal Morris. E come socialista Panebianco interviene in
maniera molto discreta in una polemica sulla lingua internazionale apparsa
sull'«Avanti!» agli inizi del 1918. L'edizione del 24 gennaio riporta una
lettera di Vezio Cassinelli che si inserisce in uno scambio di opinioni
riguardante la fondazione di un Istituto di Cultura Socialista. Cassinelli si
qualifica "umile operaio" e sostiene l'opportunità di tale istituto.
Nei rami della sua futura attività Cassinelli propone di inserire anche
l'insegnamento dell'Esperanto, come strumento funzionale a risolvere il
problema dell'incomprensione tra i lavoratori che parlano lingue diverse. A
commento redazionale di tale lettera appare, senza firma, un parere
drasticamente contrario: "La lingua internazionale è uno sproposito,
scientificamente. " Il commento continua con argomentazioni che oggi
farebbero sorridere, ma che allora sembravano ancora avere qualche credito in
alcune scuole di pensiero: le lingue sono fenomeni naturali e non possono
essere create artificialmente, e "le nazioni si sono formate per le
necessità economiche e politiche di una classe: la lingua è stata solo uno dei
documenti visibili e atti alla propaganda di cui gli scrittori borghesi si sono
giovati per suscitare consensi anche fra i sentimentali e gli ideologi."
Due giorni dopo, il 26 gennaio, compare un trafiletto, anche questo senza
firma, ma probabilmente del direttore Serrati, che comunica come il commento
dell'anonimo redattore alla lettera di Cassinelli abbia sollecitato una
quantità di proteste. Nel trafiletto si dice che l'Esperanto è utile anche se
non è artistico, e che una guerra contro gli esperantisti da parte del partito
socialista è proprio fuori luogo. Il giorno successivo esce una lettera di
Ruggero Panebianco che approva la posizione equilibrata del direttore, ma
garbatamente contesta che tale lingua non sia "artistica": quando non
si conosce qualcosa non si ha diritto di giudicarla. Panebianco riporta un fatto
accadutogli realmente e racconta di come un suo collega, che credeva a priori
che l'Esperanto non fosse artistico, si fosse ricreduto quando gli fu fatta
leggere, lentamente e spiegandogliela, una bella poesia tradotta in Esperanto.
Sull'«Avanti!» seguì poi una replica ancora più insistita a firma del
"Redattore torinese anti-esperantista", una nuova risposta del
Direttore, e quindi la polemica si chiuse con un intervento di Angelo
Filippetti, un medico che sarebbe diventato di lì a poco sindaco di Milano. Il
Filippetti esponeva quanto la linguistica stava chiaramente elaborando allora,
e cioè che "anche le attuali lingue ufficiali sono più o meno artificiali,
imposte dalle convenienze consolidate dall'uso." E concludeva: Noi sentiamo che lavoriamo, sia pure in un
campo secondario e modesto, per l'attuazione dell'unione internazionale dei
lavoratori; noi vogliamo rovesciare una barriera, e non delle minori, che
dividono l'unica classe lavoratrice mondiale. Noi lavoriamo per il
Socialismo. La polemica sull'«Avanti!»
terminò, ma il "redattore anti-esperantista" riprese le sue tesi in
un lungo articolo sul settimanale socialista «Il grido del popolo», questa
volta firmandosi con le iniziali: A. G.; si trattava di Antonio Gramsci .
Qualche anno dopo troviamo che Panebianco non usa più l'Esperanto, bensì
l'Interlingua di Peano, ma la sua passione politica è sempre il socialismo
pacifista. Nel suo opuscolo, pubblicato nel 1921, Adoptione de lingua
internationale es signo que evanesce contentione de classe et bello, egli esprime
la convinzione che l’adozione di una lingua internazionale possa eliminare i
conflitti di classe e la guerra. Panebianco usa l’Interlingua anche per alcuni
suoi lavori scientifici, e il suo primo lavoro in tale lingua è del 1921, su un
minerale della Valsesia . Nell'introduzione egli scrive: "Nostro
Interlingua es etiam plus facile de sympathico lingua Esperanto que es plus
facile de lingua de Schleyer, et, que, pro suo diffusione, substitue isto, jam
mortuo." Dell'Interlingua è magnificata la facile comprensibilità
"quasi de primo visu" per ogni persona dotta che conosca una lingua
europea. Un altro suo lavoro scientifico tratta la legge di Haüy, mentre altri
articoli trattano temi più generali . La funzione della lingua internazionale
fu sempre intesa sotto due aspetti: da una parte, la comprensione a scopi
esclusivamente pratici, senza nessuna componente ideale; dall'altra, la
supposizione che una maggiore conoscenza reciproca avrebbe favorito la pace e
la fratellanza tra i popoli. Un giudizio positivo, specie sulla possibilità di
favorire questo secondo scopo, fu espresso nel 1914 da Roberto Ardigò,
professore di filosofia nel nostro ateneo dal 1881 al 1920, che rispose ad una
richiesta di parere rivoltagli dal Circolo Esperantista di Padova con il seguente
messaggio: Il sottoscritto ringrazia di
gran cuore del dono prezioso delle pubblicazioni esperantiste fattegli tenere,
onde ha occasione della riflessione, che soggiunge. I progressi, in modo
mirabile sempre maggiori, nella facilitazione e nell'aumento delle
comunicazioni, ognora più agevoli, più rapide, meno costose, per terra, per
mare, per l'aria stessa, quanto hanno già giovato e in seguito viepiù
gioveranno all'affratellamento delle genti più varie, più discoste, più
riottose! Ma l'affratellamento verrebbe poi fino a formare dell'umanità intera
proprio una sola famiglia quando si riuscisse (e giova sperarlo) a farvi
diffondere e generalizzare, almeno pei commerci e la cultura scientifica, un
semplice, facile, razionale linguaggio comune, come certamente è da ritenere
l'Esperanto. Nobilissimo dunque e lodevolissimo è l'intento del Circolo
Esperantista di Padova, al quale per ciò è da augurare, e auguro fiducioso,
vita e seguito sempre maggiori. Dev.mo Prof. Roberto Ardigò Negli anni immediatamente precedenti la
prima guerra e nel periodo tra i due conflitti l'Esperanto fu insegnato in
Padova e provincia in numerosissimi corsi presso istituti scolastici pubblici e
privati (ad esempio l'Istituto Magistrale "Fuà Fusinato" e il Liceo
"Tito Livio"), con centinaia di allievi; il provveditore agli studi
di Venezia, RENDA (vedasi) diramò circolari in favore dell'istituzione di corsi
nelle aule scolastiche, corsi che furono tenuti al liceo "Marco
Polo", al liceo "Marco Foscarini", al Liceo Scientifico,
all'Istituto Magistrale; si formarono gruppi esperantisti a Rovigo, Cittadella,
Este, Venezia, Legnago, Piazzola. Alcuni corsi dovettero essere sdoppiati per
il grande numero di allievi, altri dovettero essere rimandati essendo
l'insegnante già troppo impegnato in altri corsi. Negli "anni del
consenso" per il regime fascista l'Esperanto fu visto dalle autorità
principalmente come strumento di italianità, in quanto simile all'italiano (ma
non tanto quanto si voleva far credere) e in quanto mezzo per arginare la
prepotenza delle cosiddette "grandi lingue". Una lingua
internazionale che propagandasse all'estero le bellezze d'Italia per attirare
il turismo e che facesse conoscere gli scopi e le realizzazioni del regime fu
vista a lungo con occhio molto benevolo da parte delle istituzioni statali. In
una situazione di apprezzamento reciproco, anche nel movimento esperantista,
come in vari altri di ispirazione e aspirazione internazionale, divenne
vincente la linea che proponeva di "esportare il fascismo".
L'Esperanto fu quindi largamente utilizzato per pubblicazioni turistiche e di
propaganda politica, come pure nelle trasmissioni radio a onda corta . I vari
podestà figuravano come presidenti dei congressi nazionali di Esperanto, che si
svolgevano ogni anno in una città diversa. Nel 1931 il congresso si svolse a
Padova, alla Sala della Gran Guardia, e come presidente del Comitato
Organizzatore figurava istituzionalmente il Podestà, dapprima il conte
Francesco Giusti del Giardino e poi il suo successore, nob. Ing. Lorenzo
Lonigo; tuttavia l'anima dell'organizzazione effettiva fu Giovanni Saggiori .
Il congresso, tenutosi dal 26 al 28 luglio, ebbe una vasta risonanza sulla
stampa e vi furono numerosi saluti e telegrammi di apprezzamento anche di alte
autorità: il Re, il Principe di Piemonte, il Ministro per l'Educazione
Nazionale, vari podestà, il Touring Club, la Croce Rossa Italiana, l'Università
per stranieri di Perugia, l'Università di Trieste e numerose altre autorevoli
istituzioni. È tuttavia da segnalare che, stranamente, l'Università di Padova
non partecipò affatto, neanche con un semplice messaggio di saluto. L’Esperanto
è presente alla Fiera di Padova. L’assise mondiale esperantista si svolge a
Roma, "con l'alto assenso del Duce". Corsi di Esperanto vengono
tenuti alla Scuola Superiore di Commercio a Venezia, dove insegna Gino Lupi,
assistente di romeno e poi insegnante di lingue a Padova. Tuttavia presso
l'Università di Padova non risultano essersi tenuti corsi. Con il montare del
nazionalismo e l'allineamento alla politica nazista, che liquida le
organizzazioni esperantiste – e deutero-esperantista -- in Germania, cominciano
le difficoltà anche in Italia – Grice: “Mamma mia!”. Il congresso a Roma è l'ultimo evento in cui
il movimento esperantista e il regime fascista sono in sintonia. Il congresso
nazionale si svolge a Vicenza ed ha come tema ‘L'Esperanto come strumento di
propaganda turistica.’ Ma la stampa esperantista viene messa a tacere per
risparmiare carta. Il fatto che l'iniziatore dell'esperanto – ma non del
deutero-esperanto -- è un ebreo divenne un marchio di infamia, le aspirazioni
internazionaliste divenneno un atto d'accusa. Alla via Zamenhof di Milano viene
cambiato il nome. Il movimento esperantista, come tutte le attività
internazionali, subisce un arresto. Di lì a poco lo scoppio del conflitto mette
in secondo piano ogni idealismo e costringe ad urgenze e priorità diverse. Dopo
la seconda guerra il fortissimo aumento delle relazioni internazionali rende
sempre più acuto il problema linguistico. Si sviluppano i primi consistenti
studi sulla traduzione automatica, in particolare quelli legati al progetto
Eurotra, che coinvolge decine di ricercatori di quindici università di tutta
Europa e produce parecchie pubblicazioni . C'è anche un interessantissimo
studio portato avanti nel Distributed Language Translation (DLT), un progetto
di traduzione automatica in rete in varie lingue, sostenuto dalla ditta
olandese BSO e dallo stato olandese: il sistema è "a linguaggio
intermedio", cioè la traduzione da una lingua all'altra si basa su una
lingua ponte. Il DLT ha scelto come lingua ponte l'Esperanto. Tale progetto
dura dieci anni, dal 1980 al 1990 e produce un prototipo di sistema di
traduzione di ottime potenzialità, che viene illustrato all'Università di Padova
il 31.8.1990 da Dan Maxwell, uno dei principali collaboratori. L'attività dei
gruppi esperantisti è nuovamente vivace. Nel 1954 si svolge a Verona il
congresso mondiale dei ferrovieri esperantisti, con oltre 500 partecipanti. A
Padova il Gruppo è sempre sotto la guida di Giovanni Saggiori, e negli anni
Sessanta il luogo istituzionale dove imparare la lingua diventa l'Università
Popolare. Il nostro Ateneo partecipa
all'attività riguardante la lingua internazionale con i primi anni Settanta
nella sua sede di Verona. Lì, in via dell'Artigliere, viene ospitata per oltre
dieci anni la segreteria dell'Istituto Italiano di Esperanto, organizzazione
che presiede ai corsi di insegnamento della lingua. Ancora presso la sede di
Verona il nostro Ateneo ospita il congresso nazionale, con la partecipazione in
prima persona del prof. Gino Barbieri, rappresentante a Verona del Rettore di
Padova. Il prof. Barbieri è un vecchio esperantista, attratto alla lingua da MIGLIORINI
(vedasi). FORMIZZI (vedasi), professore di pedagogia presso la sede di Verona,
poi resasi ateneo autonomo, si avvicina all'Esperanto e lo insegna all'interno
del suo corso di Storia della Pedagogia . Del pari un cultore di Esperanto è
BERGAMASCHI (vedasi), professore di Pedagogia anch'egli nella sede veronese
dell'Università di Padova e poi presso l'università autonoma di Verona. Questi
due professori, insieme a chi scrive, sono stati oratori ufficiali della
celebrazione del centenario dell'Esperanto nel 1987 da parte della Federazione
Esperantista Italiana, celebrazione tenutasi alla Fondazione Cini a
Venezia. Nel 1983 nasce a San Marino,
per volontà del Congresso di Stato e con decisione del Consiglio dei XII,
l'Accademia Internazionale delle Scienze (AIS) San Marino, un'istituzione
universitaria di insegnamento e di ricerca. Le lingue di insegnamento sono
l'italiano, l'Esperanto, l'inglese, il francese, il tedesco, a cui si
aggiungeranno successivamente altre lingue, data l'espansione dell'attività
specialmente nei paesi dell'Europa orientale. L'Esperanto resterà comunque fino
ad oggi, per statuto, la lingua privilegiata, in cui devono essere scritte, e
difese oralmente, le tesi dei vari livelli, corrispondenti ai titoli italiani
odierni di laurea, laurea magistrale, dottorato di ricerca, oltre a un titolo
superiore corrispondente al "doctor habilitatus" tedesco. I primi
sostenitori di questa iniziativa sono professori universitari tedeschi e
italiani, e troviamo qui ancora dei docenti veneti: Fabrizio Pennacchietti, un
orientalista torinese che ha insegnato a Ca' Foscari, Mario Grego, abitante a
Padova e docente di inglese anch'egli a Ca' Foscari, il già citato Giordano
Formizzi e due professori dell'università di Padova: Marino Nicolini,
farmacologo di cittadinanza sammarinese, e, successivamente, l'autore di queste
righe, matematico. In particolare il primo e l'ultimo dei docenti citati, oltre
che tenere corsi in Esperanto, hanno ricoperto e ancora ricoprono incarichi
organizzativi di alto livello. I professori dell'AIS vengono da molte
università di tutto il mondo, creando un contesto internazionale estremamente
proficuo per gli studenti; tra essi ci sono il premio Nobel per l'economia
Reinhard Selten e membri di varie accademie nazionali . Tra le prime opere
scientifiche edite sotto gli auspici dell’Accademia Internazionale delle
Scienze San Marino vi è un interessante lavoro di biologia. Fino ai primi anni
’80 non esisteva un testo completo per il riconoscimento dei licheni europei,
pur esistendo testi e cataloghi in varie lingue europee, italiano e latino
compresi. I francesi G. Clauzade e C. Roux pubblicarono allora un testo
illustrato in Esperanto per la determinazione dei licheni dell’Europa
occidentale . Il testo fu dapprima considerato una stranezza, dato che il mondo
scientifico non era portato a vedere testi in lingua diversa dall’inglese;
tuttavia per il suo valore divenne indispensabile in ogni laboratorio che si
occupasse di riconoscimento dei licheni. Il testo, che era corredato da un
piccolo glossario esperanto-francese, fu utilizzato anche all’università di
Padova dal prof. Giovanni Caniglia; con la collaborazione degli studenti
interni il glossario originario fu elaborato ed arricchito fino a diventare un
piccolo dizionario di esperanto, che fu in seguito diffuso presso i soci della
Società Lichenologica Italiana . Il testo è attualmente un po’ superato, dato
il progredire della scienza negli ultimi decenni, però fu un evento
significativo nell’intento di trasmettere la scienza anche in una lingua
internazionale non etnica. Nel 1990 il
nostro Ateneo è fortemente impegnato in alcuni eventi connessi alla lingua
internazionale. Il Dipartimento di Matematica Pura ed Applicata pubblica, come
suo rapporto interno, una ricerca sui contatti culturali tra l'Italia e
l'Ucraina, originariamente redatta in Esperanto . Quindi alla fine di agosto
viene ospitato al Liviano il 61° Congresso italiano di Esperanto. Si tratta
della manifestazione più significativa della comunità esperantista mai svoltasi
a Padova: precedentemente c'era stato, come già visto, il 16° congresso
nazionale e quind si era svolta, alla Sala della Gran Guardia, una giornata
esperantista che metteva insieme la celebrazione del centenario della nascita
della lingua e quella dei 75 anni di vita del gruppo. Il Congresso si giova del patrocinio della
Regione Veneto, della Provincia di Padova, dell'Assessorato alla Cultura e ai
Beni Culturali del Comune di Padova, dell'Azienda di Promozione Turistica della
Provincia e della Sezione Ricerca e Istruzione del Consiglio d'Europa. Il Comitato
d'Onore è imponente, come assai raramente succede per iniziative al di fuori
degli organi istituzionali: vi figurano il Presidente della Repubblica Cossiga,
il Presidente del Consiglio Andreotti, il Presidente del Senato Spadolini, il
Presidente della Provincia Toscani, il Questore di Padova Romano, i Presidenti
delle Regioni Valle d'Aosta e Trentino-Alto Adige, i sindaci di Padova,
Firenze, Bologna e Reggio Emilia, i Rettori delle Università di Padova, Bologna
e Ferrara, il Rettore dell'AIS San Marino, oltre a vari parlamentari e autorità
locali. I congressisti sono oltre 300, dei quali un centinaio provenienti
dall'estero. All'inaugurazione alla Sala dei Giganti, il 25 agosto,
intervengono il sindaco Paolo Giaretta e il prof. Ezio Riondato in
rappresentanza del Rettore Mario Bonsembiante. Il tema del congresso riguarda i
problemi linguistici degli immigrati in Europa e il discorso inaugurale, tenuto
dallo storico tedesco Ulrich Lins, ha titolo: Verso un'Europa multiculturale.
Durante l'inaugurazione si celebra il gemellaggio dei gruppi esperantisti di
Padova e Friburgo e la mattinata si conclude con un saluto di Marco Pannella;
l'intero congresso viene messo in onda in diretta da Radio Radicale. Le conferenze e i programmi musicali del
congresso si svolgono nella Sala dei Giganti, gli spettacoli sono
all'Antonianum; i corsi di Esperanto attivati per l'occasione si svolgono nelle
aule della Facoltà di Lettere, poste cortesemente a disposizione dal preside
Vincenzo Milanesi. All'inaugurazione e nelle serate si esibisce, insieme alla
cantante Giusy Irienti, il pianista Aldo Fiorentin, allora giovane già
affermato, oggi professore al Conservatorio di Adria, vincitore di vari premi
nazionali e internazionali; i due solisti si alternano con una rappresentazione
di pupi del Teatro di Stato di Budapest ed un recital del chitarrista polacco
Jerzy Handzlik. La Sezione teatrale del Club Studentesco Esperantista
dell'Università di Zagabria, porta in scena la versione in Esperanto della
commedia ruzantiana Il Parlamento, e il testo ha la prefazione di Marisa
Milani, anch'ella docente del nostro ateneo . In altra serata viene presentata
un'antologia in Esperanto di poeti del Novecento (per i contatti con i poeti collaborarono i
professori padovani Armando Balduino e Silvio Ramat). Il congresso ha ampia
risonanza sui giornali, dato che vari eventi del programma sono aperti al
pubblico: la tavola rotonda sul tema "L'Europa e gli immigrati: il ruolo
dell'Esperanto" viene effettuata all'aperto di fronte al Bo', mentre lungo
il porticato di via Oberdan un maestro internazionale di scacchi, il
cecoslovacco L. Fiala, effettua dieci partite in simultanea con appassionati
locali. La serata "Musica in piazza" si svolge in Piazza dei Signori
sotto la direzione artistica di Franco Serena e vi partecipano due complessi
padovani ("The Beat Shop" e "Serena") e il complesso vocale
"Eterna Muziko" di Leningrado.
In coda al congresso si ha, sempre ospitata al Liviano, una giornata di
studio dell'Accademia Internazionale delle Scienze San Marino sulla
modellizzazione matematica del linguaggio; gli atti, redatti in italiano, esperanto,
deutero-esperanto, e inglese, escono come Rapporto Interno del Dipartimento di
Matematica Pura ed Applicata . In concomitanza con il congresso e nello stesso periodo
la galleria della Sala dei Giganti accoglie l'esposizione "Vita e cultura
in lingua Esperanto", sponsorizzata dalla Cassa di Risparmio di Padova e
Rovigo e curata da Giorgio Silfer, del Centro Italiano di Interlinguistica. La
mostra è organizzata in varie parti: espositiva, recitativa, teatrale, musicale
e vuole far conoscere come la comunità che parla la lingua internazionale abbia
una forte autocoscienza e sia molto ricca culturalmente, pur partecipando
ognuno anche alla cultura del proprio paese. Nel 1996 esce un dizionario
italiano-Esperanto, presentato al pubblico padovano da Alberto Mioni, ordinario
di glottologia, in una giornata alla Sala della Gran Guardia; a tale giornata
partecipa anche, con un messaggio di saluto, Antonio Lepschy, ordinario di
controlli automatici. Ha trascorso periodi di studio presso l'Università di
Padova (come ricercatore e anche come correlatore di tesi di laurea in
Psicologia) il chimico Luigi Garlaschelli dell'università di Pavia, tra i
fondatori del gruppo esperantista di Pavia, il quale si occupa anche di
indagini sui presunti fenomeni paranormali.
In varie università italiane vengono fatti studi sulla lingua
internazionale; in particolare, all'Università di Torino opera un validissimo
gruppo di storici della matematica che si occupa di Peano. Tesi di laurea su
questi argomenti sono state discusse molto recentemente a Torino, Roma, Genova,
Venezia; nell'ateneo torinese vi è un corso istituzionale di
"Interlinguistica ed Esperantologia"; all'Università Statale di Milano
una parte del corso di Storia della filosofia contemporanea è stata dedicata ai
linguaggi artificiali ; la biblioteca della Libera Università di Lingue e
Comunicazione IULM a Milano ha una consistente sezione dedicata all'Esperanto.
All'Università di Padova l'interesse per la lingua internazionale non riveste
semplicemente un ruolo collaterale: presso il Dipartimento di Matematica Pura
ed Applicata, come ricerca istituzionale nell'ambito del finanziamento
ministeriale ex-60%, è stato elaborato un analizzatore morfologico
dell'Esperanto ; nello stesso ambito sono stati pubblicati uno studio di
statistica linguistica su un corpus in Esperanto, una traduzione dal latino in
Esperanto di un brano del De numeris di Cardano
e, in collaborazione con l’Università Industriale Statale di Mosca, un
testo in Esperanto di storia della scienza e della tecnica . In particolare
Carlo Minnaja, professore a Padova dal 1965 e professore onorario
all’Università statale “Lucian Blaga” di Sibiu (RO) dal 2002, ha svolto un'intensa
attività nelle organizzazioni esperantiste ed è membro dell'Accademia di
Esperanto; per la diffusione della cultura italiana tramite traduzioni gli è
stato assegnato il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei
Ministri . Non solo professori, ma anche studenti del nostro Ateneo usano nei
loro studi lingue pianificate. È stata discussa una tesi di laurea in
matematica sulle serie di Chebyshev, tesi tradotta poi in Interlingua . Opera
di studenti o ex-studenti del nostro Ateneo è la traduzione in Esperanto dei
Malavoglia, presentata al congresso mondiale a Firenze : dei tre traduttori, Paola Tosato e
Giancarlo Rinaldo sono stati studenti-lavoratori, mentre Anselmo Ruffatti si è
laureato a Padova in medicina. Del pari allievo dell'Università di Padova per
il conseguimento del titolo di Direttore Didattico è stato Filippo Franceschi,
che, sotto lo pseudonimo di Sen Rodin, è un apprezzato autore di novelle in
Esperanto. La nostra università quindi continua nella sua opera di produzione e
diffusione della cultura anche attraverso la lingua internazionale.Un
validissimo lavoro in italiano su lingue "universali" e poi
"internazionali" proposte da matematici è: ROERO, I matematici e la
lingua internazionale, «Bollettino Unione Matematica Italiana. Esso tuttavia,
per quanto riguarda l'Italia, si focalizza quasi soltanto su Giuseppe Peano e
la sua scuola, con particolare riguardo agli eventi del primo decennio del
secolo scorso; si arresta quindi con l'estinguersi, nel 1936, della rivista
ispirata dal Peano «Schola et Vita». Qualche informazione sulla matematica in
Esperanto si trova in un sito dell'università svedese di Uppsala,
math.uu.se/~kiselman/mathesp.html; numerosi articoli di matematica in Esperanto
si trovano in «Scienca Revuo», rivista che esce ininterrottamente dal 1949; gli
indici delle annate sono disponibili al sito
ais-sanmarino.org/publik/sr/index.html. Sull'algebra medioevale, vd. FRANCI,
Una traduzione in volgare dell'Al-Jabr di al-Kwarizmi, in FRANCI, PAGLI, SIMI
(a cura di), Il sogno di Galois, Siena, Centro Studi della Matematica
Medioevale - Università di Siena. In Francia ancora alla fine dell'Ottocento le
tesi in filosofia erano obbligatoriamente in latino. In Italia l'obbligo di far
lezione in italiano nelle università (con eccezione per Teologia ed Eloquenza
latina) si ha con il Regio Decreto per il Regno di Sardegna, esteso poi con
l'unificazione a tutto il Regno d'Italia; vd. ROERO, I matematici. Nome latinizzato del pedagogista e riformatore
moravo Jan Amos Komenský (1592-1670). Sui progetti di lingua internazionale di
Comenius vd. FORMIZZI, La lingua pansofica di Comenio, L'Esperanto. Formizzi,
professore di pedagogia all'Università di Padova e poi all'Università di Verona
e all'Accademia Internazionale delle Scienze San Marino, ha tradotto in
italiano altre opere di Comenius: la Panglottia, La via della luce e l'Angelus
pacis, edite dalla Libreria Editrice di Verona, nonché la Panorthosia, edita a
Verona da Gabrielli. In quest'ultima opera Comenius propone un progetto di riforma
del mondo che include la proposta di una lingua universale. La raccolta più completa di lingue
immaginarie, inventate o pianificate, corredata di ampio commento, è: ALBANI,
BUONARROTI, Aga Magéra Difura, Bologna, Zanichelli. Più recente è un'edizione
francese: PAOLO ALBANI, ALIGHIERO BUONARROTI, Dictionnaire des langues
imaginaires. Paris, Belles lettres. Di spirito diverso, quasi ludico, che si
può leggere come un romanzo è: ALESSANDRO BAUSANI, Le lingue inventate, Roma,
Ubaldini. Con valore storico, ma di
notevole completezza per l'epoca, è un'opera in Esperanto: PETER E. STOJAN,
Bibliografio de internacia lingvo, Genève, Bibliografia Servo de Universala
Esperanto-Asocio. Sulla storia delle lingue inventate, o pianificate in
maggiore o minore misura, citiamo, a puro titolo di esempio, in italiano:
UMBERTO ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari,
Laterza; il testo più recente è in Esperanto: ALEKSANDR DULIČENKO, En la
serĉado de la mondolingvo, aŭ interlingvistiko por ĉiuj (Alla ricerca di una
lingua mondiale, o interlinguistica per tutti), Kaliningrado, Sezonoj,
traduzione dall'originale russo che ancora non è apparso a stampa. Di valore storico è COUTURAT,
LEAU, Histoire de la langue universelle, Paris, Librairie Hachette, con il suo
aggiornamento: COUTURAT, LEAU, Les nouvelles langues internationales, Paris,
Hachette. Una edizione è uscita presso Olms, Hildesheim-New York. Il titolo intero è Via lucis, Vestigata et Vestiganda,
h. e. Rationabilis disquisitio, quibus modis intellectualis animorum LUX,
SAPIENTIA, per omnes omnium hominum mentes et gentes iam tandem sub mundi
vesperam feliciter spargi possit. Nempe
ad intelligenda melius illa Oraculi verba Zachariae 14, v. 7: Et erit, ut
vespere fiat lux. Il termine ‘universale’ attribuito ad un linguaggio per
esprimere qualsiasi concetto in maniera comprensibile a popoli di lingue
diverse muta poi in ‘inter-nazionale,’ quando sarà riferito soltanto ad
espressioni linguistiche. Vives, filosofo e umanista, sostiene la necessità di
una lingua unica e universale nella sua opera De tradendis disciplinis. Ne
esiste una traduzione italiana commentata di GALLINARI (vedasi), uscita a
Cassino, Ed. Sangermano. KOMENSKY, La via. Di Comenius non esiste ancora
un'edizione completa delle opere; un progetto, affidato a Praga, la prevede in
una trentina di volumi, ma l’edizione si è arrestata ben prima del
completamento. L’ultimo volume edito è uscito in occasione del centenario della
nascita di Comenius (comunicazione all'A. di FORMIZZI (vedasi). Dalgarno,
pedagogista, è tra i primi ad occuparsi dell'istruzione dei sordo-muti,
elaborando un sistema di segni, che espose nell'opera “Ars signorum: vulgo
character universalis et lingua philosophica” e nel “Didascalocophus.” Wilkins,
vescovo di Chester, tra i fondatori della "Royal Society" londinese,
cognato di Cromwell. Pubblica l'opera An Essay Towards a Real Character and a Philosophical
Language. In essa tutte le idee di
natura più semplice sono classificate in un sistema gerarchico e collocate in
una tabella. C'è un elenco primario di quaranta generi, ciascuno suddiviso in
sei "differenze", e ciascuna differenza è poi suddivisa in specie.
Vengono così raccolti e classificati 2030 concetti. Ad ogni genere corrisponde
una coppia di lettere iniziali, ad ogni differenza una consonante maiuscola, ad
ogni specie una vocale o gruppo di vocali minuscole. Vengono così ad essere
costituite le radici, alle quali poi si aggiungono le derivazioni e la
flessione pertinente alla morfologia. Le parole sono quindi costituite da
successioni di lettere che corrispondono al posto del termine nella tabella.
Questa lingua viene presentata da Wilkins alla Royal Society, che ne demanda lo
studio ad una commissione di esperti, tra i quali gli scienziati Boyle, che
diventerà famoso per una legge sui gas perfetti, e il suo assistente Hooke, che
pure resterà famoso per una legge sull'elasticità dei corpi. Non si è trovata
tuttavia una relazione sulla questione.
Così in COUTURAT, LEAU, Histoire; va detto tuttavia che al tempo
dell'uscita di tale opera molti degli scritti di Leibniz erano ancora
sconosciuti. Così presentato in
COUTURAT, LEAU, Histoire, p. 23 (trad. dal francese dell'A.). Il nome è derivato da Pacidius, pseudonimo
sotto il quale Leibniz voleva pubblicare la sua Encyclopedia; vd. LOUIS COUTURAT, Opuscules
et fragments inédits de Leibniz, Paris, Felix Alcan. Cfr.
STOJAN (trad. dall'Esperanto dell'A.). LEIBNIZ, Scritti di logica, Roma-Bari,
Laterza, Vd. ROBINET, L’empire leibnizien, Trieste, LINT, Per una biografia
estesa vd. LEGNAZZI, Commemorazione di Bellavitis, Padova, Prosperini. Per una
biografia più succinta vd. NICOLA VIRGOPIA, Bellavitis, Giusto, in Dizionario
Biografico degli Italiani, 7, Roma, Ist. Enc. It., BELLAVITIS, Pensieri sopra
una lingua universale, «Memorie dell'I. R. Istituto veneto di scienze, lettere
ed arti; un'edizione a parte è apparsa presso la Segreteria del detto Istituto.
BELLAVITIS, Saggio di applicazioni di un nuovo metodo di geometria analitica -
calcolo delle equipollenze, «Annali delle Scienze del Regno Lombardo-Veneto»;
BELLAVITIS, Memoria sul metodo delle equipollenze, «Annali delle Scienze del
Regno Lombardo-Veneto», LEGNAZZI, Commemorazione. Il libretto citato fu esibito
al pubblico durante al commemorazione citata. Attualmente non è noto il luogo dove sia conservato. BELLAVITIS, Pensieri. Zamenhof nacque nella
cittadina polacca di Bjałystok, che per il trattato di Tilsit era allora sotto
la Russia. Dalla fine della I guerra mondiale è in Polonia. BELLAVITIS, Pensieri. BELLAVITIS, Pensieri,
p. 57-58. Sudre, musicista, professore a Sorèze, un collegio dei benedettini,
riorganizzato dai domenicani. Sudre si
dedicò anche alla telefonia, scrivendo un codice per la trasmissione a distanza
di segnali fonici che fu adottato in Francia per impieghi militari.Vailati,
laureato in ingegneria e quindi in matematica, si dedica successivamente alle
lingue e alla filosofia, in particolare alla logica; assistente di Peano,
insegnò poi in varie scuole medie e fu uno dei promotori dei primi congressi
internazionali di filosofia, nei quali, come vedremo, fu posto il problema di
una lingua internazionale per la comunicazione scientifica. A Crema, sua città
natale, esiste il “Centro Studi Giovanni Vailati”. La citazione proviene dalla recensione ad
opera di Vailati del libro di Couturat e Leau Histoire, citato precedentemente,
in Scritti di VAILATI (vedasi), Leipzig-Firenze, Johann-Ambrosius-B. Seeber,
BELLAVITIS, Utopie del socio ordinario Giusto prof. Bellavitis, Padova, G. B.
Randi. BELLAVITIS, Reminiscenze della mia vita: lettura accademica, Padova, G.
B. Randi, LUCIANO, ROERO (a cura di), PEANO (vedasi) - Couturat: Carteggio,
Firenze, Olschki. L’opera contiene una bibliografia molto estesa. Padova, Tipografia del Seminario, Rivista di
Matematica. Vd. il pregevole lavoro: GHEZZO, VERONESE (vedasi), Matematico
dell'Università di Padova, Padova, Dip. Matematica Pura ed Appl., LEAU, Une langue
universelle est-elle possible? Appel aux hommes des sciences et aux
commerçants, Paris, Gauthier-Villars. Per la storia della lingua internazionale e in particolare delle vicende
qui riportate si possono utilmente vedere: UBALDO SANZO, L'artificio della
lingua, Milano, Angeli; ROERO, I matematici. Sebert, generale di artiglieria
dell'esercito coloniale francese, fece numerosi studi di balistica; ritiratosi
dall'esercito, fu consulente industriale e si occupò di impianti di
distribuzione dell'elettricità. Le sue iniziative per rendere disponibile su
larga scala la bibliografia scientifica lo portarono, negli ultimi anni
dell'Ottocento, ad interessarsi di una lingua internazionale. Adepto
dell'Esperanto, fu poi un grande organizzatore e finanziatore dell'attività
esperantista. COUTURAT, La logique de Leibniz, Paris, Alcan; ripubblicato poi
presso Olms, Hildesheim. Nella sua opera De l'Infini mathématique Couturat
aveva utilizzato la memoria del Bellavitis sul calcolo delle equipollenze.
Schleyer, parroco cattolico in una cittadina tedesca sul lago di Costanza, fu
nominato "cameriere segreto" da Leone XIII. La lettera, già citata
come inedita in SANZO, L’artificio, è ora comparsa nel citato carteggio tra
Couturat e Peano. COUTURAT, LEAU, Conclusions du rapport sur l'état présent de la question de
la langue internationale, Coulommiers, Brodard, PEANO, Prof. Louis Couturat,
«Revista Universale. La «Revista
Universale» era un periodico sulla lingua internazionale edito a Ventimiglia;
per le collaborazioni di Peano a varie riviste vd. il cd-rom ROERO (a cura di),
Le riviste di Giuseppe Peano, Torino, Dipartimento di Matematica. Con tale nome
verranno poi indicati vari altri progetti di lingua internazionale, in
particolare quello sostenuto dalla International Auxiliary Language Association
(I.A.L.A.), fondata da Morris, la quale, entusiasmatasi dell'Esperanto per le
sue idee filantropiche di fratellanza universale, fonda una specie di seconda
Delegazione per l'adozione di una lingua ausiliaria internazionale. Dopo
tentativi infruttuosi di diffondere l'Esperanto, ostacolati da alcuni linguisti,
la I.A.L.A. propone una nuova lingua internazionale elaborata da Gode, che si
chiama anch'essa Interlingua e che godrà per un periodo limitato di un certo
successo nelle riviste scientifiche. Sulla sua diffusione attuale, vd. il sito
della Union Mundial pro Interlingua: www.interlingua.com. Couturat in una lettera a Bertrand Russell
del 30 dicembre 1912 contesta la validità scientifica di tale accademia, poiché
vi si entra con il semplice pagamento di una quota, e nega che essa sia la
prosecuzione dell'Accademia volapükista. Per la citazione esatta vd. SCHMID,
Bertrand Russell, Correspondance sur la philosophie, la logique et la politique
avec Couturat, Paris, Kimé, riportata in LUCIANO, ROERO, Peano. LEVI-CIVITA, Programma de cursu de
Mathematica superiore in Universitates italiano, «Schola et Vita. Vd. ad es., per l’Ido, LUSANA, Vocabolario
moderno Ido-Italiano ed Italiano-Ido, Biella, Tip. Magliola. L’Ido, che
continua a definirsi “Esperanto reformita”, ha tuttora adepti e
un’organizzazione che ne promuove la diffusione; vd. http://idolinguo.org.uk.
Per l’Interlingua vd. CASSINA, GLIOZZI, Interlingua, Milano, Villa, 1945. Per l’attività del movimento esperantista e
la pubblicistica in Esperanto vd. esperanto.it. Attualmente il Gruppo Esperantista Padovano,
erede del Circolo Esperantista, aderente alle Associazioni di base della
Regione Veneto, è intitolato a Giovanni Saggiori, che ne è stato animatore per
oltre sessant'anni, ed ha sede in Via Barbieri PANEBIANCO, Fizika proksimigo,
verkita de Roĝero Panebianco, Profesoro de Mineralogio en la Universitato de
Padovo (Approssimazione fisica, scritto da Ruggero Panebianco, Professore di
Mineralogia nell'Università di Padova), Berlino, R. Friedland kaj filo (e
figlio), 1914; è da notare anche l'esperantizzazione del nome in
"Roĝero". Trad.
dall’Esperanto dell’A. PANEBIANCO,
Gravokristalaj X-radileĝoj kaj L' aserto ke la kristaledrindicoj estas
racionalnombroj ne estas naturiste kaj ne difinas ilin (Importanti leggi
cristallografiche basate sui raggi X e L'asserzione che gli indici di spigolo
dei cristalli sono numeri razionali non è naturale e non li definisce),
«Rivista di Mineralogia e Cristallografia Italiana», di Aldono post linio
(Aggiunta dopo la riga). RUGGERO PANEBIANCO, Proksimigo de la refraktigindicoj
(Approssimazione degli indici di rifrazione), Padova, Società Cooperativa
Tipografica, Presso la Biblioteca Universitaria di Padova vi è una copia di
tale opuscolo con la dedica autografa del traduttore a Roberto Ardigò;
segnatura: Bibl. Ardigò, D. Ba 8/5. I
corsivi sono nell'originale. FILIPPETTI, Ancora sull’Esperanto, «Avanti!», 7
Gramsci, La lingua unica e l'Esperanto, Il grido del popolo. Gramsci riaffermò
anche successivamente le sue posizioni, vd. ad es. GRAMSCI, Quaderni dal
carcere, vol. II, Quaderni 6-11, Torino, Einaudi. Tali posizioni furono in
seguito ritenute da rivedere anche all'interno del suo partito: vd. CARANNANTE,
Gramsci e i problemi della lingua italiana, «Belfagor. Una replica riassuntiva
si trova in GIORGIO SILFER, Gramsci e l'esperanto: storia di un malinteso,
«Lombarda esperantisto». PANEBIANCO, Thulite de Varallo in Valsesia, Padova,
Soc. Coop. Tip., 1921. Si tratta del
Volapük. RUGGERO PANEBIANCO, Lege de
Haüy et lege de Symmetria, Cuneo, Un. Tip. Ed. Prov. PANEBIANCO, Hypnotismo et
Necromantia (spiritismo); nota de naturalista R. Panebianco, Torino, Acad. Pro
Interlingua, 1923; RUGGERO PANEBIANCO, Regula de Camaro de longa et sana vita,
«Schola et Vita, Revista in Interlingua; ripubblicato a Milano, Inst. Pro Interlingua,
Riportato in «L'Esperanto», Le trasmissioni radio dell'EIAR in esperanto
durarono; esse furono riprese a cura della Presidenza del Consiglio e durano
tutt'ora. Saggiori, ufficiale del genio, radiotecnico, sindaco di Fossò, fu
presidente del Gruppo padovano per oltre sessanta anni. Esperto di
toponomastica padovana, fu autore del volume Padova nella storia delle sue
strade, Padova, Piazzon. Ancora oggi il
Gruppo Esperantista è presente ogni anno alla fiera di Padova con un proprio
stand. Il progetto Eurotra si
riprometteva di ottenere una "Fully Automatic High Quality
Translation" da una all'altra delle lingue europee, che erano sette alla
fine degli anni '70 per arrivare a nove quando il progetto fu dichiarato
terminato. Per quanto fortemente finanziato dalla Commissione della Comunità
Europea, esso fallì completamente nel suo intento, effettivamente troppo
ambizioso, ma gli studi che stimolò servirono come base per un notevole numero
di sistemi di traduzione automatica aventi scopi molto più limitati.
Attualmente l'Unione Europea si giova del sistema SYSTRAN, che è disponibile
per un certo numero di coppie linguistiche. Sono disponibili oltre una decina
di moduli con l'inglese come lingua di partenza (L1) e di arrivo (L2); per
l'italiano sono disponibili soltanto i traduttori automatici con il francese e
l'inglese. Le prestazioni offerte da tale sistema sono tuttavia ancora
parecchio lontane da quanto può offrire un traduttore umano, che però spesso
non è disponibile. La comunicazione all'interno delle strutture dell'Unione
Europea resta comunque deficitaria: sui suoi costi vd. SELTEN (red.), The Costs
of European Linguistic (non) Communication, Roma, ERA.Formizzi è stato
presidente della Federazione Esperantista Italiana. Sull’attività dell’ AIS San
Marino vd. www.ais-sanmarino.org.. Successivamente nascerà anche l'Università
della Repubblica di San Marino, istituita con la legge-quadro n. 127 del
31.10.1985, e che oggi ha come rettore Giorgio Petroni, professore di Tecnica e
Gestione dei Sistemi Industriali alla Facoltà d'Ingegneria di Padova. CLAUZADE,
ROUX, Likenoj de Okcidenta Eŭropo, «Bulletin de la Société Botanique du
Centre-Ouest», CANIGLIA, Dizionario di esperanto, «Notiziario della Soc.
Lichenologica Italiana», MATVIJIŜYN (a cura di Minnaja), La cultura e la
scienza, con particolare riguardo alla matematica, nei rapporti tra Italia e
Ucraina, Padova, Dip. Matematica Pura ed Appl. (Rapp. Int.BEOLCO, Interparolo
(tr. C. Minnaja), Pisa, Edistudio. Milani, all'epoca professore di Letteratura delle
tradizioni popolari all'Università di Padova, fu una apprezzata studiosa del
Ruzante. MINNAJA, Enlumas min senlimo (M'illumino d'immenso), Prilly, LF-koop,
MINNAJA (a cura di), Modellizzazioni Matematiche per le Scienze del Linguaggio,
Padova, Dip. Matematica Pura ed Appl. (Rapp. Int.), MINNAJA, Vocabolario
italiano-Esperanto, Milano, Cooperativa Editoriale Esperanto, 1996. Vd.: VALORI, Materiali per lo studio dei
linguaggi artificiali – incluso il deutero-esperanto di Grice --, Milano, CUEM,
MINNAJA, L. G. PACCAGNELLA, A Part-of-Speech Tagger for Esperanto oriented to
MT, International Conference MT Machine Translation and multilingual
Applications in the new Millennium, Exeter, MINNAJA, Statistika analizo de la
paroladoj de Ivo Lapenna (Statistical Analysis about Speeches by Ivo Lapenna),
«Grundlagenstudien aus Kybernetik und Geisteswissenschaft CARDANO, Pri la noblo
kaj utilo de ĉi arto kaj pri la malklaraj notacioj (Della nobiltà e utilità di
quest'arte e delle notazioni oscure, da "De numeris", tr. C.
Minnaja), «Literatura Foiro. MINNAJA, A. ŜEJPAK, Elektitaj lekcioj pri historio
de scienco kaj tekniko - Избранные лекции по истории науки и техники (Lezioni
scelte di storia della scienza e della tecnica), Mosca, Московский Государственный
Индустриалъный Университет Tra le traduzioni si segnalano C. GOLDONI, La
gastejestrino (La locandiera), Pisa, Edistudio; MACHIAVELLI, La princo (Il
Principe), Pisa, Edistudio. Per l’attività e una bibliografia di Carlo Minnaja,
vd. math.unipd.it/~minnaja. Il
laureando era Alberto Mardegan; vd.. http://www.interlingua.fi/marathe.htm G. VERGA, La Malemuloj (I Malavoglia, tr.
Giancarlo Rinaldo, Anselmo Ruffatti, Paola Tosato), Pisa, Edistudio. L’autore
ringrazia Sassi e Caniglia di Padova e Formizzi di Verona, nonché Montagner,
bibliotecario presso la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di
Milano, per le preziose notizie fornite. Ubaldo Sanzo. Sanzo. Keywords: apollo
licio, trovato al ginnasio liceo di Atene, figgurante il dio in atto di riposo
dopo un gran sforzo. natura ed artificio, l’artificio della lingua,
convenzionalismo, filosofia della lingua. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sanzo” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Sarapione: la ragione conversazionale al portico
romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of the Porch
imprisoned by the Romans, Grice: “for no other reason than the Romans deeply
detesting the Porch!" Sarapione
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sarlo: la ragione
conversazionale dell’idealismo – la scuola di San Chirico Raparo – la scuola di
Firenze – la scuola di Potenza – la scuola della Basilicata -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (San
Chirico Raparo). San Chirico Raparo,
Potenza, Basilicata. Filosofo italiano. Muore a Firenze. Filosofo e psicologo
italiano. Vince la cattedra di filosofia teoretica presso il Regio Istituto di
studi superiori di Firenze. È in questa città che frequenta i seminari tenuti
da Brentano presso la biblioteca filosofica. Nel 1903 fonda a Firenze il
"Laboratorio di psicologia sperimentale" che fu inizialmente annesso
alla Facoltà di Lettere e Filosofia del Regio Istituto di studi superiori.
Allievi di S. sono, tra gli altri, Aliotta, Borgese, Bonaventura, Lamanna, che
sposa sua figlia, Garin e Marzi. S. si trova in aperto contrasto con Croce e
Gentile che ritenevano si dovesse separare il metodo della filosofia da quello
della scienza. Per S., invece, il metodo conoscitivo doveva essere comune in
quanto sia il filosofo che lo scienziato si occupano dello stesso campo
d'indagine. Per questo considera come unico metodo quello rigorosamente
sperimentale di Wilhelm Wundt e quello esperienziale di Brentano. Nello stesso
anno pubblica, nel capoluogo toscano, il saggio: I dati dell'esperienza
psichica. La novità introdotta da De Sarlo è il concetto che i fenomeni fisici
esistono in quanto diventano fenomeni psichici, contenuto della nostra
coscienza. Dunque, l'oggetto di studio della psicologia doveva essere
l'esperienza intenzionale del soggetto. L'unica vera esperienza diretta è
quella psichica. Esperienza interna ed esperienza esterna vanno così a
configurarsi come due aspetti dello stesso fenomeno; non c'è un'esperienza più
vera dell'altra poiché nessuna delle due è indipendente dall'altra. Per De
Sarlo è imprescindibile studiare la coscienza: a suo avviso, gli "oggetti"
arrivano necessariamente alla nostra coscienza attraverso gli organi
sensoriali. Essi vengono ordinati, studiati, usati, catalogati sia dal singolo
nella sua esperienza quotidiana sia dalle varie scienze che ne approfondiscono
lo studio. Siccome tali "oggetti" sono complessi, cioè pieni di
proprietà, attributi etc., S. si chiede come accada che si compongano nella
coscienza dell'individuo e stabilisce che due sono le modalità: o l'oggetto
equivale al contenuto della coscienza oppure che la percezione del soggetto
dipende dalla relazione del soggetto stesso con l'oggetto percepito. Nel primo
caso S. parla di "esperienza con carattere statico", nel secondo di
"esperienza a carattere dinamico". In entrambi i casi non si può
prescindere dal ruolo del soggetto. La differenza tra esperienza psichica ed
esperienza pura è l'aggiunta del significato ai dati primitivi. Per De Sarlo
sono possibili solo due modi di studiare tutto questo: il metodo sperimentale e
il metodo introspettivo. Fonda il periodico La cultura filosofica, che darà
spazio alla discussione di problemi psicologici e presterà attenzione a quanto
avviene in campo psicologico ed epistemologico negli altri paesi.
L'impostazione filosofica di questa rivista fu più volte criticata da Benedetto
Croce e Giovanni Gentile. Tra il 1912 e il 1915 è tra gli autori della rivista
fiorentina Psiche, il cui redattore capo è Roberto Assagioli: altri redattori
sono Agostino Gemelli, E. Bonaventura. Le teorie di S. sono influenzate molto
dalla concezione della conoscenza scientifica e dalle teorie di Brentano. È tra
i firmatari del Manifesto degli intellettuali anti-fascisti redatto da Croce.
Nello stesso anno pubblica, per i tipi Le Monnier, Gentile e Croce. Lettere
filosofiche di un superato. Nel sagio S. prende atto della sconfitta culturale
dell’idealismo italiano, ma al contempo rivendica le ragioni della sua
prospettiva filosofica. L'obbiettivo polemico sono senza dubbio sia Croce che
Gentile, ma a quest'ultimo sono dedicate le pagine più aspre. Infatti S. e
Croce erano legati dal comune sentimento anti-fascista e convinti della
necessità di misurarsi con ricerche concrete, quali quelle di Croce in ambito
storico che S. aveva sempre apprezzato. Non a caso Croce fece passare sotto
silenzio questo testo mentre sul Giornale critico della filosofia italiana,
fondato e diretto da Gentile, apparvero varie recensioni critiche del volume.
Opere S., I dati dell'esperienza psichica, Galletti e Cocci, Firenze, S. e
Calò, Principi di scienza etica, Sandron, Palermo, S., Gentile e Croce. Lettere
filosofiche di un «superato», Firenze, Le Monnier, . F. De Sarlo, Introduzione
alla filosofia, Ed. Dante Alighieri, Milano . F. De Sarlo, Il metodo naturale
nella ricerca scientifica, Ed. Dante Alighieri, Milano 1929. F. De Sarlo,
L'uomo nella vita sociale, Laterza, Bari S., Vita e psiche: saggio di filosofia
della biologia, Le Monnier, Firenze. V. Russo, Filosofia e psicologia
nell'attività psichiatrica di Francesco De Sarlo, Il Mulino, Bologna . Studi
per Luigi De Sarlo, Giuffrè, Milano . L. Albertazzi, G. Cimino, S.
Gori-Savellini (ed.), Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di
psicologia, Laterza, Bari 1999. G. Sava, Francesco De Sarlo e la psicologia
filosofica, «Il Veltro», Guarnieri, fupress, Firenze University Press, Firenze
S. su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
De Sarlo, Francesco, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana S. su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Patrizia Guarnieri,
DE SARLO, Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, . FS., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.
Modifica su Wikidata Opere di Francesco De Sarlo, su MLOL, Horizons Unlimited
Portale Biografie Portale Filosofia Portale Psicologia Categorie: Filosofi
italiani Psicologi italiani Nati a San Chirico RaparoMorti a Firenze [altre]
Sarlo, nato in un paesello della Basilicata, San Chirico Raparo, venne alla
filosofia dalla medicina filosofica. E ve Io condusse intima vocazione, oltre,
e più, che esterna vicenda di casi. Già durante gli studi universitari, a
Napoli, si compiace di frequentare, colle lezioni della facoltà cui era
iscritto, quelle di filosofia: ed è, tra l’altro, uditore di SPAVENTA negli
ultimi anni del suo insegnamento. La stessa sua prima pubblicazione — un
volumetto di saggi su Darwin attesta la tendenza di lui a studiare, anche nel
campo delle scienze biologiche, le questioni più generali, quelle che sono poi
stimolo e offrono motivi alla speculazione filosofica. Questa tendenza divenne
in lui sempre più consapevole durante gli anni che passa, come medico, nel
manicomio di Reggio Emilia, dove compì ricerche psichiatriche che, mettendolo a
contatto più diretto con i problemi dell’anima, determinarono il suo passaggio
alla psicologia e alla filosofia. In questo campo non ha maestri. È un
autodidatta: dove cercar da sè, come a tentoni, la sua strada, ed è naturale
che la trova solo attraverso deviazioni, incertezze, ritorni. La sua educazione
naturalistica e l’influenza dell’ambiente culturale del tempo, impregnato di
positivismo, lo portano dapprima a seguire questo indirizzo di filosofia: e in
uno degl’organi della filosofia positivistica, la rivista d’ANGIULLI (vedasi),
SARLO fa le sue prime armi. Ma non tarda ad allontanarsi dal positivismo, a
mano a mano che venne acquistando coscienza delle deficienze di quella dottrina
cosi in ordine all’interpretazione del fatto conoscitivo come in ordine alla
fondazione della moralità e religiosità umana: deficienze, che illustra poi in
quelle Note sul positivismo in Italia, pubblicate in appendice ai saggi sulla
filosofia, una delle critiche più penetranti e conclusive che della gnoseologia
positivistica siano state fatte in Italia. La sua coscienza filosofica si venne
formand. Concorsero a questa formazione lo studio di SERBATI, i rapporti
personali o spirituali con alcuni dei più cospicui rappresentanti italiani
dello spiritualismo e del criticismo, come FERRI (vedasi), MASCI (vedasi), e,
in particolare, BONATELLI (vedasi), e, più specialmente, lo studio diretto
delle correnti più significative della filosofia, alcune delle quali egli per
primo, o tra i primi, fa conoscere in Italia. E di questa sua attività sono
frutto due saggi su SERBATI: La logica di SERBATI e i problemi della logica e
Le basi della psicologia e della biologia secondo SERBATI, considerate in
rapporto ai risultati della scienza, Roma, poi rifusi in altri lavori; volumi
di Saggi filosofici, Torino, Clausen, posteriormente anch’essi rielaborati e
rifusi; studi su filosofi sparsi in varie riviste, alcuni dei quali furono poi,
con altri di epoca posteriore, raccolti nel volume Filosofi, Firenze, La
Cultura Filosofica; saggi di psicologia; il volume Metafisica, Scienza e
Moralità, Roma, Balbi, e il volume già ricordato Studi sulla Filosofia : La
filosofia scientifica, Roma, Loescher. L’esigenza che si rivela come
fondamentale in questi studi di SARLO (vedasi), è quella di mostrare le vie per
le quali le scienze positive, e più particolarmente quelle naturali, sboccano,
per una necessità imposta dalla logica a loro immanente, in una concezione
filosofica nella quale il naturalismo è superato, cosi per il riconoscimento
dei poteri originari e irriducibili dello spirito quale soggetto conoscente e
quale persona morale, come per il coronamento del sapere filosofico in
un’interpretazione teistica della realtà universale; mentre, dall’altro lato,
la filosofia stessa, come sistemazione e critica del sapere, riceve dalle
scienze particolari continuo alimento e stimolo. E la necessità di questo
connubio fecondo, nella loro reciproca azione, della scienza e della filosofia,
è rimasta come uno dei motivi principali della filosofia di SARLO, anche
quando, nel periodo di piena maturità della sua attività di studioso, tratta i
principii del suo filosofare non più dal criticismo, di cui si sente l’influsso
neghi scritti sinora citati, ma dallo sperimentalismo, da Locke a Mill;
dall’intuizionismo, specie per il rilievo costantemente dato agl’assiomi così
gnoseologici come etici, costitutivi dello spirito umano, e apprensibili con
evidenza immediata nell’esperienza e infine dal realismo dell’Herbart e del
Lotze. Conseguita la libera docenza in filosofia a Roma, insegna questa
disciplina nei licei di Benevento, di Torino, di Roma, quando ottenne per concorso
la cattedra di filosofia teoretica a Firenze, cattedra ch’egli ha tenuto e
tiene ancor oggi con l’autorità e l’efficacia di un maestro. Fonda un gabinetto
di psicologia sperimentale, il primo del genere in Italia, e che è rimasto
anche oggi il più ricco di apparecchi. Molte e importanti ricerche vi sono
state compiute sotto la sua direzione, sebbene, in questi ultimi anni, la
potenzialità scientificamente produttiva del gabinetto sia stata assai ridotta
per le condizioni materiali veramente miserevoli nelle quali si è venuto a
trovare. Sarlo diretto la Cultura Filosofica, una Rivista che ebbe un programma
ben definito e, specie nei primi anni, fu vivacemente battagliera cosi contro
il positivismo ormai declinante, come, e più, contro il risorgente idealismo.
La sua operosità di studioso ha dispiegato con assiduità e intensità
instancabile nel campo della psicologia, dell’etica, della filosofia generale,
pubblicando poderosi volumi, ai quali specialmente noi ci riferiremo nella
esposizione e caratterizzazione della sua filosofia. Il valore della sua opera
ha avuto riconoscimento ufficiale nel premio Reale per la filosofia,
conferitogli nel 1920 dall’Accademia dei Lincei, della quale egli è, dal 1921,
socio nazionale. Elenchiamo qui le opere principali del De Sarlo, escluse le
prime già citate che poi sono state rifuse nelle successive: Metafisica Scienza
e Moralità. Studi di Filosofia morale. Roma, Balbi, , 1 voi. di circa 250 pagg.
in 8: [Contiene: Il naturalismo Il telismo L’idealismo e la moralità Il socialismo
come concezione filosofica — Vita morale e vita sociale]. Studi sulla Filosofia
contemporanea. — Prolegomeni : La « Filosofia scientifica ». — Roma, Loescher.
Sarlo d’ordinario è presentato come un teista e uno spiritualista. Tale egli
stesso ha sovente dichiarato esplicitamente [Contiene : Du Boys-Reymond,
Helmholtz, Darwin, Il positivismo contemporaneo in Italia ]. I dati
dell’esperienza psichica. Firenze, Pubblicazioni del R. Istituto di Studi
Superiori, 1903, 1. voi. di pagg. 430 in-8. L’attività pratica e la coscienza
morale. Firenze, Seeber, 1907, 1 voi. di pagg. in-16. Principii di Scienza
etica, con un’Appendice su La patologia mentale in rap- perto all’etica e al
diritto. Palermo, Sandron, [1907], 2 voi. di circa pagg. 500 in-16 (in collaborazione
con Q. Calò). II Pensiero Moderno. Palermo, Sandron, [1915], 1 voi. di pagg.
410 in-8. [Contiene: a) Tre studi che possiamo dire introduttivi : La
formazione della coscienza filosofica odierna — Uno sguardo alla filosofia. I
compiti della filosofia. Altri tre studi che costituiscono come la parte
centrale del volume, la più vasta per il contenuto che abbraccia e per
l’estensione che ha: ! problemi gnoseologici nella filosofia contemporanea. Lo
psicologismo nelle sue principali forme. I diritti della metafisica, nel quale
ultimo specialmente sono sottoposti a un rapido e vigoroso esame critico i
principali indirizzi della filosofia. Altri studi su particolari problemi o
correnti filosofiche. Il significato filosofico dell'evoluzione. Filosofia e scienza
dei valori. Stillo spiritualismo. Filosofi. Firenze, La cultura filosofica.
Contiene saggi su Paulsen, Hodgson, Ward, OXONIAN Bradley, Reitike, Hartmann,
Zeller, e BONATELLI – l’uniico italiano. Psicologia e filosofìa. Studi e
ricerche. Firenze, La cultura filosofica. Contiene: Alcuni saggi di filosofia
generale, importantissimi pella comprensione della posizione di SARLO nel campo
filosofico, e della concezione dei rapporti tra filosofia e psicologia:
Psicologia. La psicologia e le scienze normative. L’esperienza psichica.
L’individuo dal punto di vita psicologico. Il soggetto. La causalità psichica.
Sensazione e coscienza. Ampi saggi di psicologia metafisica – o psicologia
filosofica, come la chiama Grice: il concetto dell'anima nella psicologia. Idee
metafisiche intorno all’anima. Saggi contenenti la materia per un organico
trattato sulle funzioni psichiche. La classificazione dei fatti psichici.
L’attività conoscitiva. L’attività immaginativa. Vita affettiva ed attività
pratica, con i quali saggi è strettamente connesso un amplissimq saggio intorno
alle determinazioni formali della vita psichica, e più particolarmente
all'azione dell’esercizio e dell'abitudine su tutte le funzioni fisiologiche e
psichiche. Appartengono a questo gruppo altri saggi. Sulla teoria somatica
delle emozioni. Sullo studio dei sentimenti nella psicologia. Sulla percezione
delle forme. Saggi di psicologia fisiologica e patologica. Cervello ed attività
psichica. L’attività psichica incosciente, Sulla psicologia della suggestione.
Le alterazioni della vita psichica. La psicologia degl’animali. di essere. E
tale, certo, egli si rivela nei suoi scritti, dai più antichi ai più recenti.
Ma, è da aggiungere subito, non è data così la caratteristica più saliente
della sua figura di pensatore: sfugge a quella designazione gran parte, e forse
la più significativa, della sua opera filosofica; viene, comunque, lasciata
cosi nell’ombra quella concezione della filosofia e del metodo di filosofare
che, meglio d’ogni altro elemento, vale a individuare la sua posizione
personale nel movimento filosofico italiano contemporaneo. Uno dei suoi primi
lavori, anzi il primo veramente organico che l’ulteriore sviluppo del suo
pensiero abbia lasciato immune da quelle rielaborazioni più o meno sostanziali
cui, come abbiamo già detto, egli ha sottoposto altri suoi scritti di quel
tempo, voglio dire il volume Metafìsica, Scienza e Moralità, è tutto una
riaffermazione dei princìpi fondamentali della dottrina teistica cosi contro il
naturalismo come contro l’idealismo assoluto. La concezione di Dio quale
Ragione che si esprime continuamente ed eternamente nel mondo, e non come legge
o ordinamento astratto, bensì come soggetto concreto e vivente, è in quel libro
svolta e presentata come la sola concezione metafisico-religiosa, che,
gravitando sulle esigenze morali più profonde della coscienza umana, sulla
considerazione del valore assoluto della persona, contenga di queste esigenze
il riconoscimento e la giustificazione più piena, e fornisca per ciò stesso il
principio di quella sistematica unificazione di tutta la realtà, a cui la mente
umana tende per sua natura, e in cui possono essere inverate le particolari
connessioni di frammenti di realtà che le scienze della natura stabiliscono
mediante le serie causali dei fenomeni. E tra gli scritti meno antichi, due
saggi, dei più elaborati e ricchi d’idee, I diritti della Metafìsica (nel
volume « Pensiero Moderno ») e Idee metafìsiche intorno all’anima (nel II voi.
di « Psicologia e Filosofia »), giungono, attraverso l’analisi dei concetti di
causa e di sostanza, alle medesime conclusioni teistico-spiritualistiche
intorno a Dio e all’anima umana. Dio è la Causa prima, la causa che non è
effetto, postulata qual condizione essenziale della comprensibilità di
qualsiasi fatto particolare in quanto anello di una serie causale: causa la
quale non può esser concepita, se non come analoga alla sola causa vera a noi
nota, che è la nostra stessa volontà in quanto libera, in quanto costitutiva
d’un cominciamento assoluto; non può quindi esser concepita se non come volere
essa stessa, e quindi come causa finale. E Dio è la Sostanza Assoluta. l’Essere
nel quale trova compiuto soddisfacimento l’esigenza del pensiero a cui risponde
il concetto di sostanza: che è il concetto di essere che non è in altro nè per
altro, ma è essere per sè, condizione e presupposto di ogni altra
determinazione, principio e unità reale di ogni molteplicità. E anche per
questo rispetto esso non può venir concepito se non in analogia con quella che
è per noi l’espressione più immediata e genuina della sostanzialità, ossia la
coscienza, che è appunto esistenza per sè, l’io che è immediatamente percepito
come principio unico di una molteplicità di funzioni e di atti, in cui
manifesta la sua realtà. E le sostanze finite possono anche esser considerate
come pensieri di Dio, e quindi come atti di quest’Essere per sè per eccellenza,
purché però l’atto e la funzione di Dio siano intesi come tali che il termine
di essi abbia un essere almeno parzialmente indipendente e sia fornito della
capacità di esistere per sè, di spontaneità e di libertà. Appunto queste
proprietà degli esseri finiti rileva e illustra il De S. nel tentativo di
determinare cosi l’origine come il destino delle anime. L’origine dell’anima la
quale implica, per un lato, la produzione di qualcosa di nuovo e, per l’altro,
la conformità a un ordine di leggi immutabile, può, secondo il De S., esser
posta in rapporto con l’azione divina, purché questa s’intenda appunto come
sostrato reale in cui ha il suo sostegno quell’ordinamento di leggi, per il
quale, in date condizioni, nuovi fatti accadono o nuovi fini e valori vengono
realizzati. E poiché quell’ordinamento è eterno, anche delle anime può dirsi
che esistono ab aeterno, come principi potenziali, i quali aspettano che i
destini si maturino per poter divenire attuali. E una volta divenuti attuali, i
centri reali di vita e di coscienza sono, secondo il De S-, indistruttibili,
appunto in forza del pregio intrinseco che essi posseggono come sostanze: onde
l'affermazione dell’immortalità di tutte le anime. È innegabile, dunque, che
del problema metafisico per eccellenza SARLO presenta costantemente una
soluzione conforme, nei suoi principii fondamentali, al teismo e spiritualismo
tradizionale. Ma bisogna subito aggiungere che nella trattazione di questo
problema della realtà egli è sempre consapevole del carattere meramente
congetturale di quella soluzione, quantunque questa gli sembri meno inadatta
delle altre a dare dei fatti e della realtà conoscibile una certa quale interpretazione
sistematica. Egli non si nasconde mai le oscurità che si oppongono alla piena
intelligibilità dell’Assoluto: non dissimula le antinomie tra le quali la
ragione umana si dibatte ogni volta che pretende di dare della realtà ultima
una definizione esauriente. E’ troppo persuaso dello scarso valore dimostrativo
che possono avere le analogie in base alle quali noi trasportiamo dal finito
all’infinito o estendiamo da una ad altra sfera di realtà i nostri concetti,
perchè si possa credere che egli s’illuda sulla portata effettiva di quelle
ipotesi, anche se l’intimo convincimento suo della preferibilità di quelle ad
altre ipotesi dia talora alla sua trattazione un tono che può parere alquanto
dommatico. Le riserve prudenziali che spesso interrompono la sua trattazione di
tali problemi potrebbero anzi indurre a ritenere ch’egli sia in fondo un
agnostico in fatto di metafisica: ed egli non disdegnerebbe certo questo
epiteto, se per agnosticismo s’intende la persuasione che il mistero
dell’universo è e rimarrà ineluttabilmente un mistero per la mente umana.
Agnosticismo, che ben si concilia in lui con la fede — questa, si, veramente
dommatica nel senso migliore delia parola con la fede sulla validità assoluta
dei princìpi razionali, con l’affermazione che nel fondo della realtà è la
Ragione : si concilia, perchè, data appunto l’ind'pendenza relativa delle
coscienze finite dall’Essere assoluto di Dio, possono da ognuna di quelle
essere colti soltanto frammenti della razionalità in cui questo si rivela come
immanente all'universo. È uno dei caconi della maniera di filosofare del De S.
questo, che l’esigenza dell’unità, la quale è essenziale alla ragione e si
esprime nel suo grado più alto nella posizione del problema metafisico, non può
e non deve essere sodisfatta con l’eliminazione delle differenze che la realtà
presenti e la ragione stessa riconosca come irriducibili, anche se non riesca
poi facile o possibile alla mente umana stabilire come questa molteplicità
irreduttibile possa esser ricondotta o comunque messa in relazione con quel
principio reale di unità assoluta che è Dio. Cito due esempi caratteristici,
relativi al concetto fondamentale di sostanza. Della sostanza, come s’è visto,
noi abbiamo, secondo SARLO., una conoscenza immediata nell’apprensione del
nostro io, in quanto questo è un essere per sè e si manifesta nei fatti
psichici come in atti suoi, senza esaurirsi in nessuno di essi. Da ciò parrebbe
lecito dedurre che il mondo sia costituito di sostanze omogenee, ossia di
esseri che siano per sè come unità di coscienza, anche se tra le varie sostanze
si debba stabilire una differenza di grado: parrebbe cioè giustificato il
monismo spiritualistico. Invece il De S. dedica due saggi ad una critica
stringente di questa soluzione del problema metafisico, che pur parrebbe la più
conforme ai suoi supposti spiritualistici (// monismo psichico e Sullo
spiritualismo odierno, nel volume « Pensiero Moderno »). È vero, egli dice, che
tutto ciò che esiste, per il fatto che esiste, agisce in una data maniera, e
noi non possiamo rappresentarci codesta attività che facendo uso di nozioni
attinte alla nostra esperienza intima, e che quindi in ultimo siamo sempre
spinti a identificare l’esistenza con una forma, per quanto attenuata, di
psichicità. Ma l’analogia non deve far perdere di vista le profonde differenze
esistenti se non altro tra il modo di comportarsi degli obietti e fatti
costituenti la natura esterna e quello degli esseri e processi psichici. Anzi,
per il De S., a rigore non basterebbe opporre al monismo, sia esso
materialistico o immaterialistico, il dualismo : sarebbe più logico parlare di
pluralismo senza aggettivi, esprimente una pluralità di energie e di attività
tanto differenti tra loro,' che a rigore non possono essere accomunate nè sotto
la rubrica spirito né sotto qualsiasi altra rubrica. Come e perchè esista quel
dato numero di principii, cornee perchè esistano quelli e non altri, non è
possibile dire: è un fatto che va constatato, e non si può e non si deve
spiegare; come vanno indagate, constatate e descritte le varie maniere di agire
e reagire reciprocamente di questi vari esseri, ma non si può presumere di
spiegare, nel vero senso della parola, come e perchè si stabilisca la
connessione reciproca di tali esseri che sono esistenti per sè, sebbene nelle
maniere speciali di agire e reagire essi affermino e rivelino la loro
esistenza. Ma vi ha di più: la sostanza vivente e, più in particolare, la
sostanza psichica esiste ed agisce in quanto si sviluppa. Ora uno dei saggi più
penetranti del De S. (Il significato filosofico dell'evoluzione, nel volume Il
Pensiero) è dedicato all’analisi del concetto di evoluzione, ed è uno dei più
significativi per dimostrare come nella concezione metafisica del De S. si
conciliino un temperato razionalismo e un prudente agnosticismo. Il concetto di
evoluzione, lungi dall’essere — come vuole, ad es., l’hegelismo — un principio
esplicativo, e lungi dal dare un’espressione compiuta della realtà ultima, ha
bisogno esso stesso di venir reso intelligibile. E l’analisi critica di tal
concetto rivela la presenza in esso di vere e proprie contradizioni, che non
possono essere eliminate se non considerando lo sviluppo non già come il prius
della realtà, ma come qualcosa di accessorio e di secondario. Il processo
evolutivo, mentre implica necessariamente il tempo, esige l’illusorietà del
tempo; mentre vuol essere creazione, implica già la preesistenza del termine a
cui arriva; si può leggere in esso, almeno post factum, la rispondenza a un
ordine razionale, ma chi dice razionalità, dice estra- temporaneità. Ogni
evoluzione implica dunque qualcosa di assoluto, di perfetto, di stabile, che
rappresenta il principio vero dell’evoluzione. Ecco il risultato, positivo,
certo, cui conduce l’analisi del concetto di evoluzione: ma è una certezza che
fa sorgere nuovi interrogativi: allora, ci si domanda, come e perchè i reali
concreti e finiti sono cosi fatti da dover attuare i fini solo mediante il
processo evolutivo, come e perchè l’ordine si realizza per gradi e attraverso
lo sviluppo? Il che equivale a domandarsi come e perchè esistano esseri finiti
che si trovano con l’assoluto in quegli speciali rapporti. E a questi
interrogativi non è possibile rispondere: ed ecco come, conclude il De S.,
l’evoluzione è un aspetto del « my- sterium magnurn » della realtà. Il problema
dell’evoluzione reale conduce al problema del tempo, e come questo resulta
dalla connessione del flusso con la permanenza, della successione con la
durata, così l’evoluzione poggia sul rapporto del divenire o variare con ciò
che è immutabile, permanente e eterno. Compito df;fa filosofia, dunque, di
fronte al problema più propriamente metafisico sembrerebbe essere, per SARLO,
quello di rendere chiare e in un certo senso acuire e dimostrare insuperabili,
piuttosto che superare, le difficoltà che quel problema offre alla mente umana;
di illuminare i limiti di essa, piuttosto che additarle un varco alla
conoscenza piena dell’Assoluto. Ma non è questo, per il De S., l’unico compito
della filosofia: o meglio, per assolvere questo stesso compito, per condurre la
mer*e umana appunto a queste posizioni che sono al margine del mistero, a
queste che possono dirsi frontiere della conoscenza umana, e per dimostrare che
sono frontiere invalicabili, la filosofia deve, secondo il De S., percorrere il
dominio stesso che innanzi alla conoscenza si stende, di qua da quelle
frontiere: ed è il dominio dell’esperieza nel senso più pieno e più ampio di
questa parola. Prima della dialettica trascendentale e quindi prima della
critica della ragion pratica con i suoi postulati, vi è e vi deve essere una «
Estetica » e una «Analitica», per servirci della terminologia usata da Kant, a
designare un atteggiamento di pensiero analogo, per questo rispetto, a quello
criticistico, anche se, come vedremo, muova da supposti e segua un.
procedimento e giunga a risultati profondamente diversi. L’attività filosofica
di SARLO ha avuto sempre, sin dalle sue prime manifestazioni, un’impronta di
positività, disdegnosa di ogni audacia speculativa, derivante così dalla tempra
del suo spirito come dalla sua educazione scientifica, oltre che dal
convincimento del valore nullo di ogni concezione che non sia un portato
necessario della critica della conoscenza positiva e non abbia quindi una larga
base empirica. Ma questo convincimento, si può dire, si è venuto in lui sempre
più radicando col maturarsi del suo pensiero, sino a divenire il motivo
fondamentale sempre più insistente del suo filosofare; sì che con questa
designazione appunto di filosofia dell'esperienza egli ama contrassegnare la
sua dottrina e il suo metodo, in recisa opposizione alla speculazione
idealistica dei neo hegeliani, che si è andata sempre più affermando in Italia.
Si direbbe che il diffondersi di quell’antiempirismo dialettico ch’egli
considera un vero « contagio » delle menti, l’abbia indotto ad accentuare
sempre più la necessità di ricorrere a cautele immunizzatrici, in un contatto
sempre più stretto, e più esclusivo, della filosofia col sapere empirico; di
ricondurre la filosofia, come in rifugio sicuro, in quei confini entro i quali
essa possa mantenere il carattere di scienza, essere, ai pari delle altre
scienze, un prodotto dei processi logici comuni della mente umana, anziché
l’espressione — mistica o lirica che sia, notevole quanto si voglia per novità
e originalità, ma non suscettibile d’una dimostrazione razionale —
l’espressione, dicevo, di una coscienza e quasi d’un temperamento individuale
traverso il quale la realtà si rifranga. E inaugurando, nello scorso ottobre,
l’ultimo Congresso italiano di filosofia a Firenze, giunse alle affermazioni
estreme che le attuali condizioni della cultura filosofica in Italia esigono un
più o meno lungo periodo di astinenza dall’alta speculazione, e che non il
problema filosofico, quello metafisico intorno alla natura della realtà ultima
e assoluta, ina / problemi filosofici particolari, o meglio questi prima e con
più fiducia e anzi con più sicurezza di successo che quello, e come condizione
per la stessa impostazione non che per ogni tentativo di soluzione di quello,
meritano di essere oggetto dell’indagine filosofica. Ma con ciò, si può
osservare, non è stato sacrificato proprio quello che è il carattere distintivo
del sapere filosofico rispetto alle scienze particolari, e che è appunto la
determinazione della relazione dei distinti, il riferimento della molteplicità
delle distinzioni a un principio unitario? SARLO risponde che la filosofia è
aspirazione alla unità dell’Essere, senza che perciò il filosofo debba
trasformarsi in un allucinato dell’unità. La varietà e la inconciliabilità dei
tentativi compiuti nella storia della filosofia per unificare i reali e-le
conoscenze e per dedurre la complessità dei fatti da un unico principio, sta a
dimostrare, secondo lui, che all’unificazione si giunge colmando con l’immaginazione
le lacune della conoscenza certa e dimostrabile. Gli si può replicare con
l’obiezione consueta, che la vanità di quei tentativi risulta dall’aver cercato
la unità nell’oggetto invece che nel soggetto, nella natura (o in Dio, che è lo
stesso) invece che nello Spirito. Ma il De S. ribatte che anzi appunto
attraverso quel riferimento degli oggetti al soggetto conoscente, appunto
attraverso quella unificazione, diremmo, metodologica e gnoseologica, di tutto
il reale nell’io — che è propria del sapere filosofico —, si rivela la
irriducibilità, diremo, ontologica degli oggetti e dei valori. Infatti, per il
De S., se da un lato la filosofia non può non scindersi in una molteplicità di
discipline, fondate su principii irriducibili (essere e valere, p. es.), dall’altro
lato queste hanno caratteri comuni, che valgano a fare di esse appunto un unico
gruppo, quello delle disciplini; filosofiche. E questi caratteri comuni sono:
I) determinazione dei concetti universali, attraverso i quali la realtà può
essere razionalizzata; 2) riferimento di tutta la realtà allo spirito del
soggetto, in cui e per cui l’esperienza in ogni sua forma si costituisce. Due
caratteri, questi, che sono per il De S. strettamente uniti e come
interdipendenti: perchè le idee universali — ossia le nozioni metafisiche
fondamentali — intanto assurgono a quel grado di fecondità per cui
rappresentano i mezzi di razionalizzazione della realtà, in quanto o sono il
risultato della giustii.jata estensione a tutta la realtà di concetti che
abbiamo direttamente appreso nella coscienza (sostanza, fine, causa), ovvero
sono il prodotto della riflessione sui modi in cui la realtà diviene
intelligibile e acquista consistenza nella mente umana. Lo spirito, in quanto
termine comune di riferimento di tutti gli elementi e fatti della realtà, viene
ad occupare una posizione centrale nel mondo, e la psicologia, come scienza
dello spirito, costituisce il terreno di incontro delle diverse discipline
filosofiche. Si è detto, la psicologia come scienza dello spirito : e di questa
determinazione v’è bisogno per non cadere nei facili equivoci cui può dar luogo
la parola psicologia o psicologismo. Già nei 1903, nel suo poderoso volume I
dati dell'esperienza psichica, il De S. insisteva sulla profonda differenza
esistente tra la psicologia come scienza empirica e la psicologia coinè scienza
filosofica. La prima, quale si è venuta costituendo negli ultimi decenni,
studia l’anima umana come un « obietto» tra gli altri obietti della natura, ha
aspetto e procedimento di una scienza naturale e non mira che alla spiegazione
causale dei fenomeni. Per essa la vita psichica è un complesso di « stati » di
coscienza: i quali, sì, implicano tutti una certa coscienza dell’io (in maniera
che per il De S. non è possibile una psicologia « senz’anima », anche se sia
psicologia empirica): ma il soggetto non è còlto, da questa, in funzione, ossia
nella sua attività tendente a determinati scopi. Si tratta di una
considerazione statico di dati, a cui il concetto di atto è necessariamente
estraneo; di una considerazione che tende a fissare i rapporti condizionali dei
vari ordini di stati psichici e a ridurre il complesso al semplice. La
psicologia empirica deve quindi limitarsi all’«analisi morfologica» della
coscienza, escludente qualunque funzionalità e quindi qualunque dinamismo. Ora
« lo spirito — dice Sarlo — non è una cosa tra le altre cose, ma è il mezzo di
rivelazione della realtà. Come tale lo spirito è universale: universalizza sè
stesso nelle sue funzioni ed universalizza per ciò stesso l’obietto a cui è
rivolta la sua attività ». Ecco perchè lo spirito può considerarsi come in una
posizione centrale rispetto a tutte le cose: e la scienza che lo studia, ossia
la psicologia come “ fisiologia „ dello spirito, è necessariamente scienza
filosofica. Nella considerazione funzionale dello spirito s’impone il concetto
di valore e quindi di fine. Le funzioni dello spirito mercè i loro atti
oggettivano i dati e stati soggettivi; perchè sono determinazioni che
qualificano, sì, il soggettò, ma lo qualificano in rapporto all’oggetto, e
danno quindi luogo a ciò che è universalmente valido, a quelli che sono i
valori oggettivi. La verità, il bene, il bello non sono dei dati o dei fatti:
sono degl’ideali, sono appunto valori, distinti da ogni altro valore unicamente
soggettivo per questo carattere, che sono forniti di una speciale necessità che
è la necessitàdi diritto ben diversa dalla necessità di fatto degli stati
psichici. Quest’ultima denota soltanto che uno stato è inevitabilmente
determinato, nella sua insorgenza, da certe condizioni, una volta che queste
siano date, cioè siano determinate da altre condizioni, e così via; denota cioè
che uno stato o un fatto psichico ha sempre la sua ragione d’essere in altro.
Ma è indifferente al valore di quello stesso stato o fatto, se per valore
s’intende ciò che ha la ragion d’essere in sè e non in altro ossia un valore
incondizionato e assoluto, ciò che deve essere anche se le condizioni
dell’essere non sussistano e quindi la realtà non sia ad esso adeguata. La necessità
psicologica abbraccia indifferentemente nella sua spiegazione così il valore
come il disvalore, così il vero, il bello, il bene, come l’errore, il brutto,
il male. Una tale distinzione di valore, come distinzione obiettiva e
universale, non si può avere se non mediante il riferimento alle leggi
costitutive delle funzioni originarie ed essenziali dello spirito, leggi non
meccaniche, superiori anzi al meccanismo psichico, perchè essenzialmente
teleologiche, indicanti cioè la maniera in cui quelle funzioni agiscono ogni
volta che raggiungono il termine che è costitutivo della loro natura
spirituale, leggi rivelanti la loro natura attraverso una forma di evidenza che
è indizio della loro necessità e universalità. Le leggi logiche e gnoseologiche
definiscono la natura del pensiero, le leggi etiche quelle della volontà, le
leggi estetiche quelle della fantasia. Sono principii o assiomi i quali
significano che il pensiero, il volere e la fantasia in tanto meritano
veramente questo nome e in tanto raggiungiamo il termine che ad esse è proprio,
in quanto si esplicano nel senso indicato da quelle leggi piuttosto che in
altro senso. La distinzione tra psicologia empirica, come scienza dell’anima —
morfologica, naturalistica e la psicologia come scienza dello spirito —
funzionale e filosofica, così nettamente affermata dal De S. nell’opera su
citata del 1903, è forse stata successivamente attenuata in altri scritti, nel
senso che, a suo giudizio, la conoscenza del meccanismo psichico risulta utile
alla determinazione dei modi in cui lo spirito si eleve al di sopra di esso r e
reciprocamente la conoscenza dei fini dello spirito è indispensabile per
l’apprensione esatta del meccanismo che serve di mezzo al raggiungimento di
t'°i. Ma l’attenuazione si riferisce ai rapporti tra le due considerazioni
dell’anima e non elimina con ciò la distinzione. E comunque il De S. non ha mai
cessato di differenziare nettamente ed energicamente il suo psicologismo da
quello naturalistico, che considera i valori dello spirito come « o applicazioni
di leggi psicologiche già operative in altre direzioni, ovvero particolari,
originarie manifestazioni dell’attività psichica, le quali però attingono il
loro significato dall’essere effetti necessari di certe cause psichiche o
risultati inevitabili di processi mentali naturali, e non già dal rispondere a
certi fini od esigenze valide anche se non mai realizzate». Si leggano
specialmente, in proposito, i saggi Lo psicologismo nelle sue principali forme
(nel voi. < Pensiero Moderno »), Vecchia e nuova psicologia, La psicologia e
le scienze normative, e La classificazione dei fatti psichici (nel I voi. di «
Psicologia e Filosofia »). Lo psicologismo di SARLO . non è dunque naturalismo,
ma non è neppure immanentismo: offre anzi a lui il mezzo per affermare e
dimostrare, contro ogni forma d’idealismo immanentistico, il suo realismo
gnoseologico. Se nella determinazione di ciò che è l’essere e, in genere, di
ciò che è oggetto di conoscenza, il De S. ritiene di dovere attenersi ai
criteri generali su esposti del suo psicologismo, non è già perchè egli ritenga
che la psiche e i processi psichici costituiscano la stessa realtà, anzi lo
stesso essere, ma è solo in considerazione delle prerogative che, in ordine
alla conoscenza, sono proprie dell’esperienza psichica di fronte ad ogni altra
forma di esperienza. E queste prerogative sono due: 1) innanzi tutto la così
detta esperienza estèrna si rivela e acquista consistenza sempre attraverso
l'interna, perchè ciò che è direttamente percepito, anche in quelli che sono
comunemente detti oggetti esterni, è sempre il contenuto d’un atto psichico;
l’esperienza interna presenta la nota dell’evidenza (evidenza di fatto)
derivante dalla coincidenza del percepire col percepito; e perciò l’esperienza
psichica rappresenta il vero fondamento per la constatazione di qualunque
esistenza reale, e quindi di ogni sapere empirico. 2) In secondo luogo,
l’esperienza psichica è il solo tramite attraverso il quale tutto ciò che è
(reale o pensabile che sia), l’essere in generale ci si può rivelare. L’io
distinguendosi da tutta la realtà traspare a sè medesimo, e insieme tutta la
realtà diviene trasparente attraverso di esso. Nulla esiste che sia
propriamente nell’io, tranne l’io stesso, e insieme, in un certo senso, nulla
di cui si può discorrere esiste al di fuori dell’io, perchè la cosa, per essere
affermata e riconosciuta, deve in qualche maniera esser presente alla
coscienza. In questo consiste ciò che si può chiamare funzione rappresentativa
della mente. Ma proprio da questo carattere essenziale alla mente il De S.
deriva la necessità di affermare la trascendenza dell’oggetto rispetto alla
mente che lo afferma e lo pone. Noi, egli dice, arriviamo, è vero, al concetto
di essere e di obietto solo mediante la riflessione sull’atto di riconoscimento:
ma questo in tanto è tale, in quanto è provocato da qualcosa di diverso da sè.
La mente, non contenendo la realtà come tale, nè identificandosi con essa, non
può giungervi se non attraverso qualcosa che rappresenti o sostituisca la
realtà medesima. Le rappresentazioni mentali forniscono i segni in base a cui
l’intelletto costituisce la realtà. La realtà, si può anche dire che sia «
percipi « e « intelligi », purché con ciò non si voglia significare che
l’essere si esaurisca nel fatto di essere percepito e inteso, ma solo che non
si ha modo di definire quest’essere prescindendo dalle sue rivelazioni nella
coscienza individuale. La conoscenza vale sempre per altro, si riferisce sempre
ad altro. Non che si tratti di una specie di corrispondenza tra l’obietto
trascendente e la rappresentazione mentale — come grossolanamente si ritiene da
molti critici di tale concezione —, quasi fosse ammissibile un’apprensione
dell’oggetto qual’è in sé al di fuori della coscienza e quindi un confronto tra
la Cosa e 1 idea- L affermazione della trascendenza è imposta dal bisogno di
dare un senso alla funzione conoscitiva qual’è còlta in atto, al fatto
conoscitivo nel suo significato e nell’intendimento che lo anima. Certo, per il
De S., non si deve con Jiò pregiudicare la soluzione del problema metafisico
della costituzioile intima della realtà ultima. La metafisica può anche
giungere alla conclusione che la realtà, divelta da qualsiasi rapporto con la
coscienza, è un non senso, che tutto ciò che esiste, esiste in quanto è
connesso con una coscienza. Ma questo rapporto metafisico non può essere
identificato col rapporto gnoseologico tra obbietto e coscienza in quanto
conoscente. La coscienza nel riferimento alla quale può farsi consistere la
realtà di tutto ciò che è, non è certo la coscienza individuale del soggetto
che conosce questa realtà e la conosce riferendola a sé come altro da sè: anche
quando si sia ridotta metafisicamente la realtà a coscienza, tale coscienza
rispetto al soggetto conoscente, a questo o quel soggetto, è sempre un reale,
un oggetto, è sempre appresa da esso come altro da sè. Il quale ultimo punto
non potrebbe essere negato se ì.'in dimostrando che la distinzione delle
singole coscienze è illusoria e che i rapporti tra gli obietti costituenti
l’universo sono identici ai rapporti tra i fatti psichici di ciascuno. Questa
dimostrazione, per il De S., non può essere data: e ne vedremo il perchè, tra
poco, a proposito della natura del soggetto come reale. E, comunque, allo
stesso modo che la soluzione del problema gnoseologico non deve accogliersi
come tale da contenere o assorbire in sè la soluzione del problema metafisico,
cosi questa — che, d’altronde, può essere solo punto d’arrivo dell’indagine
filosofica, e irta, come s’è già detto, di difficoltà e oscurità d’c^ni sorta
—, non può e non deve pregiudicare la soluzione del problema gnoseologico, sino
a eliminare ciò che è costitutivo del fatto della conoscenza, la dualità di
soggetto e oggetto. L’esperienza psichica — l’abbiamo già detto — è, per il De
S., costituita di atti : e perciò anche il pensiero è atto. Ma chi dice atto,
dice qualcosa che accade nel tempo, qualcosa che sorge e si dilegua in un
determinato punto della durata. E allora, secondo il De S., non si può sfuggire
a questo quesito: se tutta l’esperienza psichica si risolve in un complesso di
atti e se in conseguenza tutto ciò che può essere conosciuto non lo può che
attraverso atti, come é possibile arrivare al concetto di ciò che non è atto,
al concetto, poniamo, di una relazione universale e necessaria tra idee, com'è
possibile arrivare al concetto del mondo della pensabilità, che esclude
qualsiasi elemento di efficienza, di azione reale, e che non è nel tempo?
Appunto per rispondere a questo quesito, occorre negare l’immanenza o l’inclusione
dell’oggetto nell’atto psichico corrispondente. Mentre vi sono contenuti di
coscienza i quali si moltiplicano come si moltiplicano i centri di coscienza,
ve ne sono altri che, pur essendo in speciale rapporto con i primi, rimangono
unici e anzi non sono concepibili che come unici. E anche quando agli obietti
in quanto parvenze non è attribuibile nessuna consistenza reale, non è lecito
affermare che essi si identifichino con gli atti stessi, giacché anche in tali
casi è sempre necessario presupporre ddle condizioni indipendenti atte a
provocare l’esplicazione dell’attività psichica riconosciuta poi come
illusoria. L’esistenza di siffatte condizioni è un presupposto ineliminabile :
o l’attività psichica ch’esse hanno provocata è adeguata alle condizioni medesime,
e allora si è autorizzati a identificarle con obietti reali, aventi
un’esistenza indipendente; o tale esplicazione è inadeguata, e allora s’impone
la necessità di ricercare quale forma di realtà e di esistenza possa essere
attribuita a quelle condizioni. Ma come si può decidere se vi sia o no
adeguazione dell’atto all’oggetto? Qui il De S. insiste sulla distinzione tra i
due ordini di oggetti conoscibili: gli obietti concreti e individuali (con le
loro qualità) da una parte, e gli elementi ideali o intelligibili, dall’altra.
L’esistenza è fornita sempre dall’esperienza: o è dato sensoriale, o è dato
della coscienza, e non può non occupare tempo ; l’intelligibile, invece, è
sempre formulabile per mezzo di un rapporto o di un complesso di rapporti, ed è
estraneo alle vicende del tempo. E il fondamento della cognizione, in rapporto
a questi due ordini di obietti, è da un lato la percezione dei fatti psichici e
di ciò che è relativo ad essi, e dall’altro la conoscenza di certi principii e
assiomi costituenti come l’ossatura della ragione; da un lato, cioè, l’evidenza
di fatto, fornita, come si è già accennato, dalla diretta esperienza che
abbiamo di noi stessi, e, dall’altro, la necessità razionale, qual’è còlta nei
principii logici. Questa distinzipne, però, non è da intendere, secondo il De
S., nel senso che l’apprensione dell’esistente e della sua qualità possa farsi
indipendentemente dal pensiero logico. Il fatto individuale non è
caratterizzabile che mediante nozioni universali; e 1 intelligibile, se può
essere considerato per sè (astratto) solo per opera della mente, è tanto
intimamente connesso (consubstanziale) con resistente, col puro fatto, che
questo non può formare oggetto di conoscenza se non per ciò che contiene di
inttj ligibile. È il pensiero che deve in certo modo investire di sè i
dati'dell’esperienza psichica per og- gettivarli affermandoli, facendone cioè
termini di atti giudicativi, e trasformarli così in reali conosciuti. Più in
particolare, è il pensiero che fa di quella sfera dell’esperienza psichica che
è la sensibilità, il tramite di una realtà trascendente la coscienza, e fa
delle qualità sensoriali non soltanto contenuti psichici — aventi la realtà
stessa di altri contenuti psichici, come sentimenti, volizioni ecc., aventi
cioè resistenza che è propria degli stati o atti di quel prototipo di realtà
individuale che è l’io —, ma fenomeni d’una realtà trascendente. Il pensiero
pone e risolve il problema della realtà di un correlato obiettivo delle q alità
sensoriali, in quanto da un Iato queste non sono meri contenuti di coscienza o
creazione del soggetto — come dimostrano la coerenza e permanenza che presenta
l’esperienza sensibile e le variazioni a cui questa può andar soggetta
indipendentemente da qualsiasi rapporto con la coscienza individuale — ; e
dall’altro lato non sono cose in sè — come dimostra la loro relatività alle
condizioni subiettive, per cui è impossibile dire chiaramente in che cosa
consistano, per sè prese. D’onde risulta che esse hanno una forma di esistenza
speciale che è appunto l’essere proprio dei fenomeni. Ora questo correlato
obiettivo delle qualità sensoriali può essere raggiunto solo per opera del
pensiero e non è determinabile nei suoi tratti essenziali che in base ai
principii razionali. Il pensiero rappresenta, pertanto, il solo mezzo per
distinguere l’apparenza dalla realtà, anzi il solo mezzo per attribuire un
significato a tale distinzione. Le parvenze sensoriali, i puri fenomeni e le
forme intuitive dello spazio e del tempo non possono non essere constatati, e
quindi come pseudo-esistenze, non possono non divenire obietti di conoscenze
immediate, nella forma di giudizi percettivi (pensiero tetico, immediato,
concreto). E quando i dati così affermati si trovino in contrasto col sistema
delle conoscenze organizzate intorno ai principii razionali, il pensiero
medesimo è chiamato a decidere in ultima istanza su ciò che va affermato come
reale e ciò che va riguardato come apparenza, è chiamato a decidere intorno
all’obbiettivo e al subbiettivo. Se già l’esistenza come tale esige, secondo il
De S., l’intervento del pensiero logico, s’intende che anche l’essenza del
reale non possa, e con più forte ragione, esser determinata che dal pensiero.
Essa consiste in relazioni, nelle quali la mente traduce ciò che dapprima è
soltanto sperimentato e vissuto (somiglianza e differenza, nesso di dipendenza,
rapporti quantitativi, rapporti di azione e passione, rapporti spaziali e
temporali atti a fornire le coordinate per l’individuazione). L’intelligibile,
distrigato dal reale per mezzo dei processi intellettivi, finisce per assumere
l’ufficio di segno rispetto a ciò che è posto come indipendente dal soggetto e
come sussistente. E il progressivo sviluppo della conoscenza è determinato dal
bisogno di fissare ciò che nella realtà vi ha di conforme alla ragione e quindi
di assimilabile da essa mediante la traduzione della realtà stessa in rapporti
razionali. La credenza che l’obietto sia sempre risolubile in elementi
intellettuali è il presupposto e anzi l’anima di qualsiasi conoscenza. La
realtà esistente, dunque, non può essere posta che dal pensiero in quanto
giudizio tetico; e non può essere conosciuta nella sua struttura se non nella
misura in cui il pensiero la traduce in un complesso di rapporti intelligibili.
Ma — e con ciò Sarlo riafferma il carattere nettamente realistico del suo
razionalismo — i termini di questi rapporti e il contenuto di quelle « tesi »
non sono risolvibili in pensiero.Vi è sempre distinzione, secondo il De S., tra
lo sperimentare e il pensare, nel senso che quello non è derivabile da questo,
anche se non possa divenire sperimentare «obiettivo », e quindi conoscere, che
per mezzo dell’attività del pensiero; vi è distinzione tra il pensiero come
oggetto di conoscenza, come pensabile o pensato, e il pensiero come attività
d’un soggetto, volta a raggiungere la verità — sia questa un dato di fatto o
un’idea —, come pensiero pensante. È questa la natura dei rapporti, il cui
complesso costituisce la pensabilità del reale: da un lato essi sono il
risultato di atti (riferimento) compiuti dal soggetto, sì che, come tali,
parrebbero immanenti a una mente e quindi il prodotto di un soggetto. Ma
dall’altra parte non sono posti arbitrariamente; sono, più che suggeriti,
imposti da esigenze obiettive. Nè l’inlelligibiiità dei rapporti viene ad
essere facilitata dal riferimento di essi ad una Mente universale. Con ciò i
rapporti vengono consideratifcome creazione arbitraria di tale Mente ? E allora
ogni analogia di questa con la mente umana verrebbe ad essere cancellata, e il
ricorso ad essa diverrebbe inutile allo scopo. Vengono, invece, i rapporti
considerati come espressione di una necessità intrinseca alla natura delle
cose? E allora la Mente universale non è che il nome per esprimere la coerenza
logica, l'intelligibilità nel suo aspetto obiettivo; i»/telligibilità che può
condurre la mente ad ammettere un’Intelligenz.l! assoluta, senza che però
questa sia assunta a principio esplicativo della razionalità: la razionalità
vale per sè, indipendentemente dall’essere insidente in una mente. Quel che noi
possiamo dire, conclude in proposito il De S. t è che i rapporti, quali possono
essere studiati dall’intelletto finito individuale, suppongono obietti
(termini) nella cui proprietà hanno il loro fondamento, e che le relazioni,
realizzate in questa o quella coscienza mediante gli atti di riferimento, sono
il riflesso delle relazioni obiettive. Il problema gnoseologico, s’è visto, non
può, secondo il De S., essere convenientemente trattato se non quando si tenga
presente che il soggetto a cui, nel fatto conoscitiva, vien riferito l’oggetto,
è il soggetto individuale; e la soluzione réalistica ch’egli ha dato al
problema potrebbe essere compromessa esclusivamente nel caso che si fosse
riusciti a dimostrare, in sede metafisica, non solo che la realtà non può esser
resa intelligibile che quando sia considerata come il pensiero di una Mente
Universale, ma anche che la distinzione delle coscienze individuali tra loro e
dalla Mente Universale sia illusoria. La dimostrazione di questo secondo punto
è per il De S. impossibile. Intanto l’aver riconosciuto che l’esperienza
psichica è costituita essenzialmente di atti, non significa per il De S.
affermare che il soggetto dell’esperienza psichica si risolve in null’altro che
in un complesso di atti. È il concetto e l’esperienza stessa di atto che rinvia
per necessità al concetto di soggetto come di un reale distinto da ogni altro
reale e quindi da ogni altro soggetto. Certo, non è possibile determinare la
natura del soggetto (unità reale) senza riferirsi agli atti ch’esso compie: ma
alla variabilità degli atti non corrisponde la variabilità dell’unità del
soggetto. L’individuo non può non aver coscienza di essere in rapporto con
altro da sè per mezzo di atti da sè stesso compiuti; ma se esso non distinguesse
sè (come principio degii atti) dagli atti stessi, e questi dagli obietti a cui
gli atti sono rivolti, non potrebbe parlare di atti suoi numericamente distinti
da quelli degli altri individui. Inoltre il soggetto si fa, si crea con i suoi
atti, ma perchè possa farsi e crearsi, occorre che vi sia un principio reale,
un dato iniziale e quindi qualcosa di già fatto. La creazione non è ex nihilo;
e la stessa potenzialità o capacità è concepibile soltanto come inerente a
qualcosa di attuale, come funzione possibile di un essere. Non può, dunque, la
coscienza essere ridotta al mero complesso degli atti e fatti psichici. Ma non
può neppure, d’altra parte, — sostiene il De S., confutando in svariatissime
occasioni la tesi idealistica —, non può neppure essere ridotta a una mera
equazione di pensante e pensato, alla pura relazione formale d’identità tra
conoscente e conosciuto. L’idealismo afferma che la suicoscienza è il grado
supremo dell’evoluzione d’un principio ideale, d’una legge, d’un universale; quello
in cui la realtà, che negli stadi inferiori si presenta come scissa dall’idea,
come essere distinto dal pensiero, come oggetto opposto al soggetto, rivela
invece la sua più intima natura, che è appunto unità e identità di soggettivo e
di oggettivo, di pensante e di pensato, di essere e di pensiero.
Quest’affermazione è per il De S. risultato d’una confusione derivante dal
significato equivoco EQUIVOCO GRICE della parola coscienza. Quando si parla di
coscienza e di suicoscienza, egli dice, bisogna distinguere tra la suicoscienza
vera e propria, fondata sulla capacità che ha l’io di ripiegarsi su se stesso e
di percepire il complesso dei fatti psichici come incentrantisi in un punto; e
la coscienza, in senso largo, come espressione dello speciale rapporto che può
esistere tra l’oggetto e l’io come conoscente. Quanto alla prima, l’equazione
di pensiero e di pensato non è che l’espressione, in termini intellettuali,
d’una esperienza vissuta sui generis, di un fatto che può essere indicato ma
non definito, perchè per sè preso oltrepassa il pensiero, e non può assumere
carattere di necessità razionale. E quanto alla seconda, la identificazione dei
due termini del rapporto conoscitivo non può ottenersi se non sostituendo
all’io empirico il cosi detto io universale o coscienza in generale o io
trascendentale. Ma osserva il De S., o con ciò s’intende quello che è comune
alle menti individuali ; e allora non si vede come si possa distinguere il
soggettivo psicologico dal soggettivo gnoseologico. 0 s’intende qualcosa che
vale indipendentemente da questa o quella coscienza empirica, che esprime il
modo come lo spirito deve operare perchè sia veramente tale, le esigenze
dell’intelligibilità significanti veri e propri compiti impditi da ciò che è
indipendente dal soggetto; e allora non v’è più ragione di parlare di io, di
soggetto, quando la soggettività si è identificata/con la razionalità, con
l’intelligibilità, che è anzi l 'oggetto della conoscenza e del pensiero
pensante. Ma da tale concezione della coscienza come di categoria delle
categorie, questo solo, secondo il De S., si ricava, che la realtà in tanto può
essere conosciuta ed essere compenetrata dal pensiero, in quanto è concepita
essa tessa come implicante pensiero. Il che poi significa che la realtà è fcosì
fatta da imporre certe esigenze alla mente individuale, ossia che nell’obietto
vi è qualcosa atto a provocare il riconoscimento. Ma il passaggio dalla
intelligibilità in quanto esigenza del riconoscimento da parte del soggetto,
alla riduzione della realtà a un processo di autocoscienza, all’affermazione
che nella realtà stessa non si trovi niente di più di ciò che è in noi stessi
quando giungiamo a identificarci e a riconoscerci, non è affatto giustificato.
L’autocoscienza, piuttosto, è già nel fondo della realtà, indipendentemente da
noi: non è dunque l’autocoscienza, quale si presenta negli individui singoli,
l’espressione genuina e compiuta della realtà. Nè vale ammettere
l’autocoscienza come potenzialmente esistente ab aeterno e attuantesi poi negli
individui: si riaffaccia allora quella suprema difficoltà contro cui, come già
si è accennato, urta sempre il pensiero umano, la difficoltà d’intendereA:ome
da ciò che è puramente pensabile, ideale, estratemporaneo, uno, si passi a ciò
che è reale, attuale, temporaneo, contingente, diverso, mutevole. Non è
possibile considerare soggetti molteplici che sono nel tempo e hanno uno
sviluppo e sono direttamente impenetrabili e incomunicabili, come
determinazioni, differenziazioni o sezioni dell’Uno, sol perchè essi hanno il
potere di superarci limiti del tempo idealmente e di elevarsi al mondo della
pura razionalità. E una riprova di questo è l’esistenza dell’errore logico,
etico, estetico che dimostra, come già si è visto, la possibilità d’una
discrepanza fra le funzioni psichiche e le categorie o principii ideali, di
qualunque ordine siano, tra la necessità psicologica e quella deontologica.
Questa distinzione tra la necessità di fatto e la necessità di diritto, tra ciò
che è ed è per opera di un soggetto reale e quel che dovrebbe essere in virtù
di principii razionali, è il presupposto da cui, è naturale, muove più
particolarmente il De S., nelle sue indagini di etica (per cui v. specialmente
VAttività pratica e la coscienza morate e i Principii di scienza etica). Per lui
tutta la vita morale ha il suo fondamento in certi principii valutativi che si
rivelano alla coscienza come forniti d’evidenza immediata analoga a quella
logica: veri e propri assiomi morali, la cui azione pervade le particolari
contingenze della vita pratica. Compiti dell’Etica sono perciò questi: a)
determinare la natura del- Vevidenza pratica (necessità e universalità) e- il
contenuto di queste condizioni essenziali nella vita morale (e per il De S.
tali principii si riducono a quelli della dignità e della perfezione personale,
della giustizia e della benevolenza); — b) porre in luce lo svolgimento storico
di tali principii, in quanto, pur essendo stati sempre operativi, hanno
dispiegato variamente la loro efficacia in relazione con il variare delle condizioni
della civiltà; — c) considerare tutte le istituzioni — per qualunque via
primamente sorte — alla luce degl’ideali etici, come organi dell’attuazione di
essi. II De S., nella trattazione di questi problemi, afferma l’autonomia dello
spirito nel senso che il soggetto è tratto dalla sua stessa natura a dare
l’assentimento a principii superiori al suo io empirico. Egli quindi ammette
una forma di esperienza morale specifica e distinta da ogni altra forma di
esperienza spirituale, scientifica, estetica, religiosa ecc. La specificità di
questa esperienza è la condizione che rende possibile una scienza etica: della
quale egli insiste nel rivendicare l’autonomia e la priorità rispetto a
qualsiasi concezione propriamente metafisica. La Metafisica ha nell’etica una
delle sue basi più solide — e a tal principio è ispirato, come abbiamo visto,
tutto il volume del De Sarlo "Metafisica, Scienza e Moralità „ — ; ma
nessuna teoria morale può, secondo lui, essere costruita alla luce di una
determinata concezione generale dell’universo, piuttosto che sulla base
dell’analisi dell’esperienza morale. Come si vede, di fronte al problema etico
il De S. mantiene fermo quello stesso atteggiamento — che abbiamo più
particolarmente illustrato a proposito del problema gnoseologico — di stretta
aderenza all’esperienza, come tramite traverso il quale soltanto ci si rivela
nella sua efficienza e nella pienezza del suo contenuto ciò è che universale e
razionalmente necessario. A coloro che trovassero troppo modesto il compito
cosi assegnato alla filosofia, il De S opporrebbe volentieri le parole che Kant
scrisse all’indirizzo dei «metafisici» del suo tempo: «Il nostro disegno può
mirare a costruire una torre alta fino al cielo: ma il materiale è appena
sufficiente per una casa, spaziosa tuttavia abbastanza per le occupazioni
nostre sul piano dell’esperienza e alta a sufficienza per abbracciare questa
d’uno sguardo ». E comunque « le alte torri e i grandi metafisici simili ad
esse, intorno a cui (sia le une che gli altri) generalmente spira molto vento,
non sono fatti Der me. Il mio posto è la feconda bassura dell’esperienza. SAGGI
DI FILOSOFIA La Vecchia e la Nuova Frenologia. La nozione di Legge L’origine
delle tendenze immorali. Il senso muscolare. L’ohbietto della Psicologia fisiologica.
La filosofia dell’attività : Paulsen. TORINO CLAUSEN Roma. Tipografia di G.
Balbi Via Mercede. La vecchia e la mura Frenologia Fatto psichico e fatto
fisiologico o fisico sono denoaminazioni esatte, precise e intelligibili,
meglio che le parole spirito e corpo, le quali, come già ebbe a notare il
Renouvier, peccano per la loro indeterminatezza e pre.suppongono già
un’opinione formata sulla natura del sostrato dei fatti psichici e di quelli
fisiologici. La distinzione tra detti fatti porta con sè la ricerca della
relazione esistente tra loro: nè può essere altrimenti, data l’intima
connessione di entrambi. Non deve quindi far meraviglia se da vari punti di
vista, sia stata indagata tale relazione e mentre dapprima sì fissò
l’attenzione sull'azione che lo spirito in genere può esercitare sul ‘corpo
preso nel suo insieme e viceversa questo su quello, negli ultimi tempi in
seguito al progresso delle scienze positive e della critica della conoscenza si
è badato massimamente alla relazione tra singoli fatti psichici e de‘terminati
fatti e processi fisici (1). In ogni modo la relazione esistente tra l’anima e
il corpo può formare oggetto d'indagine da due diversi Chi voglia avere un
esatto, comunque riassuntivo, ragguaglio .delle varie maniere con cui successivamente
è stato considerato dai filosofi, il rapporto tra spirito e corpo, può
consultare il volume del Bain L'esprit et le corps. Paris, Germer et Bailliére.
LA VECCHIA E LA NUOVA FRENOLOGIA punti di vista: i° Si può considerare il
rapporto esistente tra determinati stati di tutto il corpo coi suoi vari organi
e dati fatti psichici, si può in altri termini considerare l'azione che il
fisico esercita sul morale e viceversa il morale sul fisico: esempi di tale
trattazione ci vengono forniti dai classici lavori del Cabanis e dell’Hack
Tuke; 2° si può limitare l’indagiue al rapporto esistente tra il fatto psichico
e la corrispondente variazione dell'organo rivelato dall'esperienza in precipna
connessione colla psiche (sistema nervoso). La prima indagine non ha interesse.
particolare e decisivo per la soluzione del problema filosofico concernente la
natura dello spirito : ed infatti l’azione reciproca, come si dice, tra fisico
e morale non è negata da nessuno in tesi generale, comunque: possa essere
variamente interpretata, ed aggiungeremo che le descrizioni che di quella
possediamo sono pressochè complete e definitive. Per l'opposto la seconda
indagine riguardante il rapporto tra sistema nervoso e fatti spirituali non
solo costituisce un elemento importante per poter risolvere il problema
capitale della psicologia che è quello della natura e del modo di esplicarsi
dell’attività spirituale, ma è causa delle maggiori discrepanze tra i vari
filosofi. È nostro intento di fermarci appunto su questa seconda indagine per
vedere se nello stato attuale della fisiologia e della psicologia sia possibile
venire ad una soluzione definitiva e razionale. Bisogna risalire al secolo XVII
per trovarele prime indagini fatte allo scopo di cogliere il rapporto esistente
tra il cervello e l’anima: e ciò sì comprende dileggieri, se si pone mente al
risveglio delle scienze naturali caratteristico di quel tempo: già il sistema
copernicano aveva portato una trasformazione nelle idee generali riflettenti
l'universo; la meccanica aveva ricevuto da Galilei ‘una base solida, donde la
tendenza a ridurre i fenomeni fisici a fenomeni meccanici; e Harvey colla
scoverta della -circolazione sanguigna aveva presentato il principale motore
della vita, il cuore, come una pompa aspirante e premente. Non è quindi a far
meraviglia se agli occhi di Cartesio, il quale cercò di formare un sistema
completo delle cognizioni naturali del suo tempo, la natura .sî sia presentata
sotto l'aspetto meccanico, il corpo animale come una macchina naturale e il
cervello come un congegno atto a contenere in un dato punto l’anima -di natura
semplice ed inestesa. Non bisogna però credere che prima del XVII secolo non
fosse stata messa in alcun modo in chiaro la connessione esistente tra il
cervello e l’anima: non poteva non fermare l’attenzione di chiunque il fatto
per sé ovvio che animali sd uomini, dopo aver ricevuto una lesione al cervello,
mostrano un mutamento notevole nelle loro condizioni psichiche, C’è stato chi è
arrivato a Democrito, Eraclito, Areteo, Ippocrate, ecc., i quali avrebbero
fissato in astratto che ad ogni manifestazione e modificazione della natura
corrispondesse una pacticolare organizzazione cerebrale. Aristotele nel
:onfrontare la intelligenza deli'uomo con quella degli animali, vedendo
nell’uomo la testa più piccola che negli altri animali, ne inferì che fra gli
uomini la intelligenza è in ragione del minor volume del capo. Gregorig Nisseno
faceva il seguente paragone del cervello umano: È una città, in cui tante
strade di andata e ritorno pegli abitanti non fanno confusione, perché ciascuna
ha il suo punto di partenza e di arrivo determinato . È un antichissimo accenno
alla divisione delle funzioni. Ma le prime ricerche sperimentali che si conosca
essersi fatte sul cervello umano, sono di Galeno, il quale disse che la forma
del cerebro era quale con‘viene, e quale sarebbe se, prendendo una palla di
cera in forma rotonda perfetta, la si premesse leggermente ai lati per modo che
rse-atasse la fronte e la calotta con un po’ di gobba. In conseguenza colui big
isdihy SAGGI DI FILOSOFIA. La Vecchia e la Nuova Frenologia. La nozione di
Legge. L’origine delle tendenze immorali. Il senso muscolare. L’ohbietto della
Psicologia fisiologica. La filosofia dell’attività: Paulsen. TORINO CLAUSEN
Roma, Tipogratia di G. Bulbi. Via Mercede La vecchia e Ta nova Freologa. Fatto
psichico e fatto fisiologico o fisico sono denominazioni esatte, precise e
intelligibili, meglio che le parole spirito e corpo, le quali, come già ebbe a
notare il Renouvier, peccano per la loro indeterminatezza e pre.suppongono già
un'opinione formata sulla natura del sostrato dei fatti psichici e di quelli
fisiologici. La distinzione tra detti fatti porta con sè la ricerca della
relazione esistente tra loro: nè può essere altrimenti, data l'intima connessione
di entrambi. Non deve quindi far meraviglia se da vari punti di vista, sia
stata indagata tale relazione e mentre dapprima sì fissò l’attenzione
sull'azione che lo spirito in genere può esercitare sul corpo preso nel suo
insieme e viceversa questo su quello, negli ultimi tempi in seguito al
progresso delle scienze positive e della critica della conoscenza si è badato
massimamente alla relazione tra singoli fatti psichici e determinati fatti e
processi fisici. In ogni modo la relazione esistente tra l’anima e il -corpo
può formare oggetto d'indagine da due diversi Chi voglia avere un esatto,
comunque riassuntivo, ragguaglio delle varie maniere con cui successivamente è
stato considerato dai filosofi, il rapporto tra spirito e corpo, può consultare
il volume del Bain L'esprit et le corps. Paris, Germer et Baillière essere
adempiute con scrupolo nei loro più minuti particolari. Se nou che tutto
questo, a dire il vero, piuttosto che ai tempi primitivi dell'umanità si
riferisce a quelli in cui gli uomini si sono già organizzati in gruppi più o
meno vasti con capi politici e religiosi. Questi capi sì finsero o si
credettero effettivamente ispirati da esseri sovrannaturali e legiferarono: e
le loro leggi furono varie secondo le condizioni dei popoli e i criteri
politici e religiosi, dai quali i detti capi furono guidati. Riassumendo,
nell’inizio, in qualsiasi aggregazione umana non esiste dritto nè legge nel
vero significato della parola’ ma bisogni umani che possono essere sentiti e
riconosciuti di necessaria soddisfazione. Se per comune volontà la
soddistazione di quei bisogni con talune modalità o limiti riconosciuta
legittima, viene conseguita, si hanno allora alcune consuetudini che non
possono a rigore dirsi giuridiche, perchè manca un potere tutelatore, ma
preparano l’apparizione delle forme giuridiche, dei dritti, iniziando la
trasformazione dei rapporti bio-etici in rapporti giuridici. Se poi quelle
consuetudini si formano sotto la direzione di colui che sta a capo
dell'associazione, allora esse meritano il nome dì giaridiche. E posto che il
dritto, subbiettivamente inteso, sia la facoltà di operare in una maniera
determinata, riconosciuta legittima e necessaria dall'autorità sociale,
obbiettivamente sì presenta sotto questi due aspetti: 1° sotto quello della
garentia o protezione che ha vita appunto con le disposizioni legislative, con
leleggi; 2° sotto quello di un insieme di azioni umane, svolgeutisi nei limiti
e con le modalità stabilite da queste leggi. Di guisa che il dritto è il
complesso delle norme generali dell'operare umano necessarie al conseguimento
dei fini sociali ed individuali dell'uomo. Se non che qui giova notare che non
è perfettamente conforme al vero affermare sic et simpliciter che le
consuetudiri sì fissino nelle leggi giuridiche, ma invece occorre dire che dopo
la separazione delle consuetudini propriamente dette dal dritto, quest’ultimo
si vale dei mezzi di obbligazione esterna, mentre le prime adottano i mezzi più
blandi dell’imitazione e del ri. spetto dell'opinione pubblica. Le consuetudini
ed il diritto hanno però per lungo tempo questo di comune che il valore delle
loro norme è fondato tutto sull'uso e sull’abitudine. La /egge (lex)
espressamente ‘formulata e quindi letta e quella scritta (Vorschrift,
prescrizione) sono di origine molto più tardiva ed anche dopo che sono sorte,
abbracciano in modo molto incompleto il diritto che vige nella società: dritto
che si differenzia dalle pure consuetudini per la costrizione fisica di cui
effettivamente si serve. Presso i Romani queste leggi non scritte, da cui però
attingeva la legislazione scritta, queste consuetudini si dissero 120res per
accennare all'assenza in esse di ogni forma di promulgazione esterna reputata
caratteristica della legge vera e propria (lex da legere). Presso di noì moderni
la differenza tra consuetudini e leggi s'è andata sempre più accentuando per il
fatto che le prime sono andate perdendo di valore a misura che si è lasciato
maggior campo alla esplicazione della libertà ed iniziativa individuale e che
in riguardo ad esse è venuto meno ogni mezzo di costrizione. Per contrario è
divenuto molto più sensibile il carattere obbligatorio delle norme giuridiche
basato appunto sui mezzi di costrizione esterna. Come si vede, nel concetto
originario di legge non era incluso per niente il significato che oggi si dà
alle leggi naturali, quali rapporti costanti esistenti tra dati termini, ma
bensi, quello di norme o regole dirigenti l’attività umana. In questo senso
Empedocle considera il divieto di uccidere gli esseri viventi quale legge
applicabile fin dove si estende la luce del sole e lo spazio infinito e Sofocle
fa dire ad Antigone che i comandi divini non scritti, ma imprescindibili, hanno
valore non da ieri o da oggi, ma ab aeferno e nessuno sa da quando sono stati
rivelati. In Eraclito troviamo solo un accenno a concepire la legge divina
quasi come una legge naturale, quando dice, che tutte le leggi umane tendono ad
avvicinarsi a quella divina, in quanto questa è onnipotente e forte abbastanza
per dominare tutte le altre leggi ; qui la legge divina non solo è considerata
come una norma dello svolgimento dell’attività umana, ma come fattore
essenziale dell’ armonia universale chiamata anche da Eraclito col nome di
Dike. Decorse però molto altro tempo prima che la nozione di legge fosse libera
dagli elementi ad essa inerenti nel suo significato originario: basta pensare
che i sofisti riguardavano il Nomos ela Fise, la legge e la natura delle cose
come antitesi inconciliabili, per convincersi che in quel tempo il concetto di
legge (intesa questa quale forma dell'ordinamento naturale) non poteva in alcun
modo prendere consistenza ed acquistar valore ed anzi va notato che gli autori
di quel tempo ponevano ogni cura a differenziare la legge dalla natura,
osservando che la legge era stata data dagli nomini, mentre la natura di tutte
le cose era stata ordinata dagli Dei. E quei filosofi che riconoscevano le
leggi naturali nel senso moderno si guardavano bene dal chiamarle con tal nome:
Democrito, per esempio, chiaramente espresse il concetto che niente di casuale
avviene nel mondo, ma tutto ha la sua ragione necessaria; se non che egli non
parlò mai di leggi naturali, bensi d ella necessità di ogni evento, anzi fu
egli che pose la legge di rincontro alla natura delle cose. Del pari Platone ed
Aristotele parlarono della necessità a cui sottostanno tutti i fatti della
natura, comunque la subordinassero poi all’ attività finale di questa, ma non
ci fu caso che essi considerassero tale necessità quale legge della natura.
Questo nome fu da essi conservato esclusivamente per designare le norme
dell’operare umano, distinguendo le leggi particolari dei singoli stati,
suddivise poi alla lor volta in leggi scritte e non scritte, dalla legge morale
universale per cui gli uomini son tratti istintivamente a giudicare
(uivtevovta:) del giusto e dell’ingiusto. Teofrasto più precisamente disse che
per tale via tutti gli uomini, in forza dell'unità della loro natura, sono
spinti a considerarsi come affini o aventi una medesima origine. Tale legge,
diciamo così, naturale però sta a significare soltanto un'esigenza pratica
della natura umana, non una necessità incorabente al modo di agire delle forze
naturali: e se Aristotele una volta si avvicina ad un tale concetto, non
tralascia di osservare che è solamente in senso improprio che si può parlare di
legge naturale (1). Bisogna arrivare a Zenone per trovare adoperata la (1) V.a
tal proposito, Zeller: Philosophie, der Griechen, Vol. I, pag. 1005 e segg.,
Vol. II pag.865 e segg.; V. inoltre Zeller: Vortrige u. Abhandlungen. Dritte
Sammlung. Leipzig prima volta la nozione di legge ad esprimere l' ordinamento
della natura, il che parrà logico a chiunque conosce la struttara del sistema
stoico. Dagli stoici infatti fu affermata la necessità di ogni evento,
l'inviolabilità dell’ordine naturale tanto più decisamente in quanto Epicuro
aveva ammesso l’arbitraria declinazione negli atomi e il libero arbitrio
nell'uomo. Se Democrito ed Epicuro rifuggirono dal designare il corso
necessario degli eventi naturali col nome di legge, perchè ciò poteva far
considerare l'ordinamento della natura quale opera di un volere superiore e di
un'intelligenza plasmatrice dell’universo, gli stoici avendo ricondotte tutte
le cose ad una sola causa riguardata non soltanto come sostanza materiale, ma
come Forza creatrice o Ragione, furono spinti a considerare il concatenamento
delle cause naturali e il necessario svolgimento dei fatti come mezzi per cni
la Ragione universale potesse attuare i suol fini. Da tai punto di vista tutto
l’ordinamento dell'universo sì presentò come un prodotto del volere di detta
ragione, in altre parole come la legge che essa aveva dato ; ed anzi essa
stessa fu chiamata legge naturale, e se qualche volta la natura piuttosto che
la ragione figurò come legislatrice, | se sì parlò di leggi della natura a cui
tutto doveva sottostare, compreso l’uomo, ciò avvenne perchè la natura nella
sua intima essenza era fatta coincidere colla ragione universale (divinità)
(1). In tal guisa è giustificato il detto di Zenone che la legge naturale è una
legge divina. Quid enim aliud est natura quam Dcus et divina ratio toti mundo
ct partibus cius inserta ? Seneca, De Benef. La legge universale fu riposta
nella Ragione somma, la quale penetra da per tutto, onde Cleanto nel suo inno,
dopo aver detto che Giove tutto regola in conformità di una legge, chiama le
esigenze morali egualmente leggi. Qui non troviamo differenza notevole tra la
legge naturale e la legge morale. Del resto tutta la dottrina morale stoica è
fondata appunto sul principio di dover vivere in conformità della natura,
principio, il quale non dice altro. che la legge morale è legge naturale
dell'’operare umano. La nozione di legye naturale qui nor appare delimitata in
modo netto da non poter essere confusa per l’origine e per la forma colla
legislazione positiva e per il contenuto colla legge morale, essendo guidato il
volere divino dal fine di procacciare il maggior bene agli esseri ragionevoli.
Sembra adunque che fosse dalla scuola stoica che l'espressione di legge
naturale passasse nell'ordinario linguaggio, tanto più che l’indeterminatezza
del suo significato rimase immutata per il resto dell'evo antico e medio. Le
leggi governanti la natura al pari di quelle obbligatoriamente regolanti le
azioni umane figurarono come comandi divini : e senza badare se tutti gli enti
avessero la capacità propria dell'uomo di dare ascolto ai detti comandi, le
leggi naturali furono presentate quali ordini positivi provenienti
necessariamente da una Volontà superiore. A questo punto giova notare che il
sentimento mitico della natura per cui i fenomeni di questa furono riguardati
espressioni di impulsì e di tendenze interne, trovò il suo appoggio
nell’analogia esistente tra il corso invariabile dei fatti naturali e
l’indirizzo, regolato da norme fisse, degli atti della vita umana; indirizzo
alla sua volta fondamentato almeno in parte sul succedersi ritmico dei bisogni
fisici. Alla costrizione esterna si sostitni l'esigenza interiore emotiva per
cui si fu tratti a conformare il proprio modo di operare all’operare della
natura. Il divino dall’uomo posto nella natura si riverberò sull'uomo stesso
quando gli atti divini (fatti naturali) furono posti come modelli della
condotta umana; cosi l'ordine della natura divenne esemplare dell'ordinato
svolgersi delle consuetudini umane e la nozione di legge che ricevette la sua
prima determinazione nella società umana e che fu trasportata allo studio della
natura in seguito ad una tardiva riflessione, appare derivata nei suoi
fondamenti primitivi ed originarii dalla natura stessa (natura fisica
dell’uomo). Del resto il nesso esistente tra l’ordine naturale e quello delle
consvetudini si rende manifesto nelle intuizioni religiose degl'indiani. Negli
atti simbolici religiosi di questi è espresso il sentimento di regolarità fissa
e immutabile dominante dapertutto nell'universo. In alcuni sacrifici sono
‘simboleggiati i fenomeni celesti svolgentisi con regolarità costante. I
sacrifici fatti ad Agni corrispondono ai fenomeni naturali (dappriina adorati
essi stessi come divinità) in cui per così dire, quel Dio s’incorpora. E i
detti fenomeni son reputati atti religiosi compiuti dalla divinità. Di qui il
rispetto pauroso per la natura che raggiunge il massimo grado presso i Greci,
come provano i miti di Prometeo, di Icaro, di Fetonte, e il riguardo usato agli
animali, i quali rappresentano un elemento dell'ordine e del sistema della
natura. | In tal guisa, dallo stadio mitico primitivo in cui sono confusamente
rappresentati l'ordinamento naturale e morale dell'universo si passa allo
stadio estetico in cuì l’ordinamento esterno delle cose è presentato come
simbolo o manifestazione dell'ordinamento morale interiore, stadio che coincide
colla trasformazione degli dei della natura in potenze morali. La natura è
sempre riguardata come qualche cosa di divino, ma i singoli obbietti naturali
cessano di essere considerati come dèi, simili agli uomini (V. il Timeo di
Platone). Col suddetto stadio coincide l’inizio della conoscenza delle leggi
fisiche dell'universo, in quanto la contemplazione estetica non considera più i
fatti naturali come prodotti puri e semplici del capriccio e dell’arbitrio di
esseri divini simili in tutto all'uomo, ma bensi come segni, accenni a qualcosa
d'elevato, di razionale, di assoluto, di necessario e quindi di permanente che
è degno di essere conosciuto ed indagato, per quanto si celi all’occhio
volgare. Di qui l’inizio e l'avviamento alla comprensione razionale
dell’universo, la quale giunta al suo completo svolgimento menò allo
sconoscimento di ogni valore etico obbiettivo nella natura, sia perchè questa
non fu più contemplata nel suo insieme, data l'esigenza della divisione del
lavoro, sia perchè gli effetti emotivi suscitati dalla detta contemplazione
essendosi rivelati variabili e incostanti, furono riguardati un prodotto del
soggetto, da questo trasportati nella natura. Bisugna arrivare ai secoli XVI e
XVII per trovare delimitato nell’ultimo modo anzidetto il contenuto della
nozione di legge naturale, per la quale s’intese appunto il rapporto costante
di dati termini, la relazione fatalmente necessaria esistente tra condizionato
e condizione. Talchè la nota caratteristica della legge naturale fu allora
riposta nel suo valore assoluto, universale, privo d’eccezioni. E la conoscenza
di essa si rivelò tanto più perfetta quanto più chiara appariva la conoscenza
degli eventi e delle loro condizioni determinanti, raggiungendo il massimo
grado di perfezione colla possibilità di esprimere matematicamente il rapporto
implicato nella legge in modo da poter senza fallo prevedere un dato evento,
una volta note le rispettive condizioni. Che si riuscisse per la via induttiva
o per quella deduttiva a fissare e ad enunciare determinate leggi, ciò che
sopratutto si ebbe di mira fu che la legge avesse ‘n valore assoluto e incondizionato
; il che poteva avvenire solo - nel caso che tra le circostanze accompagnanti
un dato evento e quest'ultimo fosse riconosciuto un nesso causale, comunque la
conoscenza di una legge naturale potesse essere indipendente da quella delle
cause determinanti il nesso espresso nella legge stessa. Molte leggi empiriche
furono infatti fondate su ipotesi scientifiche. Il modo di comprendere la
causalità in genere esercitò però sempre una grande azione sulla maniera
d'intendere l’assolutezza delle leggi naturali. Fu notato poi che per poter
ammettere la possibilità di strappi alle sudette leggi, per poter ammettere in
alcun modo delle deviazioni dal corso naturale delle cose, per poter accettare
in altri termini i miracoli, occorreva implicitamente od esplicitamente tornare
a considerare le leggi naturali quali leggi positive derivanti dall'arbitrio di
una forza saperiore. Una volta infatti affermato che intanto si può parlare del
corso regolare degli eventi naturali, in quanto sotto date condizioni sempre si
presentano fatti identici non è più possibile risguardare come naturali eventi,
i quali si sottraggono ad ogni spiegazione naturale. Le leggi naturali
interpretate secondo i concetti dominanti nella scienza in stato di progresso e
di svolgimento, appaiono assolutamente inconciliabili e irriducibili a quelle
precettive o normative, in quanto le prime hanno il carattere precipuo di
essere necessarie in sè stesse e prive di eccezioni, mentre le altre esprimono
delle regole, dei precetti a cui si può sempre derogare. ]ua necessità
nell’ultimo caso è sempre relativa ad un dato scopo da conseguire. Dicemmo di
sopra che lo svolgimento della nozione di legge e la sna formale enunciazione e
introduzione nel dominio della scienza andavano differenziate dal fatto reale
ed obbiettivo formulato ed espresso in un periodo tardivo nella legge stessa.
Invero fin da quando fu riconosciuto un rapporto ‘costante e necessario tra due
fatti (Matematica e Astronomia), fin da quando sì cominciò ad enunciare un
giudizio universale ed a ricavare da date premesse date illazioni ordinando il
tutto in modo chiaro e preciso, fin da quando fu riposta la ragione dei vari
eventi in un processo matematico-meccanico svolgentesi in modo
incondizionatamente necessario, fin da quando il mondo in tutte le sue
manifestazioni anche le più esigue, fu considerato come wn organismo governato
da un concatenamento di cause, fin da quando pose radici Ia convinzione che
conoscere equivale a determinare e che pertanto conoscere un oggetto equivale a
ricercare in che modo questo nella sua essenza ed esistenza dipende da un
altro, fin da quando adunque la scienza intesa in senso lato ebbe la sua prima
origine, il contenuto .reale della nozione di legge s'imponeva alla
considerazione dello spirito. Dal momento che lo spirito senti il bisogno di
distinguere il permanente e l'essenziale dal contingente e dall’accidentale,
attribuendo al primo maggior valore e significato, dal momento che andò in
traccia dell'unità al disotto della varietà, pose perciò stesso la necessità
della ricerca della legge. Questa ha radice in una necessità del concepire
umano, in quanto nel fondo del nostrointelletto, è insita la tendenza ad andare
in cerca di qualcosa di assoluto, d'immutabile e d'identico : ond'è che dagli
antichi filosofi Ionici, o meglio dagli antichi matematici ed astronomi
dell’oriente fino a noi fu un continuo affaticarsi del pensiero umano per
fissare gli elementi invariabili di tutte le cose e per sostituire alla
concezione mitica, e antropomorfica quella della connessione necessaria e
incondizionalmente regolare dei vari eventi. Ed è cosa degna di nota che
parallelamente all’interpretazione teleologica della natura si conservi con un
numero maggiore o minore di variazioni e di ondeggiamenti la tendenza a
ricercare i puri rapporti causali tra le cose e gli eventi. Chi segue lo
svolgimento storico della scienza in genere constata subito che la corrente che
potremmo dire materialistica decorre parallela a quella idealistica, attraverso
tutto il mondo antico e tutto l’evo medio fino a che nel rinascimento s’iniziò
quel movimento che ebbe per esito l'abbandono di qualsiasi veduta teleologica
nel dominio della scienza vera e propria. Se non che qui si presenta la
questione: Se il fatto reale espresso mediante la legge è antico quanto la
scienza, perchè la nozione di legge vera e propria sorse così tardi ? Al
concetto di necessità naturale che cosa si deve aggiungere perchè si abbia il
concetto di legge ? Finchè la conoscenza umana sì portò, per così dire, in modo
diretto ed immediato verso il suo obbietto che d'ordinario era la natura, senza
curarsi di determinare l'essenza generale, il concetto dei fenomeni, senza
ferinare l’attenzione sulle relazioni stabilite mediante l’intelletto umano,
era impossibile che sorgesse la nozione di legge, la quale è resa possibile
piuttostochè dalla considerazione delle cose per sè stesse, da una veduta
esatta in ordine alla natura della nostra conoscenza. Finchè i principii delle
cose furono riposti nelle cose e non nei concetti, ognun vede che di leggi non
era possibile parlare. Ma tostochè per opera segnatamente della filosofia
stoica, la ragione fu reputata immanente al mondo e fine a sè stessa, e il
mondo nel suo progressivo svolgimento fu reputato la manifestazione di una
logica che sta nella sua stessa essenza, anzi fu reputato la ragione stessa che
si determina, per ciò stesso fu posta la base del principio fondamentale delle
leggi della natura. Queste, infatti, esistono, sono necessarie e sono
intangibili, perchè sono la natura stessa; non possono esser tolte alla natura,
perchè non furono poste alla natura. Se fossero tolte, sarebbe tolta la natura,
il mondo. L'esistenza è la giustificazione di quello che esiste; esiste perchè
non può non esistere. Ora è questa idea la garanzia della scienza, la quale non
può reggersi quando si ammetta la possibilità dell’arbitrio: l’azione di una
volontà esterna al mondo. Senza il concetto o palesamente affermato o
inscientemente ammesso di una logica immanente, il pensiero brancola nel vago e
nel buio e la nozione di legge, che implica ordine, regolarità, e fissità, non
può prendere origine. In conclusione perchè si arrivi a concepire la legge,
all'idea della necessità naturale si deve aggiungere quella della logica
immanente: la nozione della necessità interiore o logica, ecco il presupposto
dell'insorgenza della nozione di legge. Una volta entrata nella mente degli
scienziati la persuasione che pensare è fissare in forme costanti la cangiante
materia delle rappresentazioni, è cercare, come il saggio di Schiller, den
ruhenden Pol in de Erscheinungen Flucht, una volta ammesso che, giusta
l’espressione dell’Helmholtz, das erste Product des denkenden Begreifens ist
das Gesetsliche, è chiaro che i filosofi dovettero essere spinti a penetrare
per vie differenti la natura intima della legge la quale appariva come il
risultato ultimo delle varie forme d'indagine scientifica, come l’espressione
pi esatta e completa del lavoriointellettuale intorno ad un dato contenuto. Noi
crediamo chetutte le idee emesse dai filosofi su tale argomento possano essere
raggruppate in tre principali categorie, contrassegnate coi seguenti tre nomi:
concezione intellettualistica, concezione animistica e concezione dualistica
delle leggi in genere. Se non che qui si potrebbe obbiettare: stando a tale
divisione, parrebbe che le leggi, le quali in sostanza non sono che il
risultato ultimo della conoscenza umana e quindi un prodotto dell’intelligenza,
possano essere inter pretate anche non ricorrendo all’attività intellettuale; a
fianco alla concezione intellettualistica, infatti, si pone quella animistica ;
ora, non racchiude tale affermazione una contradizione? A ciò si risponde che
senz’alcun dubbio la semplice determinazione ed enunciazione di una legge è già
un fatto intellettuale; il quale però può essere valutato e interpretato
diversamente a seconda che esso vien rapportato alle funzioni semplicemente
intellettive e quindi ricondotto sotto il dominio esclusivo dei principii
supremi del pensiero puro (principio d'identità, ecc.), ov| vero viene
considerato come implicante un elemento che non ha a che fare coll’intelligenza
pura e semplice. A. tal proposito giova far distinzione tra la natura propria
delle leggi (il loro significato reale ed obbiettivo) e la conoscenza di esse.
Riguardo a quest’ ultimo punto tutte le leggi a qualunque categoria
appartengano figurano, si, comes trascrizioni in termini intellettuali (in
giudizi universali) di rapporti reali, figurano cioè come il risultato
dell’applicazione dei processi intellettivi agli obbietti reali; ma a seconda
che i detti giudizi universali enuncianti le leggi sono ridotti tutti a giudizi
d'identità o analitici, ovvero (almeno in gran parte) a giudizi di dipendenza o
sintetici, irriducibili ai primi, si avranno due forme fondamentali d’'interpretazione
delle leggi. Riguardo al primo punio a seconda che l'essenza delle leggi è
riposta tutta in un processo di equazione obbiettiva tra ì due termini della
coppia legge, ovvero in una determinazione dell’attività propria delle cose e
nell'azione reciproca delle stesse, si avranno del pari due forme principali di
concezione della legge. Va notato qui che d'ordinario le dette quattro forme si
corrispondono in modo che l’interpretazione, diciamo così, analitica coincide
con quello dell'equazione obbiettiva e la sintetica con quella dell'attività.
Sicchè noi ci siamo creduti autorizzati a partire per prima in due grandi
categorie le concezioni circa la natura delle leggi in genere, dando loro i
nomi di concesione intellettualistica, e di concezione animistica, nomi che
filologicamente considerati non hanno alcun valore e sono delle semplici
denominazioni atte a contrassegnare due forme di concepire le leggi. Siccome
poi si hanno delle concezioni miste in cui le leggi sono interpetrate, per una
parte intellettualisticamente e per un'altra parte animisticamente, così noi
abbiamo creduto di ammettere una terza forma di concezione detta dualistica.
Aggiungiamo infine che in questa terza categoria vanno compresi quei casi in
cui tra le leggi esplicative e quelle normative viene ammessa, una differenza
essenziale e fondamentale. A seconda che è ammesso adunque il concorso di uno
piuttosto che di un altro elemento per la genesi della nozione di legge, a
seconda che il valore di questa si fa o no dipendere esclusivamente da un fatto
di conoscenza e a seconda che la causalità è riposta semplicente nell'essere,
ovvero nell’identità dell'essere e dell'agire, si avrà un vario modo di
concepire l’essenza delle leggi. E la concezione meriterà il nome di
intellettualistica ogni qualvolta le leggi o sono considerate come legami per
così dire estrinseci alle cose (veduta meccanica), ovvero come enunciazioni di
rapporti d’identità. Meriterà invece il nome di animistica ogni qualvolta le
leggi vengono considerate come determinazioni primitive e originarie
dell’attività delle cose, o come espressioni di ciò che vi ha d’interno in
queste ultime. Meriterà infine il nome di dualistica ogni qualvolta la natura
delle leggi viene interpretata per una parte intellettualisticamente e per
un'altra parte animisticamente. Sui particolari concernenti queste tre
concezioni c'intratterremo in seguito, quando tratteremo partitamente di
ciascuna di esse. Secondo la concezione intellettualistica, o meglio secondo la
forma predominante di essa, chi dice legge dice rapporto, dice, cioè, legame
esistente tra due caraiteri generali, i quali non sono mai staccati l'uno
dall'altro in natura e si richiamano, o tendono a richiamarsi a vicenda; ed
anzi si può dire che i due caratteri, dei quali ora il primo richiama il
secondo, ora il secondo richiama il primo, formano una coppia, che è poi una
legge. Pensare, formulare una legge equivale a legare insieme due idee
generali; e formare un giudizio generale, è enunciare mentalmente una
proposizione generale. Ogni pezzo di ferro esposto all'umidità si arrugginisce
: tutti i corpi immersi in un liquido perdono una parte del loro peso eguale al
peso del liquido spostato ; ecco delle leggi, ciascuna delle quali consiste in
una coppia di caratteri generali ed astratti collegati tra loro: da una parte
la proprietà del ferro d’essere esposto all'umidità, dall’ altra l'origine del
composto chimico detto ruggine, da una parte la quantità del peso perduta dal
corpo immerso e dall'altra la quantità eguale del peso di liquido spostato.
Niente di più utile allo spirito umano di questa struttura delle cose, giacchè
una volta scoverta la legge, il primo carattere appare l’indice del secondo.
Prima però di considerare le leggi in sè stesse e nelle loro applicazioni,
giova ricercare la natura di detti caratteri generali o astratti, sempre
secondo i detti intellettualisti. Lungi dall’essere creazioni della nostra
mente, semplici mezzi di classificazione o strumenti di mnemotecnica, quelli
esistono di fatto al difuori dì noi, al di là della portata dei nostri sensi e
delle nostre congetture; sono efficaci, anzi sono gli agenti più importanti
della natura, in quanto ciascuno di essi trae seco uno o più altri, sono la
porzione fissa ed uniforme dell’esistenza per sè frammentariamente dispersa e
successiva, giacchè allo stesso modo che vi sono dei caratteri comuni la cuì
presenza continua collega tra loro i diversi momenti dell’esistenza
individuale, così vi sono dei caratteri comuni la cui presenza moltiplicata e
ripetuta collega tra loro i vari individui della classe. Senza i caratteri
comuni e le idee generali ed astratte che loro corrispondono nell’intelligenza
umana non solo non sarebbe a parlare di scienza (cosa già notata da
Aristotile), ma non esisterebbero nemmeno individui, i quali in sostanza sono
come obbietti particolari che durano, che serbano nel tempo e nello spazio
qualcosa di comune e di permanente, una data forma, cioè a dire un gruppo di
caratteri fissi aventi importanza capitale e costituenti la parte essenziale. Abbiamo
detto che ai caratteri comuni obb'ettivamente esistenti fanno riscontro
nell’intelligenza le idee o i concetti, 1 quali lungi dal confondersi colle
rappresentazioni sensoriali o cogli schemi fantastici o rappresentazioni
generali che sono un fatto semplicemente concomitante, vanno riguardati come
nomi di classe, nomi significativi ed atti ad essere compresi, in modo che
essendu questi uditi, svegliano la rappresentazione sensibile più o meno chiara
e circoscritta d'un individuo della classe e esistendo invece la
rappresentazione sensibile di un individuo della classe, appare subito
sull’orizzonte psichico l'imagine del suono del nome di questa e la tendenza a
pronunziarlo. Talchè i caratteri astratti delle cose sono pensati per mezz di
nomi astratti (idee astratte) che sono specie di sostitutivi dell'esperienza
sensibile che noi non abbiamo, nè possiamo avere del carattere astratto
presente in tutti gli individui simili. Essi lo sostituiscono, adempiendo al
medesimo ufficio. L'origine di tali nomi astratti e generali va ricercata in
una forma particolare di associazione tra un dato suono e la rappresentazione o
l’immagine non solo di individui assolutamente simili, ma anche di individui a
volte differenti in tutto, trannechè in un carattere. Il potere di trovare
analogie tra le cose più o meno disparate, il potere di cogliere dei rapporti è
appunto la caratteristica dell’intelligenza umana e insieme ciò che rende
possibile la formazione di nomi astratti e generali. L'idea nasce col segno, ma
perchè sia adattata in modo completo all'oggetto, perchè risponda al carattere
comune, è necessario che sia rettificata a gradi, giacchè nel linguaggio
ordinario e nella esperienza volgare è incompleta e vaga: è soltanto per mezzo
dell'osservazione attenta, dell'esperienza variata ed estesa e della
comparazione ripetuta, che noi riusciamo, tralasciando tutti i caratteri
inutili e accidentali, a conservare quelli essenziali e permanenti. Non tutte
le idee generali vengono formate con detto processo: vi sono, infatti, quelle
che agiscono come modelli, perchè hanno per obbietto non il reale, ma il
possibile, ed esse piuttostochè adattate all'oggetto, vengono costruitte, E il
carattere comune di tutte le idee che noi costruiamo è che esse si riducono a
schemi, a cornici in cui può venire inquadrata la realtà, comunque esse siano
formate senza tener presenti determinati oggetti reali. La conformità delle
costruzioni mentali colla realtà può e non può aver luogo: in ogni caso essa
non è lo scopo a cui si mira. Lo adattamento non è sempre esatto e vi sono dei
casi in cui è soltanto approssimativo; e ciò perchè il fatto reale è molto
complicato, mentre la costruzione mentale relativamente semplice: sbarazzato
dei suoi suoi elementi accessori e ridotto a quelli principali il primo si
presenta come una copia della seconda e tanto più entrambi coincidono quanto
più o mediante l’astrazione praticata sulla realtà tutto ciò che è accessorio
vien tralasciato, rimanendo conservato ciò che è primitivo ed essenziale,
ovvero mediante il processo contrario, la determinazione, tutto ciò che manca
agli schemi mentali vien loro attribuito dall'immaginazione. Tre condizioni
sono richieste perchè le costruzioni mentali abbiano un certo valore obbiettivo
: 1° bisogna che gl’elementi mentali di esse siano calcati esattamente su
quelli delle cose reali: 2° che gli stessi elementi siano generali e
possibilmente universali: 3° che le combinazioni mentali siano le più semplici
possibili. Tale processo costruttivo si può applicare alle varie classi di obbietti,
giacchè in tutti noi possiamo riscontrare e isolare i caratteri generali atti
ad essere combinati tra loro. Tra i tipi mentali per tale via costruiti ve ne
sono di quelli che c’interessano in modo particolare e aì quali noi vivamente
desideriamo che le cose si conformino, tanto che il bisogno e l'esigenza di
tale conformità diviene stimolo all’azione. Noi costruiamo l'utile, il bello e
il bene e operiamo in modo da far coincidere, per quanto è possibile, le cose
colle nostre costruzioni. Avendo noi scorto ora in uno, ora in un altro degli
individui che vivono in società con noi e con cui noi siamo in continuo
rapporto dei segni esterni che sono l'espressione di qualità interiori atte a
svegliare la nostra attenzione, perchè benefiche all'individuo o alla specie,
quali l'agilità, il vigore, la alute, l’energia ecc., siamo tratti a mettere
insieme i detti segni, affine di potere contemplare un corpo umano in cui siano
appunto manifestati i caratteri da noi giudicati i più importanti e pregevoli:
ond'è che se un artista giunge ad avere la visione interiore, la immagine viva
e intensa dell’insieme di queste note, egli prende un blocco di marino e
v'imprime la forma ideale che la natura non era riuscita a mostrarci per
l’innanzi. Del pari essendo dati i vari motivi del volere umano, noi
constatiamo che l’individuo opera più di frequente in vista del suo bene
personale e quindi per interesse, molte volte per il bene di un individuo da
lui amato e quindi per simpatia e rarissimamente in vista del bene generale senza
altra intenzione che di essere utile alla società presente o futura di tutti
gli esseri forniti di sensibilità e d'intelligenza. Noi isoliamo quest'ultimo
motivo e desideriamo vederlo preponderante in ogni deliberazione umana, lo
lodiamo tanto da raccomandarlo a tutti gli altri e da fare ogni sforzo per
dargli il predominio in noi medesimi. Formatosi così l’ideale del carattere
morale, noi cerchiamo ogni mezzo per adattare a tale modello il nostro
carattere effettivo. Di guisa che le opere d’industria, d’arte e di virtù
sorgono allo scopo di colmare o discemare l'intervallo che separa le cose dalle
nostre concezioni. Vediamo ora in che consistono, sempre stando alla concezione
intellettualistica, i rapporti o i legami esistenti tra due caratteri comuni (leggi).
Notiamo subito che essi sono di varie specie: a volte i due caratteri collegati
insieme sono simultanei e allora due casi si possono presentare o il primo
carattere trae seco il secondo senza che l’ultimo tragga seco il primo: così
ogni animale fornito di mammelle ha vertebre, ma non ogni vertebrato è fornito
di mammelle (legame unilaterale o semplice): ovvero la presenza del primo
carattere trae s eco quella del secondo e alla sua volta la presenza del
secondo trae seco la presenza del primo; in ogni mammifero i denti incisivi
accompagnano sempre un tubo digestivo breve e lo svolgimento di istinti
carnivori e reciprocamente (legame bilaterale e doppio). Altre volte dei due
caratteri collegati, l'uno, chiamato antecedente, precede e l’altro detto conseguente
segue; al primo si dà il nome di causa ed all’altro quello di effetto. E anche
qui due casi si possono presentare o il primo carattere provoca colla sua
presenza l'insorgenza del secondo e alla sua volta il secondo per prodursi,
esige la presenza del primo : ogni mobile al quale s'applicano due forze
divergenti di cui l’una è continna, descriverà una curva; ed ogni mobile per
descrivere una curva richiede l'applicazione di due forze divergenti di cui
l'una è continua (legame bilaterale o doppio): ovvero il primo provoca colla
sua presenza il secon:lo senza che il secondo per prodursi esiga la presenza
del primo le vibrazioni di una certa celerità trasmesse al nervo acustico
provocano la sensazione di suono, ma quest’ultima può prodursì in noi spontaneamente
nei centri sensitivi (legame umilaterale o semplice, nesso di causa ed effetto)
(1) Ma in che consiste il legame esistente tra due caratteri ? Vi è qualche
virtù o ragione segreta che risiedendo in uno di essi, trae, provoca l'altro?
Su questo punto i filosofi fautori della concezione intellettualistica non sono
d'accordo, come si dirà in seguito; per ora basterà notare che per la più parte
dei filosofi e scienziati moderni intellettualisti le parole provocazione,
legame, produzione, esigenza non sono che metafore abbreviative. La sola
nozione dice Stuart Mill sulla traccia di Hume, di cui a tal proposito noi
abbiamo bisogno può esserci fornita dall'esperienza, la quale c’insegna che
nella natura regna un ordine di successione invariabile, e che ogni fatto vi è
sempre preceduto da un altro fatto. Noi chiamiamo causa l’antecedente
invariabile, effetto il conseguente invariabile. La causa reale è la serie
delle condizioni, l’inTAINE -- De VPIntelligence. sieme degli antecedenti,
senza i quali l'effetto non può aver luogo. Sicchè la causa è la somma delle
condizioni positive e negative prese insieme, la totalità delle circostanze e
contingenze di ogni specie che una volta date, sono invariabilmente seguite dal
conseguente. E la volontà produce i nostri atti corporei come il freddo produce
il ghiaccio o come una scintilla produce un'esplosione di polvere da cannone;
vi è li del pari un antecedente, la risoluzione, che è un carattere momentaneo
del nostro spirito, e un conseguente, la contrazione muscolare che è un
carattere momentaneo di uno o più dei nostri organi; l’esperienza collega
insieme i due fatti in modo da render possibile la previsione che la
contrazione terrà dietro alla risoluzione, non altrimenti che l'esplosione
della polvere segue il contatto della scintilla - In modo più preciso si può
dire che qualunque siano i due caratteri, simultanei o successivi, momentanei o
permanenti, la forza colla quale il primo trae, provoca o suppone il secondo
come contemporaneo, conseguente o antecedente, si riduce ad una particolarità
del primo considerato solo e separatamente. S'intende dire con ciò che esso ha
per sè la proprietà di essere accompagnato, seguito o preceduto dall'altro. Del
resto niente di meraviglioso in tale costituzione delle cose, se si riflette
che non è più strano trovare delle concomitanze, dei precedenti e dei
conseguenti rispetto ed un carattere generale di quello che sia il trovarne
rispetto ad un individuo particolare o ad un fatto attuale. Non alrimenti che
gl’individui e i fatti particolari, i caratteri generali sono forme
dell’esistenza non ditferenti dai primi, se non perchè sono più stabili e più
diffusi. La difficolta è tutta nel poter osservare separatamente un tale
carattere che si riscontra sempre frammisto a molti altri c-ratteri. Due metodi
ci conducono allo scopo, a seconda che si tratta di caratteri generali reali o
possibili. 1 primi essendo formati per estrazione vera e propria vengono
stabiliti con processo graduale: e i rapporti intercedenti tra loro sono
scoverti per via induttiva e formano l’obbietto delle scienze sperimentali. I
secondi essendo costruiti per combinazione, sono come a dire delle forme, degli
schemi in cui possono essere inquadrate le cose reali. I rapporti esistenti tra
loro sono rintracciati mediante il processo deduttivo e formano l'oggetto delle
cosidette scienze costruttive. Il metodo induttivo nelle sue varie forme è un
processo molto lungo, perchè suppone la raccolta, la scelta e la comparazione
di più casi. Va notato poi che più una legge è generale e più richiede del
tempo per essere scoverta, presupponendo essa l'acquisto di diverse leggi
parziali : come anche che al di fuori della cerchia ristretta dell’esperienza
compiuta, una data legge ha soltanto un valore di probabi lità. Le proposizioni
delle scienze costruttive, o deduttive invece sono contrassegnate da caratteri
di natura opposta. In ciascuna di queste scienze, infatti, vi sono certe idee
primitive che una volta presenti allo spirito si collegano istantaneamente tra
loro e con un vincolo necessario ed universale. Tali giudizii primitivi,
fondamentali, irreducibili si dicono assiomi,la cui validità può essere
dimostrata mediante un processo lento, approssimativo, sperimentale
(induttivo), ma d’ordinario la è mediante un processo breve, esatto ed
analitico (deduttivo). Qnesta seconda specie di prova è resa possibile per
questo, che i cosidetti assiomi sono in fondo delle proposizioni ANALITICHE –
cf. Grice, Method in philosophical psychology --, in cui il soggetto contiene
l'attributo o in modo molto appariscente, il che rende l’analisi inutile (1), o
in modo molto implicito, il che rende l’analisi pressochè impraticabile. In
ogni istante noi sentiamo l’efficacia di dette proposizioni analitiche (idee
latenti regolatrici): cosi affermiamo che una data persona non ha potuto agire
così, ovvero che tale condotta non mena allo scopo, che tale atto è lodevole o
biasimevole, senza che il più delle volte noi possiamo assegnare la ragione di
tuttociò, comunque questa giaccia nascosta nel fondo del nostro animo. Tali
sono per taluni (Mill, Taine ecc.) i principii d’identità e di contradizione “
Le premier, dice il Taine (De l’Intelligence, Vol. 2°, Lib. 1V, pag. 336), peut
s’exprimer ainsi: si dans un objet telle donnée est présente, elle y est présente.
Le second
peut recevoir cette formule; si dans un objet telle donnée est pr':sente, elle
n’en est point absente: si dans un objet telle donneé est absente, elle n°’y
est point présente. Comme les mots présent et non absent, absent et non présent
sont synonymes, il est clair que dans l’axiome de contradiction aussi bien que
dans l’axiome d’identité, le second membre de la phrase repète une portion du
premier; c'est une redite; on a piétiné en place. De là un troisibme axiome
metaphysique, celui d’alternative moins vide que les précedents, car il faut
une courte analyse pour le prouver; on peut l’enoncer en ces termes: dans tout
objet telle donnée est présente on absente. En effet supposons le contraire,
c'est à dire que dans l’objet la donnèe ne soit ni absente, ni présente. Non
absente cela signifie qu’elle est présente, non présente cela signifie qu'elle
est absente: les deux ensembles signifient donc que dans l’ohjet la donnée est
à la fois présente et absente, ce qui est contraire aux deux branches de l’axiome
de contradiction, l’une par laquelle il est dit que si dans un objet telle
donnée est présente elle n’en est pas absente et l’autre par laquelle il est
dit que si dans un objet telle donne est absente elle n’y est pas présente.
Maintenant, reprenons l’axiome d’alternative et observons l’attitude de
l’esprit qui le rencontre pour la première fois. Il est sousentendu dans une
fonle de propositions; c'est parce qu'on l’admet implicitement qu’on l’admet
explicitement. Par cxemple
quelqu’un vous dit: Tout triangle est équilateral ou non; tout vertebré est
quadrupede ou non, Sars examiner aucun triangle ni aucun vertebré vous
réconsono tali che il primo racchiude il secondo, e questo è come parte di
quello, noi stabiliamo per ciò stesso la necessità della loro connessione.
EÉ=si non sono che una cosa sola considerata sotto due aspetti, onde l’
universalità assoluta del loro legame. Le proposizioni che esprimono
quest'ultimo, comunque in fondo ipotetiche in quanto aftermano soltanto che
data l'esistenza della prima idea ne consegue l’esistenza dell'altra, non sono
passibili di dubbi, di limiti, o di restrizioni. E qual'è l’ essenza delle
leggi scientifiche che formano l'oggetto delle scienze sperimentali? qual'è la
ragione dei rapporti esistenti tra le cose e tra le corrispondenti idee del
nostro spirito ? La ragione di ogni legge è riposta in quel qualcosa che
essendo comune ad entrambi i dati (intermediario esplicativo di Taine), forma
il loro legame vero ed essenziale. Tale intermediario o mezzo termine
esplicativo in qualunque modo si presenti, semplice o multiplo composto alla
sua volta d’intermezzi successivi o simultanei, di mezzi termini differenti o
d-llo stesso mezzo termine ripetuto con elementi dissimili, sì mostra sempre
come carattere o insieme di caratteri più generali (e considerati
separatamente) racchiusi nel primo elemento della coppia detta legge. S'intende
che i detti caratteri sono separabili coi nostri processi ordinari di
isolamento e d' estrazione Allo stesso modo che nelle scienze costruttive, ogni
teorema enunciante una legge è una proposizione analitica; e dei due dati
collegati insieme, il secondo è in rapporto col primo in modo oscuro o chiaro,
diretto o indiretto per mezzo di un terzo dato detto ragione, o mezzo termine
esplicativo che contenuto nel primo elemento, contiene esso stesso una serie
d’intermediari racchiusi gli uni negli altri; per modo che se si cerca la
ragione ultima della legge, il perchè ultimo dopo di che la dimostrazione è completa,
si trova che esso si riduce ad un carattere compreso nella determinazione dei
fattori o elementi primitivi, il cuì insieme forma il primo dato della legge,
così in ogni legge sperimentale il primo dato è, come a dire, un contenente più
grande che attraverso una serie di contenenti sempre più piccoli racchiude come
contenuto ultimo il secondo dato. Va notato però che nella legge sperimentale
non basta, come nel teorema matematico, metter la mano ogni volta sul
contenente per trovar ciò che si cerca (intermezzo esplicativo), ma è
necessario uscir fuori dal proprio spirito e andare a ricercare il detto
intermedio nella natura e trarnelo fuori a furia di reiterati esperimenti ed
induzioni. Anche le scienze sperimentali a forza di generalizzare arrivano a formulare
delle leggi fondamentali che fanno riscontro agli assiomi delle scienze
deduttive, ma vi è questa ditferenza che nelle ultime gli assiomi essendo
ottenuti per costruzione, possono, mediante l’ analisi, sempre essere ridotti a
qualcosa di più semplice e di più generale fino ad arrivare al principio
d'identità che è la loro sorgente comune, mentrechè nelle prime, essendo le
luggi fondamentali ottenute per mezzo dell'induzione, non si può risalire più
in alto che col seguire un metodo analogo, fino ad arrivare anche per questa
via ad un assioma ultimo o principio supremo; cosa che potrà verificarsi solo
in un avvenire più o meno lontano. Tanto nelle scienze di esperienza quanto in
quelle di costruzione l' intermediario esplicativo e dimostrativo è un carattere
o un insieme di caratteri differenti o simili inerenti agli elementi del fatto
complesso. Qualunque siano le proprietà di questo, è sempre sulle particolarità
dei suoi fattori.che devono vertere le nostre osservazioni e congetture. È
chiaro pertanto che ogni nostro sforzo deve tendere a trovare gli elementi
generatori di ogni fatto, per poterne considerare i loro caratteri e dedurre da
questi le proprietà di ciò che ne risulta. Ed anche per risolvere le questioni
di origine occorre andare in traccia del mezzo termine esplicativo e
dimostrativo, in quanto la maniera di riunirsi degli elementi ha anche la sua
ragione di essere. Quella non è che un risultato e trattandosi di un fatto
storico, racchiude un elemento dippiù, cioè l'influenza del momento storico,
ovvero delle circostanze e dello stato antecedente.. Si domanda: Vi è una legge
universale e d'ordine superiore che, per così dire, regola ogni altra legge?
Dopo tutto quello che precede, la risposta non può esser dubbia: essa esiste ed
è il principio d'identità che non è un semplice prodotto della struttura del
nostro spirito, ma è valido in sè, avendo il suo fondamento nelle cose:
proseguita l'analisi fino all'estremo limite, si trova che il composto
(effetto) non è che l'insieme dei suoi elementi ultimi disposti in un dato
modo, onde è evidente che ogni efficacia ed attività appartiene ai detti
elementi o alla loro disposizione. Il detto principio può ricevere i nomi di
principio di ragione esplicativa (ragione sufficiente) e di causalità a seconda
che si considera come principio e regolatore supremo della conoscenza ovvero
della realtà. Ammesso (e non si può non ammetterlo, perchè equivarrebbe a
negare il principio d'identità) che la presenza delle condizioni genetiche di
un dato fatto trae seco il fatto stesso, è chiaro che ogni alterazione, nel
fatto presuppone un mutamento nelle condizioni: di qui il principio che ogni
evento ha una causa, la quale è alla sua volta un altro evento. Tale è il modo
di concepire la natura delle leggi in genere da parte di quei filosofi che non
essendo disposti ad accordare alcun potere originario, alcuna spontaneità
all’intelligenza umana, fanno coincidere la realtà coll’intelligenza, l'essere
col pensiero, in modo che il principio d’ identità figura come il principio
supremo della conoscenza e dell'’esistenza. Ora, si domanda: Tale veduta
intellettualistica è atta a soddisfarci in modo completo? Nel caso negativo,
dove è manchevole e per che via si può rimediare al suo difetto?
(l’intellettualisti considerando Je leggi come nessi di caratteri o proprietà
comuni ad oggetti molteplici, ai quali nessi corrispondono poi nello spirito
coppie di idee generali, mostrano di attribuire maggior valore alle astrazioni
che alla realtà concreta : e infatti essì a più riprese ripetono che i
caratteri comuni, e quindi astratti, costituiscono ciò che vi ha di più stabile
e di più solido nelle cose: ciò mostra che essi confondono l’universale coll’
astratto. L'universale è per sna natura obbiettivo in quanto la validità
obbiettiva di un determinato contenuto della coscienza è data dal fatto che
esso si rivela identico a qualsivoglia coscienza simile; ed è per mezzo
dell’evidenza della percezione o del pensiero che l’universale si stabilisce.
L'universale riguarda la forma, non il contenuto delle idee e dei giudizi, il
quale riducendosi ad un complesso di proprietà, esistenti solo nella mente del
soggetto per mezzo delle nozioni corrispondenti, figura effettivamente come
qualcosa d’astratto. Dal che consegue che trovare il carattere ola proprietà
comune ad una serie di oggetti non equivale ad acquistare cognizione perfetta
della natura stesa degli oggetti, come classificare le cose non equivale a
determinare le leggi che le regolano. Se noi in seguito alla comparazione di
molti caratteri e di molte nozioni riusciamo a significare con un'espressione
astratta ciò che essi presentano di comune, non possiano dire di aver formato
con ciò un nuovo concetto nello stretto. senso della parola. Per mezzo della
comparazione delle leggi naturali fra loro e dell’astrazione logica di ciò che
esse offrono di comune, noi non scovriamo nessuna legge naturale nuova, ma
abbiamo semplicemente un nuovo nome generico, un segno mnemonico riassuntivo
delle leggi che noi già per altra via conoscevamo. Pertanto va distinta la
interpretazione induttiva dei fenomeni dalla generalizzazione della
interpretazione stessa; e la definizione data dal Mill e dai suoi seguaci
dell'induzione, che questa si riduca ad un processo per cui sì conchiude da ciò
he è vero di alcuni individui di una classe ciò che è vero di tutta intera la
classe, o da ciò che avviene in un dato tempo ciò che avviene sotto circostanze
eguali in tutti i tempi, non può non rivelarsi assolutamente insufficiente. Il
metodo induttivo nelle sue varie forme si fonda da una parte sul principio di
ragione sufficiente che sarebbe vero ancorchè nella natura non sì presentassero
neanche due casi eguali, e dall’altra sul principio dell’eguaglianza della
causalità o dell’uniformità della natura che, come il primo, da una parte
esprime un'esigenza del nostro pensiero e dall’altra nn dato di fatto fornito
dall'esperienza; dato di fatto che non sarebbe mai stato constatato se la
natura propria del nostro pensiero non avesse per tale via indirizzato il
processo sperimentale. I caratteri comuni e le idee generali corrispondenti non
possono dunque costituire la struttura della realtà, giusta l’atfermazione
‘egli intellettualisti. Già i caratteri o proprietà comuni e le idee generali
vanno profondamente differenziate tra loro; i primi riguardano il contenuto
delle nostre rappresentazioni e sono null'altro che astrazioni del nostro
spirito: le altre non sono che dei giudizi potenziali e quindi implicano in sè
le leggi, anzi sono le leggi espresse e riassunte in un segno o simbolo che è
la parola. Il nome significativo pertanto lungi dall’essere un semplice
prodotto l'associazione tra date rappresentazioni e moti corrispondenti
(associazione che non si saprebbe dire come e perchè nata) è un prodotto della
collettività, i cui membri sono legati tra loro dai vincoli della simpatia e
dell'attività comune. Le prime parole espressero atti compiuti în società, e 1
primi nomi i prodotti di detti atti quali furono percepitt e rappresentati dai
vari individui. Onde consegue che le parole non sono da considerare quali
semplici SEGNI O SEMBOLI d’associazioni di rappresentazioni, ma bensi come
SEGNI O SIMBOLI del modo di prodursi di una data cosa, delle maniere di operare
di una data forma di attività; è chiaro quindi il nesso esistente tra concetto,
legge e parola: il primo è una legge o giudizio potenziale in quanto è il
centro delle relazioni che congiungono una data cosa colle altre che agiscono
su di essa, la seconda è il concetto esplicato in forma di giudizio e la parola
il simbolo esterno del concetto e insieme della legge. E qui giova notare che
al di fuori della mente che concepisce e ragiona non è lecito parlare nè di
proprietà, nè di loro legami: è nel soggetto che hanno la loro radice questi
fatti. Nell’unità della nostra coscienza noi abbiamo il tipo e il presupposto
di ogni unità empirica, sia questa dell'universo nella sua totalità, sia di una
cosa singola. Ogni forma particolare di esperienza, ogni legge dei fenomeni
porta in sè l'impronta della natura sintetica del nostro pensiero. A parlare
propriamente le leggi della natura esistono soltanto per la ragione che pensa
la natura stessa. É la ragione che per prima riduce la stabilità e l'uniformità
dei fenomeni a premesse generali e quindi a leggi da cui conseguono ì tatti
singoli. Parlare di leggi naturali al di fuori. dell’intalletto equivale a
cadere in un antropomorfismo logico che non è meno irrazionale di quello
teleologico. Certamente il concetto dell’universalità delle leggi naturali é
occasionato e rafforzato dall'esperienza in quanto senza il corso regolare dei
fatti constatabile empiricamente non sarebbe stato mai possibile applicare la
nozione di legge alla natura e la ragione sarebbe rimasta una potenza vuota,
ignota a sè stessa; ma d'altra parte la medesima nozione di legge non sarebbe
mai potuta provenire dalla semplice osservazione esterna, giacchè la natura
accanto aì fatti succedentisi regolarmente ne presenta di quelli che in
apparenza non seguono nel loro accadere alcuna regola. La nozione di legge è un
portato del riflettersi del nostro stesso pensiero, applicato di poi alla
natura. Gli antichi infatti chiamavano /ogos della natura ciò che noi diciamo
legge. E per convincersi come la struttura della realtà quale viene presentata
dalla scienza, sia una elaborazione del nostro spirito, basta pensare che a
seconda del predominio che in un'età viene assegnato ad una facoltà psichica
piuttosto che ad un'altra, si ha un concetto diverso del corso naturele dei
fatti e della costituzione intima della realtà. A ciò si aggiunga che noi in
fondo in fondo scovriamo nella natura quelle leggi che in certa guisa vi
abbiamo poste: nelle interpretazioni scientifiche le leggi da principio
assumono la forma di anticipazioni che vengono soltanto appoggiate dai fatti
piuttosto che esserne addirittura derivate o, come si dice, estratte. La
percezione non ci mostra mai casi perfettamente eguali e noi passiamo
dall'esperienza sensibile a quella intellettuale, riducendo eguali i casì col
pensiero e coll’esperimento allo scopo di trovare una conferma ai postulati
logici riflettenti l'universalità delle leggi regolanti il corso dei fatti, e
l'uniformità della natura. Un altro errore della concezione intellettualistica
è quello ‘diaver fatt o delle leggi tante ipostasi. Gl’intellettualisti, infatti,
presentano le leggi come premesse a cui, a guisa di conclusione, sono
subordinati i fatti particolari, dando a quelle più o meno celatamente una
sussistenza, ed una priorità rispetto ai fenomeni che assolutamente non hanno.
Quando si dice che il rapporto di causalità si riduce alla proprietà che ha un
carattere di essere preceduto, accom pagnato o seguito da un altro, in fondo si
atterma appunto che una legge esistente per sè possa dominare e regolare le
cose. L’ espressione differente non deve porre ostacolo alla giusta valutazione
delle cose, giacchè dire che un carattere è fornito della proprietà di essere
in un dato rapporto con un altro carattere equivale a dire che la legge
determina il corso dei fatti. Soggiungiamo che per quel che concerne i rapporti
delle cose, l’azione reciproca che e=se esercitano tra loro (dati di fatto
innegabili), o noi ci contentiamo di constatarli semplicemente, di descriverli
e allora non è lecito parlare d’ interpretazione dei fatti, giacchè in tal caso
l’esigenza propria del pensiero d’indagare il perchè delle cose rimane
insoddisfatta, ovvero si procede alla ricerca delle cause ed allora la semplice
constatazione del modo di operare delle cose si rivela insufficiente ed occorre
trovare un nuovo termine in cui sia riposta la ragione del detto modo d’agire.
E chiaro poi che la concezione intellettualistica presentandoci la realtà come
un mosaico di caratteri e proprietà comuni cuì l'intelligenza sì deve
contentare di riprodurre e di descrivere, è nell'assoluta impossibilità di
spiegare il cangiamento, il divenire, il moto delle cose e l’azione che queste
reciprocamente esercitano fra loro : è vero che parecchi di talì filosofi
negano l'esistenza di questi fatti o li dichiarano prodotti illusori della
mente, errori di prospettiva mentale ; ma chi vorrà appagarsi di simili
affermazioni sfornite come sono di qualsiasi fondamento ? Inoltre tali filosofi
che, come si è visto, dànno un'importanza ed un valore speciale ai caratteri
astratti, non dicono donde verrebbe a questi la proprietà di presentarsi
moltiplicati e ripetuti nei fatti particolari. Se si vuol negare loro qualsiasì
attività, se non si vogliono essi considerare come energie, e ciò facendo, si
ritornerebbe a qualcosa di simile alle idee platoniche, non è giocoforza confessare
che una simile struttura della realtà, non ci spiega la realtà stessa? Le
interpretazioni scientifiche, affinchè siano esatte, devono essere
contrassegnate dalle note dell’universalità e della necessità; ora
l’universale, non l’'astratto, in tanto ci può dar ragione del particolare in
quanto contiene le condizioni genetiche dei reali (es.: l'attività rispetto
agli atti singolì); l’astratto invece può essere un indizio, una manifestazione
dell’universale, ma non mai la stessa cosa di questo. I filosofi
intellettualisti per dar ragione dei rapporti delle cose espressi nelle leggi
non hanno saputo far di meglio che ridurre queste a giudizi analitici o
d'identità più o meno manifesti; in tanto il secondo termine della coppia
legge, essi hanno detto, è connesso col primo, in quanto più o meno
direttamente, più o meno implicitamente vi è contenuto. Allo stesso modo che la
realtà non fa che ripetersi continuamente esplicando in una data forma ciò che
era implicito in una forma antecedente, così le leggi non fanno per cosi dire,
che distendere ciò che era involuto in uno dei caratteri del primo termine
della legge. È ciò ammissibile ? Noi sappiamo che i rapporti fondamentali che
possono intercedere tra i concetti sono due, quello di identità e quello di
dipendenza (spaziale, temporale, condizionale): ora essi sono irriducibili
l’uno all’altro e se a taluni logici è sembrato facile riguardare la dipendenza
come un'espressione diversa dell’identità, ciò è avvenuto perchè in virtù di
una interpretazione speciale data alle formole matematiche e logiche si sono
considerati come equivalenti i rapporti d'identità e di dipendenza: ma è chiaro
che il mutamento di una espressione simbolica quale A F (funzione) B in A f B
non può avere la virtù di rendere identici i concetti di A e B. Nella seconda
formola il simbolo della funzione cela il rapporto di dipendenza. Non è lecito
considerare il rapporto di dipendenza intercedente tra A e B come equivalente
all'affermazione di una identità parziale di A e B, giacchè il simbolo dell’eguaglianza
in tal caso piuttosto che voler significare che una parte di A coincide con B
vuol dire che una parte dei casi in cui A si presenta è uguale all'insieme dei
casi in cui si presenta B. Ciò che noi effettivamente poniamo come parzialmente
eguali non sono A e B, ma i casì del loro apparire. Ed ogni eguaglianza
matematica che pone come identiche due relazioni funzionali è valida soltanto
sotto la condizione di un analoga interpretazione logica. È solamente
l’attività sintetica del nostro pensiero che può generare in noi le convizione
della verità della tesi che gli angoli di un triangolo equilatero sono eguali e
che due grandezze eguali ad una terza sono eguali tra loro: in tutti questi
rapporti noi abbiamo a che fare con dati irriducibili ad identità, sia questa
parziale che totale: l'eguaglianza degli angoli di un triangolo è la condizione
dell’eguaglianza dei lati, ma si può dire che i due fatti siano identici? Il
giudizio condizionale o ipotetico Se À è B è , può indicare una dipendenza
unilaterale, onde può venire espresso in termini di sussunzione – cf. Grice,
reductive/reducctionist -- e d'identità parziale; tutti i casì in cui À si
presenta sono eguali ad alcuni dei casi in cui B sì presenta : come può
indicare nna dipendenza reciproca ed in tal caso il suddetto. giudizio
condizionale può essere trasformato in un giudizio d'identità totale del
seguente tenore: tutti i casì in cui A si presenta sono eguali a tutti i casi
in cui si presenta B : dal che si desume che tutt’ e due le volte non si tratta
dell’ identità propriamente di A e B, ma bensi dell'identità dei casi del loro
presentarsi. Appenachè A e B sitoccano nello spazio, nel tempo o nel nostro
intendimento è lecito affermare che il loro apparire coincide, con che sì
esprime soltanto la dipendenza nella sua forma locale, temporale o
condizionale. La dipendenza lungi dall’essere distrutta, ha assunto un’atra
forma. D'altra parte il giudizio d'identità parziale A è una parte di B si può
trasformare nel giudizio ipotetico Se A è questo è B come quello d’ identità
totale Ax-B nell’ipotetico Se A è, questo è Be se Bè questo è A: in entrambi i
casì l'identità espressa già nel collegamento dei due membri del giudizio di
identità, è passata nel conseguente del giudizio ipotetico, nel quale il soggetto
è sostitituito dal pronome dimostrativo. L'identità parziale diviene così una
semplice sussunzione e quella totale una sussunzione doppia, che è poi
equivalente nel fatto. In ciascuna comparazione di A e di B l'esistenza di
questi è già presupposta e mediante la trasformazione del giudizio d’idenità in
giudizio condizionale ciò che era sottinteso viene messo in evidenza: invero a
fianco ad ogni identità è da ammettere il pensiero implicito di una condizione
come a fianco ad ogni condizionalità un'identità totale o parziale. Nell’un
caso è l’esistenza o la posizione dei concetti sottintesa come condizione del
loro rapporto, mentre nell'altro ad ogni rapporto di condizionalità
-corrisponde la frequenza della coesistenza dei dati condizionantisì, frequenza
che può essere significata soltanto con un giudizio d'identità totale o
parziale Una delle caratteristiche principali della concezione
intellettualistica è data dalla maniera con cui essa dà ragione delle leggi
normative e quindi delle costruzioni ideali che ne sono l’espressione. Noi
conosciamo perfettamente per che via siè giunti a all’enunciazione delle
principali leggi normative logiche, estetiche e morali e in base a ciò possiamo
affermare con tutta sicurezza che come esce non ebbero la loro radice nell'adattamento
dell’intelligenza,del senso estetico e della volontà a determinati rapporti
esteriori, cosi non furono prodotte dalla semplice combinazione e costruzione
di elementi ricavati dal di fuori; tanto è cio vero che i fatti esterni sono
giudicati alla stregua delle dette norme, le quali quindi devono essere
considerate come aventi un’ esistenza propria indipendente. D'altra parte i
principii della Logica, dell’ Estetica e dell’Etica non sono innati, ma vengono
appresi, e richiedono uno sforzo per esser seguiti e ciò perchè essi non sono
l’espressione di leggi naturali dello spirito, come sarà più am. piamente
svolto in seguito, ma di leggi normative. E lo stesso va detto delle nozioni
fondamentali della matematica, la quale ha questo di comune colle scienze
normative, che non ha per oggetto ciò che è, ma ciò che ha da essere, che
quindi può o deve essere: così il concetto della retta è un prodotto puro
dell’attività del nostro pensiero che invece di esser derivato da molteplici
rappresentazioni particolari, serve come norma per valutare le intuizioni
sensibili. Gl'ideali di qualunque genere siano, a qualsivoglia dominio
appartengano, non vanno considerati quali estratti dalla realtà, giacchè
servono all'opposto per misurare, regolare, apprezzare questa. Per formarsi un
chiaro concetto della natura delle leggi normative o precettive, giova tener
presenti i caratteri che contradistinguono le regole estetiche, in cui salta
dippiù agli occhi da una parte la differenza esistente tra le leggi naturali e
le precettive in genere, e dall'altra quella esistente tra le precettive
ricavate da un complesso di fatti (regole dietetiche, igieniche, ecc.), e le
leggi che hanno la loro origine in una determinazione primitiva della volontà e
dell’emotività dell'anima umana. Una regola estetica ancorchè ricavata,
mediante l’astrazione, da tutte le opere artistiche esistenti non è valida in
modo incondizionato : un’opera sola che si mostri felicemente superiore ai
dettami della detta regola può limitare il valore di questa: non è il numero di
date produzioni artistiche, non è la frequenza con cui esse si presentano che
le rende belle : ogni opera artistica porta con sè la regola, la stregua con
cuì deve essere giudicata. Sicchè ogni valutazione estetica presuppone
qualcos'altro che non siano le regole astratte, e questo qualcosa è il gusto
estetico (che corrisponde al senso morale nella valutazione morale). Se non che
non bisogna credere che l'opera d’arte vada giudicata alla stregua pura e
semplice del gusto individuale, il quale per contrario dev'essere basato sulle
norme richieste dalla natura propria di una data produzione artistica, natura
propria che non è in rapporto coll’attività spirituale di questo o
quell'individuo, ma dell’uomo in genere. Il gusto estetico non è la fonte, ma
l'indice della bellezza, la quale emerge dalla concordanza dell’opera d’arte
coll’ideale estetico, che, come tutti gl'ideali, è un prodotto della
collettività e varia al variare delle circostanze. . Der wahre Kunstrichter ,
diceva Lessing, folgert keine Regeln aus seinem Geschmack, sondern hat seinen
Geschmack nach den Regeln gebildet, welche die Natur der Sache fordert . Ogni
creazione artistica, come ogni prodotto spirituale è un fatto originale che va
considerato per sè e che in opposizione all’uniformità del corso della natura
ha motivi e fini propri. Ond'è che essa non può essere valutata in modo giusto
che rapportandosi ai detti motivi e fini. Sicché il giudizio estetico come
quello morale non può limitarsi a considerare semplicemente il prodotto
spirituale opera d'arte o azione morale , ma deve tenere il dovuto conto della
natura propria dello spirito umano, delle sue tendenze ed esigenze. La
valutazione estetica e morale non può essere fondata soltanto sugli effetti
degli atti spirituali, ma segnatamente sulle determinazioni primitive della
volontà e dell'emotività che diedero loro origine. E qui occorre fare un'altra
osservazione della più alta importanza. Se i risultati delle costruzioni
compiute dalle scienze che hanno per obbietto il possibile, possono essere
presentate in forma di giudizi, nel cui soggetto è già implicito il predicato,
si può sempre domandare, a quali esigenze risponda (e con quali norme e
criteri) la formazione originaria di tali costruzioni ideali, quali appaiono
nel soggetto dei sumentovati giudizi. Se il principio d'identità può essere
valido a farci scomporre sussecutivamente e secondariamente ciò che è già
composto, non può mai valere a darci la chiave per intendere la costruzione
degl'ideali, per spiegare i processi sintetici primitivi. Per convincersi della
differenza esistente tra i prodotti della conoscenza e le costruzioni ideali
basta riflettere che mentre ì primi sono veri o falsi, reali o non reali, le
altre sono rispondenti o pur no ad un dato scopo, onde includono un
apprezzamento, possibile soltanto col riferirsi ad un ideale che funge da
pietra di paragone. Si dicono vere o false bensi anche le costruzioni
matematiche, come d'altra parte le costruzioni logiche, ma la verità o falsità
in tal caso non sta a significare la rispondenza di un dato processo mentale a
qualche cosa di già esistente come accade nella conoscenza della realtà, ma
esprime la rispondenza di una data costruzione alle norme generali del
pensiero. La caratteristica della concezione animistica è riposta nella
tendenza a penetrare nel cuore delle cose: mentre la concezione
intellettualistica nella sua forma più diftusa si arrestava alla
classificazione degli obbietti, andando in traccia del carattere generale,
astratto e comune a più individui, mentre essa quindi cercava di presentare
delle ‘ormule, degli schemi in cui potessero essere compresi molteplici fatti
concreti, mentre faceva giungere la sua analisi tanto in alto da arrivare al
principio d'identità, senza curarsi della genesi dei fatti diversificati e
particolari, mentre essa poneva all'origine delle cose l’ universale senza
darsi pensiero del principio del movimento, mentre insomma essa si contentava
di catalogare la realtà, la concezione animistica ha l'intento di esaminare i
vari presupposti delle nozioni tanto adoperate nella scienza, di legge, di
rapporto, di necessità, ecc. ha di mira di non fermarsi alla considerazione
della superficie delle cose, ma dì spingere lo sguardo nella loro interiorità
per arrivare alla conchiusione che le leggi sono niente altro che
determinazioni di questa. Nel linguaggio ordinario, quando si vuol dar ragione
di una cosa se ne formula la legge, mostrando di considerare questa come una
potenza, una forza, la quale posta al di fuori o tra le cose costringa queste
ultime a presentarsi in un dato modo; ora nulla di più falso; come possono le
leggi, come può qualsiasi forma di necessità atta a regolare il corso delle
cose, esistere per sè ? Niente è concepibile al di fuori o tra gli esseri, non
una forza costruttrice, non una potenza ordinatrice antecedente o staccata
dalle cose da ordinare. Si crede di poter dar ragione delle azioni che le cose
esercitano tra loro, considerandole coie effetti di determinate proprietà
esprimenti la loro natura, colla cooperazione di determinate circostanze: ma,
se ben si riflette, vi è ragione a convincersi che vuoi il rapporto reciproco
delle cose, vuoi gli effetti particolari che in ogni singolo caso sì notano in
seguito alla coincidenza di varie cause rimangono misteri inesplicabili senza
la presnpposizione di un potere sostanzialmente unico, il quale in luogo di una
legge o formula (che, si noti, non può non essere inattiva data l’impossibilità
di spiegare la maniera in cui agisce sui fatti ad essa sottoposti e da essa
regolati), colleghi le varie cose in modo che la modificazione di una possa
riflettersi sulle altre. L'attività unica del principio supremo, fondo dell’
universo, svolgentesi in maniere e con tendenze determinate, dà ragione della
corrispondenza e delle molteplici relazioni esistenti tra le cose. L'unità
della vita del Tutto spiega il nesso delle sue varie parti costitutive. I fatti
reali e le leggi che non sono separabili tra loro, essendo la medesima cosa
considerata sotto due punti di vista, non sono chè determinazioni interiori,
momenti dalla vita universale. Non è più a parlare quindi di necessità
estrinseca alle cose, ma bensi di spontaneità interiore, non di leggi
costrittive, o di rapporti o di legami congiungenti le cose, esistenti per sè,
ma bensi di modi di operare o di processi aventi origine nell’interiorità del
Tutto. Non si tratta più di moti o di urti trasmessi dall'esterno, ma
d’impulsi, di tendenze interne, di forme dell’attività interiore. Per formarsi
un chiaro concetto della veduta animistica, giova tener presente che essa non
fa distinzione tra leggi fisichè è leggi precettive o normative, riguardando le
prime come riducibili alle ultime. Allo stesso modo chele leggi regolanti i
rapporti sociali, dicono gli animisti, non vanno considerate come esistenti in
modo indipendente, al di fuori o tra gli uomini, come potenze atte a
costringere e a guidare questi in date maniere, ma cone esistenti solo nella
coscienza degl’ individui, come aventi valore e forza solo per mezzo degli atti
degli esseri umani, così le leggi naturali vanno risguardate quali particolari
direzioni della vita interiore dell’universo. In entrambi i casì le leggi sì
riducono all’ indirizzo assunto in modo concorde dall'attività dei vari esseri,
indirizzo che all'osservazione esterna e posteriore appare come effetto di un
potere superiore regolante estrinsecamente i fatti singoli. A convincersi della
necessità di riguardare le leggi in genere quali determinazioni o forme dell’
attività interiore degli esseri, è bene (sempre secondo i fautori della
concezione auimistica) tenere a mente che ogni specie di rapporto in tanto
realmente esiste in quanto ha radice nell'unità della coscienza che l’apprende,
o meglio, che lo stabilisce, formu landolo, la quale coscienza passando appunto
da un termine all’altro li abbraccia insieme entrambi, e li congiunge
intimamente colla sua attività sintetizzatrice : onde consegue che ogni
ordinamento, ogni disposizione, ogni legge che noi poniamo nelle cose
indipendentemente dalla nostra conoscenza, non ha la sua origine e base che
nell’ Unità del Reale, che tutte cose comprende, e che per tale via si presenta
come il vero mezzo termine esplicativo di tutte lc leggi, di tutti i rapporti e
legami esistenti nell'universo. Come nell'anima individuale la relazione
reciproca dei vari stati interni dipende dalla base comune in cui tutti hanno
la loro radice, cosi l’' azione reciproca delle cose è fondata sulla loro
comune natura : ciò che fa e produce ogni singolo elemento non lo fa e produce
in quanto è questo e non altro, in quanto é formato così è non diversamente, in
quanto è fornito di queste note e proprietà e non di altre, ma in quanto è
parvenza, simbolo, espressione dell’ Uno-Tutto. Ogni forza e attitudine ad
agire emerge non da determinate proprietà delle cose che non si sa donde
provengano e su che poggino, ma dal fondo interno che per loro mezzo si
manifesta, 1’ intima verità, ragionevolezza e salda struttura del Reale, si
esprime nella concatenazione, nella coerenza e costanza dei fenomeni richiesta
dal significato che la serie fenomenica ha appunto come momento della vita
interiore universale. E molti di quegli assiomi, di quei giudizi universali
reputati per sè evidenti, lungi dall’ essere delle necessità del pensiero,
lungi dall'essere fondati sull'intima organizzazione dello spirito, sono un
prodotto dell’ esperienza, la quale col presentare in modo costante dati
rapporti finisce coll’ ingenerare nella mente la convinzione che si tratti di
rapporti logici: così il principio dell’indistruttibilità della materia sì
crede a torto fondato sulla categoria mentale della permanenza della sostanza.
I dati dell'esperienza però stanno ad indicare le particolari direzioni in
cuil’attività dell’Uno-Tutto tende a svolgersi per rispondere alle esigenze
inerenti alla sua natura. E chi crede di poter stabilire le leggi regolanti il
corso dei fatti naturali, basandosi esclusivamente sull a imperfetta cognizione
del finito, senza considerare questo quale espressione della Realtà universale,
somiglia a colui che volesse formare una teoria dei movimenti delle ombre,
facendo astrazione dal moto dei torpi, da cui quelle son proiettate. Se gli
animisti. pongono l’esseuza della legge in genere nel diverso modo di
determinarsi dell’attività interiore del Tutto nei suoi vari momenti, non è a
oredere che essi intendano di affermare che le leggi singole quali vengono
formulate ed enunciate dalle scienze particolari vadano senz'altro considerate
come espressioni complete, esclusive ed immediate dell’interiorità dell’
Uno-Tutto. È da tenere a mente che le le leggi generali, le classificazioni,
gli schemi della scienza se servono come mezzi di riproduzione e di richiamo
delle cose concrete, non valgono ad esaurire la natura del reale, tanto è ciò
vero che a seconda del vario punto di vista degli scienziati, un medesimo
gruppo di fenomeni può dar origine a leggi ed a classificazioni di ordine
diverso. Nessuna delle forme e delle leggi presentate dalla scienza può essere
considerata come perfettamente corrispondente al reale ordinamento delle cose,
le quali si rivelano come una totalità atta ad essere rappresentata nei modi
più diversi a seconda del punto di vista da cui la si considera. Spetta alla
filosofia di riguardare l'insieme valendosi delle vedute parziali offerte dalle
scienze particolari. (1) Secondo una delle forme della concezione animistica,
le leggi in genere vanno considerate come funzioni dei principii reali ed
insieme come norme, come tipi, come modelli a cui i fenomeni tendono a
conformarsi; beninteso che tali norme non sono al di- fuori, ma immanenti nei
reali stessi. In altri termini ogni cosa deve avere un dato ufficio, deve
rispondere ad una data esigenza nel sistema universale, deve essere in un dato
rapporto col Tutto : ora CITAZIONE IN TEDESCO DA SARLO: DER WANDERER, der einen
Berg umgeht,, nota molto 2a propoSito il Lotze (Microcosmus, dritt. b. 217), “
sieht, wenn er wiederholt vor-und zuciick, auf-und abwirts gcht, eine Anzahl
verschiedener Profile des Berges in voraussagbarer Ordnung wiederkehren. Keines
von ihnen ist die wahre Gestalt des Berges, aber alle sind giltige Projectionen
derselben. Die wahre Gestalt selbst aber wilrde eben so wie alle jene
scheinbaren, in irgend einer Lagerung aller seiner Punkte zu einander bestehen.
Diese eigene Gestalt, der wirkliche innere Zusammenhang der Dinge lisst sich
vielleicht auch finden, und gewiss wirrde man dieses wahre objective Gesetz der
Wirklichkeit allen abgeleiteten und nur giltigen Ausdriicken desselben
vorziehen. .in questo legame dell’elemento singolo del Tutto consiste appunto
la legge, la quale considerata per sè assume la forma di una regola astratta e
quindi di qualcosa di universale, di eterno, d'immutabile, capace d'avere
un'attuazione ed una concretizzazione più o meno complete (1). Di leggi o di
forme se ne possono poi distinguere tre diversi gruppi: 1° quelle che hanno la
loro piena ed Teichmiiller, Philosophie u. Daricinismus, Dopart. Qu sorge
spontaneo un quesito della più alta importanza : le leggi o norme considerate
nella loro universalità hanno la prima origine nell’ intelligenza umana, ovvero
presuprongono un’altra intelligenza d’ordine superiore ? Se le leggi sono un
prodotto dell’ intelligenza umana, non si vede come possano essere considerate
quali norme, tipi, modelli a cui i fatti particolari e concreti tendano a
conformarsi. D'altronde se la legge vien considerata obbiettivamente come una
funzione del reale, non può essere più riguardata come norma o tipo, a meno che
non si vogliano identificare tutti i reali collo spirito umano quale si
presenta in un grado avanzato di svolgimento, quando cioè ha acquistato
l’attitudine ad operare secondo principii o rappresentazioni di leggi. Non si
vede poi come le leggi normative concepite quali funzioni, quali disposizioni
specifiche, possano essere considerate modelli o tipi dei fatti reali. Un fatto
può essere modello rispetto ad un altro fatto, ma non lo può mai una funzione o
un’esigenza che in tanto è reale in quanto è in azione, in quanto riceve la sua
completa esplicazione dal concorso di svariati fattori. Eppoi come si fa a
conciliare l’assolutezza, l’eternità, l’ immobilità delle leggi normative col
fatto che esse vengono riguardate quali modelli atti ad avere un’attuazione più
o meno completa? La concretizzazione di un tipo, la realizzazione di un ideale
racchiude necessariamente un processo reale nel tempo, tanto più se si
considera la norma, il tipo come un’esigenza immanente nella realtà concreta;
diversamente bisognerà ammettere la disgiunzione dell’ idea dal fatto: concetto
codesto che implica una quantità di problemi insolubili: p. es. l’idea come,
dove e perchè esiste disgiunta dall’esistenza concreta ? Il fatto è che le
leggi nel loro significato reale sono funzioni dei reali e come tali non avendo
alcuna esistenza separata da questi, non sono modelli o norme determinanti i
fenomeni: è solamente il pensiero umano che riesce a separarli dall’esistenza e
a riguardarli per sè come elementi intelligibili e quindi nenessari,
universali, eterni (su) specie aeternitatis) della realtà, assoluta attuazione
nei fenomeni (leggi fisiche e chimiche), perchè non sono che funzioni semplici
dei reali; 2° quelle che si presentano solo come regole che non hanno
un'applicazione necessaria (leggi biologiche, etiche, ecc.), in quanto
presuppongono la co-operazione di molteplici reali determinantisi
vicendevolmente in svariate funzioni rispondenti ad uno scopo in rapporto alla
loro dipendenza da un principio unico, centro della sintesi; 3° quelle forme
della realtà che d'ordinario si chiamano accidentali risultanti dalla
cooperazione. di molteplici fattori non sottoposti però ad alcuna regola o
norma. Onde sì hanno forme necessarie, normative ed accidentali. Da tuttociò
consegue che la legge presupponendo l’azione reciproca dei reali, presuppone
per ciò stesso il loro nesso, la loro unità reale che è concepibile soltanto
come sistema, e quindi come coordinazione di elementi diversi in vista del
conseguimento di un fine unico. Accennavamo già disopra al modo di considerare
il rapporto esistente tra leggi naturali e normative da parte degli animisti:
giova ora insistere su ciò, notando che il modo di concepire l'essenza della
legge in genere ha spesso il suo riflesso nella maniera di valutare la
differenza esistente tra ì vari ordini di leggi. La concezione animistica pone su
una stesssa linea le leggi fisiche e quelle morali o precettive dando ad
entrambe uno stesso valore. Il rapporto di causalità (sempre secondo tali
filosofi) è il fondamento delle regole pratiche nella Morale, nel Dritto, come
lo è delle leggi sperimentali: rapporto di causalità che nelle sue modalità sta
ad esprimere la natura propria delle cose. Le leggi non devi rubare; non devi
mentire (leggi morali): ovvero: chi ruba, chi mentisce è punito (leggi
giuridiche) poggiano sul seguente rapporto causale che non differisce in nulla
da qualsiasi legge naturale : il rubare, IL MENTIRE, ecc. RENDONO IMPOSSIBILE
LA CONVIVENZA SOCIALE E CIVILE [argomentazione trascendentale debole]. Si dice
d’ordinario che le leggi precettive o normative a differenza di quelle naturali
esprimono il DOVER [Grice on the dullness of the IS versus the rationalist
interestin of OUGHT] e non l'essere e possono soffrire eccezioni – CAETERIS
PARIBUS -- GRICE. Se non che, rispondono i fautori della concezione animistica,
approfondendo l'analisi delle leggi pratiche o precettive – o MASSIME O
DESIDERATA – GRICE -- , seguendone Jo svolgimento storico, è agevole
persuadersi che il dovere, il precetto è in ultimo fondato sulla cognizione
anteriore di dati rapporti tra le cose, sugli insegnamenti forniti
dall'esperienza in antecedenza compiuta. Infatti, nota Paulsen, si pensi a ciò
che accade nelle regole grammaticali – cf. Austin/Grice, rule, SYMBOLO -- , il
cui carattere normativo attuale si presenta come l’espressione dell'evoluzione
storica del pensiero e della lingua. Il grammatico considera le forme
grammaticali antiquate (le quali un tempo erano anche normative), non in modo
diverso da quello in cui il paleontologo studia le forme fossili. Quanto alle
eccezioni, queste si presentano nelle leggi precettive con una frequenza
maggiore che non nelle fisiche, perchè le prime esprimendo rapporti senza
confronto più complessi, lasciano adito all'intervento di numerose condizioni
pertarbatrici; il che si può constatare anche nelle leggi biologiche, rispetto
a quelle fisiche o chimiche. Non va dimenticato che, anche queste soffrono
degli strappi dovuti a condizioni atte a neutralizzare l’azione di date cause;
si pensi al modo di comportarsi dei corpi più leggieri dell'aria rispetto alla
gravità. La ragione ultima per cui la concezione auimistica non ammette
differenza di sorta tra le leggi esplicative e quelle precettive va ricercata
in ciò che per essa tanto i fatti naturali quanto gli atti umani non
rappresentano che forme dell’attività o spontaneità interiore, e mentre il
fondamento prossimo di entrambe le specie di leggi va riposto nell' esperienza,
quello ultimo risiede nel significato che hanno per lo Spirito universale date
forme di attività. L’imperativo delle leggi precettive è dovuto al fatto che
esse si rapportano in modo immediato e diretto all'attività pratica umana e
solo in quella forma apportano vantaggio allo sviluppo umano, mentre le leggi
dichiarative esprimono dei rapporti estrinseci a noi ed hanno l’obbiettivo di
constatare semplicemente dati di fatto. Le prime insomma considerano gli eventi
dal punto di vista del valore pratico, lasciando nell'ombra le basi di questo;
le altre si fermano sulle premesse, trascurando ciò che ne consegue; le prime
mirano a porre sott'occhio i mezzi senza curarsi dello scopo ultimo, le altre
invece fondate segnatamente sulla conoscenza, esaminano la ragione e la base di
quei mezzi. Trattando della concezione animistica merita una particolare
menzione l'opinione sostenuta dal Trendlenburg Citeremo tra i fautori della
concezione animistica, Lotze, Fechner, Teichmiller Paulsen. La discussione
critica di essa sarà fatta in seguito, trattando della concezione dualistica
che è la più completa e comprensiva, comunque non risponda a tutte le esigenze,
come vedremo. È qui notiamo che non bisogna aspettarsi di trovare in ciascun
autore l’interpretazione della natura dei vari ordini di legge nel modo tipico
e quindi schematico da noi tratteggiato, giacchè è facile comprendere come
ciascun filosofo abbia un modo proprio di considerare e di risolvere i
problemi. Si tratta solo di cogliere il concetto dominante e il principio
direttivo. Trendlenburg, Logische Studien. Leipzig che sia soltanto per via
della nozione di movimento che s’intendono le varie forme di rapporto esistente
tra le cose, l’azione reciproca che queste esercitano tra loro e sopratutto il
nesso dicausalità in cui propriamente è riposta l'essenza della legge. Il
movimento per il filosofo tedesco è per sè stesso attività creatrice, tanto è
ciò vero che da esso provengono lo spazio, il tempo, la figura e il numero :
ora nel rapporto dell'attività produttrice colla grandezza prodotta consiste
appunto il nesso di causalità ; il movimento genera delle forme e in tale
azione si rivela primitivamente causalità. E la necessità del rapporto causale
trae la sua prima origine dalla coscienza dell’ identità e continuità della
nostra attività produttrice. Il nesso causale estendendosi poi fin dove arriva
il movimento, e un certo movimento trovandosi in ogni forma di pensiero, non è
a meravigliarsi che la causalità appaia una legge del pensiero a cui fa
riscontro il moto di generazione e di attività che si lascia constatare nella
realtà esterna. Del resto la Fisica riduce l'essenza della causalità a
movimento, il quale colle sue molteplici trasformazioni può dar ragione delle
più svariate potenze della natura: ed è mediante il movimento che noi
intendiamo la formazione di qualcosa a sè che è considerata come effetto:
questo invero è concepito quale moto arrestato, quale prodotto esistente per sè
e a parte dal flusso dei fenomeni da cui ésso proviene e che d’altro canto ad
esso fa seguito. Riassumendo, per il Trendelenburg l'essenza della legge va
ricercata nel moto del farsi o di prodursi di una cosa, quasi diremmo nel
cammino che percorre l’attività generatrice del reale e per lui la conoscenza
delle leggi in tanto è possibile in quanto l'intelligenza rifà mediante i
giudizi il medesimo movimento, dando origine ad un prodotto intellettuale
esprimente l'essenza o ciò che val lo stesso la legge della cosa: tale prodotto
logico è il concetto vero e proprio o universale concreto. Nulla vi ha di dato
nel mondo, ma tutto si fa, tutto si costruisce in vista di un fine: ond’'è che
tale movimento di costruzione nel cui fondo giace sempre un pensiero, è la
legge obbiettivamente considerata, mentre che il medesimo moto o attività
costruttrice formulata in un giudizio ci dà la legge quale viene enunciata dal
soggetto pensante. E il concetto è un sistema di giudizi mediante i quali lo
spirito pensa fuse e compenetrate tra di loro tutte quelle condizioni che
rendono necessaria l’attuazione del processo. Se una di quelle condizioni si
pensa in sè e come capace ad unirsi con condizioni diverse di gruppi diversi,
cioè capace d'intrecciarsi in altri processi egualmente necessari, si ha,
secondo il Trendelenburg, l'universale della reale condizione. Ciò che non va
dimenticato è che lo spirito non giunge alla vera conoscenza scientifica, al
regno della necessità, prima di esser pervenuto al concetto (legge); stantechè
in esso non solamente egli informa l'essere della sua universalità, ma scorge
il processo necessario per cui questa universalità si pone, si attua e sì
svolge. Ond’è che non basta avere la rappreseniazione, la percezione o anche la
nozione astratta di una cosa qualsiasi per dire che se ne ha una notizia
scientifica, ma occorre averne il concetto, vale a dire occorre conoscerne la
legge o l’essenza. Così io dopo aver percepito la rugiada posso averne la
nozione, pensando la rugiada quale è da sè a prescindere dalle determinazioni
accidentali di spazio o di tempo: in tal caso nel puro pensiero non ci sarà
quella data rugiada, ma la rugiada in generale di cui posso dare una
definizione nominale, buona per tutte le specie di rugiada: ma me ne manca
ancora la notizia scientifica, il concetto: per il che devo ridurre quel
fenomeno particolare alla categoria dei fenomeni affini e che provengono da un
disquilibrio di temperatura, conoscere il limite della quantità di vapore
acqueo che può contenersi nell'atmosfera, e come esso limite vada
restringendosi a misura che la temperatura vada abbassandosi; come dallo
intrecciarsi di queste condizioni con l’altra della gravità per la quale i
corpi non sostenuti cadono, riceva il fenomeno della rugiada compiuta
spiegazione. Ciò che vi ha di vero, secondo noi, nell'opinione del
Trendelenburg è che se si vuo] dar ragione del divenire delle cose, del loro
modo di farsi e di generarsi non è possibile astrarre dal fattore
dell'attività, la quale si può estrinsecare in vari modi e tra gli altri per
mezzo del movimento. Questo anzi si può considerare come l’estrinsecazione per
eccellenza, la forina intuitiva dell’attività stessa. Noi però non possiamo per
nessuna via considerare col Trendelenburg il movimento come qual cosa di
primitivo e di originario, giacchè esso non è che una rappresentazione
complessa derivata dai rapporti di spazio e di tempo delle nostre sensazioni,
onde non è lecito invertire i termini at‘tribuendo a ciò che è sussecutivo e
derivato l’ufficio di principio atto a dar ragione di ciò che almeno
relativamente è originario. Per poter considerare il movimento in sè © per sè,
bisognerebbe poterlo osservare o sperimentare, senza ricorrere all’azione dei
sensi, il che è assurdo: ed anzi vi ha dippiù: a seconda delle varie formé di
sensibilità si ha di esso una notizia diversa: p. es. al senso tattile esso si
rivela con proprietà diverse da quelle con cui si rivela al senso della vista.
E ciò che noi percepiamo mediante l’azione di uno, o di un altro senso non è il
modo con cui un oggetto in moto inizia e prosegue il passaggio da un sito
all’altro dello spazio, ma bensi il fatto che l'oggetto stesso è già passato in
un altro posto: percezione codesta che ci vien fornita dalla constatazione dei
nuovi rapporti in cui l'oggetto si trova. In tanto è possibile considerare il
moto come qualcosa di primitivo e di originario in quanto ad esso vengono meta
foricamente e simbolicamente attribuiti i caratteri propri della nostra
attività interiore. I caratteri che contradistinguono la concezione dualistica
sono due: 1° stando ad essa le leggi sono una elaborazione anzi sì potrebbe
dire addirittura una produzione dello spirito sulla base dei dati provenienti
dall'esperienza, dati che son sempre qualcosa di profondamente diverso
dall'attività intellettuale capace di apprenderli, trasformandoli ed
enunciandoli in forma di leggi. E qui va notato che a seconda che si ammette o
pur no affinità o identità tra le forme del pensiero e quelle della realtà si
avranno, come si vedrà più tardi, delle suddivisioni nel seno stesso della
concezione dualistica. Ciò che in ogni caso forma il tratto caratteristico di
detta concezione è che secondo essa il contenuto dell’esperienza, la
costituzione intima del reale essendo inaccessibile all'intelletto, non può per
ciò stesso essere espresso ed intrinsecato nelle leggi, le quali ci danno così
nelle loro enunciazioni la forma del reale, ma non mai la sostanza. Così mentre
per la concezione intellettualistica e per quella animistica le leggi figurano
come dei semplici riflessi di fatti e nessi reali nell’intelligenza umana,
perla concezione dualistica le stesse si presentano come vere costruzioni e
creazioni dello spirito. 2° Stando alla medesima concezione, vi sono due
categorie fondamentali di leggi irriducibili l’una all'altra, le leggi
esplicative (leggi naturali) e le leggi normative (leggi pratiche): le prime
esprimono l'essere, le altre il dovere, e mentre quelle sono delle formule,
degli schemi che ci aiutano a richiamare in mente i casì concreti e a
catalogare la realtà, il cui contenuto è impenetrabile, le ultime indicano le
direzioni, o meglio, le esigenze della nostra attività. É naturale che se il
contenuto obbiettivo delle leggi esplicative rappresenta un'incognita per lo
spirito, non sì può dir lo stesso del contenuto delle leggi normative, le quali
riferendosi alla nostra attività figurano come l’espressione di ciò che è
intimo a noi ed ha la maggiore realtà. Il primo sostenitore della veduta
dualistica, la quale, come si è veduto, implica in fondo il distacco del
dominio dell'intelletto da quello dell'attività e il riconoscimento della
spontaneità interiore che appropriandosi dei dati dell'esperienza, li elabora e
li trasforma in determinate guise, fu E..Kant. Ogni cosa, disse Kant, è
regolata dalle leggi che nell'apprenderla e nel conoscerla vi ha impresse
l'intelletto umano, ma solainente un essere ragionevole opera secondo
rappresentazioni di leggi, ossia secondo principii ed ha quindi un volere. Ora
il volere può essere deterininato d_lla ragione in modo assoluto e
imprescindibile, ovvero no: nel primo caso le azioni riconosciute come
obbiettivamente necessarie, diventano pur tali subbiettivamente, perchè allora
il volere sta nella sola facoltà di eleggere ciò che la ragione riconosce come
buono, nel secondo caso, il quale ha luogo quando il volere può esser mosso da
impulsi soggettivi e quindi non è interamente conforme a ragione, le azioni
sono obbiettivamente necessarie e subbiettivamente contingenti; cioè la legge
obbliga e rivolgendosi al volere di un Essere ragionevole gli prescrive una
determinazione conforme a ragione, ma senza costringervelo. Però i precetti che
la ragione porge al volere e quindi le formole che li esprimono e che vengono
da Kant chiamati Imperativi, possono essere di due maniere. La ragione cioè può
prescrivere un'azione come buona per se s‘essa, e quindi come obbiettivamente
necessaria senza aver riguardo ad alcun fine e allora l'imperativo che formola
questo precetto è un imperativo categorico; oppure la ragione può prescrivere
un'azione come praticamente necessaria ad ottenere un fine reale o possibile e
allora gl'imperativi che ne formulano i precetti si dicono Iporetici; (potetici
problematici, se il fine è possibile, cioè può soltanto avvenire che l’uomo se
lo proponga, ipotetici assertori, se il fine è senz'altro e sempre voluto. È
facile il vedere come, secondo il pensiero di Kant, sebbene non sempre
chiaramente espresso, al solo Imperativo categorico debba propriamente
attribuirsi la facoltà di obbligare, di prescrivere un dovere, mentre gli altri
non ci dànno propriamente che delle regole e dei consigli. Gl’imperativi
ipotetici assertori prescrivono i mezzi ai fini svariatissimi (moralmente buoni
o cattivi) che un Essere ragionevole può proporsi: questi imperativi non sono
propriamente che regole e potrebbero chiamarsi gli imperativi dell’abilità
(Geschicklichkeit). Se non che tale veduta kantiana fu fatta segno ad
obbiezioni di varie sorta. I)a una parte Schleiermacher, Paulsen e in genere i
fautori della concezione animistica, opposero che tra legge naturale e legge
normativa non esistono differenze apprezzabili, ma a ciò fu risposto che
l’affermare una tal cosa equivaleva a confessare di non aver un’idea chiara di
ciò che sia nè una legge naturale, nè una legge precettiva. Una legge naturale
infatti esprime solamentu ciò che sotto date condizioni accade sempre senza che
sia possibile il presentarsi di una eccezione : è naturale che le condizioni
divengano complesse a misura che dalle leggi naturali di ordine generale si
scende a' quelle speciali: ma non vi è caso che un dato fenomeno enunciato in
una legge naturale si presenti immutato o costante se le condizioni
corrispondenti o non si presentano del tutto, ovvero sl presentano in modo
variato o imperfetto. Ora è lecito porre sopra una medesima linea le deviazioni
degli obbietti singoli dal loro tipo generico (ammesso pure che le dette
deviazioni possano essere identificate colle deviazioni dalle leggi naturali,
il che non è) e gli strappi fatti dalla volontà individuale ad una legge
precettiva ? O nella nozione generica s’introduce una forma di valutazione,
intendendo per quella l'ideale verso cui gl'individui di una data specie
tendono, date le condizioni favorevoli, e reputando o gni allontanamento dall’ideale
come qualcosa che non doveva essere, come una imperfezione, e in tal caso si
avrà il perfetto riscontro colle deviazioni della volontà individuale dalla
legge normativa, ma ci si troverà agli antipodi della legge naturale: ovvero si
considera il tipo generico come l’insieme di quelle proprietà che in una
pluralità d’individui, data l’uniformità e la relativa immutabilità delle loro
condizioni d’origine e d'esistenza, sì presentano in modo costante, ed in tal
caso le variazioni del tipo generico prodotte dall'azione di date cause hanno
un certo riscontro colle apparenti modificazioni delle leggi naturali, ma sono
agli antipodi delle deviazioni della volontà della legge precettiva. Per
considerare le leggi naturali come identiche in fondo a quelle morali, bisogna
ridurre queste ultime a pure descrizioni del modo come gli uomini si conducono
sotto date condizioni, ma con ciò il concetto vero del dovere viene ad essere
tolto via, giacchè le azioni umane in tal caso come i fatti naturali vengono ad
essere sottratte al giudizio valutativo vero e proprio. Il difetto della
concezione animistica sta tutto qui: nell’aver creduto di poter cancellare
qualsiasi differenza tra le leggi esplicative e quelle norinative che invece
sono controdistinte da caratteri diversissimi: le prime esprimono le condizioni
sotto cui la realtà diviene pensabile e intelligibile, stanno a significare le
peculiari maniere in cui la ragione umana reagisce di fronte all’apprensione
del reale, nulla dicendo della natura intima e del significato del reale,
mentre le altre sono esigenze proprie dello spirito rivelantisi immediatamente
alla coscienza ed esprimenti la natura propria di quello ; le prime pur
accennando necessariamente a qualcosa d'interno, non l’estrinsecano in alcun
modo, arrestandosi alla considerazione della parte formale della realtà, le
altre invece esprimono le direzioni dell’attività umana: le prime infine
possono far pensare ad una forma di attività che è il riflesso di quella
interiore, mentre le altre sono le determinazioni immediate di tale attività.
Confondere le leggi dichiarative colle precettive è come confondere la
causalità esterna (trasmissione di movimento) con quella interiore (motivazione
dell’attività). Dall'altra parte fu obbiettato a Kant: se la necessità obbiettiva
si differenzia da quella puramente subbiettiva per questo che la prima fondata
com'è sulla natura delle cose, é valida egualmente per tutti gli esseri, mentre
l’altra fondata su particolarità individuali e subbiettive è valida soltanto
per i soggetti che son forniti di queste, come mai può avvenire che tutto ciò
che è necessario per gli esseri forniti di ragione, non è poi più necessario
per una parte di essi? Ciò accade, risponde Kant, perchè l’uomo risulta di varî
elementi per modo che ciò che è necessario per l’uno di questi, può benissimo
essere accidentale per l'altro. È necessario così l'adempimento della legge
morale per l’uomo considerato come essere ragionevole, il quale colla ragione
appunto conosce la necessità della legge stessa ; ma all'opposto non è
necessario per l’uomo considerato solo come essere fornito di volere, perchè
come tale non è spinto all’azione solo dalla ragione, ma anche da altri
impulsi. E la legge morale è appunto una legge della volontà, in quanto pone
come necessario che l’uomo segua col suo volere una determinata direzione.
Riconoscere questa necessità e insieme affermare che la volontà umana non
concorda necessariamente con la legge morale non include nient'affatto
contradizione, se sì pensa che nel primo caso si tratta di una necessità
diversa da quella del secondo caso: donde la distinzione della necessità
obbiettiva della esigenza morale da quella subbiettiva basata sul rapporto
della volontà con la detta esigenza. Se non che tale distinzione, si è notato
dagli oppositori, non regge in quanto la neeessità obbiettiva si riferisce
appunto alla voloutà e quindi abbraccia la necessità subbiettiva. In seguito a
ciò, pure ammettendo che il concetto li legge sia suscettibile di due
interpretazioni diverse a seconda che si tratti di leggi esplicative o
precettive, si è cercato altrove il fondamento della detta distinzione. Si è
cominciato col notare come non soltanto nel campo della morale, rua in tutti i
dominii dell'attività umana, nessuno escluso, accada che gl’individui in casi
numerosissimi non seguono leggi, che pure si presentano col carattere più
accentuato dell’universalità. Così per quanto incondizionatamente valide si
presentino le leggi logiche e matematiche, ciò non impedisce che conclusioni
false ed errori di cali colo abbiano luogo : e lo stesso si può dire delle
leggestetiche, grammaticali, ecc. V'ha dippiù : ciò che si rileva in
opposizione alle leggi normative generali, non solo è possibile e reale, ma è
in un certo senso necessario : come al fisiologo sembra naturale la sanità allo
stesso grado che la malattia, così al psicologo l’errore e il male sembrano
naturali come il vero e il bene. Del resto le leggi precettive non esprimono
tutto ciò che è possibile, ma bensi ciò che è giusto o rispondente ad un dato
scopo. È evidente che la parola neccesità non ha un valore eguale trattando di
leggi esplicative o di leggi normative: nel primo caso la necessità implica che
un dato fenomeno risulta necessariamente dal complesso delle sue cendizioni,
nel secondo caso invece indica ciò che si deve fare perchè l'obbiettivo di una
data forma d'attività, la conoscenza del vero, la produzione del bello o la
pratica del bene, sia raggiunto. Dall’un canto la necessità serve a
contrassegnare il nesso del conseguente colle sue condizioni quale sì presenta
partendo da queste ultime come da ciò che è dato; dall'altro canto la necessità
serve a contrassegnare lo stesso nesso quale si presenta dal punto di vista del
conseguente, partendo cioè come da ciò che è dato dalla rappresentazione
dell’intento da conseguire, per mostrare sotto quali condizioni, con quali
mezzi ciò è reso possibile. Ora mentre colle cause son dati sempre e
necessariamente anche gli effetti, non si può dire che col fine o meglio colla
rappresentazione del fine sia dato sempre e necessariamente l’impiego di dati
mezzi e le modalità dell’impiego stesso, onde consegue che le leggi naturali
hanno un valore universale, mentre quelle pratiche dicono, sì, che
incondizionatamente certi scopi possono essere raggianti solo con un dato
ordine di mezzi, e in tale rapporto, se esse sono giuste, non temono smentita
dai fatti; ma dell'applicazione effettiva dei detti mezzi nulla ci dicono, per
modo che non è esclusa la possibilità che i mezzi non siano applicati e che per
conseguenza lo scopo non sia neanche lontanamente raggiunto. Le leggi
dichiarative dicono: date queste condizioni deve necessariamente conseguire
questo effetto: quelle pratiche invece: se un dato scopo deve essere raggiunto,
bisogna operare in tale maniera e non diver samente. Se poi nei casi
particolari si procederà effettivamente così e se quindi l’obbiettivo
corrispondente sarà aggiunto non è certo appunto perchè ciò dipende dal modo in
cui sì determina l’attività individuale ed è tale incertezza che trasforma la
legge in una forma di esigenza umanae. la necessità che l’esprime in dovere.
Qui si presenta une questione: É giusto mettere tutte in un fascio le leggi
normative o precettive? Noi crediamo di no, in quanto alcune di esse si
presentano come regole dedotte da determinati rapporti offerti dall’esperienza,
mentre altre figurano come l’espressione della natura propria del soggetto e
quindi vanno considerate come funziori di esso : così le leggi precettive
igieniche, dietetiche ecc. in tanto sono valide in quanto sono fondate su
determinati nessi causali constatabili per mezzo dell'esperienza e quindi
contingenti, per contrario le norme logiche e morali sono anteriori a qualsiasi
esperienza, s0no esigenze dell’attività umana e stanno a significare ciò che vi
ha di proprio nella natura del soggetto pensante sia dal punto di vista
teoretico che pratico. Ma di ciò sarà trattato più diffusamente in seguito.
Dicemmo di sopra che Emmanuele Kant va considerato come il vero fondatore della
concezione dualistira, avendo egli ammesso, dopo aver profondamente
differenziato le leggi normative da quelle esplicative, che ì giudizi necessari
ed universali intorno alla realtà occasionati dall’esperienza, in tanto sono
possibili, in quanto lo spirito umano è fornito della capacità di apprendere i
fatti concreti per mezzo di forme a priori o appercettive, le quali servono ad
universalizzarli e ad obbiettivarli. Sono queste nozioni appercettive, o
predicati universalissimi o categorie, o forme a priori, o funzioni
dell’intendimento umano che unite, mediante giudizi di ordine speciale (giudizi
sintetici a priori) coi dati percettivi concreti, rendono possibile .la
scienza, cioè a dire la trasformazione del fatto subbiettivo del sentire in
qualche cosa di obbiettivo esistente in modo ordinato nello spazio e nel tempo
e insieme l'enunciazione in formule universali delle varie sorta di azioni e di
relazioni esistenti tra le cose. Non è nostro intendimento ora fare la storia e
la critica delle vedute kantiane intorno alla possibilità dei giudizi sintetici
a priori, in quanto ciò ha formato oggettò di svariatissime e importantissime
ricerche il cui risultato è stato la trasformazione del primitivo kantismo. I
mutamenti che ha subito il pensiero kantiano, passando attraverso ia mente dei
vari Logici moderni sono stati molteplici e non sempre si fu d'accordo intorno
al modo d’interpretare, di completare e di svolgere il pensiero del maestro:
tuttavia non è impossibile collegare insieme le varie opinioni emesse,
considerandole da un punto di vista superiore. Per quanto numerose e rilevanti
siano le discrepanze tra i filosofi criticisti intorno alla estensione ed al
significato dall’a priori kantiano, vi sono dei dati ammessi da tutti e su cui
non cade alcun dubbio o disparere. Così tutti concordano nell’ammettere il
corrispettivo obbiettivo dell'elemento formale di ogni conoscenza, vale a dire
la cooperazione della realtà nella genesi delle forime appercettive, in modo
che questo lungi dall’esser considerate come semplici funzioni o obbiettiva
trai zioni dello spirito umano, sono ritenute il risultato della cooperazione
di due fattori, del fattore subbiettivo e di quello obbiettivo. D'altra parte
si è d'accordo nel riguardare le forme appercettive (le nozioni di uguaglianza
e di differenza, di tutto e parti, di grandezza, di rapporto causale tra i
fatti successivi e di connessione reciproca tra fatti coesistenti e di fine)
come acquisti dello spirito umano avvenuti sotto la guida di alcuni principî
supremi comuni al pensiero ed all'essere, quali il principio d'identità, quello
di contradizione e quello di ragione, ecc. E qui va notato che non tutti i
filosofi son disposti ad attribuire un egual valore ai suddetti principii,
giacchè per taluno, come per il Riehl, il principio regolatore supremo è quello
d'identità, mentre per altri è quello di contradizione colla cooperazione però
più o meno valida degli altri principii : questione codesta che a noi non
compete di esaminare. Conchiudendo, possiamo dire che il neo-kantismo non
considera più le varie leggi scientifiche quali giudizii sintetici aventi il
loro fondamento ultimo nei giudizii sintetitici a priori, costituenti poi i
veri principii delle scienze, ma come il risultato della trasformazione dei
nessi e rapporti puramente sperimentali in nessi e rapporti logici. Non è
dunque riposta l’essenza della legge nell’applicazione di determinate categorie
ai fatti concreti, ma nella trascrizione dei fatti o processi sperimentali in
fatti e processi aventi organismo e struttura logica. Tra i filosofi criticisti
quegli che più e meglio di tutti ha trattato la quistione della natura e delle
forme della conoscenza scientifica è certamente il Riehl], il quale nella sua
pregevole opera // Criticismo filosofico, ha emesso delle vedute degne di
essere conosciute. Egli comincia coll'’ammettere una profonda differenza tra le
leggi normative e quelle esplicative in quanto le prime esprimono il dovere in
rapporto al conseguimento di un dato scopo, mentre le altre esprimono l’essere;
in base alle prime giudichiamo del valore, dell'importanza di una data cosa,
mentre in base alie altre della realtà o della verità : le prime denotano
tendenze e s’indirizzano all’avvenire, le altre dati di fatto e vertono su ciò
che è ed accade: le prime infine sono una determinazione del gusto, del
sentimento e della volontà umana, mentre le altre sono emanazione della ragione
e dell’attività coroscitiva. Dal che consegue che la scienza, la quale si può
considerare come l'ordinamento razionale delle leggi esplicative, presenta
l’uomo quale un prodotto della natura, quale risultato delle leggi generali di
essa, mentrechè la filosofia pratica riferendosi al possibile e all’ideale,
risguarda l’uomo nella natura come causa, come un essere cioè che in base alla
conoscenza delle leggi natarali può proporsi dei fini e mettere in opera tutta
la sua attività per raggiungerli. Ma se la filosofia pratica può avere il suo
punto di partenza nella conoscenza della natura umana fornita dalla scienza
(Antropologia, Pisicologia, Storia ecc.), rapportandosi poi a ciò che deve
essere, esplica la sua azione, ponendo sempre nuove esigenze al sentimento, al
volere ed alla coscienza umana. Nell’approfondire la natura della conoscenza
scientifica il Riehl nota che la legge esplicativa che è sinonimo di rapporto
necessario, esprime l’azione esercitata sulla ragione dalla stabilità ed
uniformità del corso dei fenomeni. La relazione esistente tra la realtà e il
pensiero costituisce l'esperienza propriamente detta: e le leggi scientifiche
sono il prodotto da una parte della regolarità con cui sotto condizioni eguali
si presentano fenomeni identici, o della stabilità delle proprietà fondamentali
delle cose, e dall’ altra dell’ attività concscitiva del soggetto. Onde la
legge è per l'intelligenza ciò che è il fine per il volere e il bello per il
senso estetico : in tutti e tre i casi i due termini s'implicano a vicenda;
tanto é ciò vero che le cosidette leggi naturali lungi dall'essere in rapporto,
come a dire, accidentale colle leggi del pensiero, sono il risultato, quanto alla
loro forma, di queste ultime. Pertanto l’affermazione che in natura tutto av.
venga in modo meccanico è falsa, se s'intende dire che per tale via si riesce a
comprendere la natura propria, e le qualità intime del processo naturale; il
meccanismo delle cose lungi dal manifestare l'essenza di un qualsiasi fatto
naturale, rappresenta la forma di questo; e la meccanica ricercando
l'equivalente dei cangiamenti svolgentisi nella natura, non svela nient’affatto
la natura propria delle cause dei detti cangiamenti. É per questo che le leggi
esp imenti i rapporti delle cose devono presentare i termini connessi in modo
continuo e immediato nel tempo e in maniera intelligibile per l'intendimento,
vale a dire congiunti secondo il rapporto dell'uguaglianza quantitativa,
riducibile al principio d'identità. E a che ai riducono le leggi del pensiero,
le categorie logiche, che applicate alla realtà, rendono possibile la
formazione delle leggi scientifiche ? Le condizioni logiche dell'esperienza,
dice il Riehl (1), le categorie della Rienc, Der philosophiscrie Kriticismus.
Zw. B. Leipzig. sostanza, della causalità e dell’unità sistematica della
natura, non sono, come insegnò Kant, forme primitive diverse e irriducibili del
nostro intelletto, ma derivano da un unico principio saperiore, da quello
dell'unità e conservazione della coscienza in genere, il quale dà loro origine
quando viene applicato ai rapporti generali presentati dall'intuizione. L'Io è
cosciente della suna unità e della sua identità con sè stesso, condizione prima
di ogni altra conoscenzà, sia che scompone una molteplicità simultanea di
impressioni (la cui forma intuitiva è lo spazio), sia che connette una serie
successiva di impressioni, sia finalmente che scompone e congiunge insieme,
vale a dire che unisce i due atti precedenti, affinchè emerga il concetto
dell’unità sistematica del tutto. Noi possiamo quindi distinguere tre diverse
funzioni pertinenti alla coscienza (una ed identica con sè stessa), una
funzione analitica (che ci dà la categoria di sostanza), una sintetica (che ci
dà la categoria di causalità) ed una sintetica ed analitica insieme (che ci dà
la categoria dell'unità sistematica); mediante la prima è differenziato il
permanente dal mutevole, mediante la seconda è collegato il cangiamento colla
sua causa, mediante la terza finalmente tutto il reale, cose e processi, viene
considerato come un sistema organico composto di varie parti. È questa
l’espressione più completa e più perfetta della concezione dualistica; e non si
può non convenire che essa segna un notevole progresso rispetto agli altri modi
d’interpretare la natura delle leggi; ma possiamo noi dichiararci soddisfatti
appieno ? Notiamo subito che il difetto di tale veduta sta tutto nel ritenere
che la natura propria della legge si riduca all’affermazione di un rapporto di
natura quantitativa; ora la legge oltreché l’espressione di una equivalenza, è
l’espressione dell'attività di una cosa sull'altra. L'ideale verso cui tende la
scienza nel fomulare le sue leggi non è l'affermazione esclusiva dei rapporti
quantitativi, ma l'indagine delle condizioni determinanti dati fenomeni,
condizioni che diventano spesso visibii all'intendimento e vengono fissate per
mezzo dei rapporti quantitativi non altrimenti che in un quadro è pel colore
che diventano visibili le linee, i punti e fino la mancanza perfetta di linee,
il nero, la tenebra. É evidente però che l'essenza della legge non può essere
riposta in un momento subordinato ed ausiliario, per quanto necessario. Con le
sole leggi della meccanica, con le sole ridistribuzioni della materia e del
movimento non s’in'ende come si possano produrre forme così diver:e della
realtà. La concezione meccanica, come quella che è solamente quantitiva, non
soddisfa al bisogno che la conoscenza ha del sistema, non rende ragione della
Zinitazione e direzione delle forze. Con la materia e col movimento soltanto
noi abbiamo una possibilità affatto indeterminata, la possibilità di mondi
innumerevoli diversi: che cosa determina la genesi del mondo della nostra
esperienza ? Ciò posto, come mai si può affermare che la scienza abbia per
compito essenziale d' indagare la costituzione meccanica del Reale? La scienza
tende invece a conoscere la natura propria delle cose quale sì manifesta per
mezzo delle loro azioni o funzioni e per mezzo del numero maggiore o minore di
attinenze (delle quali le quantitative sono una sorta soltanto) che esse hanno
col rimanente della realtà. L'essenziale della conoscenza scientifica non sta
nel delineare semplicemente le variazioni spaziali e temporali di una cosa, ma
nel cercare di studiare le proprietà, le qualità e le relazioni di essa, tanto
è ciò vero che la scienza seria ed esatta lungi dall’abbandonarsi a ricercare
la spiegazione e la ragione di tutti i fatti nei semplici spostamenti spaziali
e temporali, studia ciascuna categoria di fenomeni separatamente senza
lasciarsi fuorviare dalle analogie o somiglianze astratte e va in traccia
sempre delle condizioni peculiari concorrenti a determinare una data classe di
fenomeni. E tutte le ipotesi scientifiche non hanno la loro ragione di essere
nella esigenza imperiosa della scienza di approfondire la natura propria delle
cose, prescindendo dalla esclusiva considerazione della grandezza e della
quantità ? L'errore del Riehl è di aver identificato ogni forma di cansalità
con quella esterna o meccanica (1), chiudendosi cosi la via di interpretare i
fatti di cristallizzazione, di coesione, ecc. ecc,, buona parte dei fatti
chimici e biologici e tutti i fatti spirituali, ove vige in modo evidentissimo
‘0 principio dell’ aumento dell’ energia ; ora si (1) La causalità fisica è
profondamente diversa da quella psichica, in quanto ciò che è causa nella prima
e quindi fa essere una cosa diviene motivo nella seconda, cioè, giustifica la
cosa, ciò che in quella è azione meccanica proveniente dall’esterno (causa ed
effetto son considerati come l’una fuori dell’altro) ed è quindi accessibile
alla osservazione esterna e alla comparazione quantitativa, nell’altra è azione
interiore proveniente, anzi da ciò che vi ha di più profondo nell'essere ed è
accessibile soltanto all'osservazione interiore. La causa agisce per ciò che è
in sè, mentre il motive per il valore che gli vien dato dall'insieme della vita
spirituale, valore che può variare moltissimo, donde la varietà delle determinazioni
volontarie nei varii individui e le reazioni subbiettive diverse ad un medesimo
fatto, Da tutto ciò consegue che è una conpuò affermare che in tutti questi
casi non è a parlare di leggi, vale a dire di maniere costanti ritmiche di
operare, di rapporti necessari e universali, di funzioni determinate, quindi di
scienza? Aggiungiamo che se il principio di identità fosse l'esclusivo
principio supremo della intelligenza e se quello di ragione non fosse inerente
alla natura propria dell'intelletto, non si vede come e perchè la cosidetta
identità sintetica potrebbe entrare in azione. Secondo il Riehl, infatti, noi
siamo tratti a identificare sempre ciò che è straordinario o inusitato con ciò
che già sappiamo: ora in questo caso l’identificazione non rappresenta che il
messo di poter rispondere all’esigenza di ricercare la ragione di ciò che ci sì
rivela come nuovo e irriducibile al resto. Il fatto prinitivo è sempre il
principio di ragione e l'identificazione non è che un mezzo, nè necessario, nè universale.
Noi potremmo riferire numerosissimi esempi per provare come la essenza della
legge non vada riposta nell’enunciazione di un rapporto quantitativo. Citeremo
qualche fatto soltanto tolto dalla Biologia, Così è noto che il ricambio
materiale se può ra ppresentare una delle condizioni indispensabili al
funzionamento degli organi, non ne è la causa determinante ed essenziale, la
quale deve essere ricercata nell’ organizzazione, tradizione parlare di leggi
naturali della volontà in quanto questa opera, trasformando le cause in motivi,
rendendole cioè un fatto interno. L’operare in seguito a motivi non rende
possibile l’operare secendo leggi, m a l’operare secondo norme e regole, dal
seguire le quali è agevole sottrarsi una volta ammesso che la forza dei motivi
dipende dal valore che vien loro dato dal complesso della vita psichica, la
quale essendo diversa per ciascuno individuo, produrrà diversità anche nel modo
di operare dei motivi e quindi nella maniera di attenersi alle dette norme,
nella morfologia dei tessuti: quand’anche conoscessimo e sapessimo determinare
quantitativamente tutte le innumerevoli reazioni chimiche che si svolgono nel
nostro organismo, ci resterebbe a conoscere come l’ energia che esse sviluppano
si trasformi in funzione, come nei complicati ingranaggi dei nostri tessuti la
stessa possa estrinsecarsi sotto forma di calore, di elettricità, di moto, di
secrezione, di attività nervosa, ecc. Nell’atto chimico si deve riconoscere la
causa dell’energia disponibile, ma la funzione si determina trasformando
quell’energia, plasmandola in mille modi, presentandola sotto diversissime
manifestazioni. E qui giova notare che non selo i risultati delle reazioni
chimiche che avvengono in un organismo, ma anche le condizioni che le
determinano hanno qualche cosa di speciale e di e clusivo agli esseri viventi,
all’organizzazione, cioè ed ai suoi prodotti. Noi possiamo infatti riprodurre
alcuni di quei processi chimici che si svolgono nella trama dei nostri tessuti,
ma per ottenere gli stessi risultati dobbiamo impiegare delle altissime
temperature, delle enormi pressioni, delle correnti elettriche assai potenti o
l’azione di reattivi di tale violenza da distruggere qualunque organismo, Negli
esseri organizzati invece si hanno gli stessi effetti ad una temperatura egnale
o di poco superiore a quella del''ambiente, alla pressione atmosferica
ordinaria, sotto l'influenza di correnti appena dimostrabili ed approfittando
di debolissime affinità. Ora forse dal fatto che la vita non può ridursi al
ricambio materiale puro e semplice, determinabile quantitativamente, deriva
l'impossibilità di pailare di leggi fisiologiche o biologiche ? Tali leggi
saranno indeterminate dal punto di vista quantitativo, ma sono determinatissime
dal punto di vista qualitativo. L'essenziale non è la fissazione quantitativa,
ma quella qualitativa delle condizioni genetiche di un fenomeno. L'opinione di
Kant che si possa parlare di scienza soltanto nei casi in cuì sia applicabile
il calcolo ha ormai fatto il suo tempo, perchè anche i rapporti qualitativi
formando obbietto d'indagine, possono essere formulati in leggi. Le leggi
intese in largo senso non rappresentano soltanto il prodotto della fusione del
fattore subbiettivo dell’ unità ed identità della coscienza (e categorie
logiche che ne derivano) con quello obbiettivo dell’ uniformità e rego larità
dei fatti esterni, ma figurano anche come il rifiesso o meglio l'applicazione
delle varie forme di attività psichica (tra le quali merita particolare
attenzione l'esigenza della ragione e del fondamento delle cose e la tendenza a
rintracciare la loro reciproca dipendenza) all’azione reciproca che presentano
le cose. La scienza naturale, è vero, s'arresta alla valutazione dei rapporti
quantitativi, che sono quelli accessibili alla misura, perchè i suoi obbietti
quali determinazioni spaziali e temporali e quali limitazioni di qualche cosa
d’identico e di continuo sono paragonabili quantitativamente, ma ciò non toglie
che una forma di conoscenza superiore e più completa debba tener conto delle varie
forme di azione esercitate dalle cose tra loro. Ed anche nelle scienze che
hanno per obbietto la natura, le leggi puramente descrittive e basate
esclusivamente su rapporti quantitativi tendono a divenire genetiche e
condizionali, segno che l'esigenza della scienza non è quella di trovare
semplicemente dei rapporti di equivavalenza, ma di mostrare come le cose
sussistenti solo in quanto sono attive, operino nelle varie contingenze. Ciò
che ha il maggior interesse per l’intelletto umano non è la pura fissazione di
rapporti quantita‘ivi, ma la determinazione dei rapporti di condizionalità e di
causalità, rapporti che se sono resi visibili per mezzo delle variazioni
concomitanti quantitative, non implicano nient'affatto l'equivalenza dei
termini dei detti rapporti. D'altra parte le varie funzioni di analisi, di
sintesi, e di analisi e sintesi insieme non s'intende come possano esser
ascritte all'unità della coscienza che è sempre un concetto puramente formale e
quindi vuoto : è necessario la sostituzione di qual cosa che dia ragione della
possibilità di differenziare e diidentificare i vari fatti psichici e insieme
della possibilità di scomporre e successivamente comporre i singoli fatti per
poter fondere in ultimo i due processi in uno. Ora il concetto che risponde a
tali requisiti per noi è quello dell’altività, la quale può divenire sorgente
di atti molteplici; atti che mentre da una parte si differenziano tra loro,
sono però congiunti per questo chehanno un'origine comune. Di guisa che la
funzione analitica della (1) RieuL: Op. cit. Fr. B. Schluss Qui è bene riferire
un passo del medesimo Riehl: “ Es kinnte in der Natur nichts auch nur relativ
Selbstindiges geben wenn es in ihr nicht wahre, sondern immer nur ùbertragene,
mithin scheinbare Thàitigkcit gàbe. Nicht bloss im Moralischen, auch im
Physischen wurzelt die Selbststindigkeit in der Selbsthiitigkeit Obgleich wir
uns die Elemente nicht auf psychische Art wirkend zu denken haben, also nicht
als Monaden vorstellen, so weist doch, “ie FErscheinung der physischen
Thiitigkeit auf eine wahre von den Elemznten ausgehende, nicht blos denselben
4usserlich eingeprigte Action zuriick. Nur was fàhig ist zu wirken ist und heisst wirklich. In d r Empfindung, die nicht blosse
Receptivitàt ist. sondern Reaction gegen den empfangenen Reiz haben wir den
Typus der Wechselwirkung auck in der nicht empfindenden Natur vor uns,
coscienza è resa possibile dall'avvertimento dei molteplici atti emergenti
dall'attività psichica, quella sintetica dall'’avvertimento della loro identità
d'origine e quella sintetico-analitica dalla fusione dei due processi o dal
congiungimento dei due momenti del medesimo fatto. Da tal punto di vista
l'essenza della legge in genere è riposta nel tentativo d’interpretare l'azione
reciproca delle cose presentateci dall'esperienza, basandosi sul modo d'operare
della nostra attività interiore. Del resto ciascun individuo nell'’enunciare
una legge, per quanto non l’esprima, sottintende tale concetto fondamentale
dell'attività. Ed è questo il sulo mode di poter comprendere l’unità delle
cose. Il detto fattore dell’attività non trova espressione adequata, perchè ciò
che è qualitativo e interno non può essere obbiettivato e insieme universalizzato
come i rapporti quantitativi, spaziali e temporali che rappresentano il
contenuto della coscienza intesa in senso universale e non di quella
individuale soltanto. Al di fuori del Criticismo, la concezione dualistica
della legge assunse una forma particolare nel Wundt, la quale merita di essere
mentovata (1). Il filosofo di Lipsia dopo aver messo in sodo che il concetto di
legge in genere originariamente derivò da quello di norma, riconobbe che esso
sì andò sempre più allontanando da questo a misura che i fatti costituenti
l'oggetto delle scienze esplicative non furono più considerati quali
estrinsecazioni d’ impulsi interiori, a misura cioè che furono presi in
considerazione dalla scienza le relazioni formali delle cose e non Wundt.
Etk:k, Stuttgart, Id. Logik. il loro contenuto e significato obbiettivo.
Pertanto la nozione di legge-norma divenne estranea da un pezzo alle scienze
naturali, contrariamente a ciò che accadde nelle scienze psicologiche e
storiche. Il processo delle scienze esplicative, nota il Wundt, s’intreccia
spesso con quello delle scienze normative, per modo che in queste si hanno
delle leggi dichiarative a fianco alle normative e viceversa: ciò che non va
dimenticato è che spesso il punto di vista esplicativo è anteriore e quindi
presupposto da quello normativo, il quale ha soltanto in esso la sua base. In
ogni caso le scienze normative si differenziano profondamente da quelle
dichiarative e descrittive per questo che nelle prime predominando le
leggi-norme, alcuni fatti sono differenziati da altri per mezzo del momento
valutativo, in base al quale i dati sono riguardati come conformi o contrari
alla norma. La contrapposizione del normale all’anormale mena alla
differenziazione del dovere dall'essere. Ora il punto di vista esplicativo
conosce semplicemente l'essere, onde le scienze che hanno per obbietto la
natura considerano ciò che è già dato e se esse accolgono anche la nozione di
norma e di dovere, l'essere in tal caso coincide col dovere per modo che non vi
può essere contradizione tra i due: il so/len diviene mdassen. Col toglier via
adunque ogni forma di valutazione viene ad essere tolta ogni possibilità di
differenziare i fatti in regolari e irregolari, in normali e anormali. Ma la
valutazione in tanto è possibile in quanto gli atti singoli che sono obbietto
della valutazione, sono considerati come un prodotto del volere umano, ond'è
che essi vengono distinti in atti conformi o non conformi alle esigenze
(norme), alle direzioni fondamentali del volere stesso. Ed è su ciò che è
fondata anche la distinzione del dovere dall’ essere. D'altra parte la norma di
fronte alla volontà può assumere la forma di comando, di regola riferentesi non
soltanto alla valutazione di atti già compiuti, ma alla produzione di fatti
avvenire. Però ogni uorma è originariameate una forma d’attività, una
determinazione, una regola del volere, e come tale, una prescrizione; è solo
secondariamente che può divenire una specie di stregua, di misura
indispensabile all’apprezzamento di a'ti già compiuti. Qui va notato che il
carattere normativo non sì rivela identico e costante in tutte le così dette
scienze normative : così di tutte le norme o regole grammaticali, una sola
conserva il suo carattere obbligatorio ed è che le forme grammaticali delle
varie lingue devono esser conformi alle leggi logiche del pensiero. Tutte le
altre regole grammaticali figurano coine il risultato di svariate condizioni
psicologiche e fisiologiche. In modo analogo, mentre la più parte delle norme
giuridiche hanno la loro origine nelle mutevoli e particolari condizioni
storiche della società, alcune soltanto indipendentemente da queste cause
posseggono forza obbligatoria dovuta alla natura morale dell'uomo. Anche nelle
norme estetiche va distinto l'elemento transitorio prodotto dalle influenze
storiche della moda e delle consuetudini da quello permanente, a cui noì siamo
disposti ad attribuire il massimo valore. Dalle molteplici radici del
sentimento estetico emergono le norme estetiche che prendono due direzioni
diverse : da una parte quella riferentesi ai principii della regolarità, della
simmetria, dell'armonia, dell'ordine che sono un prodotto del pensiero logico:
e dall'altra quella relativa alle bela Li et e i e "e _m..{i-_ b-°’’
_ieccosieliani esigenze ed emozioni etiche, per il cui mezzo il bello parla al.
cuore, assumendo le forme più elevate. Logica ed Etica, ecco le due scienze
normative vere e proprie: formando la prima la base normativa delle scienze
teoretiche, la seconda quella delle pratiche (1). Le norme della Logica possono
estendersi a tutto ciò che ci è dato dalla intuizione e dalle nozioni da questa
derivate ; ma nella loro applicazione non involgono un giudizio valutativo
intorno agli oggetti del pensiero logico ; può solo tanto il soggetto
considerato in rapporto alla sua attività cogitativa costituire la base di un
apprezzamento valutativo; le norme dell'Etica si riferiscono immediatamente
agli atti volitivi dei soggetti pensanti ed agli oggetti solo inquanto questi
debbono la loro origine agli stessi atti volitivi: come si vede, in tal caso è
il soggetto agente che nello stesso tempo forma oggetto della nostra
valutazione. Onde è chiaro che il subbietto del pensiero logico in tanto può
essere in qualche modo apprezzato in quanto è insieme obbietto etico : il
pensiero logico infatti come libero atto volontario può essere subordinato
all'attività morale. E la Logica avendo fra gli agli altri compiti anche quello
di trattare e di esaminare i criterî del pensiero vero e il valore dello
stesso, può benissimo essere chiamata Etica del pensiero. Di guisa che il
concetto del dovere non ha un significato eguale nella Logica e nell’ Etica,
giacchè per questa il dovere emerge dall'obbietto stesso della sua considera
(1) Teoretica è la ricerca scientifica vertente sul nesso reale dei dati di
fatto; pratica quella che ha per obbietto le produzioni della volontà umana e
le creazioni dello spirito. zione, mentre che nella Logica il dovere nasce
soltanto quando il processo logico è sottoposto ad un giudizio valutativo, vale
a dire quando è annoverato tra le azioni etiche. In tal guisa per il Wundt la
sorgente ultima della nozione di norma è nella moralità, e la scienza normativa
per eccellenza è l'Etica. Dipoi l’idea di norma prende due direzioni, da una
parte è applicata a quei dominii scientifici che per le loro condizioni
d'origine subbiettiva (atti volontarii) sono più affini ai fatti morali, dall’
altra parte è applicata a tutti gli oggetti dell’esperienza esterna ed interna,
i quali sono apparsi sottoposti ad una costante regolarità riguardo al loro
modo di presentarsi, di svolgersìi ecc. Si comprende agevolmente che la prima
trasformazione ed applicazione dell'idea di norma ha preparata la seconda,
giacchè il pensiero logico, è stato tratto con molta facilità a trasportare il
suo proprio carattere normativo agli obbietti ad esso sottoposti. D'altra parte
il carattere normativo del pensiero logico non avrebbe mai potuto svolgersi
completamente senza la corrispondente costanza e regolarità degli obbietti, la
quale però, giova tenerlo a mente, non sarebbe mai stata appresa senza il
concorso dell'attività del pensiero sottoposta a date norme: sicchè possiamo
ben dire che i due indirizzi presi dall'idea di norma, intrecciandosi, sì sono
aiutati a vicenda nel loro svolgimento, l’azione preponderante pur essendo
esercitata dal carattere normativo del pensiero logico. E qui si potrebbe
osservare che considerando la norna quale regola della volontà, quale
determinazione primitiva di questa, non si spiega come essa possa assumere la
forma di comando, senza implicare costrizione, necessità subbiettiva. Se la
norma rappresenta una determinazione della volontà, perchè si può e uon si può
seguirla? Donde la scissione, lo sdoppiamento del dovere dall'essere,
dell'ideale dal reale ? Ogni difficoltà sul riguardo viene a sparire, se si
tien conto del fattore sociale nella genesi della norma. Questa è, sì, una
determinazione della volontà, una forma d'attività, ma una determinazione della
volontà sociale, una forma dell'attività collettiva, rispetto alla quale la
volonta individuale si può benissimo trovare in antitesi per svariatissime
ragioni. Il carattere normativo ha la sua sorgente nell’intima relazione
esistente tra i varii individui (soggetti pensanti e volenti) componenti una
società, i quali sono come parti organiche di un Tutto d’ordire superiore. È il
volere e la coscienza sociale che si può imporre al volere dei singoli
individui (1). Tutte le norme e regole che hanno un valore obbligatorio sono da
considerare quale prodotto della coscienza e della volontà sociale. Invero le
varie forme di società (1) Recentissimamente taluno ha affermato che i prodotti
della collettività sono inferiori alle opere compiute dagli individui isolati:
riunite insieme, si è detto, i più grandi ingegni, in modo che tutti cooperino
alla produzione di un’opera collettiva, e vedrete che ne verrà fuori qualcosa
d’ imperfetto. Se ciò sia vero o no, non importa discutere qui: ciò che voglia
no mettere in evidenza è che le produzioni collettive naturali non vanno
identificate colle produzioni artificiali, arbitrarie di una qualsiasi riunione
d'’ individui, giacchè in quest’ultimo caso la collettività lungi dal
presentare i caratteri dell'organismo assume l’aspetto di qualcosa di
meccanico. È per questo che le note antagonistiche presentato dai vari
individui invece di essere armonizzate in un’unità superiore, si elidono a
vicenda. umana, costituiscono delle vere e proprie .unità organiche, le quali
hanno delle funzioni determinate, superiori a quelle degl'individui, adempiono
ad uffici più elevati e rispondono ad esigenze, per cui sarebbe inefficace
l’attività individuale. La connessione degli spiriti, l’azione reciproca, la
solidarietà vera, perché fondata su rapporti spirituali, dei varìl membri delle
società è un fatto che ci dà la chiave per spiegare taluni prodotti psichici
complessi, che altrimenti rimarrebbero un mistero. Così il lavorio
intellettuale dei diversi individui componenti la società umana ha avuto per
effetto di fissare lo scopo ultimo, l'ideale della conoscenza, togliendo dalle
direzioni particolari dell’ attività spirituale tutto ciò che vi era dì
accidentale, di subbiettivo, d’incoerente, d’inefficace e determinando una
direzione unica e consistente, atta cioè a connettere insieme i varii momenti
del processo cogitativo e a stabilire il rapporto del pensiero individuale con
quello universale. La volontà e la coscienza sociale hanno universalizzato il
pensiero, fissando l'ideale e quindi le norme a cui si deve conformare il
prodotto psicologico individuale, affinchè possa adempiere al suo vero ufficio.
Tutto ciò che non può essere messo in rapporto col sistema di relazioni
stabilite dalla vita storica e sociale dell'umanità non ha consistenza, e
quindi non è reale nello stretto senso della parola, nè vero: e le norme o le
leggi del pensiero non rappresentano che il modo, la via da tenere per poter
connettere il fatto singolare col sistema universale; sistema che d'altra parte
alla conoscenza riflessa si rivela come generato appunto da quei postulati
della conoscenza. Ciò non toglie che si possa presentare un fatto psichico il
quale, pure essendo un prodotto naturale e quindi fornito di una certa realtà,
non possa però essere messo in connessione col sistema di relazioni fissato
dallo spirito sociale, cnde proviene che esso è rigettato come erroneo, come
falso, come non rispondente all' ideale della realtà e verità. Con questo,
intendiamoci, non sì vuole escludere la parte che la costituzione psichica
individuale ha nel determinar: le norme logiche ; così l’unità e l'identità
della coscienza rispetto alla molteplicità e diversità dei suoi atti e del suo
contenuto, la cos‘anza della sua attività rispetto alle varie direzioni di essa
concorrono a far considerare come norma e legge dell’attività psichica un
determinato modo di operare che sembra sottratto a variazioni arbitrarie e
accidentali. Onde consegue che ammesso il caso che l’unità e l'identità della
coscienza non sia conservata o che il sistema di relazioni tra i varii fatti
psichici, costituente la continuità di tutta la vita mentale non siasi peranco
formato (bambini, stati particolari dello spirito, sogni, ecc.), sì potrà avere
un prodotto psichico naturale si, ma non logico, e quindi una violazione delle
leggi che furono dette costituire l'ossatura del nostro essere spirituale. Ma
la nozione completa di norma coi caratteri che la controdistinguono, tra i
quali primeggia l'obbligatorietà, non si sarebbe potuta avere senza la
cooperazione del fattore sociale. Da qualunque punto di vista si voglia
considerare la natura dello spirito umano, lo si faccia pure identico nella sua
origine all’assoluto e al divino, il certo è che a questo spirito il sapere
costa sforzo e fatica e che sulle cose a noi bisogna pensarci e ripensarci su,
prima di intenderle, La cosa fuori di noi, se reale, diversa essenzialmente da
noi, se ideale sta da una bande, il pensiero nostro sta dall'altra. Questa
opposizione, almeno immediatamente nella esperienza ordinaria, è innegabile,
quando pure si accordi che la speculazione possa perimerla ed annientarla. Ora
in un tal distacco della cosa dal pensiero, a questo non riesce d'’acquistare
tutta la cognizione della cosa per un atto d'intuito o per una deduzione
continua da un intuito primigenio o da una qualunque astrazione ultima. Il
pensiero tenta e ritenta, cerca e ritorna a cercare, prova e riprova. La cosa
sta lì come a dire immobile; il pensiero, come nota un arguto filosofo
contemporaneo, le si agita intorno per ghermirla e farla sua: il che vuol dire
per pensarla tutta e rendersela intima. Il prodotto di questo moto del pensiero
intorno all'oggetto è la scienza. Un fatto si complesso non è a meravigliarsi
che dia origine a problemi diversi. Infatti, si può ricercare : Quali sono i
presupposti psicologici e logici di tale movimento del pensiero ; Che cosa
nell'oggetto occasiona il detto moto del pensiero ; 3° Come il pensiero riesce
a rendersi suo l'oggetto e a pensarlo qual'è; 4° Che cosa è il pensato: che
cosa, cioè a dire, è in sè il prodotto mentale di questo moto del pensiero
intorno all'oggetto. E dalla soluzione di questi problemi che dipende la de
terminazione dell'essenza della legge, Cominciamo dalla discussione del primo.
È evidente che il primo presupposto psicologico della scienza è l’esistenza
dell'intelletto o facoltà di pensare esplicantesi nel riunire o separare
mentalmente i fenomeni secondo certi rapporti (potere di sintesi o di analisi).
Come il senso ci presenta il risultato di operazioni aritmetiche e geometriche
inconsapevoli sui movimenti esterni, così il pensiero, il quale fu detto la
facoltà di confrontare le cose e di vederne i rapporti, con un secondo lavoro
ordina ed elabora le sensazioni; la qual cosa fu espressa metaforicamente
dicendo che il senso fornisce la trama con cni l'intelletto tesse la stoffa del
pensiero. I rapporti stabiliti dall’intelletto sono stati distinti in semplici
e composti: come l’analisi chimica ha mostrato che il numero infinito dei corpi
naturali si riduce a combinazioni di una sessantina di corpi semplici, i quali
potranno forse ancora ridursi ad un numero minore, così l’ analisi psicologica
ha trovato che le nostre idee possono ridursi a poche idee elementari. Talchè
se i rapporti composti sono in numero infinito, quelli semplici sono pochi: si
riducono ai seguenti: rapporto di spazio e tempo (forme dell’intuizione),
rapporti di numero (unità e pluralità), di qualità (identità e differenza, di
sostanza e di causalità. Come si vede, i detti rapporti si riducono in parte
alle categorie. A noi ora non compete di passare a rassegna ì tentativi fatti
dai vari filosofi per ridurre il numero di essi e per dare a ciascuno un valore
determinato in rapporto alla sua genesi; a noi basta di aver messo in sodo che
il pensiero non potrebbe intendere la realtà, se non avesse l’attitudine a
stabilire dei rapporti fonda:nentali tra gli oggetti e ad ordinare e
classificare questi in date maniere. Un secondo presupposto psicologico della
conoscenza scientifica è l’esistenza della ragione propriamente detta,
dell’attitudine cioè del pensiero a riflettere, a ripiegarsi su sè stesso, è
l'esistenza della coscienza di secondo grado per cuì il fatto psichico concreto
viene idealizzato. Mentre gli animali non riescono a distingnere il caldo dalla
sensazione del caldo, l’uo.no distingue la parola dal pensiero e il pensiero
dalla cosa pensata. Ora ognuno comprende che l’astrazione e la generalizzazione
che sono i due principali istrumenti di cui lo spirito umano si serve per
fissare l’essenziale e il permanente in mezzo agli accidenti, in tanto sono
possibili in quanto esiste la coscienza di $econdo grado. Cosi facciamo
un’astrazione quando separiamo mental nente le cose dalle loro qualità : p. es.
pensiamo al tringolo facendo astrazione dal corpo triangolare e pensiamo al
corpo (cioè ed una estensione tangibile), facendo astrazione dalla sua figura e
dalla materia di cui è composto : e facciano una generalizzazione quando
riuniano mentalmente in un'idea sola delle cose che hanno delle somiglianze,
ossia delle qualità comuni: coll'idea di corpo ci rappresentiamo in qualche modo
tutti i corpi nello stesso tempo. Ora è evidente che queste operazioni non si
possono fare sulle cose sensibili, ma bensi sulle idee delle cose, sui
pensieri; per compiere queste operazioni dunque bisogna sapere che pensiamo. Si
aggiunga che è mediante l’astrazione e la generalizzazione che noi possiamo
pensare le cose per via di concetti veri e propri, i quali sono come a dire
delle presentazioni di cose non imaginabili; infatti sì può immaginare un dato
color rosso, ma ciò che pensiamo colla parola colore non è imaginabile, perchè
non è nè bianco, nè nero, nè di alcuno dei colori dello spettro. Un terzo
presupposto di pertinenza della psicologia e insieme della logica è quello
riflettente il criterio dell'evidenza e della verità obbiettiva. Se lo spirito
umano non avesse la capacità di far distinzione tra il pensare obbiettivamente
necessario e quello non necessario mediante la coscienza immediata
dell’evidenza, se esso non potesse differenziare in modo sicuro un giudizio
necessariamente ed universalmente valido da uno subbiettivo ed individuale, se
insomma il pensiero umano non potesse elevarsìi al disopra dell'esperienza e in
base alla permanenza, alla unità e identità della coscienza e in base alle
norme che da queste derivano andare in traccia del concatenamento logico delle
varie leggi regolanti lo svolgersi dei fenomeni dell’universo, la scienza non
avrebbe mai potuto esistere. Ora un tale criterio si trova in ultima analisi
nel peculiare sentimento di evidenza che accompagna un dato modo di pensare, nella
necessità subbiettivamente sperimentata, nella coscienza che noi abbiamo di non
poter pensare diversamente in date circostanze. La fede nella giustezza e nella
validità di una determinata maniera di pensare è la base di ogni certezza, onde
chi non ha una tal fede non può ammettere veruna scienza, ma solamente un
npinare. Sicchè l'universalità del nostro pensiero poggia in ultimo sulla
coscienza della necessità, e non viceversa. È evidente quindi che solo il
pensiero possiede da una parte la capacità di conoscere e dall'altra la regola
per valutare la realtà di ciò che non è prodotto dal soggetto, ma figura come
esistenza extramentale. La validità obbiettiva del contenuto del nostro
pensiero scientifico è l'effetto della concordanza criticamente stabilita tra
le forme del pensiero e quelle della realtà, la quale non è prodotta dall’
attività dello spirito (realtà esterna): da tal punto di vista la verità non
figura come concordanza iniziale, primigenia del pensiero coll'essere,
sopratutto non figura come armonia tra un atto del soggetto ed una qualità
dell’ oggetto, ma bensi come concordanza criticamente giustificata del
contenuto del nostro pensiero, reso subbiettivamente certo, con una realtà che
almeno in parfe oltrepassa l'attività puramente subbiettiva. Non dalla
molteplicità accidentale, dice il Sigwart, del contenuto su cui si affatica il
nostro pensiero, ma dall’attività del pensiero stesso deve emergere il criterio
della verità . Dall'esame critico che il pensiero fa di sè stesso emerge la
convinzione della verità di ciò che è posto necessariamente come reale dal
pensiero, la fede nella verità obbiettiva, e invero quale fatto psichico
particolare potrebbe condurci al concetto della realtà se non il pensiero che
pone sè stesso? L'identità e l’immutabilità delle determinazioni logiche
foudamentali rispondono all'unità della coscienza, la quale unità sparirebbe,
se le funzioni nelle quali sì esplica non si compissero sempre nello stesso
modo. Dopo aver parlato dei presupposti psicologici passiamo a quelli
prettamente logici. Questi son dati da quei postulati, da quei principii
indimostrabili che se possono essere violati di fatto non lo sono mai di dritto
nella coscienza e nella riflessione umana, da quei principii riconosciuti anche
dalla logica veri per una forza intima, per un sentimento. Se rifiutiamo
infatti i detti principii noi rinneghiamo il nostro stesso pensiero, struggiamo
noi stessi come esseri pensanti. Essi fanno la loro comparsa nel pensiero,
allorchè questo di fronte al prodotto delle leggi psicologiche (meccanismo
interiore) s'accorge che l’ultimo è manchevole, incompleto, non quale dovrebbe
essere in rapporto sempre all’ideale dell'attività cogitativa. Ond'è che essi
si mostrano dapprima sotto forma negativa e relativa, ossia come esigenze di
ciò che manca al prodotto psicologico, di ciò che è ne. cessario per renderlo
accettabile. Il processo psicologico, poniaino, ha addotto nel nostro pensiero
una contraddizione ? Noi non possiamo accettarla e in questo rifiuto di
riconoscerla apparisce la legge logica dell'identità. Tra i detti postulati
merita anzitutto menzione quello dell'unità razionale del tutto. Noi nello
svolgere le nostre cognizioni procediamo come se tutti gli oggetti si potessero
e si dovessero ridurre ad una sistematica unità, comunque non sia lecito
asserire dogmaticamente che tutte le cose stiano realmente sotto principii
comuni ed abbiano una ragionevole unità. Questa non è richiesta dagli oggetti
come condizione assolutamente necessaria e determinata, ma vi è solo presupposta
da noi. Però se con un principio trascendentale, come Kant lo chiama, noi non
presupponessimo questa unità sistematica come esistente negli oggetti stessi,
allora questa non sarebbe nemmeno più possibile, o almeno perderebbe ogni
valore anche come principio logico. Nè tale principio trascendentale si può
derivare dall'esperienza, poichè la ricerca di quell’unità è per la ragione una
legge necessaria: e senza di questa non vi sarebbe più ragione, senza ragione
nessuna attività connessiva dell'intelletto, e senza quest'unità niun criterio
sufficiente della stessa verità empirica. Per il che noi dobbiamo rispetto a
questa considerare quell’unità sistematica come obbiettamente valida e come
necessaria. Questa presupposizione dell'unità della natura si trova, notò già
Kant, nascosta in molti principii dei filosofi senza che essi talora se ne
siano accorti. Cosi il principio logico che ci fa ridurre la varietà degli
oggetti a generi determinati, si fonda naturalmente sopra un principio
trascendentale, in forza del quale noi presupponiamo sempre una certa
uniformità nei variì oggetti dell’esperienza, perchè senza di quell’uniformità
non sarebbe possibile nessun concetto e quindi nessuna esperienza. E qui è
necessario accennare al postulato dell’ uniformità della natura, il quale si
può formulare cosi: in circostanze uguali gli stessi antecedenti sono seguiti
dagli stessi conseguenti e reciprocamente. In fondo esso afferma che tutta la
natura è soggetta a leggi. Passiamo ora a dire degli altri principali postulati
della conoscenza, quali quello d'identità, di contradizione, del mezzo escluso
e di ragione sufficiente. La legge d'identità significa in ultima analisi che è
possibile fare dei giudizi, i quali abbiano un significato e siano veri : essa
quindi, nonostante le differenze riscontrabili nel contenuto di un giudizio,
enuncia l’identità o l’unità reale di questo : stabilisce, in altre parole, che
l'affermazione sintesi delle differenze riferita alla realtà, è vera. La legge
d' identità esprime l’ unità della realtà, in quanto ogni affermazione esclude
la discontinuità nel mondo reale, per modo che un giudizio non può essere vero
da un lato e falso dall'altro, ciò che è una volta vero è sempre vero senza
riserva; la quale può però sempre rapportarsi al contenuto del giudizio.
L'affermazione come tale è incondizi onata, cioè non è limitata da condizioni
differenti dalla determinazione del proprio contenuto (in relazione al tempo,
p. es.), il quale se è vero, è vero senza riserva. Non vi è una realtà di cui
una data affermazione sia vera, ed un'’altra di cuì sia falsa. La legge di
contradizione è il complemento di quella d'identità, giacchè essa pone la
realtà come unità consistente, vale a dire come unità che poggia su sè stessa e
le cui parti od elementi si mantengono a vicenda. Ciò che è vero non solo
rimane sempre vero applicato alla realtà, ma ha una sfera d'azione estesa,
giacchè produce effetti attì a limitare cose che sono prima facie al di fuori
della verità enunciata. Inferire dall’affermazione A è B che A non è nox B
equivale a dire che A è determinato da B rispetto a C e D. . La legge del terzo
escluso è il principio essenziale della disgiunzione, la quale implica
l'alternativa assoluta tra due O più membri positivi e significativi. Un dato
giudizio e la sua negazione non solo non possono esserè entrambi veri, ma o
l’uno o l’altro dev'essere vero e quindi significativo; dunque la negazione
implica conseguenze affermative. In tal guisa il principio del medio escluso
afferma che la realtà non solo è unità consistente, ma è un sistema le cui
parti si determinano reciprocamente. Dicendo che una negazione può menare ad
una conseguenza determinata ed esplicitamente positiva, e non soltanto, come
afferma la legge di contradizione, che una verità può trar seco conseguenze
definite negative, la legge del medio escluso presenta la realtà come un tutto
avente la sua ragione in sè stesso. La legge di ragione sufficiente emerge, per
così dire, dal punto di vista da cui è stata considerata la realtà mediante le
sudette leggi negative del pensiero. Essendo, infatti, la realtà un sistema di
parti determinantisi reciprocamente, è chiaro che ogni elemento può essere
considerato come conseguenza, effetto, prodotto di uno o di più altri elementi
e in ultimo del tutto preso nel suo complesso. Ogni fatto, dice la legge di
ragione sufficiente, ha un fondamento o ragione da cuì necessariamente deriva.
La necessità però non significa altro che una volta dato l’antecedente, la
causa, la ragione è perciò stesso dato il conseguente o l’effetto. Qui è bene
notare che l’assoluta necessità è una contradizione în adjecto, perchè ogni
necessità è condizionata ex hypothesi all'esistenza del fatto. La necessità di
cui si vuol parlare qui è quella reale, che ha il suo fondamento ultimo nel
dato di fatto elaborato. dal pensiero, elaborazione che si riduce a porre in
relazione un fatto particolare col tutto. Che cosa nell'oggetto occasiona quel
moto del pensiero che costituisce la scienza? ecco il problema che ci tocca ora
di esaminare dopo aver rapidamente passato a rassegna le varie condizioni
subbiettive. É necessario che noì qui facciamo una distinzione tra le scienze
che hanno per obbietto il reale, e quelle che hanno per obbietto ciò che può
essere o che deve essere, le prime costituendo le scienze esatte o
sperimentali, le altre le scienze normative o costruttive, quali la Logica e la
Matematica, l' Etica e l'Estetica;e ciò perché il suddetto moto del pensiero è
occasionato in modo differente nei due casi : nel primo è in funzione la
variazione successiva in qual cosa di unico, il modo costante e regolare di
operare di determinate cause, il ritorno ritmico di dati fenomeni sotto date
circostanze, nel secondo la constatazione di fatti interiori presentantisi con
una forma di necessità che manca ai dati sperimentali. Come si vede, il fatto
obbiettivo che agisce, quasi diremmo da stimolo del processo scientifico è
diverso a seconda che si tratta di scienze puramente esplicative, ovvero di
scienze normative; nè può essere diversamente se si pensa al profondo divario
esistente tra i due ordinidi sapere. Il primo ha la sua base nella costanza e
regolarità dei fenomeni ed esprime il rapporto di causalità quale si offre
all'osservazione e alla sperimentazione esterna, rapporto giustificabile
unicamente coi fatti e non significante altro che il modo costante con cui i
medesimi fatti avvengono: ed a tal proposito notiamo che anche le cosidette
scienze pratiche in quanto prescrivono i mezzi necessari, perchè un dato scopo
sia raggiunto, hanno la loro base obbiettiva nella costanza e regolarità dei
fatti, giacchè esse in fin dei conti enunciano le regole con cui certi fatti si
debbono compiere, regole fondate sopra un ordine particolare di fatti; tale è
il caso dei precetti dell’ Igiene, della Dietetica, ecc. L'altro ordine di
sapere, che lungi dal rappresentare la semplice generalizzazione. ricavata da
un complesso di fatti empirici, esprime l'ideale verso cui tende la conoscenza
e l’attività umana, deve necessariamente avere il suo punto di partenza
obbiettivo da una parte nelle tendenze, nelle aspirazioni, nelle esigenze
primitive dell'anima umana e dall'altra nell’ esperienza scientifica,
artistica, storica e sociale dell’ uman genere tutto quanto. Cosi, ad esempio,
il carattere proprio dell'obbligazione morale non può esser derivato dalla pura
esperienza, dal fatto p. es., che taluni uomini e siano anche molti, si son
prefissi questo o quello scopo, ma da una necessità interna indipendente da
qualsiasi esperienza e risiedente nella natura propria del soggetto volente, 1n
altri termini va derivato da leggi o funzioni a priori dell'essere umano, la
interpretazione delle quali può essere ricercata dalla psicologia, ma il cui
valore ne dipende così poco come quello delle leggi matematiche o logiche. È
vero che recentemente si è cercato di derivare tutte le determinazioni etiche e
giuridiche dai cosidetti rapporti bio-etici, dai bisogni sociali e quindi
dall'esperienza e non dalla nozione formale della volontà; e non v'ha dubbio
che in realtà ogni determinazione giuridica concreta risponde ad uno scopo
particolare e che ogni forma di dritto piuttesto che esser sorta
originariamente da riflessione filosofica, è sorta dalla necessità di regolare
le azioni di una parte grande o piccola della società umana: ma la trasformazione
di tale necessità in fatto di dritto, il riconoscere come cosa conforme al
dritto e come necessariamente giusto ciò che l’esperienza mostrò rispondente ad
uno scopo, e ciò che l’abitudine, mediante le consuetudini, fissò, è cosa che
può essere compresa soltanto, tenendo presente la natura morale dell'uomo in
genere e non dell'individuo singolo. Il contenuto delle leggi giuridiche e
morali, lo scopo a cui esse servono è determinato dai bisogni dell'individuo e
della società, ma la loro forza obbligatoria può essere fondata solo sopra una
necessità interiore ed universale risiedente nella costituzione propria dalla
ragione umana:ragione umana che non si può ridurre ad una funzione
dell’individuo, ma va considerata come l'espressione dello spirito umano inteso
nella sua universalità, come il riflesso della connessione intima delle anime
umane. Le esigenze morali sono una emanazione di quell’elemento della nostra
natara che c’innalza al disopra della sfera individuale o subbiettiva. Tale
elemento è appunto ciò che chiamiamo spirito, in quanto con questo nome
vogliamo ntendere ciò che ci rende atti a riflettere sulle cause e natura delle
cose, a godere del bello per sè, e a porci davanti dei fini diversi da quelli
riguardanti il nostro benessere individuale. E il sentimento di obbligatorietà,
non può sorgere insino a tanto che il ben operare non è stimato qualcosa di
necessario all'uomo come uomo, qualche cosa di richiesto dalla sua propria
natura e d’implicito in essa, qualcosa che, trascurato, mette in contraddizione
l’uomo con sè stesso, insino a tanto cioè che non prende origine in
qualsivoglia forma la coscienza della necessità morale. Quello che abbiamo
detto delle leggi normative morali può esser ripetuto, mufatis mutandis di
tutte le altre leggi normative (logiche, estetiche, matematiche, ecc.) : ond' é
che crediamo più opportuno passare al fattore obbiettivo delle leggi
esplicative. Queste in quanto causali hanno principalmente il loro fondamento
obbiettivo nell’ azione che una cosa esercita sull'altra; azione che in
principio è ammessa soltanto quando si osserva continuità spaziale e femporale
di movimenti o di altri cangiamenti. La semplice successione di due fatti non
esaurisce il significato del concetto di azione, il quale implica il passaggio
dell'atto, dell'agire da una cosa in un'altra, producendo in quest'ultima un
cangiamento che senza di ciò non si sarebbe mai prodotto. L’idea primitiva vaga
e indeterminata che vi possa essere qualche cosa come causa, atta cioè a
produrre qualcos'altro ha il suo fondamento in tale concetto dell'agire. Se noi
esaminiamo con attenzione le particolarità dei fatti fra i quali intercede in
modo chiaro una reciproca azione, noi troviamo che la continuità spaziale e
temporale dei cangiamenti svolgentisi nelle cose porge la prima occasione a
considerare queste come parti di un unico fatto o processo. Se la vanga
penetrando nella terra rimuove le parti ad essa vicine, se la scure divide un
pezzo di legno, se la mano, premendo, spinge un corpo innanzi, nol non possiamo
rappresentarci l'uno dei movimenti senza l'altro, giacchè per l'assioma che
dice che in uno stesso luogo non possono trovarsi simultaneamente due cose,
ogni movimento di un corpo richiede lo spostamento dell'altro: e poichè
l'impulso e lo spostamento si presentano in intima connessione, è chiaro che
l’imagine complessiva del processo è ciò che primitivamente si rende evidente
Di esso poi vengono separatamente considerati, in rapporto alla duplicità delle
cosein movimento, due fatti, il moto del corpo che spinge e quello del corpo
spostato. Emerge chiara così l'idea che l’atto del primo corpo va considerato
come continuantesi nel cangiamento del secondo attraverso lo spazio e il tempo
insino a che tutto il continuo dei cangiamenti sì arresti. Nell'’azione va ricercato
adunque il fondamento reale delle connessioni che la nostra coscienza continua
nel tempo e comprensiva nello spazio stabilisce tra due fatti che si
congiungono spazialmente e temporalmemente. E allo stesso modo che rispetto ai
cangiamenti delle cose singole, noi troviamo che la continuità del cangiamento
non permette di considerare cessata d'un tratto l'esistenza di una cosa e
iniziatane un'altra, l’avvicendarsi continuo delle sensazioni presupponendo
anzi un fondo unico, così la continuazione ininterrotta delcangiamento di una
cosa in quella di un'altra è indizio sufficiente che l'atto della prima passa
nella seconda, e che quindi in quella risiede il punto di partenza dell’azione.
Oltre l’azione reciproca delle cose, in seguito alla continuità spaziale e
temporale, fanno parte del fondamento reale ed obbiettivo della legge naturale
esplicativa il corso mutevole delle cose, il presentarsi ritmico di un
fenomeno, specialmente se questo, non potendo essere riferito all'attività
interna della cosa che sì muta e si muove in modo ritmico, deve essere
riguardato come prodotto da qualcosa d'esterno ; il cangiamento insomma nelle
sue varie forme e colle sue molteplici caratteristiche da una parte e la
regolarità e costanza dall'altra. Si aggiunga infine la necessità esistente
nella concatenazione dei mutamenti, la quale nell’ inizio si presenta sotto la
forma di costringimento esterno subito dall'obbietto dell’azione e poi come
necessità interiore proveniente dalla natura propria delle cose. 3° Il terzo
problema verte sulla maniera in cui il pensiero riesce a rendersi suo l’
oggetto e a pensarlo qual’ è.. Se l’uomo fosse fornito di una coscienza di
infimo ordine i cui atti non avessero continuità psichica nel tempo, ma fossero
come chiusi nell'istante nel quale accadono, è chiaro che il pensiero vero e
propriò sarebbe impossibile. L'intelletto in tanto può impadronirsi
dell'oggetto che gli sta davanti in quanto, distaccato il fatto psichico dalla
sua matrice reale, che è poi l’atto del sentire e del percepire, lo trasporta
nel campo dell’idealità, vale a dire lo pensa nella” sua essenza o possibilità
o quiddità: ora come può avvenire ciò? Quale è il processo per cui un fatto
psichico concreto diviene pensabile ? Se l’oggetto è semplice, irriducibile,
esso viene afferrato con un atto elementare, e tutto è finito ; non si potrà
tutt' al più che ripetere un numero di volte quella medesima percezione; ma se
l'oggetto sopra un fondo identico presenta una molteplicità di aspetti, se le
variazioni successive di qualcosa di unico si presentano in modo ritmico o in
guisa da descrivere un ciclo ripetentesi necessaria- ‘ mente, occorrerà che
anche la coscienza né percorra a cosi dire il contorno e lo segua nei suoi
scompartimenti e mutamenti. Questa operazione che il Trendelenburg, come si
vide a suo luogo, figura come un movimento del pensiero il quale riproduce il
movimento generatore dell’ oggetto, rappresenta appunto il processo con cui il
pensiero fa suo l'obbietto : processo che da una parte suppone l’azione delle
leggi fondamentali del pensiero che sono le forme primitive della coscienza, e
dall'altra l'esame dei vari caratteri costituenti il contenuto dell'obbietto
stesso. Sicchè il pensare un oggetto equivale a fissarne e a connetterne i
caratteri per mezzo delle leggi del pensiero, dal che risulta la determinazione
della forma o della legge dell'oggetto stesso, giacchè la legge non è che la
forma considerata come mezzo di riproduzione della cosa che ha quella data
forma. In altri termini, noi per pensare una cosa, di cui abbiamo avuto una
percezione, dobbiamo obbiettivarla, universalizzarla, tra. sformarla in idea,
il che può avvenire soltanto, se noi la facciamo divenire centro di un sistema
di relazioni fisse e determinate, cioè a dire di relazioni logiche e non puramente
empiriche e psicologiche. È per questo che è stato detto che la conoscenza è
data dall’appercepire un dato contenuto per mezzo di date forme, dette
categorie. La conoscenza in tanto è possibile in quanto una data
rappresentazione è messa in rapporto (e di qui la necessità dell'unità della
coscienza) con qualcos’ altro, che vale come misura, regola, stregua. Così noi
volendo pensare un oggetto, cominceremo dello studiarne i vari caratteri e
proprietà, azioni e relazioni, per vedere se attraverso la varietà delle
circostanze, la molteplicità dei mntamenti, ci vien fatto di cogliere qualcosa
di identico, di stabile e di permanente che valga appunto come misura delle
apparenze fenomeniche e che in tal guisa renda possibile la pensabilità
dell'oggetto stesso, giacchè non va dimenticato che obbietto dell'intelletto è
appunto il fissare l'unoe il permanente attraverso il molteplice e l’
accidentale. Se le cose non presentassero nulla di uniforme, se il modo di
aggrupparsi di dati caratteri non fosse costante, se la maniera di succedersi
di dati eventi giammai si ripetesse, se insomma le funzioni e le relazioni di
ciascuna cosa sì mostrassero dipendenti soltanto da contingenze empiriche e
casuae il permanente attraverso il molteplice e l’ accidentale. Se le cose non
presentassero nulla di uniforme, se il modo di aggrupparsi di dati caratteri
non fosse costante, se la maniera di succedersi di dati eventi giammai si
ripetesse, se insomma le funzioni e le relazioni di ciascuna cosa sì
mostrassero dipendenti soltanto da contingenze empiriche e casua li, non
sarebbe a parlare nè di pensiero nè di scienza. Noi dunque possiamo
rappresentarci il processo con cui il pensiero s' appropria l’ oggetto come un
moto tendente a determinare ciò che vi ha di fisso in un complesso di fenomeni;
per il che i mezzi che devono esser posti in opera saranno quelli di scomporre
o analizzare il complesso fenomenico per differenziare l'essenziale dall’
accidentale, unendo insieme l’identico e il simile e sceverando il diverso. È
chiaro poi che ciò che agisce come nozione appercettrice (che è sempre una
funzione della coscienza variamente eccitata da dati empirici) può divenire in
una ricerca posteriore essa stessa obbietto d'indagine, per cuì avrà bisogno di
una forma appercettiva di ordine superiore, fino ad arrivare alle forme logiche
supreme, oltre le quali il pensiero non può andare. Anche queste però possono
formare oggetto di riflessione, tanto è ciò vero che sono considerate quali
regole o norme logiche e ciò per il ripiegarsi perpetuo che il pensiero fa
sopra di sè medesimo, sicchè al sopravvenise di ogni nuova riflessione pare che
quello che ne forma l’oggetio entri allora per la prima volta nel dominio della
coscienza. È naturalè che a seconda dell’obbietto verso cui l’intelletto si volge
varierà il processo con cui vien conseguito lo scopo che è l’intellezione delle
cose. Cusi mentre nelle cosidette scienze normative lo spirito tenderà ad
isolare, mettendoli in forma di giudizi, gli elementi intelligibili che sono a
così dire incorporati nelle tendenze primitive dell'attività logica, etica ed
estetica, nelle scienze esplicative si cercherà di mettere in evidenza sotto
forma di giudizi universali i rapporti costanti e regolari in cui si trovano
gli oggetti. Nel primo caso si avrà di mira di obbiettivare, di
universalizzare, di idealizzare le direzioni fondamentali dell'attività umana,
il che può avvenire staccando mediante la riflessione dal fatto concreto la
rappresentazione o la forma dell'attività stessa, mentre nel secondo caso si
tenderà ad idealizzare, ad obbiettivare ciò che le cose presentano d’identico e
di permanente (le loro azioni e relazioni), considerando questo come la causa
generatrice dei vari fenomèni appartenenti ad una data categoria. Cone si vede,
nel primo caso si universalizza effettivamente il modo di farsi delle cose,
mentre nel secondo caso solamente il modo di presentarsi a noi delle cose
stesse. Vi è stato chi ha sostenuto che il processo per cui il pensiero può
effettivamente far suoi gli oggetti, segnatamente nelle scienze naturali, sia
da ridurre al processo con cui vengono stabiliti dei rapporti di eguaglianza,
per modo che, stando a tale opinione, allora soltanto si può dire di
comprendere una cosa quando può essere stabilito un rapporto di equazione tra
quella cosa e qualcos'altro di già noto. A noi sembra che non soltanto per
mezzo del rapporto d'identità, ma anche, e sopratutto per mezzo del rapporto di
dipendenza si riesca a riconoscere le forme e ì caratteri che valgono a fissare
le leggi di dati fenomenf, Riassumendo, noi diremo che il processo con cui il
pensiero riesce a far suo un obbietto è quello di andare in traccia delle
condizioni genetiche dell'oggetto stesso, mediante la determinazione delle
relazioni essenziali (logiche) che esso ha cogli altri obbietti. Pensare un
oggetto equivale a considerarne la sua possibilità, la quale è data dalla
rappresentazione od obbiettivazione non didati caratteri o di date funzioni, ma
dall’obbiettivazione del modo costante di presentarsi dei medesimi caratteri,
dall’obbiettivazione della forma regolare permanente che essi presentano. Dal
che consegue che effettivamente ogni conoscenza è puramente formale : solamente
va tenuto presente che la forma della conoscenza non può ridursi a quella
esclusiva dell'equazione. La conoscenza di un obbietto, giova ripeterlo, è data
dalla conservazione ed obbiettivazione, mediante la riflessione di tutti i
rapporti logici fondamentali considerati a sè, a preferenza dei fatti
particolari tra cui intercedono, giusta la determinazione fattane
dall'intelletto. Lo spirito umano iu tanto può compenetrare e far sua la realtà
in quanto fissa gli elementi costanti e regolari (vale a dire ripetentisi in
modo ritmico) in essa contenuti come quelli che valgono a misurare e a valutare
gli elementi variabili e accidentali. Quanto più di costanza e di regolarità si
riscontra in una cosa tanto più vi ha di essenziale e di razionale, onde si è
tratti a considerare l’elemento fisso ed immutabile come ciò che rende
possibile, condiziona, genera la realtà concreta e varia nelle sue
manifestazioni ed estrinsecazioni. Se non che va notato che se l'intelletto
nmano si arrestasse qui non potrebbe dire d’essersi veramente impadronito
dell'oggetto, giacchè mancherebbe ancora la prova della necessità dell'elemento
costante quale generatore della realtà, prova che si può ottenere soltanto
ricorrendo all'esperimento come mezzo appropriato a mettere in evidenza le
condizioni essenziali della produzione di un dato fenomeno. Co:ne sì vede, la
mente umana per conoscere una cosa deve determinare la natura propria di questa
mediante le relazioni d'identità e di condizionalità ; deve dunque cercare
nelle cose il corrispettivo delle relazioni logiche, il che può avvenire
soltanto determinando e fissando le azioni reciproche delle cose in funzione di
quei dati obbiettivi che presentano delle proprietà logiche evidenti, quali lo
spazio, il tempo, la quaatità, ond'è che la scienza enuncia le relazioni delle
cose da essa rintracciate in funzione di spazio, di tempo, di numero che
contengono insieme i due momenti della identità e della differenziazione,
dell’attività continua e degli atti per sè esistenti. S'intende che il suddetto
processo è proprio delle scienze esplicative, giacchè quelle normative non
fanno che estrinsecare, anzi trascrivere in forma di giudizi (massime) le
determinazioni dell’attività ed emotività umana, obbiettivando mediante la
riflessione e la parola ciò che dapprima è soltanto sentito. È naturale che si
possano ricercare i fondamenti e le ragioni delle determinazioni primitive
della volontà ed attività umana e in tale indagine le scienze normative non si
allontanano dalle altre scienze esatte, in quanto non fanno che dedurre
conseguenze da dati di fatto o da principii. Il risultato del moto del pensiero
intorno all’obbietto costituisce la scienza propriamente detta, la quale è un
sistema logico di leggi, ossia di verità generali. La legge, ecco il prodotto
del pensiero riflesso, ecco il mezzo con cui l’uomo pensa e ragiona.Che cosa è
la legge? La legge può essere definita nna forma logica, atta a fare
appercepire nna data categoria di oggetti non da questo o da quell’individuo,
ma dalla coscienza in genere. La legge rappresenta ciò che vi ha
d'intelligibile nell'universo, in quanto si considera la possibilità per sè e
nonl'esistenza, il was e non il dass. Il rapporto del fatto concreto colla sua
legge può essere schematizzato mediante un giudizio il cui soggetto è il fatto
concreto e il cui predicato esprime il sistema di relazioni o di condizioni
genetiche atte a spiegare e a dare ragione del fatto concreto stesso. Una
ragione nota poi è nello stesso tempo una spiegazione ed una premessa, o
piuttosto prima una spiegazione e poi una premessa; trovar per induzione la
spiegazione di un fatto è trovare quella premessa dalla quale si poteva dedurre
il fatto, se non l’avessimo saputo prima. Così la causa del movimento d'un
pianeta è nella sua posizione rispetto al sole; la legge del suo movimento è il
modo costante con cui si muove; la ragione del suo movimento è una legge
generale scoperta da Keplero, mediante la quale (come premessa maggiore) si può
argomentare dalla posizione del pianeta rispetto al sole (come da premessa
minore) in che modo esso si muove, anche se non lo sappiamo dal telescopio. Le
leggi formulano i rapporti esistenti tra le cose, espri mendo le modalità
dell'azione di queste e la maniera di connettersi tra loro. Esse però in tanto
hannc valore (contrariamente a ciò che gli scienziati specialisti e i
dilettanti credono) in quanto simboleggiano, accennano alla natura propria,
all'essenza delle cose. Le leggi insomma hanno bisogno di un fondamento reale
che le giustifichi e le renda valide, e quanto più esse riescono a manifestare
in qualche modo e a far intravedere tale base, che è riposta in fin dei conti
nell’interiorità delle cose, tanto più rispondono alle esigenze dello spirito
umano, che tende a comprendere e a compenetrare la realtà. Le leggi adunque
sono nient'altro che mezzi di espressione dell’intimità dell'essere, ed hanno
l’ufficio da una parte di farci orientare in mezzo al continuo divenire ed alla
instabilità delle cose facendoci classificare, ordinare e prevedere gli eventi,
e dall’altra hanno l’ufficio di rendere possibile la comunicazione e
l’intendersi reciproco degli uomini nella ricerca del vero. E quanto più le
leggi figurano come segni delle determinazioni primitive dell'attività
interiore delle cose come nel caso delle norme logiche, etiche ed estetiche,
tanto più esse perdono il carattere di puri schemi per divenire mezzi acconci a
farci penetrare nel fondo della realtà. Le leggi naturali, infatti, che
d'ordinario s'arrestano a formulare i rapporti esistenti tra le cose senza
curarsi dei presupposti di tali rapporti e senza quindi curarsi di penetrare
nell’interiorità di quelle, sì presentano come qualcosa di estraneo allo
spirito, come qualcosa di manchevole e di provvisorio che esige un
completamento. Pertanto le leggi normative appagano il nostro spirito, perchè
fondate in modo diretto sull’intimità dell'essere, mentre che quelle
esplicative non avendo -un legame evidente coll’ interiorità delle cose, ci
lasciano insoddisfatti. Non intendiamo con ciò di scemare il valore o
l’importanza delle leggi naturali, giacchè queste hanno sempre l’afficio di
schematizzare il corso degli eventi, ma vogliamo soltanto affermare che esse
per sè sono insufficienti, onde presuppongono qualcosaltro, un certo concetto
intorno alla natura propria del reale. Affermare che accumular fatti e formular
leggi debbano costituire gli obbiettivi esclusivi dell'attività dello spirito
umano equivale a confessare di non avere un'idea chiara nè della realtà, nè
dello spirito e insieme di non aver mai riflettuto sulla natura della legge in
genere. I giudizi leggi, costituendo i soli punti fissi in mezzo al fluttuare
continuo ed ai cangiamenti molteplici e svariati delle cese, sono i veri legami
per cui è resa possibile la solidarietà intellettuale umana, e sono in intima
relazione non soltanto colla condotta dell’individuo, ma eziandio colla vita
sociale dell'umanità. Per darsi ragione del fascino che le leggi in genere
esercitano sulla mente dell’uomo, ‘nonostante la loro manchevolezza
nell’esaurire e nel manifestare il contenuto del reale, è bene tenere a mente
la profonda analogia e l'intimo legame che esiste tra legge e linguaggio, in
quanto questo serve ad esprimere gli elementi della realtà, mentre quella i
rapporti tra i detti elementi. Le legge è come a dire una formazione (naturale
collettiva, possiamo dire) simbolica, schematica della realtà di second’ordine
che completa il linguaggio, formazione di prim'ordine. A tale uopo giova
ricordare l'ufficio della denominazione e della parola che trovano il più
perfetto riscontro nella determinazione e fissazione delle leggi. La
denominazione invero è il mezzo più acconcio affinchè lo spirito passi dalla
sfera del particolare a quella dell’universale, stantechè quando la cosa è
determinata pel suo nome, essa si colloca per lo spirito nel luogo assegnatole
nel gerarchico conserto degli esseri, cioè si subordina alla categoria in cui è
inchiusa e si rivela per le attinenze che la collegano agli altri esseri, in
una parola apparisce nella sua universalità. Riproduciamo sul proposito le
seguenti parole del Lotze: Anche dopo avere osservato un oggetto e le sua
proprietà sotto tutti gli aspetti, dopo essercene formata dentro di noi una
imagine completa non ci pare ancora di conoscerlo perfettamente, finchè non ne
sappiamo il nome. Il suono di questo, (come il semplice formulare una legge a
proposito di un fatto, soggiungiamo noi) sembra dissipare tutto a un tratto
quell’oscurità E donde mai questa meravigliosa virtù della parola? Non ci basta
che la cosa sia obbietto della nostra percezione, essa esiste a buon diritto
solo quando fa parte di un ordinato sistema di cose, il quale ha un proprio
valore e significato indipendentemente affatto dall’averne noi contezza o no.
Se noi non siamo in grado di determinare effettivamente il posto che un
avvenimento occupa nel tutt’insieme della natura, il nome (come la legge) ci
accheta. Esso è almeno un indizio che l’attenzione di molti altri nomini si è
fermata su quell'oggetto che ora viene a colpire i nostri sguardi. Esso ci
assicura almeno che la intelligenza universale si è occupata di assegnare anche
a questo oggetto il suo luogo determinato in un tutto maggiore. Perciò un nome
imposto da noi a capriccio non è un nome: non basta che la cosa sia stata
denominata da noi comechessia, bisogna che essa sì chiami proprio così. Lotze,
Mikrokosmus. Il linguaggio supplisce in parte all’inevitabile limite
dell'’umana attività, stantechè ci agevola a maneggiare e ad adoperare come
fossero compiuti e perfetti certi prodotti del pensiero ancora incompiuti ed
imperfetti e che non possono giammai uscire da tale incompiutezza e
imperfezione. Avvegnachè gli è certo, nota il Bonatelli, da un canto che noi si
pensa e si ragiona assai volte con perfetta dirittura e sicurezza per mezzo dei
vocaboli senza che ci occorra di svolgere nei loro elementi, ossia di pensare
esplicitamente i concetti che a quelli corrispondono e dall'altro è pure un
fatto innegabile che il più delle volte non son quei con| cetti, per così dire,
se non abbozzati in noi. Il che se è un vantaggio inestimabile per l’uorao,
rendendogli agevole e breve un'operazione che altrimenti tornerebbe lentissima
e penosa, non è men vero che può essere eziandio fonte di superficialità, di
sofismi, di errori e sopratutto di quella vacuità di pensare che è vizio
funesto non meno dei filosotanti che dei saccenti volgari che si atteggiano a
dottori dei popoli. E qui è il luogo di domandare : Che cosa corrisponde nella
realtà alle leggi? In altre parole, le leggi in genere sono un prodotto
esclusivo dello spirito umano, ovvero il riflesso di qualcosa di obbiettivo?
L'universo è realmente razionale, come lo mostra la scienza, ovvero
quest’ultima è da considerare come una fantasmagoria del cervello umano ? È
evidente che se le leggi fossero interamente soggettive, mancherebbe ogni
criterio della loro applicazione all’esperienza e ogni delimitazione del loro
dominio ; non resta dunque che ammettere le leggi quali segni, trascrizioni di:
qualcosa d’obbiettivo. E questo non può consistere che nel nesso essenziale
esistente tra le varie parti costituenti la realtà, la quale va concepita come
qualcosa di organico nel senso che gli elementi costitutivi sono mezzi e fine
nello stesso tempo. Dal che consegue che l’intima ragionevolezza che anima il
tutto non soltanto tiene connesse le varie parti, ma le fa agire in modo
determinato, costante e regolare. Le leggi obbiettivamente considerate si
presentano come funzioni di vari ordini di reali aventi un’ estensione maggiore
o minore. Non altrimenti che accanto allo spirito individuale si ammette lo
spirito collettivo, il quale ultimo senza alcun dubbio determina l'altro, così si
devono ammettere nella realtà tutta quanta diversi ordini di unità collettive
le cui funzioni costituiscono poi il corrispettivo obbiettivo delle varie
leggi, a cominciare da quelle particolari ad andare a quelle universalissime
che contengono in sè tutte le altre come loro casi concreti o momenti di
differenziazione. Le leggi infatti sì mostrano tra loro in ordine logico, per
modo che quando fossero trovate tutte, si potrebbero disporre in tale maniera
che partendo dalle più generali si dimostrerebbero deduttivamente tutte le
altre. É naturale poi che le varie forme di relazione in tanto sono possibili
in quanto in ultimo sono per così dire assorbite in una unità suprema armonica
e insieme comprensiva. A misura che le dette unità collettive crescono in
complessità e che la vita psichica mediante la coscienza e la riflessione
diviene predominante, le dette funzioni perdono i loro caratteri di necessità e
d'immutabilità per acquistare quella spontaneità e quello sdoppiamento
dell’essere e del dovere che caratterizza le forme dell’attività umana. Sicchè
possiamo conchiudere che la legge-essenza ha il corrispettivo obbiettivo nella
funzione; ma si potrebbe domandare : nella funzione di chi ? giacchè la
funzione, come l'atto, l’azione e la qualità suppongono qualcosa a cui
ineriscono o di cui sono una produzione : ebbene, noi rispondiamo che le
essenze delle cose vanno appunto considerate come funzioni, atti di un reale
d'ordine diverso (d’ ordine più elevato) e questo va alla sua volta considerato
come funzione di un reale di ordine ancora più elevato fino a giungere al Reale
che tutto in sè contiene e di cui l'universo è funzione. Obbiettivamente l'
elemento intelligibile è una cosa sola coll’ elemento esistenziale, il was è
inseparabile dal dass, l'ideale è nel reale, sicchè legge e funzione, pensiero
ed azioue (se possiamo cosi dire) coincidono; ma mediante l'intelletto umano
avviene la disgiunzione, onde è resa possibile la formazione delle leggi
esistenti per sè nella mente umana. Dopo aver esaminato i fattori che
concorrono alla formazione della nozione di legge, ci sembra opportuno porre
sott'occhio un tentativo di classificazione delle varie sorta di legge che
nello svolgimento del sapere umano ci si presentano. Noi già per lo innanzi
accennammo alla divisione fondamentale delle cosi dette leggi esplicative o
dichiarative da quelle normative; ora scenderemo a maggiori particolari,
ricercando le principali forme che le suddette categorie alla lor volta possono
assumere. E per prima è necessario chiarire il significato logico delle parole
osservazione ed induzione, giacchè pare che quando sì dice osservazione si dica
esperienza, che tutto quello che è obbietto dell'una sia anche obbietto
dell'altra, dal che deriverebbe l'esistenza di una sola specie di leggi
qualunque fosse l’obbietto della conoscenza umana. Ora ciò non è nient’affatto
esatto, in quanto vi sono delle osservazioni alle quali non è possibile
attribuire la qualità di essere empiriche nel senso in cui questa qualità si
considera come opposta all'essere 4 priori. Empiriche sono senza dubbio tutte
le osservazioni che ci rivelano le proprietà e leggi delle cose esteriori,
empiriche quelle che ci mostrano il nascere lo sviluppo e l'intreccio dei
fenomeni psichici, empiriche quelle dalle quali apprendiamo la realtà dei fatti
storici: epperò la scienza della natura esteriore, la psicologia e la storia
sono scienze a posteriori o empiriche, comunque i metodi di dette scienze
variino in rapporto alle particolarità presentate dagli obbietti e in rapporto alle
difficoltà di esaminare questi ultimi. Ma non sarebbe giusto qualificare come
empiriche quelle scienze delle quali sono oggetto o il pensiero, o
l'intuizione, o la volontà o l’emotività, diremmo così, in azione, La
dimostrazione e l'induzione scientifica in casi siffatti è l'esplicazione della
stessa attività di queste funzioni e le conoscenze particolari coincidono coi
prodotti particolari di queste funzioni. In tali scienze ha certamente luogo
l'osservazione, ma nou si esercita sopra un obbietto estraneo, il quale sia
bell'e fatto indipendentemente dall’ attività del soggetto: ogni osservazione
in esse non è passiva, ma attiva; è una nuova produzione del fatto osservato
che non è diversa dalla dimostrazione e dalla spiegazione scientifica. Ciò
accade in quelle scienze che hanno il pensiero come oggetto, cioè nella logica
e nel calcolo, in quelle che studiano le funzioni dell'intuizione costruttiva,
cioè in quelle che hanno il tempo, le spazio, il movimento come oggetto e in
quelle infine che hanno per oggetto le funzioni etica ed estetica dell'anima
umana, in quanto ogni fatto etico ed estetico può essere studiato in modo
esatto soltanto salendo alla categoria dall'effetto, mediante cioè l’analisi
del fenomeno psicologico in cui quell’ effetto consiste. I fatti estetici ed
etici non sono, come i fenomeni della natura esterna, indipendenti dal
soggetto, ma accadono in esso, sono imaginì obbiettive si, ma passate
attraverso il mezzo della coscienza, della fantasia e del sentimento umano. L'
induzione etica ed estetica deve analizzare prima di tutto il fenomeno
psicologico, perchè esso è il solo criterio sicuro, la sola base positiva per
determinare e definire il concetto, In secondo luogo è bene intendersi sul
significato della parola induzione. L'induzione scientifica è una sola : quella
che da n casi sperimentati conchiude a tutti i casi omogenei possibili, in
virtù del postulato della uniformità delle leggi naturali e del principio di
causa. L' induzione scientifica non può dunque aver luogo se non per leggi causali,
epperò è affatto estranea alla logica, alla atematicam, all’ etica,
all’estetica ecc., le cui leggi non sono punto causali. Resterebbero
l'induzione per semplice enumerazione e l’induzione descrittiva, ma la prima
non ha valore al di là dei casi osservati e quindi è perfettamente inutile
nelle summentovate scienze (matematica, etica, estetica ecc.),0 se è
adoperabile, vale soltanto ad apparecchiare la materia delle costruzioni
scientifiche, può talvolta indicare la via, ma è destituita di qualunque valore
di prova. Per ciò che riguarda l’induzione descrittiva, essa è adoperata nella
geometria elementare, allorchè la somiglianza di due figure si dimostra dalla
loro congruenza; ma in geometria ha un valore diverso da quello della prova
empirica; perchè la dimostrazione dell’ uguaglianza suppone la invariabilità e
la congruenza dello spazio con sè stesso (come del resto i casi d' applicazione
dell’ induzione descrittiva in etica, estetica ecc., suppongono una determinata
natura dell'animo umano e la sua identità con sè stesso) che non potrebbero
essere dimostrate empiricamente A ciò si aggiunga che le verità matematiche,
logiche, etiche, estetiche non sono leggi della natura in quanto sarebbero vere
anche se una natura hon esistesse e la loro certezza è indipendente dal numero
delle esperienze, onde tutti si terrebbero autorizzati a correggere
l’esperienza, se questa paresse in qualche mado loro contraddire. Infine va
ricordato che l'induzione non è ritenuta mai prova sufficiente nelle scienze
normative: così un teorema che si trovi vero praticamente per una serie di
numeri non si ritiene per ciò solo dimostrato e non si estende al di là dei
casi osservati. Non si può, come vuole il Mill, il Taine ecc. spiegare la
certezza assoluta che hanno le verità del calcolo, col carattere ipotetico di
questa scienza; perchè la perfetta eguaglianza delle unità elementi dei numeri
non è un'ipotesi, ma una proprietà della natura puramente logica del numero, la
quale rende possibile di riferirlo ad uua unità di misura che non è quella di
nessuna grandezza reale avente questa o quella qualità, ma l'unità in senso
puramente logico. Sicchè noi in base a ciò che precede siamo autorizzati a
partire per prima le leggi in due grandi classi: Leggi funzionali (Leggi
logiche, matematiche, etiche, estetiche). Leggi causali (Leggi naturali,
psicologiche, storiche ecc.). Per formarsi un concetto chiaro delle differenze
che controdistinguono le sudette due classi di leggi basta comparare le leggi
logiche e matematiche con quelle naturali. L'oggetto della conoscenza, dagli
elementi sensitivi in fuori, è una costruzione della quale le idee di sostanza,
di causa, di numero sono gli artefici e il principio di contraddizione è la
regola e la garenzia di verità: i sudetti principii costituiscono appunto le
leggi logiche fondamentali o le categorie dell’intelletto umano. Diconsi
infatti categorie quei concetti che sono determinazioni dell'essere perchè sono
determinazioni del pensiero, e vieevecsa, che sono impliciti nel pensiero di
qualunque ente reale perchè reale e non perchè è questo o quell’ente, cioè
perchè sono le maniere necessarie di concepire la realtà. Tali forme del
pensiero o categorie sono concetti, da differenziare però da quelli che vengono
studiati dalla logica ordinaria e che hanno il loro corrispettivo nelle leggi
empiriche o causali. Invero gli altimi sono essenzialmente concetti
rappresentativi, mentrechè quelli sono giudicativi; e i concetti
rappresentativi sono formati mediante la comparazione o l’analisi dei dati
oggettivi delle percezioni e mediante l’astrazione, i giudicativi per contrario
sono l'elemento soggettivo della percezione e delle forme così statiche che
dinamiche del pensare. I primi sono concetti di oggetti, di classi di oggetti e
di rapporti indifferentemente, i secondi sono concetti di rapporti
intelligibili ; gli uni hanno un'estensione determinata, gli altri
un'estensione indeterminata. L’universalità e necessità dei concetti
rappresentativi è condizionata e limitata all’esistenza dei loro oggetti:
quella delle categorie si estende quanto si estende l'essere e il pensare;
quelli funzionano da soggetti e da predicati dei giudizi : questi possono
funzionare soltanto da predicati. L'originalità poi delle leggi o funzioni
logiche sì appoggia a ragioni logiche, non psicologiche. Noi conosciamo
mediante i concetti, i giudizi e i raziocinii : la materia è data; ma il
concepire, il giudicare, il ragionare sono funzioni. E queste funzioni debbono
pure avere una forma, perchè una funzione senza una forma determinata è impossibile.
Ora quali sono le forme di queste funzioni, cioè quali sono queste funzioni in
loro stesse, prescindendo dalla forma logica che rivestono ? Evidentemente se
pensare è porre una relazione, le funzioni saranno i pensieri di quelle
relazioni, di.natura intelligibile, nelle quali e mediante le quali il pensiero
sa e si muove, cioè le categorie. Ora sono questi da repntare daccapo concetti
empirici? Se sono, qual'è la funzione mediante la quale sono formati? In breve,
se il pensare suppone una materia e una forma, come si può intendere che la
forma sia presa da fuori, cioè sia materia essa stessa? Non saremmo da cupo
nella necessità di supporre una forma per la funzione di concepirla e così in
infinito? Passando alle leggi matematiche, noteremo anzitutto che l’ idea di
numero non sorge, come i concetti generali per un procedimento conscio e
riflesso del pensiero, ma per un procedimento spontaneo ed inconscio. I teoremi
sui numeri ed anche un sistema di numerazione sono, è vero, prodotti, riflessi,
ma l'idea di numero pur nascendo all’occasione delle sensazioni e percezioni
d'ogni maniera e non perdendo mai il suo significato oggettivo, non esprime
mai, neppure per la coscienza più comune, una classe di oggetti reali, un
genere sommo, ovvero una proprietà delle cose dello stesso genere di quelle che
diciamo qualità. Ed è per questo suo isolarsi dalle cose in virtù di un
procedimento non artificiale, bensì spontaneo, pur conservando un valore
oggettivo, che si rende possibile alla riflessione scientifica di studiare il
numero come un' entità a sè non solo separabile dalle cose, ma completamente
indipendente da queste, come un' entità di tal natura che le sue proprietà e
leggi si possono trovare e verificare indipendentemente da ogni constatazione
che non sia quella stessa di pensarle e di produrre, pensando, tutte quelle
analisi e sintesi in cui consistono lo studio che ne facciamo e la scienza che
per essa veniamo ad avere. E qui va notato che il fondamento del calcolo
aritmetico, che è il sistema di numerazione, ha la sua radice nella funzione
sintetica del pensiero formale, senza contenuto qualitativo. Il primo modo di
formazione da esso espresso è una sintesi successiva indefinita ; il secondo è
una sintesi con una certa norma, per gruppi uguali di unità; ma la norma è
puramente arbitraria, perchè non c’è nell'esperienza niente che determini la
composizione di un gruppo, per esempio la serie binaria o la decimale.
Stabilita nel sistema di numerazione la maniera uniforme di formazione dei
numeri, si possono deduttivamente trovare tutti gli altri. I modi composti sono
innumerevoli, ma poichè essi sono combinazioni di più modi semplici, suse Pra A
o ripetizioni dello stesso modo semplice, l'importante è di determinare questi
ultimi. I quali rispetto ad un numero qualunque x sono riducibili alle forme
segnenti : a zta,x- a, cr X_ a, x:x,2, Vi, 108.2 (alla base a). Difatti un
numero è o somma o ditferenza di un altro numero, quindi le maniere semplici di
formazione sono tante quante sono le maniere del sommare e del differenziare.
Tutte le maniere di sommare si riducono a tre: addizionare numeri diversi
(addizione), lo stesso numero un numero qualunque di volte (moltiplicazione),
lo stesso numero un numero qualunque di volte, ma sempre ad esso uguale
(elevazione a potenza). Similmente tre sono le possibili forme del
differenziere: togliere da un numero un altro numero qualunque (sottrarre),
togliere da un numero quel numero di volte che è possibile lo stesso numero
dividere (divisione), togliere da un numero uno stesso numero un numero di
volte a questo uguale e che lo misuri esattamente (estrazione di radice). Però
l'elevazione a potenza e l'estrazione di radice non sono i soli modi possibili
del calcolo delle potenze. Il primo risolve il problema di trovare la potenza,
data la base e l'esponente; il secondo di trovare la base dato l'esponente e la
potenza; resta un terzo problema; date la base e la potenza, trovare
l'esponente (logaritmo), cioè dato il prodotto di un numero indeterminato di
fattori uguali, e dato il loro valore, determinare il numero dei fattori. È
evidente che ognuna di queste operazioni è una funzione e non un'esperienza. Ai
sostenitori della teoria empirica si potrebhe chiedere con ragione d’indicare
la testimonianza o base sensibile delle idee di radice e di logaritmo. Ma senza
dubbio una prova anche più concludente della teoria del numero-funzione ci è
data dalle estensioni dell'idea di numero, alle quali conducono le operazioni
inverse. Giacchè taluni dei problemi che queste ci propongono si mostrano
insolubili col concetto primitivo di numero reale. Cosi, allorchè il numero
delle unità sottratte è eguale al numero delle unità dalle quali si sottrae, si
ha lo zero, e se è maggiore, il numer negativo. Similmente, nella divisione, il
quoziente può essere non un numero intero, ma corrispondere al concetto di un
numero posto tra due numeri contigui. E poichè questo può non corrispondere nè
a un numero intero, nè a un numero frazionario, nè a un intero unito ad un
fratto, cosi rende necessaria un'altra estensione del concetto di numero, il
numero irrazionale, il quale non esprime propriamente un numeco, ma il rapporto
di due operazioni; la radice di 2 non corrisponde a un numero, ma indica un
rapporto di due specie di calcolo, quello di formazione del numero 2, e quello
di estrazione della radice. E questa può condurre in casì speciali ad una terza
estensione del concetto di numero, perchè se il numero di cui si cerca la
radice è negativo, sorge la nozione di numero imaginario, cioè di un numero che
diventa reale mediante l'elevazione a potenza. Ora come potrebbero i numeri
negativi, irrazionali, imaginari derivare da rappresentazioni empiriche? É
chiaro che essi sono funzioni, o più propriamente rapporti di funzioni e che il
loro concetto implica che la funzione è materia a sè stessa. Sicchè nel:
calcolo il pensiero lavora su dati che sono suoi, come nella logica formale:
per modo che il calcolo si potrebbe ben dire, la logica formale della quantità.
Il còmpito del calcolo è di concepire la quantità, come abbiamo già visto, ma
appunto perchè è rivolto soltanto alla quantità, il calcolo è un pensare
estrinseco e meccanico. Hobbes ebbe dunque torto di ridurre il pensare a nume.
rare; ed èillogico attribuire alle matematiche una illimitata potenza educatrice
della mente. Esse servono soltanto per una parte alla educazione e disciplina
della mente, perchè la quantità è la realtà nella sua parvenza esteriore, non
nella sua essenza. Ora se noi consideriamo le leggi matematiche in rapporto a
quelle propriamente naturali noi troviamo che i due ordini di leggi si
presentano intimamente connessi tra loro; e ciò per parecchie ragioni: 1°
perchè essendo la quantità una proprietà essenziale della realtà e il numero
l'espressione logica della quantità, è naturale che quello che l'intelletto
matematico determina col semplice discorso si trovi vero nella realtà; 2° le
leggi indagate dalle scienze che hanno per obbietto la realtà essendo leggi
causali e le stesse operando secondo leggi matematiche, è chiaro che il calcolo
debba essere, astrattamente parlando, applicabile a tutta la scienza del reale.
La proporzionalità dell'effetto alla causa, un corollario dell'assioma di
causalità, importa che l’effetto è sempre una funzione della quantità della
causa e per la realtà spaziale, anche della sua posizione, ond'è che se
possiamo determinare con precisione gli elementi numerici dei fenomeni, il
calcolo vale come mezzo potentissimo per discendere dalle cause agli effetti o
per risalire da questi a quelle. Esso non solo formula Je leggi naturali, ma le
connette altresi e non solo sintetizza le altre parti della matematica, ma
anche le scienze della natura e non appena si può adoperarlo completamente
cangia il carattere di queste, trasformandole di induttive in deduttive. Se non
che qui va notato che in tale funzione sintetica si trovano due limiti, uno
nella possibilità molto limitata finora di determinare gli elementi numerici
dei fenomenìi; un altro nella piccola potenza sua rispetto alla crescente
complessità dei medesimi. Non basta. Le leggi matematiche non possono essere
identificate con quelle naturali anche per altre ragioni. Le leggi numeriche,
essendo puramente formali, sono le più remote che si possano imaginare da ciò
che diciamo natura ed essenza Per es. le leggi: la forza viva è uguale al
prodotto della massa per la velocità; il momento statico della leva è uguale al
prodotto del peso per la lunghezza del braccio di leva; la grandezza del moto
uniforme è uguale al quoziente dello spazio per il tempo; nel moto accelerato
gli spazi sono come i quadrati dei tempi, ecc., sono leggi di rapporto
geometrico le prime, di rapporto di potenze l’ultima: ma in nessuna di esse la
legge aritmetica vale a dare ragione del fatto, ma soltanto a formularlo nel
modo più esatto. Non basta che il calcolo formuli e connetta le leggi della
natura per dimostrare che la natura ha essenza numerica; la dipendenza che il
calcolo dimostra trala egge di Coulomb sull’attrazione e repulsione
dell'elettricità positiva e negativa, e la legge elettrostatica, secondo cui l’
elettricità nei corpi conduttori come i metalli si raccoglie tutta alla
superficie : la splendida applicazione della teoria delle funzioni ellittiche
nella meccanica e tutta la fisica matematica provano bensi che la natura
obbedisce a leggi numeriche, e che conosciute queste, la scienza della natura
si può cangiare da induttiva in deduttiva, ma non provano punto che le leggi
della natura sono conseguenza delle leggi dei numeri. Se anche fosse realizzato
quell’ideale di conoscenza scientifica che il Du Bois Reymond chiama
astronomica, se cioè tutto quello che è e accade nell’universo fosse
completamente rappresentato da uno sterminato sistema di equazioni
differenziali simultanee, questo sistema sarebbe uno dei sistemi possibili e
non avrebbe altra realtà che la realtà di fatto; sarebbe impossibile dedurlo
dalla essenza numerica della realtà, epperò non ne darebbe la prova. La
metafisica numerica non potrebbe trovare la sua prova sufficiente nella
funzione sintetica che il calcolo esercita o può esercitare in ogni dominio di
scienza se non quando il sistema delle idee numeriche e il sistema della realtà
fossero affatto coincidenti, ovvero quest'eltimo fosse parte di quello e
trovasse nel tutto considerato come sistema di entità numeriche, la ragione del
suo essere non solo cume parte della scienza del calcolo, ma come realtà e
natura. Ora è vero perfettamente il contrario : il calcolo spazia e può
spaziare molto più largamente della natura; questa, ad esempio, non conosce né
il sistema di numerazione dell’ aritmetica elementare, nè gli spazi ad ”
dimensioni della geometria superiore. Verifica bensi sempre delle leggi
numeriche, ma la ragione di verificarle non è nelle stesse leggi dei numeri, ma
nelle proprietà e nell'intreccio delle cause del reale. Neppure una Raqione
matematica assoluta alla quale tutte le proprietà e le leggi dei numeri, tutt
il sistema compiuto delle verità numeriche fosse presente, potrebbe dedurre da
questo assoluto sapere non diciamo il sistema della realtà, ma una sola legge
reale. A. ciò si aggiunga che leipotesi ultime nelle scienze naturali hanno in
sè sempre dell'arbitrario, del non ispiegato e che il carattere scientifico
nella spiegazione dei fenomeni della natura consiste appunto nella riduzione e
limitazione dell’arbitrario e del non ispiegato. Così l'inerzia e l’attrazione,
le due propietà fondamentali della materia nella fisica moderna, sono esse
stesse inesplicabili. Per ispiegarle e in generale per fondare una teoria
fisica su principii che non solo non siano ipotetici, ma reali e necessari,
bisognerebbe ricorrere ai principii e teoremi della logica e matematica ; se
non che dedurre da principii puramente formali, come son questi, una dottrina
fisica sarebbe come se un architetto intendesse innalzare un edificio con le
sue cognizioni di meccanica pratica, senza il materiale occorrente. Di contro
alle leggi logiche e matematiche sono quelle naturali o causali. Queste sono
generalizzazioni esatte, non approssimative. appuntoin quanto hanno il loro
fondamento in un rapporto causale. Fu detto che bisogna distinguere tra la
necessità di una legge causale empirica e la necessità della legge causale in
genere, la prima non essendo mai assoluta come la seconda: ora è vero bensi che
di una legge empirica di casualità si può pensare che avrebbe potuto anche non
essere o essere altra, ma solo in un altro ordinamento della natura. Poichè
questa è intessuta e dominata nel tutto e nelle singole parti della legge di
causa, tutto è in essa dipendente e determinato; onde per pensare che qualche
cosa possa accadere diversamente, bisogna pensare che tutto l'ordine di natura
muti. Se non si pensa questo e nondimeno si pensa come possibile un fatto
contrario ad una legge, non è negata soltanto una legge empirica, ma la stessa
legge causale logica che può essere appunto enunciata anche cosi: che cause
simili producono in condizioni identiche effetti simili. Del resto l’éssenza
della legge naturale viene abbastanza bene lumeggiata dal concetto del caso, il
quale implica la negazione della legge vera e propria e non della causa. Il
concetto della caso, infatti, non è in realtà così opposto al concetto di
causa, come pare a prima vista. Nel pensiero comune pare che sia, perchè
diciamo casuale quello che non possiamo ridurre ad una legge e ad una causa;
nascendo dall’ ignoranza della causa, il caso sembra tutta un’ altra cosa da
essu. Ma se si riflette, si vede che invece di essere una negazione, è una
conferma della funzione necessaria dell’ idea di causa nella conoscenza: il
principio ignoto sì sostituisce al principio noto che manca. In logica poi il
casnale è definito come un fatto di coincidenza di fenomeni, che non si può
elevare a legge. Taluno esce di casa e incontra un amico o gli casca una tegola
sul capo, sono queste coincidenze casuali, perchè non si può dire che cosi
avverrà anche pel futuro La teoria del caso come incidenza delle serie risale
ad À ristotile che primo lo defini a quel modo. È infatti se una sola serie
causale esistesse, il casuale non sarebbe possi bile; ma perchè le serie
causali sono innumerevoli e sì svolgono contemporaneamente, è possibile che ue
coincidano due o più. Così definito, il caso non è in contraddizione con la
causa, perchè non soltanto ciascuna delle serie in: cidenti è determinata in
ogni sua parte, ma è determinata anche la loro coincidenza. Difatti, perchè
coincidano, le loro direzioni debbono formare un angolo, e perchè coincidano
piuttosto in questo che in quel punto debbono formare determinati angoli.
Dunque il casuale é effetto di un doppio rapporto causale, di quello che
determina i fenomeni coincidenti ciascuno nella sua serie e di quello che
determina la loro coincidenza. Questa seconda determinazione causale non è per
lo più una costante e nonè mai una legge, non dipende cioè dalla natura e qualità
delle serie, ma dal loro essere insieme. Adunque il casuale può definirsi: una
coincidenza che non autorizza l’inferenza d'una uniformità che sia una legge
causale . La definizione è dello Stuart Mill, il quale la spiega e chiarisce
cosi. La coincidenza si dice casuale quando i fenomeni che coincidono non sono
effetti l’uno dell'altro, nè effetti della stessa causa, nè effetti di cause
collegate da una legge di coesistenza, (cosi le leggi di Keplero non sono
casuali, perchè dipendono dall’azione combinata della forza contripeta e della
tangenziale necessariamente coesistenti nel sistema solare); nè effetti di una
determinata proporzione delle cause che i logici inglesi dicono collocazione
(p. es. non è casuale la varia velocità dei pianeti per ciascun punto delle
loro orbite, perchè dipende dalla varia collocazione o rapporto delle forze
contripeta e tangenziale). È necessario aggiungere poi che vi possono essere
delle coincidenze uniformi e prevedibili, le quali nondimeno sono casuali
appunto perchè l’uniformità in tal caso non è l’espressione di una legge
causale: es. i fatti umani coincidono l1 4 16 12 12 ©” 10 19 13 7 838 7 141 10
19 5 In ordine alle cause che determinarono la loro chiusura in Casa di
custodia vanno distribuiti nel modo seguente: Per assassinio 1. Per incendio
(10 volte) 1 individuo di 141 anni. Per ferimento 2 (uno involontario), Per
atti contro il buon costume 1. Per furto 30, dei quali uno dell'età di 11 anni,
recidivo per .7 volte. Per ozio e vagabondaggio 16. Per discolaggine 38. Gli 89
giovinetti ricoverati nell’Istituto di Beneficienza vanno distribuiti per età
nel modo che segue: Di anni 10 11 bambini Di ann i15 10 bambini lil 8 16 13 12
14 17 7 13-- 7 18 5 2a 14-12 19 2 Di essi, 34 andavano a scuola e 55 passavano
le ore del giorno in diversi opifici della città per apprendere ciascuno il
mestiere che gli garbava. Per ciò che riguarda i caratteri fisici od
antropologici diremo che quelli raccolti non ci autorizzano a trarre alcuna
conclusione definitiva. C'è stato chi un pò affrettatamente ha negato ogni
valore all'esistenza dei caratteri esteriori; e certamente il limitarsi
all'esame di soli tali caratteri è un difetto, giacchè essi non sono che
l’espressione, l'estrinsecazione delle anomalie interiori. La loro esistenza
rappresenta un éulizio più 0 meno sicuro e non altro, di un disturbo
nell’euritmia morfologica e fisiologica dell’organismo preso nel suo insieme e
la loro mancanza certamente non autorizza ad affermare sane le condizioni
morali e mentali dell'individuo; onde non è lecito destituire d'ogni valore la
ricerca di detti caratteri esterni. Nei 178 giovanetti esaminati non riscontrai
in alcun modo caratteri degenerativi speciali per numero, qualità o grado; non
posso dire, in altr? parole, di aver trovato che la curva dei caratteri
anormali morali e psichici in genere coincidesse perfettamente con quella dei
caratteri fisici anormali, ma posso però asseverare con convinzione che
l’esistenza di questi ultimi caratteri deponeva, accennava quasi sempre a
particolari condizioni ereditarie, siano queste morbose semplicemente (pazzia,
alcoolismo, turbecolosi, ecc.), o anormali dal punto di vista sociale (tendenze
antisociali dei genitori p. es.) e per conseguenza ad una predisposizione
generica allo sviluppo di uno stato psichico anormale. Passando all'esposizione
dei risultati forniti dall'esame psichico diremo che la più parte di tali
giovanetti pur essendo andati per parecchi anni a scuola, a mala pena sapevano
leggere e scrivere. Pochi giungevano a fare una moltiplicazione. L'attività
dell'attenzione era debole in quasi tutti. La debolezza della memoria del tempo
era quella che sì constatava più frequentemente ; pochi, cioè, sapevano
ripetere l'ordine di successione di avvenimenti loro occorsi da poco tempo. Il
pudore difettava nella più parte di essi. Rarissimamente si trovava quel senso
di soggezione che molti bambini bene educati mostrano al truvarsi per la prima
volta dinanzi a persone di età maggiore. La più parte mancavano di volontà
ferma e persistente. Una tendenza molto diffusa era quella di negare ogni cosa:
il no era il monosillabo che più prontamente e più frequentemente veniva da
loro pronunziato. Molti s'emozionavano facilmente, ma passavano con pari
facilità dal pianto al riso come da qualunque emozione alla sua contraria. Il
contegno appariva ordinariamente scomposto, prendevano le pose più strane e nei
movimenti erano per lo più goffi e sgarbati. Erano in genere noncuranti della
persona e della pulizia. Parlavano soventi in modo laido: spesso si lanciavano
a vicenda delle amare invettive e si davano dei sopranomi. C'era una certa
gerarchia fra di loro; ci erano i capi, i potenti e i seguaci, i deboli.
Predominava lo spirito di ribellione a qualunque obbedienza. Il carattere però
che spiccava sopra gli altri era indubbiamente l'egoismo inteso nel senso più
stretto. Pur di fare il loro comodo, pur di fare paghe le loro brame erano
pronti a tutto osare. Per loro l'io era il centro dell’universo: al di fuori
del proprio io nulla poteva destare il loro interesse. Non solo non mostravano
di sentire affetti oltre l'inclinazione al soddisfacimento delle loro basse
voglie, ma rimanevano sordi a qualsiasi lamento, freddi a qualunque
soffererenza degli altri. Avevano quindi ciò che d'ordinario si dice istinto
della malevolenza, godendu dei dolori degli aitri, e mostrando di provare un
intenso piacere a far dispetti ai compagni ed a martirizzare i più innocui.
Appar.va, è vero, in loro, un certo spirito d’associazione, in quanto parecchi
tandevano ad unirsi per forinare combriccole : ma il cemento di tali unioni non
era l’ aftetto reciproco, disinteressato, non lo scambio di idee e di emozioni,
non il sentimento dell'unità di natura su cuì soltanto può essere fondata
qualsiasi forma di vera solidarietà, bensi la tendenza ad appagare le proprie
voglie, il bisogno di dominare, la smania di usare prepotenze. Erano, infatti,
i grandi, i forti che cercavano di circondarsi dei piccoli per poterli fare
loro istrumenti e per potersene servire a loro agio. I piccoli e i deboli
d’altra parte li subivano, perchè non avevano l'energia di reagire e di
ribellarsi e perchè trovavano il loro tornaconto ad essere protetti, ed a
rimanere sotto l'egida dei capi. E tale asserzione vien comprovata dal fatto
significantismo che non fu mai possibile osservare un segno di generosità o di
abnegazione. Erano capacissimi di accusarsi a vicenda presso il Direttore,
sempre però di nascosto e in segreto, il che depone della loro vigliaccheria. E
se si presentava il caso che per un fatto qualunque fosse minacciata di
punizione una classe intera, dato che non si riescisse a conoscere il
colpevole, non accadeva mai che questi si svelasse confessandosi reo, non fosse
altro per non far soffrire i suoi compagni. Era sempre una massima quella che
dominava : ciascuno per sè. Per ciò che riguarda i sentimenti estetici sì può
dire, per quanto le condizioni miserrime in cui tali ragazzi sono
ordinariamente mantenuti autorizzano a dirlo, che questi mentre presentavano
poca attitudine per il disegne, con una certa frequenza mostravano invece
attrattiva per la musica. Giova osservare che lo svegliarsi in essi delle
tendenze estetiche, fossero pure elementarissime, coincideva col miglioramento
del loro carattere morale. Dove si potè avere propriaraente il riflesso della
loro anima fu nelle corrispondenze reciproche, avendo essi una straordinaria
tendenza a scrivere delle lettere, dei biglietti che per mezzi svariati
giungono a destinazione. Circa le caratteristiche della loro scrittura non fu
possibile pronunziarsi in modo positivo, giacchè le ripetizioni, i tremori,
ecc. provenivano da ignoranza. Qualche rara volta poì si notò la somiglianza
della loro scrittura con quella dei vecchi. Si osservaruno molte cancellature,
molti errori dipendenti da disattenzione. Erano rare le asteggiature dritte e
decise, abbondavano le curvature e le paraffe; sopra uno stesso pezzo di carta
spesso si notava la tendenza a scrivere la medesima cosa in diverse guise,
prima in lungo, poi di traverso, prima con una specie di caratteri e poi con
un'altra; e di frequente le parole, specie i nomi propri, erano circondati da
ghirigori e nella scrittura erano imitate le lettere a stampa. Si notò
pronunziata la tendenza a servirsi di simboli più o meno strani per non essere
intesi, come anche di altabeti convenzionali. Qual’era il contenuto di quelle
lettere? L’amore. Si è già di sopra fatto cenno della loro tendenza all’o.
scenità, ma i casi di una degenerazione sessuale vera e propria sono in genere
rari. Si direbbe a prima giunta che l'inversione sessuale formi uno dei
caratteri che contradistingue i corrigendi, ma, per giudicare rettamente,
bisogna tener presenti le condizioni strane, stranissime in cui sì trovano
agglomerati tali giovinetti, proprio negli albori della loro vita sessuale. Se
per un momento pensiamo a ciò che accade non raramente in taluni dei nostri
collegi, ci convinceremo che non si può parlare nel maggior numero dei casi di
una degenerazione sessuale congenita, ma di un vizio acquisito, transitorio,
dipendente dalle condizioni di antigiene sociale in cui quei ragazzi sono
allevati. I grandi vivono coi piccoli, i buoni coi cattivi: che cosa c'è da
aspettarsi? La dilatazione della macchia del vizio. Del resto a questo
proposito è bene notare che sulla natura e caratteri dei così detti vizii od appetiti
congeniti bisogna intendersi bene, giacchè non sì deve credere (toltine i casi
di malattia mentale e di degenerazione vera e propria) che l'individuo nasca
con un determinato vizio : ciò che in realtà si eredita è la predisposizione,
vale a dire il bisogno vago ed indeterminato di procurarsi un dato ordine di
piaceri: ora tutto ciò non implica nulla di fatale e di necessario : fornite Je
condizioni opportune, vale a dire un’educazione morale intesa a spingere
l’individuo coll’esempio, coll’abitudine, colle suggestioni appropriate, a
cercare l’appagamento di quel tale bisogno in modo lecito e voi avrete
trasformato una tendenza al vizio in una tendenza alla virtù o almeno avrete
arrestato lo svolgimento di quel germe che o dall’eredità o da altra influenza
malefica era stato deposto nella psiche di un giovinetto. Citerò un esempio
concreto per essere più chiaro. Un fanciullo, poniamo, perchè discendente da
individui affetti da quel vizio funesto che è l'inversione sessuale, viene al
mondo con una certa tendenza vaga ed indeterminata a compiacersi (nient'altro
che compiacersi) della compagnia di dati individui del suo sesso: se verrà
educato in modo che da una parte i suoi bisogni sessuali trovino la loro
soddisfazione in maniera normale e che dall'altra l’azione del volere sociale
su lui abbia per risultato di farlo rifuggire dal solo pensiero di ciò che è
meno che conveniente in rapporto alla condotta verso i suoi compagni, come
fatto oltremodo abbominevole, cosa accadrà? Che la primitiva attrattiva verso
gl’individui del proprio sesso piuttosto che dar luogo al vizio, si trasformerà
in un sentimento nobile ed elevato qual: quello dell'’abnegazione,
dell'amicizia vera e profonda, della generosità e via di seguito. Lo stesso
dicasi di tutti i vizi, di tutte le abitudini malsane: esse non vengono
ereditate bell'e sviluppate, fisse e rigidamente conformate, ma quali
predisposizioni, quali esigenze, quali tendenze che possono essere dirette al
bene come al male. Come si vede, tutto ciò è da tenere a mente per formarsi un
concetto esatto non solo della genesi dell’immoralità, ma anche della portata
dell'educazione morale nei bambini. Notiamo fin da ora, comunque avremo agio
diritornarvi sopra più tardi, che l'insorgenza e la fissazione delle tendenze
immorali in tantosono possibili in quanto il volere sociale o non agisce o
agisce in modo non appropriato sul volere individuale : il segreto
dell'educazione morale sta tutto qui, nello stabilire la necessaria comunione
dello spirito individuale con quello della società. E naturale poi che i
caratteri psichici antisociuli in genere sì trovino riuniti nei cosi detti
cattivi soggetti (pochi per fortuna, una diecina su 150), nei quali i germi
dell’immoralità sono abbastanza sviluppati. Questi hanno tutti i vizi, son bugiardi,
ipocriti, testardi, prepotenti, irruenti, maneschi, svogliati e formano la
disperazione dei superiori. Uno di questi p. es. ha solamente 10 anni, ma già
fin dall’età di 8 anni ne faceva di tutti i colori; non è buono a imparar
nulla; va a scuola da 2 anni ed a mala pena sa leggere; non ha nozione
dell'anno e del mese in cui siamo; passa da un'officina all'altra senza
riescire a trovare un mestiere che gli garbi. Nè è a pensare che sia sfornito
d'intelligenza, chè anzi si rivela abbastanza svegliato. Le punizioni e gli
avvertimenti in qualunque maniera fatti non hanno presa sul suo animo. Un altro
a 10 anni diede mentito nome alle guardie. Un terzo che presenta un aspetto di
una dolcezza serafica ha percosso varie volte la madre. E mì fermo, perchè non
vedo l'utilità di fare l’'enumerazione di tutte le deficienze morali che si
possono riscontrare. Aggiungerò solo che tali tipi cattivi sì fanno conoscere
fin dalla prima età. *# # * Esporrò ora i risultati ottenuti dall'esame
psicologico praticato sugli 89 giovinetti chiusi nell'Istituto di Benificenza.
Non mi fermerò molto sulle somiglianze che l'esame rivelò tra i caratteri
psicologici dei corrigendi e quelli propri degli orfani per fissare
l’attenzione massimamente sui caratteri differenti. Per ciò che riguarda le
somiglianze dirò che negli 89 orfani riscontrai nelle medesime proporzioni e,
direi anche, nel medesimo grado, se a ciò mi autorizzasse la circospezione di
cui bisogna circondarsi ne'l'emettere giudizi circa l’intensità dei fenomeni
morali, i caratteri della fisonomia, la tendenza al riso smodato e senza causa
proporzionata, le tendenze all’oscenità, agli abusi del vino e del fumo, la
frequenza nei disordini del l'attenzione e della memoria, l'indifferenza per la
famiglia e la diminuzione dell’intelligenza. Con frequenza press'a poco eguale
riscontrai la rapidità del passaggio da uno stato emotivo al suo contrario, la
mancanza di pudore, la furberia, l'irascibilità, l'arroganza, la tendenza
all’ipocrisia, ed a mostrare di comprendere più di quello che realmente
comprendessero coll'apparire noncuranti della religione, degl'insegnamenti che
venivano forniti dai preti, ecc. Accanto a questi caratteri simili sì possono
porre dei caratteri differenziali, quali 1 seguenti: 1° il numero maggiore di quelli
che coll’ età sogliono migliorare; molti che fino all’età di 15, 16, 17 anni
erano giudicati cattivi, raggiunta tale età, divennero buoni: 2° la poca
frequenza con cui sì nota il contegno scomposto e la trascuratezza nella
pulizia della propria persona: 3° la mancanza di ogni tendenza alla ribellione,
a fare delle combriccole, ecc.: 4° l’assenza di quell’egoismo ributtante che si
notò nei corrigendi : tanto è ciò vero che non c'è caso di poter strappare una
confidenza, una confessione ad uno di loro, sia pure il più semplice, a danno
degli altri: 5° la tendenza meno pronunziata a cambiar mestiere, a mostrarsi
svogliati ed a rimanere nell’ozio. Ora di questi caratteri dovendo ricercare
l'origine, diremo che alcunì di essi evidentemente dipendono dall’organizzazione
diversa del Ricovero di mendicità, rispetto alla Casa di custodia che pare
costituita a posta per sviluppare le tendenze antisociali meno accentuate, ma
altri dipendono dall’ indole propria dei corrigendi. Esistono adunque, sì può
qui domandare, dei caratteri psicologici originari, primitivi, i quali
controdistinguono il candidato all’immoralità ed alla delinquenza, facendone un
tipo a parte, per modo che chi ha la sventura di sortire da natura caratteri
psichici cosiffatti inesorabilmente, fatalmente è destinato alla delinquenza ?
Per rispondere a tale domanda fa d’uopo tener presente l’enumerazione dei
carat. teri psicologici già fatta, per vedere quali sono i più costanti, i.più
universali ed anche i più importanti dal punto di vista cell’interesse della
società. Ed in tale disamina fa d’uopo scegliere i caratteri anormali
prettamente originari come quelli che sono del più alto significato : così gli
atti di malevolenza per sè, senza tener conto dei motivi e della loro genesi
psicologica non ci autorizzano a fare un tipo a parte dell’individuo che li
compie. *% *% % Se noi ben riflettiamo sulla psicologia dei candidati, diciamo
cosi, al vizio ed alla delinquenza e sulle cause che determinarono la loro
chiusura in Casa di correzione, ci accorgiamo subito che le note psicologiche
veramente caratteristiche si riducono alle seguenti : 1. Tendenze anormali
(tendenza a rubare, a incendiare ecc. ). Deficienza dell’intelligenza. 2.
Tendenza all’ozio. 3. Tendenza alla menzogna. 4. Deficienza della simpatia
quale fondamento dello spisito sociale. | b. Assenza di spirito sociale. 6.
Insubordinazione. Mancanza di disciplina e di rispetto e quindi impossibilità
di apprendere. 7. Assenza di poteri inibitori e quindi debolezza della volontà.
La discussione intorno all'origine di tali caratteri mostrerà fino a che punto
possono essere considerati come congeniti o come acquisiti sotto condizioni
determinate. Prima però di cominciare ad occuparci partitamente di cia scuno di
essi notiamo che nei casi concreti lungi dal presentarsi isolati appaiono
variamente intrecciati e fusì insieme; Non potendosi ridurre la psiche ad un
fascio di facoltà e di attività giustaposte, non dobbiamo aspettarci di trovare
l'alterazione isolata, poniamo, degli istinti o delle tendenze o dell’emotività
e non dell’intendimento : gli stati e le modificazioni delle varie attitudini
intimamente compenetrate tra loro si devono necessariamente influenzare
reciprocamente, producendo soltanto un risultato complessivo differente a
seconda della potenza psichica alterata in modo più accentuato. È indabitato
che parecchi, molto precocemente e molto insistentemente, nonostante le
punizioni loro inflitte, mostrano tendenze speciali al furto, all'incendio, al
suicidio, all’assassinio : non altrimenti che molti altri mostrano una
deficienza notevole nelle facoltà intellettuali. Individui di tal fatta sono
certamente dei psicopatici e la ricerca accurata dell’ anamnesi individuale ed
ereditaria, qui soprattuto necessaria ed indispensabile, ci darà dei lumi in
proposito. Un individuo che all’età di 14 anni è già stato incendiario 10
volte, che interrogato sugli atti da lui commessi, risponde che ve lo spinse il
diavolo, che si mostra impulsivo, dedito a tutti i vizii, svogliato, è
giudicato molto presto uno psicopatico. Se non che individui siffatti, i quali
si potrebbero dire candidati al manicomio, si presentano di raro: e le tendenze
veramente morbose (cleptomania, piromania ecc.) non sì osservano con molta
facilità nei bambini, ond'è che bisogna andare molto cauti nel pronunziare
giudizi di tal fatta, tanto più se si pensa che i reati che più spesso vengono
commessi dai bambini e per cui gran parte son chiusi in Casa di custodia, sono
i furti. Ora, se la cleptomamia è indubbiamente morbosa e rientra nell’orbita
della psichiatria, la tendenza ai furti ordinari (tra le due vi è un abisso, se
si pensa ai caratteri differenziali esistenti, e basta accennare solo di
passaggio all'assenza di qualsiasi veduta d'interesse nel caso della
cleptomania) è in rapporto colla cattiva educazione e col cattivo esempio avuto
nella propria casa e fuori o colla mancanza di qualsiasi forma di educazione, è
in rapporto colla miseria e cogl’incitamenti a rubare che i bambini ricevono
molte volte dai proprii genitori, dai compagni, ecc. Avendo io ricercato con
molta cura le cause dei furti commessi dai minorenni corrigendi, mi son dovuto
convincere che la più parte di quelli non sono imputabili ai minorenni stessi,
ma alle loro famiglie ed alla società in cui sono nati ed educati. È indubitato
che molte caratteristiche dei corrigendi trovano la loro origine e sono fondate
sulla tendenza all’ozio e al vagabondaggio. Qual'è la base di questa ? Essa è
una delle espressioni, uno dei segni di quella debolezza, di quella
incoordinazione e di quel sussecutivo disgregamento dell’unità della vita
psichica che costituisce il fondo su cui germogliano le varie tendenze
immorali. Noi sappiamo che tutti gli organi normalmente costituiti sì trovano
di solito, ma in modo senza confronto più accentuato prima della funzione, in
uno stato di tensione che figura come l'esponente della forza ir essi
accumulata; è chiaro che quanto maggiore e la energia in essi contenuta, tanto
maggiore sarà la tensione in cui essi si troveranno, tensione che
subbiettivamente si rivela come bisogno di mettere in opera le proprie risorse,
come bisogno di lavorare. E tuttociò appare evidente non solo nel tono dei
muscoli, ma eziandio in tutti gli apparecchi fisiologici e quindi anche nel
sistema nervoso. Dato che questo si trovi in uno stato di debolezza dipendente
da cause svariate, p. es. dalla insufficiente nutrizione, dal poco o inadatto
esercizio ecc. : per modo che in esso sia di molto difficoltato l’accumulo
delle forze da una parte e la possibilità dall'altra di dirigerle e di farle
convergere tutte ad un dato scopo, si comprende agevolmente che in tali
condizioni debba manifestarsi la tendenza all'ozio. La debolezza dell'organismo
in gen ere e del sistema nervoso in ispecie si renderà palese massimamente
call’impossibilità a persistere in un dato lavoro, coll’incapacità a fissare e
a mantenere l’attenzione sopra nn dato obbietto. Gli oziosi sono distratti,
svagati, disordinati, incostanti, perchè presto sì esauriscono. Volgarmente si
ritiene che alcuni individui divengono presto stanchi perchè sono oziosi, ma è
vero proprio l'opposto. La tendenza all’ozio adunque va riferita ad uno stato
anormale dei centri nervosi per cai la loro capacità nutritiva non è tale da
permettere l’accumulo di forza di tensione indispensabile al lavoro persistente
e vantaggioso. Si può rimediare in qualche modo ad un tale stato di debolezza?
Certo rafforzando l'organismo e segnatamente il sistema nervoso, e più di
tutto, mettendo in opera i mezzi atti ad operare come potenti stimoli alla
funzionalità intensa e insieme regolata dei centri nervosi stessi, si potranno
ottenere dei vantaggi. Qui l'educazione bene intesa, l'esercizio, l'esempio, la
rimunerazione equa, la messa in gioco dell’ amor proprio e il rendere le
condizioni della vita tali che rendano possibile la nutrizione e lo sviluppo
degli organi, produrranno senza dubbio il loro frutto. Se non che non bisogna
troppo illudersi sui risultati che si possono ottenere, nè esagerare l’uso e la
portata dei mezzi che si mettono in opera. Agire sui singoli individui
puramente e semplicemente non basta: fa duopo ricorrere a mezzi di natura
sociale, atti cioè a modificare l’ambiente sociale in genere e i rapporti
sociali in ispecie, atti quindi ad esercitare l'influenza su tutti gl’individui
componenti la società. Occorre cancellare dalla mente del comune degli uomini
l’idea falsissima che il lavoro sia in sè un’infelicità o una maledizione e che
quindi il minimo di lavoro coincida col massimo di felicità. Fa duopo per
contrario ingenerare nell’anitno la convinzione che il lavoro è un elemento
indispensabile e integrante del godimento umano e che senza alcun dubbio una
vita tutta piaceri ed ozio renderebbe infelice l’esistenza che la parte più
preziosa della vita umana è data dal lavoro stesso, il quale rende possibile lo
svolgimento delle migliori facoltà umane in quanto ci è di sprone a sormontare
gli ostacoli ed a sacrificarci, iniziandoci così alla vera moralità. Questa
invero consiste appunto nel lavorare coroggiosamente per il bene di tutti,
rinunziando, se ciò è necessario, volentieri e con piacere al proprio benessere
e alla propria parte di felicità. Ma per che via si può ciò ottenere? Prima di
tutto contribuendo coi precetti e coll’esempio a riformare i cattivi costumi
esistenti nella società attuale e cercando soprattuto di colmare l’abisso
artificiale che si è scavata tra le varie classi, donde la necessità di
modificare i metodi educativi; si potrebbero citare una quantità di fatti
validi a dimostrare che la tendenza all’ozio e l’abborrimento per il lavoro
nella più parte dei casi riconoscono la loro origine nel dispregio che la gente
altolocata in genere mostra per tutti i mestieri ed occupazioni ritenute
d’ordine inferiore, circondandosi così di molte persone che potrebbero essere
adibite alla produzione di lavoro più proficuo. Poi, facendo partecipare le
classi lavoratrici alla vita intellettuale delle classi colte, il quale
desiderato forse non rimarrà per sempre lettera morta, come ce ne fornisce
l’esempio l'Inghilterra, dove si è iniziato un movimento tendente a colmare
tale lacuna. Alludiamo al movimento di espansione delle università, allo sforzo
compiuto da queste ultime per mettersi a contatto delle masse operaie,
comunicar loro una parte del proprio patrimonio intellettuale, educarle moralmente
e intellettualmente e spingerle ad acquistare il sentimento della dignità
umana. A tal uopo anzi sono stati messi in opera due mezzi: da una parte vanno
ad abitare dei giovani usciti dall'università nei quartieri operai delle grandi
città manifatturiere, passando una parte del loro tempo in mezzo ai lavoratori
e interessandosi dell’amministrazione e del miglioramento delle condizioni
igieniche dei detti quartieri; dall’altra parte gli stessi professori
d’università consacrano dei corsi speciali o delle lezioni agli operai,
iniziandoli alla comprensione delle que=tioni che possono loro interessare.
Infine ed è forse il mezzo più efficace e più importante mettendo in opera
tutti i mezzi atti a dare all'operaio una cultura tecnica per modo che egli riesca
a comprendere le condizioni generali della vita industriale e si renda conto
della comunità sostanziale d'interessi esistente tra operai e padroni. A tale
esigenza rispondono le associazioui sul tipo delle 7’rades - Unions, nelle
quali il sentimento di solidarietà esistente nei membri dell’associazione,
contribuisce a frenare l'egoismo e a tener desto il sentimento del dovere,
dell'onore e della dignità. Le nostre conchiusioni sì possono ridurre alle
seguenti. La tendenza all’ozio deriva massimamente, non esclusivamente dal poco
valore attribuito al lavoro per sè, onde è necessario che gli sforzi della
società siano intesi ad ovviare a tale inconveniente. A tal uopo sì richiede un
sistema sociale d’educazione destinato a trasformare non soltanto ì padroni, ma
anche gli operai, preparandoli ad una vita novella. Se è necessario combattere
nei primi l’egoismo e lo spirito di dominazione, negli altri occorre fare
scomparire la diffidenza, l'invidia, la cupidigia. A. proposito della menzogna
è bene notare che molti dei caratteri psicologici riscontrati nei corrigendi,
riconosciuti nocivi alla società, non sono loro patrimonio esclusivo. E già su
questo fatto è stata richiamata l'attenzione da altri, specie da Lombroso. La
tendenza alla menzogna p. es. è carattere che si trova con molta frequenze nei
bambini; se non che nei corrigendì non solo raggiunge un grado massimo, ma può
produrre gli effetti più disastrosi, trovandosi in connessione con condizioni
che lungi dall’opporsi, ne favoriscano lo sviluppo, rivolgendola sempre a
produrre del male. La tendenza alla menzogna, che certamente è favorita da
un’educazione difettosa e non rispondente allo scopo e che per sè sola non
costituisce un carattere distintivo del candidato al vizio, va tenuta in conto
quale espressione di un'organizzazione mentale non perfetta. Donde proviene la
tendenza alla menzogna, quale ne è il meccanismo di produzione? Che cosa sta
essa a significare? Un giorno nel fare l’esame psichico di uno dei minorenni
chiusi nella casa di custodia, intelligente abbastanza, invitai costui a
leggere attentamente un periodo facilissimo ad intendersi, affinchè dopo
potesse espormi a memoria ciò che ne aveva compreso. Ed egli pronto a leggere e
dopo svelto a dirmene il senso. Nemmeno un’acca di ciò che effettivamente dice
il libro: il suo discorso era del tutto differente. A domande improvvise
riflettenti il contenuto vero del passo letto, a domande cioè intese a
ricercare se effettivamente aveva compreso nella maniera in cui si esprimeva,
rispose in modo da generàre in me la convinzione che in sostanza aveva
interpetrato a dovere il senso generale, comunque l'esposizione dapprima fatta
fosse totalmente diversa. Questo aneddoto mi pare significantissimo per
l’interpretazione del meccanismo della menzogna, le cui essenza sta appunto
nell'antagonismo, se così posso esprimermi, esistente tra ciò che è percepito e
ciò che s'estrinseca : antagonismo che dipende originariamente dal perchè le
vie e i modi di esprimersi non sono agevoli, data la mancanza di esperienza, ovvero
dal perchè gli elementi mentali non sono ancora disciplinati per una regolare e
coordinata funzione e questo è il caso dei bambini : e dipoi, da questo che la
volontà individuale a ragion veduta, per un dato scopo cioè, fa da forza
inibitrice, realizzando così le condizioni dell'impedita estrinsecazione di ciò
che sé ha dentro. È la mancanza di corrispondenza tra il di dentro eil di
fuori, è la difficoltà di esprimersi ciò che impedisce al bambino di dire
quello che pensa, spingendolo a girare intorno alla verità. Una volta fatto il
primo passo, una volta insorta quella tendenza, l’educazione e i motivi in
genere che spingono a MENTIRE – Grice: “MENTARE, MENTIRE” --, come sarebbe
quello di fuggire le punizioni e le minacce, fanno il resto. È indubitato però
che, data un’organizzazione (sia fisica che psichica) debole, imperfetta a tal
segno che le risorse, per quel che concerne l’estrinsecazione siano scarse, la
tendenza alla menzogna dev'essere accentuata. È per questo che i degenerati, e
i bambini in tesi generale sono oltremodo bugiardì; ed È TALMENTE FISSATA IN
LORO L’ABITUDINE A MENTIRE – ‘cry wolf’ -- che molte volte è soltanto dopo che
hanno detto la menzogna che ne acquistano la coscienza chiara. La tendenza alla
menzogna a volte diviene un automatismo che funziona indipendentemente ed anche
malgrado la volontà. In conclusione io credo che della tendenza alla menzogna
oltremodo pronunciata nei giovanetti vada tenuto conto come d’un sintoma di
debolezza dell'organizzazione mentale, in quanto in tal caso i fatti [Stando
alle recenti indagini sull’origine del linguaggio, la parola e la
rappresentazione, il SEGNO e l’imagine dell’oggetto si svolgono parallelamente,
seguendo leggi proprie. Ia prima è un prodotto in via di formazione e di
svolgimento, mutevole quindi, variabile in rapporto allo stato dell'animo
individuale e sottoposto alla volcnià indivi. vali (‘n potestate nostra),
mentre l'altra apparisce come qualcosa di già costituito e quindi di stabile e
di rigido, È naturale che le due serie, quella delle parole e quella delle
rappresentazioni non coincidano, essendo differenti la loro origine e le
condizioni di loro svolgimento. Si aggiunga che la parola quale SEGNO è una
semplice estrinsecazione dell’attività iteriore, estrinsecazione che si riferisce
ad una sola forma di sensibilità (udito). La percezione sensibile invece
rappresenta il prodotto di svariate forme di sensibilità, donde la sua maggiore
stabilita e permanenza di fronte al flusso dei sunni vocali. V. a tal proposito
l'opera di Noiré Log908 Ursprung und Wesen da Begriffe, Leipzi ig. interni non
riescono a trovar la via per estrinsecarsi in modo giusto e deviano da una
parte o dall’altra, provocando l'attività d’elementi che per condizioni
particolari sono più disposti all’estrinsecazione. La tendenza alla menzogna
intanto ha importanza in quanto accenna ad una coordinazione irregolare, o
meglio ad una forma d’IN-co-ordinazione alla incompleta unità, identità e
continuità di tutta la vita psichica, e quindi ad una forma d'incapacità a governare
sè stesso. Non v'ha dubbio che l'educazione, l'esempio, specie se intesì a
rimuovere qualsiasi forma di duplicità nella vita e i bambini hanno ben di
sovente occasione di osservare due diverse maniere di condursi da parte dei
GENITORI – cf. H. P. Grice, “The Genitorial Programme” -- e degli altri
educatori a seconda che questi sono in famiglia, nel circolo degli amici, ecc.,
ovvero al di fuori della vita intima, nella società possono mettere un argine
all’invadente tendenza alla menzogna. Vanno però sempre tenute d'occhio da una
parte le condizioni che favoriscono lo svolgimento dell’energia individuale e
del carattere e dall'altra i motivi che d’'ordinario spingono a mentire. Si è
già detto che uno dei caratteri psichici dei corrigendi è il freddo egoismo,
per cui essi non hanno altro di mira che il proprio utile. Non hanno amici nel
vero senso della parola, nè sentono affetto pei pareuti. Ordinariamente sì dice
che individui di tal fatta hanno il prepotente bisogno di far male agli altri e
provano un intenso piacere a vederli soffrire. Ora per dar ragione di tali
fenomeni, alcuni si sono arrestati all'affermazione che codesti individui sono
sforniti del senso morale, quasichè questo fosse qualche cosa di semplice e
d’irriducibile (press'a poco come qualsiasi senso percettivo, vista, udito,
ecc.): ma, prima di tutto nei bambini in genere non si può parlare di esistenza
di senso morale vero e propriu, ma di teudenze morali, presupponendo quello lo
svolgimento completo della vita psichica sia dal lato della conoscenza che
dell'attività, e poi esso è cosa tanto complessa che, per giustificarne e
interpretarne la presenza o la mancanza, vanno prima considerati gli elementi
di cui si compone. A me pare che le caratteristiche antisociali suesposte
riconoscano almeno in parte la loro origine nella diminuzione della simpatia,
intendendo per quest'ultima la proprietà che ha l’animo di un individuo di
riflettere i sentimenti che sì rivelano nell'espressione del volto delle
persone che lo circondano. Per essa, intesa in senso largo, la vista di un
movimento. come l’assistere ad una sofferenza desta fenomeni analoghi nella
psiche dell’ osservatore (1). Questa impressionabilità individuale che ha un
fondo organico e corrispettivo fisiologico consistente nell’attitudine di
taluni centri nervosi ad entrare in funzione anche se agisce da stimolo la
percezione di date espressioni emotive (2), questa simpatia istintiva che (1)
Maudsley ed altri notarono a tal proposito che l’uomo comincia il suo sviluppo
colla sinergia (contagio dei movimenti, imitazione), poi arriva alla simpatia
(contagio dei sentimenti) e infine raggiunge la sintess (comunione delle idee)
Si è stabilita tale connessione intima tra determinate espressioni emotive e le
emozioni che basta la semplice percezione delle prime come i1 altri casi la
insorgenza delle stesse per richiamare le seconde, onde il proce-so nervoso
espressivo che dapprima figura come conseguente o concomitante del processo
nervoso costituente il corrispettivo fisiologico delle emozioni, diviene l’
antecedente. negli esseri forniti della medesima organizzazione provoca il
simile col simile, fondata psicologicamente sull’associazione già stabilitasi
in noi tra le manifestazioni espressive e il corrispondente sentimento altre
volte provato per cui la percezione di quei segni provoca il fantasma del
sentimento, fantasma che contiene già un iniziamento dsl processo reale di cui
è l'immagine, questa disposizione che fa concentrare l'attenzione dei bambini
sull’espressione del volto e perfeziona, come dice il Perez, il dono innato di
leggere nelle fisonomie, è quanto vi ha di congenito, di originario e, diremo
anche, di organico nelle tendenze sociali o antisociali che l'uomo presenta nel
corso della sua vita. Noi possiamo simpatizzare con qualunque essere, il quale
presenti qualche analogia con noi e tanto più quanto maggiore è lu
rassomiglianza; quindi più facilmente e più fortemente cogli altri uomini e tra
questi sopratutto coi parenti, coì connazionali, con quelli della medesima
razza e cosi di seguito: poi via via in grado sempre decrescente cogli animali
più simili all'uomo, scendendo fino a quelli in cui la differenza
dell’organizzazione è tale che le loro manifestazioni ci riescono quasi affatto
inintelligibili e cilasciano indifferenti. - Ora che i bambini in genere
abbiano attitudine a simpatizzare non è a dubitare, come dimostrano i numerosi
esempi riferiti dagli autori che si sono occupati della psicològia infantile e
specialmente dal Galton, il quale ha soggiunto che i bambini sono più disposti
a sentire la simpatia per gli animali che non gli adulti .(1). (1) Riferirò a
tal proposito un esempio riportato dalla signora Mana. ceine, la quale racconta
che mentre nel giardino zoologico di Pietroburgo una folla numerosa stava ad
ammirare la destrezza e i giuochi eseguiti da un elefante e tra le altre cose
una scena nella quale il guardiano si Vediamo qual'è l'origine di questa
proprietà psichica congenita che abbiamo detto simpatia. Molti hanno messo in
rapporto la simpatia collo sviluppo della riflessione individuale, ecc. :
quasichè la simpatia nascesse nell'individuo dal semplice ricordo dei dolori
provati e fosse quindi come il risultato di un calcolo egoistico o di un
ragionamento. La vista di una data sofferenza in tanto desterebbe dolore in
quanto provocherebbe il ricordo di una sofferenza analoga già provata
dall’individuo o susciterebbe la paura di provarla. La simpatia sarebbe cosi un
egoismo mascherato e poggerebbe tutta sulle emozioni già provate o imaginate o
in qualche modo comprese. Ed è così che accade d'imbattersi non di raro in
espressioni come queste: Noi non siamo veramente pietosi se non per le miserie
che possiamo chiaramente comprendere. Le altre non cì ispirano che ribrezzo e
dispregio. Per questo i fanciulli sono generalmente crudeli . Ora tutto ciò non
è esatto; la più parte dei bambini nascono col dono della simpatia e non è
necessario che comprendano in modo chiaro e cosciente i dolori, perchè in essi
si desti la simpatia, e se con uua certa frequenza appaiono crudeli, è in
grazia di un'educazione falsa loro impartita ed anche in grazia delle
condizioni di debolezza in cui si trovano, per cui sono costretti a ricorrere
necessariamente alla crudeltà per difendersi e vincere. Co ciò non s'intende
negare l’azione che lo svolgimento dell'intelligenza e della coricava per terra
e l’clefante si metteva a camminarvi per disopra, una bambina di due anni,
seduta sulle braccia della balia cominciò a piangere tanto forte ed a
protestare coi suoi gesti e col suo irregolare linguaggio infantile contro
quella vista per lei ributtante, che non fu pos+Sibile renderla tranquiila
pruma che il guardiano si levasse in piedi. riflessione può esercitare sulla
simpatia, rendendola più fine, più squisita e più differenziata, ma si vuole
affermare che la simpatia non è a considerare quale prodotto della ragione e
dell'esperienza individuale. Finchè in psicologia dominò la veduta
individualistica, finchè si credette di poter dare ragione di tutti i fatti
spirituali per mezzo delle attitudini della psiche individuale e finchè questa
fu considerata come qualcosa d’indipendente, di completo, di esistente per sè e
di chiuso in sè stesso, non sì potè non considerare la simpatia come un
prodotto sussecutivo e secondario. Da tal punto di vista il centro di ogni vita
psichica essendo l'io individuale, questo non poteva figurare come momento e
parte di una vita psichica superiore, nè la simpatia poteva esser riguardata
come una attitudine originaria, In tale ordine di idee rimasero i psicologi
darwiniani quando cercarono di determinare il tempo in cui la simpatia fa la
sua coinparsa nell'anima umana (età di 5 mesi) e nella serie animale
(/menotteri). Se non che qui è bene notare che gli scienziati su tale argomento
non son punto d’accordo : così Sir John Lubbock ritiene le formiche da lui
osservate sfornite di affezione e di simpatia almeno relativamente allo
svolgimento delle emozioni di natura opposta, mentre altri naturalisti come
Maggridge, Belt asseriscono di aver potuto constatare in talune specie di formiche
un' attitudine particolare alla simpatia. Gli stessi dispareri s'incontrano a
proposito delle api e di altri insetti (1). (1) Cfr. Romane8s, L'’intelligence
des animaux, trad. fr., Paris, Alcan, 1887, Tom. I, pag. 41 e segg. e pag. 145. Cfr. anche Romanes,
L’evolution mentale ches les animaux, trad. fr., Paris, Reinwald, 1884, pag.
352. Il s Il disaccordo esistente tra gli scienziati sta a provare la mancanza
di consistenza del loro punto di partenza, avendo essi prese le mosse dal
presupposto che la simpatia sia qualche cosa di secondario, di derivato e di
accidentale che possa e non possa esistere, e che quindi possa sorgere in un
dato momento piuttosto che in un altro; ora, nulla di più infondato.
L'’attitudine alla simpatia è universale, primitiva, originaria in tutto il
regno animale e sono soltanto le sue Romanes pone la benevolenza tra i
sentimenti posseduti dagli animali, p. es. dal gatto, riferendo i seguenti
esempi: “ Au sujet d’un chat domestique,, dice quest’autore, “ voici ce
qu’écrit M. Oswald Fitch. Il dit que l’on vit ce chat “ prendre des arétes de
poisson et les emporter de la maison an jardin: on le suivit et on le vit les
déposer devant un chat étranger mistrablement maigre et évidemment affamé, qui
les dévora; non satisfait encore, notre chat revint, prit une nouvelle
provision et recommenca son offre charitable qui sembla étre acceptée avec
autant de gratitude. Cet acte de bienveillance accompli, notre chat revint à
l’endroit où il prenait d’habitude ses repas, près de l’évier où se lavent les
assiettes, et mangea le reste des débris de poisson, (Nature, 19 avril 1883,
pag. 580). Un cas presque identique m’a été communqué par le docteur Allen
Thomson, membre de la Société royale de Londre. La seule différence est que le
chat du docteur Thomson attira l’attention de la cuisinière sur un chat
étranger affamé, en la tirant par la robe et en la menant à l’endroit cù se
trouvait le chat. Quand la cuisinière donna è celui-ci quel jue nourriture
l’autre se promena tout autur, tandis que le premier faisait son repas, en
faisant gros dos e ronronnant bruyamment. Un autre exemple de bienveillance
chez le chat suffira. H. A. Macpherson m'écrit qu’en 1876 il avait un vieux
matou et un jeune chat de quelques mois. Le vieux chat qui avait longtemps été un
favori, était jaloux du petit et lui témoignait une aversion notable. Un jour,
on enleva en partie le plancher d’une chambre du sous-s0l pour réparer quelques
tuyaux. Le jour qui suivit celui où le planches avaient été remises en place,
le vieux “ entra dans la cuisine (il vivait presque entièrement è l’étage au
dessus) se frotta contre la cuisinière et miaula sans tréve ni cesse jusqu’à
qu'il eft attiré son attention. Alors courant de ci, de là il la conduisit dans
la chambre où le travail avait été fait. La domestique fut très-intriguée jusqu'’ à ce qu'elle estrinsecazioni,
le sue manifestazioni che variano a seconda delle circostanze e massimamente a
seconda del maggiore o minore grado d’intensità dei sentimenti di natura
opposta, dei sentimenti che potremo dire egoistici, i quali sono del pari
originari e universali. È naturale che lo svolgimento diverso dei sentimenti
dipende dalle differenti condizioni di vita: così s'intende da sè che negli
animali in cuì l'ordine sociale è bene entendît un faible miaulement venant de
sous ses pieds. On enleva une planche et le jeune chat sortit sain et sauf, mais è moitié
mort de faim. Le vieux chat surveilla toute l’opération avec beaucoup d’interét
jusju’à ce que le jeune fàt remis en liberté : mais s’étant assuré que celu-ci
était sauf, il quitta la chambre aussitòt sans manifester la moindre
satisfaction de le revoir. Ultérieurement,
non plus, il ne devint nullement amical pour lui., Se il Rumanes e gli altri
vogliono chiamare gli atti surriferiti atti di benevolenza, padronissimi, a
patto però che tale banevolenza sia considerata come nient’altro che
espressione di un sentimento di simpatia. Tra la benevolenza mostrata dai gatti
e quella umana corre un abisso, giacchè la prima non include la coscienza
dell’obbligatorietà del compimento degli atti di benevolenza, nè presuppone
alcun principio o massima fondamentale come l’altra: gli atti provengono
immediatamente, saremmo tentati di dire automaticamente da una tendenza, da
un’esigenza, da un bisogno dell'organismo fisico-psichico e qui finisce tutto.
Perchè gli atti compiuti dai gatti divengano identificabili coi corrispondenti
compiuti dall'uomo, occorre che la coscienza dia loro le note di necessità e di
universalità, occorre che l’individuo compiendoli sappia di compiere un'azione
che deve essere compiuta, onde vi concorre con tutta la propria energia
individuale. I gatti son tratti ad operare in tale o tale altro modo, mentre
l’uomo opera così, perchè crede che così ss deve operare. L'’essersi i gatti
adoperati a soccorrere i loro simili prima di appagare i loro appetiti lungi
dal poter essere citato come una prova del loro rpirito di sacrificio
s’interpreta benissimo al lume di quella nota legge psicologica, secondo cui i
sentimenti e gli appetiti che si presentano fuori del consueto assumono
un’insolita intensità e vivacità in confronto di quelli usuali, ordinari ed
insorgenti ad intervalli fissi e determinati. Si aggiunga poi che dalla
psicologia moderna gli animali non son più considerati come incapaci di qualsiasi
iniziativa e sforpiti di qualsiasi forma di aitività individuale, organizzato,
poggiando sul principio della cooperazione, i sentimenti di tenerezza e di
affezione reciproca devono giungere ad un grado notevole di sviluppo, come
quelli che stanno a significare l'accordo esistente tra l'interesse
dell'individuo e quello della comunità. Del resto lo stretto e rigoroso
individualismo non è più ammesso nemmeno in biologia, in quanto si è andata
sempre più accentuando una reazione benefica alle vedute prettamente darwiniane
colle ricerche compiute sulle varie forme di associazione presso gli animali.
Basta ricordare qui le accurate indagini dell'Espinas, del Cattaneo e del
Perrier, le quali tutte hanno mirato a porre in sodo che l'associazione,
l'assistenza reciproca, la divisione del lavoro (la cui influenza fu dapprima
in modo cosi evidente posta in luce da H. Milne Edwards) e la solidarietà che
ne risulta hanno esercitato un'azione preponderante sulla formazione, sullo
svolgimento e perfezionamento degli organismi. Se l'esistenza della simpatia
nel regno animale quale fatto primitivo ed universale può formare oggetto di
discussione trai naturalisti psicologi, ogni dibattito cessa di essere
g'ustificato per quel che riguarda l'uomo. Noi conoscia:no questo soltanto come
essere sociale e quindi come determinato nelle sue azioni ad uno stesso tempo
dal suo proprio volere e dal volere della collettività a cui l’individuo
appartiene: la relativa indipendenza e separazione del volere individuale
appare solo come il risultato di uno svolgimento tardivo. Si pensi che il
bambino diviene solo gradatamente cosciente della forza della propria volontà,
mentre da principio a mala pena si distingue dall'ambiente da cui è come a dire
trascinato. Del pari nello stato naturale I n= “© Redi a ee ; e e e i .
@1’oo@-@ a e e il predominio e la preponderanza appartiene al sentire, volere e
pensare collettivo. L’ uomo, per così dire, s' individualizza a poco per volta
emergendo da uno stato d'indifferenza sociale, senza separarsi però mai
completamente dalla sua comunità. Il dire che noi abbiamo bisogno della
riflessione e del calcolo e dell'esperienza per poter agire a favore degli
altri è tanto assurdo come voler dar ragione delle azioni egoistiche,
ricorrendo agli stessi mezzi del calcolo, della riflessione, ecc. : in entrambi
i casì la volontà agisce in modo immediato; ed anzi possiamo aggiungere che
ogni complicazione avrebbe per effetto di paralizzare o di rendere meno pronto
l'operare. Ogni forma di riflessione e di calcolo piuttosto che precedere segue
gli atti. D'altra parte l'affermare che la simpatia nasce dal riflettersi dei
sentimenti altrui nell'anima nostra in rapporto alla loro intensità, e in
qualche maniera alla loro qualità, non . implica nient'affatto l'identità del
sentimento originario e di quello riflesso. Tra la sofferenza o il dolore
originario e la pietà, o la compassione vi è una profonda differenza dal punto
di vista qualitativo : è lecito forse identificare rispettivamente l'angoscia
di colui che sta per annegarsi o la sofferenza dell'operaio disoccupato che
teme la fame coi sentimenti che producono in modo riflesso in chi osserva la
coraggiosa risoluzione di salvare il primo e l 'atto di carità tendente ad
alleviare la miseria del secondo ? Se così stesse la cosa, nota molto a
proposito il Wundt (1), il sentimento riflesso perderebbe appunto quelle (1)
Wundt Ethik, Stuttgart. proprietà che lo rendono un motivo di soccorso attivo.
Insomma l’anima umana è cosiffatta che non rimane indifferente di fronte
all'apprensione dei fatti psichici dei suoi simili, ma in certa guisa se li
appropria, rendendoli parte del contenuto rappresentativo ed emotivo della sua
propria psiche : i fatti psichici altrui però penetrando nella. nostra
coscienza conservano qualcosa di proprio, come a dire un segno della loro
provenienza estrinseca, per cui assumono uno speciale valore emotivo per il
nostro spirito. Di guisa che da una parte i sentimenti altruistici sono
originari allo stesso titolo degli egoistici e dall’altra ciascuna delle due
categorie di sentimenti presenta delle qualità specifiche irriducibili per cui
non può non fallire ogni tentativo di derivare gli uni dagli altri. Allo stesso
modo che non v'è caso altro che nel sogno e in talune forme d'alienazione
mentale che noi scambiamo la nostra propria personalità con quella di un altro,
così non è possibile un'identità originaria dei sentimenti riferentisi a noi
stessi e di quelli relativi ad altri soggetti. Da ciò consegue non solo che il
conflitto degl’inpulsi egoistici con quelli altruistici è una delle forme più
frequenti di contrasto tra i motivi della volontà, ma anche che in tale lotta
vincono ora quelli di una specie, ed ora quelli di un' altra. Del resto se le
tendenze sociali fossero qualcosa di secondario e di derivato non si vede come
e perchè non sarebbero sempre vinte e superate dai sentimenti originari.
Nessuna riflessione e calcolo avrebbe la virtù di produrre un tale effetto. Di
maniera che l’ individualismo psicologico mena dritto all’ egoismo morale.
Fortuna che la forza dei fatti è maggiore di quella delle teorie ! (Wundt). Il
fondo dell’individualismo è una concezione meccanica del mondo morale ; esso
isola l’uomo nel bene come nel male, facendo poggiar tutto sull’individuo e non
vede in ogni associazione umana che un aggruppamento artificiale ed
essenzialmente transitorio. La veduta collettivistica concepisce il mondo come
un vero organismo, alla cui vitalità collabora l'individuo come membro e parte.
La società in quanto produce e consuma non è più considerata come un aggregato
d'atoii isolati, ma come un sistema organico nel quale la produzione e la
distribuzione delle ricchezze rispondono alle funzioni di assimilazione e di
circolazione proprie di ogni essere vivente. Onde la conservazione
dell'organismo apparisce alla coscienza dell'individuo come il dovere più alto
e imperioso, o alineno quest’ultimo dovere prende posto accanto al dovere di
conservazione personale. È evidente che tale concezione dello spirito sociale
racchiude l'idea più alta della moralità, la quale è una produzione della
società di cui segue i progressi e le vicende. Del resto anche nell'individuo
isolato la moralità non consiste soltanto nel verdetto interiore della
coscienza (tanto è ciò vero che le buone intenzioni non bastano a sostituire
una buona azione), bensi nella collaborazione reale all’organizzazione della
natura secondo la ragione, o nella contribuzione al bene generale a cui
l'individuo ha il dovere di sacrificare senza esitazione i suoi interessi ed
anche la sua persona. La disfatta dell’individualismo e dell’egoismo per mezzo
del principio morale, ecco adunque l’ideale: se non che vincere non equivale a
distruggere completamente : l’io è l'io, e rimane tale necessariamente : e si
trova da per tutto, anche, come sì è veduto, nei sentimenti di simpatia e di
pietà che si provano per gli altri. Onde se si vuole che un individuo cooperi
al benessere degli altri bisogna fargli occupare nella società il posto che gli
compete; così egli potrà svolgersi interamente e spiegare liberamente, ma
sempre legittimamente la propria attività. n'e Dopo aver determinato la natura
e i caratteri della simpatia che va considerata come il fondamento organico
dello spirito sociale e quindi della moralità, s'affacciano alla nostra mente
parecchi quesiti: 1° E ammissibile l'assenza completa della simpatia o anche
una deficienza notevolissima di essa, e nel caso affermativo, si possono porre
in opera dei mezzi per accrescerla, o per produrla addirittura? Che significato
ha la deficienza della simpatia e quali sono le cause determinanti di un tal
fatto? In che rapporto si trova la simpatia colla morale vera e propria ? 4° La
tendenza alla malevolenza è spiegabile solamente con l'assenza pura e semplice
della simpatia, ovvero bisogna ammettere auche l'antipatia come determinazione
originaria primitiva e positiva ? 1° Che l’attitudine a simpatizzare possa
mancare del tutto non è ammissibile, almeno fino a tanto che non si esce dai
confini del normale; è soltanto in stati morbosi o semplicemente anormali che
si può riscontrare la preponderanza, e nemmeno allora assoluta, dell’egoismo.
In casi determinati però sì può osservare una notevole diminuzione di detta
attitudine, ed è impossibile negare che l'animo dei bambini alle volte non
appare, giusta le parole di Heine, come lo specchio fedele dei sentimenti che
si producono intorno a lui. Se non che qui occorre osservare che il contagio
dei sentimenti può avvenire tanto nel s:nso buono quanto nel senso cattivo,
onde da tal punto di vista tra i giovani chiusi in una Casa di custodia bisogna
distinguere quelli che avendo attitudine alla simpatia e all’imitazione e che
trovandosi a contatto dei tipi sfornitine completamente son divenuti malvagi
anche loro, rotti al vizio e sordi alla voce di qualunque sentimento sociale, da
coloro che effettivamente nacquero deficienti in fatto di simpatia e di
attitudine ‘all’imitazione. Son questi ultimi i tipi che si potrebbero dire gli
originali dal punto di vista antisociale. Essi non intendono conformarsi a
nessun modello e a nessuna regola, il che non esclude che possano avere del
talento. Sorge spontanea la domanda: Ci son dei caratteri differenziali tra chi
è divenuto antisocievole in seguito all'esempio ed alla suggestione e chi è
nato tale per deficienza di attitudine alla simpatia ? I dati anamnestici
accuratamente raccolti possono fornire dei lumi a tal proposito, ma è l’esame
psicologico fatto ripetute volte e l'osservazione diligente del soggetto fatto
a sua insaputa che potranno fornire il bandolo della matassa. Un bambino che
non ha nessuna tendenza ad imitare ciò che vede fare dinanzi a lui, un bambino
che tende a starsene isolato in un canto e che non sente il bisogno di ripetere
i giuochi e di trastullarsi, un bambino che rimane estraneo a tutti i
sentimenti degli altri e che risponde alle osservazioni fattegli col silenzio o
con frasi prive di senso, con repliche amare e con scuse false, un tale bambino
deve destare sospetto, giacchè le note suesposte depongono per un carattere, il
quale per natura ha poca attitudine alla simpatia. Bambini di questo genere,
specie se in età precoce, nelle ore di allegrezza si gettano su di voi e magari
vi stringono con furore, vi tirano le braccia con tutta la loro forza e vi
tormentano in mille modi e sembrano d’ignorarlo ; se li avvertite si
meravigliano . e se insistete perchè vi lascino in pace, continuano a
molestarvi e nel caso che prolighiate loro delle carezze non sentono il bisogno
di ricambiarvele. Del resto si può dire che il carattere persistentemente
egoistico si riconosce da una quantità di nonnulla, dei quali ognuno preso per
sè val poco, ma messi insieme difficilmente ingannano il pedagogo ed il
psicologo sagace. Aggiungiamo che colui che è fornito del dono della simpatia
naturale si mostra più passibile di miglioramento e di educazione. L'individuo,
infatti, il quale in forza del contagio morale è divenuto cattivo, ma che ha
l’attitudine alla simpatia e che perciò presenta un carattere modificabile può
d'un tratto, date le condizioni opportune, presentare mutata la sua fisonomia
morale, può divenir buono appunto perchè la sua psiche è organizzata in modo da
sentire l’azione della suggestione e dell'esempio, mentrechè l'individuo in cuì
predomina l'egoismo rimane sordo a qualsiasi stimolo, epperò si rivela incapace
di notevole miglioramento, s'intende nelle ordinarie Case di correzione (1),
giacchè la cosa muta sott A lui si possono rivolgere le parole di Mefistofele
(GOtbc, Faust): Du b'st am Enda was du bist Setz dir Perruecken auf von
Millionen Locken Setz deinen auf ellenhohe Locken Du bleibst doch immer, vas du
hist . condizioni diverse, come vedremo in seguito, parlando del rapporto della
simpatia colla moralità. S'intende da sè che di tipi siffatti fortunatamente se
ne riscontrano pochissimi: ed è chiaro del pari che l’uducazione, l'esempio
come tutti i mezzi atti a spiegare la loro azione sull'individuo si dimostrano
inefficaci a produrre o ad accrescere quella disposizione psichica che, come
abbiamo veduto disopra, ha una base organica e fisiologica molto manifesta ;
non altrimenti che chi sorte da natura una qualsiasi deficienza organica, per
quanti storzi faccia, non arriverà mai ad acquistare ciò di cui manca, così chi
è nato manchevole in riguardo, diremmo quasi, del senso so.ciale, deve
rassegnarsi a rimanere tale, senza sperare che in lui avvenga un radicale
mutamento, s'intende sempre dal punto di vista della sensibilità sociale.
Vediamo che significato vada attribuito alla deficienza della simpatia e quali
ne siano le cause. Già Maudsle;- dichiarava che la posterità degli uomini le
cui azioni durante la vita si ispirarono ad uno stretto egoismo manifesta
maggior predisposizione alle malattie mentali che non la discendenza di uomini,
i quali durante la loro vita ebbero degli ideali morali e sociali elevati.
Stando allo psichiatra inglese, l'amore esclusivo del guadagno e per
conseguenza una vita dedicata al conseguimento del proprio vantaggio esclusivo
ha per effetto dapprima che le attidudini nobili ed elevate divengono rare e
dipoi che i fenomeni della degenerazione cominciano a predominare. Ed il
medesimo autore aggiunge che il cammino della degenerazione in certe famiglie
attraversa le seguenti tappe: 1° sviluppo notevole, sotto l'influenza
dell'ambiente sociale, delle passioni egoistiche ; 2° apparizione di qualche forma
leggera di disturbo psichico che però può raggiungere anche il grado di una
vera psicosi; 3° ulteriori passi della degenerazione che per lo più sono rapidi
e funesti. Senza stare ora a ricercare la parte di verità contenuta in tale
asserzione del Maudsley, noi ci crediamo autorizzati ad affermare che la
deficienza della simpatia è indizio di un disordine abbastanza profondo
dell'attività psichica e quindi anche del sistema nervoso o di tutto
l'organismo addirittura. Essa rivela un'anomalia ancora più profonda che non le
tendenze all’ozio ed alla menzogna, tanto più se si pensa che l'attitudine alla
simpatia ed all'imitazione è un dono che noi abbiamo comune cogli animali
superiori. Si comprende agevolmente che le cause, le quali hanno prodotto un
tale effetto hanno dovuto essere persistenti ed oltremodo importanti. Per noi
sono determinate condizioni d'esistenza sociale, le quali hanno imposto
all’uomo civile di mettere in opera tutti i mezzi egoistici a sua disposizione
per poter vincere nella lotta per la vita che accompagna l’individualismo. La
scuola del successo non insegna altro che ad appuntare ed affilare le armi
dell’egoismo. Non è in una forma determinata di degenerazione patologica del
cervello, ma nelle condizioni d'’esistenza sociale, specie delle grandi città,
che il delinquente può trovare la più forte, quantunque sempre incompleta,
scusa. E le pene applicate nelle prigioni e nelle case di correzione sono,
com'è noto, completa nente inefficaci a migliorare i colpevoli. E appunto
perchè la miseria è la grande sorgente dell'immoralità e del vizio, la
produttrice dei falli e dei delitti di ogni sorta, s'impone il dovere di
combatterla e di farla scemare quanto più è possibile. La ricchezza, è vero,
rende il cuore duro, si accompagna con l’'avarizia, la cupidigia, la lussuria,
l’accidia e la superbia come d'altra parte la povertà ha le sue virtù proprie e
la sua grandezza morale particolare, ma chi oserebbe negare che l'estrema
povertà e la squallida miseria sono oltremodo favorevoli al rigoglio della
delinquenza e che insieme costituiscono le più potenti cause per cui l'uomo si
dà all'ubbriachezza, Ja donna alla prostituzione, onde il bambino, rimanendo
privo d'educazione, d'istruzione, di assistenza, di buoni esempi, diviene
precocemente ipocrita, mendico ed anche ladro? E chi oserà inoltre porre in
dubbio che la cattiva azione compiuta nella prima generazione sotto l'impero
della necessità e del bisogno passa con molta facilità sotto forma di tendenza
nel sangue della seconda generazione, presso la quale si esplica anche
spontaneamente e naturalmente ? E chi negherà infine che sopratutto nelle
grandi città, date le orrende condizioni di abitazione, la perversità e il
vizio entrano come elemento necessario e inevitabile della esistenza ? Da tutto
ciò consegue che una ripartizione più equa della ricchezza, il miglioramento
generale della vita di famiglia e dell’educazione infantile, l'aumento delle
ore di libertà concesse all’ operaio e l'aumento del suo salario contribuiranno
necessariamente a far decrescere il numero dei criminali e dei predisposti alla
delinquenza ed al vizio. 3° Ma, si può qui domandare, chi non ha attitudine
alla simpatia, è perciò stesso condannato alla immoralità, al vizio, è un
candidato alla delinquenza ? A tal uopo prima di tutto bisogna ricordare quello
che noi abbiamo detto di sopra, vale a dire che l’assoluta mancanza della
simpatia è inammissibile, onde deriva che una delle basi naturali della
moralità non viene mai a mancare del tutto e che la sua deficienza può essere compensata
da una cooperazione maggiore degli altri fattori : poi è necessario intendersi
snl significato esatto da dare alla parola simpatia: se questa è presa in senso
lato, vale a dire come l'attitudine a ricevere qualsiasi influenza proveniente
dal di fuori, di qualsivoglia natura questa sia, se essa è scelta a designare
un rapporto qualsiasi, anzi la possibilità di ogni rapporto intercedente tra
l'attività dell’individuo e quella della collettività in cui egli vive, opera e
si muove, allora non vi è dubbio che il dominio della simpatia coincide
perfettamente con quello della moralità, in quanto spirito sociale (simpatia) e
spirito morale sono espressioni che si equivalgono. Ma la simpatia intesa così
non può mai mancare: l’uomo sfornito di spirito sociale è un'astrazione bell'e
buona, giacchè la caratteristica dell’uomo sta appunto nel suo essere
intimamente collegato per natura coi suoi simili, come la caratteristica vera
del folle è nell’essersi liberato dai vincoli che legano l'individuo alla società.
Ed ancorchè lo spirito sociale si mostri alquanto affievolito, non mancano i
mezzi per ratforzarlo, come si vedrà in seguito. Se invece la simpatia è presa
in senzo stretto, vale a dire come l’attitudine dell'individuo a provare
sentimenti analoghi a quelli dei suoi simili in seguito alla percezione dei
segni o rlelle espressioni dei detti sentimenti, allora la debolezza della
simpatia non trae seco l’immoralità : ed è la simpatia intesa così che se si
sorte debole da natura, non può per nessuna via essere rafforzata con mezzi
artificiali di qualunque genere questi siano. Insomma l’attività od il volere
individuale può essere indirizzato al bene o perchè spintovi dalla percezione
delle estrinsecazioni dei sentimenti esistenti negli altri, i quali per tale via
si riflettono nell'anima dell'individuo, ovvero in virtù dell’azione esercitata
sulla vita psichica individuale dal volere sociale. L'uomo più o meno
consciamente, più o meno riflessivamente come più o meno intensamente si lascia
influenzare dall'ideale umano, che rappresenta il prodotto della società presa
nel suo insieme attraverso il corso della storia, anche quando l'attitudine a
simpatizzare è deficiente nell'individuo. Nè può essere diversamente, se si
pensa che ciascun individuo è legato all'umanità tutta quanta da comunità di
natura, di vita, di bisogni, di tendenze, di principii. L'esistenza
dell'individuo è così strettamente congiunta con quella della società che
tuttociò che è favorevole ad essa torna a vantaggio dell’individuo, mentre
soffrendo essa, una parte delle sue sofferenze ricade necessariamente su
quest'ultimo. Interesse generale, maggior felicità per il più gran numero, bene
supremo son tre espressioni diverse d'uno stesso principio. Ciascuno sente in
modo più o meno vivo, più o meno chiaro che il bene supremo non ha la sua sede
nell’individuo, ma al di fuori di lui nelle grandi opere collettive, nei grandi
risultati sociali ai quali l'individuo deve collaborare, e su cui ha anche il
dritto di prelevare la sua parte di benefici. Se non che il bene supremo non è
per il genere umano una proprietà stabile, fissa e definitiva, un bene
acquisito una volta per sempre, ma un ideale non mai totalmente attuato, che
ciascun individuo, anche il più umile deve sforzarsi di far trionfare. Di qui
la grande contradizione, l'eterna antinomia che, come dice lo Ziegler (1)
nessun Dio, nessun miracolo faranno scomparire : l’antinomia dell'individuo e
della collettività, della felicità individuale e della moralità. Da una parte
l'individuo per sua propria natura tende alla felicità. dritto assoluto per lui
e dall’altra il dovere sociale gli prescrive di sacrificare questa felicità al
bene dei suoi simili. Ora ciò che va tenuto in considerazione è che il volere
sociale ha efficacia sugli individui non solo in quanto havvi tra loro comunità
di sentimenti per via della percezione reciproca delle manifestazioni di
questi, ma anche e sopratutto perchè gl’individui son atti a sentire l’azione
dell’ideale sociale per qualsiasi mezzo ciò intervenga. Da una parte adattare
la propria vita individuale alle esigenze dell'esistenza sociale, compiere il
proprio dovere equivale a salvaguardare nel miglior modo i proprii interessi e
dall'altra separarsi dai suoi simili, voler brutalmente far trionfare la
propria personalità a detrimento di quella degli altri (il che propriamente
costituisce l'egoismo e la malvagità) equivale a non possedere nemmeno la
felicità individuale, in quanto la vita di colui che si sente solo è
necessariamente vuota e triste. Tale è l'ordine delle cose, quale risulta non
da una legge esterna e trascendente, ma dail’essenza (1) Ziegler. La question
sociale est une question morale trad. fr., Paris, stessa dell'uomo e della
società umana. Tale è il fondamento sul quale poggia la fede ottimista nel
trionfo del bene; trionfo che pur non essendo mai definitivo e completo, riceve
sempre una conferma dalle lotte che si sostengono e dagli sforzi che si
compiono in suo nome. È qui il luogo di accennare ai mezzi che devono essere
messi in opera affinchè lo spirito sociale si svolga anche là dove il dono
naturale della simpatia si presenta a mala pena accennato : e ognuno intende
che il primo posto a tal riguardo tocca all’educazione, la quale deve essere
tutta intesa a rafforzare i rapporti tra l'individuo e la società, per modo che
questa agisca incessantemente e in modo preponderante su quello, deve essere
intesa, cioè, a generare nell'animo individuale l’intima convinzione che al
disopra del proprio volere havvi una volontà ed un potere d’ordine superiore a
cui è impossibile sottrarsi, deve dunque mirare ad abituare l’individuo a
sentire il proprio volere modificato e determinato da un altro volere
superiore. À. tal uopo va ricordato che nella prima età è su tante piccole
cose, su tante minuzie che si edifica spesso il carattere morale
dell’individuo. Gli atti che si eseguono, le parole che si pronunciano in
presenza dei bambini, tutto ha una importanza grandissima in un'età, nella
quale propriamente avviene l’organizzazione della vita psichica e lo spirito
acquista l'impronta propria (1). Magni interest, diceva Cicerone, quos quisque
audiat quotidie domi, quibuscum loquatur a puero quemadmodum Bonfigli. Dei
/attori sociali della pazzia in rapporto con l'educazione infantile. Roma 1894.
Cicerone, De claris oratoribus. Id. De lege agraria od popul. VIN patres,
paedagogi, matres etiam loquantur. Senza che l’intelligenza difetti, senza che
vi sia la cosidetta anestesia morale, l'individuo, in virtù dell’ educazione si
può rendere per abitudine moralmente insensibile, perchè nell'infanzia le di
lui relazioni coi parenti e con la società non si son volute accompagnare con
sentimenti piacevoli corrispondenti, nè sono state dirette a svegliare in lui
interessamento per tutto ciò che varca il proprio io. Nei casi di mancanza di
affetti, d’anestesia morale spesso l'organizzazione non ha coloa, ma si deve
tutto a circostanze esteriori, delle quali tocca all’educatore tener conto. Von
tngenerantur hominibus, diceva anche Cicerone, mores tam a stirpe generis et
seminis, quam er its rebus, quae ab ipsa natura loci et a vitae consuetudine
suppeditantur. La volontà, come tutte le funzioni psichiche, può essere
coltivata e condotta a maggiore sviluppo mediante l’esercizio: onde nei bambini
hanno un'importanza speciale gli esercizii di detta facoltà. Il Perez ha
scritto pagine importantissime su tale argomento, insegnando al pedagogista
come anche nelle più piccole circostanze questi possa trovare il modo di
esercitare nel bambino questa nobile attività dello spirito. Noi non terremo dietro
al citato autore nell’ indicare i varii mezzi con cui la volontà può essere
ratforzata: diremo solo che egli molto opportunamente not a che le decisioni e
ie convinzioni del bambino sono /ragilissime, non tanto per la sua inesperienza
quanto per la sua impulsività (data la poca coordinazione, la diversità e il
numero relativamente piccolo dei motivi che spingono all'azione) e per aL ansi
rr iz _la debolezza relativa del cervello e dei muscoli, ond’è bene che gli
esercizii della volontà siano fatti quando essa non è stanca e quando il
bambino è fresco e vivace. Ciò sopra tutto riguarda gli esercizi della cosi
detta volontà repressiva, in cuì si concentra la forza d'inibizione. Il fatto
d'inibizione incosciente per cui i gridi di dolore di un bambino vengono
arrestati da un rumore improvviso, c’insegna come si debba da noi esercitare
nel miglior modo questa specie di volontà repressiva. Così potremo arrestare ì
movimenti di collera in un bambino, producendo in lui un nuovo stato di
coscienza, mercè una sgridata; e fra quei due stati si stabilisce
un'associazione che rende più facile l'arresto nell’ avvenire. Nello stesso
modo si può esercitare la volontà repressiva, facendo si che il bambino moderìi
l’ istinto della fame e della sete col prestare attenzione ai preparativi che
si stanno facendo pel desinare e così via dicendo. È cosi dice il Perez che la
‘ volontà comincia a poco a poco e dolcemente, a trionfare degli istinti più
potenti ed a sopportare le punizioni più penose . Oltrechè con i mezzi che si possono
dire derivatici e in certo modo preliminari, applicabili specialmente ai
bambini di minore età, la volontà viene e rafforzata favorendo certi dati
sentimenti, quali l’ amor proprio, l'amor dei parenti, l'orgoglio di far bene,
ecc. e lo svolgimento di determinate facoltà quali l’attenzione e la
riflessione. Il vivere nella famiglia, il conversare coi parenti e coi
compagni, la società intera, le leggi civili ecc., debbono concorrere
coll’esempio, coll’approvazione e disapprovazione, coi comandi, coi divieti,
coi premi, coi castighi a produrre nel giovine la convinzione che la sua
propria volontà è sotto l’azione di un'altra volontà d’ordine superiore.
Importantissimo sotto questo rispetto è l’influsso della religione: perocchè il
rappresentarsi certe azioni come approvate o disapprovate, prescritte o
vietate, premiate o punite dal più alto e perfetto degli esseri, dal potere e
dalla santità suprema, non può a meno d'imprimere nei sentimenti relativi una
forza, una profondità, un carattere sacro ed inviolabile che senza questa
credenza difficilmente a vrebbero. Se poi sì considera come la prima relazione
morale che si presenta tra i genitori e il fanciullo è quella dell'autorità da
un lato, della dipendenza, soggezione dall'altro, s'intende facilmente che il
primo passo nella via di questo svolgimento è dato dall’obbedienza da parte dei
bambini. Per ottenere tale virtù varî sono stati i metodi posti in opera dai
filosofi. e pedagogisti. Così Locke aveva fiducia nell'amore e nella’ paura,
Fénélon nell’ autorità, Rousseau nell’efficacia degli” ordini e delle
proibizioni, fondati entrambi questi sulla necessità delle cose e sull’effetto
morale prodotto dalla conseguenza naturale degli atti, Spencer parimenti nella
teoria disciplinare delle conseguenze, Bain nella paura temperata dall’
affetto, nell’ autorità che s'impone persuadendo, e talora anche nella
correzione e Perez ed altri nell'azione del piacere e del dolore adoperati
insieme da chi presso il bambino gode di simpatica autorità. Noi crediamo che
nessuno di questi mezzi sia sufficiente se adoperato in modo esclusivo; tutti
devono esser messi in opera nei casì in cui la simpatia naturale si presenta
debole; ma certamente la preferenza tocca a quello dell’autorità, purchè questa
sappia mostrarsi fornita di pregio e di valore agli occhi del bambino. Il
segreto sta tutto qui: nel sapersi imporre al bambino non con la semplice
forza, ma con questa circondata da tutte le doti atte a suscitare l'ammirazione
e l'interesse, ed anche la curiosità di lui. Sicchè nei casi suaccennati
l’educazione morale ha bisogno del soccorso delle rudimentali tendenze
estetiche ed intellettuali del bambino. È naturale che un individuo sfornito
anche di queste non entra più nel dominio normale, ma in quello prettamente
patologico. Chi pone una barriera insormontabile tra un individuo e l'altro dal
punto di vista dello spirito e considera oghi forma di attività spirituale come
esclusivamente legata al corpo dell'individuo ed anzi ad un punto dello stesso
corpo si chiude la via per poter intendere la realtà dello spirito
sopraindividuale che non riconosce la sua base negl'individui come tali, ma
nelle associazioni di questi e insieme si chiude la via per intendere l’azione
che può esercitare lo spirito collettivo nelle sue varie forme su quello
individuale, Eppure è un fatto che dalla vita puramente organica si è svolta
una vita sopra-organica, il cui primo grado è rappresentato dalla famiglia,
composta di individui o membri che sono parti dello scopo a cui tende quella
forma collettiva e insieme mezzi appropriati a raggiungere lo stesso. E questa
associazione spirituale degli uomini non sì presenta come un‘ aggregato, nel
quale l'individuo rimanga immutato nelle sue proprietà, ma come un sistema per
cuì egli acquista caratteri che diversamente non avrebbe mai ottenuto. Le
potenze superiori dello spirito della vecchia psicologia descrittiva (ragione,
volere, ecc.) sono da riguardare appunto è quali facoltà psichiche acquisite
solo per mezzo della vita sociale, a differenza di quelle inerenti propriamente
all’individuo che sono di ordine inferiore (intendimento, appetito, ecc.).
L'uomo pensa il suo istesso pensiero e lo sottopone a norme universali, come
valuta il suo volere rapportandolo alle leggi morali; e ciò perchè egli ha, per
così dire, una doppia vita interiore, una individuale ed una comune cogli altri
uomini, la quale ultima è sopra-ordinata all'altra. Riassumendo, quando la
simpatia (intesa in senso stretto) è debole, l'educazione morale può essere
sempre compiuta a patto che il bambino venga abituato a sentire la sua propria
volontà influenzata da una volontà d’ordine superiore. A ciò conseguire è
necessario che sia lbene fissato un peculiare rapporto implicante autorità da
una parte e soggezione dall'altra : rapporto che alla sua volta non può
divenire stabile e regolare se non sotto la condizione essenziale che
l’autorità, l'energia si circondi di una certa aureola atta a rispondere alle
rudimentali esigenze este tiche ed intellettuali del bambino. È evidente però
che l'educazione non potrebbe mai produrre simili etfetti, se non esistesse in
ogni uomo (a prescindere dall’attitnnine alla simpatia affettiva) il germe
della moralità, vale a dire l'attitudine ad avere ed a sentire la propria
volontà in dipendenza di un'altra volontà : attitudine che, come si è visto,
costituisce l'essenza propria dell’uomo qual’essere ragionevole e socievole.
L'educazione non può creare la moralità allo stesso modo che l'educazione
artistica non potrebbe creare il senso del bello e l'educazione del palato il
senso del gusto in chi da natura ne fosse sprovvisto. Quello che noi abbiamo T
Tr_r*0- T Da quando sì cominciò a riflettere sui vari poteri dell'anima umana,
si notò che almeno due grandi categorie di attitudini passive o recettive le
une, attive o appetitive le altre bisognava assolutamente distinguere. Nè
poteva esser diversamente dato il fatto che ogni processo psichico realmente
presenta due aspetti, quello recettivo da cui germogliano tutte le funzioni
conoscitive e quello attivo da cui germogliano le varie fore dell’attività
pratica. Lo spirito umano d'altra parte, spinto dalla tendenza a tutto
unificare ed armonizzare, a misura che progredi nella riflessione e nella
speculazione, cercò di isolare i caratteri e le proprietà comuni ad un
complesso di fenomeni nella credenza che in questi prodotti della sua facoltà
astrattiva potesse trovare i principii veri delle cose: nè si curò di vedere se
i detti elementi comuni esprimessero altro che caratteri puramente formali.
Onde avvenne che fin nella filosofia greca noì troviamo itentativi più audaci
per porre il principio di tutti i principii in qualcosa di puramente formale :
cosi per Aristotele il fondo dell’universo è il movimento, mentre per Platone,
segnatamente nel Fedone, è il mondo delle idee concepite come forze, e in tutto
il corso della storia della filosofia noi troviamo sempre ripe (1) Questo
Saggio che ora rivede qui la luce con molte modificazioni ed aggiunte, fu
pubblicato la prima volta col titolo “ Il fattore della motilità nelle dottrine
gnoseologiche moderne, nei Rendiconti dell’ Accademia dei Lincei. tute queste
due intuizioni in modo più o meno chiaro ed evidente. L'attività, ecco la
formola atta ad esprimere la sostanza dell'universo. Ognuno vede che
l’attività, la forza, il movimento essendo concetti puramente formali potettero
essere applicati agli usi più disparati in rapporto al vario contenuto ad essi
attribuibile. Da tal punto di vista gli assiomi logici furono considerati
impulsi atti a muovere la mente in date direzioni, impulsi che se ostacolati
producono un senso di disagio, il quale alla sua volta cessa coll'appagamento
di quelli. Il pensiero adunque fu ridotto al tentativo di soddisfare ad un
impulso speciale incitante ad una forma di movimento spirituale diretta a
produrre appunto l'appagamento e quindi la quiete. È evidente che in tal caso
le parole tendenza, movimento, impulso, ecc., hanno un significato differente
da quello in cui sono ordinariamente adoperate per indicare mutamenti nelle
relazioni spaziali, ovvero mutamenti nei rapporti della vita pratica. Ciò che
va notato è che noi abbiamo degli impulsi, delle tendenze di natura
differentissima, i quali vengono poi aggruppati in una sola categoria soltanto
per mezzo di un carattere espresso dal nome, il che, è evidente, non basta per
dichiarare identico e neanco affine il contenuto delle cose che si vogliono
significare. Certamente voi potete esprimere il processo intellettuale per
mezzo di una tendenza al movimento, ma in tal caso dovete ricordare che si
tratta di un movimento di ordine speciale ; infatti l'imperativo logico può
assumere la forma di opera così ma l’ opera così equivale in tal caso a pensa
così e il pensa così significa è così >; l'imperativo pratico opera così
invece non mira all'affermazione della realtà, ma solamente al raggiungimento
dello seopo speciale prefissosi a cui è inerente l'appagamento. Se io non sono
soddisfatto dal punto di vista teoretico, se io cioè non ho operato in
conformità delle leggi logiche la cosa non sta in realtà come mi appare, ma se
io non sono soddisfatto dal punto di vista pratico la stessa conchiusione è
evidente che non è ammissibile ; in altri termini l'insoddisfacimento pratico
non implica alcun giudizio sulla realtà, ma soltanto sul valore di essa. Quando
adunque in filosofia si parla di attività, di forza, di energia, di movimento
come di concetti atti a darci la chiave per risolvere i più ardui problemi, in
sostanza non si dice nulla di concreto e di determinato; vi è sempre luogo a
domandare in ogni singolo caso in cui una di tale parola è adoperata, di che
sorta di attività, di che sorta di forza s'intenda parlare. E forse il fascino
che spesso tali espressioni esercitano sui metafisici dipende appunto dal vago
e dal nebuloso che esse contengono, onde ognuno vi può sottintendere ciò che
vuole. In ogni modo l’analisi di dette nozioni, per quanto vaghe ed
indeterminate, meritava di esser fatta; e in questi ultimi tempi la psicologia
esatta, e la teoria della conoscenza hanno cercato di rispondere tale esigenza,
col ricercare la loro origine e gli elementi concorrenti alla loro formazione.
Il concetto che più degli altri ha attirato l'attenzione dei filosofi è stato
quello di forza o di attività, la cui base psicologica è stata riposta nel
cosidetto senso muscolare. Pertanto questo ha formato oggetto di studi
accuratissimi da parte dei psicologi e dei fisiologi in modo che senza tema di
esagerare si può affermare che tale ordine d’indagini forma una parte
interessantissima della psico-fisiologia moderna. Noi ci proponiamo appunto di
ricercare che valore abbia effettivamente il senso muscolare per sè considerato
e in rapporto ai vari uffici che gli si vogliono attribuire per lo svolgimento
della vita psichica in genere. Cominciamo dall’indagare la natura delle
sensazioni muscolari. Le sensazioni muscolari. Esistono le sensazioni
muscolari? Parrà strano, ma pur troppo è così; dopo tanto discutere
sull'ufficio delle sensazioni muscolari nello sviluppo della psiche umana,
ancora c' è bisogno di porre il problema circa l’esistenza di esse. È già da
molto tempo che la questione delle sensazioni muscolari è dibattuta, sia in
fisiologia che in psicologia ; e anche coloro che concordano nell’ammettere
tali sensazioni sì scindono per quel che concerne la natura e la sede di esse:
si ha così la teoria dell'innervazione centrale (Bain, Wundt, Ludwig ecc.) e
quella dell’ innervazione periferica ovvero la teoria efferente o centrifuga e
quella afferente o centripeta : secondo la prima, all'esecuzione del movimento
precederebbe la coscienza dell'impulso dato e dello sforzo fatto per compiere
il movimento stesso: e sostrato di tale coscienza sarebbero i centri e i nervi
motori, la cui funzione precedente all’ esecuzione del movimento non potrebbe
non rivelarsi alla coscienza. In favore di tale opinione parlerebbe
massimamente la coscienza che si ha dello sforzo per muovere vn arto
paralitico. Stando alla seconda opinione, il senso della forza sarebbe dato dai
nervi sensitivi che dai muscoli e dalle placche esistenti tra i nervi e i
muscoli trasmettono ai centri notizia delle varie condizioni in cui i muscoli
si possono trovare prima e dopo la contrazione e dopo una fatica maggione o
minore. In favore di tale opinione starebbero poi le osservazioni (Gley e
Marillier) cliniche e sperimentali, le quali provano che con un arto paralitico
non è possibile valutare nè il peso nè la direzione dei movimenti, nè la
posizione degli arti, semprechè, bene inteso, gli occhi siano bendati. Qui
dobbiamo notare che l'opinione del Wundt si è andata modificando ed ormai egli
non ammette più la coscienza pura e semplice della innervazione centrale, ma
per conciliare in certa maniera le due vedute, egli è d’avviso che il senso
dello sforzo da principio fu di origine prevalentemente periferica, e come tale
trasmesso e registrato nei centri cerebrali; ma poichè si trova connesso
coll’immagine del movimento compiuto, è naturale che riproducendosi
quest’ultima, si debba presentare anche l’imagine mnemonica delle sensazioni
muscolari che l'hanno per l’innanzi accompagnata. In tal guisa sarebbe
spiegabile come il senso dello sforzo e la misura della forza necessaria
precedano l'esecuzione di un dato movimento. Del resto la questione non è
definita in modo decisivo, ed anche oggi si pubblicano dei lavori in appoggio
dell’ una e dell’ altra tesi. Parrebbe, ad esempio, dalle ricerche di Mosso e
di Waller, che il senso della fatica non sia solamente di origine periferica,
tanto più che volendo ridurre quella ad una forma di avvelenamento, è naturale
che quel medesimo veleno, il quale agisce sulle terminazioni periferiche
nervose, possa agire anche sui centri da cui deve partire l'impulso. Il Waller
applica i risultati ottenuti dagli esperimenti fatti sul senso della fatica
allo studio del senso dello sforzo, comunque questo sia una sensazione che
accompagna l’ azione muscolare, mentre la fatica una sensazione chè segue l'
azione muscolare : esse hanno però una causa ed una sede comune. La fatica,
stando ai risultati offerti dal Mosso, si manifesta con segni tanto centrali
che periferici : se l'attività volontaria di un muscolo è protratta fino al suo
limite estremo, l'eccitazione diretta del muscolo può farlo agire ancora, il
che prova che l’esaurimento centrale interviene prima dell’ incapacità ad agire
da parte del muscolo : donde si è dedotto che se la fatica è dovuta ad ogni
esaurimento tanto centrale che periferico, il senso dello sforzo del pari
accompagnerà tanto l'attività centrale quanto quella periferica. Vi sarà un
senso centrale d'innervazione motrice che aiuta e regola i movimenti muscolari.
Al Waller però si è obbiettato che egli ammette come provati tre fatti, i quali
effettivamente non lo sono: 1° i segni obbiettivi dell’esaurimento in un data
parte non depongono sempre per il consumo di energia nella medesima parte: gli
esperimenti del Mosso, infatti, provano che il lavoro intellettuale ol’
attività di alcuni muscoli fa scemare la forza dei muscoli in riposo ; 2° il
senso subbiettivo della fatica non indica un previo sforzo nella stessa parte,
come vien provato dal fatto che il senso di fatica e di peso nelle palpebre non
è niente affatto proporzionato al lavoro che quest'organo ha compiuto, specie
molte volte il mattino, dopo il completo riposo di quei muscoli; 3° i segni
obbiettivi dell’ esaurimento non corrispondono per il sito della loro origine
al senso subbiettivo della fatica, e lo stesso va detto dei segni obbiettivi
dello sforzo rispetto al senso subbiettivo dello sforzo stesso. Il senso di
fatica non accompagna necessariamente l'esaurimento obbiettivo, nè esso è localizzato
dove questo ha luogo : lo stesso va detto del senso dello sforzo, il quale, sia
mentale o fisico, non è localizzato negli organi centrali, ma in vari muscoli
della testa e del corpo. Gli oppositori recisi alla teoria dell’ innervazione
centrale vogliono che le sensazioni muscolari non siano per niente differenti
dalle altre sensazioni speciali; il senso muscolare per loro è un sesto senso
specifico proveniente dai muscoli che dà il sentimento dell’ attività, come
l'’or| gano della vista dà il senso della luce e del colore. Non è ammissibile
quindi che i centri e nervi motori entrino in simile meccanismo, come quelli
che hanno una funzione diversa, ben definita da compiere. Il senso della forza
e dello sforzo come precedente al movimento da eseguire, considerato come
centrale, è un'illusione : è dai muscoli che quando già sta per incominciare il
movimento, partono quelle eccitazioni, le quali danno il senso dello sforzo
(1). Se non che molte obbiezioni sono state rivolte a coloro che hanno ammesso
sen’altro le sensazioni muscolari periferiche. L'argomento che doveva
presentarsi per il primo alla mente degli oppositori doveva essere quello
dell’assen?a di ogni rivelazione della loro esistenza all’introspezione. Al che
i sostenitori dell’esistenza delle dette sensazioni hanno risposto che essi
ammettono solo la cooperazione, il concorso (1) V.atal proposito Bastian, “
L’Attention et la colonté,, Recue philosophique. di elementi muscolari nello
svolgimento dei fatti mentali, in quanto i muscoli in contrazione (contrazione
che accompagna i diversi stati psichici) agiscono come stimoli delle
terminazioni nervose periferiche : la loro esistenza viene perciò mascherata
dai molteplici fatti concomitanti. Allo stesso modo che, secondo James, la
sensazione di rosso non si combina con quella di violetto per produrre il
purpureo, ma i due stimoli agiscono nello stesso tempo in modo da dar luogo ad
un processo cerebrale di una terza specie, il cui fatto concomitante è la
sensazione purpurea, così noi possiamo benissimo avere una gran quantità di
stati mentali, nei cuì processi organici concomitanti entrino degli elementi
muscolari, mentre non possiamo dire di avere stati mentali che contengano
sensazioni muscolari come parte della loro composizione. I processi nervosi derivati
dagli stimoli della contrazione muscolare si uniscono coi processi nervosi
provenienti da altra sorgente per produrre degli stati coscienti che sono
irreducibili, come avviene della sensazione purpurea quando è considerata per
sè. Gli atomi delle sensazioni, sempre secondo James, non possono combinarsi
per produrre delle sensazioni più complesse, non altrimenti che gli atomi della
materia non compogono i corpi fisici: è vero che quando essi sono aggruppati'
in una certa maniera, n0: li chiamiamo questa o quella cosa, ma la cosa
nominata non ha esistenza fuori della nostra mente . Qui si potrebbe obbiettare
che noi possiamo otte. nere sensazioni separate del rosso e del violetto, e
possiamo scovrire anche la somiglianza del purpureo con entrambi ì suol costituenti
: ora come avviene che noi non percepiamo gli elementi muscolari come
sensazioni separate ? Ma a ciò si risponde che uno stato mentale si può
solamente analizzare e scomporre in quegli elementi che sotto condizioni
diverse possono essere sperimentati come fenomeni separati; vi sono molte
ragioni, perchè le sensazioni muscolari non possano essere sperimentate o solo
con grande difficoltà. L' esplorazione colla vista e col tatto, che in altri
casi aiuta e rende necessario il processo di localizzazione, qui appare
impossibile. Noi impariamo, dice 1’ Hellemholtz, a dirigere l’' attenzione
sopra quelle sensazioni separate, le quali servono come mezzi per stringere i
rapporti col mondo esterno. Ora ognuno vede che non presenta alcun interesse
pratico la distinzione delle sensazioni muscolari come tali, mentre è di grande
importanza che le eccitazioni sensoriali provenienti dagli organi interni si
combinino con quelle dei sensi specifici per formare quei processi nervosi
complessi i cui concomitanti coscienti sono i sensi dello sforzo, della
grandezza spaziale, ecc. D’ altra parte in casì speciali le sensazioni
muscolari si rivelano all’introspezione : i crampi, la tensione muscolare
giunta all'estremo, la fatica ecc. sono sensazioni localizzate nei muscoli.
Infine Goldscheider ha mostrato che se lasciando passare per un muscolo
anestesico una corrente elettrica, lo facciamo contrarre, abbiamo una certa
sensazione somigliante a quella ottenuta colla pressione del muscolo, e
localizzata non in tutto l’arto che si muove, ma solo nelle parti più profonde.
Un secondo argomento degli oppositori è questo, che pur ammesso che nervi
sensitivi esistano nei muscoli, questi serviranno solamente a darci notizia del
grado di stanchezza dei muscoli stessi. Ma qui è facile rispondere che il senso
di tensione è molto differente da quello di fatica e che taluni esperimenti
fisiologici mostrano che l'attività muscolare diviene presso che impossibile
senza la regolarizzazione apportata dalle sensazioni muscolari. Un'obbiezione
fatta per prima da A. W. Volkmann dice che il senso muscolare può al più darci
notizia dell’esistenza del movimento, ma difficilmente un’informazione diretta
sulla estensione e direzione di questo. Noi non possiamo sapere se la
contrazione del supinafor longus ha un'estensione maggiore di quella del
supinator brevis ecc. Qui occorre ricordare che gli elementi muscolari essendo
fusi con altre eccitazioni, non possono essere riconosciuti come tali e non
possono essere localizzati nei muscoli, da cui traggono origine, ed è
perfettamente vero che in molti casì è impossibile aver nozione dell'estensione
e direzione del movimento muscolare; associati però con altri elementi
sensoriali rappresentativi, possono essere di aiuto nella determinazione delle
differenze esistenti tra i movimenti di varie parti del corpo. Miller e
Schumann richiamarono l'attenzione sul fatto che ad un certo grado d'intensità
dell’ eccitazione nervosa muscolare non sempre corrisponde una stessa posizione
delle membra. Una stessa pressione sui nervi sensitivi dei muscoli può esistere
nel caso di un grado notevole di contrazione, e di un grado leggero di
tensione, come nel caso di un grado leggero di contrazione con: giunto con un
grado notevole di tensione . A ciò si risponde che noi abbiamo imparato colla
propria esperienza a distinguere esattamente tra una pura tensione muscolare
non accompagnata da movimento ed un’ eccitazione capace di produrre il medesimo
: e ciò perchè in ogni movimento le sensazioni sia mmnscolari, che tattili,
visuali ecc. differiscono a seconda della resistenza incontrata da parte degli
oggetti esterni o dei muscoli antagonisti; e tutte le combinazioni possibili di
estensione, resistenza e rapidità sono associate con complessi di sensazioni
differenti. Nel caso della semplice tensione la resistenza incontrata è minima,
mentre è massima nel caso del movimento attuale: nei due casi le sensazioni
concomitanti a quelle muscoluri devono per necessità essere differenti; e pur
non considerando le sorgenti dei vari elementi sensoriali, l'impressione totale
prodotta dalle loro differenti combinazioni è avvertita e differenziata Se moi
avessimo solamente le sensazioni provenienti dai muscoli in contrazione
l’obbiezione anzidetta reggerebbe, ma il nostro giudizio è sempre aiutato da
elementi provenienti dai muscoli antagonisti e dalle parti connesse : pelle,
tendini, ecc. Si è obbiettato che noi comparando i pesi paragoniamo in generale
solamente la rapidità dei movimenti che ne risultano, e pensiamo che il peso
leggero sia quello che più agevolmente sia stato alzato, come vien provato dal
fatto che se un individuo è stato abituato per qualche tempo a sollevare
alternativamente dei pesi di 600 e di 1200 grammi, solleverà con grande
rapidità il peso di 800 grammi | sostituito a sua insaputa a quello di 1200
grammi, giudicandolo anzi più leggero di quello di 600 grammi. Tale fatto
contraddice, a sentire. taluni, non solo alla teoria dell'innervazione
centrale, ma anche a quella secondo cui le sensazioni muscolari
c’informerebbero della resistenza, giacchè se così fosse, i pesi sollevati con
impulso più energico dovrebbero essere maggiori. Se non che, come si è detto, é
l’insieme delle sensazioni concomitanti che rende possibile la distinzione tra
movimentoe resistenza: è la fissità di quelle associazioni che produce talune
illusioni, quando le condizioni di esperimento non sono le abituali. Nel
riferito esperimento il maggior adattamento all’ impulso può essere rivelato
allo spettatore solamente per via della maggior rapidità che ne risulta, ma per
la persona sottoposta all'esperimento la cosa essenziale non è la maggiore
rapidità, nè l'impulso preparato, ma l’accomodamento maggiore dei muscoli nel
momento di sollevare il peso minore. Si è notato ancora che la sensibilità
muscolare non differisce nel caso che i movimenti siano prodotti attivamente da
quando sono passivi. Bernhardt dapprima e poi Ferrier e Goldscheider
stabilirono degli esperimenti facendo sollevare dei pesi per .mezzo della
stimolazione elettrica dei nervi, e trovarono che la valutazione dei pesi è
esatta ed accurata ogni volta che il movimento è prodotto da stimolazione
elettrica o riflessa. Inoltre fu sperimentalmente provato che nel caso di
movimenti passivi il minimum dell'escursione percettibile difficilmente
differisce da quello dei movimenti attivi. Ma ciò non prova nulla contro la
importanza delle impressioni muscolari nella percezione dei movimenti: pure
ammesso che i movimenti attivi differiscano dai passivi non solo perchè
l’immagine di essi precede e produce direttamente i movimenti, ma anche per
molti fatti concomitanti periferici, in quanto nei movimenti attivi agiscono
gruppi più estesi di muscoli, e vi è un maggior grado di tensione nei muscoli
antagonistici e nei tendini, rimane sempre vero che nei movimenti passivi gli
elementi essenziali per giudicare del grado e della direzione di quelli non
mancano, ond’è che la ditferenza nei due casi non può essere grande. Si è
cercato di spogliare quasi completamente di sensibilità i muscoli,
attribuendola alle parti annesse, pelle, tendini, ecc., e Goldscheider sì è
creduto autorizzato ad emettere formalmente una tale ipotesi, dopo aver
constatato che nei casì di diminuita sensibilità delle parti an nesse la
valutazione tanto dei movimenti attivi quanto di quulli passivi apparisce
minore. Certamente la sensibilità delle parti annesse-è un fattore importante
dell’accurata percezioné del movimento, ma non è il solo; e l’introspezione in
dati casi ci rivela così l’esistenza di sensazioni localizzate puramente nelle
parti annesse come delle sensazioni puramente muscolari. L'intervento delle
impressioni provenienti dalle parti annesse può, secondo Delabarre, esser
necessario per distinguere una pura tensione muscolare da un movimento attuale;
ma taluni fatti provano che le medesime impressioni hanno poco o nulla a che
tare con la valutazione dell’estensione del movimento: di due movimenti p. es.
di eguale estensione è stimato più breve quello nel cui inizio i muscoli sono
più attivamente contratti : ora le impressioni provenienti dalle parti annesse
non possono spiegare questa illusione, giacchè esse non differiscono nei due
casi, che il braccio sia più o meno contratto al principio del movimento.
Miller e Schumann, essendo discesi ai particolari, hanno negato che le
sensazioni muscolari provenienti dall'occhio possano spiegare le localizzazioni
delicate ed. accurate che noi facciamo nel campo della vista. Noi certo non
abbiamo coscienza dei movimenti oculari come tali, ma ciò era da aspettarsi
riflettendo, che una tale notizia essendo di poco interesse per l'individuo non
vale a svegliarne ed a fissarne l’attenzione. Le impressioni muscolari formano
un insieme colle sensazioni della luce ; il che rende debole nella coscienza
non solo la nozione dell'eccitamento di una data parte della retina, e la
nozione della posizione o dei movimento del globo oculare, ma la nozione di una
posizione particolare del punto di fissazione nello spazio a tre dimensioni.
Altri autori finalmente per provare come le sensazioni muscolari non hanno niente
a che fare colla nostra facoltà localizzatrice, riferirono il caso di un uomo,
il quale era stato completamente cieco per sette anni: se a costui si volgeva
la parola dalla parte destra, i suoi occhi si muovevano verso questa parte
senza divergenza, ma se gli si parlava da sinistra, si notavano bensi degli
accenni a movimenti associati in entrambi gli occhi, ma questi finivano poi col
restar fissi nel mezzo delle orbite ; tuttavia il soggetto aveva l’idea che i
suoi movimenti fossero della massima estensione verso sinistra. Ma i fautori
delle sensazioni mascolari hanno interpretato tale fatto, dicendo che il citato
individuo attribuiva il senso di tensione proveniente da altri muscoli a quelli
oculari; cosa che può avvenire con molta facilità. Dopo aver mostrato per mezzo
dell'esposizione e discussione delle principali obbiezioni fatte all'esistenza
delle sensazioni muscolari, la possibilità teorica di ammetterle, è giusto
ricercare se l’Istologia e la Fisiologia sul terreno dei fatti e degli
esperimenti siano nel caso di dare una risposta decisiva, Nel tessuto
connettivo superficiale che involge i muscoli furono scoverte delle fibre
nervose sensitive, le quali terminano nei corpuscoli di Pacini; ma nella
sostanza muscolare contrattile non sono state osservate finora fibre sensitive;
ed ora nessuno crede più alla scoverta del Sachs. Golgi scovri un organo
muscolo-tendineo situato nella zona di passaggio dul muscolo al tendine,
connesso colle fibrille dell’uno e col tessuto dell’altro e fornito di nervi
sensitivi. Il Cattaneo crede che questo sia l'organo della sensibilità
muscolare. Anche le ricerche fisiologiche starebbero a provare l’esistenza di
nervi sensitivi nei muscoli. Sachs afferma che molti dei nervi intramuscolari
possono essere stimolati senza produrre contrazione, e che dopo la sezione dei
tronchi motori solamente una parte dei nervi muscolari degenera. Francesco
Franck avendo ripetuto i medesimi esperimenti, arrivò alla conchiusione che i
muscoli contengono fibre centripete. Altri esperimenti mostrano che sì può aver
paralisi tanto tagliando i nervi sensitivi che finiscono nella regione
muscolare, quanto tagliando i nervi motori stessi ; il che prova che la
sensibilità è indispensabile per regolare i movimenti. Bell, Magendie, ed
ultimamente Exner arrivarono al medesimo risultato. Allo Chauveau però va
attribuito il merito di aver provato in modo luminoso che le impressioni
sensitive necessarie alla motilità provengono dal muscolo stesso ; egli infattì
trovò nel cavallo due muscoli forniti di due branche nervose distinte, l'una
sensitiva e l’altra motrice: A) un muscolo volontario striato, lo sterno
mastoideo ; e B) un muscolo involontario striato, quello dell'esofago: ora la
sezione della branca motrice produce paralisi in entrambe ; la sezione della
branca sensoriale di A) non sospende la reazione agli stimoli volontari,
essendo associata nella sua funzione motrice con altri muscoli forniti dei loro
nervi sensoriali; la sezione delle fibre sensitive di B) produce disturbo delle
funzioni motrici. La stimolazione elettrica delle fibre sensitive di A) e di B)
produce tetanizzazione o contrazione. Da tutto ciò il Chauveau dedusse che i
muscoli sono forniti di nervi motori e sensitivi, e che i filamenti terminali
dei nervi sensitivi probabilmente non hanno relazione diretta cogli elementi
muscolari, ma contribuiscono a formare le anastomosi preterminali o reti dei
nervi motori, dove essi sono direttamente eccitati dalla corrente motrice: si
verrebbe così a formare un completo circuito sensitivo motore necessario
all'azione dei muscoli. Volendo riassumere, diremo che le questioni relative
alle sensazioni muscolari si riducono principalmente a due, se esistano delle
sensazioni muscolari e se esse vadano localizzate nella periferia o nei centri
motori. Ora che esistano delle sensazioni muscolari capaci di farci valutare il
peso, la pressione, la tensione, l'estensione e la direzione dei movimenti,
ormai è fuori dubbio: una quantità di esperimenti lo provano, e d'altra parte è
naturale supporre che la funzione muscolare si riveli in qualche maniera alla
coscienza, come tutte le funzioni degli altri organi corporei in un modo più o
meno vago e indeterminato. Certamente quando si parla di sensazioni muscolari
non bisogna credere che esse provengano esclusivamente dai muscoli ; è più
ragionevole pensare che secondo i casi, con esse si denoti un complesso di
sensazioni provenienti da parti differenti. Già il Lewes notava che la
sensibilità cutanea ha una parte importante nella coordinazione dei movimenti
tanto che un'anestesia provocata nella pianta dei piedi può dar luogo (cosa
notata anche dall'Heydt) a fenomeni d'incoordinazione muscolare. Ma anche senza
seguire il Lewes, il quale ammetteva le sensazioni muscolari come provenienti:
1° dagli impulsi motori; 2° dalle intuizioni motrici; 3° dalle contrazioni
muscolari vere e proprie; 4° dagli effetti di queste contrazioni sulla pelle;
5° dalle coordinazioni muscolari, cioè dalle sensazioni che suggeriscono o
accompagnano i movimeuti ideali non eseguiti e quelli reali, è indubitato che
quando si parla di sensazioni muscolari dobbiamo sempre intendere un insieme di
sensazioni di origine diversa. D'altra parte è possibile ammettere senza alcuna
riserva l'opinione di coloro che vogliono fare del senso della forza, come del senso
della fatica un senso specifico proprio dei nervi centripeti muscolari? È ciò
che vedremo orora passando ad esaminare i vari uffici attribuiti al senso
muscolare. Per mezzo di questo infatti si è voluto dar ragione del senso
peculare di energia interiore, della valutazione dell’intensità, della genesi
psicologica delle rappresentazioni di movimento, di tempo, di spazio, e della
percezione della realtà esterna. Si è tentato adunque per prima di derivare
dalle sensazioni muscolari il senso di energia o la percezione dell'attività
inferiore sotto qualunque forma si presenti. Si è detto: ad ogni sensazione e
percezione segue in modo reflesso un movimento, ossia una contrazione
muscolare, la quale di rimando trasmette al centro le notizie circa le modalità
della sua contrazione, trasmette cioè le sensazioni muscolari afferenti o
ceutripete: queste poi si associano intimamente colle sensazioni provocatrici
dei movimenti conservandosi e registrandosi in appositi centri cerebrali. Da
ciò consegue che al presentarsi di una sensazione o percezione identica o
simile alla primitiva, per associazione si ridestano le immagini dei movimenti
compiuti, immagini che, guidando i movimenti da ripetere, costituiscono
l’essenza dello sforzo. Va notato qui che un tale schema ha subito molte
variazioni da parte dei fisiologi e dei psicologi (1): recentemente, p. es., si
è negato financo che nella corteccia cerebrale esistano dei centri
psico-motori, la zona rolandica a cui era stato per lo innanzi attribuito tale
ufficio, conterrebbe solamente i centri delle sensazioni muscolari. I centri
motori, alla cui funzione è stato negato in modo assoluto (contro l'opinione
segnatamente del Bain) la possibilità di divenire cosciente, sono posti nella
base del cervello e Per una chiara e precisa esposizione dello stato attuale
della questione v. Bastian, L’Attention et la Volonté, Revue philosophique. nel
bulbo. C'è però chi (Ferrier), pur escludendo la coscienza (come tali
scienziati dicono) dai centri motori, ammette nella corteccia l'esistenza di
centri motori puri a fianco a quelli cinestesici. Questi ultimi poi per tutti
non si troverebbero solamente in una determinata regione corticale del cervello
ma frammisti ai vari centri sensoriali (1). Sicchè tali psicofisiologi credono
di poter ridurre le funzioni psichiche fondamentali ai movimenti reflessi,
senza punto dar importanza a taluni fatti che evidentemente contradicono alla
loro opinione, come per es. l'insorgenza di taluni movimenti spontanei, che non
si possono in alcun modo rapportare a stimoli esterni, e l'impossibilità di
spiegare per via del puro meccanismo i movimenti reflessi rispondenti ad uno
scopo, in mezzo ad una molteplicità di stimoli esteriori. A ciò sì aggiunga che
voler dare ragione dell'attività psichica vera e propria, fondandosi sulla
fisiologia, è impresa presso che disperata, giacchè senza l’osservazione
interiore, quella sola del sistema nervoso non ci potrà mostrare che dei
mutamenti molecolari, non mai psichici. Ma anche lasciando da parte tali
considerazioni, il senso muscolare può dar ragione di quella forma di attività
interiore che si esercita sul corso delle nostre idee ? Molti :1) L'origine
della forza adoperata a produrre le contrazioni muscolari appropriate dovrebbe
essere cercata, secondo tale teoria, nell’attività molecolare dei centri
sensitivi e cinestesici. Ed in appoggio si riferisce il caso di persone, che
volevano, ma non potevano eseguire con successo certi movimenti d’elocuzione in
seguito alle impressioni visuali appropriate e tuttavia conservavano la facoltà
di produrre questi movimenti in risposta ad eccitazioni uditive corrispondenti.
D'altra parte si racconta di persone incapaci di effettuare i movimenti della
scrittura quando lo stimolo era uditivo, mentre erano capaci di compiere
immediatamente gli stessi movimenti in risposta alle impressioni visuali. tra i
quali il Ribot, il Richet ed altri, non esitarono a rispondere in modo
affermativo, ma altri più circospetti dovettero concedere che il senso
muscolare non è un fattore costante dell’attività interiore, soggiungendo però
che quest'ultima in tanto si rivela come tale alla coscienza, in quanto
mediante la riflessione e la memoria è messa in rapporto con sensazioni
muscolari in antecedenza provate. Ognuno' però vede l'errore che è in fondo a
questa affermazione: la riflessione e la memoria non possono mutare
qualitativamente nessun fatto psichico. Inoltre le sensazioni muscolari possono
solamente essere un indice dell'intensità della volontà, allo stesso modo che
in un atto di scelta la forza dei motivi in contrasto guida il nostro giudizio
sull’intensità della volontà chiamata et scegliere : ma esse non possono mai
dar ragione del caso semplicissimo in cui una rappresentazione per la prima
volta ecciti l’attenzione. Coloro che hanno riposto l'essenza della volontà
come di ogni attività psichica nelle sensazioni muscolari, non si sono mai
domandati, perchè noi consideriamo (il che è un fatto) un'azione, un movimento,
o una contrazione muscolare come voluta, ma non come parte essenziale della volontà,
dal che sì deduce che le sensazioni che accompagnano la contrazione muscolare
non possono essere comprese quali elementi della volontà : è ciò che precede ad
esse che forma il nocciolo dell’attività. Non basta : Perchè alle
rappresentazioni dei movimenti, si può domandare, non sempre tengono dietro i
movimenti effettivi corrispondenti? È vero che Miinsterberg risponde che in
tali casi un impulso più forte impedisce a quelle di effettuarsì : ma donde e
in che consiste questo impulso più forte? E qui l'opinione del Miinsterberg si
confonde con quella dello Spencer e dello Steinthal, i quali alla lor volta non
possono dar ragione del disaccordo che si nota spesse volte tra la
rappresentazione di un movimento e la sua esecuzione, del perchè anche nell’assenza
delle condizioni di arresto, non sempre una rappresentazione di movimento
produce un movimento reale, e del perchè fra molteplici rappresentazioni di
movimento anche non contradicentisi fra loro, una sola riesca a produrre di
preferenza un movimento effettivo. Senza dire poi che rimane sempre da spiegare
in che propriamente consista l'arresto. Il senso di energia non rivela una
qualità particolare del mondo esteriore come, poniamo, il suono, la luce, ecc.,
ma è essc stesso una qualità generale, applicabile a tutto il contenuto della
vita psichica. E in ciò proprio, secondo noi, sta la ragione principale per cui
il senso di forza non può avere un organo speciale, nè può appartenere alla
proprietà della nostra mente che si chiama rappresentativa. Nessuno penserà mai
di applicare una sensazione tattile o luminosa ad una sensazione sonora, ma
tutti crederanno di poter applicare la nozione di forza ai vari elementi
psichici: dal che si deduce che una tale nozione ha la sua base in una
proprietà generale di tutta la psiche, la quale proprietà come la vita, si
rivela immediatamente alla coscienza. Coloro che hanno creduto di poter
ricondurre il senso di forza alle sensazioni muscolari, non hanno in alcun modo
provato come queste possano ottenere il privilegio di divenire regola e misura
di tutte le sensazioni. Se esse sono sensazioni come le altre, se esse hanno i
medesimi caratteri, non potranno dare che effetti affini, vale a dire. una
notizia più o meno precisa delle impressioni che si producono nelle parti periferiche,
in cui vanno a finire le terminazioni nervose. Da ciò al poter salire al grado
che occupa nella nostra coscienza e nel nostro sviluppo psichico il sentimento
di energia molto ci corre: non basta che talune sensazioni variino in una certa
maniera ed in minor grado rispetto ad altre con cui sono in stretta relazione,
perchè le une diventino misura delle altre. Quelli che hanno attribuito alle
sensazioni muscolari l'ufficio di divenire forma di tutto il contenuto psichico
non hanno riflettuto che perciò stesso venivano implicitamente ad ammettere
un'attività o spontaneità interiore, capace di ordinare e disporre in una certa
guisa taluni fatti psichici rispetto agli altri. L'attività interiore non
diviene cosciente solamente in seguito alle sensazioni muscolari, ma anche in
seguito a tutti gli altri fatti psichici, dai più semplici ai più complessi,
nei quali la contrazione muscolare non ha niente a che fare. La vivacità con
cui irrompono nella fantasia di un artista le imagini di cui egli compone l’opera
d'arte e le varie forme d'intensità con cui reagisce lo spirito agli stimoli
esterni sono altrettante modalità con cui si rivela alla coscienza l’attività
interiore. I’altronde la tendenza ormai accentuata a spiegare il senso
dell'attività per mezzo delle sensazioni muscolari ha un fondamento solido,
positivo, sperimentale, o non è piuttosto un'ipotesi comoda per velare la
nostra ignoranza ? Oramai è notorio che taluni psicologi attribuiscono alle
sensazioni muscolari tutto ciò che non è spiegabile per mezzo delle altre
sensazioni periferiche e in ciò sono seguiti dagl'inesperti, i quali non si
domandano se le sensazioni provenienti da organi come i muscoli possano dare
tanti effetti strordinari. L'argumentum crucis di tali scienziati in fin dei
conti è che se un individuo è reso privo della sensibilità nei muscoli di un
arto, non’ può valutare nè il peso, nè l'estensione, nè la direzione dei suoi
movimenti e nemmeno la forza necessaria per compiere questi ultimi. Ma,
domandiamo noi, è lecito da un tal fatto dedurre che il senso della furza e
dell'attività è dato dai muscoli senz'altro ? Un tal ragionamento non somiglia
forse a quello per cui si considera il pensiero una funzione del cervello, sol
perchè pensiero e cervello mostrano di essere in connessione fra loro ? Se ciò
fosse esatto, si dovrebbe dire che l’idea è una funzione o un effetto della
parola, sol perchè l’idea e la parola che l’esprime sono intimamente connesse
fra loro. A noi sembra più positivo affermare che l’attività dello spirito,
come la vita, lungi dall'essere riposte in una parie sola dell'organismo,
compenetrano tutto quest’ultimo ed hanno bisogno di esso per attuarsi,
deterininarsi e concretarsi, come l’idea dell’artista ha bisogno della materia
(marmo, colore, ecc.) per tramutarsi in qualcosa di reale. Noi certo non
possiamo dire, come credette Maine de Biran ed altri, di aver coscienza
immediata dell’energia in quanto motrice, ma semplicemente in quanto mentale,
cioè in quanto sforzo di volontà per produrre un mutamento di stato : sforzo
mentale che si accompagna 1° con una scarica cerebrale di cui si ha un
sentimento particolare (senso di sforzo cerebrale); con una corrente centrifuga
attraverso l'organismo, della quale non abbiamo coscienza; 3° con movimenti
muscolari che ci sono noti per via di sensazioni afferenti. E ciò che esiste
nella coscienza non è il movimento come mutamento di relazione nello spazio, ma
il principio reale del movimento, il suo fondo interno, cioè un'azione od una
reazione che ha per conseguenza dei cambiamenti interiori e dei cambiamenti
locali. Il movimento effettuato è una rappresentazione della memoria, la quale
ha bisogno di essere interpetrata. Coloro che credono di poter fare a meno di
ammettere una forma di attività originaria dello spirito, credono di poter
spiegare l’azione che ha la volontà sul corso delle idee mediante le ordinarie
leggi dell’associazione. Essi dicono p. es. : se noi intendiamo di modificare.
o di mantenere o di sviluppare una serie di pensieri determinati, noi non
dobbiamo far altro che richiamare per via di associazione quelle impressioni
che ci sembrano utili al nostro scopo : impressioni di natura differente, se si
tratta di cacciar via o d'interrompere un seguito di ricordi, della stessa
natura quando noi desideriamo di fortificare e di sviluppare le associazioni,
alle quali ci siamo fino allora applicati. Jl sentimento di sforzo per costoro
è connesso col conflitto delle idee e dei motivi, il quale deve produrre la
preponderanza di uno di essì. Tale sentimento di sforzo nou può che essere
l’appannaggio dell'attività dei centri sensoriali e dei loro annessi
concorrenti all'esercizio dei nostri processi intellettuali. Ognuno vede qual'è
l'errore di ‘ coloro che ragionano nel modo sudetto ; essi elidono la
difficoltà che è riposta appunto nel dover dar ragione della nostra capacità di
richiamare in soccorso quelle impressioni che ci fanno comodo (1): essi
ammettono come provato quello che era appunto da provare, la possibilità di
dire io voglio , e quindi di interrompere un dato corso di idee e di
cominciarne un altro o di sviluppare quello già esistente. Nel passaggio dallo
stato di- distrazione a quello di attenzione vi è aumento di lavoro, vi è
dunque trasformazione di forza di tensione in forza viva, di energia potenziale
in energia attuale : ora è questo un momento iniziale molto differente dallo
sforzo sentito che è un effetto. Il rapporto del desiderio colla sensazione
piacevole o dolorosa costituisce la reazione della volontà ed in quanto noi
riteniamo ciò che è piacere e respingiamo ciò che è dolore abbiamo un senso di
sforzo volontario, di sforzo mentale che è ben altra cosa dello sforzo
ordinariamente sentito. Tale momento iniziale è precisamente la volizione, la
tensione del desiderio dominante, la vera attenzione : è qui la coscienza
dell'attività; mentre il preteso sforso sentito non è che la sensazione della
resistenza degli sforzi contrari al nostro e differenti da esso. La coscienza
della passività o della resistenza subita risponde alle sensazioni venute dai
muscoli. Cosi anche l’attenzione muscolare non è che quella, la quale, avendo
incontrato una resistenza, è obbligata a riflettersi su sè stessa, divenendo
più chiara, più distinta, come nota il Fouillée (2). Non ogni forma In tanto lo
spirito, dice Emanuele Hermann Fi.:hte, può prenlere un dato in'lirizzo, in
quanto può volgere il sorso dell: sue idse nel senso che maggiormente lo
interessa ; ora l'interesse non è che una tendenza, una direzione dell'attività
volitiva che se si trova in rapporto soltanto col g‘ado di chiarezza cosciente
può essere chiamata attenzione volontaria dipendente dall’intenstà di dati
fatti psichiri. Revue phlosoqhique. d'attività però si può ricondurre alla
ripercussione dell'ostacolo. Non va dimenticato che l’attività di cui abbiamo
coscienza in modo permanente in mezzo a’ tutti i mutamenti può essere
rappresentata da noi solo dopo che è stata apapplicata a produrre determinati
effetti, nel qual caso diviene tale o tal altro sforzo ; e di ciò si comprende
la ra | gione: l’azione, rappresentando il fattore subbiettivo che concorre
alla produzione di un fenomeno, è cosa soggettiva per sua natura e deve quiudi
sfuggire alla rappresentazione propriamente detta. Volersi rappresentare
obbiettivamente l'azione subbiettiva è come voler rappresentarsi l’attività
sotto la forma della passività. Ferrier e Ward dissero già che non è esatto
nemmeno affermare che noi ignoriamo i caratteri dell'attività, giacchè non vi
può essere ignoranza se non di ciò di cui si può acquistare scienza: questo noi
possiam dire, che abbiamo coscienza immediata del subbiettivo, dell’attività.
Del resto valenti filosofi affermarono le mille volte che la critica della
conoscenza riconosce due limiti, ciò che è troppo lontano da noi (Assoluto) e
ciò che è troppo vicino a noi, troppo noi stessi per esser posto dinanzi a noi.
Il soggetto è presente a sè stesso, ma non è rappresentato a sè stesso: noi
siamo certi di esistere e di vivere, ma non possiamo rappresentarci in modo
astratto e generale che cosa è esistere e molto meno che cosa è vivere. È
Münsterberg, se non andiamo errati – Grice: “In fact, the first was Cicero!” --
, il primo ad emettere l'opinione che l’unico fondamento psichico delle nostre
misure d’intensità è la sensazione mus colare, in quanto ogni misura
riflettendo o la estensione, o la durata o la massa, la stessa non è possibile
che sulla base della sensazione muscolare. Misurare è constatare l’esistenza in
maggior quantità nel tutto, in minor quantità nelle parti di un elemento
identico; ora in ogni percezione la sensazione muscolare è il solo elemento che
quando si divide in parti l'oggetto della percezione stessa, sì ritrova in
ciascuna parte, ma in minor quantità che nel tutto. Ciascun pezzo di carta
rossa, p. es., dice il citato autore, resta tanto rosso quanto tutt’intera la
carta, e però il rosso del tutto non può essere misurato per mezzo del rosso di
un pezzo preso come unità. D'altra parte ogni sensazione provocando una
reazione centrifuga muscolare, al solito s'associa con una sensazione
determinata di tensione muscolare che vale a conferirle un dato grado
d’intensità e nello stesso tempo a renderla misurabile. Solo la sensazione
muscolare offre il carattere della sensazione debole contenuta nella forte,
giacchè l’una e l'altra non sono qualitativamente differenti, ma differiscono
solo per la durata ed estensione. C'è stato chi a tale teoria esclusiva e si
può dire anche Minsterberg, Beitrige zur experimentellen Psychologie H.
III.Freiburg. eccessiva del Miinsterberg ha rivolto delle obbiezioni, notando
come anche per altre sensazioni si possa dire che la debole è contenuta nella
forte (es. : gusto, odorato, senso terinico ecc.), tanto è vero che quando uno
tocca l'acqua d'un bagno caldo con la mano prova una sensazione di calore molto
meno forte che quando visi immerge tutto intero dentro. Inoltre, ed è questa
l’obbiezione più seria, se veramente solo le sensazioni muscolari potessero
essere misurate, ne conseguirebbe che le altre non lo potrebbero in alcun modo,
il che non è; è innegabile, infatti, che vi è l’equivalente di una misura
diretta del calore per mezzo del calore, come si verifiva quando noi
paragoniamo diversi gradi di calore a cul ci troviamo sottoposti. Ora
supponendo che nella pratica solamente le sensazioni muscolari associate alle
altre potessero essere misurate, il principio che a ciù ci autorizzerebbe
sarebbe il postulato che le variazioni delle sensazioni specifiche sono
sottomesse alle medesime leggi delle variazioni muscolari a loro
corrispondenti. In tal guisa si presuppone che gli aumenti di calore
progrediscano secondo una legge identica a quella della progressione della
dilatazione: si presuppone non solo la misura diretta delle dilatazioni, ma
anche la misura diretta o la comparazione delle temperature fra loro. E poi, se
i gradi d'intensità sono delle qualità, se le intensità delle sensanzioni
muscolari si riducono a variazioni nella durata, se non vi è posto per le
intensità delle sensazioni particolari, perchè anche nel linguaggio comune sono
distinte nettamente le intensità, le qualità e le durate? Donde viene la
nozione d’intensità e con qual diritto si può più parlare della intensità dello
stimolo ? Si aggiunga che il Munsterberg non distingue sufficientemente
l'intensità della sensanzione muscolare dalla percezione dell’ampiezza del
movimento effettuato. Or tali divergenze non devono essere considerate come
senplici opinioni contradittorie, atte a provare soltanto la difficoltà delle
indagini psicologiche e la impossibilità di giungere a risultati positivi :
esse per contrario di:nostrano come attualmente s’imponga alla mente del
filosofo l'’esigenza di considerare e di valutare i rapporti esistenti tra i
fatti psichici e l'a‘tività originaria dello spirito. Il Miinsterberg ha
ragione fino a tanto che ricerca nella estrinsecazione della spontaneità dello
spirito la misura comune di tutti i fenomeni psichici, i quali effettivamente
in gran parte, com'è stato luminosamente provato dal Berg. son, presentano
delle differenze di qualità più che d'intensità o di quantità. E se noi ci limitiamo
a considerare la mente come una coordinazione di vari elementi psichici, di
varie sensazioni rispondenti agli stimoli esterni, non ve. diamo realmente la
possibilità di arrivare alla nozione del l'intensità di varie sensazioni
appartenenti ad un medesima senso specifico e molto meno vediamo la possibilità
di paragonare le intensità di sensazioni specifiche differenti. Ond'è che per
noi il merito del Miinsterberg è di avere intraveduto due verità : 1° che la
valutazione e la misura dei varî gradi d’intensità di una sensazione è
possibile solamente ammettendo nel fondo un’unità coordinatrice che renda
possibile il riferimento tra cose differenti; 2° che questa unità si rivela
mediante la percezione immediata della propria attività. Ma il suo errore
comineia quando crede di poter ridurre tutta l'attività psichica al movimento
(senso muscolare), il quale non ne è che uno dei fenomeni concomitanti, ovvero
consecutivi. Ciò non esclude però che qualche volta in via indiretta possa il
senso muscolare esserci di valido aiuto nella comparazione dell'intensità di
sensazioni provenienti da sensi diversi. Infatti, delle sensazioni di luce, di
suono, di peso di un dato grado d'intensità sono state paragonate da una parte
coi moviinenti del braccio e dall'altra coi movimenti degli occhi; e sì è
ottenuto il risultato che l'aumento dei movimenti coincide con quello dell'
intensità degli stimoli: vi è rapporto adunque tra l’accrescimento
dell'intensità propriamente detta e quello della reazione muscolare
concomitante. In ogni caso però non si può limitarsi a considerare le
sensazioni muscolari come misura dell'intensità delle altre sensazioni, se non
ponendo ‘ il postulato che ciò che è vero di esse sotto certi rapporti lo è
anche delle altre sensazioni. La valutazione dell'intensità presuppone
un'attività originaria differenziatrice e insieme assimilatrice la quale da una
parte distingue qualitativamente gli effetti prodotti da varî stimoli sugli
organi dei sensi e tutti i fatti psichici aventi come concomitanti fenomeni organici
diversi, e dall'altra stabilisce, intuendoli, quei rapporti dati dall’identità
o somiglianza della forma ed estensione della reazione psichica agli stimoli
esteriori. Noi non potremmo valutare come gradi differenti d’intensità le
sensazioni appartenenti ad un medesimo senso, nè potremmo stabilire dei
rapporti tra le intensità di sensi differenti, se non fossimo in grado di avere
una percezione immediata dell'attività psichica che pur essendo unica e
identica nel fondo, spiega in guise differenti la sua azione a seconda delle
numerose e variabili circostanze. Per la rappresentazione il movimento è fin da
princinio un continuo cangiamento di luogo; quindi l'origine sur deve
ricercarsi nelle sensazioni geometriche, visive e tattili, e specialmente in
quelle che conferiscono ad esse la continuità, l’uniformità e la misura, cioè
nelle sensazionmuscolari. Queste si dicono e sono sensazioni di movi mento; ma
da ciò non si potrebbe conchiudere che il movimento sia una sensazione. Se esso
è un'intuizione coordinata con quelle del tempo e dello spazio, che non sono
sensazioni, se la sensazione muscolare per se stessa è una pura successione
interna, il movimento non può essere il suo con tenuto immediato più di quello
che possa essere il contenuto immediato delle sensazioni uditive, Le sensazioni
muscolari diventano dunque sensazioni di movimento, come diventano sensazioni
di spazio; e poiché esse sono anche il fattore psicologicn più importante delle
percezioni di spazio, si vede come la coordinazione delle intuizioni dello
spazio e del movimento risulti anche dalla loro origine psicologica. La quale,
a volerla studiare più a fondo, si mostra dipendente da varie condizioni.
Anzitutto, perchè ci sia percezione di movimento, occorre che il mobile e lo
spazio (visivo o tattile) restino identici, almeno quanto è necessario, perchè
sia conservato un punto di riferimento, dal quale si possa apprezzare il
cangiamento di luogo. Se tutto mutasse nella stessa direzione, lo spazio e il
mobile, non ci sarebbe percezione di movimento. Inoltre bisogna che il
cangiamento di luogo sia insieme continuo e percettibile. Continuo, perchè se
vedessimo una cosa ora in un luogo, ora in un altro, senza vedere il passaggio,
non potremmo avere percezione di movimento, ma solo argomentarlo qualora
avessimo già idea di quello che è il movimento. Percettibile, perchè se non ci
riuscisse di vedere cangiar luogo, ma solo di vederlo cangiato, non ci potremmo
formare la prima volta l'idea del movimento. Continuo e percettibile insieme,
perchè la continuità senza la percettibilità sarebbe immobilità apparente, e la
percettibilità senza la continuità sarebbe cangiamento di luogo senza
transizione. E non basta, perchè nasca l’idea del movimento, il continuo e
percettibile cangiamento di luogo d'un oggetto su un fondo invariabile; bisogna
ancora che la coscienza ponga unità tra i luoghi, e tra essi e il mobile.
Siccome il movimento è il rapporto di due o più collocazioni che si succedono
con continuità, accade per esso quello che accade pel tempo, che la sua rappresentazione
suppone la funzione unificatrice della coscienza o del sentimento
dell'organismo. Queste sono le condizioni generali dell'origine della
rappresentazione del movimento, ma ce n'è un'altra, costante anch'essa, ma che
può subire piccolissime variazioni da individuo a individuo, ed anche nello
stesso individuo per effetto dell’esercizio, e che possiamo designare col nome
di limite della percettibilità. Cotesto limite dipende dalla misura individuale
del movimento come rapporto del tempo e dello spazio, la quale è nna grandezza
finita, che non può misurare qualunque movimento oggettivo, ma lascia senza
misura, e quindi senza percezione corrispondente, tanto i movimenti
estremamente lenti quanto gli eccessivamente rapidi. Non vediamo crescere il
filo d'erba, nè volare il proiettile; e non avremmo nessuna percezione di
movimento tanto se la nostra misura individuale fosse troppo grande quanto se
fosse troppo piccola ; nel primo caso i tempi geologici ci parrebbero un
istante, nel secondo qualunque successione ci parrebbe infinita. E poichè per
apprezzare una successione, e quindi anche un movimento, è necessaria una certa
continuità nella coscienza, così la nostra misura soggettiva deve avere una
certa grandezza, che non corrisponde a nessuna misura che sia oggettivamente
asso luta, ma che è rispettivamente somma o parte delle grandezze oggettive
minori o maggiori. È facile intendere che quella che è un'unità di misura
indivisibile per la sensibilità, non è tale oggettivamente o per l'intelligenza.
In questa unità l'elettricità p. es., percorre uno spazio grandissimo, e
l'accrescimento di una pianta secolare percorre uno spazio piccolissimo. Quindi
noi giudichiamo che si è svolta nel primo caso una serie di unità obbiettive
che sono parti dell'unità soggettiva, e che nel secondo caso questa è una
frazione di quella. Di qui si vede che il movimento non solo non è una
sensazione, ma non è neppure una conoscenza, una rappresentazione, la cui
origine si possa riportare interamente all'esperienza. Certo la misura
psicologica dipende dall'organismo, ed è impossibile che sia la stessa pel
pachiderma 19ole e rmen = _r___ror _ rr m1r.rr E ::]5h5I:5D anch'esse il
risultato di un processo in cui l'intelligenza e la cultura figurano come
fattori determinanti. É notorio d'altra parte che le rivoluzioni compiute nel
campo della scienza a lungo andare. finiscono per mutare anche il punto di
vista morale e religioso. Il fatto è che in ogni religione va distinto
l'elemento invariabile ed inalterabile da quello caduco e variabile, ma ì detti
due elementi nello svolgimento della vita religiosa sono inseparabili e
s'influenzano a vicenda: è soltanto la nostra facoltà di astrarre che viene a
separarli ed a considerarli isolatamente. Così l'evangelo stesso, è vero, non
involge alcun sistema cusmologico ; ma involge bene un giudizio intorno al
valore della vita e dello spirito umano. L’ amore per il prossimo, lo spirito
di sacrificio non son fondati forse sull’idea dell’eguaglianza degli uomini e
sul concetto che l'io è nulla di fronte al Tutto ? Ora i concetti
dell’eguaglianza degli uomini e della piccolezza dell'io non rappresentano per
una parte un portato della Ragione e non poggiano sopra una base speculativa?
Del pari chi vorrà più sostenere che la filosofia socratica non ha un
fondamento metafisico, quando Socrate stesso ci parla della sua preparazione
speculativa? Sicchè possiamo dire che è bensi vero che la religione ha la sua
radice nel cuore uinano, ma ciò non implica che essa sia un prodotto esclusivo
del sentimento: perchè il cuore abbia e riconosca in sè tracciate le vie da
seguire, occorre bene l’azione dell'intelletto, in quanto quello non fornisce
una specie di rivelazione immediata e prodigiosa, ma anch'esso si forma ed alla
sua determinazione concorrono parecchi fattori, tra i quali l'intelligenza.
Anche nel modo di concepire la finalità il Paulsen appare dominato dal
preconcetto del sistema. Egli, infatti, afferma che la veduta teleologica è un
prodotto del sentimento e della volontà e non dell’intelligenza : ora se egli
intende dire con ciò che la concezione teleologica non è conoscenza nello
stretto senso, ma contemplazione, ha ragione ; ma in tal caso, è necessario
osservare che il bisogno del sistema della razionalità del reale, al quale
risponde appunto la considerazione teleologica, è un bisogno eminentemente
intellettuale, e non un bisugno puramente subbiettivo ed arbitrario. La veduta
teleologica è la sola forma possibile di rappresentarsi il tutto e di superare
l’infinità mostruosa del naturalismo meccanico che nega ogni natura ideale
della realtà. Se l’esperienza ci presenta realmente un ordine di fenomeni che è
un ordine di valori pel pen| siero, non c'è ragione di ritenere che
quest'ordine non sia una cognizione, solo perchè non sappiamo determinatamente
come l’ordine causale, effettuandolo, si subordini ad esso e gli serva.
Possiamo noi forse pensare un'altra maniera di esistenza oltre quella che è
soltanto, e quella che è e _ 8a di essere e vuole, e crea dal suo sapere e
volere un mondo superiore a quello della semplice natura? Edè egli possibile di
non scorgere un progresso dall'una all'altra forma d'esistenza, un progres;o
che pone in ordine di valori razionali una serie di fatti e di forine naturali
? Questo valore dell'esistenza dipende forse dal modo di sentire di un
individuo ? Non è piuttosto anch'esso un fatto, la cui constatazione (giacchè
non è possibile la determinazione del modo d’operare della finalità) figura già
per sè come una forma di cognizione ? Veramente qui le idee del Paulsen non sono
chiare ed anzi in un certo senso sembrano contradittorie. Da una parte egli
dice che la cone cezione teleologica è un prodotto delsentimento e del volere
individuale (del volere e del sentimento del soggetto umano che si trova di
fronte Dopo tutto quello ‘che precede non abbiamo bisogno di. spendere molte
parole per discutere del rapporto posto dal Paulsen tra la filosofia e la
religione, e tra la filosofia e le scienze particolari. Una volta che lo
spirito umano è uno e che le sue funzioni non sono compiute maiisolatamente,
quando si vuole determinare il compito della filosofia rispetto a quello della
religione non basta affermare che quest'ultiina risponde alle esigenze
dell’emotività, mentre la prima a quelle dell'intellisenza. Nella filosofia vi
è il momento dell’emotività e del volere come nella religione vi è
necessariamente il momento della conoscenza. Si tratta appunto di determinare
fino a che punto ed in che senso il momento della conoscenza interviene nella
religione e quello del sentimento nella filosofia. Ora noì di passaggio notiamo
che mentre per la filosofia il fine ultimo è la conoscenza, ond’essa mira
appunto a trascrivere in termini di conoscenza le esigenze emotive e le
aspirazioni del volere, formando un tutto armonico intelligibile, per la
religione lo scopo è di trovare un appagamento ai bisogni dell'animo per il che
si serve della conoscenza come di mezzo appropriato a raggiungere il suo
intento. Ciò che. all'universo) e dali’ltra crede di poter dare una certa idea
del modo di operare del principio teleologi:0, riferendosi a ciò che ci
presenta l’esperienza interna in quei casi in cui la nostra attività raggiunge
un dato < risultato (fine), senza che esista alcuna rappresentazione dello
scopo a cui inconsciamente essa tende (Zielstrebigkeit). Egli si riferisce ad
una tale esperienza in forza del parallelismo psicofisico e dell’animazione
universale da lui ammessa, Noi osserviamo che una volta ammesso che l’attività
opera in modo cieco, non è possibile parlare di cognizione te leologica vera e
propria, ma di contemplazione nel senso di Kant e di Lotze. in un caso vale
come mezzo e come un momento subordi. nato, nell’altro diviene fine 0 momento
essenziale. Quanto al rapporto poi della filosofia colle scienze particolari
osserviamo che è impossibile confondere il compito della filosofia con quello
delle scienze per due ragioni: 1° Non è vero che le singole scienze si possano
e sì debbano occupare dei presupposti da cui le loro indagini prendono le
mosse, che, p. es., la fisica si debba occupare della natura dello spazio e
della materia. La filosofia bensi ha bisogno di fondarsi sulle leggi e propretà
scoverte dalle scienze, ma elabora i detti risultati a suo modo, ed
elaborandoli, li trasforma. Quel che è certo è, che si può essere . scienziati
senza esser filosofi, ma non si può essere filosofi senza avere una base
scientitica. 2° Il cultore di una scienza particolare non varca quasi mai i
limiti della propria specialità e, se li varca, rimane sempre entro i limiti
delle scienze vicine ; non mira mai a ricercare il nesso, il rapporto che
esiste tra i vari ordini di sapere, sia di quelli che sono affini tra loro che
di quelli che sono lontani; ora ciò fa appunto il filosoio. Ciò che vi ha di
esatto nell'opinione del Paulsen è che il vero in ogni parte del nostro sapere
sta in un processo di approssimazione indefinità ad un ultimo senso, ad un
significato delle cose impossibile a conseguirsi da noi, e che i sistemi
metafisici non sono, come direbbe il Barzellotti, che le cèntine immense su cui
i grandi . architetti del pensiero voltano uno dopo l' altro l’ edificio ideale
compiuto dal sapere del loro tempo. Notiamo infine che una volta ammessa quale
parte della filosofia la metafisica, come si può dire che la biologia, la
fisica e la chimica sono anche parti di quella? Ciò che LA FILOSOFIA
DELL'ATTIVITÀ 453 vi ha di filosofico in dette scienze è preso dalla
metafisica. Il compito della filosofia è sciogliere il problema nella sua
totalità. La filosofia pertanto ha un obbietto proprio e non è più lecito
affermare che essa sia una semplice sintesi riassuntiva del lavoro compiuto
dalle altre scienze. Dall'impossibilità di derivare il fenomeno fisico dal
fatto psichico e questo da quello il Paulsen fu tratto ad ammettere il
parallelismo psico-fisico e quindi l’ animazione universale, con cui egli volle
esprimere evidentemente l’unità fondamentale della natura e dello spirito. Ora
si domanda: Vi è una vita psichica superiore, più elevata, più comprensiva,
come ve ne è una di grado inferiore a quella d'ordinario ammessa ? Il Paulsen
risponde di sì ed è questo, a noi pare, uno dei punti importanti, o almeno
caratteristici, della sua metafisica. Per risolvere una tale questione occorre
tener presenti i criteri che noi abbiamo per giudicare della realtà psichica.
Noi sappiamo che tanto più di realtà una cosa ha quanto più di valore possiede
e quanto più di forza, di efficaciaè atta a spiegare: così noi siamo disposti
ad ammettere un volere ed una coscienza collettiva, perchè noi siamo in grado
di constatare gli effetti che essi producono sulla vita degl'individui e sullo
svolgimento della società: per contrario le unità psichiche d'ordine superiore,
quali vengono ammesse dal Paulsen, che effetti psichici producono ? Per quanto
sappiamo noi, nessuno. I fenomeni esterni che noi osserviamo nella vita degli
astri in genere, avranno anch'essi il corrispettivo interiore, ma questo sarà
di natura semplice ed elementare, come sono i fenomeni esterni (movimenti più o
meno complicati) da essi presentati. Quale ragione noi abbiamo per ammettere
una vita psichica differenziata, complicata ed insieme armonica negli astri? Se
per lo svolgimento dello spirito è richiesto un sostegno esterno così
complesso, se in tutta la distesa dell'esperienza la natura è giunta a maturare
in sè il frutto dell’esistenza spirituale quale a noi attualmente e nel
processo storico si presenta, se la vita spirituale ha bisogno di svariati
istrumenti complessi (tra 1 quali basta citare il linguaggio che rappresenta
una delle condizioni di essenziali ogni forma di esistenza psichica d'ordine
elevato), con che dritto attribuiamo noi una vita psichica superiore agli
astri, iquali si presentano cosi monotoni e indifferenziati nel loro modo di
operare ? Notiamo in ultimo che l'argomentazione a cui è ricorso il Paulsena
tal proposito è quella per analogia; ma ognuno sa che questa in tanto ha valore
in quanto i caratteri riscontrati simili in due serie di fatti sono essenziali;
ora tra i fenomeni presentati dai pianeti e quelli presentati dagli esseri
spirituali veri e propri non si può in alcun modo dire che vi sia
corrispondenza essenziale. Passiamo alla teoria della conoscenza. Si è veduto
che la parte essenziale della (inoseologia del Paulsen è che in un punto solo
conoscenza e realtà coincidono, vale. a dire nella coscienza, giacchè i fatti
interni noh possono essere fenomeni, ma sono la sola e vera realtà. I fatti
psichici, infatti, in tanto esistono in quanto sì rivelano alla coscienza; la
loro natura sta tutta appunto nell' apparire nella coscienza la natura del
pensiero è tutt’ una collo sperimentare e coll’avvertire il pensare, come la
natura del sentire è tutt'una collo sperimentare e coll’ avvertire il sentire.
È impossibile, in altri termini, separare la vita psichica dall’avvertimento
della stessa, come è impossibile separarla da ogni forma d’'interiorità :
togliete questa ed avrete per ciò stesso annullato la vita psichica vera e
propria. D'ultra parte per poter affermare chei fatti psichici suno fenomeni
bisogna ben sapere in rapporto a chi possono essere essi feno meéni; e per tal
via non sì viene ad ammettere come a3sodato ciòche è un problema, vale a dire
l’esistenza dell'anima come sostanza semplice ? Ma da ciò consegue forse che di
reale nella vita psichica non vi siano che i singoli fatti psichici, quali le
rappresentazioni, i sentimenti, come mostra di credere il Paulsen? A noì non
pare: invero, ciascun fatto psichico, esso sia una rappresentazione o un
sentimento o qualsiasi altro elemento, lungi dal rivelarsi qualcosa di
semplice, d’ irriducibile, di primitivo e d'indipeudente, si manifesta come
qualcosa di derivato dalla cooperazione di parecchi fattori, tra i quali
primeggia il soggetto, intendendo per questo ciò che costituisce il punto di
appoggio, il punto di riferimento, e quindi il fondamento e il sostegno di ogni
singolo fatto psichico. L'esistenza del soggetto figura ‘come la condizione
essenziale del prodursi di un fatto psi. chico. Ciò è stato riconosciuto anche
da coloro che negano la realtà del soggetto; ma essi hanno cercato di eludere
la difficoltà, dicendo che il punto di riferimento del nuovo fatto psichico è
dato dall’insieme della vita psichica svoltasi per lo innanzi: se non che va
osservato che si vada indietro quanto si vuole, bisognerà bene arrivare al
punto in cui il primo fatto psichico si presenta: ed in questo caso è evidente
che è presupposta del pari l'esistenza del soggetto, l'esisteuza di qualcosa
d'interno che non può più consistere nell’ insieme dei fatti psichici
antecedentemente svoltisi. Da tuttociò emerge chiaro che non è possibile
considerare i singoli fatti psichici come i soli elementi reali, giacchè
presuppongono necessariamente qualcosaltro che concorra alla loro produzione;
in caso contrario si rimane chiusi in un circolo; per dar ragione dei singoli
fatti psichici si ricorre ail'esistenza di un soggetto, all’ esistenza di un
punto di riferimento, e dall'altra parte per dar ragione di quest'ultimo si
ricorre ai sentimenti, alle rappresentazioni. Aminessa come innegabile la
realtà del soggetto, si può domandare quale concetto dobbiamo noi formarcene :
ora noi crediamo che tale questione non si possa risolvere altrimenti che
ricorrendo a similitudini, ad analogie atte a farci intendere che la realtà del
soggetto non deve essere ri posta in una sostanza semplice, in una
sostanzaatomo, in un'ipostasi insomma, ma in quel qualcosa che rende possibile
l’esistenza delle parti che costituiscono la vita psichica. Noi per denotare
questo qualcosa siamo costretti a ricorrere ad espressioni vaghe ed
indeterminate, come la parola sostanza, le quali sono soltanto valide a celare
la nostra ignoranza. Allo stesso modo che la lingua non è reale come semplice
aggruppamento di suoni e di parole, le quali, anzi, in tanto esistono in quanto
vi è la funzione del linguaggio, ailo stesso modo che un organismo non figura
come il puro risultato dell’ aggruppamento delle sue parti, le quali anzi
presuppongono l’attività del germe da cui si svilappano, così l’anima lungi dal
risultare dall'insieme dei fatti psichici va considerata come ciò che rende
possibile l’esistenza di questi. La realtà vera e piena non appartiene agli
elementi ultimi acuisi perviene mediante l'analisi, ma al tutto, o meglio,
all'universale concreto e individuale, il quale può essere considerato come
funzione di un universale concreto più elevato e questo di un ultro universale
più elevato an‘cora fino a giungere alla Totalità che tutto in sè comprende.
L'anima, si dice, è null'altro che la sintesi delle forze o potenze psichiche,
vale a dire dei fatti psichici possibili; d'accordo: ma chi dice sintesi dice
perciò stesso attività sintetizzatrice, perchè altrimenticome avverrebbe tale
sintesi? E forse da sè stessi, ez /eye che gli elementi dei tatti psichici si
riunirebbervo 2? Non basta : si dice inoltre: L'unità dei fatti psichici
riferentisi l'uno all’ altro, richiamautisi, implicautisi a vicenda, ecco che
cosa è l’anima: ma tuttociò non trae seco la conseguenza che l’anima è più che
un semplice aggruppamnento di tatti psichici ? Perchè un fatto psichico possa
richiamarne un altro, bisogna che vi sia qualcosa che colleghi entrainbi,
bisogna che un'identità tondamentale sia il sostrato di entrambi: e per
convincersi di ciò basta pensare che anche i collegamenti spaziali e temporali
in tanto sono possibili in quanto vi è un soggetto capace di ordinare le
rappresentazioni appunto secondo l’ordine spaziale o temporale. Dall'inerire di
a, 6, c, ad A, domanda il Paulsen, conse gue forse la coscienza delle loro
unità ? Certamente, rispondiamo noi, posto che A abbia la coscienza, comunque
il’ rapporto intercedente tra i fatti psichici e il soggetto non sia nient'
affatto un rapporto d'inerenza. Dire che cosa. è la coscienza è impossibile,
essendo essa un fatto nltimo e irriducibile: dire che è attività, forza,
sintesi, riferimento e distinzione ecc. equivale a metterne in evidenza delle
note, ma non a significare che cosa in realtà sia. Osserviamo infine che il
Paulsen sembra quasi che riconosca il suo errore, quando a proposito dell'anima
esce. in affermazioni come questa: Il tutto precede le parti, l’Anima non è un
Compositum ecc. Ora in tal guisa evidentemente abbiamo due’ concezioni
dell'anima chenon possono per nessuna via concordare insieme : se essa. non è
un aggregato, un compositum , non è lecito affermare che la realtà competa
soltanto ai singoli fatti psichici, quali le rappresentazioni, iî sentimenti,
ecc. Se il tutto precede le parti, come si può negare la realtà del soggetto,
come si può asserire che l’Anima è un' ipostasi a seconda potenza? Per ciò che
concerne l'Etica del Paulsen, cominciamo dall’osservare che il principio
fondamentale di essa si trova. in contraddizione con l'essenza della moralità
quale è in-. tesa dall'Autore, Se, infatti, la morale è una produzione del
volere e del sentimento e non della intelligenza umana, come mai si può
affermare che la valutazione degli atti” si riferisce sempre agli effetti da
questi prodotti ? In tal caso l'essenza della morale è intellettualistica in
quanto la considerazione degli effetti delle azioni è un processo essenzialmente
intellettuale. Nè vale il dire che occorre far distinzione tra vita morale e
scienza della vita morale, giac-chè prima di tutto la base della valutazione
degli atti è un elemento della vita morale nella coscienza umana, in cui la
riflessione, non si disse, agisce sulla volontà ; poi una delle due, o la
considerazione del fondamento obbiettivo dell'imperativo morale, vale a dire la
considerazione del tine ultimo verso cui tende lo sviluppo della moralità
obbiettivamenie considerata, è da riguardare sempre ed in ogni caso motivo
pressochè esclusivo dell'operare morale (nel qual caso è giusto fondare il
giudizio valutativo sui risultati etfettivamente raggiunti mediante le azioni
morali), ed allora non è più lecito parlare dell’ esistenza della vita morale
indipendente dalla conoscenza, chè anzi in tal caso la moralità è fondata sulla
conoscenza e sulla riflessione ; ‘ovvero la vita morale si è in certa guisa
svolta indipendentemente dalla considerazione degli effetti delle azioni,
‘considerazione, la quale si è rivelata soltanto a chi si è posto a riflettere
sull'insieme della vita morale, ovvero cioè gl’ individui hanno cominciato
coll'operare in un dato modo per seguire gl’ impulsi del loro animo, senza aver
di mira ‘alcun risultato obbiettivo che è divenuto evidente solo
posicziornente, e allora ia veduta teleologica non ha nell'Etica un ufficio
differente da quello che ha nella scienza in genere. In questo caso non è
ragionevole fondare la valutazione degli atti morali sugli effetti obbiettivi.
Ed anche qui la considerazione teleologica non è una conoscenza nello stretto
senso della parola, ma è una forma di ‘contemplazione. L'Etica del Paulsen
rimane impigliata nel suddetto dilemma. Il Paulsen ha ragione di respingere il
puro formalismo kantiano, in quanto l'analisi dello spirito umano. mostra che
la volontà non può entrare in azione se non avendo in vista un fine determinato
e concreto, ma ha torto di affermare che la valutazione morale debba essere
fondata soltanto sulla considerazione degli effetti consecutivi all’azione,
senza tener conto della natura propria del volere (ovvero tenendone conto in
modo secondario e subordinato). La volontà non è qualcosa di accessorio alla
moralità, nè questa è fuori della volontà, allo stesso modo che il bello non è
al di fuori dell'anima che lo sente e lo gusta. E mentre il prodotto artistico
va giudicato alla stregua dell’ emotività estetica umana (sensoestetico), il
fatto morale senza cessare di essere tale, non può essere considerato a parte
dalla determinazione del volere che gli diede origine: e ciò perchè l'essenza
del fatto estetico è nell’emozione estetica, mentrechè l'essenza di quello
morale è nel volere. Un fatto staccato dal volere che l’ha determinato non può
mai essere obbietto di un giudizio morale, come un bello che non è sentito non
può essere oggetto di un giudizio estetico. In tanto è lecito parlare di
moralità in quanto è in causa il volere che è quanto di più intimo abbia
l'uomo, in quanto è in causa l’uomo stesso: e la considerazione degli effetti di
un'azione in tanto può entrare nel giudizio valutativo degli atti umani in
quanto gli effetti spesso, ma non sempre, sono: l’espressione del volere, sono
il volere umano obbiettivato. L’Etica non si può limitare ad esaminare
semplicemente la forma del volere e dell’ operare umano, ma deve anche prendere
in considerazione il contenuto di questa, vale a dire il fine da raggiungere
mediante il volere e l’azione. Ora lo scopo dell'attività umana non può essere
determinato che con la guida della necessità morale e non può essere valutato
che in base alle norme morali stesse. Per il che occorre che all'attività umana
venga proposto non un fine qualsiasi, ma uno che sia in armonia colla naiura
propria dell’uomo. Onde è che l’esperienza, il fatto cioè che questo o
quell’individuo in questa o quella circostanza sì è proposto un dato fine e
l’ha raggiunto, non ci autorizza niente atfatto a considerare senz’ altro lo
stesso fine come morale e come degno di essere ricercato; è necessario per
contrario che il detto scopo sia fondato necessariamente sulla natura dello
spirito umano e derivato dalle leggi priori dello stesso. La psicuiogia potrà
fornirci un'interpretazione adeguata della natura di queste leggi, ma nulla
potrà dirci del loro valore e della loro importanza. In sostanza noi possiamo
dire che ogni precetto morale O giuridico contiene ad uno stesso tempo elementi
empirici ed a priori. Il contenuto particolare e determinato non può esser
fornito alle norme etiche che dai bisogni e dalle contingenze in cui l’uomo si
può trovare, mentre i caratteri dell’universalità, della necessità e della
obbligatorietà non possono ad esse venire se non da questo che le varie forme
dell'attività umana vengono considerate come processi e stati aventi la loro
origine e il loro svolgimento in esseri ragionevoli e liberi. Non altrimenti
che noi consideriamo come logicamente necessario solu ciò che, seguendo le
regole del pensiero logico, deriva da dati presupposti, così diciamo moralmente
necessarie quelle maniere di operare che per necessità logica derivano dai
seguenti presupposti: che l’uomo è un essere ragionevole e che la parte
spirituale della sua natura paragonata con quella animale, non solo ha un
valore maggiore, ma ne ha uno incondizionato. Quanto più l'individuo riconosce tale
necessità, tanto più squisito è il suo senso morale e quanto più la condotta di
una persona si lascia guidare dal sentimento della medesima necessità, tanto
più moralmente puro sarà il suo operare. L'adempimento del proprio dovere
produce la pace dell’anima appunto perchè in tal caso la condotta è in accordo
con ciò che all'agente sembra necessario alla conservazione: cd elevazione del
proprio vaiore personale, di guisa che le leggi morali non esprimono chele
condizioni nelle quali la nostra volontà è veramente funzione dello spirito ed
è degna dell’appellativo di volontà ragionevole. È evidente che a misura che si
va svolgendo la nostra vita spirituale e il suo valore ci si rende manifesto,
acquistiamo coscienza delle esigenze che in rapporto a ciò ci si impongono e
quindi acquistiamo chiara cognizione delle leggi morali. Fintanto che in noi
non mette radici la persuasione che il comportarsi in un dato modo è da
considerare come esigenza universale della natura umana, non è lecito parlare
di moralità: onde consegne che l'uomo trae la nozione di ciò che deve fare non
dalla esperienza, ma dalla considerazione di ciò che trova di più nobile ed
elevato nel suo animo e dalle esigenze che una tale considerazione trae seco.
Non si vede poi su che base si potrebbe costituire una norma fis:a ed
universale per giudicare del valore morale di un’ azione, una volta che la
determinazione del volere fosse considerata come unelemento accessorio e
subordinato, tanto più se si pensa che la valutazione degli effetti è pressochè
impossibile ad effettuarsi in modo esatto, tenuto conto delle svariatissime
circostanze che possono concorrere a far variare l’importonza di essi; vero è
che si dice che il giudizio morale ha come punto di riferimento gli effetti
.che normalmente derivano da determinate maniere di operare, ma non si vede che
in tal caso sono le maniere di operare, vale -a dire ledeterminazioni della
volontà, che costituiscono la base vera dei nostri giudizi, mentrechè gli
effetti figurano come una semplice conseguenza, unaspecie di estrinsecazione di
quelle? Si obbietta che il giudizio morale fondato sull’intenzione dell'agente,
è pressochè impossibile, tenuto conto delle insuperabili difficoltà che si
oppongono ad un esatto esame psicologico, ma in tale asserzione vi è molto
dell'esagerato. In ogni caso, una volta che si fa dipendere il giudizio morale
esclusivamente dagli effetti consecutivi alle azioni, bisogna poi dire secondo
quale norma noi valutiamo i detti effetti. Le idee del bene e del male, del
giusto e dell'ingiusto non si sarebbero mai potute formare, se nella natura
propria dell'uomo e segnatamente nella sua ragione, non avesse radice il
bisogno e la capacità di paragonarsi cogli altri uomini, di valutare i loro
stati analogamente ai propri, e di estrarre dalla esperienza propria e da
quella degli altri leggi generali aventi l'ufficio di regolarlo nei vari suoi
atti; se insomma l'attitudine morale non avesse il suo fondamento ultimo nella
ragionevolezza umana. Senza di questa condizione sarebbe stato impossibile
trarre regole universali dai vantaggi o danni derivati da determinate azioni:
ciascuno avrebbe evitato ciò che gli recava nocumento ed apprezzato ciò che gli
giovava. Ancorchè sì voglia ammettereche l'esperienza delle conseguenze di dati
atti abbia dato il primo impulso alla formazione delle idee morali, riman
sempre da spiegare il loro completo svolgimento, giacchè ogni progresso morale
ha come base la ragionevolezza umana. Da ciò deriva che i precetti morali, se
traggono il loro contenuto dall'esperienza, devono la loro forza di
obbligatorietà a leggi universali dello spirito umano indipendenti da qualsiasi
esperienza. Ond’è che la scienza morale o l’etica non può avere altro obbietto
che quello di rintracciare gli elementi della natura unana, dai quali deriva la
tendenza ad anteporre a tutto gl'interessi spirituali e il benessere della
società, nel che propriamente consiste la moralità. Come si vede, ciò che reude
assolutamente difettosa la concezione morale del Paulsen è l'asserzione che
basti l'esperienza per determinare i precetti morali. Infatti, si può
domandare: Perchè ciò che è utile alla società deve essere praticato ? Perchè
lo svolgimento delle varie attività e funzioni dell'individuo e dei suoi simili
costituisce il fine umano? Si risponde: Perchè la coscienza sociale, perchè lo
spirito collettivo così comanda; ma, si può domandare ancora: E perchè lo
spirito collettivo dà di tali comandi ? Perchè esso è fatto cosi? E che dritto
ha esso di dare dei comandi ? E che prove abbiamo della esistenza e della
superiorità ci un tale spirito? E le domande non sono finite ancora: Perchè
esistono quei tali istinti sociali che sono la radice di taluni costumi e
consuetudini ? Da qualunque. lato sì consideri la questione, emerge chiaro che
non è possibile trarre esclusicamente dall'esperienza il contenuto della
moralità senza tener conto delle direzioni primitive ed originarie del volere
umano illuminato e conpenetrato dalla ragione. È curioso che il Paulsen ammette
che il problema della determinazione del fine ultimo della vita non possa esser
risoluto dall’intelletto e quindi dall'esperienza, mentre quello riguardante i
mezzi per raggiungerlo (virtù e doveri) sì. Ora se le virtù e i doveri sono
insieme parti del fine ultimo della vita e mezzi per raggiungerlo, come mai
possono essere determinati con metodo diverso da quello con cui è determinato
lo scopo finale della vita ? L'esperienza non ci può presentare che fatti
concreti collegati insieme, ma non potrà :nai darci la necessità per cui i dati
fatti si collegano, nè il perchè così si collegano, come non’ può darci mai
alcuna norma o regola, che abbia valor necessario ed universale. È innegabile
che per quanto sì osservino fatti e si notomizzino, non sì caverà mai da essi
una norina assoluta ed universale di operare. Convien dunque riconoscere in noi
una facoltà o una disposizione primitiva per la quale, sotto l'impulso di
alcuni fatti, sì. sveglia in noi l’idea del dovere, l'idea di un qualche cosa
che si deve assolutamente fare. Questa coscienza del dovere considerata nella
sua generalità quale coscienza d’un fine obbligatorio, superiore al nostro
benessere individuale è, come abbiamo veduto, il fondamento comune e generale
della natura morale degli uomini: ma a questo fondamento meramente formale si
aggiunge necessariamente, nella coscienza di tutti, una determinazione
materiale, varia secondo i popoli, i tempi e gli individui. Per ciò che
riguarda la superiorità attribuita allo spirito collettivo nelle sue varie
forme rispetto allo spirito individuale, giova notare che non ogni forma di
collettività. è superiore all'individuo, come non in ogni caso l’indivi duo
deve seguire i più. È da questo punto di vista che le idee emesse dal Paulsen
sulla natura del dovere meritano d’essere completate. Le unità collettive che
hanno un valore più elevato sono quelle che condizionano l’individuo, quali la
famiglia e la società presa in senso lato. È evidente che senza la famiglia e
la società non vi sarebbe nè individuo, nè cittadino, il quale dapprima è per
cosi dire una cosa con esse, e se ne distacca soltanto in un tempo posteriore,
quando il volere individuale ha acquistato tanta forza da poter vivere e
svolgersi in modo autonomo. Le dette unità collettive condizionando la vita
individuale, sono universali, nel senso che non vi è uomo, il quale non
appartenga ad una famiglia, o ad una società. È chiaro che le stesse
collettività lungi dall'essere un prodotto . dell'astrazione, sono quanto vi
può essere di concreto, e vivono ed operano negli individui ; è evidente del
pari che iascun individuo sì sente intimamente legato ad esse, ri flette nel
suo animo le loro tendenze ed aspirazioni, e le ri . conosce come qualcosa di
superiore. Una volta che l'individuo ha nella collettività il suo punto
d'origine, il suo fondamento, @ il suo sostegno, non può non attribuire ad essa
un po tere ed una forza stragrande. Non basta. ciascun individuo come elemento
isolato, sente prepo:ente il bisogiio di com. pletarsi, congiungendosi col
Tutto, onde il suo volere quanto. più è compenetrato dalla ragione tanto più è
tratto a compiere quelle azioni che lo fanno sentire uno col Tutto, e che,
togliendo ogni restrizione, contribuiscono ad allargare l'Io. Le forme
particolari ed artificiali di collettività non sempre hanno un valore superiore
e più elevato, in quanto non contengono ciò che vi ha di essenziale
negl'individui. Le unità collettive naturali lungi dall’eliminare le differenze
individuali, le armonizzano e le elevano ad una . potenza maggiore.
Gl'individui possono (ed è bene che avvenga) fare a meno dal seguire i dettami
della collettività quando questi non si riferiscono a ciò che vi ha di
universale nella natura umana È soltanto a questa condizione che l'individuo,
seguendo la collettività, si sente’ più che sè stesso, si sente parte di ciò
che vi ha di meglio nel mondo, in modo da trovare un appagamento calmo e
completo alle più profonde aspirazioni del suo cuore, e. alle intime esigenze
di tutto il suo essere. Prima di finire noterò che chi si fa a considerare
l'insieme delle dottrine morali del Paulsen, s'accorge subito che in esse si ha
come il riflesso della psicologia quale venne trattata dal nostro Autore.
Vedemmo, infatti, che per lui il fatto psichico primitivo ed originario è dato
dall’attività, dall’energia, mentre tutte le altre potenze non rappresentano .
che dei mezzi adatti a far raggiungere all’attività il maggior dispiegamento.
Da tal punto di vista ciò che è pura-mente subbiettivo, quale il sentimento,
figura come il semlice riflesso o come l’intertoriszazione del fatto obbiettivo
dell’operare, che è l'essenziale. Una tale dottrina psicologica fondamentale
trasportata nel campo morale che cosa. doveva darci? La trasposizione della
base della valutazione, diremo così, dall'interno all'esterno. Infatti, una
volta che l'essenziale è l’ attività, e che questa nonsi può misurare che dal
lavoro che compie, dagli effetti che produce, è naturale che il giudizio
valutativo debba . riferirsi agli effetti consecutivi alle azioni, invece che
alle- determinazioni subbiettive del volere e dell’emotività, i - quali
rappresentano qualcosa di accessorio, di sussecutivo . © di incidentalmente
concomitante. L'importante per il nostro Autore non è la genesi subbiettiva
dell’atto, ma . l'attività, per così dire, obbiettivata. Ma non è questa, domandiamo
noi, una maniera di snaturare la moralità ? Non è l'essenza di questa riposta
nel processo per cui l'ideale si attua, per cui ciò che non è ancora tende a
tramutarsi in fatto? Non ha essa la sua nota caratteri. stica nel procedimento
per cuiil mondo veramente uinano siva formando ? Togliete l’ideale dal dominio
morale ed avrete annullato la moraità : ora, non si viene a destituire d'ogni
valore l'ideale, una volta che si pone come obbietto della ‘ valutazione morale
l’effetto che consegue all’azione, cioè a dire quella parte dell'ideale che è
stata già tramutata in fatto? Bisogna ben tenere a mente che l’ideale è un pro.
dotto del soggetto, prodotto che ha valore ed efticacia per sè, a prescindere
dalla sua attuazione, la quale può essere arrestata o di molto diminuita per
cause svariatissime. E la scienza morale si differenzia da tutte le altre
scienze appunto per questo, che essa non sì riferisce a fatti, ma ad ‘idee ed a
sentimenti che tendono a tramutarsi in fatti : in caso contrario la scienza morale
quasi quasi non ha ragione di esistere. La classificazione, l'ordinamento ed
anche la valutazione degli effetti di date azioni sono di spettanza di altre
scienze. Aggiungiamo in ultimo che, ammesso il teleologismo alla maniera di
Paulsen, si viene a destituire d’ogni valore la volontà, la quale è quasi
considerata come una forza, le cui determinazioni per sè possono essere
trascurate, tanto è ciò vero che il giudizio morale principale si riferisce
.agli etfetti consecutivi all’azione, iquali possono essere maggiori o minori
in rapporto a numerose circostanze che non hanno niente a che fare colla
volontà vera ‘@ propria; per contrario le determinazioni primitive di questa e
i loro motivi vengono lasciati da parte come qualcosa di superflno e quindi
d'insignificante. Non si ha cosi una nuova forma di fatalismo, una volta che
più o meno manifestamente viene ad essere ammesso che la volontà presa per sè
non è degna di considerazione ? È degno di nota il fatto che i sistemi
filosofici, ì quali pongono il volere come fondo e sostanza dell’ universo,
sono costretti dalla forza delle cose a negare ogni efficacia al volere vero e
proprio: diciamo al volere vero e proprio, giacchè il volere aminesso dai
filosofi pantelisti è qualcosa di così chimerico e di così inconsistente che
non può esistere, se non nella fantasia di quelli che ne hau fatto il doro Dio.
Chi si fa a considerare tutto il movimento della filosofia contemporanea non
può a meno di notare che le varie direzioni di questa hanno i loro nuclei di
origine nella filosotia kantiana. I germi delle varie forme che ha assunto
l’attività del pensiero filosofico nel secolo nostro si trovano tutti nel
Kantismo, tanto è ciò vero che ciascun filosofo prende come punto di partenza
qualche veduta kantiana, e non fa che trarre da essa tutte le conseguenze
possibili, svolgendola nelle varie sue parti. Nè ciò deve far meraviglia, se si
pensa che Kant piuttosto che darci un sistema filosofico vero e proprio, ci
diede una critica della conoscenza e della metafisica anteriore, ond'egli, qua
e là potette emettere delle vedute forse non perfettamente atte ad esser
coordinate in un tutto armonico non atte cioè a divenire elementi di un sistema
unico, ma atte a divenire punti di riferimento di concezioni posteriori. Non è
nostro intendimento ora di passare a rassegna i vari sistemi filosofici che
presero le . mosse da Kant: notiamo soltanto che tra le varie direzioni del
pensiero speculativo contemporaneo due si possono segnalare in modo spiccato
come germinazioni dirette del Kantismo: alludiamo alla filosofia critica
propriamente detta o al cri. ticismo e alla filosofia dell'attività o
pantelismo nelle sue varie forme. Le dette due direzioni presentano dei
caratteri netti e delle note speciali, per cui non sì può non: considerarle
separatamente: il criticismo, infatti, ha, per cosi dire, il suo centro di
gravità nella teoria della conoscenza. che costituisce per esso l’obbietto
speciale dell'indagine filosofica ; il pantelismo invece è concezione
essenzialmente metatìisica e lungi dal limitare le sue ricerche alle
discussioni gnoseologiche, ha di mira di penetrare la natura intima della
realtà sia fisica che psichica. Entrambe queste direzioni del pensiero
filosofico, dicevamo, si rapportano a Kant; ma mentre il criticismo cerca di dare
il più ampio svolgimento alle vedute d'ordine teoretico, il pantelismo ha
l'intento di accentuare e di esagerare il pensiero fondamentale della filosofia
pratica del grande filosofo di Kénigsberg. É noto che mentre nella critica
della ragion pura Kant, dopo l'esame e l’analisi del potere della conoscenza
umana,. affermò l'impossibilità di oltrepassare il fenomeno, nella critica
della ragione pratica ammise una sola via di penetrare nel regno del Reale e
questa per lui era il volere umano. È del pari noto che si volle trovare
un’antitesi tra il pensiero e il metodo della ragione teoretica e il pensiero e
il metodo della ragione pratica, onde avvenne che alcuni seguirono Kant nella
teoria della conoscenza, mentre altri nella metafisica che poteva esser dedotta
dai presupposti della sua Etica. Avendo il grande filosofo tedesco proclamato
il primato della ragion pratica ed avendo ammesso nel volere umano una specie
di accenno all’Assoluto, era da aspettarsi che i filosofi, i quali non si
appagavano delle semplici discussioni gnoseologiche, dovessero cercare di
costruire una metafisica, dando svolgimento e trasformando pressochè
completamente i postulati della ragion pratica. Tale fu il caso dello
Schopenhauer. Non abbiamo bisogno di esporre la metafisica di questo filosofo
per mostrare come essa abbia una delle sue radici nel pensiero kantiano. È
necessario piuttosto domandarsi a questo punto se il pantelismo abbia in realtà
interpretato e svolto il pensiero . kantiano: fa d'uopo, cioè, ricercare se in
fondo i presupposti della filosofia morale e religiosa di Kant siano proprio
quelli che formano il caposaldo della metafisica pantelistica. Ora a tale
questione non si può che rispondore negativamente : chi ben considera, infatti,
l'insieme della filosofia kantiana nota subito come l’antitesi tra la filosofia
teoretica e pratica in realtà non sussista; giacchè in entrambe domina quella
che si potrebbe dire veduta formaliatica, nel senso che tanto nella conoscenza
quanto nell'attività pratica si distingue l'elemento a priori o formale, che dà
le note essenziali della necessità e dell'universalità dall’ elemento
materiale, il quale è empirico e quindi contingente, vario e relativo. Se non
che Kant, intendendo di costruire un sistema di morale pura ed elevata, volendo
dare alla morale un fondamento assoluto, comprese che bisognava ridurre al
minimum l'azione dell'elemento empirico per riporre ìil carattere normativo
della legge morale in qualcosa di fermo e di stabile; solo cosi il dovere era
fine a sè stesso. In tal guisa fu indotto a porre l'essenza dell’imperativo
categorico in una determinazione primitiva del volere umano, la quale non
poteva non esser formale. Sicchè mentre egli aveva considerato l’ elemento
formale della conoscenza (forme dell’intuizione e categorie), una volta
separato dall'elemento materiale, come vuoto, nella morale, per timore di
contaminare in qualche modo la purissima concezione etica, attribui un valore
assoluto all'elemento formale considerato per sè separatamente da ogni
determinazione derivante dall'esperienza. Da tal punto di vista è innegabile il
divario esistente tra la filosofia teoretica e quella pratica di Kant, ma chi
ben riflette sul principio dell'Etica kantiana s'accorge che il detto principio
formale implica in fondo un contenuto materiale, giacchè l'universalità della
regola nun può contenere per sè forza obbligativa, ma solo perle conseguenze
buone che ne derivano, cioè per l’accordo generale degli animi e per lo
svolgimento dei sentimenti disinteressati. In ogni caso il detto divario
autorizza forse a considerare giusta l'opinione di chi sostiene che il
pantelismo è niente altro che la continuazione e lo svolgimento di ciò che vi
ha di essenziale nella filosofia di Kant? Per risolvere una tale questione fa
d’'uopo ricercare quale sia l'essenza del pantelismo, affinchè dopo si possa
vedere se le vedute kantiane realmente coincidano con essa. Ora il pantelismo
.&fferma che fondo e sostanza dell'universo è il volere, ma, si noti, non
il volere umano, il volere cioè intimamente <compenetrato dall’intelligenza,
bensi il volere-forza, l’azione, l'operare per l’operare: ed afferma inoltre
l’assoluta supre.mazia della attività di fronte all'intelletto. La fanzione
‘conoscitiva, infatti, nelle sue varie forme e gradi non è per esso che qualcosa
di sussecutivo e di secondario, una specie di istrumento creato dall'attività.
É evidente che questa seconda affermazione è una conseguenza della prima, nella
quale propriamente sta il principio fondamentale del pantelismo. Ciò posto, chi
conosce lo spirito della filosofia kantiana non può far a meno di constatare la
profonda differenza esistente tra essa e il pantelismo, in quanto Kant ammette,
si, il primato del volere, ma del volere che è tutt'uno colla ragione, tanto è
ciò vero che egli parla di ragione pratica, onde non è lecito considerare come
propria della filusofia kantiana l’ affermazione della separazione assoluta del
volere e del sentimento dall'attività conoscitiva. Per quanti sforzi si
facciano non si riuscirà mai a togliere all'etica kantiana la caratteristica
sua propria che è quella di essere un'etica trascendente; ora chi dice ‘etica
trascendente dice etica che ha un fondamento speculativo ; il che alla sua
volta include l'affermazione dell’indissolubilità della morale dalla metafisica.
Non è giusto adunque riferirsi a Kant quando si afferma l'indipendenza assoluta
dellu morale e della religione dalla metafisica; in fondo il pensiero kantiano
è questo, che la conoscenza e la ragione per sè isolatamente considerate non
bastano a darci il fondamento assoluto dell’etica e della religione, per il che
si richiede la cooperazione di altre funzioni dello spirito o di altri momenti
della vita psichica (sentimento e volontà). L'etica e la religione però non
possono esistere senza che sia ammesso, sia pure in forma di postulato, un
qualche fatto d’ordine speculativo. Ciò che Kant ha affermato quindi non è la
supremazia o anche l'indipendenza assoluta del volere cieco di fronte alla
ragione, ma l'insufficienza della ragione isolatamente presa a farci penetrare
nel regno dell'assoluto e quindi la necessità della cooperazione del volere.
Dire adunque che il pantelismo è una conseguenza necessaria e legittima della
filosofia kantiana e dire che la concezione etica e religiosa propria del
pantelismo è nel fondo quella kantiana equivale ad affermare cose non
perfettamente conformi al vero. Noi ci siamo alquanto dilungati nell'esporre il
rapporto esistente tra il pantelismo ela filosofia kantiana in quanto le idee
del Paulsen, le quali, come ha potuto vedere chi ci ha seguito nella
esposizione analitica fattane, si riducono ad una forma di pantelismo, non
possono essere considerate come una vera e propria germinazione della filosofia
kantiana, ma vanno riguardate piuttosto come il prodotto della fusione di svariati
elementi, ai quali brevemente accenneremo. Per sintetizzare in brevi termini il
nostro pensiero intorno alla genesi storica delle vedute del Paulsen diremo che
i germi deposti nella sua mente dallo studio delle opere di Kant e di
Schopenhauer maturarono e si svolsero in modo particolare per la cooperazione
di molteplici altri fattori, quali i lavori compiuti dai neocritici, i
progressi delle scienze particolari, specialmente di quelle biologiche, e
l'allargamento della cultura in genere avvenuto negli ultimi anni. Secondo noi,
il Paulsen, spirito fornito di una grande potenza assimilatrice, ha preso da
Kant la purezza dell'intuizione morale, e la profondità del sentiment)
religioso, dallo Schopenhauer il concetto del primato dell’ attività di fronte
alla conoscenza e dalla cultura contemporanea la tendenza a considerare la
filosofia come la sintesi delle scienze particolari. Qui, si può domandare : Ha
il Paulsen fuso questi vari elementi in modo armonico da formare un'opera sotto
qualche rispetto originale ? È riuscito il Paulsen a presentarci una sintesi
vera dei vari tentativi fatti dallo spirito umano per dare una spiegazione
dell’enigma dell’universo ? A noi pare .che l'opera del Paulsen, notevole per
larghezza di vedute € per chiarezza e perspicuità nell'espressione, sia più che
una semplice introduzione o guida al filosofare, ma sia d'altra parte meno che
una concezione filosofica originale e. meno che una sintesi nuova e prcfonda di
sistemi anteriori. Sul modo di filosofare del Paulsen oltrecchè gli elementi
accennati disopra esercitarono una grande azione le speculazioni di Teodoro
Fechner. Questo filosofo (1), il quale è massimamente noto per aver fondato in
compagnia di Weber la Psicofisica, ebbe un modo proprio di considerare e di
Fechner, professore deli0’Università di Lipsia. risolvere i problemi filosofici
che merita di essere conosciuto.. Ed è notevole anzitutto che la Psicofisica
lungi dall'essere qualche cosa di estraneo, come a prima vista si potrebbe
supporre, alle sue idee speculative, non è che una parte integrante di queste:
il che apparirà chiaro dopo che avremo esposto ì punti principali del sistema
fechneriano. Secondoil detto filosofo adunque dal lato interno e psichico,. la
realtà piena e vera si trova nell’Unità suprema della coscienza divina, mentre
dal lato esterno o fisico vanno considerati gli atomi quali elementi ultimi
reali. L'Unita suprema della coscienza che tutte le altre unità di ordine
inferiore contiene in sè, si deve pensare analoga a quella umana; ed allo
stesso modo che vi sono delle unità di coscienza inferiori alla umana, come
quelle degli animali, delle piante, dei cristalli, ecc., così ve ne sono di
ordine superiore, intermedie quindi tra l’umana e la divina. Tali sono quelle
delle stelle, dei pianeti e degli astriin genere. L'Uno-Tutto abbraccia colla
sua coscienza tutte le unità di ordine inferiore, mentre queste non sanno di
essere comprese nell'unità superiore. La nostra vita terminata quaggiù, entra a
far parte di uua vita superiore e più elevata; non altrimenti che nella nostra
psiche una intuizione, quando sparisce come tale, sì conserva, o meglio rinasce
come ricordo in una sfera superiore dell'anima, così tutto il nostro spirito
perdura in un'esistenza spirituale superiore. Nel mondo di là gli spiriti non
sono più collegati mediante determinazioni spaziali, ma sono in un rapporto
reciproco più elevato, più intimo e insieme più libero. D'altra parte l’atomo
vero e proprio non può essere percepito, ma soltanto dedotto od astratto dal
complesso dei fenomeni corporei, e figura come il punto di riferimento di tutti
i nostri calcoli nelle scienze esatte. La prova della realtà degli atomi
risiede nella necessità di farne uso; e noi intanto arriviamo a concepirli, in
quanto l’analisi dei fenomeni corporei, spinta agli ultimi limiti, pone davanti
alla nostra mente questi elementi assolutamente semplici, i quali appaiono
condizioni essenziali dell’ interpretazione e del calcolo dei vari fenomeni
svolgentisi nell'universo. Il Fechner chiamala sua concezione idealistica in
quanto per essa è ammessa l’esistenza di una coscienza universale o totale, la
quale è come la condizione im:nanente dell’esistenza della materia ; la chiama
matertalistica in quanto con essa viene ad essere riconosciuto che non vi è
attività dello spirito, sia umano che divino, che non sia accompagnata da un
fenomeno materiale o di movimento ; la chiama dualistica in quanto per essa
anima e corpo appaiono irriducibili l’una all’altro; la chiama finalmente
concezione dell'identità in quanto per essa spirito e natura sono due modi
differenti d'apparire di uno stesso processo fondamentale. Ciò che vale a
controdistinguere la veduta del Fechner di fronte alle concezioni di altri
filosofi del nostro tempo, quali l'Herbart, il Lotze, è che egli non ammette in
alcun modo l’esistenza di sostanze finite, di reali indipendenti, ovvero anche
in connessione reciproca tra loro, ma aventi valore per sè. Per lui la realtà è
nel processo, nella vita, nell'attività universale ; le sostanze finite, o le
monadi non sono che fatti o processi di un ordine inferiore, i quali devono la
loro esistenza ad un processo simile, ma di ordine superiore. Una volta poi
ammessa così dal Fechner la dottrina dell'animazione universale e quella della
continnità e accrescimento graduale e ininterrotto della vita psichica e una
volta riposta l’essenza di quest'ultima non nella qualità semplice di un reale
o nella reazione di una sostanza inpenetrabile, bensi nello svolgimento del
processo universale attraverso a una quantità di momenti di vario ordine, è
chiaro che s’' imponeva l'esigenza non solo di mostrare la possibilità della
esistenza di una vita psichica latente, ma anche di rappresentarla, diremmo,
graficamente, andando in traccia delle condizioni, per cuì si rendono possibili
quei centri concreti di attività psichica che nella loro ordinaria funzione
ricevono il nome di anime. In altri termini, in base ai suoi concetti
speculativi, il Fechner fu spinto a ricercare una legge, poggiata possibilmente
sul calcolo e sull'esperienza, atta a dar ragione della discontinuità
rivelantesi nella ordinaria vita psichica. A tale esigenza risponde appunto la
legge psicofisica, colla quale viene enunciato il fatto che la sensazione non
comincia con uno stimolo infinitamente piccolo, ma solo con il valore limite
dello stimolo e che l'accrescimento della stessa cessa del tutto quando lo
stimolo ha raggiunto il limite clell’altezza che è il suo limite massimo. E qui
va notato che se si fa crescere l’ intensità dello stimolo, rimanendo fra il
limite minimo e quello massimo, non ad ogni accrescimento di stimolo tien
dietro un accrescimento di sensazione; lo stimolo deve crescere di un certo
grado, cioè del limite della differenza, perchè noi lo avvertiamo. Codesto
limite di differenza però non è una grandezza costante, ma dipende dal grado
d'intensità già raggiunto dallo stimolo e relativamente dalla sensazione, per
il che si può dire che il limite di differenza dello stimolo è proporzionale
all'intensità dello stimolo stesso. L' accrescimento della sensazione rimane
indietro all’ accrescimento dello stimolo, in maniera che l’intensità della
sensazione cresce solamente nel rapporto aritmetico (come 1, 2, 3, 4, ....);
laddove l'intensità dello stimolo cresce nel rapporto geometrico (come 1, 2, 4,
8, 16.....). | È chiaro che l’esistenza del limite inferiore ci guarentisce una
certa insensibilità, e perciò anche una certa indipendenza dai piccoli ed
innumerevoli stimoli, i quali, per così dire, senza posa ci vanno ronzando
attorno e che altrimenti ci sarebbero cagione di continue molestie. Dall’altra
parte il limite di differenza assicura alle sensazioni che entrano nella nostra
coscienza una certa durata, in quanto le preserva dalle variazioni degli
stimoli. L'impressione piacevole che si prova all'udire un pezza di musica si
fonda essenzialmente su questo fatto, che noi non percepiamo le leggiere
deviazioni dei suoni dalla consonanza e dalla partitura, giacchè esse sono al
di sotto del limite di differenza. I valori dei limiti inferiori sono
l’espressione della sensibilità per gli stimoli e per la loro distinzione, e
come tali, mutano non solamente da persona a persona, ma anche da tempo a
tempo, secondo il grado di stanchezza, di esercizio, di eccitamento o di
paralisi. La concezione fechneriana ha un'importanza superiore a quella che
d'ordinario le viene attribuita in quanto rappresenta uno dei più audaci
tentativi fatti in questi ultimi tempi per coordinare i risultati delle scienze
particolari con una costruzione quasi totalmente fantastica della Realtà. Il
Fechner in sostanza dice: il meccanismo da qualunque punto viene considerato,
figura come qualcosa di relativo; tutto ciò che é esterno in tanto ha valore in
quanto appare a qualcos'altro: pertanto l'essenziale va ricercato appunto in
questo qualcos'altro, l’esteriorità essendo semplicemente come un elemento
fenomenico concomitante. Ammesso: il principio che a tutto ciò che è tisico
corrisponde un lato psichico, è agevole pensare che a tutte le varie formazioni
fisiche (astri, pianeti, ecc.) debbano correre parallele delle corrispondenti
formazioni psichiche fino a giungere alla Coscienza universale che tutto in sè
contiene e comprende. Ora si domanda: Il fatto di dover ammettere un lato
interno, corrispondente a tutto ciò che appare meccanico o esterno autorizza a
porre senz'altro l’esistenza di determinate unità di coscienza intermedie tra
l’uomo e Dio? Che dritto abbiamo noi di credere che la coscienza universale
diffusa sì sia, acosì dire, differenziata in tali unità di coscienza
particolari, quando pur sappiamo che la formazione della nostra coscienza
richiede condizioni e processi speciali e di ordine complicato? Noi crediamo
che si possa é si debba accettare uno stato di psichicità o di interiorità
diffusa, 0scura, ma non crediamo che ciò tragga seco la necessità di ammettere
dei centri di coscienza distinti, intermedi tra l'uomo e Dio, giacchè i
fenomeni presentati dai vari sistemi di astri non possono essere risguardati
quali manifestazioni di coscienze determinate. Anzitutto notiamo che qualunque
speculazione a tal riguardo appare priva di valore, sia perchè essa siriduce a
un modo soggettivo e arbitrario di rappresentarsi ciò di cui noi non possiamo
avere che conoscenza astratta e incompleta, e sia perchè la conoscenza
dell’interiorità in tanto può aver significato in quanto giova al conseguimento
di fini pratici, agevolando il rapporto e il nesso reciproco degli esseri e il
perfezionamento che ne consegue. Quando per contrario l’interiorità figura come
qualcosa d’indifferente, come qualcosa di sfornito d'importanza, quando insomma
per poter utilmente agire sulle cose basta la conoscenza esterna fenomenica che
di esse abbiamo, la ricerca dell’interno va posta a livello di qualsiasi altro
gioco della fantasia. Noì in tanto ricerchiamo ed apprezziamo la conoscenza
dell'interno degli altri uomini in quanto da tale conoscenza ci ripromettiamo
dei vantaggi d'ordine teoretico (cognizione della natura dello spirito umano e
delle sue leggi) e d'ordine pratico. È per mezzo di essa che noi possiamo
utilmente agire sui nostri simili e su noi stessi, indirizzandoci a vicenda
verso il fine a cui crediamo che il genere umano tenda. Il Fechner poi crede
che ogni sistema di forze, che ogni determinato aggruppamento di elementi possa
essere considerato espressione di una distinta unità di coscienza; ora ciò
evidentemente non è ammissibile, giacchè occorre far distinzione fra quelle
coordinazioni di elementi che sono indizi o estrinsecazioni di unità di
coscienza realmente esistenti (unità di coscienza tn sé) e quelle coordinazioni
di elementi che hanno il loro fondamento nella coscienza del soggetto che
contempla i detti elementi. Così i vari sistemi in cui la mente umana ha
ordinato l'immensa molteplicità dei fenomeni, non depongono per l’esistenza di
unità di coscienza corrispondenti, ma hanno per presupposto l’esistenza di una
coscienza, diremo cosi, estrinseca, la -quale li ha formati, contemplando i
fenomeni: invece le coordinazioni presentate dagli organismi in genere sono
forme di estrinsecazione di unità di coscienza distinte. Il Fechner, avendo
identificato le due sudette maniere di coordinazione, si è creduto autorizzato
ad ammettere un'’unità di coscienza in ogni sistema. Ma si può qui domandare:
Vi è un criterio per distinguere quei sistemi che hanno per fondamento una
unità di coscienza estrinseca da quelli che ne hanno una intrinseca? Ognuno
vede la grave difficoltà di un tale problema; noi però crediamo di poterlo
risolvere, ponendo il carattere distintivo nella pro| prietà che ha l’unità di
coscienza veramente distinta (obbiettiva e di ordine elevato) di poter non solo
produrre | ed avere vari stati, ma di poter agire su questi. Noi solo allora
siamo autorizzati ad ammettere come espressione di un’ unità di coscienza
distinta un sistema di elementi, . quando abbiamo degli indizi sicuri non solo
che in tale sistema domina un'unità armonica e coordinatrice, ma che questa .
produce e modifica i vari stati in cui il detto sistema sì può ‘trovare. In
ogni altro caso si può parlare di coscienza universale diffusa, ma non di coscienza
distinta e molto meno . di coscienza di ordine superiore. Ciò posto, se noi
esaminiamo i fatti presentati dagli . astri, dai pianeti e da tutti quegli
oggetti che, stando a Fechner, sono manifestazioni di unità di coscienza
intermedie tra l’umana e la divina, noi troviamo che essi non presentano alcun
indizio dell'esistenza di qualcosa di superiore e di elevato capace di agire
sui propri stati; onde non è lecito estendere la coscienza distinta al disopra
dell'uomo che presenta in modo evidentissimo la caratteristica suaccennata. |
Concludiamo coll’osse rvare che la metafisica del Fechner, come quella del
Paulsen, non sfugge al rimprovero che si fa atutte quelle metafisiche che
sforzano la realtà, preten.dendo che l’ordine ideale di questa si realizzi per
una via diversa da quella che l’esatta ricerca scientifica dimostra vera. Tutte
queste metafisiche hanno in comune di esser modi di rappresentazione
dell’incondizionato, onde il meglio è di considerarle come mere ipotesi che nei
loro concetti e nelle loro linee più generali è bene tener presenti senza
lasciarsene dominare, affidandosi al progresso lento, ma sicuro dell’esatta
ricerca scientifica, la quale mentre da una parte insieme con tutta la cultura,
influisce sulla loro formazione, è dall’altra atta a decidere, con la
cooperazione. di altri elementi, del loro valore. La Vecchia e la Nuova
Frenologia La Nozione di “ Legge, L'origine delle tendenze immorali . Il senso
muscolare . L’obbietto della Psicologia fisiologica . La Filosofia dell’attività
F. Paulsen SAGGI FILOSOFIA SAGGI DI FILOSOFIA. LA MORFOLOGIA DELLA CONOSCENZA
IL PROBLEMA ESTETICO. IL PROBLEMA FILOSOFICO SECONDO BRADLEY TORINO CLAUSEN Chl
4225:2,3) HARVARD COLLEGE LIBRARY OC JACKSON FUND (1,49 2 / ro Li te nn a A SI,
io ae i Pa e - & &__cse-@hctemurrr nd TARA sr AIA CI I TTI AT E I O A I
I ZI I O i = 1° r_r_ it (i 7 E | vB8 AA ANI TE RE IE lr LA NOZIONE DI LEGGE. La
Classificazione delle Leggi o la Morfologia della conoscenza 0. Si è concordi
nell’ammettere distinzione tra la cono‘ scenza in generale e la scienza, in
quanto la prima implica semplice qualificazione della Realtà, mentre la seconda
include qualcosaltro ancora, include cioè la connessione necessaria degli
attributi caratterizzanti il Reale. Se la conoscenza in generale verte sul
particolare e sul concreto, la scienza si muove nell’ universale, nel
necessario, nel. Per ragioni che qui non è necessario esporre, fui costretto ad
anticipare di molti mesi la pubblicazione del 1° volume di questi Saggi, nel
quale è contenuta la Nozione di Legge La trattazione di questo importante e
difficile argomento rimase come strozzata; difatti l’ultima parte, da pag. 123
a 139, dove si parla di una classificazione delle Leggi, non è bene coordinata
col rimanente e, più che una discussione ampia sul detto argomento, è l'eco di
una serie di note prese per la più parte dalle Lezioni di Filosofia fatte dal
Masci all’ Università di Napoli negli anni accademici 1890-91-92. Riprendo ora
l'argomento interrotto, coll’ intento di dargli quello svolgimento che a me
pare che meriti. permanente, avendo per obbietto non il dato puro e semplice,
ma i concetti elaborati sul dato. Parrebbe adunque che la conoscenza esprimesse
un rapporto o un contatto più immediato colla realtà, essendo come l’
apprensione diretta di questa, mentrechè la scienza fosse come una forma di
appercezione mediata, compiuta, cioè, attraverso i concetti della nostra mente;
parrebbe di conseguenza che tra conoscenza e scienza vi fosse una differenza
sostanziale in modo da essere pressochè impossibile rintracciare, diremmo, la
morfologia, o la figliazione dei vari ordini di caratterizzazione della realtà.
Ora per veder chiaro in tale questione a noi pare opportuno determinar bene
anzitutto in che propriamente consista la conoscenza. Questa in tutte le sue
forme, a cominciare dalla semplice percezione a venire al concetto più
astratto, lungi dal presentarsi come un contatto, diremmo, mistico, di due
sostanze - il reale e la mente - poste l'una di fronte all'altra, figura come
un processo di appercezione, mediante il quale ogni elemento nuovo viene come
assimilato dagli elementi affini già esistenti nella psiche, di guisa che la
legge della relatività è la legge psichica fondamentale. Ciò posto, noi vediamo
che tra conoscenza pura e semplice e conoscenza scientifica non vi è differenza
sostanziale, essendo due stadii di un processo fondamentale identico: conoscere
equivale appercepire, assimilare, riferire l’ elemento nuovo ai già
preesistenti ; se questi ultimi, distaccati dal processo psicologico e
sottoposti ad un' elaborazione speciale, vengono considerati come simboli, come
segni per riconoscere ogni elemento affine che sopraggiunge, sì avrà la
scienza, in quanto i detti simboli sono appunto i concetti, gli universali che
rendono possibile l’ appercezione del singolo e del particolare: se per
contrario la forma appercettiva è incorporata nel processo psicologico si avrà
la semplice conoscenza. Onde consegue che qualsiasi forma di conoscenza implica
la cooperazione di un elemento universale (forma appercettiva), di un elemento
intelligibile, di qualcosa che trascende il fatto concreto particolare
attualmente in rapporto immediato col soggetto e insieme che non vi è e non vi
può essere una esclusiva conoscenza di fatti singoli e isolati: questi son
sempre appresi attraverso qualcosaltro che in certo modo li rischiara e li
illumina, che, in altre parole, li rende intelligibili. E che cosa è questo
universale attraverso cui noi appercepiamo qualsiasi fatto singolo? Se la sua
funzione è quella di rischiarare, di rendere intelligibile il dato,
idealizzandolo e in certa guisa universalizzandolo, esso si confonde con ciò
che propriamente si chiama legge. Questa infatti, come fu ampiamente discusso
altrove, è ciò che rende intelligibili i fatti singoli e concreti, o, ciò che
torna lo stesso, rappresenta ciò che vi ha d'’intelligibile negli ultimi, è la
loro stessa intelligibilità. Eccoci condotti adunque al risultato finale che il
dominio della legge si estende fin dove si estende quello della conoscenza e che
pertanto una classificazione razionale ed esauriente delle varie forme di legge
in tanto è possibile in quanto le varie specie di conoscenza sono intimamente
connesse tra loro da formare un tutto organico. Nè sembrerà inutile estendere
in tal modo la nozione di legge , se si pensa che in tal guisa soltanto s'
intende la natura vera del processo conoscitivo ed è resa possibile una vera e
propria morfologia della conoscenza. E poichè lo spirito umano non ha soltanto
la funzione conoscitiva, ma ha anche quella emotiva e volitiva, non è priva
d'interesse la ricerca dei rapporti esistenti tra queste ultime e la funzione
conoscitiva, per vedere fin dove estende il suo dominio il fatto conoscitivo e
per ciò stesso la legge. Ora vi sono dei prodotti dello spirito umano, quali
l'Arte, la Morale, la Religione, i quali sono da parecchi considerati come
estranei assolutamente alla conoscenza: l'Arte, la Morale, la Religione, si
dice, sono un prodotto del sentimento e della volontà e non già
dell’intelligenza umana; rella vita estetica, morale e religiosa proviamo delle
emozioni ed operiamo, ma non conosciamo. È vera l’affermazione di caloro che
pressochè escludono il momerto conoscitivo dai succitati prodotti dell'anima
umana? Noi crediamo che pur non essendo riducibili a meri sillogismi i fatti
estetici, morali e religiosi, non cessano però di contenere come lero momento
essenziale quello conoscitivo. Ed invero l'Arte e la Religione, esprimendo e
simboleggiando, ciascuna alla sua maniera, il Reale, che cos’altro fanno se non
qualificare lo stesso Reale? E la vita morale che sì esplica, mirando
all'attuazione di un certo Ideale di perfezione, che cos'altro fa se non
caratterizzare come progressiva e perfettibile la realtà stessa? L'Arte, la
Morale, la Religione non sono certo un prodotto esclusivo del ragionamento
reflesso, come credevano ì razionalisti, ma non sono nemmeno un prodotto
esclusivo del sentimento e della volontà, come vogliono gli avversari della
conoscenza, giacchè per poter significare e simboleggiare il Reale n i i it .$.
+ nm ©" - _ >= .,.>-bisogna aver una certa idea del Reale stesso,
altrimenti l'espressione manca di ogni punto di riferimento e quindi di ogni
significato. Ammesso anche che l’idea artistica, l’idea morale e l’idea
religiosa sia come il portato di date tendenze ed esigenze dell'anima umana,
ciò non esclude che qualsiasi determinazione estetica, religiosa, ecc. sia come
una maniera di conoscere e di sperimentare il Reale, giacchè le dette tendenze
ed esigenze (sentimenti e volizioni) involgono sempre un elemento intellettivo
o appercettivo. L'Arte, la Religione, ecc. sono poi come vari punti di vista,
come varie posizioni di prospettiva per poter ap-. percepire la realtà, per
modo che attraverso le differenti forme che esse assumono noi possiamo
comprendere i singoli fatti riferentisi alle rispettive sfere estetica,
religiosa, morale. D'ordinario si crede che un fatto estetico o religioso sia
qualcosa d’ individuale, di concreto, di singolare, qualcosa di chiuso in sè
stesso; ora ciò mal si concilia colla funzione universalizzatrice,
tipificatrice e idealizzatrice attribuita alla funzione estetica, religiosa e
morale. Lo spirito umano quando crea il bello e foggia il simbolo religioso o
pone l'ideale morale, attua i mezzi attraverso cui può intendere la
molteplicità dei fatti concreti e particolari riferentisi alla sfera dell’arte,
della religione e della morale. Nei casi suddetti adunque la mente umana da una
parte conosce, ha un certo concetto (comunque formatosi) del reale, e
dall'altra porge i mezzi attraverso cuì possono essere appercepiti una quantità
di fatti singoli e concreti che si presentano nella vita ordinaria. Allo stesso
modo che, perchè sia scoverta una legge scientifica occorre il Genio
scientifico, perchè sia scoverto un punto di vista: nuovo da cui appercepire la
realtà in ordine alla morale, alla religione e all'arte - punto di vista che
fissa l'orientamento in ciascuna di queste orbite sì richiede l'influenza del
Genio. In entrambi i casi il processo è sempre quello di appercepire e di fare
appercepire in un dato modo la realtà, di ordinare la molteplicità caotica dei
fatti singoli, il che equivale a dire che lo scopo è sempre quello di
caratterizzare e qualificare la realtà. In fondo ad ogni opera estetica, morale
e religiosa si trova poi un giudizio in cui vengono enunciate le diverse
manifestazioni o differenze di un’ identità fondamentale, un giudizio in cui
vengono esposte le maniere di articolarsi tra loro delle parti componenti un
tutto e in cui infine vengono enunciate le determinazioni possibili o ideali e
non attualmente reali. Si dice che mentre l'ipotesi scientifica è formata per
spiegare i fatti reali che da essa conseguono, le costruzioni ideali dell'Arte,
della Religione e della Morale sono prodotti arbitrari dello spirito, i quali
hanno la loro ragione in sè stessi; ora ciò è vero entro certi limiti per il
fatto che scopo dell’Arte, della Morale e della Religione non è quello di
spiegare il dato, bensì quello di presentare sotto nuova luce il Reale, di
mostrare cioè le varie direzioni entro cui lo stesso è concepibile. Sarebbe
erroneo però supporre che le costruzioni ideali summentovate siano destituite
di qualsiasi fondamento reale: esse poggiano invece sulla natura propria dell’
anima umana; e se non sono costruite in vista degli effetti che da esse
conseguono, stanno però sempre ad indicare le maniere in cui i dati della
realtà possono essere armonizzati tra loro. Anche l'Arte più spontanea e
immediata ha l’ufficio di sistematizzare, di portare un certo ordine nel caos
della realtà empirica. L'Arte produce un godimento più o meno intenso per il
fatto stesso che è espressione armonica di ciò che la vita contiene. La realtà
passata attraverso l’anima dell’artista assume una certa forma , per cui
vengono ad esser tolte le asperità dei dati reali e vengono ad essere come
smussati gli angoli presentati dal decorso delle cose. Non temiamo di metter
fuori un paradosso dicendo che le contradizioni più stridenti dell'universo
espresse dall’artista si trasformano in qualcosa d'armonico e di sistematico.
Sta in ciò il vero incanto dell'Arte, la quale per esprimere le dette
contradizioni, deve per forza renderle in qualche modo intelligibili,
trasfigurandole e facendone intravedere l’unità armonica, Si dice inoltre che
la scienza prova e dimostra, mentre l'Arte, la Morale e la Religione
semplicemente costruiscono : ciò è vero ed ha la sua ragione nel fatto che la
scienza vive e si muove nel mondo delle astrazioni e delle formule, mentrechè
le altre produzioni dello spirito umano si muovono nel mondo dei tipi concreti,
delle individualità. Ciò che è astratto e formale è immutabile e necessario,
mentrechè ciò che è concreto, ciò che vive, sfugge sempre per una parte alla
misura ed all'analisi quantitativa. A tal proposito giova ricordare che ogni
forma di prova e di dimostrazione in fondo è riducibile ad un rapporto di
identificazione. Provare, dimostrare equivale a valutare quantitativamente,
equivale a ridurre e ad identificare tra loro gli elementi formali (le forme)
di due cose o eventi. Può essere identificato solo ciò che presenta una
medesima qualità variabile quantitativamente, non già ciò che presenta qualità
differenti e irriducibili. Riassumendo, noi diciamo che in fondo ad ogni fatto
estetico, morale e religioso, non altrimenti che in fondo ad ogni fatto
scientifico, si riscontra un’idea, un concetto, il quale per essere
accompagnato nel primo caso da sentimento (interesse) non permane quale
concetto, ma col calore del sentimento si tramuta in fantasma, in rappresentazione
concreta, e ciò perchè il sentimento tende al concreto, al rappresentabile e
rifugge dall’astratto. Onde è chiaro che la diversità tra l’appercezione del
reale fornita dalla conoscenza scientifica e quella che ha luogo nel processo
estetico, religioso, etico sta in questo, che la scienza sia che muova dai
fatti singoli, o da concetti (ipotesi) o da principii generali, mira a spingere
o a far rientrare il particolare nel generale, mentre l'Arte, la Morale e la
Religione tendono sempre ad obbiettivare in forma di tipi o di sistemi
concreti, i concetti o i principii generali: tipi e sistemi che operano come
ideali, a cui si deve rapportare la realtà empirica ordinaria. Va notato qui
che la vita morale, estetica e religiosa da una parte e la scienza dall'altra,
pur seguendo una via diversa nel loro modo di procedere, concordano in questo
che in fondo tutte idealizzano l’esperienza o il dato e per tal via
simboleggiano il Reale; l'idealizza la Scienza riducendo i fatti a concetti e
l’idealizza l'Arte, la Religione e la Morale col presentare i concetti non
incorporati in una data rappresentazione singola, ma in una rappresentazione
generale, in una rappresentazione tipo atta a raccogliere ed a sintetizzare in
sè molteplici dati particolari. Giacchè a tal proposito non bisogna dimenticare
che l’Arte, la Religione o la Morale, se da una parte non volgono su concetti,
dall'altra non volgono su dati di fatto (come fa la storia e in generale le
cosidette scienze descrittive come la geografia, la cosmografia, la geologia),
ma su tipi, su ideali, su fatti dunque concreti universalizzati, considerati
sub specie ceternitatis. Per noi insomma la scienza elabora concetti
(universali astratti), le scienze narrative o descrittive riproducono fatti
concreti determinati col maggior numero di particolari possibili in modo da
richieder però sempre un ulteriore complemento, l’Arte, la Religione e la
Morale. hanno a che fare con tipi (universali concreti), con individualità.
Possiamo conchiudere col dire adunque che non vi ha funzione dello spirito
umano che non implichi il momento della conoscenza e che quindi tutte le
produzioni dello spirito- umano ci forniscono qualche maniera di appercepire la
realtà nelle sue svariate e molteplici determinazioni singolari. Alle varie
forme di appercezione corrispondono le varie specie di leggi. Dal fatto che il
processo della conoscenza è fondamentalmente uno e che esso si estende per
tutto il dominio dell’attività dello spirito non consegue che esso non presenti
delle notevoli differenze in modo da giustificare l'esistenza di varie
categorie di leggi. E invero, vi sono delle forme appercettive, le quali
agiscono come leggi nel senso che rendono possibile la comprensione e
l'intelligibilità dei dati singoli concreti, ma non possono essere distaccate
dal processo psicologico in seno a cui operano e quindi non possono assumere la
forma di giudizi, come le leggi vere e proprie, per modo che esse mentre
agiscono inconsciamente ed organicamente nella mente degli individui, non si
rendono appariscenti che ad uno stadio tardivo della riflessione. Di tal fatta
sono le forme appercettive inerenti agli stadii iniziali della vita psichica ed
ai prodotti elevati dello spirito quali l'Arte, la Morale e la Religione.
Volendo però presentare una prima (1) classificazione completa delle forme
appercettive o leggi, le divideremo in quattro grandi categorie, in forme o
leggi di riferimento o assimilative, in forme o leggi rudimentali, in forme o
leggi relazionali e in forme o leggi sistematiche. Queste non possono essere
formulate per via di giudizi, perchè sono anteriori alla formazione delle idee
quali segni del reale, anteriori al linguaggio significativo, anteriori al
distacco cosciente e voluto del significato dal fatto. Parrebbe a prima vista
che questa classe di leggi non avesse ragione di esistere una volta che esse
non possono essere enunciate, ed una volta che l'essenza della legge è stata
riposta appunto nel was, nel significato, nell’ elemento intelligibile
distaccato dalla realtà; ma, se ben si Diciamo prima classificazione, perchè,
come vedremo in seguito, sì può fare una seconda classificazione delle forme
appercettive, tenendo conto delle varie maniere in cui la conoscenza è
acquistata. + s- n ®* re i fi n e ca riflette, nel caso delle leggi
assimilative il processo d’idealizzazione esiste sempre, il was, pur non avendo
ancora trovato un'espressione decisa, e pur non essendo stato staccato dalla
matrice psichica, è attivo, è sempre in funzione, tanto è ciò vero che la
conoscenza di nuovi fatti è resa possibile appunto da tale modo di operare
dell’attività psichica. Se per legge si deve intendere ciò che rende possibile
l’appercezione di un nuovo elemento, perchè non dovrebbe meritare il nome di
legge ciò che rende | possibile qualsiasi forma rudimentale di conoscenza ?
Siffatte leggi concrete operano in tanti modi diversi in quanti si può
esplicare l’attività tipificatrice e assimilatrice della psiche. Lo studio di
queste forme è di esclusiva spettanza della Psicologia, la quale dà ragione del
nesso o delle relazioni esistenti tra i vari elementi psichici e della
ricognizione, fondandosi sulla funzione identificatrice della mente. Per
esprimere nel modo più chiaro il nostro concetto in ordine alle dette leggi,
diciamo che esse non sono propriamente leggi, ma funzionano come le leggi. 2.
Leggi rudimentali. Se il dominio della conoscenza coincide con quello della
legge, se cioè ogni forma di conoscenza implica una certa universalizzazione
del dato, è evidente che anche i giudizi enuncianti fatti singoli vadano considerati
come leggi rudidimentali o iniziali universalizzazioni dei fatti percettivi. Ed
invero, per convincersi come qualsiasi giudizio racchiuda come a dire, in modo
rudimentale una verità universale, giova tener presente in che propriamente
consista il giudizio. Molto si è discusso a tal proposito e non intendiamo far
qui la storia critica delle varie teorie emesse : a noi basta richiamare
l’attenzione su questo, che il giudicare non può ridursi all'affermazione o al
riconoscimento di una relazione tra due idee, come non può ridursi senz’ altro
all'affermazione di un dato nesso tra due cose. In entrambi ì casi viene ad
essere sformata la natura vera del giudizio, in quanto, se ben si riflette, in
tali casi le nozioni di verità e di falsità inerenti alla funzione giudicatrice
non ricevono alcuna spiegazione. Il giudizio nasce dal riferimento di un
contenuto ideale alla realtà, contenuto ideale che può essere o non essere
appropriato ad un dato fatto (verità o falsità di giudizio), per il che il
giudizio da una parte si eleva al di sopra dell’esperienza attuale e dall’altra
non è tutto nella sfera delle idee, avendo un punto di contatto colla realtà.
Il giudizio consiste nell’idealizzazione del dato. Rendere intelligibile il
reale, ecco l'ufficio del giudizio. Ora la legge che altro ufficio ha se non
quello di rendere intelligibile l’esperienza, estendendola e rendendola
continua nelle sue varie fasi o stadi? Se non che si potrebbero fare due
osservazioni: 1° non è chiaro come il giudizio che è costituito di termini
ideali, possa riferirsi al reale, al fatto obbiettivo che è sempre qualcosa
posto al di fuori della mente che giudica: 2° se si riesce perfettamente a
capire l’identificazione dello leggi coi giudizii universali e ipotetici i
quali poi sono ì più lontani dalla realtà concreta, in quanto si riducono a
connessioni di attributi o di qualità, d'idee e quindi di astratti , non si
riesce nient’affatto a capire come i cosidetti giudizii categorici (giudizii
singolari, impersonali, dimostrativi, ecc.) possano essere considerati come
leggi rudimentali, come fatti, diremo così universalizzati, considerati sud
specie aeternitatis. | Esaminiamo le due suesposte obbiezioni. 1° Come mai ogni
giudizio, sia percettivo o universale, può essere schematizzato nel modo'seguente.
Il reale è tale che... 0, Il mondo reale è così qualificato che... +, come mai
il giudizio si può ridurre ad un riferimento al reale, al reale indeterminato
in un caso e designato per mezzo di idee nell’altro? Certamente, se noi
consideriamo lo spirito umano come un’ entità a sè posta al di fuori della
realtà che gli sta di rincontro, se noi imaginiamo la psiche e l'universo come
due mondi staccati, estranei l’ uno all’ altro, non arriviamo a concepire come
possa stabilirsi il contatto dell’io col reale: ed oltrechè appare
incomprensibile la conoscenza quale peculiare relazione tra due mondi separati,
perchè si introduce il concetto di spazialità e di estensione e di uno fuori
dell'altro, dove non vi è ragione d'introdurlo, si è costretti poi a considerare
i fatti spirituali, i processi psicologici come una reduplicazione del reale.
Da tal punto dì vista il mondo ideale della psiche, pur essendo in
corrispondenza col mondo reale, è come qualcosa d’autonomo, di chiuso e
completo in sè, per modo che l'atto giudicativo p. es., lungi dal rappresentare
la qualificazione del reale, il prodotto del contatto del reale col subbietto,
è un processo del tutto ideale, avente soltanto il suo corrispettivo nel reale.
Ora tale veduta è del tutto erronea: lo spirito non è posto al di fuori del
reale, ma è, vive ed opera in esso: allo stesso modo che il fiore non è fuori
dell'albero, e questo non è fuori dal terreno e dall'ambiente esterno, da cui
anzi riceve nutrimento e tutto ciò che gli è necessario per la vita, così la
psiche non è fuori, anzi è intimamente collegata col reale, dal quale essa trae
la vita vera. Occorre aggiungere però che la mente, avendo per sua natura
l'ufficio di dare un significato, di obbiettivare il reale, il quale vive nel
soggetto, da una parte è contenuta nel reale e dall'altra lo contiene, in
quanto ciascuno costruisce il suo mondo coi materiali forniti dall'esperienza,
diremo così, psicologica, subbiettiva. Da tutto ciò consegue che il contatto
del reale col soggetto non è qualche cosa di accidentale, e di temporaneo, ma
rappresenta la condizione essenziale della vita di quest’ ultimo. L'individuo
sente continuamente tale contatto e per quanto mostri di allontanarsene col
qualificarlo, col determinarlo e specificarlo in varie guise mediante segni,
ipotesi, ecc., che sono sempre in ultima analisi astrazioni, .con tali processi
non ha altro obbiettivo che di trovare un’cspressione intelligibile e
schematica della realtà che vive, agisce ed opera in lui. Se noi seguiamo il
processo graduale con cui si passa dal soggetto (reale), quale è espresso in
modo indeterminato nei giudizi rudimentali (giudizi impersonali), al soggetto
espressu mediante indicazioni, ma sempre privo di qualificazioni e di
specificazioni (giudizi dimostrativi), per venire al soggetto designato da
un'idea (giudizi universali ipotetici), noi troviamo che lo scopo ultimo a cui
sì mira è di illuminare la realtà a cui noi ci sentiamo legati mediante la
nostra stessa vita. Con ciò non si vuol dire che la realtà consiste esclusivamente
nel contatto che noi abbiano con essa nella percezio..e sensoriale: la realtà
si estende in modo continuo oltre tale. punto; ma vogliamo affermare che il
reale così sentito è come il punto di ritrovo per formare la base di operazione
ideale che ha per risultato la concezione generale o la costruzione
dell’universo. Noi possiamo conchiudere che la realtà, essendo primitivamente
la realtà quale è pusseduta da ciascun di noi, in ogni giudizio è rappresentata
da una data percezione o idea atta a designare il fondo reale, che così viene
ad essere in qualche modo determinato. Se ciò non avvenisse, il reale
rimarrebbe qualcosa d'inesprimibile e d’innominabile. Quando ciascuno di noi
formula un qualsiasi giudizio, certamente non ha coscienza di fare delle distinzioni
nel reale per riconoscere la loro identità fondamentale: quando io dico la neve
è bianca , certamente non penso che il processo logico vero è questo : quella
cosa, quel reale che è neve è bianco , oppure -la realtà è qualificata anche
dall’idea complessiva neve-bianca ; ma ciò avviene, perchè noi fondiamo il
reale con quella parte di esso, che noi in un dato momento riesciamo a
distaccare dal fondo totale in virtù dell’ interesse che la detta parte suscita
in noì. Se il nostro potere appercettivo non fosse limitato, e se il processo
mentale non si riducesse in fondo ad una simultanea sintesi ed analisi, noi non
formuleremmo i giudizii nel modo in cui facciamo. Noi, in sostanza, da un
complesso percettivo per ragioni di varia natura, separiamo una parte e questa
qualifichiamo col riferirle un dato contenuto ideale: ma la parte anzidetta non
è un semplice aggettivo, un'idea qualsiasi, un universale ‘astratto, ma è come
il sostitutivo abbreviato della realtà, è come la realtà contratta in punto,
perchè ciò agevola la nostra operazione. In qualsiasi giudizio adunque ciò che
forma il nerbo dell'operazione logica è l’idea, onde sorge la necessità di
determinare in che consiste l’idea o contenuto ideale, che mediante la funzione
giudicatrice vien riferito alla realtà. La vita psichica fin dall'inizio è
controdistinta dalla tendenza a tipificare. Dal momento che il contenuto della
psiche dapprima indistinto e indeterminato, comincia ad essere differenziato,
analizzato e riconosciuto suscettibile di determinazioni di vario genere, degli
elementi vengono, per così dire, staccati dall'insieme: e son questi elementi
astratti ed universali che rendono possibile l’ apprendimento di nuovi fatti
particolari e concreti, in rapporto all'eguaglianza od all’ identità che taluni
elementi di questi ultimi presentano coi primi. Come si vede, fin dall’inizio
l'attività psichica si esplica universalizzando, fissando, cioè, l'elemento
essenziale, e comune ad una serie di rappresentazioni concrete diverse,
ripetentisi un certo numero di volte, per servirsi di esso come mezzo di
intelligibilità di altri fatti particolari. Non è a credere però che tale
elemento universale e identico sia da considerare come qualcosa di sostanziale,
come un fatto avente sede in un sito della psiche: una tale concezione mitica
deve essere assolutamente bandita: siffatto elemento universale si riduce ad
una funzione della mente, ad una forma di attività più facilmente esercitata,
ad una specie di abitudine, ad una facoltà, ad una potenza viemaggiormente disposta
ad ‘entrare in azione in seguito a dati stimoli ed a particolarizzarsi
variamente secondo le condizioni. Ma finchè l universale contenuto nella mente
non si fissa e sì determina in un segno (nome), e fin che questo colla imagine
psichica (rappresentazione particolare) concomitante, non è risguardato qual
simbolo avente un significato relativo a qualcosa di permanente, per sè
esistente al di fuori della mente, non è a parlare di idea nè di funzione
giudicatrice. Per modo che noi possiamo affermare che, affinchè si abbia l’idea
e il giudizio (i quali sono inseparabili fra loro, giacchè l’idea in tanto è
idea in quanto, mediante il giudizio, viene considerata come segno, come |
qualità, come attributo riferibile al reale, in quanto, cioè, mediante la funzione
giudicatrice l'elemento ideale viene consciamente riconosciuto separabile dal
fatto), è necessario che l' universale, che dapprima operava inconsciamente
nella mente, essendo per così dire incorporato nel fatto o processo psichico
concreto, venga ad essere riflessivamente distaccato da questo e considerato
per sè, venga ad essere riconosciuto mezzo appropriato a rendere intelligibili
i fatti concreti. Tale universale è particolarizzato e concretizzato in
un'imagine psichica (nome e rappresentazione particolare), la quale è
riguardata come sostituibile da qualsiasi altra omogenea e quindi fornita di
valore vicariante. Riassumendo, noi possiamo dire che l'idea si riduce a
quell’elemento universale, astratto ed addiettivo (qualità o relazione) che,
particolarizzato in un segno (nome o imagine psichica sostituibile per mezzo di
una qualsiasi altra), vien considerato come simbolo avente un significato
obbiettivo. È evidente che le idee come idee non possono esistere al di fuori
della mente del soggetto: se esse sono degli astratti universali (aggettivi),
non è possibile che esse abbiano un'esistenza indipendente. Lo spirito umano,
non potendo penetrare nel cuore della Realtà, non potendo ‘vivere la vita del
Tutto, sì contenta di analizzare e di determinare il contenuto di essa mediante
qualità e relazioni, le quali se si riferiscono, se accennano, se simbo
leggiano il Reale, non vanno identificate con questo. Sicché le idee da una
parte non sono semplici fatti psichici e dall'altra non sono realtà, ma sono
segni del Reale. Il fatto psichico concreto diviene idea logica non appena esso
è fissato e riferito, il che può avvenire soltanto mediante la denominazione,
denominazione che indica obbiettivazione, e che è da considerare piuttosto un
segno dell'atto intellettuale (giudizio) che l’atto stesso. Vien data così la
forma esplicita del giudizio a ciò che prima era soltanto un fatto psichico
concreto, una rappresentazione forse persistente, perchè identica in sè stessa
attraverso i mutamenti e le differenze, ma sfornita di qualunque riferimento
cosciente a qualche cosa di obbiettivo. Da tal punto di vista idea e giudizio
sono coevi e proce dono di pari passo, giacchè il secondo lungi dall’essere una
combinazione meccanica di parti esistenti l'una fuori dell'altra (impressioni,
idee, concetti), è l’espressione, forse la sola vera espressione, come dice il
Bosanquet, dell'unità della coscienza ed è il generatore di ogni idea o
concetto. Il giudizio può contenere idee complesse, ma in quanto giudizio,
presenta il contenuto di una sola idea, la quale esiste solo nell’atto del
giudicare. É l’astrazione che separa i due elementi intimamente compenetrati
tra loro. E qui cade in acconcio notare che quando noi abbiamo dei dubbi circa
l’esistenza di un giudizio vero e proprio (negli animali p. es.), il miglior
modo d'assicurarsi è di ricercare se in ciò che sì suppone attività
giudicatrice vi sia qualche cosa che possa essere in modo intelligibile negata
(di cui sia possibile la negazione e la falsità); invero ciò che rende possibile
.il giudizio è il distacco dell'ideale dal reale, del vas dal dass, si è la
formazione dell'idea quale esiste nella nostra mente, idea che è vera soltanto
se effettivamente compete alla realtà. Fino a tanto che noi non abbiamo ragioni
per credere che nell’ intelligenza degli animali esistano delle imagini aventi
un dato significato obbiettivo, dei fatti psichici atti ad essere riferiti a
qualche cosa che trascende l'attualità psichica, noi non possiamo parlare di
attività giudicatrice: niente, infatti, in tali casi. può essere
intelligibilmente negato, non l’esistenza dello idee adoperate nel giudizio,
non l'affermazione del loro significato. | 2° Passiamo ora alla seconda
obbiezione. Come è possibile considerare i giudizi categorici quali leggi rudimentali?
L’obbiezione a prima vista presenta delle difficoltà insormontabili: da una
parte abbiamo i giudizi universali ipotetici, i quali effettivamente enunciano
dei principii, delle verità d’ordine generale e possono essere considerate
delle vere e proprie leggi, e sono quanto di più lontano si possa immaginare
dalla realtà determinata e concreta , dall'altra abbiamo i giudizi categorici,
i quali sono realmente qualificazioni del reale, ma esprimono verità
contingenti, particolari. Per convincersi se e fino a che punto i giudizi che
asseriscono semplici fatti (giudizi categorici) siano da considerare come leggi
rudimentali, è bene anzitutto enumerarli rapidamente, affinchè possano essere
resi evidenti i caratteri che li contraddistinguono. Qui, prima di andare
innanzi cominciamo col notare che non esistono giudizi enuncianti la semplice
esistenza del dato, ma sempre giudizi enuncianti qualche maniera di presentarsi
di esso, enuncianti quindi qualche qualificazione, qualche attributo o
relazione: anche i cosidetti giudizi storici non esprimono puramente
l’esistenza dei fatti, ma, se non altro la relazione dei fatti in ordine al
tempo ed allo spazio, per modo che questi figurano come forme appercettive atte
ad ordinare ed a caratterizzare in qualche modo l'insieme dei fatti accaduti.
Questi ultimi vengono riprodotti in maniera particolare in rapporto allo spazio
ed al tempo, i quali così vengono a dare una rudimentale universalizzazione ai
dati concreti. Occorre notare chie il sapere di una cosa di fatto è vero nel
momento in cui si formula il giudizio: in un altro momento potrebbe cessare di
esser vero, ma in tal caso il sapere che se ze aveva prima non sarebbe divenuto
falso, pevchè esso si riferiva allo stato di cose che aveva luogo nel primo di
quei momenti e rispetto a tale stato di cose il sapere che se ne aveva e che se
ne ha è sempre vero, esprime un nesso, rudimentalmente quanto si vuole, ma
sempre necessario ed universale tra il soggetto e l’attributo in quel dato
punto del tempo e dello spazio. Dicevamo adunque che non esistono g.udizi
puramente esistenziali e ciò si comprende agevolmente se sì pensa che l’idea
della realtà o dell'esistenza, come l’idea del dato, del questo, non è un'idea
come le altre, non è riducibile ad un ordinario contenuto simbolico, il quale,
distaccato da una determinazione attuale del reale, possa essere adoperato
senza tener conto più di questa, ed essere riferito, diremo così, a
qualcosaltro. Le idee d'’ordinario sono per così dire estratte da un dato fatto
o da una serie di fatti e poi possono essere riferite ad un nuovo fatto
(simile, analogo o identico) che sopraggiunga: ora ciò per l’idea del dato non
può avvenire, appunto perchè in tal caso l'idea è inconcepibile per sè presa:
l’idea del dato non può riferirsi che a ciò che è dato: ma, si domanda, a quale
dato? al dato con cui il soggetto si trova attualmente in contatto? ma questo è
un processo ozioso, inutile e insignificante, perchè non vi è alcun bisogno di
asserire che la realtà è reale quando io mì trovo a contatto della realtà: si
può sentir bisogno di qualificare in qualche molo la realtà presente nella
percezione, ma non di affermare che è reale. E, se ben si riflette, tutto le
volte che si ricorre all’ enunciazione grammaticale di un giudizio esistenziale
è sempre per asserire in modo più o meno celato e inconscio qualche attributo o
qualche relazione del dato. È inutile aggiungere che l’idea del dato non può
essere riferita a ciò che non è dato, perchè in tal caso si cadrebbe in
contradizione. Da ciò emerge chiaro che l’idea di esistenza non è mai un vero
predicato. I In altre parole, l’esistenza non è una nota, una qualità, una
determinazione che si possa aggiungere idealmente ad una cosa. La realtà, il
dato, l’esistenza è sostantivo e non aggettivo, vale a dire, non è elemento
astratto ed universale atto ad inerire,. a caratterizzara qualcosaltro. La
nostra niente può - formare anche l’idea della realtà, ma questa è infeconda,
non può estendere nè ampliare il nostro sapere: essa non ha consistenza come
elemento isolato e per sè preso, essendo inseparabile dal fatto da cui la
nostra mente l’ha per un istante disgiunta. Vi sono delle note, delle
determinazioni, degli universali astratti, delle idee che noi possiamo o non
possiamo attribuire ad una cosa, e ve ne sono anche di quelle che non possono
essere negate senza sformare la cosa, ma non ve ne sono di quelle che
qualificano la cosa come cosa, come reale. L'essere cosa (l’esser reule) non è
una nota come un’altra: tolta essa non rimane più nulla, non già che rimanga
qualcosaltro che non sia quella cosa. Essa può essere per un istante
considerata come nota, ma come nota d’un ordiae speciale, come nota sostanza
che trae seco per forza il dato. Reale non può essere che l'aggettivo della
realtà: l'essere una cosa non può essere predicato che di una cosa; mentrechè
una qualsiasi altra idea può essere predicato di questa o di quella cosa.
Nell’enumerazione dei giudizii somme ai semplicì fatti seguiremo lo schema di
BOSANQUET – citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become
the life and opinions of H. P. Grice” -Giudizio qualitativo propriamente detto,
enunciante una qualità sensoriale: es. ‘COME’È CALDO’ -- sott’intendi l’acqua,
la stanza, ecc.; giudizio interiettivo esprimente un'emozione, o meglio, l’idea
di un’emozione, nei quali, dal fatto psichico emotivo è distaccata l’idea come
SEGNO di esso: es. ‘Cattivo!,’ ‘Che dolore!’. Al giudizio propriamente
interiettivo fa d’uopo aggiungere il giudizio o meglio, la proposizione
imperativa, precativa, ammirativa, interrogativa, ottativa, ecc., con le quali
espritiamo un comando, una pres -- Giudizio impersonale. Es. ‘Piove.’ Giudizio
percettivo, enunciante un fatto presente che viene esteso per mezzo di idee,
rappresentazioni, imaginì, ricordi riferentisi a ciò che non è attuale. Es.
quando noi riconosciamo un individuo e lo chiamiamo per nome, not vediamo chi
egli è , abbiamo la percezione di lui, Giudizio dimostrativo, il quale ha per
soggetto questo ora qui . Es. ‘Questo è freddo’, ‘Ora piove’, ‘Quì è buio,’ Tutti
questi giudizi presentano a prima vista la caratteristica comune di riferirsi
direttamente al reale, qualificandolo variamente. Il loro soggetto esprime, in
modo indeterminato, senza alcuna specificazione, cioè, per mezzo di idee, il
contatto del reale col soggetto; dal che si sarebbe tratti a conchiudere che
siffatto giudizo è agli antipodi di ciò che ordinariamente si chiama legge.
Questa, infatti, è universale e astratta in quanto esprime la sintesi di
attributi, di due aggettivi e viene formulata per mezzo di un giudizio
ipotetico : il giudizio categorico della specie summentovata è invece
individuale, concreto in quanto caratterizza, qualifica direttamente il dato e
viene ad esser riferito a ciò che esiste per sè. Il giudiziolegge, come
ordinariamente è inteso, non esprime che la ghiera, un sentimento di meraviglia
e così via. Questi giudizi non vanno confusi con le espressioni emotive
corrispondenti, giacchè essi sono resi possibili dal distacco dell'idea dal
fatto psichico concreto. Il fatto psichico è individuale, soggettivo e affatto
incomunicabile (è sentito), mentrechè l’idea formata mediante il giudizio,
mediante il riferimento di una qualità od attributo comune ad un fatto psichico
concreto sentito, è comubicabile, universale, obbiettiva (è intesa).
conseguenza di una data supposizione senza dir nulla circa. la realtà dei suoi
termini; che esista o no nella realtà un triangolo, che esista o no nel fatto
in un dato momento e agisca o no nell'organismo un dato veleno, la legge
matematica riferentesi al triangolo e la legge biologica relativa all’ azione
di un veleno sull'organismo è sempre vera. Lo stesso non si può dire del
giudizio categorico, il quale enuncia, qualificandolo, un fatto quale è
attualmente, non nella sua possibilità, tanto è ciò vero che in esso il
soggetto non può essere negato in modo intelligibile, vogliamo dire che il
soggetto non essendo specificato e determinato in alcuna maniera, non può
subire alcuna alterazione senza cessare di esistere del tutto, e non soltanto
come tale e tale altro. A prima vista adunque si direbbe che tra i giudizi
categorici summentovati e quelli ipotetici o leggi vi sia assolutamente un
abisso: il che poi menerebbe alla conseguenza che mentre i giudizi, diremo
così, rudimentali, esprimerebbero effettivamente delle qualificazioni del
Reale, i giudizi ipotetici universali enuncierebbero soltanto delle relazioni
tra idee. Ora è ciò vero? Prima di tutto richiamiamo alla mente qual’è
l’essenza e l’ufficio della funzione giudicatrice. L'essenza e l’ufficio del
giudizio è, per così dire, di simboleggiare il fatto, di trasformare il solido
fatto (mi si passi la similitudine) nella volatile idea, di sostituire a ciò
che non può essere oggetto di scambio un qualcosa che ha valore in quanto
segno, e che è facilmente comunicabile : ora ognun vede che, affinchè ciò
avvenga, è necessario che il fatto sia universalizzato : e che cos’ altro è mai
la legge se non l’ universalizzazione e il processo ideale (astrazione)
praticato sul fatto? Ciò non basta: noi abbiamo detto che il giudizio si riduce
al riferimento di un contenuto ideale alla realtà, il che vuol dire che il
giudizio non è la semplice espressione di una modificazione soggettiva
sopravvenuta in seguito al contatto della realtà col soggetto, come sarebbe il
grido erompente dalla bocca di chi sì trova in un stato emozionale, ma è un
processo per cuì la modificazione del soggetto a contatto del Reale viene
appercepita per mezzo di qualcosa di universale che mediante l’atto giudicativo
stesso assume una certa configurazione per mezzo della parola, passando dallo
stato di potenza o di funzione virtuale in atto funzionale. Ora l'importante è
questo, che quando l'atto giudicativo più rudimentale si compie, non è a
credere che il fatto rimanga, dopo che ad esso è stata riferita l’idea, sempre
fatto inalterato: un tale modo meccanico di concepire il giudizio non è
ammissibile, perchè non esiste il fatto da una parte e l’idea dall'altra :
l’idea esiste in quanto si riferisce al fatto e questo messo in rapporto con
l’idea, non è più un semplice fatto qualsiasi, ma è come a dire idealizzato, è
alterato in rapporto al contenuto dell’ idea. Alcuni dei molteplici,
innumerevoli elementi costituenti il dato vengono lasciati da parte ed altri
vengono ad emergere, perchè armonici coll’idea. Insomma quando un qualsiasi
giudizio si formula, il contenuto reale reagisce sul dato, trasformandolo in
qualcosa di universale e di astratto, per modo che in ultima analisi si ha
sempre una sintesi ideale di addiettivi. E del resto, se ben si riflette, si
vede subito che, tolto al giudizio il carattere di universalità, esso non ha
più ragiono di esistere, in quanto diviene un atto del tutto soggettivo,
individuale e quindi qualcosa d'inesprimibile, d'incomunicabile e
d’inintelligibile. Quando formulo un giudizio sensoriale qualitativo o
interiettivo, quando io dico, ad esempio, ho dolore al dito , io in sostanza
af-_ fermo un qualcosa d’universale, nè può esser diversamente, giacchè in caso
contrario primamente non sarei inteso da nessuno e poi tale giudizio
difficilmente potrebbe essere ripetuto, mentrechè è innegabile che esso viene
enunciato innumerevoli volte nelle condizioni più diverse. Il mio dolore al
dito non è quello di un altro: se ne differenzia per rapporti di tempo, di
spazio e per una molteplicità di circostanze, per modo che io dall’ insieme
della realtà quale mi è presente in un dato punto, astraggo un elemento per
metterlo in rapporto con un'idea (segno). Tale elemento astratto è
indeterminato; non è specificato o qualificato in alcun modo e quindi non è
un’idea, ma d'altra parte non si può dire che sia senz'altro il fatto, il reale
nella sua grande complessità di elementi; è piuttosto la configurazione della
realtà quale è in me in un dato momento. Da ciò consegue che i cosidetti giudizi
rudimentali in quanto sono manier e di rendere intelligibili i fatti concreti
mediante idealizzazione ed astrazione, sono delle vere e proprie leggi. Con ciò
non si vuol dire che il giudizio è fuori la realtà, giacchè esso anzi è
impiantato in questa, ma, poichè al suo compimento è necessaria la
determinazione e la configurazione del reale, esso, pur avendo le sue radici in
questo, cresce, si ramifica, si svolge nell’ atmosfera dell’ ideale. In breve,
noi crediamo che i giudizi categorici rudimentali siano delle leggi iniziali,
perchè i loro soggetti pur indicando, per così dire, i punti in cui la realtà è
presente all’individuo, non esprimono questi nella loro complessità e
compiutezza, tanto è ciò vero che io adopero siftatti soggetti, anzi formulo
gli stessi giudizi in condizioni diversissime: e non basta ; li adopero e li
enuncio io come li adoperano e li enunciano gli altri uomini in circostanze
disparatissime: il mio questo , il mio qui , il mio ora , non è quello di un
altro, pur venendo denotati in modo identico. Ma da ciò si deve forse trarre la
conseguenza che i giudizi categorici rudimentali e gli ipotetici universali
siano perfettamente identici tra loro e che pertanto qualsiasi forma di
giudizio sia una vera e propria legge scientifica? No certo: noì dicemmo che i
giudizi concreti categorici sono da considerare come leggi rucimentali, val
quanto dire come germi di leggi e non come leggi addirittura: ed infatti quando
noi in tali giudizi poniamo in relazione un'idea con un soggetto indeterminato,
siamo nell’impossibilità di indicare la natura, le condizioni e i limiti della
sintesi del predicato col soggetto. E il compito della scienza è appunto quello
di analizzare, di determinare e quindi di idealizzare il soggetto
indeterminato, di andare in traccia e porre in evidenza quegli elementi di esso
che formano un tutto indissolubile col contenuto ideale espresso nel predicato.
Con tale processo è evidente che ci veniamo allontanando dal fatto concreto
complesso, giacchè l’analisi, come la dissezione dell’organismo, mentre ci
allontana dalla vita vera e propria, ci fa conoscere gli elementi dalla cui
cooperazione la vita stessa risulta. Noi coi giudizi categorici di cui ci
occupiamo, esprimiamo, si, una sintesi ideale fino ad un certo punto tra due
universali, ma detta sintesi non è necessaria, non è permanente, non è
generale, nè assoluta appunto perchè, essendo indeterminato il soggetto, questo
può presentarsi sotto le forme e le condizioni più svariate, per modo che un
medesimo contenuto ideale, una volta si trova connesso con un dato soggetto, ed
un'alira volta con un soggetto molto differente. Un dato contenuto ideale una
volta sì trova connesso con un questo , con un qui , con un ora >, ed
un’altra volta con un questo , con un qui e con un ora , il cui contenuto è
differente da quello del primo. Conchiusione: i giudizi qualitativi‘ in
generale non sono leggi vere e proprie, non sono cioè giudizi universali
astratti ed ipotetici, ma leggi rudimentali, giudizi implicitamente universali
ipotetici, in quanto non volgono sulla realtà nel suo insieme, ma su alcuni
elementi di essa che non hanno un'esistenza propria per sè considerati. La
legge, come il giudizio, serve a qualificare ed a rendere intelligibile il
reale: ora le leggi ed i giudizi di cui . ci siamo occupati finora hanno per
compito di riferire, di attribuire una qualità al Reale: le leggi e i giudizi
di cui c’ intratterremo al presente hanno l’ufficio di predicare del Reale una
relazione. Una volta che il giudizio è tale un’ operazione logica che ha
necessariamente per risultato l’azione reciproca del soggetto sul predicato e
di questo su quello, è evidente che se i giudizi-leggi categorici sono
intimamente connessi con i giudizi o leggi ipotetiche in quanto entrambe
rendono intelligibile il dato, dall’altra si presentano con note distinte in
quanto i primi attribuiscono al reale una qualità e gli altri una relazione di
qualunque genere quest’ultima sia, sia, cioè, una relazione di quantità, di
ragione o di causa. È in questa seconda categoria che vanno comprese tutte le
leggi scientifiche propriamente dette, quelle connessioni necessarie ed
universali che sono come la struttura di tutte le scienze speciali. | Prima di
discorrere partitamente delle varie sottospecie delle leggi relazionali (leggi causali,
leggi razionali e leggi puramente quantitative), analizziamole in ciò che hanno
di comune, ponendole in rapporto con le leggi che potremmo dire ora
qualitative, In queste ultime si attribuisce una semplice qualità al reale, per
il che questo viene ad essere come limitato in un punto, viene ad assumere la
configurazione del campo attuale della coscienza, del campo su cui è fissata
l’attenzione in un dato momento: finchè noi non abbiamo che qualità da
attribuire al reale non sentiamo il bisogno di fare distinzioni entro il
contenuto della coscienza, e di stabilire in modo cosciente dei rapporti tra i
termini distinti. Esso nella complessità ed indeterminatezza in cui appare al
soggetto, è senz’ altro qualificato; e poichè nessuna distinzione, o determinazione
sì è praticata, l'affermazione non può varcare ì limiti di tempo e di spazio in
cui è fatta ed ha carattere prettamente categorico. Essa si rapporta in modo
più diretto all'esistenza, perchè non compie alcun atto di astrazione su ciò
che immediatamente si presenta al soggetto; il fatto, essendo semplicemente
qualificato, non è per così dire allontanato dalla sua matrice reale, come
avviene nel caso che molteplici operazioni logiche hanno contribuito ad
idealizzare il dato, distaccandolo più o meno completamente dai rapporti di
tempo, di spazio e dalle condizioni svariate che contribuiscono alla
concretizzazione. Nelle leggi relazionali, al reale non è più riferita una
qualità, qualcosa di semplice, un termine isolato, ma una relazione, val quanto
dire un nesso di due termini, il che suppone che il dato sia stato obbietto di
determinazioni e di distinzioni e quindi obbietto di un processo di astrazione
; per il che si è entrati nel dominio dell’universale, nel dominio di ciò che
non si riferisce ad un punto determinato dello spazio e del tempo, ma ha valore
sempre e dappertutto. E poichè l'attenzione è segnatamente fissata su ciò che
ha il maggior interesse attualmente, vale a dire sulla relazione, sul nesso
esistente tra i due termini in cui è stato distinto il contenuto ideale del
dato, è chiaro che la detta relazione deve essere significata in modo da
informare tutto l'atto giudicativo. Il centro di gravità della funzione
giudicatrice si sposta, in quanto è una data forma di caratterizzazione, è la
connessione che viene ad essere obbietto del giudizio : il dato, avendo perduto
la sua concretezza, entra come nell’ ombra della coscienza, mentrechè il nesso,
la relazione viene ad occupare il primo posto nella visione mentale. Il dato è
come presupposto e la forza del giudizio si esplica nell’ affermazione del
nesso, Se la legge dell’ economia non avesse vigore nelle funzioni spirituali e
nelle espressioni del linguaggio, avremmo nel giudizio l’esplicazione chiara di
tutto il processo nelle varie sue parti; si preferisce invece di tacere, di
sottintendere ciò che non è assolutamente indispensabile di esprimere (il dato)
e di significare in maniera completa il nesso in cui sta propriamente il nerbo
del giudizio. Ma donde e come sorge tale relazione che vien riferita al reale?
Perchè il contenuto ideale viéne analizzato e distinto in termini, tra cui è
riscontrata una determinata relazione ? Il motivo per cui il contenuto ideale
viene al essere analizzato nei suoi elementi o in termini tra cui poi intercede
un rapporto fisso, è la percezione di un mutamento concomitante e coordinato
nelle varie parti componenti il tutto qualitativo o il contenuto ideale. Finchè
questo non presenta alcuna variabilità nei suoi fattori e finchè questi ultimi
non variano in modo coordinato, in modo che la determinazione dell’ uno tragga
seco quella dell’ altro, non ha luogo alcun processo di analisi, di distinzione
di termini, nessuna relazione è riconosciuta e fissata, e quindi nessuna
relazione può essere riferita al reale. In seguito a ciò sì comprende
perfettamente come le leggi relazionali siano dei veri e propri giudizi
ipotetici universali, coi quali si viene ad affermare la connessione del
conseguente con l’ antecedente fondata sopra una qualità riconosciuta inerente
al reale. E qui sorgono parecchie questioni degne di essere attentamente
esaminate. Prima di tutto si nota: Siffatti giudizi ipotetici avendo per
termini degli universali, sono lontani dalla realtà, sono come sospesi în aria
e non asseriscono alcun fatio concreto: da tal punto di vista si sarebbe quasi
tratti a dare il posto d’ onore ai giudizi categorici anche rudimentali, i
quali esprimono il nostro immediato contatto con la realtà. Che i giudizi
ipotetici non enuncino fatti è innegabile, ma da ciò forse consegue che siano
più lontani dalla realtà di quei giudizi che vertono semplicemente su fatti? La
realtà non è costituita da semplici fatti per quanto questi siano complessi e
complicati, come non è costituita da termini isolati, per così dire, da
elementi atomi o da qualità semplici, ma da qualità e da relazioni variamente
intrecciate tra loro. Ogni qualità è riducibile a relazioni, come ogni
relazione è fondata su qualità: dal che consegue che quando noì enunciamo delle
relazioni lungi dal trovarci lontani, ci troviamo più vicini alla realtà in
quantochè ciò che perdiamo in complessità, in concretezza, lo guadagniamo in
estensione, in precisione. Con la determinazione delle relazioni necessarie ed
universali vengono rimossi i particolari privi d'importanza e di significato.
Noi siamo a contatto della realtà tanto se predichiamo di essa qualità, quanto
se ne predichiamo relazioni, col vantaggio in quest'ultimo caso che le
relazioni purgate di tutti gli elementi inutili, hanno un valore assolutò,
perchè esprimono la struttura del reale quale può essere trascritta e delineata
dalla mente umuna. Poi si osserva: i giudizi ipotetici esprimono delle semplici
possibilità, non mai dei fatti reali. Con essi in sostanza si dice: supposto
che una tale con:lizione si verifichi, l’ effetto ne conseguirà
necessariamente, e di qui il carattere della relatività inerente a siffatti
giudizi, ma nulla si dice intorno alla realtà della supposizione. Sono pertanto
delle enunciazioni che non escono dal relativo e dall'arbitrario. Qui occorre
fare due osservazioni. 1° La realtà della supposizione è presa, nor data nel
giudizio ipotetico per questo che il processo di analisi ha sformato il dato,
togliendone tutti gli elementi insignificanti. Con tale operazione la
connessione affermata non viene ad esser più vera in un dato punto dello spazio
e del tempo o in un dato complesso di condizioni, ma viene ad esser vera
dovunque e dappertutto, per modo che la supposizione lungi dall’essera un
prodotto arbitrario della mente, un qualcosa che viene ammesso senza nulla
sapere se esso corrisponda alla realtà, figura quale elemento (si badi, diciamo
elemento e non già fatto) eminentemente reale. Essa non si trova nella realtà
come ‘elemento isolato e quindi non si trova in un dato punto dello spazio e del
tempo, ma si trova commista con svariati altri elementi, si trova nei contesti
più disparati a seconda delle circostanze. La supposizione non è una mera
possibilità, ma è, per così dire, una possibilità reale, un elemento che è
stato e che può divenire attuale ogni volta che noi ci mettiamo nelle
condizioni di prospettiva necessarie alla percezione del detto elemento
particolarizzato. Ognun vede del resto che il giudizio ipotetico se non avesse
una base reale, se non esprimesse sub specie aeternitatit un nesso constatato e
constatabile nell’ esperienza ogni volta che si vuole, verrebbe ad essere
destituito di ogni valore. Una supposizione puramente arbitraria non val nulla:
rappresenta un prodotto accidentale dello spirito individuale e null'altro. Il giudizio
ipotetico lungi dall’ esprimere la possibilità come contrapposta alla realtà
sta a significare la capacità, la facoltà che noi abbiamo di constatare il
nesso, la rela zione esistente tra due termini semprechè lo vogliamo in
condizioni determinate. Esso pertanto piuttostochè esprimere un qualchè di
meno, esprime un qualchè di più del ‘reale attuale, un qualchè che è reale non
ora e qui, ma ovunque e sempre. Allo stesso modo che l'idea che simboleggia il
fatto, qualificandolo, non è un prodotto arbitrario e subbiettivo della mente,
ma ha valore reale in quanto si riferisce al dato di cui esprime l’essenza e il
significato, così il giudizio ipotetico è da riguardare come segno di un modo
di essere del dato. L'idea e il nesso ipotetico non hanno valore per sè, ma in
quanto si riferiscono al reale del quale sono simboli nella nostra mente. Il
giudizio universale ipotetico pur non esprimendo alcun fatto particolare nella
sua complessità concreta, è però sempre sostituibile da una molteplicità di
fatti. Possiamo, è vero, fare delle supposizioni illegittime, come possiamo
enunciare dei nessi necessari, ma non reali in quanto il supposto da cui
muovono non è reale, ma i casi in cui ciò si verifica sono relativamente rari e
son ben determinati. | L'antecedente dei giudizi ipotetici poi in tesi generali
si rapporta più o meno direttamente ad un fatto: così una legge fisiologica o
biologica che non enuncia nessun fatto reale esistente, ma semplicemente
possibile, esprime però sempre un nesso constatato e constatabile nell’
esperienza. E mentre 11 giudizio ipotetico pone in vista le condizioni
genetiche del fatto, il giudizio categorico enuncia semplicemente il fatto.
L'enunciazione delle condizioni genetiche suppone già il fatto, anzi una seme
di fatti dalla cui comparazione ed analisi esse sono state estratte.
Riassumendo, diciamo che il nesso enunciato in una legge relazionale non
soltanto esprime un nesso che è stato constatato nell’esperienza (leggi
causali), ma esprime la coscienza della possibilità di constatarlo ogni
qualvolta si vuole; dal che emerge che essa penetra nel cuore della realtà
molto dippiù che la semplice enunciazione di un fatto isolato, 2® La
connessione e relazione affermata per mezzo dei giudizi ipotetici non è, nè può
essere una connessione arbitraria ed accidentale; il che vuol dire che essa
deve avere una ragione, un fondamento: ora la coscienza di questa ragione e
fondamento è necessariamente implicita nell’enunciazione di una legge
razionale? È questo un problema della più alta importanza, ed è stato risoluto
variamente dai filosofi: per non citare che i più recenti, mentre il Bradley
ammette che la qualità del reale che rende possibile una legge di relazione può
rimanere ignota, il Bosanquet è di parere che ogni giudizio ipotetico ha radici
in un sistema, in un fatto, in qualcosa di categorico. Ora, tenendo conto della
maniera in cui le leggi scientifiche sono state scoverte attraverso lo
svolgimento del sapere umano ed insieme del modo come tuttora vengono
rintracciate le condizioni genetiche dei fatti naturali, noi siamo autorizzati
ad affermare | che effettivamente non solo un nesso, una relazione del genere
di quelli enunciati nel giudizio ipotetico devono avere una base, devono cioè
essere due elementi appartenenti ad un unico sistema, devono essere correlativi
nel senso che emergano da un unità fondamentale (e altrimenti perchè sarebbero
in rapporto di dipendenza reciproca? perchè l'uno varierebbe nella misura che
varia l’altro, e perchè infine l'uno agirebbe sull’altro ?), ma tale base deve
essere conosciuta o almeno in qualche modo intraveduta. Se ciò non avviene,le
così dette leggi naturali lungi dall’ enunciare dei rapporti necessari ed
universali, enunciano delle connessioni di fatto che hanno un valore empirico,
provvisorio. Finchè non si arrivi a conoscere il perchè di una legge, finchè
cioè una data relazione non sia considerata come prodotta da una qualità
inerente al reale, per modo che la stessa entri in un dato sistema, essa non
avrà niun valore assoluto. Ogni scienziato quando si pone a sperimentare e va
in traccia di una legge muove sempre da un dato sistema, da un dato ordine
d’idee che avrà un colore diverso a seconda dell’ obbietto di una data scienza
- vi è un mondo chimico, come ve ne è uno fisiologico ecc.; e quando una nuova
connessione constatata non si collega in modo chiaro col detto sistema, si
possono presentare due casi: o il sistema fondato su basi solide e razionali,
resiste e in tal caso la legge non è considerata come un principio universale e
necessario, ma come l’ enunciazione di un fatto empirico che richiede ulteriore
esame, ovvero il sistema cede e d allora è sostituito da un altro sistema
consono alla nuova connessione osservata. Insomma noì crediamo che il punto di
partenza sia sempre qualcosa di categorico, un sistema, un fatto, un dato
ordine d'idee e che le connessioni che si vengono man mano mettendo in chiaro
non siano che ulteriori determinazioni del detto sistema; e nel caso che ciò
non avvenga è giocoforza costruire un nuovo sistema entro cui possano entrare
le nuove connessioni. Dal sistema non possono e non devono essere dedotte a
priori (dialetticamente) le leggi, giacchè esso è come un principio regolativo,
nel senso che non vi può essere una vera e propria legge, la quale non faccia
parte di un sistema. L'ufficio del giudizio ipotetico e della legge relazionale
è appunto quello di mettere in evidenza alcune parti o differenze o
determinazioni del sistema, lasciando da parte la considerazione dell'insieme,
il che non toglie che l'insieme vi sia e operi attivamente attraverso le
differenze; anzi si può aggiungere che se il sistema non esistesse non verrebbe
nemmeno in mente di andare in traccia delle leggi. i ‘Ciò che sopratutto
occorre ricordare è che non vi sono sistemi fissi ed immutabili, bensì
progressivi nella misura in cui progredisce l’insieme delle nostre conoscenze,
e che se da una parte la scoverta e il significato delle leggi di‘pende da
vedute sistematiche, dall’ altra parte le leggi reagiscono sui sistemi,
contribuendo alla formazione di questi e dando anche ad essi un'impronta ed un
colore speciale. Concludendo, diremo che nell’opinione ordinaria le leggi
vengono considerate come maniere di operare di date cause, maniere di operare
che dipendono dalla natura delle stesse cause: ora, che altro è la natura di
una causa, se non la sua posizione in un sistema? Pertanto nui possiamo
affermare che ogni necessità e relatività è fondata in ultima analisi su
qualche cosa di categorico, su qualche dato, sopra un fatto irriducibile.
Aggiungiamo in ultimo che le leggi riguardanti un dato fatto esprimono sempre
il ritmo della variabilità di una data cosa, il ciclo entro cui il fatto, la
cosa, il dato si muove, esprimono, cioè, le parti o le articolazioni di un
sistema. Le leggi appaiono in tal guisa comele funzioni di varie © forme
d’individualità del reale: le leggi di gravità, le leggi di una data sostanza
chimica vanno riguardate come le funzioni, le maniere di operare di quella data
forma d'individualizzazione del reale che è il mondo della gravità, ecc. E le
dette leggi esauriscono, per così dire, la natura, la essenza di una data cosa.
Noi dicemmo che le leggi relazionali hanno l’ ufficio di qualificare il reale
per mezzo di una relazione: ora si può domandare : Di che natura è questa
relazione ? Per risolvere una tale questione è bene passare prima rapidamente a
rassegna le varie forme di relazione che possono caratterizzare la realtà, per
vedere quali sono le note differenziali di ciascuna di esse. La prima forma di
relazione che viene attribuita al reale è quella che risulta dalla comparazione
quantitativa, è quella intercedente tra le differenze, o gradi di una stessa
qualità : noi formulando giudizi come questi: ora è meno chiaro d'allora , qui
è più freddo di lì , questo è più rosso di quello , ovvero questo è più rosso
ora che non fu antecedentemente , questo è più caldo in questa parte che in
quella , questo è più chiaro qui che lì (nei quali ultimi giudizi, come nota il
Bosanquet, i dimostrativi di altra specie assumono l'aspetto di condizioni),
veniamo a qualificare il reale per mezzo del rapporto quantitativo (più o meno)
esistente tra due termini, i quali pertanto si devono implicare a vicenda: dal
momento che una data qualità è distinta nelle sue variazioni, nelle sue
differenze S'intende agevolmente che un dato sistema può essere alla sua volta
analizzato e scomposto in relazioni in modo da rientrare come parte in un
sistema più vasto e comprensivo e così via. Ciò che in un caso figura come
sostantivo può divenire aggettivo di un sostantivo d’ordine più elevato. o
gradi, ciascuno di questi in tanto ha un significato in quanto è connesso con
un altro, Come si vede, il giudizio comparativo qualifica il reale per mezzo
della relazione esistente tra la parte e il tutto, il quale ultimo differisce
dalla parte per mezzo di altre parti omogenee. Notiamo qui che secondo che
l'attenzione è richiamata precipuamente sulla qualità variabile
quantitativamente messa in rapporto coi vari punti dello spazio e del tempo
variabili in modo continuo, ovvero è richiamata sulle variazioni quantitative
delle qualità sensoriali (es. sensazioni muscolari) che determinano le
costruzioni dello spazio è del tempo, il giudizio comparativo coopererà alla
formazione della cosa e di una specie qualsiasi d’individualità, ovvero alla
costituzione delle forme intuitive (spazio e tempo). La comparazione
quantitativa precisata, resa esatta si trasforma in misura, la quale consiste
nel considerare un oggetto come un tutto contenente un certo numero di unità :
unità che viene fissata, riscontrandola identica nei vari aggregati in cui
entra come parte. In tal modo dalle relazioni quantitative concrete si passa a
quelle astratte e perciò stesso aventi significato generale e quando la misura
degli oggetti è praticata, riferendosi ad unità di misura estrinseche ed è
espressa per mezzo di giudizi generali, diviene una vera e propria proporzione
in quanto essa è applicabile a casì in cui i terminì corrispondenti sono
grandezze differenti. La proporzione, infatti, si riduce all'’eguaglianza di
due rapporti. La semplice proporzione diviene poi una vera e propria legge
proporzionale non appena viene introdotta nel soggetto una specificazione, un
attributo (condizione), la cui esistenza sì mostra intimamente connessa con
quella del predicato: es. questo pezzo di un metallo e questo pezzo di un altro
metallo, che hanno lo stesso volume, stanno in rapporto al peso come 5 : 9 .
Con la misura noi siamo entrati nel dominio della quan tità astratta; vediamo
ora da tal punto di vista per via di quali relazioni il Reale è qualificato. In
primo luogo vanno annoverate le relazioni numeriche. Il tutto riguardato dal
punto di vista puramente quantitativo, è caratterizzato da ciò, che può essere
costruito mediante la ripetizione ideale di unità o parti fisse. Tale
ripetizione ideale costituisce l'enumerazione. Nella misura si muove dal tutto
caratterizzato per mezzo delle sue differenze, mentre che nell’enumerazione si
parte da un’ unità distinta, per arrivare a costruire una somma totale, o un
aggregato. Nell’enumerazione il tutto, che è predicato, si presenta come una
forma, diremo così, molto attenuata di quell’ individualità sistematica che
nella misura fu da soggetto. Il tutto dell’ enumerazione poi è un vero
aggregato; e la parte è ridotta al posto che, come unità, può occupare nella
somma. È per questo che in un sistema numerico, la somma delle unità rimane la
stessa, qualunque sia l’ordine in cui queste sono contate; due parti possono
mutar di posto senza che consegua alcuna modificazione da parte del tutto. Va
notato però che in ogni giudizio enumerativo sono impliciti i due elementi
dell'unità e della comune natura o identità che fa da sostrato delle differenze
rappresentate dalle parti enumerate. L'unità deve fornire la regola e insieme
il limite dell'enumerazione, la quale si ridurrebbe ad un processo sfornito di
significato, se fosse senza limite e sarebbe impossibile addirittura, se fosse
senza regola. L'identità fondamentale d'altra parte è indispensabile in quanto,
mancando essa, non si avrebbe uno degli elementi essenziali del giudizio;
l'unità numerica, infatti, è nient'altro che la differenza o part: presa come
distinta dall’identità fondamentale solo mediante un atto del giudizio. Ciò che
noi contiamo nell’ enumerazione sono gli atti del giudizio, come atti di
distinzione e di riferimento in una qualità continua, identica. Se il processo
di enumerazione suppone necessariamente l’esistenza di una natura propria ben
definita e jualitativamonte determinata nell’obbietto del detto processo, è innegabile
d'altra parte che l'atto del contare tende ad assumere indipendenza, quasi che
potesse avere un significato proprio a parte dalla qualità continua e identica
delle unità componenti il tutto. É in forza di tale processo di astrazione che
avviene ogni progresso nel calcolo. Lo svolgimento di questo, infatti, si
compie col costruire totalità numeriche, mediante la sostituzione di relazioni
di unità ideali a unità positivamente concrete; relazioni che formano un totale
numericamente identico, ma generalizzato e ideale. L’unità quantitativa per sò,
o piuttosto l’astrazione unilaterale dell’unità quantitativa, il solo posto
numerico che non è collegato per mezzo di una qualità identica e continua
(unità organica. o sistematica delle parti) cogli altri posti della serie, non
può avere in sè alcun principio od esigenza di totalità, cioè a dire, non può
avere alcuna ragione per finire in un punto più che in un altro. Vogliamo dire
che l’'enumerazione delle unità come tali può esser continuata a piacere ed un
tale processo ci conduce al concetto dell'infinito numerico. L'infinito
numerico, trascurando il fattore della natura delle unità, omette l'elemento
che può arrestare il computo ad un punto piuttosto che ad un altro. Chi può
dunque trattenersi dal considerare l'infinito numerico come un prodotto
soggettivo, a cui nulla di realmente obbiettivo corrisponde? Le relazioni
numeriche e quantitative in genere sono controdistinte dalle seguenti note: 1°
esse sono universali, necessarie o relative in quanto l'un termine in tanto ha
valore in quanto è connesso con l’altro, per modo che rientrano nella formula
del giudizio ipotetico. Se A è B allora è C ; 2° talì relazioni non sono
unilaterali, ma reciproche, il Se A è B allora è C può divenire Sc 4 è C allora
è B ; 3° la ragione di tali connessioni non si trova nell'esperienza, nel dato,
comunque l’esperienza possa presentare delle applicazioni di tali connessioni:
il valore di queste ultime però non .dipende dalla maggiore o
minoreapplicabilità nell'esperienza. Ora tutte queste noto che cos'altro stanno
a significare se non che la relazione attribuita in tal guisa alla realtà è un
nesso o una relazione puramente razionale? Se il fondamento del nesso non fosse
nella ragione, potrebbe il detto rapporto essere necessario, reciproco e valido
indipendentemente dall’esperienza? Se non che dire che la relazione è puramente
razionale, che il fondamento del nesso si trova nella ragione non è risolvere
in modo completo il problema: rimane sempre da spiegare in che consista un nesso
razionale e in che modo la razione possa essere fondamento di un nesso, Quando
noi vediamo che tra due termini esiste un legame necessario, per modo che uno
implica o trae seco l’altro, che cosa dobbiamo pensare? Qual'è il concetto che
noi in tal caso ci dobbiamo formare della dipendenza o del nesso ecc.? Per
rispondere a tali quesiti occorre tener presente che il nesso necessario,
reciproco e indipendente dall'esperienza tra due elementi, non può esser dato
che alternativamente da due condizioni principali: o dal fatto che i due
termini sono perfettamente sostituibili in quanto | sono equipollenti, in
quanto cioè sono espressioni diverse di una stessa cosa: in tal caso i due
termini s' implicano a vicenda perchè sono termini di un’eguaglianza e di una
identità: ovvero dal fatto che i due termini della connessione sono parti di un
tutto organico o di un sistema: in tal caso gli elementi tra cui ha luogo il
nesso non sono identici, ma si completano a vicenda quali fattori di una
identità sistematica. Ora si domanda: il giudizio ipotetico tipico è
espressione della prima specie di nesso, ovvero della seconda? Finchè non si
esce dalla pura identità, da quella che si potrebbe chiamare identità formale,
non è a parlare propriamente di giudizio ipotetico come non è a parlare
propriamente di nesso, il quale involge sempre transizione da un contenuto ad
un altro, rapporto di due. parti integrantisi a vicenda e non semplice
tautologia: anche quando noi affermiamo 50 X 3 = 25 X 6, la ragione di tale
connessione non va ricercata nella identità dei termini, ma nella costituzione
propria del sistema numerico: è il sistema di numerazione che rende possibile
la identificazione di 50 X 3 con 25 X 6: In fondo adunque ogni nesso razionale
implica l'esistenza di un’ identità sistematica, di una totalità, le cui parti
sono organicamente congiunte, perchè ciascuna di esse figura come
differenziazione, come determinazione o come manifestazione dell’unità
fondamentale. Qui però sorge il problema: Come è mai possibile la esistenza di una
totalità le cui parti s’implicano a vicenda? Come è mai possibile l’esistenza
di un sistema organico i cui elementi poi s’ implicano a vicenda? È evidente
che ciò è possibile solo nel caso che il sistema figuri come un’individualità,
come un fatto categorico fornito di un certo grado di assolutezza, avente
quindi la sua ragione in sè stesso. Ora siffatte condizioni si riscontrano: 1°
in quei prodotti dell'attività umana, i quali rispondono ad un fine cosciente.
È in vista di questo che i vari elementi sono armonicamente coordinati tra
loro. L'idea fine agisce come unità regolatrice ed organizzatrice dei vari
elementi componenti il tutto; in tal caso le varie parti sono intimamente
connesse tra loro, perchè si completano a vicenda e perchè sono funzioni determinantisi
reciprocamente; 2° quindi anche in quelle costruzioni numeriche e geometriche
che presentano uno spiccato carattere d’individualità in ragione della
proporzionalità che si riscontra nelle loro relazioni interiori e in ragione
della scelta arbitraria delle condizioni primitive e fondamentali determinanti
poi l'andamento generale delle costruzioni stesse (1); e 3° in quei casi in cui
dopo che è stata scomposta una totalità aggregato considerata quindi dal
semplice punto di vista quantitativo nei suoi componenti, Vedi a tal proposito
quello che noi, sulle tracce del Masci, scrivemmo intorno alle varie operazioni
numeriche: Za mozione di Legge , vol. I di questi Saggi. ciascuno di questi si
mostra dipendente dagli altri. Da tuttociò consegue che il nesso razionale
qual'è espresso dal giudizio ipotetico tipico che non trae seco alcun rapporto
di tempo, ha la sua base nel fatto che i due elementi tra cui intercede la
relazione di dipendenza reciproca necessaria sono parti di un unico tutto, che
questo sia considerato dal semplice punto di vista quantitativo, ovvero dal
punto di vista sistematico o organico implicante un processo di
differenziazione qualitativa. Ora chi uon vede che la totalità, il sistema,
l’individualità vera, implicante una relazione necessaria tra le parti, non può
essere che un effetto dell’attività costruttrice umana, giacchè è solamente ciò
che è fatto, costruito dal soggetto umano che può da una parte essere completo
in sè stesso e dall'altra avere una struttura prettamente razionale e quindi
avere quel grado di assolutezza e di apriorità che guarentisce la necessità del
nesso intercedente tra gli elementi contenuti nel sistema? Ma possiamo
d’altronde affermare che tutti i caratteri suaccennati di un nesso razionale e
necessario sì riscontrino nei prodotti umani? Come si vede, il punto essenziale
da dilucidare sta qui: se il nesso razionale implica sistema, totalità e se
questa non può aversi che da ciò che proviene dal soggetto umano, è necessario
precisare se tutti e nel caso negativo quali i prodotti umani racchiudano una
relazione necessaria tra i loro elementi o fattori. A ciò si risponde che una
totalità, un sistema implica una relazione necessaria tra gli elementi solo in
quei casi in cui questi elementi figurano come determinazioni essenziali del
sistema o della totalità. I vari fattori o componenti di un tutto non hanno un
valore eguale, in quanto alcuni di essi sono essenziali, indispensabili quasi
si direbbe che in essi sotto varie forme è la natura stessa del sistema , mentrechè
altri sono fino ad un certo punto indifferenti al sistema stesso: è evidente
che tra i primi vi è una relazione necessaria entro il sistema dato, non già
tra gli altri. Non basta. Non tutti i prodotti o le costruzioni sistematiche
del soggetto umano hanno un valore ed un significato eguale: ve ne sono di
quelle che si riferiscono ad una funzione primitiva, universale e costitutiva
dell'anima umana in genere, e ve ne sono di quelle che si riferiscono a
funzioni variabili ed arbitrarie della coscienza: ora è chiaro che i legami
necessari si riscontrano in quei sistemi prodotti dall’esercizio delle funzioni
inerenti propriamente alla natura umana. In questi ultimi casi il sistema a
cuisi devono riferire i nessi necessari è sempre posto dallo spirito, mentrechè
negli altri casi il sistema può e non può esser posto, può esser posto in un
modoe può esser posto in un altro. La base dei giudizi ipotetici in
quest’ultimo caso non viene ad esser fissa, ma mutevole in rapporto ad una
quantità di circostanze. Concludendo, noi possiamo dire che ogni nesso
razionale o necessario è fondato sopra l’esistenza di una totalità o di un
sistema, per modo che i termini del nesso figurano come le parti o le
differenze della totalità e del sistema. Due cose in tanto si possono implicare
a vicenda in quanto sono parti di un tutto. Ora un tutto, una totalità non è
mai data, giacchè tutto ciò che è dato è sempre relativo: il fatto stesso di
esser dato fa sì che agli occhi del soggetto non possa apparire che come
qualcosa che si riferisce a qualcos'altro, e ciò che è dato in tanto assume a
volte l'aspetto di qualcosa d'individuale e di totale, in quanto noi
proiettiamo, o riflettiamo in esso la nostra stessa attività, lo informiamo
della nostra stessa vita. Solo ciò che è fatto, ciò che è costruito da nuvi è
un tutto completo, è un vero sistema, ha la sua ragione in sè stesso. Sicchè il
nesso razionale non si può trovare che tra gli elementi di un tutto, di un
sistema costruito dal soggetto: il giudizio ipotetico tipico in tal guisa non
soltanto ha una base categcrica, ma questa sua base è nell'attività del
soggetto umano. Se non che va notato che non tutti i sistemi e le totalità
prodotte dall'attività umana servono di fondamento a nessi universalmente
necessari e quindi a giudizi ipotetici reciproci, ma soltanto quei sistemi
derivati dallo esercizio delle sue funzioni costitutive. Tali sono i sistemi
della quantità o della grandezza, dei numeri, dello spazio (1) che forniscono
la base dei nessi razionali e dei giudizi ipotetici (leggi) di tutte le
cosidette scienze esatte o formali. La realtà non è soltanto qualificata per
mezzo di nessi razionali, ma è anche qualificata per mezzo dei rapporti
causali. Quali sono i termini tra cui inteircedono siffatti rapporti? Sono
qualità od attributi che vengono astratti dalle complicate relaziouii del
reale, perchè sono invariabilmente ed universalmente congiunti tra loro in
qualsiasi contesto o sistema essi si trovino. Prima di ricercare la natura del
nesso causale e le note che lo controlistinguono dovremmo passare rapidamente
in rassegna le varie forme in cui esso si presenta nei principali, rami del
sapere: ma l’enumerare le leggi, sia Le relazioni del tempo e del movimento
sono espresse sempre per mezzo di grandezze, di relazioni spaziali e numeriche,
anche fondamentali di tutte le scienze sperimentali leggi fisiche, chimiche,
biologiche, psicologiche, storiche, sociologiche e filologiche non ci sembra di
alcun vantaggio, in quanto tutte presentano un’eguale struttura logica. Tutte
si riducono a rapporti di attributi e quindi a legami astratti, a
generalizzazioni ricavate da sistemi di fatti concreti: gli attributi connessi
mediante l’indagine fisica sono incommensurabilmente differenti dagli attributi
connessi mediante l’indagine chimica, e gli attributi connessi mediante
l’indagine di siffatti due processi scientifici sono, lo ripetiamo,
incommensurabilmente differenti dagli attributi connessi mediante le indagini
biologiche in genere. Se gli attributi non fossero in ciascuna serie di scienze
qualcosa a sè, qualcosa d’irriducibile, noi non saremmo propriamente
autorizzati a parlare di scienze differenti, ma di una sola scienza, la quale,
per comodo didattico o per l’esigenza della divisione del lavoro, potrebbe
essere divisa, ma in sostanza le varie scienze non sarebbero che capitoli
diversi di una sola scienza. Ora ciò non è, e chi ha qualche dimestichezza con
le scienze speciali lo sa; del resto è per questo che i metodi delle varie
scienze sperimentali, pur avendo dei caratteri comuni, variano profondamente
tra loro. Gli attributi o qualità adunque connesse nei vari ordini di scienze
sono irriducibili le une alle altre, ma esse per sè prese sono indeterminate e
il sapere scientifico va in cerca di qualcosa di fisso, di stabile, di coerente
e di necessario. Gli attributi son fatti, son dati, ecco tutto: onde è che essi
sono materia di elaborazione scientifica, non sono scienza. Perchè ciò avvenga
è necessario che gli attributi o le qualità ricevano delle determinazioni
quantititive (numeriche), I nessi o le relazioni intercedenti tra le qualità
possono essere fissati e posti in evidenza soltanto per mezzo delle
determinazioni spaziali e temporali, le quali alla lor voita hanno bisogno di
essere specificate per mezzo del numero. Nessi e qualità devono adunque esser
prese in funzione, devono essere schematizzate per mezzo della quantità, e per
mezzo dello spazio e del tempo quantitativamente presi. Come il colore è
necessario a delimitare l'estensione, così il numero, lo spazio e il tempo sono
necessari a delimitare le qualità e le relazioni. È per questo che l'esattezza
e la precisione scientifica dipendono dal grado in cui è applicabile la
matematica. Questa trasforma le scienze empiriche da induttive in deduttive, e
quindi in razionali appunto perchè fa considerare le qualità sotto l'aspetto
della quantità. © Da tutto ciò consegue che tutte le leggi delle scienze
sperimentali si riducono a relazioni di qualità espresse nelle loro variazioni
quantitative e spaziali e temporali le quali due ultime vengono espresse alla
lor volta per mezzo della quantità. Vediamo ora in modo più particolareggiato
quali sono i caratteri che controdistinguono i nessi sperimentali... Anzitutto
si nota che essi sono necessari ed universali e poì che lungi dall'essere forniti
dalla ragione indipendentemente dall'esperienza, sono tratti da quest'ultima,
nei cui limiti sono validi. Ora che i nessì costituenti, diciamo così, la
struttura delle scienze sperimentali debbano essere necessari ed universali,
ognuno lo comprende, pensando all'obbietto proprio del sapere scientifico che è
appunto quello di trasformare le semplici congiunzioni di fatto, per sè
sfornite di qualsiasi valore, in connessioni di dritto, in coerenze fisse,
stabili, aventi cioè un fondamento che le giustifichi: non è egualmente chiaro
fino a che punto i nessi in questione siano un portato dell'esperienza : è
oltremodo importante, infatti, mettere in chiaro entro quali limiti vada
ristretta l'azione della ragione di fronte all’esperienza, se si riflette che
la coerenza ela necessità non possono venire che dalla ragione. Qual'è la
differenza essenziale tra i nessi puramente razionali e quelli sperimentali ?
La differenza sta in questo, che i primi sono fondati sull’ esistenza di
sistemi costruiti dall'arbitrio dell'uomo, e quando diciamo dall’arbitrio
dell’uomo non vogliamo dire dall’arbitrio assoluto, vale a dire sfornito di
qualsiasi riferimento a qualche proprietà o qualità inerente al reale, ma
vogliamo dire che l’attività costruttiva dell’uomo è estremamente preponderante,
come avviene nei sistemi numerici, nelle determinazioni spaziali ecc.; gli
altri invece sono fondati su sistemi che hanno il loro principale punto di
appoggio su qualche fatto o dato. Se si passano a rassegna ì vari ordini di
leggi e di sistemi corrispondenti, si vede che essi vanno a metter capo in
ciascuna serie in qualche dato, o fatto ultimo inesplicato e inesplicabile, il
quale non è posto dall’arbitrio dell'uomo, ma è propriamente subito. Se anche
questo sparisce, viene ad esser rotto ogni legame colla realtà e ci troviamo
nel regno della pura forma, dell'astratto e del razionale. I nessi razionali
presentano in tal guisa un grado di assolutezza, di compiutezza che invano si
cerca nei nessi sperimentali, in cui domina sempre il riferimento a qualcos'altro.
Il fondamento dei nessi sperimentali adunque si trova, sì, nell'esistenza di
sistemi che contengono i termini in connessione, ma i Abbiamo detto che ogni
opera d’arte figura come l’ espressione di due sorta di leggi sistematiche, di
una riferentesi alle determinazioni del mondo estetico in genere (è quella di
cui si è parlato), dell'altra riferentesi ad un dato fatto estetico, ad un dato
prodotto artistico compiuto in un momento determinato. Ogni opera d’arte,
infatti, incarna un'idea, sì presenta come un'individualità, come un sistema
fornito di date parti o differenze: ora prima che essa sia eseguita, nella
mente dell'artista esiste il concetto dell’ opera caratterizzata da date
qualità suscettibili di determinazioni disgiunte o escludentisi a vicenda. Il
processo della elaborazione artistica insomma si compie sempre
particolarizzando, determinando, specificando un contenuto ideale di cui si
hanno nettamente i limiti e il contorno; se ciò non avvenisse l’opera d' arte
non avrebbe unità, nè armonia organica, nè individualità, perchè non avrebbe la
sua ragione in sè stessa. Ciò che abbiamo detto della vita estetica si applica
prefettamente alla vita morale. Ogni azione morale suppone la cooperazione di
due leggi o giudizi sistematici, col primo dei quali il contenuto della vita
psichica viene considerato dal punto di vista della moralità, viene cioè
ordinato in guisa da costituire un tutto organico, un sistema armonico a cui si
dà l’ appellativo di morale: sistema che ha questo di proprio, che per esso
tutti gli clementi e fatti psichici acquistano valore e significato dal modo in
cui contribuiscono al raggiungimento dell’ ideale morale, che è quello della
comunione spirituale di tutti gli uomini. Il Genio morale, il Santo
appercepisce il reale come sistema morale in genere di cui coglie tutte le
differenze o determinazioni e le loro relazioni dì reciproca esclusione.
D'altra parte ogni singola azione morale rappresenta l’espressione di un
concetto etico, di un'idea morale determinata: difatti un'azione morale si
presenta sempre come qualcosa di armonico, di organicamente uno, di
individualizzato, avente la sua ragione in sò stessa : il che suppone
nell'animo dell'agente l’esistenza di un concetto sistematico analizzato nelle
sue determinazioni essenziali in ordine ad una data condotta. Ogni fatto morale
presenta coerenza ed unità d'indirizzo, il che vuol dire che esso emerge dall’
analisi di una concezione sistematica determinata, proprio in quella maniera in
cui le proprietà, i rapporti e le specie dei triangoli derivano dalla natura di
quella particolare limitazione dello spazio che dicesi triangolo, limitazione
dello spazio che è resa possibile dalla natura dello spazio in genere. Vogliamo
dire insomma che come il mondo estetico così il mondo morale hanno come loro
precipuo fattore una costruzione sistematica della realtà, caratterizzata e
delimitata in guisa da presentare determinazioni esclusive e disgiunte. Varia
il principio informatore, l'universaie concreto, la funzione, la forma appercettiva,
ma permane il processo di sistemazione e di determinazione. È per questo che
tanto il mondo estetico quanto quello morale presentano uno spiccato carattere
categorico; le esigenze estetiche ed etiche piuttostochè essere ricavate dalla
realtà, dai fatti, anticipano, regolano quella e questi. Anche la vita della
conoscenza in generale si esplica per mezzo di leggi sistematiche. Ogni
processo conoscitivo è fondato sull’esigenza di fissare, di qualificare e di
determinare il reale per mezzo di simboli o segni variamente connessi tra loro
(idee, giudizi, inferenze), in maniera da risultarne una forma di coerenza
totale o di sistema. Sicchè appare chiaro che la conoscenza adempie a due
uffici, a quello di rendere chiaro per mezzo di simboli la realtà (di costituire
delle formole o degli schemi in relazione reciproca tra loro), e di connettere
tali simboli in modo da formare un sistema. Ora ciò in tanto è possibile in
quanto la mente agisce come potenza universalizzatrice, come potenza
tipificatrice : essa infatti, opera idealizzando il fatto e l’esperienza
(staccando cioè gli attributi e le relazioni dall’esistenza), andando in
traccia del principio informatore di un dato ordine di reali per mettere poi in
evidenza le determinazioni essenziali di questo. Ed ogni progresso nella
conoscenza è contrassegnato dalla maggiore prevalenza della tendenza alla
sistematizzazione : quanto più la mente riesce, cioè, a individualizzare il
reale tanto meglio adempie al suo còmpito. Come si vede, la forma generale di
ogni conoscenza è la forma sistematica e le varie categorie non sono che
momenti, manifestazioni diverse di tale funzione o categoria fondamentale; la
sostanza, infatti, implica l’individualità, la causalità implica la finalità o
l’ ordine, il numero implica la totalità e l’unità: la finalità e la totalita
non sono che espressioni diverse del sistema. D'altra parte è agevole intendere
che in qualsiasi forma speciale di conoscenza è in azione l’idea sistematica
con le sue varie determinazioni; se pensare è porre in relazione, e se la
relazione non è possibile che tra termini, ì quali abbiano qualcosa di comune,
tra parti di un medesimo tutto, tra differenze di un'identità sistematica
fondamentale, è evidente che qualsiasi conoscenza implica determinazione di un
sistema, val quanto dire riduzione dell'ignoto al noto, riferimento del non
spiegato a ciò che è spiegato. Le leggi o giudizi sistematici formando come
l'ossatura della vita estetica, morale e conoscitiva, operano quasi diremmo
celatamente nelle produzioni artistiche e scientifiche, e nelle azioni morali;
le scienze invece che hanno per obbietto appunto di tradurre in termini
puramente intellettivi, di trasformare in concetti, ordinandoli in modo ‘
sistematico, di rendere insomma intelligibili i fatti estetici, morali e
conoscitivi, mirano a presentare isolate, separate da tutti gli elementi con
cui si trovano miste, le dette leggi o giudizi sistematici. L’Estetica, l’Etica
e la Logica coincidono in questo che tutte e tre tendono a costruire il mondo
estetico, etico e conoscitivo per mezzo di giudizi disgiuntivi completi. Invero
qual'è l'obbietto dell’ Estetica ? È quello di stabilire, in base allo
svolgimento storico dell’arte e della coscienza estetica e in base
all'osservazione psicologica della funzione estetica sia produttiva che
recettiva o contemplativa (genio e gusto), il retto concetto ‘dell’ ideale
estetico. Fissando il concetto si viene per ciò stesso a determinarne le
manifestazioni in maniera completa ed adequata. Le leggio norme estetiche sono
le direzioni o le maniere secondo cui l’attività o funzione estetica dell’
anima umana, in genere, cerca di raggiungere l'ideale estetico. Ond'è che le
norme o leggi estetiche avent i una base categorica nelle proprietà dello
spirito umano (atte quindi ad anticipare ed a regolare l’ esperienza), non
vanno confuse con quelle forme di leggi finali empiriche (aventi cioè il loro
fondamento nei dati forniti dall’esperienza) che rispondono a problemi pratici
del tenore seguente: Come ottenere un dato effetto estetico in una data
circostanza ? Come condursi moralmente in una data situazione della vita? Qual
è l’obbietto dell’Etica? È quello di stabilire in base alla osservazione
psicologica della funzione etica, in base allo svolgimento della cultura e
della civiltà, allo svolgimento storico della coscienza morale e della vita
morale il retto concetto della moralità. Ed una volta fissato e delimitato tale
concetto, è chiaro che vengono determinate le manifestazioni e le
estrinsecazioni essenziali del principio informatore della vita etica; basta a
tal uopo rapportarsi alle qualità fondamentali che contradistinguono il
suddetto concetto o principio. In ultimo qual’è l’obbietto della Logica? È
quello di stabilire in base all'osservazione psicologica della funzione
conoscitiva, in base allo svolgimento storico della scienza e della dottrina
della conoscenza il retto concetto della conoscenza stessa. Trovato il
principio informatore di questa e caratterizzato per mezzo di date qualità, è
facile precisarne le determinazioni, le manifestazioni ed i limiti di
variazione. Le norme etiche, logiche ed estetiche stanno ad indicare le diverse
maniere in cui è possibile rispondere alle esigenze etiche, logiche ed
estetiche dello spirito umano; norme che hanno la loro ragione ed origine nell'ideale
rispettivo, il quale alla sua volta non è tratto dall'esperienza, non figura
come un dato, ma è posto da ciò che vi ha di più intimo nell'essere nostro. Sta
in ciò appunto il carattere distintivo delle leggi normative suaccennate. Da
tuttociò consegue che l’ Estetica, la Logica e l’Etica (1) sono fondate su
giudizi sistematici o disgiuntivi tratti dalla vita estetica, logica ed etica
dell'anima umana. Esse mirando a mettere in evidenza la struttura logica o
intelligibile del mondo estetico, conoscitivo ed etico, ci pongono dinanzi agli
occhi le diverse maniere in cui il principio informatore, l’universale concreto
e individuale si presenta in ciascuna delle tre sfere più elevate dello spirito
umano. Nessuno confonderà poi le norme con i giudizi disgiuntivi o sistematici,
giacchè quelle non indicano le parti del sistema articolate tra loro, ma bensì
le vie per cui l’attività umana attua il sistema ideale espresso nelle sue
articolazioni per mezzo della legge sistematica. Le norme si riferiscono
all’attuazione, al modo di procedere nella realizzazione dell'ideale e quindi
sono leggi della volontà umana; le leggi sistematiche invece esplicano nelle
loro determinazioni i sistemi ideali, per il che non escono dal mondo ideale.
Stando ad alcuni (Bradley, Bosanquet), l’ultima e più perfetta fase della
conoscenza è rappresentata dal giudizio disgiuntivo in generale, in quanto per
mezzo di questo il principio informatore di un dato ordine di realtà viene ad
essere proseguito nelle sue determinazioni essenziali o nelle sue
manifestazioni, le quali poi si escludono a vicenda. Nè potrebbe essere
diversamente; una volta che il princi (1) Quello che abbiamo detto dell’ Etica,
dell’ Estetica e della Logica sì potrebbe dire della Matematica. pio
informatore, attuandosi, assume una data forma, viene ad essere esclusa ogni
altra forma in cui esso può anche presentarsi; e poichè tali forme sono
definite ed enumerate invirtù della conoscenza che sì ha di tutto l'ambito del
concetto, è chiaro che dal trovarsi attuata una data forma si deduce la non
attuazione delle altre, e dalla non attuazione delle altre si deduce
l’attuazione di quella sola che rimane. Col giudizio disgiuntivo si vengono ad
enumerare tutte le possibilità, ond’esso è l’espressione di una certa
onniscienza da parte dell’uomo, onniscienza fondata però sempre sulla
cognizione di una data qualità o attributo, il quale per natura sua ngn può
ammettere che un numero determinato di variazioni, oltrepassate le quali, esso
stesso viene ad essere annientato. Possono variare le occasioni immediatamente
determinanti la formazione dei giudizi disgiuntivi, ma le loro caratteristiche
non variano. Un giudizio schiettamente disgiuntivo riflette sempre un contenuto
o sistema completo in sè stesso, onde proviene che esso, come ogni giudizio
generico, è quasi categorico. Il giudizio assume la realtà del soggetto ed
enuncia nel predicato le varie forme sotto cui quello in condizioni diverse si
può presentare; forme che esaurendo la natura del tutto posto come reale, si
presentano articolate tra loro mediante giudizi ipotetici o negativi. Ciò che
sopratutto è necessario e indispensabile si è che il contenuto-soggetto,
l’individualità o l’ universale, entri come tutto in ciascuna delle, forme
enumerate, per modo che ogni differenza figurando come determinazione
essenziale dell’ universale viene ad escludere tutte le altre differenze; è
soltanto sotto questa condizione che ogni congiunzione si trasforma in
disgiunzione, La disgiunzione, sempre secondo tali filosofi, è la sola forma
giudicativa che può stare da sè, giacchè ogni connessione è entro un sistema e
si può dire completo solo quel giudizio che enuncia insieme un sistema e le
relazioni o determinazioni contenutevi. Certamente non ogni disgiunzione è
completa, indipendente ed assoluta nello stretto senso della parola, ma
ciascuna presenta sempre un certo grado di assolutezza rispetto al numero dei
giudizi ipotetici che in essa trovano il loro fondamento. Così la disgiunzione
che enuncia la natura e le specie dei triangoli contiene la base di tutti i
giudizi ipotetici esprimenti le proprietà di tale figura. Ciascuno di detti
giudizi, se completato e fatto esplicito, metterebbe capo nella detta
disgiuzione, la quale alla sua volta è compresa nel giudizio fondamentale che
espone la natura e i caratteri dello spazio. | | Ora, possiamo noi ammettere
che la forma disgiuntiva sia la forma giudicativa più completa e quella
meritevole veramente del nome di sistematica per eccellenza? Noi crediamo che
vada fatta una profonda distinzione tra il giudizio effettivamente sistematico,
il quale qualifica il Reale per mezzo di una identità sistematica organicamente
articolata nelle sue varie parti e il giudizio disgiuntivo vero e proprio, il
quale lungi dal presentare un sistema attuato, presenta le forme o le
manifestazioni possibili di un principio. Il giudizio sistematico ci mette
sotto gli occhi un tutto organicamente costituito e reale, mentrechè il
giudizio disgiuntivo ci mette sotto gli occhi le maniere in cui il tutto si può
attuare. Ora da ciò consegue che dal punto di vista ideale, dal punto di vista
dell’elaborazione mentale il giudizio disgiuntivo appare più perfetto, perchè
da una parte ci dice che un dato sistema, se attuato, deve essere determinato
in una data guisa e dall’altra ci fa sapere tutte le maniere in cui può essere
attuato e determinato; dal punto di vista invece della conoscenza come
qualificazione di ciò che è reale è il giudizio sistematico vero e proprio
quello che appare più perfetto e completo; l’ultimo invero ci mette davanti
l'attuazione di un tutto organico contenente in sè delle differenze non
escludentisi, ma implicantisi a vicenda. È desso che costituisce la base di una
parte importante di giudizi ipotetici, i quali enunciano la connessione delle
differenze contenute entro un sistema e il rapporto necessario degli attributi
o parti di un tutto. Lo schema del giudizio sistematico è : S è cosîffatto che
a implica b; quello invece del giudizio disgiuntivo è: S è cosiffatto che si
può attuare 0 determinare in a o in b o in c. È vidente che il giudizio
sistematico e quello disgiuntivo non vanno identificati tra loro; sono due
processi conoscitivi collaterali, i quali adempiono ad uffici differenti ; il
giudizio disgiuntivo allarga e completa idealmente la conoscenza, in quanto
esaurisce le possibilità della realizzazione; quello sistematico invece pone in
evidenza la struttura organica e i rapporti interni di un sistema reale.
Con'ciò non si vuol. negare che vi possano essere e vi siano anche molteplici
interferenze tra i detti due processi e che il giudizio sistematico possa
essere fondato o esser riferito a una disgiunzione resa possibile dalle
variazioni di una qualità essenziale, ma quello che non va dimenticato si è che
la disgiunzione non rappresenta qualcosa di reale, come la struttura
sistematica, che essa è un processo perfettamente ideale e che il tutto o il
sistema che fa da soggetto nei giudizi disgiuntivi è un prodotto
dell’astrazione. Esso non esistendo per sè, non avendo la sua ragione in sè
stesso, non essendo qualcosa di sussistente e di completo, non esce dal dominio
del necessario e del relativo; esso si riferisce necessariamente ad una delle
determinazioni enunciate nel predicato. Il contrario si verifica nei giudizi
prettamente sistematici nei quali il soggetto è qualcosa di categorico, di
completo e d’indipendente. | La verità di ciò che si è detto intorno al
giudizio disgiuntivo viene provata anche da questo, che esso è attivo in tutti
quei processi dello spirito relativi all'attuazione di ideali concepiti dalla
mente umana ; prima questa, per ragioni su cui qui non importa insistere, forma
un concetto e poi dello stesso vengono rintracciate le determinazioni
principali, basandosi sopra una sua nota essenziale; il giudizio disgiuntivo in
tal guisa è attivo soltanto ogni volta che si ha a che fare con costruzioni
ideali, con costruzioni di possibilità fatte da noi (di cui conosciamo le
qualità essenziali e le loro variazioni), mentrechè quello sistematico mette in
luce la struttura organica di un sistema reale per via della vicendevole
dipendenza delle parti di esso. Tuttociò che è organicamente costituito,
tuttociò che, attuato, o risponde effettivamente perchè opera dell’intelligenza
e dell’attività umana o sembra corrispondere (funziona come corrispondente) ad
un fine, può formare oggetto di un giudizio sistematico vero e proprio, o
finale o generico che si voglia dire. Il giudizio disgiuntivo lungi dal rendere
più perfetta la nostra conoscenza della realtà della quale noi conosciamo
soltanto dei frammenti non fa che rendere esplicito ciò che era implicito
perchè nostra fattura , non fa che metterci sott'occhio sotto altra forma ciò
che già sapevamo. Avendo noi costruito il concetto soggetto non possiamo non
trovarvi dentro quello che noi stessi vi abbiamo posto. É soverchio aggiungere
che il giudizio disgiuntivo non può avere alcuna applicazione seria nella
conoscenza del reale, del dato, giacchè noi dei vari ordini di questo non
conosciamo il principio informatore (la natura propria) in modo da poterne
indicare tutte le manifestazioni possibili. Noi finora abbiamo classificato le
leggi, tenendo conto della forma e della natura dei giudizi con cui esse
vengono enunciate; è evidente che possono ancora essere classificate, tenendo
conto della loro varia origine, della maniera cioè con cui vengono
rintracciate. Esse invero assumono caratteri diversi secondo che variano i
processi logici messi in opera per scovrirle. Da tal punto di vista le leggi
possono essere classificate in leggi costrattive, leggi analogiche, leggi
induttive è leggi deduttive. Cominciamo dal ricercare per quale via vengono
messe in luce le leggi matematiche, vediamo cioè qual'è il processo logico che
le rende possibili e che quindi le contradistingue. L'inferenza (1) di cui si
fa uso in matematica, è una vera e propria inferenza sussuntiva? | Ogni calcolo
aritmetico, e quindi ogni specie di calcolo, può essere ridotto ad enumerazione
o ad enumerazione di enumerazioni. Tutto il processo poggia sulla concezione
del tutto quale somma delle sue parti, dell’ universale come risultante da
determinazioni e differenze eguali ed omogenee quantunque distinte e separabili
tra loro. È evidente che in tali casi l’universale non si presenta come un
sistema concreto, per modo che le inferenze da esso emergenti non sì sa se
siano da considerare come correlative dei giudizi, Qui è bene intenderci sul
concetto che ci dobbiamo formare dell’inferenza dipendentemente dal modo come
venne interpretata la natura del giudizio, L'inferenza, come il giudizio, mira
a qualificare la realtà, con questo di proprio che la detta qualificazione non
è immediata, ma mediata nel senso che il contenuto ideale viene riferito alla
realtà in modo indiretto, coll’intermezzo di un altro contenuto immediatamente
qualificativo. Ora com'è mai possibile un tale processo ? Come è mai possibile
il passaggio da un contenuto ideale ad un altro? È possibile, perchè entrambi
questi sono differenzia zioni di un fondo identico, momenti diversi di un unico
universale. E qui va notato che quando sì parla di universale non bisogna
correre con la mente all'universale astratto, alla nota od alla proprietà
comune e ripetentesi in un certo numero di casi, la quale non significa nulla,
ma all’universale concreto, al carattere significativo che, implicando il modo
con cui è connesso con altri caratteri o momenti sì presenta come fattore
generatore della realtà concreta Un esempio dell’universale concepito in modo
siffatto ci vien fornito da talune proprietà delle figure geometriche; dato,
per es. un arco di cerchio, noi abbiamo il raggio, onde possiamo descrivere
tutta la circonferenza; e perchè ciò? Perchè l’arco dato non è semplicemente
ripetuto, ma è continuato secondo la natura propria (universale concreto) della
ovvero come delle inferenze esplicite. Così l'equazione, poichè risulta da una
comparazione di relazioni numeriche astrattamente considerate, pare che
corrisponda al giudizio universale e più specialmente a quello ipotetico : il
che è già sufficiente a porre in evidenza il carattere sintetico o inferenz ale
di essa. Se non che l'equazione non presuppone, non implica nulla, ma distende,
per così dire, in modo completo gli elementi su cui verte l’attività
giudicatrice. Mentre l’ordinario giudizio ipotetico omette o presuppone
l'esistenza di tutte quelle condizioni che o sono ovvie addirittura, o
implicite o completamente inattive, l'equazione, il cui contenuto è omogeneo
appare ipotetica sulla base di detta figura piana, natura propria che regola le
parti e che, quantun que implicata gia nell'arco dato, è nondimeno distinta da
questo. La cosa riuscirà forse più chiara ancora se invece di un cerchio noi
consideriamo un’ellissi, in cui il frammento della curva dato non può essere
soltanto ripetuto senza mutamento nel rimanente della costruzione: vuol dire
che nella curva data vi è qualcosa che può dettare la modalità della
continuazione e completamento di essa. Sicchè noi possiamo definire il giudizio
mediato, o inferenza, come il riferimento alla realtà (entro la sfera di un
dato universale) di determinazioni per l’intermezzo di altre determinazioni
direttamente riferite alla Realtà, ed esprimenti la natura propria
dell’universale; ovvero, come il riferimento di alcune parti alla realtà per
mezzo. di altre parti esprimenti la natura propria di una totalità determinata.
Perchè si abbia l’inferenza è necessario adunque che l’universale si presenti
come un sistema le cui parti siano in necessaria connessione tra loro e che la
semplice unità delle differenze, quale si manifesta nel giudizio, sia
sostituita da una maggiore o minore complessità di determinazioni e da una
congiunzione più o meno articolata di attributi e di relazioni (nelle quali
vanno comprese le relazioni di spazio e di tempo). Cfr. BosanQuET [citato da H.
P. Grice, “Prejudices and prediletions, which become, the life and opinions of
H. P. Grice” --, Logic. un processo intellettuale, o di una sintesi di
differenze esplicite. Noi nel giudizio ipotetico affermiamo la connessione
necessaria esistente tra due termini senza mettere in chiaro la maniera in cui
tale connessione si stabilisca e si generi, senza cioè rondero esplicito nel
processo logico il fondamento o la ragione della connessione: nella equazione
invece o nella combinazione delle equazioni i rapporti tra i varii termini, le
loro proprietà e la loro derivazione vengono tutte messe sott'occhio per modo
che appare evidente il fondamento del loro legame. È per questo che l'equazione
presenta una connessione di ordine inferenziale in modo molto più chiaro che
non l’ordinario giudizio ipotetico. | La combinazione delle equazioni messa in
rapporto con una singola. equazione si presenta poi come la combinazione dei
giudizi messa in rapporto con un singolo giudizio: in entrambi i casì è
pressochè impossibile tirare una linea netta tra l’atto singolo e la combinazione
degli atti. Il ragionamento matematico, stando al Bosanquet, può assumere varie
forme, delle quali le principali sono: quella seriale (per cui è possibile
l’apprensione delle connessioni spaziali e temporali), quella sostitutiva,
quella costitutiva (equazioni costitutive) e quella proporzionale. Tutte le
dette forme hanno questo di comune che non implicano un processo di vera e
propria sussunzione, vale a dire che la conclusione, emergendo da una relazione
quantitativa esistente tra le premesse, ovvero dalle modalità della funzione
costruttrice espressa nelle stesse, non può essere considerata come un caso
particolare compreso nella premessa maggiore, o come un elemento di un’
individualità concreta, ovvero come una determinazione della natura generica
espressa nella detta premessa maggiore. Così nella cosidetta inferenza per
sostituzione Premessa maggiore M = a + br tcr8. Premessa minore S =sMon
Conelusione S =8 at be + cer8 noi abbiamo due connessioni equazionali riferite
ad un identico tutto e quindi atte a dar origine ad un'ulteriore connessione.
Ma M non è, nel caso sucitato, generico, nè S è specifico, nè infine Ja
connessione di S con s (a +bx ecc.) è nota in grazia della connessione o della
subordinazione dello stesso S all’ individualità concreta M. M, non v’ha
dubbio, figura come il centro delle relazioni, come una forma dell’universale
quantitativo che, per così dire, pervade tutta ‘l'equazione, ma da ciò non
consegue punto che .S sia un caso di M piuttosto che M di $S. Insomma la sostituzione
è una conseguenza derivante dall’ identità del tutto con sè stesso nelle sue
varie forme (essendo obbietto del calcolo appunto il ritrovamento di detta
identità), e non un principio di relazione inferenziale. Da tal punto di vista
l’inferenza sostitutiva che merita propriamente il nome di inferenza per
identificazione equazionale, costituisce il fondamento del computo aritmetico e
algebrico. D'altra parte le inferenze esprimenti le connessioni spaziali e
temporali: A è a dritta di B, Bè a drittadi C.-. A è a dritta di C: o A è
anteriore a B nel tempo, B è anteriore a C.*. Aè anteriorea C, sono agli
antipodi della vera sussunzione in quanto esse piuttostochè attribuire ad un
fatto, al reale un contenuto ideale per mezzo della connessione di quest’ultimo
con un altro contenuto ideale direttamente attribuito al reale, esprimono la
maniera in cui si stabiliscono le relazioni spaziali e temporali, esprimono il
modo di procedere della funzione costrpttrice. È se si vuol per forza fare in
tal caso un’inferenza, si deve commettere l’errore di prendere il principio
attivo, l’elemento generatore, o ciò che rende possibili tali inferenze, vale a
dire la funzione mentale che ci dà l’ ordinamento costruttivo spaziale e
temporale e considerarlo come parte del contenuto da cui è tratta la
conclusione, nel qual caso sarebbe da porre come premessa maggiore delle
argomentazioni costruttive un principio suî generis, un principio generale di
costruzione che può essere espresso nel modo seguente: Ciò che è a dritta di
una cosa qualsiasi B è a dritta di ciò, di cui alla sua volta la stessa cosa B
è a dritta, e porre poi come premessa minore tutto il contenuto nell’inferenza
suddetta; giacchè lo costruzioni e le connessioni astratte si riducono a
relazioni sistematicamente necessarie, nelle quali si prescinde pressochè
totalmente dalle qualità caratteristiche dei punti di riferimento assunti come
perfettamente noti e indifferenti (se A è a dritta, ecc. vuol dire che A è un
punto o un corpo nello spazio, altrimenti l’inferenza non avrebbe senso). Le
stesse costruzioni tramutate in inferenze non possono presentare premesse
fornite di prerogative speciali. | Come si vede, in tali casi non vi ha
processo d’inferenza, perchè quella che dovrebbe essere premessa minore è la
pura ripetizione, senza alcuna variazione, di quella che è posta come premessa
maggiore; a ciò si aggiunga che la stessa premessa minore racchiude tutto, per
modo che manca la conclusione. In siffatta inferenza le modificazioni
reciproche delle relazioni sono costruite -nell’atto che si argomenta e non
vengono presupposte nella natura del soggetto reale, a cui si riferisce
l’inferenza. In altri termini l’argomentare non ha per scopo già di rendere
esplicito, di distendere ciò che è già involuto nel soggetto esistente per sè,
ma nell'atto stesso che l’argomentare ha luogo, si costruisce o si forma il
soggetto dell’inferenza. I processi costruttivi spaziali e temporali adunque
non sono dei processi d'argomentazione sussuntiva, ma esprimono in forma ideale
il riferimento reciproco dei vari punti dello spazio e del tempo, riferimento
che è basato sulla identità e continuità dello spazio e del tempo. I processi
delle equazioni costitutive, delle equazioni, cioè, enuncianti i rapporti
numerici esistenti tra le parti componenti determinate totalità presentano due
aspetti. Da una parte figurano come sémplici calcoli o combinazioni di rapporti
simili alle equazioni mediate, o sistemi di equazioni numeriche, le quali non
hanno alcun significato all'infuori di un dato sistema numerico: infatti quando
si stabilisce una proporzione tra due quantità variabili, dando a queste un
valore determinato (coefficiente) per vedere quali modificazioni ne risultino,
è evidente che non vi è premessa maggiore, ma bensì descrizione generalizzata
di un identico tutto in due casi, i quali devono essere attuati rispettivamente
con determinati fattori e l’inferenza consiste nel presentare la costruzione di
un tale tutto appunto rispettivamente sulla base di tali fattori; dall’altra
parte il calcolo, le combinazioni delle equazioni in taluni casi sono ° fatte
in base a certi presupposti, e con regole determinate, onde esse figurano come
mezzi per raggiungere uno scopo definito, il quale poi sì può ridurre alla
determinazione delle proprietà di una data figura nello spazio: così p. es. la
forma spaziale del tipo curvilineo (la curva poi può essere aperto o chiusa,
simmetrica o asimmetrica ecc.) è come il contenuto quasi generico, secondo il
linguaggio del Bosanquet, ovvero l’idea-in base a cui la costruzione di una
particolare figura curva avente proporzioni numeriche, assume proprietà
caratteristiche. L'unità organica o sistematica presentata dalle figure
geometriche, per la quale esistono rapporti definiti tra i vari elementi che le
compongono, è data appunto dal fatto che le dette figure non risultano da un
semplice aggregato di parti, ma dalla coordinazione numericamente proporzionale
di queste. E nell’atto stesso della costruzione di date forme spaziali si
possono venir scovrendo le loro proprietà, ond’esse non figurano come qualcosa
di dato, come un fatto, ma come qualcosa che si vien facendo. In ogni case il
passaggio da una combinazione equazionale numerica alla costruzione
(proporzionalmente corrispondente nelle sue parti) di una data figura fornita
di date proprietà può esser fatto solo in base ad un principio racchiuso nella
natura caratteristica della detta figura quale emerge dalle qualità
fondamentali dello spazio . È chiaro che col fare entrare in campo l'elemento
del tempo e quindi col rappresentare il movimento come una lunghezza e col
riguardare le nozioni astratte di forza e di massa come elementi determinanti
in modo correlativo il movimento, noi abbiamo tutti gli organi del puro
meccanismo e della scienza costruttiva astratta. Fu detto dal Lotze che
l’inferenza proporzionale costituisce l’ultimo limite della conoscenza e che
presenta un carattere perfettamente sussuntivo: ora ciò non è esatto fin tanto
che essa non esce dal campo del calcolo puro e semplice (2:4::3:%.0.x=6),
poggiando in tale caso sopra un rapporto inerente ad un dato sistema numerico.
Nè vale a provar. niente al di fuori di questo. Quando per contrario si applica
alla determinazione di un contenuto concreto, di una individualità definita,
allora essa non ha valore e significato per sè, ma l’acquista dal fine a cui
serve o dall’obbietto a cui si riferisce, o infine dai presupposti su cui si
eleva. La proporzione non definisce, ma mette in maggior evidenza, determina,
fissandoli quantitativamente, misurandoli, i caratteri dell’individualità, le
qualità del sistema o della totalità concreta dopo che ne è nota per altra via
la loro natura, ovvero accenna ad esse perchè la conoscenza ne sia completata
con mezzi più appropriati. Noi possiamo dire che la proporzione acquista tutto
il suo valore dall’eterogeneità dei suoi termini, in quanto questa implica
sempre l’esistenza di un sistema speciale di relazioni e di connessioni. La
detta eterogeneità dei terminidella proporzione può essere di varie sorta,
secondochè i due obbietti comparati sono o no misurabili con un’identica unità,
ovvero uno dei due è misurabile e l’altro no, ovvero infine nessuno dei due è
misurabile; nel quale ultimo caso non è più a parlare di proporzione, ma di
analogia o di sussunzione, mentrechè nei casi antecedenti si hanno varie forme
e combinazioni. di giudizi ipotetici, i quali rappresentano i veri punti di
passaggio dalle forme astratte d’infevenza a quelle concrete (4). Le leggi
costruttive hanno adunque questo di proprio che sono leggi funzionali in quanto
esse non vengono estratte da ciò che esiste, da ciò che è dato, ma indicano le
maniere in cui la mente opera in date circostanze. L'universale concreto in
base a cui avvengono i nessi tra gli attributi espressi nelle leggi è attivo
nella mente e viene attuato mentre si enunciano le dette leggi: non è qualcosa
che esiste per sè di rincontro alla mente. Pertanto in esse vanno comprese
tutte le leggi riguardanti il pensiero, la emotività e la volontà umana in
azione. Le leggi logiche fondamentali, le leggi etiche, estetiche ecc. non
esprimono il modo di comportarsi di cose esistenti al di fuori del soggetto,
non sono ricavate da fatti, ma esprimono le maniere in cui i fatti vengono
disposti, ordinati, appercepiti dal punto di vista logico, estetico ed etico.
Siffatte leggi non possono essere ricavate da principii generali in cui siano
come contenute, perchè questi principii non potrebbero essere che le funzioni
dello spirito umano, le quali, messe in azione, determinano appunto le leggi
logiche, estetiche ed etiche. Le dette funzioni dell'anima umana espresse o
tradotte in termini intellettivi, separate dal fatto e idealizzate (guardate
nella loro intelligibilità o possibilità, nel loro was) costituiscono appunto
le leggi logiche, estetiche ed etiche. Onde consegue che questa prima classe di
leggi leggi funzionali o costruttive da una parte non sono induttive, in quanto
(1) Cfr. BosanQuET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which
become the life and opinions of H. P. Grice” -- non vengono ricavate da fatti e
dall’esperienza, e dall'altra non sono deduttive i in quanto non vengono
ricavate da principii generali o da individualità, sistemi o totalità date. Ciò
sarà più evidente in seguito quando avremo parlato delle varie forme di
sussunzione. Qui notiamo che va fatta distinzione tra le leggi emergenti da un
dato fatto estetico o da un dato sistema scientifico o da un complesso di fatti
psicologici occupanti un determinato punto deilo spazio e del tempo le quali
possono essere deduttive o induttive secondo che sono state ottenute prendendo
le mosse dall’universale, ovvero dalle determinazioni particolari di questo e
le leggi che indicano per così dire la via tenuta dalla | psiche nelle sue
principali funzioni. Queste leggi sono stabilite ed enunciate nell’ atto stesso
che vengono formati i principii da cui dovrebbero essere ricavate, principii
che sono come l’espressione intellettuale delle PHAGIPLI funzioni dello spirito
umano.Le leggi analogiche che si potrebbero anche chiamare leggi morfologiche o
leggi classificative, sono quelle per mezzo di cui unoggetto o un caso
particolare è reso intelligibile, facendolo rientrare in una data classe e
quindi descrivendolo, caratterizzandolo. Descrivere e classificare sono atti
che. s’'implicano e si completano a vicenda: io in tanto classifico in quanto
descrivo e viceversa in tanto descrivo in quanto classifico, in quanto faccio
rientrare il particolare nell’ universale, in quanto guardo il nuovo, l’ ignoto
attraverso il noto. È vero che d’ordinario si fa distinzione tra i giudizi
propriamente descrittivi (i quali, si dice, hanno per predicato un aggettivo
esprimente una proprietà, un attributo del soggetto) e quelli esplicativi (i
quali, si dice, hanno per predicato un sostantivo più generale, nella cui
estensione è comprese il soggetto), ma in sostanza tale distinzione è soltanto
grammaticale, giacchè nel secondo caso il predicato-sostantivo è adoperato in
un certo senso aggettivamente come nel primo il predicato aggettivo è adoperato
in un certo senso sostantivamente : in entrambi i casi, infatti, il predicato
ha l'ufficio di far appercepire, di rendere intelligibile il soggetto, in
entrambi i casi cioè il predicato è un contenuto ideale atto a qualificare il
reale quale si presenta nel soggetto grammaticale. Del resto fu già notato da
altri che tale processo classificativo del pensiero può presentare parecchi
aspetti, pur conservandosi uno nel fondo: così esso può avere una doppia
direzione, cioè o va dalla nuova (attuale e singolare) alla vecchia
rappresentazione (generica, o schematica o classe) e in tal caso la seconda è
riconosciuta e affermata come un carattere della prima (giudizio analitico);
oppure va dalla vecchia alla nuova, e questa apparirà come una particolarità
novella della prima (giudizio sintetico). Che il giudizio classificativo
(assuma la forma propriamente classificativa o quella descrittiva o quella
storica), sia sempre uno nel fondo viene provato anche da questo che le scienze
così dette classificative sono descrittive e storiche insieme: così la così
detta Storia naturale comprende la Zoologia, la Botanica, la Mineralogia, le
quali sono eminentemente classificative e descrittive: non vogliamo con ciò
affermare che tali scienze non siano anche esplicative, su che ebbe già a
richiamare l’attenzione il Wundt, ma esse sono esplicative, perchè sono insieme
genetiche e morfologiche, perchè, cioè, classificano e descrivono gli obbietti
naturali, ricercandone la evoluzione. Le leggi analogiche adunque sono della
più grande importanza in quanto rendono possibile l’apprensione ordinata delle
cose, in quanto rendono intelligibili gli obbietti, facendoli rientrare in date
classi e in quanto, ciò facendo, mettono in evidenza l'affinità, lo svolgimento
e la genesi dei vari ordini di realtà. Vanno considerate come una categoria a
parte di leggi in quanto uno è il processo di loro formazione processo logico
detto dell’analogia e della verosimiglianza, il quale consiste nel conchiudere
dacchè parecchi oggetti e fatti si somigliano in alcuni punti, che si somigliano
probabilmente anche in altri punti, L’analogia ha questo di proprio’ che la sua
conclusione non è fondata sul numero dei casi in cui i suoi termini (il
soggetto e il predicato) si presentano connessi, ma è fondata sull'esame,
sull’analisi e quindi sulla valutazione dei caratteri riscontrati connessi in
un gran numero di casi; analisi e valutazione che è fatta col ricercare ciò che
i detti oggetti e fatti presentano di comune, col ricercare le proprietà e gli
attributi, i quali, qualificando entrambi, valgono a mettere in evidenza la
loro vera natura. Ora se tutti i giudizi potessero essere considerati come
reciproci l'analogia diverrebbe ipso facto un’ inferenza da condizione a
condizionato, come è inferenza da condizionato a condizione: due antecelenti che
hanno ùn medesimo conseguente devono essere intimamente connessi tra loro ecc.
è la formola esprimente l'analogia qual'è realmente, mentrechè la formola due
antecedenti che hanno un merlesimo conseguente devono essere conseguenti di un
medesimo antecedente, per il che devono coincidere , rappresenta l'ideale a cui
tende l’argomentazione, ma che essa per sè è impotente a raggiungere. Se il
fatto di riscontrarsi i medesimi caratteri in A e B non basta a provare che A
sia specie e B genere o viceversa, indica però sempre che tra loro vi deve
essere una correlazione e una corrispondenza ; sicchè se non potremo attribuire
a B il carattere M potremo attribuirgliene un analogo M'; si ha così la
proporzione: A: B= B:M Il carattere M' figura come il prodotto di ciò per cui A
coincide con B (appartenendo ad un medesimo genere) e di ciò per cui ne
differisce. Ha ragione pertanto il Drobisch di considerare l’analogia come il
mezzo con cui vengono messe in evidenza le corrispondenze, le umologie e le
analogie esistenti tra specie congeneri, coordinate quindi tra loro e
subordinate ad un genere superiore comune, come îl mezzo con cui viene posto in
luce il differenziarsi di un'identità fondamentale sistematica, l’unità
morfologica di un dato sistema e l'ordinamento esistente nei vari ordini di
reali, i cui ritmi di attività mentre si corrispondono tra loro, sono d’altra
parte contenuti in un ritmo superiore generale. Così un naturalista che ha
scoperto in una specie animale o vegetale un dato carattere, p. es. un certo organo,
non attribuisce ad un'altra specie congenere alla prima l’identico carattere,
ma piuttosto uno analogo 0, come si dice, omologo, cioè tale che raccolga in sè
la natura del genere e risponda insieme alla particolare natura della specie.
Il valore del ragionamento per analogia dipende da due condizioni: 1° che tra i
caratteri simili e il carattere che si tratta di attribuire ad una delle due
cose comparate esista un rapporto naturale e non una semplice coincidenza
fortuita : 2° che le due cose comparate non differiscano per caratteri tali che
ogni analogia riguardante il carattere che si tratta di attribuire ad una di
esse sia allontanata dal bel principio. Come si vede, la validità dell’analogia
poggia tutta sull’importanza attribuita ai vari caratteri e sul rapporto
esistente tra le note comuni e quelle differenti, sempre in ordine ad
importanza: pertanto il nodo della questione sta tutto qui, sul fondamento e
sui limiti di applicabilità del nostro giudizio apprezzativo circa l’importanza
dei caratteri di dati oggetti. Vi fu chi affermò che il rapporto tra i
caratteri simili e quelli differenti (base della validità dell’analogia) fosse
rapporto puramente numerico : in tal caso l'analogia sarebbe stata più o meno
valida secondochè fosse preponderante la somma dei caratteri comuni, ovvero
quella dei caratteri differenti, tenuto conto della conoscenza totale che noi
abbiamo delle proprietà degli oggetti in questione. Ma ognuno vede che la
validità dell’ analogia non può dipendere dal numero, bensì dalla qualità dei
punti di somiglianza, i quali derivano il loro significato dalla loro relazione
col sistema totale di cui fanno parte. Ed il sistema non può essere ridotto ad
un aggregato di parti indifferenti, giacchè queste, per l'opposto, hanno un
valore differentissimo dipendentemente dai reciproci rapporti in cui si
trovano. Chi è pratico dei processi analogici, i quali rendono possibile la
classificazione morfologica degli obbietti naturali, sa benissimo che essi
poggiano non sulla enumerazione, ma sulla valutazione dei caratteri: già non si
avrebbe un’unità di misura per enumerare i caratteri, e poi che cosa vorrebbe
dire un punto di identità o di somiglianza ? come si farebbe a circoscrivere i
limiti dell'identità e della somiglianza ? | L'analogia non è fondata proprio
sulla identità, ma sulla corrispondenza dei caratteri, e sulla importanza ad
essi attribuita, corrispondenza ed importanza che possono essere scoverte,
basandosi sopra un insieme di considerazioni di ordine diverso, le quali però
mirano sempre a ricercare la connessione in cui si trovano i caratteri in
questione con tutto il sistema degli organi che rendono possibile la vita
dell'individuo, mirano cioè a ricercare l’ ufficio a cui gli stessi caratteri
adempiono e a tracciarne la genesi e lo svolgimento. Chi dice analogia dice
comparazione dei caratteri in owdine alla loro importanza ; e chi dice
comparazione in tal senso dice ricerca del significato che i detti caratteri
hanno per la vita dell'individuo. Dall'altra parte chi dice determinazione della
corrispondenza csistente tra i caratteri di due specie, dice esame del molo di
funzionare e di operare, esame dell’ ufficio degli stessi caratteri e insieme
indagine della loro genesi e sviluppo. spaziale possono essere ridotti a
sillogismi, il cui termine medio (il fine da raggiungere) determina il rapporto
degli estremi. In ordine alle costruzioni meccaniche è stato notato che esse
non acquistano la loro consistenza dall'ufficio a cui servono, giacchè questo è
qualcosa di aggiunto, col che si vuol dire in sostanza che una costruzione
meccanica è qualcosa d' indipendente dalla sua funzione, tanto è ciò vero che
essa può e non può compiere la detta funzione, la può compiere più o meno bene,
e può anche essere incapace di compierla affatto: tuttavia la macchina è sempre
un prodotto necessario delle forze o leggi meccaniche che la rendono possibile
ed esiste come tale in ogni caso. Da ciò conseguirebbe poi che i rapporti dei
vari elementi componenti la macchina sarebbero qualcosa di necessario e di
fatale ed andrebbero formulati per mezzo di leggi costruttive, piuttostochè
sussuntive. Ora noi osserviamo che l'ufficio, la funzione della costruzione
meccanica è tale elemento essenziale alla sua struttura che non può in alcun
modo esser considerato come un epifenomeno : l’individualità, vale a dire la
ragione d'essere della macchina non è riposta tutta nello scopo che essa deve
raggiungere? Le forze o leggi meccaniche per sò prese sono un’astrazione, sono
un prodotto dell'analisi scientifica; nella realtà sono sempre combinate
dall’intelligenza “umana in vista di un fine, il quale non solo contribuisce ad
accrescere la consistenza del fatto meccanico puro e semplice, ma gli dà
realmente valore e significato. Del resto ognuno comprende che tra una
macchina, la quale risponde ad uno scopo che questo poi sia o no raggiunto in
modo completo, poco importa ed una composizione qualsiasi di forze meccaniche
corre un divario essenziale in quanto quella forma un tutto, un sistema che ha
la sua ragione determinante nella funzione, mentrechè la semplice composizione
di forze nei suoi rapporti necessari si rivela completamente inorganica.
Possiamo d'altra parte affermare che tutte le leggi teleologiche vadano confuse
insieme, possiamo cioè dire che il procedimento per cui vengono enumerati i
rapporti esistenti tra i termini di un sistema sia sempre uguale? Noi crediamo
che a tal proposito vada fatta distinzione tra gli scopi e le maniere di
raggiungerli dettati dall’ esperienza e dall’osservazione che col Masci si
potrebbe chiamare passiva, e gli scopi e le maniere di raggiungerli dettati
dalla osservazione attiva. Le prime si potrebbero chiamere leggi finali
empiriche o a posteriori, perchè fondate su rapporti empirici; le altre si
potrebbero chiamare leggi finali a priori, perchè fondate su determinazioni
primitive della nostra attività spirituale. Quelle non implicano nessun grado
di assolutezza nel senso che ì relativi sistemi sono fatti forniti solo
dall'esperienza e quindi aventi un valore contingente: le altre invece sono
assolute, perchè si riferiscono a sistemi inerenti alla natura umana. Le leggi
finali empiriche sì riferiscono a sistemi che vengono costruiti da noi con
materiali forniti dell’ esperienza e in virtù di scopi suggeriti del pari dalla
pratica della vita: le leggi finali a priori si riferiscono per contrario a
sistemi ideali formati da noi per rispondere ad esigenze interiori e profonde
del nostro essere, indipendentemente dalla convalidazione dell'esperienza
esterna. Tali leggi finali, anzi, lungi dall’ essere ricavate dall’ esperienza,
servono a regolarla. I rapporti morali, logici, estetici e matematici sono
inerenti a sistemi aventi il loro fondamento e la loro radice nella
costituzione, nella natura propria dello spirito umano e non nell’ esperienza
esterna, ond’è che il fine logico, morale, estetico e matematico non può esser
raggiunto che nella maniera suggerita dalla stessa natura dello spirito, al di
fuori della quale maniera non è più a parlare di funzione conoscitiva, morale
ecc. Le suddette leggi teleologiche mostrano pertanto la loro base categorica a
preferenza di tutte le altre. E a tale proposito giova notare che le
costruzioni meccaniche in tanto appaiono in modo evidente sistematiche in
quanto sono come a dire incorporazioni di leggi matematiche. Le leggi finali
empiriche possono essere ridotte alla formula seguente : Dato un sistema
cosiffatto, vi deve essere questo rapporto determinato tra i suoi elementi: ora
in tal caso il sistema presentato è un dato dell’ esperienza, che potrebbe
anche non esseré o essere differente, perchè non risponde a nessuna necessità
intrinseca ; per contrario la formula delle leggi finali a priori è: L'anima
umana è cosiffatta che non può non produrre il tale sistema (logico, etico,
estetico e così via) con questi rapporti ecc.: è evidente che in questo caso
non si ha a che fare con qualcosa che può e non può essere dato, e che può
essere dato indifferentemente in un modo piuttosto che in un altro, ma si ha a
che fare con ciò che è inerente all’anima umana in generale, tolta la quale non
rimane più nulla. Conclusione: le leggi finali empiriche sono contingenti,
perchè fondate su dati empirici, mentrechè le leggi finali a priori sono
assolute, perchè fondate su funzioni del soggetto. Noi dicemmo che le leggi
deduttive o sussuntive sono quelle derivate dall'analisi di un sistema. Ora è
evidente che il cosìdetto sillogismo disgiuntivo non può non figurare come uno
dei processi atti a darci le suddette leggi, secondo la formula: A è o B o C, A
non è B, .-. A è C, ovvero A è B.'. A non è C. Recentemente però Bradley e
Bosanquet hanno osservato che mentre la disgiunzione è l'espressione più
completa e perfetta del grado di chiarezza e di determinatezza a cui può
giungere la conoscenza umana, in quanto essa esaurisce il contenuto di un
sistema, di una totalità, mostrandone le varie parti e il modo in cui queste si
articolano tra loro (e a tal proposito va notato appunto che ogni congiunzione
si può ridurre a disgiunzione, giacchè una volta che vengono assegnate con
esattezza e precisione la condizioni sotto cui ciascuna determinazione è
attribuibile al soggetto reale, rimane esclusa ogni altra determinazione che
non possa essere compresa nella prima per la contradizione che nol consente),
dall'altra parte la disgiunzione stessa è tutta racchiusa nella premessa
maggiore del sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dalla logica
tradizionale: quando, infatti, la detta premessa disgiuntiva è bene determinata
nelle sue varie parti, e nelle relazioni intercedenti tra gli elementi, essa
contiene tutto quello che verrebbe detto nella premessa minore e nella
conclusione, le quali così sono ripetizioni superflue e quindi inutili. Il
sillogismo disgiuntivo della logica formale è valido soltanto nelle
disgiunzioni per ignorantiam o in quelle relative ad un punto del tempo, nei
quali casi la premessa minore vale a risolvere un dubbio relativo ad un membro
di un’alternativa o ad affermare l’esistenza di questo in un dato momento: ma
dette disgiunzioni lungi dal significare l'organizzazione vera di un sistema,
hanno la loro origine in una condizione accidentale riguardante l’attività
conoscitiva di chi parla e ragiona in un dato . periodo di tempo. In sostanza
il concetto del Bosanquet è questo : la conoscenza umana, specie la conoscenza
scieatifica, non verte sui fatti, ma sui concetti dei fatti: ora che cosa vuol
dire ciò? Che l'ideale della conoscenza è quello di apprendere le possibilità
di fatti, val quanto dire le condizioni in cui gli eventi reali possono aver
luogo, tanto è ciò vero che la legge, la quale enuncia il modo di agireti una
data sostanza non afferma in alcun modo l’azione attuale della detta sostanza
sopra un organismo ; e che cos'altro fa la disgiunzione se non porre,
sott'occhio tutte le possibilità, tutte le determinazioni (con le loro
condizioni) che può presentare un universale concreto? In vista di ciò appunto
la disgiunzione rappresenta la forma più perfetta e completa della conoscenza.
Ci sia lecito fare alcune osservazioni : Anzitutto non vediamo perchè si debba
destituire di ogni valore il sillogismo disgiuntivo, secondo l’intende la
logica tradizionale, il quale adempie ad uffici importanti nella conoscenza
umana. La cognizione perfetta, la cognizione strettamente disgiuntiva
rappresenta un ideale a cui l'intelletto tende ad avvicinarsi senza poterlo mai
raggiungere, specie nelle conoscenze riflettenti la realtà esterna, il dato
dell’esperienza; e la vita della conoscenza reale ed effettiva è riposta
appunto in tale processo di approssimazione indefinita, giacchè ammesso pure
che possa l’uomo giungere a racchiudere tutto in una disgiunzione completa, con
ciò verrebbe a scomparire l’attività conoscitiva. Ma su ciò torneremo or ora:
diciamo piuttosto che il sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dalla
logica tradizionale esprime un momento interessante del processo conoscitivo,
giacchè oltre la conoscenza per concetti vi è quella di fatti (conoscenza
storica), in cui la determinazione del tempo ha un'importanza speciale. Ma il
sillogismo disgiuntivo oltrechè esser valido a definire la realizzazione di un
contenuto ideale nel tempo, vale anche a determinare quale di parecchie
anticipazioni fantastiche, di parecchie possibilità ipoteticamente enunciate
trovi il suo riscontro nella realtà. Che il dominio del possibile sia più vasto
del reale nessuno vorrà negare: onde la necessità di limitare quello per mezzo
di quest’ultimo. Nè vale il dire che la disgiunzione per ignorantiam
rappresenta un fatto accidentale, ‘ transitorio, perchè d'origine subbiettiva,
giacchè, non esistendo l’onniscienza, la suddetta disgiunzione per ignorantiam
figura come un processo inerente essenzialmente ed organicamente alla funzione
conoscitiva. Poi, il sillogismo disgiuntivo quale viene ammesso dai citati
filosofi inglesi è ammissibile? Per rispondere a tale quesito occorre vedere
quali siano ì presupposti su cui esso sì fonda; esso nientemeno presuppone che
sia conosciuto il principio informatore con tutte le sue possibili
determinazioni di un dato ordine di reali, presuppone la conoscenza completa di
tutte le differenziazioni possibili di una qualità, il cui contenuto deve
essere completamente esaurito. Ognuno vede che un tal genere di onniscienza che
è la conditio sine qua non della disgiunzione se è conseguibile nelle
conoscenze formali, nei processi razionali (logica, calcolo ecc.) e in tutti
quei fatti che hanno la loro radice nella natura propria del nostro spirito, in
quei fatti che sono prodotti da noi, appare un sogno nelle conoscenze
riferentisi alla realtà empirica. Inoltre le differenziazioni del dato appaiono
come fatti, i quali non possono essere derivati razionalmente l'uno dall’altro
in forza di uno stesso principio, non possono cioè essere riguardati come
variazioni necessarie di una stessa qualità: noi, infatti, possiamo ben dire che
di triangoli non ve ne possono essere che di tre specie, equilateri, isosceli,
e scaleni, ma non possiamo dire che di colori non ve ne possono essere
necessariamente che sette, o cinque o tre. Il fatto è che la disgiunzione in
tanto è applicabile alla conoscenza della realtà, in quanto è applicabile la
matematica. E come questa è valida a formulare i fatti nel modo più esatto,
senza dar la ragione di ciò che avviene, così la disgiunzione enuncia, illustra
i fatti, ma non li spiega: e quand anche nel sillogismo disgiuntivo vengano
espresse tutte le condizioni determinanti i vari termini dell’alternativa, le
stesse condizioni non emergono mai dalla disgiunzione, non emergono cioè mai
dalla necessità inerente al sistema di determinarsi assolutamente in una di quelle
maniere esclusive tra loro. Perchè ciò avvenisse, bisognerebbe che noi fossimo
al caso di dedurre in maniera razionalmente necessaria da una data qualità
empirica le sue varie determinazioni, bisognerebbe non soltanto che l'universo
fosse qualcosa di eminentemente razionale, ma che noi fossimo come a dire nel
centro dell’universo da essere a parte del suo ritmo e processo evolutivo.
Pertanto la disgiunzione più completa non può servire che a formnlare e ad
illustrare in modo preciso ciò che noi per altra via già conosciamo. E che il
processo disgiuntivo per sè sia insufficiente a darci una definizione reale o
radicale, vien provato da questo che quando esso è praticato mena a definizioni
imaginarie (non riferentisi a obbietti reali). Le divisioni stesse in tal caso
o hanno il loro fondamento in preconcetti che già esistono nella mente di chi
fa la divisione, ovvero appaiono puramente arbitrarie. Riassumendo, in ordine
al sillogismo disgiuutivo pos-. siamo dire che esso quale viene inteso dal
Bradley e dal Bosanquet, vale a dire come contenuto tutto nella premessa
maggiore del sillogismo disgiuntivo della logica tradizionale, trova
un'applicazione giustificata solo in quei casì in cui è il nostro spirito che
dà origine a prodotti razionali compiuti, a costruzioni ideali, delle quali
poniamo noi i principii informatori e noi stessi razionalmente
(indipendentemente dall'esperienza) deduciamo le variazioni di cui i detti
principii sono suscettibili. Bisogna tener fisso in mente che il
giudizio-sillogismo disgiuntivo può essere adoperato solo quando è
completamente nota la natura propria di un essere, di una qualità, per modo che
si sa entro quali limiti la qualità, l'ente deve necessariamente variare,
varcati i quali limiti, non si ha più quell’ ente, quella qualità. E non basta;
occorre che ciascuna determinazione sia tale che, spe ha luogo, non lasci posto
alle altre. Come si vede, siffatte condizioni si possono verificare solo in ciò
che è opera nostra, in ciò che facciamo noi e di cui conosciamo, per così dire,
l'intimo meccanismo. Il mondo della conoscenza in genere, ed un dato sistema di
conoscenze circoscritto nello spazio e nel tempo, il mondo etico e una data
condotta morale, il mondo estetico ed una data opera d’arte, il mondo religioso
ed una data religione, l'ordine politico sociale in genere e un dato
ordinamento politico-sociale, ecco i campi in cui può avere un uso fecondo il
sillogismo-giudizio disgiuntivo: e perchè? Perchè in base alla conoscenza che
abbiamo delle diverse funzioni della coscienza umana possiamo determinare le
diverse maniere in cui ciascuna di esse si può, anzi sì deve estrinsecare e
possiamo anche precisare i modi in cui ciascuna estrinsecazione può alla sua
volta variare. Ma possiamo far ciò anche in modo completo? Il sillogismo-giudizio
disgiuntivo può avere un uso illimitato nel campo dello spirito? A tale domanda
dobbiamo subito rispondere negativamente, giacchè noi crediamo che la causalità
psichica non implicando equivalenza dei termini causa ed effetto, sia regolata
dalla legge generale detta dell’aumento progressivamente indefinito
dall'energia spirituale: onde consegue che è assolutamente impossibile
racchiudere nella formula disgiuntiva tutte le possibili manifestazioni
dell'attività spirituale e tutte le possibili ulteriori determinazioni di
ciascuna di dette manifestazioni. Perchè la coscienza umana potesse costruire
intellettualmente il mondo per mezzo di una disgiunzione, bisognerebbe che essa
fosse, come diceva Lotze, nel cuore della realtà, bisognerebbe che il dato non
fosse dato, vale a dire che non fosse, o che fosse riducibile a pura forma, ma
questo è un sogno: già per poter applicare la formula disgiuntiva occorre bene
che vi sia qualcosa, che vi sia il reale a cui applicarla: e questo reale,
questo qualcosa questo dato non potendo essere ottenuto mediante la
disgiunzione da un sistema d’ ordine superiore, sfugge alla disgiunzione, per
modo che quest’ultima viene a figurare in ultima analisi come qualcosa di
formale che per sè altro non può fare che illustrare, enunciare ciò che già
esiste: ma perchè ciò che esiste possa essere in tal guisa illustrato occorre
che sia contenuto nella sua totalità (anche virtualmente) nella mente di chi
pensa: ora la realtà, per la mente umana almeno, non è riposta in qualcosa di idealmente
finito, di compiuto, ma in un processo in cui si notino solo dei punti di
arresto o di concentramento, dei nodi di svolgimento che sono via via sempre
sorpassati. Che la struttura logica dell’ universo non metta capo in ultima
analisi in un giudizio-sillogismo disgiuntivo vien provato anche da questo, che
non ogni concetto generale consta degli stessi elementi dei concetti specifici
più vicini ai reali concreti e particolari (di attributi schematicamente
rappresentati entro i limiti di loro variabilità); per contrario le astrazioni
più generali si mostrano a volte sfornite completamente di note che esistono
nelle specie subordinate, nel qual caso le dette astrazioni generali figurano
piuttosto come un gruppo di leggi o di condizioni riferentisi ai fatti
concreti, che come note inerenti ai sistemi od individualità d'ordine più
esteso ed elevato. Ciò che sopratutto non va dimenticato è che va fatta
distinzione tra la possibilità o l’idealità estratta dall’esperienza e la
possibilità che si potrebbe chiamare capacità funzionale : la prima presuppone
sempre l’esperienza e non è mai completa in modo da poter essere racchiusa in
una formula disgiuntiva, mentre l’altra che esprime il nostro potere, la nostra
facoltà, è indipendente dall'esperienza, è completa potenzialmente nelle sue
parti e può all'occorrenza essere espressa per mezzo di una disgiunzione. La
prima possibilità è rappresentativa o passiva, l’altra è facoltativa o attiva:
la prima mentre è fondata sull'esperienza non è realmente attuale; è puramente
ideale, proviene dal di stacco del was dal dass ed esiste nella intelligenza e
per opera della stessa; l’altra che ha le sue radici nella nostra vita
interiore e che implica l’ unione del was col dass, è sentita come capacità,
come forza interna che può tramutarsi in atto dipendentemente dal nostro
volere. Che concetto dobbiamo avere della conoscenza in genere considerata nel
suo insieme? ecco il problema fondamentale a cuì sì cercò di preparare una
soluzione per” mezzo dello studio evolutivo nelle varie forme di conoscenza. Il
primitivo problema ne ha fatto subito sorgere degli altri e prima di tutto
questo: È possibile una morfologia della conoscenza, è possibile cioè
determinare l'affinità e lo sviluppo organico delle varie forme di conoscenza
per modo che queste figurino come parti essenziali di un unico tutto, come vari
rami svolgentisi da un unico tronco? L'espressione vita del pensiero ha
soltanto un valore metaforico, o ne ha uno reale? E poi l’altro: In che si
differenzia la morfologia della conoscenza o la unificazione organica delle sue
varie forme dalla genesi psicologica di queste ultime? Ora a quest’ultima
domanda si può rispondere subito coll’osservare che la genesi psicologica ha il
suo fondamento nel corso dei fatti interni quale è determinato da contingenze
subbiettive ed accidentali e quindi variabili da soggetto a soggetto, mentrechè
la morfologia della conoscenza ha la sua base nelle tappe che attraversa e nel
ciclo che descrive il pensiero in genere a contatto dei vari ordini di realtà,
o, diremo meglio, ha la sua radice nelle diverse maniere in cui la realtà viene
determinata non da questo o quel soggetto, ma da tutti i soggetti ben pensanti,
onde è resa possibile la comunicazione reciproca tra gli uomini e la loro
solidarietà intellettuale. La genesi psicologica rappresenta il mezzo,
l’istrumento, la via che tiene l’anima per arrivare allo scopo finale, che è
appunto la qualificazione del reale nelle sue varie modalità, quali vengono
appuntodescritte dalla logica evolutiva o morfologia della conoscenza. Circa la
questione se sia possibile la morfologia della conoscenza osserviamo che se,
tenendo presenti i vari ordini di conoscenza, noi riusciamo a descrivere il
passaggio evolutivo dall'uno all’altro, senza che alcuna discontinuità appaia,
e se nello stesso tempo noi riusciamo a rintracciare un unico principio
evolutivo fondamentale che figuri come il filo conduttore, o come il leitmotiv
atto a guidarci attraverso le molteplici variazioni, considerate in tal caso
quali emergenze di un fondo identico e permanente, allora non vi ha dubbio che
noi siamo autorizzati ad ammettere una vera e pr opria scienza logica
evolutiva. Ora l'escursione, comunque rapidamente fatta di sopra, attraverso i
varii dominii della conoscenza ci ha messo da una parte nella condizione di
osservare che le forme logiche sono intimamente connesse tra loro, in guisa che
a volte riesce sommamente difficile delimitare in modo netto e preciso ciascuna
di esse, e dall'altra ci autorizza a riconoscere ed a formulare il principio
fondamentale che regola lo sviluppo della conoscenza. Questo invero può essere
enunciato come la tendenza ad obbiettivare, ad esprimere in forme definite e
insieme significative (atte, cioè, ad agire in modo identico ed a suscitare
quindi una medesima reazione in tutti i soggetti), ciò che dapprima è percepito
in modo vago ed indistinto, come il bisogno e l’esigenza adunque di
qualificare, di caratterizzare, di definire ciò che a bella prima si rivela
come qualcosa d’ indeterminato. La conoscenza adunque non è un epifenomeno, non
è qualcosa di sopraggiunto o di secondario, ma un elemento essenziale ed
integrale della realtà. Già non si arriva quasi nemmeno a immaginare che cosa
mai diverrebbe la realtà sfornita della conoscenza e quindi del potere obbiettivante
e determinante proprio del pensiero: il contenuto della vita non venendo in
alcun modo fissato in forma stabile sarebbe come non esistente, perchè
svanirebbe continuamente coll’attimo fuggente. Pertanto la conoscenza quale
mezzo di fissazione del reale implica sempre universalizzazione e insieme
determinazione, implica sempre il ritrovamento dell’essenza, ovvero della legge
in genere, giacchè questa fu appunto da noi altrove definita come La nozione di
legge nel 1° volume di questi Saggi. l'espressione di ciò che vi ha d'
intelligibile nell’universo. Dal che sì deduce che il giudizio vero e proprio
equivale alla legge presa in senso generale e che l’evoluzione della conoscenza
deve coincidere con l’evoluzione della legge . Ed invero qualsiasi giudizio, in
quanto giudizio, è necessario ed universale: ogni giudizio ha l'ufficio di
comprendere il particolare nell’universale e di interpretare quello con questo.
Una volta formulato un giudizio, esso è quello che è, e permane identico
attraverso tutti i mutamenti del contenuto obbiettivo, del tempo ecc. È per
mezzo della funzione giudicatrice che le cose vengono considerate sub specie
ceternitatis. Il giudizio, è bene tenerlo a mente, non rappresenta una copia e
forse nemmeno una semplice trascrizione ‘della realtà in termini ideali, ma un
modo di fissare la realtà o il modo di avere una particolare visione di essa.
Come si vede, la legge in genere non presenta caratteristiche fondamentalmente
differenti da quelle del giudizio; e le note differenziali d’ ordinario ammesse
(come l’immutabilità delle connessioni espresse dalla legge e quindi la
prevedibilità del corso degli eventi) non valgono a caratterizzare la legge in
genere, ma una specie di leggi, quelle che sono state dette leggi naturali,
riducibili per la più parte a giudizi ipotetici. Ora è evidente che non vi è
alcuna ragione di limitare la denominazione di legge alla sola legge naturale;
nè d'altronde è possibile considerare, come si vide a suo luogo, la legge
espressa dal giudizio ipotetico come qualcosa di completo in sè stesso e di per
sè stante, giacchè essa trae sempre seco necessariamente la significazione o
almeno l’accenno al sistema rispetto a cui i termini del giudizio ipotetico
figurano come parti di un unico tutto e quindi in necessaria dipendenza ira
loro. Non è lecito adunque staccare una forma della conoscenza dalle rimanenti,
considerarla per sè, prescindendo dalle intime connessioni che presenta colle
altre e dare ad essa anche un valore ed un significato caratteristicu o sui
generis. In ogni caso se una differenza si vuol mantenere tra legge e giudizio
occorre dire che la prima è il giudizio divenuto complicato nel senso che
l'ordine o la sfera di realtà, avendo perduto la primitiva semplicità e
indeterminatezza, può esser qualificata soltanto con molteplici riserve, per
modo che il tutto primitivo è scomposto e analizzato nelle sue parti di cui
vengono messi in evidenza i necessari rapporti. Non abbiamo bisogno di
spendere’ molte parole per dimostrare ora che l’evoluzione dei giudizi coincide
con quella della legge. Le varie classi di leggi da noi studiate possono essere
aggruppate in tre categorie, leggi quantitative, leggi causali, leggi normative
o funzionali; ora a tali tre categorie corrispondono appunto le forme di
giudizii e d’inferenze dette rispettivamente enumerativa, ipotetica, concreta
sistematica o disgiuntiva. Tutte le leggi in quanto sono la trascrizione in
termini intellettuali del corso degli eventi o della natura e proprietà delle
cose e delle nostre tendenze, presentano una forma comune che è quella di un
giudizio universale ipotetico; per quanto diverso si presenti l’aspetto
esteriore e la connessione verbale nelle varie leggi, queste dal più al meno
son tutte riducibili a giudizi ipotetici. universali; tanto è ciò vero che non
è mancato chi ha respinto qualsiasi differenza tra le così dette leggi
esplicative o dichiarative e quelle normative o precettive. Ora se tuttociò è
realmente giustificato dal fatto che la funzione intellettuale procede in modo
uniforme nel suo esercizio e che non esiste un abisso tra le cosidetta
necessità reale e quella finale (applicata al mondo umano, beninteso), in
quanto quest’ultima non si presenta che come il risultato della fusione di due
forme di necessità, di quella logica intercelente tra il pensiero del fine c
quello dei mezzi (chi vuole il fine deve volere anche i mezzi, il volere un
dato scopo rende necessario il volere i mezzi appropriati) e di quella causale
intercedente tra i mezzi (causa) e il fin: (effetto), tuttociò non può essere
sufficiente a rendere valida l'opinione di chi vorrebbe identificare tra loro
le varie specie di leggi. Queste, infatti, pure emergendo da un tronco comune,
figurano come le principali direzioni in cui la mente umana si può muovere per
costruire il mondo dal punto di vista dell’intelligibilità. E le tre formo
fondamentali di leggi sono determinate dai tre principii che ci servono
essenzialmente di guida e di regola nell’ordinamento e nell’obbiettivazione dei
nostri stati psichici, il principio d'identità, quello di condizionalità nelle
due sue forme di ragione e di causalità e quello di finalità o di
organizzazione o di sistematizzazione. Finchè noi qualifichiamo la realtà
esclusivamente dal punto di vista della quantità e quindi finchè abbiamo di mira
di stabilire dei rapporti di eguaglianza, di equazione o anche di propor.
zione, non avremo che delle leggi quantitative, o numeriche, o di calcolo, o
proporzionali; quando invece tendiamo a rintracciare i rapporti di
condizionalità, di connessione reciproca tra gli elementi della realtà senza
occuparci gran fatto della comparazione quantitativa o coll’occuparcene solo
nei termini in cui essa ci può essere d'aiuto a fissare la natura propria delle
cose ed a porre in evidenza il loro ritmo di attività, avremo le leggi causali,
o esplicative o dichiarative che si vogliano dire; quando infine abbiano di
mira di esaurire in modo completo la determinazione di un dato ordine di
realtà, quando noi vogliamo porre in chiaro il sistema entro cui sono contenuti
i rapporti sia di ordine quantitativo che causale, quando insomma noi oltrechè
di descrivere, di spiegare intendiamo di specificare il valore ed il
significato dei fatti, noi avremo le cosidette leggi normative o categoriche,
o, forse meglio, categorico-disgiuntive. Il fatto che alcune di queste si
riferiscono alla volontà individuale (onde il nome di normative) è secondario
rispetto a quello che esse presentano un grado abbastanza pronunziato di
assolutezza, di compiutezza e d’indipendenza in rapporto alla loro natura
sistematica. Di tal fatta sono le leggi logiche, talune di quelle matematiche,
quelle estetiche e quelle morali, le quali poi tutte sono controdistinte da
forme di necessità affini tra loro. L’ordine morale p. es. come si presenta in
un uomo morale che occupa debitamente il suo posto nella società, la necessità
razionale che connette insieme le premesse e la conclusione di un raziocinio
per cui l’ultima esiste per le prime come queste per essa, la coerenza e
razionalità del prodotto estetico, il quale quantunque non analizzato dal punto
di vista discorsivo (giacchè in quanto esteticamente attivo si rapporta
direttamente ad una forma di sentimento spiritualizzato e non è costruito per
via di combinazione di relazioni astratte, come non è apprezzato per mezzo di
una costruzione intellettuale), implica sempre da entrambi i lati, dal lato
dell’obbietto artistico e dal lato di chi contempla un processo fondamentale
razionale e finalmente la costruzione sistematica di un tutto geometrico per
cui l’universale colla sua pervadente natura determina le parti, hanno tutte la
loro base nel particolare rapporto esistente tra gli elementi e la totalità,
rapporto che trae seco le note dell’unità armonizzatrice, dell’individualità e
quindi della correlazione reciproca delle parti fornite di funzioni ed uffici
determinati per il raggiungimento di un risultato unico. La conoscenza poi,
come qualunque fatto che presenti i caratteri dell'organismo o le note della
vita e del sistema, può formare oggetto di studio da due punti di vista: 1° da
un punto di vista puramente analitico nel caso che, essendo mediante l’
astrazione separatamente considerati i singoli fattori della totalità, gli
stessi vengano distinti come elementi concorrenti all'unità del complesso, o al
raggiungimento del risultato finale; 2° da un punto di vista genetico,
fisiologico o, meglio, morfologico nel caso che vengano distiptamente
considerati gli elementi soltanto per ravvisarvi la necessità obbiettiva della
concorrenza loro al risultato e insieme per studiare le modalità della loro
cooperazione al conseguimento dello scopo ultimo. Ora se lo studio della
conoscenza da noi fatto altrove (1), fu compiuto dal primo punto di vista, la
ricerca in ordine alla morfologia della conoscenza ne è stato come il complemento
eseguito dal secondo punto di vista, col rintracciare lo sviluppo organico
della legge nel suo insieme e nelle sue varie determinazioni. V. vol. 1° di
questi Saggi: La nozione di legge. Noi siamo tratti ad enunciare la conclusione
finale che l'essenza della conoscenza piuttostochè nell’applicazione di una
data forma ad un corrispondente contenuto va riposta nell’obbiettivazione ed
universilazzione dei fatti psichici; obbiettivazione che implica la fissazione
in date forme e questa alla sua volta la connessione e la coerenza col sistema
o colla totalità delle qualificazioni e caratterizzazioni della realtà. Tale
sistema o totalità costituisce il mondo com’ è da noi conosciuto, vale a dire,
il mondo qual'è nella sua reàltà intelligibile per noi (41). E per formarsi poi
un chiaro concetto dell'origine, della natura e del significato del distacco
della mente dal mondo per cui questi vengono d’ordinario consideratà come due
mondi separati, posti l’ uno di contro all’ altro (onde poi la considerazione
meccanica del processo della conoscenza) è bene richiamare l’attenzione sul
fatto che bisogna arrivare alla filosofia stoica e epicurea per trovare le
prime parole che accennino a tale distacco. La più tipica di tali parole è
xoitrptov: furono gli stoici che per prima furono intenti a fissare il criterio
della verità (1), segno che cominciava a mettere radice la veduta formalistica
nella conoscenza. A misura che si andò innanzi crebbe la terminologia
concettualistica quale espressione della scissione della mente dal mondo, e per
mezzo degli scrittori latini essa passò nella nostra scienza mentale. Si tratta
di termini indicanti per lo più l'atto di prendere, di afferrare l'oggetto e di
penetrare in esso (mpodnt:s, ratdiniis, Evvota, Evvonua, pavtarua, dravora.
DioG. LAER.). E mentre in antededenza si era adoperata la parola forma 0 genere
(:dia, std0:, Yivos) quale designazione dei fatti intesi nel loro ordine
sistematico e nella loro essenza (nella loro legge), in tale giro di tempo
cominciò la fioritura dei vocaboli esprimenti sempre più il La detta parola
s'incontra anche in Platone (Repubd.), ma non per denotare la pietra di
paragone della verità, bensì per indicare la facoltà o le facoltà con cui la
verità è appresa. contrasto tra pensiero e cosa: es. impressione mentale , la
comparazione della mente alla tabula rasa , ecc.; tutte espressioni atte a
presentare la conoscenza come una relazione meccanica. I termini latinizzati,
impulso proveniente dal di fuori, assentire, comprensibile, comprensione,
nozioni impresse nella mente, dichiarazione, o giudizio dichiarativo,
declaratio, gr. tvacyeta), che sono divenuti comuni nella scienza odierna, si
trovano riuniti la prima volta in quel passo di CICERONE, Acad. Post., in cui
spiega la teoria stoica della percezione sensoriale. Ora, se noi ci
rappresentiamo le condizioni storiche in cui la scuola stoica e quella epicurea
fiorirono, non possiamo far a meno di notare che la contrapposizione della
mente al mondo coincide colla contrapposizione dell’ individuo alla società. Quando
la solidarietà civica fu rotta, quando le nuove condizioni politiche e sociali
distrussero l’antica centralizzazione ateniese e quando in conseguenza sparve
ogni corrispondenza tra la ragione interiore e quella esteriore, come tra
l’organizzazione sociale e il volere sociale, l'individuo fu tratto a
ripiegarsi su sè stesso e a farsi da una parte centro dell’ universo e a
cercare dall’altra, in una sfera molto più vasta, nell'umanità, l’appagamento
de’ suoi bisogni morali e sociali. Da ciò che cosa conseguì ? Che l'individuo
cominciò a sentir vacillare la sua antica fede nella ragione e quindi nel bene,
e, mentre dapprima il problema morale aveva avuto questa forma: Quale è il fine
da raggiungere in un mondo che risponde alle esigenze del volere ragionevole?
nel tempo in cui si si parla assunse l’altra forma: In che maniera può l’
individuo vivere in modo conveniente o felice in un mondo indifferente o anche
ostile al volere individuale ? E del pari mentre il problema della conoscenza
dapprima volse sulle forme di conoscenza (più perfetta o meno perfetta, più
completa o meno completa, ecc.), dipoi mirò a rintracciare il valore e il
significato della conoscenza individuale presa nella sua totalità di fronte
alla realtà. Fu adunque il distacco dell'individuo dalla collettività che rese
possibile il distacco della mente individuale dal mondo e l'accentuazione
sempre maggiore dell’antitesi trail mondo quale viene rappre sentato nell'anima
individuale e il mondo in sè; dal che poi provenne la riceca degli elementi o
dei fattori subbiettivi e di quelli obbiettivi, della forma e della materia di
ogni conoscenza: ricerca che mentre rappresenta una necessità per la
trattazione analitica, richiede il complemento di una trattazione morfologica
in quanto matoria e forma, fattori subbiettivi ed obbiettivi sono du? lati di
uno stesso processo. È la nostra facoltà d'astrarre che li separa allo scopo di
studiar ed ordinare meglio i dati; ma essi non esistono gli uni fuori degli
altri. Il vederli isolati è effotto di prospettiva. Allo stesso modo che l'
indagine esplicativa isolata va completata colla ricerca sistematica, così la
considerazione dell'elemento formale trae seco quella dell’elemento materiale
della conoscenza BosanQquET – citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections,
which become the life and opinions of H. P. Grice” -- , History of .Esthetie,
London, Swan Sonnenschein. La Filosofia che ha per obbietto precipuo di
trascrivere in termini intellettuali l'insieme dei fatti della realtà e della
coscienza umana, non può trascurare l'indagine dei fatti estetici, i quali
costituiscono appunto dei tratti essenziali dell'anima umana. Il Bello accanto
al Bene ed al Vero coi sentimenti e le idee che ad essi corrispondono, figurano
come i fari che illuminano la vita umana mentre si trova immersa nella realtà
sensibile. Ed allo stesso modo che la Logica e l’ Etica non vanno considerate
come scienze pratiche, come guide al ben conoscere ed al ben fare, ma bensì
come le scienze dei concetti a cui mette capo l’analisi dei fatti di conoscenza
e di quelli dell’attività umana, così l’Estetica non ha per compito di fornire
i precetti da seguire perchè il sentimento estetico e la produzione artistica
divengano migliori, ma risponde al bisogno di conoscere la natura dei fatti estetici.
Essa come le altre due non è scienza pratica, ma essenzialmente teoretica e
speculativa: è una branca della Filosofia atta a far intendere il processo
estetico e ad illuminare dal punto di vista intellettuale il mondo dell’ Arte.
Da ciò consegue che il filosofo, pur non essendo artista, può benissimo essere
atto ad assegnare un posto ai fatti estetici nel sistema delle sue concezioni e
conoscenze, semprechè, s' intende, non sia assolutamente sfornito di qualsiasi
forma di gusto estetico, nel qual caso egli non avrà poi nemmeno’ alcun
interesse intellettuale per la comprensione del bello. Non avviene lo stesso
per chi si occupa di Logica e di Etica? E*forse necessario che il primo sia uno
scienziato specialista, uno sperimentatore, un conoscitore profondo di ogni
ramo del sapere, e il secondo un santo, un martire del dovere ecc. ? Le scienze
teoretiche non fanno che illuminare mediante la riflessione i fatti dello
spirito umano; e basta la sola presenza di questi perchè l’ interesse
speculativo sia svegliato, ancorchè s' ignori il processo genetico ed evolutivo
dei fatti stessi, o meglio, ancorchè i fatti stessi non siano completamente
vissuti: altro è vivere, altro è trascrivere in termini intellettuali, in
formule, in schemi il vivere stesso, che può essere anche contemplato negli
altri. Ad ogni scienza teoretica corrisponde poi una scienza d’ordine pratico
che si potrebbe chiamare scienza pedagogica o metodologica in quanto ha per
obbietto di rintracciare la via per cui possa essere ottenuto un perfezionamento
in tutte le produzioni ed attributi dell'anima umana. E siffatte scienze
pedagogiche hanno la loro base da una parte nelle conoscenze in ordine allo
spirito umano (psicologia) e dall'altra nella conoscenza di tutte quelle
condizioni che favoriscono la genesi e lo svolgimento dei fatti, poniamo,
etici, estetici e logici: conoscenza che allora soltanto può essere completa
quando i fatti in discorso non sono stati solamente contemplati e considerati
ab extra, ma sono stati per così dire almeno parzialmente vissuti, e quando si
sia rettamente stabilito il concetto dell’ ideale estetico, etico, logico ecc.,
e si abbia cognizione perfetta delle condizioni di fatto esistenti in un dato
giro di tempo. È chiaro d'altra parte che l’ Estetica non va confusa colla
Critica, giacchè questa per avere valore e significato deve essere anzitutto
una ricreazione, una riproduzione riflessa e cosciente del fatto estetico
dapprima compiutosi inconsciamente e quasi diremmo, istintivamente, e poscia
deve assegnare al prodotto artistico il posto che gli compete nella coscienza
estetica di un dato periodo di cultura. Talchè la Critica lungi dall'avere per
obbietto l'applicazione delle regole o leggi estetiche ai casi concreti, ha per
compito di ricercare sino a che punto e in che grado un-dato prodotto estetico
è espressione della coscienza estetica di un dato periodo storico : l’Estetica
per contrario determina il posto che la coscienza estetica in genere occupa
nella coscienza umana e il fatto estetico nel sistema totale delle nostre
concezioni e conoscenze. Le due indagini sono assolutamente indipendenti, in
quanto la Critica poggia sopra una triplice base, cultura artistica, cultura
psicologica e cultura storica, mentrechè l’Estetica poggia sopra una duplice
base: da una parte sopra una data concezione filnsofica, una data intuizione
dell'universo e dall'altra sopra l'elaborazione dei dati forniti dalla critica
intesa nel modo anzidetto, dati che vengono messi in rapporto con la veduta
generale intorno al mondo, vengono messi, cioè, in connessione con un
determinato sistema filosofico, L’ Estetica adunque è una branca della
Filosofia allo stesso titolo dell’Etica e della Logica: ma vi ha dippiù: essa
merita di occupare un posto centrale tra le varie discipline filosofiche: e se
finora la più parte dei filosofi non hanno veduto ciò, è stato perchè essi non
hanno esaminato a fondo la natura specifica del problema estetico. Questo,
infatti, ha la sua origine nel bisogno di spiegare come ciò che alla ragione,
all'analisi compiuta mediante i processi logici si rivela fornito di dati
caratteri (unità nella varietà, armonia, simmetria, individualità, rapporti
numerici costanti, proporzione ecc.) all’emotività umana, all’apprensione
immediata e diretta si rivela come rappresentazione concreta sensibile,
accompagnata da un sentimento piacevole disinteressato, da ciò che si dice
emozione estetica. Il problema estetico emerge da questo, che da una parte non
vi ha bellezza al di fuori della percezione e dell’imaginazione, per modo che
anche quando si distingue il bello della natura da quello dell’arte si viene ad
implicare sempre l'esistenza di chi contempla, percepisce e valuta il bello
stesso, la natura e l’arte in tal caso essendo entrambe nella percezione ed
imaginazione umana e differendo tra loro solamente per grado le cose non sono
fornite della proprietà della bellezza indipendentemente dalla percezione
umana, come son fornite della proprietà della gravità, della solidità,e in
generale delle forze, per cui agiscono reciprocamente tra loro ; e dall’altra
parte l'essenziale nel fatto estetico non è il processo percettivo per sè
considerato, ma ciò che la percezione o l’ imaginazione serve a richiamare alla
mente e per cui essa sta, di cui essa è simbolo. Il bello insomma in tanto è
percepito come tale in quanto significa, esprime qualcosa, in quanto è la
manifestazione di tuttociò che la vita contiene: on:l’è che esso può essere
definito come ciò che ha un significato caratteristico per la percezione o
imaginazione umana, dopochè il contenuto ideale da significare ha assunto
quella forma che può solamente essere espressiva attraverso la percezione o
imaginazione. È evidente adunque che il problema estetico consiste nel
ricercare come sia possibile che ciò che si presenta direttamente alla percezione
ed all’ imaginazione sotto condizioni determinate, sia da considerare come
espressione o manifestazione di ciò che si rivela in altro modo per altra via.
Ma non basta: il problema estetico verte non solo sulla possibilità che un dato
contenuto percettivo sorpassi per così dire l’attività percettiva el accenni a
qualcos’ altro che non si manifesta per mezzo della percezione, ma volge ancora
sulla possibilità e sulle condizioni che un dato contenuto espresso per mezzo
della percezione dia luogo ad un sentimento speciale di godimento, dipendente,
secondo alcuni, dal valore espressivo e significativo del contenuto della
percezione. Finalmente il problema estetico può volgere sulle condizioni e
sulla natura della produzione artistica per sè considerata allo scopo di
mettere poi in evidenza i rapporti che essa ha colle varie formazioni di ordine
naturale, siano o no queste capaci di suscitare l’emozione estetica,Ora il
problema estetico sotto qualsiasi forma si presenti, si connette intimamente
coi problemi fondamentali della Filosofia generale: invero, se esso sorge come
ricerca intorno alla possibilità che ciò che all'analisi intellettiva si rivela
con dati caratteri appaia alla percezione come bello, il problema estetico
assume l’aspetto di un problema gnoseologico. Se invece sorge come indagine
intorno ai caratteri propri dell’emozione estetica che è elemento essenziale
del fatto estetico, il problema estetico figura come problema essenzialmente
psicologico. E se infine esso sorge come ricerca intorno al processo genetico,
intorno ai caratteri e alle proprietà e intorno al valore e significato
dell’obbietto estetico per sè considerato, astrazione fatta dal soggetto che lo
contempla, il problema estetico si presenta come problema essenzialmente
metatisico ed ontologico. È evidente adunque che il problema estetico può
essere considerato come il problema centrale della filosofia e che la soluzione
di esso può riflettersi sui vari campi della filosofia stessa. E qui occorre
notare che i rapporti esistenti tra problema estetico e problemi filosofici
sono di un genere particolare, in quanto la storia dell’Estetica mostra che
l’interpretazione del fatto estetico non è sempre in dipendenza semplice e
diretta di una data concezione filosofica, ma viceversa la soluzione del
problema estetico ottenuta | con la cooperazione di svariati fattori (fenomeni
storici, scoverte archeologiche, filologiche, progressi nella critica ecc.), se
non deter- | mina addirittura, contribuisce alla formazione di un dato sistema
filosofico, o almeno vale a dare a questo un colore ed un tono speciale. Un tal
caso si verificò in Schiller, in Schelling e quindi in Hegel. La storia
dell'estetica poi ci mostra chiaramente che il problema estetico nelle varie
età assunse differenti forme a seconda che fu considerato come problema
essenzialmente e prevalentemente, se non esclusivamente, metafisico, come
avvenne presso i Greci, i quali videro nell'Arte un’imitazione della natura e
nel bello riconobbero il solo carattere formale dell'unità nella varietà,
ovvero fu considerato un problema essenzialmente gnoseologico, come avvenne
nella filosofia kantiana e postkantiana, nella quale si nota molto accentuata
la tendenza a presentare il mondo estetico come espressione della Realtà
coordinata alle altre manifestazioni dell'ordine razionale, di quello morale,
ecc. ; ovvero infine fu considerato un problema essenzialmente psicologico,
come è avvenuto presso gli estetici odierni da Herbart a Stumpf, da Zimmermann
a Fechner, da Grant Allen a Sully, le cui ricerche ebbero per iscopo di
risalire dagli effetti psicologici dei fatti estetici, e quindi dalla natura
propria e dalle condizioni fisiologiche e psichiche del piacere estetico alle
proprietà di tutto intero il processo estetico. E il difetto delle varie teorie
estetiche che si sono succedute attraverso i secoli è appunto quello di non
aver tenuto esatto conto della complessità del problema generale. Ciascuna
delle forme sotto cui esso si può presentare non esaurisce tutto il suo
contenuto. La considerazione di una sua forma non esclude la considerazione
delle altre: e solo allora si può dire di avere approfondita la natura del
problema estetico quando ciascuno dei suoi aspetti viene riguardato in
relazione cogli altri, vale a dire quando il problema estetico viene ad essere
trattato come un caso particolare del problema fondamentale di tutta la
filosofia. Consideriamo. ora in molo particolareggiato le varie forme sotto cui
sì può presentare il problema estetico per vedere sino a che punto sia vera la
nostra asserzione che quelle corrispondono esattamente ai principali problemi
della Filosofia generale, problema gnoseologico, problema psicogico e problema
metafisico. E cominciamo dal vedere come il problema gnoseologico sia implicato
in uno degli aspetti del problema estetico. Per la scienza estetica greca
l'essenza del bello è riposta nell’armonia e nella regolarità: nè ciò deve
recare meraviglia se si pensa che la scienza, la riflessione comincia sempre
con ciò che in modo più facile ed ovvio si presenta all'osservazione.
Quantunque l’ arte greca (decorazione scultura, poesia), contenesse ben altri
elementi che non la semplice unità nella varietà, in modo da poter trovare in
essa applicazione e convalidazione anche la più complicata teoria moderna
estetica, tuttavia l’attenzione dei filosofi greci si fermò sulle qualità
espressive più generali ed astratte. Quando però nel mondo moderno ebbe origine
il senso della bellezza romantica, quando cioè in tutta la natura si videro
riflessi i sentimenti più vivi e profondi dell'animo umano e insieme si sentì
il bisogno dell'espressione libera delle più forti passioni, non fu più
possibile consìderare il bello come una semplice espressione regolare ed
armonica o come una semplice espressione dell'unità nella varietà. A ciò si
aggiunga che tanto il sublime quanto il brutto ed il deforme cominciarono ad
essere analizzati e messi in rapporti cogli altri elementi della coscienza
estetica. Per il che il bello fu definito cume ciò che è individualmente
caratteristico, come ciò che costituisce qualcosa d’indipendente fornito di
dati caratteri, attributi o qualità significative, capaci di essere apprese per
mezzo della percezione Ora è evidente che l'indagine estetica giunta a questo
punto doveva dare origine al problema: Come è possibile che ciò che ha un
significato e valore ideale può essere appreso per mezzo della percezione e del
sentimento ? Come la sensibilità può apprendere cio che è razionale e ideale? E
chi non vede che un tale problema risponde esattissimamente a quello gnosenlogico:
Come ciò che è intelligibile o razionale può essere appreso per mezzo del
senso, può rivelarsi alla coscienza come fatto di sensibilità? Come si possono
conciliare tra loro il mondo sentito e sensibile e quello ideale? Come ciò che
è razionale può agire sul senso e come è possibile la conoscenza, la quale
risulta appunto dalla cooperazione -dei due elementi della intelligibilità e
della sensibilità ? | La soluzione del problema presentata dall’ Estetica fu
questa, che l'ideale in tanto si può estrinsecare per mezzo del sensibile in
quanto ideale e reale non sono due mondi staccati, ma elementi di uno stesso
processo. Elemento intelligibile ed elemento sensibile sono intimamente
compenetrati tra loro, per modo che l’uno non esiste senza dell'altro : è
solamente mediante l’astrazione che vengono considerati separatamente.
L'obbietto estetico essendo nient'altro che l'attuazione, la concretizzazione,
la particolarizzazione di un'idea, non può non svegliare un’altra idea nel
soggetto che lo percepisce. Se l’ideale esistesse da una parte e il reale
dall'altra, s la ragione e il senso fossero due facoltà staccate, non si
arriverebbe a capire da una parte come l’idea potesse arrivare a divenire
qualcosa di sensibile e dall'altra come la percezione potesse divenire
significativa : ma il fatto è che il Reale è uno, sostantivo e insieme
uggettivo, vita e insieme idealità, fatto e insieme idea, onde non è a
meravigliarsi se l’ileale possa essere significato per mezzo del sensibile.
L'unione intima del reale coll'ideale fu facilmente constatata nel processo
estetico, giacchè quivi si coglie il tramutarsi dell’idea in fatto e quindi si
coglie l'elemento intelligibile od universale contenuto nel fatto stesso. Nel
caso del processo estetico si assiste per così dire alla genesi del fatto da
una parte in chi produce e all'idealizzazione del dato concreto in chi
percepisce. Il punto di partenza della creazione artistica è un'idea, vale a
dire un universale che esiste soltanto nella mente dell'artista : poi quest’'universale
si va concretizzando col diventare centro di numerosissime relazioni e col
fissarsi e determinarsi completamente, prendendo posto in un dato contesto.
L'elemento universale (idea artistica) divenuto qualcosa di concreto e di
particolarizzato, si estrinseca in modo da generare nel soggetto che contempla
un fatto di ordine speciale detto percezione estetica e non può non essere
operativo nella mente dello stesso soggetto che percepisce l’obbietto estetico.
Ed è appunto per l’attività di tale universale che la percezione e il
sentimento divengno espressivi e significativi. Se la percezione e il
sentimento non contenessero il lievito dell’universale non potrebbero mai avere
alcun valore e significato. Comeil germe rende possibile l’individualità della
pianta, così l’universale (ciò che determina la natura propria di una cosa, ciò
che determina la formazione di una totalità) rende possibile la costituzione
del prodotto estetico come qualcosa di compiuto, come un sistema le cui parti
sono reciprocaniente coerenti e si svolgono in ordine necessario in guisa da
formare una totalità. Se non che qui si potrebbero fare due domande: In che
propriamente si differenziano le percezioni estetiche da quelle non estetiche?
Quali sono le particolarità dell'espressione estetica ? In ordine alla prima
domanda diremo che le percezioni estetiche (uditive e visive) si differenziano
dalle altre per questo che presentano qualità nettamente determinate, che non
sono attaccate al fatto subbiettivo del sentire attuale. Di tutte le sensazioni
sono esse che possono essere conservate nella memoria e che insieme presentano
delle determinazioni qualitative molteplici e nettamente distinte. D'altra
parte gli elementi delle percezioni visive ed uditive possono essere ordinati e
aggrup‘ pati variamente dall’ uomo, in modo che il potere intellettivo che
questi può esercitare su di essi è senza confronto superiore a quello che può
esercitare sugli elementi olfattivi e gustativi. Nella più parte dei casi i
godimenti del gusto, dell’odorato e del tatto non escono fuori di sè stessi e
quando sì accompagnano con idee e sentimenti, ciò accade per mezzo del ricordo
di impressioni antecedenti di altra natura. Per contrario le sensazioni della
vista e dell'udito si collegano direttamente e sponzaneamente con sentimenti e
idee. Il carattere particolare degli organi dell'udito e della vista ha fatto
di essi per mezzo della parola e della scrittura gli ausiliari indispensabili
dello svolgimenlo umano e i depositari dei suoi successivi acquisti. Oltre a ciò
vi è un certo numero di sentimenti e d'idee che appartengono esclusivamente ai
così detti sensi estetici e che perciò si potrebbero chiamare idee e sentimenti
estetici. Le nozioni di ordine, di armonia, di proporzione, di varietà, di
unità, sono occasionate da sensazioni visive ed uditive : e se più tardi queste
nozioni più o meno incoscienti si trasformano in idee capaci di regolare la
produzione artistica, ciò è dovuto al. lavoro d'analisi che trova e distingue
mediante l’astrazione ì detti elementi dalla impressione primitiva complessa.
Se tutte le percezioni poi hanno un significato in quanto implicano
qualcos'altro oltre il fatto psichico attuale della loro esistenza fatti
esterni e contenuto della coscienza con cui esse vengono sempre messe in
rapporto , quelle estetiche si riferiscono a ciò che ha maggior interesse per
l’anima umana e traducono rapporti esternì di natura speciale. Si aggiunga che
mentre noi abbiamo fino ad un certo segno coscienza della natura simbolica,
significativa delle percezioni d'ordine estetico, non sappiamo nulla
naturalmente del simbolismo delle ordinarie percezioni. È solamente dalla
riflessione naturale e scientifica che impariamo a considerarle come segni,
accenni a qualcos'altro. Va notato infine che le percezioni estetiche, oltre ad
essere simboliche consciamente e liberamente, sono espressioni, per così dire,
a seconda potenza, implicando già esse il simbolismo incosciente delle
percezioni sensoriali VeRON, Esthetique, Paris. pure e semplici ed allo stesso
sovrapponendo il sinbolismo estetico. In ordine alla seconda domanda diremo che
la percezione di natura estetica ha di proprio che essa non è un semplice fatto
o evento psichico esistente in un dato momento, ma contiene qualche qualità od
attributo atto a universalizzarla, facendola assurgere al grado di segno o di
simbolo del Reale, ed è per tale qualità od attributo (che viene distaccato
dall’esistenza psichica attuale e che viene portata in un altro contesto) che
la percezione estetica diviene suggestiva, espressiva ed atta a svegliare
molteplici associazioni. | Conchiusione : l’opera d’arte si presenta come una
speciale fusione del reale e dell’ ideale: ora tale fusione in tanto può avere
luogo in quanto reale ed ideale sono elementi costitutivi di qualsiasi fatto.
Ed il fatto estetico poi consiste in ciò che un dato elemento intelligibile
diviene qualificazione di un'esistenza psichica (percezione sensoriale) che non
corrisponde esattamente ad essa, donde il carattere di trascendenza inerente
alla percezione estetica. Se contenuto ideale ed esistenza attuale fossero una
stessa cosa, 0 se ciascun was non fosse mai disgiungibile dal proprio dass, il
fatto estetico non avrebbe luogo. Ciò che è razionale e ideale può divenire
oggetto di percezione e di sentimento estetico solamente perchè la mente umana
è cosiffatta che può operare la separazione di un dato. contenuto intelligibile
dalla sua propria esistenza e poscia operare la congiunzione del medesimo
contenuto con una altra esistenza. L’ ideale, il razionale, l' intelligibile
non può agire come tale direttamente sulla sensibilità umana: perchè ciò
avvenga è necessario che l’ intelligibile, l'ideale divenga contenuto di
qualcosa di sensibile. Prima d’andare innanzi però è bene discutere i seguenti
quesiti. Come è possibile la disgiunzione del contenuto ideale dal dato reale?
E che cosa è propriamente il primo distaccato dal secondo? Come è possibile
d'altra parte l’incorporazione di un elemento ideale in una data esistenza
particolare? Ed infine come è possibile il sentimento e la valutazione estetica
? Cominciamo dal primo. La disgiunzione del was dal dass in tanto è possibile
in quanto vi è l'intelligenza, la quale ha appunto l'ufficio di qualificare, di
caratterizzare la realtà simboleggiandola, traducendola, per così dire, in
termini ideali. È evidente che una tale traduzione in tanto sì può fare in
quanto la mente umana attraverso le differenze delle manifestazioni
estrinseche, attraverso le differenze dei fatti coglie l'identità del
contenuto. Per intendere bene il processo si richiami alla mente ciò che
avviene quando noi traduciamo da una lingua in un’altra: noi allora tendiamo a
stabilire l’ identità di significato tra espressioni differentissime. E come
non è possibile tradurre da una lingua in un’altra se queste non sono entrambe
note, così non sarebbe possibile qualificare la realtà in termini pschici, se
mondo e psiche non avessero radici in un’ unità fondamentale. La mente umana
riesce a simboleggiare il reale, perchè essa è capace di presentare sotto forma
subbiettiva ciò che vi ha di indiscernibilmente identico tra la realtà ed il
soggetto. Sicché noi possiamo conchiudere che la disgiunzione del contenuto
ideale dal fatto avviene perchè vi è la mente, la quale, per così dire, coglie
nel reale ciò che è identico a sé stessa e, sottopostolo ad una specie di
elaborazione psicologica, lo presenta sotto forma di fatto psichico 6 quindi di
fatto subbiettivo riferentesi però sempro a qualcosa di obbiettivo. Ma che cosa
è tale contenuto ideale o significato per sè preso? Rispondere a questa domanda
non è facile, giacchè l’idea separata dal fatto è un’astrazione, è un.
aggettivo, come direbbe il Bradley, non un sostantivo, è un universale astratto
e non un individuale concreto : ond’ è che essa, non potendo stare da sé, è costretta
sempre ad appoggiarsi a qualcos' altro e questo qualcos’ altro per lo più è
un'imagine o rappresentazione psichica particolare. Noi possiamo dire però che
il carattere precipuo per cui il contenuto ideale, il significato, l'elemento
puramente intelligibile si distingue da tutto il rimanente della vita
dell'anima, è che esso ha la proprietà di essere ricordabile. Tuttociò che è
ricordabile è intelligibile e per converso ciò che è intelligibile è
ricordabile. È stato detto che gli attributi o le relazioni in cui la realtà
concreta è analizzabile sono appunto elementi intelligibili: ora gli attributi
e le relazioni non sono che la ricordabilità stessa guardata da un altro punto
di vista, guardata cioè dal punto di vista logico, 0 gnoseologico, o obbiettivo
(riferentesi alla” Realtà), mentrechè la ricordabilità si può considerare come
l’ insieme degli attributi e delle relazioni guardate dal punto di vista
psicologico o subbiettivo. Che cosa è ricordabile? Gli attributi e le relazioni
: e che cosa sono gli attributi e le relazioni? Ciò che è ricordabile; non vi è
attributo o relazione che non sia ricordabile: come non vi è elemento
ricordabile che non sia un attributo, ‘una proprietà o una relazione. Ma onde
siamo tratti a scomporre la realtà in attributi e relazioni ? Dal bisogno di
fissare, di determinare la realtà. Noi viviamo ed operiamo nel reale, ma chi
dice vita, attività, dice flusso continuo di fatti, dice continuo passare per
il presente, senza che nessun punto stabile si possa precisare e senza che
nessuna costruzione. ideale (riferentesi al passato o al futuro) si possa
formare. La vita, l’azione per sè prese sono qualcosa d’ incomunicabile e
quindi d'inesprimibile, sono un fatto, ecco tutto. Appenachè la vita della
realtà raggiunge un grado notevole di forza e di complessità, il sentimento
stesso della vita e dell’esistenza si fa più complesso ed eterogeneo, per modo
che sorge il bisogno di specificare, di determinare, di fissare, di dare una
forma alla realtà quale è sentita e rappresentata: bisogno che può essere
soddisfatto solamente astraendo dalla realtà ciò che in essa vi ha l'ideale, e
d’intelligibile, scomponendo quindi Ja realtà stessa in attributi e relazioni.
Onde consegue che gli attributi e le relazioni non esistono come tali nella realtà
(nella quale esistono delle individualità e delle funzioni), ma sono costruite
da noi per simboleggiare, universalizzandola (considerandola dal punto di vista
della coscienza universale o della coscienza in generale), la realtà quale
viene percepita e rappresentata. Noi di sopra per dare un concetto della
disgiunzione del ras dal dass siamo ricorsi al paragone della traduzione da una
lingua in un’altra : ora è giunto il momento di osservare che quella non è e
non può essere più che una semplice metafora, in quanto tra i due fatti corre
un profondo divario. La traduzione da una lingua in un'altra implica la
cognizione refiessa, cosciente dell'identità di significato esistente tra le
espressioni appartenenti alle due lingue e in tal caso la cosa non può stare
diversamente, tenuto conto che è già avvenuto il distacco del :cas dal duss per
opera dell'attività intellettuale di molto progredita , mentrechè la
disgiunzione dell’elemento intelligibile dal fatto attuale e la consecutiva
idealizzazione o significazione della realtà implicano bensì l'identità di
natura e di elementi tra il mondo e lo spirito, ‘ma non la chiara appercezione
della stessa identità, e insieme implicano l’esistenza dell'identità attraverso
le differenze, non l’identità delle differenze. Così gli attributi e le
relazioni non esistono come tali nella realtà, ma sono una differenza di quella
stessa identità che nella realtà - avrà una differenza corrispondente. Il
contenuto ideale oltre ad avere la caratteristica della ricordabilità, ha quella
di essere comunicabile, obbiettivo (riferentesi alla Realtà) ed esprimibile per
mezzo del linguaggio. Ora che vuol dir ciò? Vuol'dire che ciò che è intelligi-
Giova notare che quando si dice che solamente l’intelligibile è esprimibile per
mezzo del linguaggio si vuole intendere csprimibile per mezzo di segni, i quali
sono riconosciuti tali, riferentisi, cioè, ad una realtà obbiettiva. Anche i
fatti di volonta e di sentimento sono esprimibili per mezzo del linguaggio, ma
in tanto sono tali in quanto vengono intellettualizzati; non sono propriamente
i sentimenti, e gli atti volitivi, sono le idee, le rappresentazioni di essi
che vengono significato per mezzo del linguaggio. Le espressioni emotive
(interiezioni, espressioni mimiche e fisiognomiche), i gesti e in generale i
moti esterni sono qualcosa d' istintivo, che se vengono intesi e interpretati è
perchè sono anch'essi intellettualizzati. Chi contempla i segni espressivi li
interpreta in virtù dell'esperienza propria e dei legami associativi. bile non è
patrimonio di questo o di quel soggetto, ma è patrimonio di tutti gli esseri
pensanti, vuol dire che la mente è universale, non individuale. L’uomo,
pensando, si universalizza, si accomuna con tutti gli altri uomini. E la
solidarietà intellettuale umana è possibile, perchè in ordine al pensieru tutti
gli uomini sono identici, sono, cioè, una cosa sola, sono come a dire, un solo
essere. Ogni distinzione, ogni differenza è cancellata : è l'identità degl’
indiscernibili. La comunione delle anime, anzi l’unità, l’identità delle anime
lungi dall'essere qualcosa di incomprensibile appare chiara : ciò che è oscuro
piuttosto è l’anima individuale in ordine al pensiero. Tuttociò che è ideale e
intelligibile adunque è identico in tutti gli uomini: o, a dirla altrimenti,
tutti gli uomini sono una cosa sola in un certo punto, mentre si differenziano
più o meno profondamente in tutto il rimanente. Il razionale, l’intelligibile,
la forma permane identica sia che assuma differenti determinazioni (o che
presenti manifestazioni o estrinsecazioni diverse), sia che appaia alle mente
di singoli individui. È insomma l’unità del Reale, che rende possibile
l'identità di ciò che è intelligibile e quindi la sua comunicabilità. Se tutta
la realtà non formasse un tutto, un sistema, un'identità variamente
differenziantesi, da una parte la mente non sarebbe universale e dall’altra
l'intelligibilità delle cose sarebbe impossibile. Che cosa è invero l’
intelligibilità se non la forma distaccata dalla materia, la coerenza, il
nesso, la relazione per sè presa? Ora la forma, la coerenza, il rapporto
implicano unità e identità nel fondo. Noi quasi diremmo che ciascuna mente non
si appropria che ciò che riconosce come inerente alla mente in generale. Il
dato, come dato, il fatto le è estraneo ; esso è reale, e basta. Ciò che è
intelligibile è uno, identico e quindi comunicabile, e in quanto comunicabile
obbiettivo. Ciò che è subbiettivo (sentimento, azione) non è comunicabile (se
non a patto di essere intellettualizzato), e per ciò stesso non è intelligibile.
i D'altra parte il carattere della comunicabilità inerente a ciò che è
intelligibile ha il suo fondamento ultimo nel fatto che la realtà non
s’identifica e confonde con la vita subbiettiva. Il reale non è il soggettivo,
ma è distinto da esso. Se l'essere o la realtà s’identificasse colla vita
subbiettiva e individuale la cognizione si ridurrebbe al sentire, nel qual caso
il vero starebbe tutto nella relazione col soggetto che sente: reale, non
reale, vero, falso sa.rebbe quello che a ciascun di noi parrebbe tale; misura,
giudice sarebbe ciascun di noi. Nulla fuori di noi sarebbe, o almeno nulla
sarebbe senza di noì. Se non che la cognizione lungi dall'essere riducibile a
sensazione sta agli an tipodi di questa in quanto, riferendosi a ciò che è obbiettivo,
implica giudizio, apprendimento di ciò che non siamo noi, di ciò che non è la
vita nostra, implica affermazione, mediante la qualificazione, di ciò che è.
Dal che consegue poi anche che mentre ciò che è subbiettivo, ciò che vive,
fluisce sempre, muta sempre, si muove sempre, si altera sempre, è fenomene
mero, vario, continuo ; per contrario, ciò che è intelligibile e comunicabile,
è immutabile, inalterabile, fisso e determinato (elemento astratto). L'ideale o
l’intelligibile è universale, astratto, addiettivo; come può divenire fatto,
vale a dire, come può divenire qualcosa di concreto e di sostanziale?
Particolarizzandosi, individualizzandosi, vale a dire identificandosi con una
dello sue differenze, o determinazioni, o manifestazioni. Allo stesso modo che
il tipo si concretizza nel fatto singolo e che il significato si esprime per
mezzo di un simbolo particolare, così l'attributo o la relazione ideale
divengono fatto, incorporandosi in un’ imagine sensibile. La congiunzione di un
was con un dass diverso dal proprio è resa possibile dacchè tanto il contenuto
ideale e significativo quanto l'elemento della presenza attuale tostochè sono
separati tra loro cercano di ricongiungersi n di trovare ciascuno il suo
complemento in qualcosa di corrispondente. L’imagine psichica attuale, il fatto
psichico isolatamente preso è un prodotto dell’astrazione : ciascun elemento
psichico acquista valore dai nessi in cui si trova e dall'azione che su di esso
esercita l’esperienza psichica antecedente. Non è stato le mille volte ripetuto
dai psìcologi moderni che il fatto psichico riceve tutto il suo valore e la sua
efficacia dal contesto in cui si trova, che la vita psichica non è posta
nell’elemento singolo, ma nel corso, nel nesso, nella serie dei detti elementi
? Noi not abbiamo bisogno di richiamare l’attenzione sui processi di fusione,
di identificazione delle rappresentazioni, i quali rendono possibile qualsiasi
forma elementare di cognizione e di ricognizione (1), perchè si tratta di fatti
ormai comunemente noti. Risulta evidente che la connessione di un was con con
un dass diverso dal proprio è un processo che si verifica attraverso tutta la
distesa della nostra esperienza conoscitiva : dietro ogni fatto psichico si
trova il signi (1) V. Wunpr, Vorlesunyen ib2r Menschen n. Thierscele. Leipzig.
ficato proveniente dal dispiegamento che l’attività psichica ha
antecedentemente avuto: nel fatto estetico il processo non è essenzialmente
differente, comunque appaia senza confronto più complicato. Il was in tal caso
è rappresentato dal concetto artistico che figura come un tutto ideale coerente
e il duss è dato dalla rappresentazione sensibile o simbolica del detto
contenuto ideale. L'espressione rappresentativa o per via d'imagini (per opera
della fantasia) di un contenuto idcale, ecco la migliore definizione dell’opera
d'arte. Una costruzione razionale incorporata in imagini ed una ricostruzione
del pari razionale rifatta in seguito alle suggestioni ricevute dalla
percezione delle immagini, costruzione ce ricostruzione accompagnate da una
forma peculiare di emotività, ecco il meccanismo di produzione e di
contemplazione estetica. L'opera d’arte in tanto è espressiva e suggestiva in
quanto ha la sua radice nella congiunzione di un ws più o meno esteso, più o
meno complesso con un duss estraneo, ma corrispondente, e relativamente
semplice tenuto conto della capacità percettiva dell’an'ma umana , in quanto ha
la sua radice, possiamo anche dire, nell’ estrinsecazione di un sistema ideale
per mezzo di dati sensibili. La proprietà che controdlistingue siffatta
congiunzione od espressione è questa, che oltre al essere volontaria, libera e
selettiva, è eminentemente suggestiva, il che dipende dalla concentrazione
coerente degli elementi ideali avvenuta dictro l'espressione sensibile simbolica.
© Possiamo conchiwlere questa parte col dire che l’uomo è capace di congiungere
un was con un dess estraneo allo stesso modo che è CAPACE di parlare, vale a
dire DI SIGNIFICARE E SIMBOLEGGIARE LA REALTÀ. La lingua d’ITALIA è una opera
d'arte compiuta dalla COSCIENZA COLLETTIVA, mentrechè i capolavori estetici
sono espressione dei genii individuali. Non è senza ragione che in origine
lingua ed arte si trovano confuse tra loro. Passiamo ora a rispondere
brevemente all'ultimo quesito. La valutazione e il sentimento estetico
dipendono dalla funzione espressiva dell’arte. Quanto più in un’opera si trova
espresso ciò che per noi come uomini, ha il maggiore interesse, quanto più in
essa troviamo l'eco di ciò che ha radici più profonde nell'anima nostra, di ciò
che ci attrae come di ciò che cì ripugna, di ciò che ci appassiona come di ciò
che cì turba, quanto più vi troviamo. l'eco di ciò che è veramente umano, tanto
più la valutazione estetica avrà luogo in senso positivo. L'arte espressiva che
è l’arte veramente moderna, è fondata in grandissima parte sulla simpatia,
manifestando in forma artistica l'interesse particolare che l’uomo prende per
l’uomo. Il fine a cui si tende è l'uomo, quale microcosmo, è lo studio dei suoi
sentimenti accidentali e permanenti, delle sue virtù o dei suoi vizi. É questo
che distingue il teatro e il romanzo moderno, riannodando questi due generi
alla più alta branca dell’arte. L’opera d'arte perchè sia debitamente
apprezzata ed eserciti efficacia sugli animi nostri, deve esser valida a
portare il nostro sguardo lontano, deve apparire come punto di concentramento
di molteplici raggi suggestivi, deve essere come il riflesso di ciò che vi ha
di più profondo nella realtà e nella coscienza. L'opera d’arte veramente grande
deve raggiungere i più grandi effetti coi minimi mezzi possibili, facendoci
intravedere ciò cho diversamente non vedlremmo. E l’intuito dell'artista sì
rivela appunto nell’attitudine a scegliere ed a porre in evidenza quei tratti
significativi che hanno la potenza di generare tutto un sistema d'imagini.
Saper mostrare l’universale concreto, la legge, la natura propria, il ritmo
d'attività di un ordine di reali per via di tratti, o li segni, o di imagini
che mentre per sè non possono esaurire il contenuto dell’universale concreto,
son tali da suggerirne con facilità il complemento, ecco in che consiste il
magistero della creazione artistica. Ed ora è tempo di considerare il problema
gnoscologico che risponde alla forma del problema estetico esaminata e discussa
fin qui. Il problema gnoscologico fondamentale è ricercare come ciò che è
pressochè esclusivamente intelligibile possa diventare oggetto delle varie
forme di sensibilità : o tale problema, posto così, appare effettivamente
insolubile: ma esso è fondato sopra il falso presupposto che l'elemento
intelligibile preso per sè possa esistere come un fatto attuale. II processo
per cuì si è giunti a tale concetto è il seguente : una volta bipartita la vita
psichica primitiva, la coscienza complessa e indefinita iniziale nelle due
serie rappresentative dell’io e del non io, è stato notato che le
rappresentazioni, prese come qualcosa d’obbiettivo e d’in.lipendente dal
soggetto, non solo non formavano un tutto coerente e completo in sè stesso, ma
si rivelavano così piene di contradizioni da richiedere necessariamente un
complemento, l’esistenza di qualcosaltro che desse ragione di ciò che al
soggetto appariva come sensazione o come fatto psichico in genere. Di quì la
necessità di andare in traccia dell’ universale, del necessario e del
permanente che costituisse il punto di riferimeuto delle nostre
rappresentazioni subbiettive proiettate all’ esterno e che insieme fusse il
mezzo di stabilire la solidarietà intellettuale e la comunità spirituale degli
uomini, Si andò in traccia così dell’essenza o dell’ elemento intelligibile
delle nostre rappresentazioni, elemento che fu fatto consistere in qualità e
rapporti inerenti ad elementi ult.mi sottratti al dominio diretto
dell'esperienza sensibile, elementi ultimi che alla loro volta dovevano
risultare di qualità e relazioni, procedendo così all’ infinito. Qui accadde
che per evitarne una sula si ricadde in molteplici altre contradizioni, giacchè
di questi elementi ultimi (atomi) bisognava pur dar ragione, determinandone la
natura, bi‘ sognava, cioè, renderli intelligibili. Ora, ciò facendo, era
necessario 0 dire che essi andavano ammessi come un fatto, come un dato ultimo
il che era impossibile, perchè gli atomi sono concepiti dalla scienza come
qualcosa di non percepibile, di non sperimentabile (e del resto se essi devono
dar ragione delle rappresentazioni s :nsibili in genere, non possono essere
appresi mediante la percezione) , nè è a parlare di centri di forza, perchè la
forza per sè presa è un bel nulla, è anch'essa un uggettiro ; ovvero bisognava
ridurre essi stessi a qualità e relazioni: ma le qualità e le relazioni
(elementi intelligibili e quindi anch'essi aggettivi) hanno bisogno di qualcosa
a cui inerire, onde la necessità di porre come postulato l'esistenza di reali
ultimi, sostanze spirituali, le quali poi impiicano le medesime contradizioni
degli atomi materiali. Atomi materiali ed atomi spirituali sono prodotti della
nostra fantasia, ipostasi di concezioni mentali astratte. Gli atomi erano stati
creati per spiegare i rapporti intelligibili determinanti i fenomeni
subbiettivi, i fenomeni sensoriali : ora essi, non potendo essere considerati
come fatti (e ancorchè potessero essere considerati come tali, si sarebbe
daccapo, per chè sarebbero anch'essi fatti percettivi, fatti cioè dell’istessa
. categoria di quelli, per spiegare i quali erano stati imaginati), è
giuocoforza analizzarli in elementi d’ordine intelligibile (qualità e
rapporti), in elementi cioè, per fondamentare i quali essi stessi sono stati
proposti. È naturale che giunti a questo punto doveva sorgere il problema
riguardante la trasformazione dell’ elemento intelligibile in elemento
sensibile, riguardante la possibilità che l’ ideale diventasse obbietto della
sensibilità. Ora è vero che l'elemento intelligibile esiste per sè ? No, perchè
esso, preso a parte dal fatto, dall’ esistenza attuale, è un prodotto
dell’astrazione. L'universale, l’idea non esiste al di fuori della mente.
Sicchè noì vediamo qui che il problema gnoseologico è nato per un processo
analogo a quello che diede origine al problema estetico, per un processo cioè
di disgiunzione dell'elemento intelligibile dall’ elemento fattuale
dell’esistenza. La realtà vera, la vita vera del reale è data dalla
congiunzione ‘dell’ elemento ideale col reale, dall’incorporazione dell'ideale
nel reale: ond’è che attribuire l’esistenza di fatto agli elementi
intelligibili è un processo del tutto falso ed arbitrario. L’intelligibile o
l'universale è un puro aggettivo che ha bisogno del suo sostantivo. E come
sostantivo dovrebbe fungere l'immediatezza della percezione sensoriale, l’
immediatezza del fatto psichico quale si svolge nel soggetto umano, ma i due
elementi, l’ universale e il fatto psichico individuale non sì corrispondono,
non fanno una cosa sola, non sono, diciamo così, l’uno per l’altro. Il fatto
psichico non è qualcosa di obbiettivo, d'ilentico e di comunicabile, ma varia
da soggetto a soggetto; esso non può esser tutta la realtà. È stato a causa
delle molteplici contradizioni, delle insufficienze e manchevolezze rivelantisi
nella vita psichica e subbiettiva che si è ‘dovuto costruire ipoteticamente un
mondo obbiettivo intelligibile di contro a quello subbiettivo. E poichè un tal
ripiego, come si è veduto, non approda a nulla, sorge la necessità di trovare
il complemento esistenziale dell'intelligibile in qualcosa che trascende il
contenuto della coscienza individuale. Tale complemento non può esser trovato
che nella vita del Tutto (Io epistomologico e ontologico o Bewusstseyn
tiberhaupt di Kant) nella Coscienza universale in cui non vi è separazione di
intelligibile e di sensibile (la quale separazione è compiuta dallo spirito
individuale finito), d’ideale e di reale, di contenuto e di fatto, ma vi è
fusione perfetta di entrambi. La questione sta tutta qui: la percezione appare
dato concreto immediato e quindi reale, ma è dato subbiettivo e quindi pieno di
contradizioni: l'intelligibile è obbiettivo nel senso che è inteso in un modo
identico da tutti gli uomini, ma è ipotetico, astratto, non dato, ma posto
dall’intelligenza umana : ciò posto, siffatti due termini si possono
conciliare, si possono unire e formare una cosa sola completa, la realtà viva e
vera ? Ciò non è possibile insino a tanto che non sì esce dalla coscienza
individuale, perchè il reale subbiettivo che non è completo in sè stesso, che è
solo un frammento della totalità, non può avere per contenuto adeguato
l’universale, non può avere per essenza il tutto. Come nel processo estetico
avevamo: 1° disgiunzione dell’intelligibile dal fatto, e poi, 2°, ricongiunzione
dell’elemento intelligibile con un fatto che non gli corrisponde, e di qui la
trascendenza, il significato, l'espressività della percezione o imaginazione
estetica, cosi nel processo gnoseologico abbiamo la disgiunzione del was dal
dass del fatto percettivo e l’ipostasi del was, la considerazione di questo
come un fatto, come un dato. E poichè ciò si rivela impossibile e
contradittorio, si tende a congiungere di nuovo l'elemento intelligibile
universale (il quale per sè preso non è reale nel senso che non è concreto, non
esistente per sè, non immediatamente appreso, bensì effetto di un’elaborazione
psicologica e logica, una semplice concezione dello spirito, un'ipotesi formata
in vista delle conseguenze che da essa, dato che esista, necessariamente derivano)
col dato percettivo della coscienza individuale, il quale è reale, ma ha una
realtà subbiettiva, non obbiettiva, non comune a tutti gli uomini. Se non che
la detta coscienza non è capace di contenere di fatto l’ universale, ma solo
virtualmente, cioè come esigenza, come aspirazione, come idea. Onde la
necessità di trascendere incessantemente il fatto psichico subbiettivo e
l'esigenza di una Realtà obbiettiva individuale e insieme universale, cioè
sistematica. Vi ha però una differenza tra processo estetico e processo
gnoseologico ed è, che la disgiunzione e la ricongiunzione dell'elemento
intelligibile col fatto nel primo sono atti arbitrari, sono atti sottoposti al
volere individuale, mentrechè nel secondo sono una conseguenza, diremo,
necessaria delle contradizioni e delle insufficienze che si rivelano nella
percezione sensoriale dei vari individui e nei fenomeni della vita subbiettiva.
Le ricerche dell’Ottica e dell’Acustica fisiologica, della Psicologia
fisiologica furono promosse dall'impossibilità di considerare le percezioni
sensoriali come fatti per sè esistenti all’esterno. Uno degli aspetti sotto cui
il problema estetico si può presentare è il seguente: Qual'è la natura e le
condizioni dell’ emozione estetica? La soluzione di tale quesito ha formato e
forma oggetto di tutta l’Estetica esatta coltivata ai giorni nostri in Germania
ed in Inghilterra. Da tal punto di vista è evidente che il problema estetico
assume un aspetto prevalentemente psicologico: esso, infatti, vale la domanda:
Come e perchè talune percezioni sensoriali producono sentimenti di natura
speciale (emozione estetica)? Il che alla sua volta vale domandare: In che
rapporto stanno le varie forme dell'attività psichica? Ovvero: Tra le varie
manifestazioni della vita psichica vi è una correlazione intima in modo da
poter esse venire considerate come vari lati di uno stesso processo
fondamentale, ovvero sono delle funzioni giustaposte che possono solo in date
circostanze agire l’una sull'altra? Vediamo ora quali sono i risultati ultimi a
cui l'indagine estetica esatta è pervenuta. E qui, prima d'andare innanzi, ci
sembra opportuno notare che il problema estetico psico logicamente considerato
è della più alta importanza in quanto dipende dalla sua soluzione il
determinare per che via il significato può essere congiunto col dato attuale ,
(rappresentazione sensibile) con cui non è connaturato, per che via ciò che è
universale ed astratto (l'elemento intelligibile) può concretizzarsi în modo da
divenire obbietto piacevole. I risultati delle ricerche summenzionate furono di
due sorta. Da una parte il sentimento estetico fu intellettualizzato nel senso
che fu fatto dipendere dall’apprensione di determinati rapporti astratti: e
invero, comunque lo spirito, diciamo così, dell'estetica psicologica e del
formalismo vada riposto nella tendenza ad andare in traccia della causa attuale
del piacere estetico, della causa inerente alla percezione sensoriale, tuttavia
nel fatto essa indaga la ragione nella causa: una volta che siamo spinti ad
oltrepassare la percezione sensoriale, noi troviamo l'elemento intelligibile,
la ragione. Del resto se la percezione della bellezza presuppone l’esistenza di
dati rapporti, questi da una parte non figurano che come ragioni , e dall'altra
possono essere, se non sostituti, messi in connessioni con proprietà meno
astratte, più vicine alla realtà che viviamo, e quindi più atte a suscitare il
nostro interesse e la nostra simpatia. La maniera di operare delle relazioni è
invero di natura così generale e così poco caratteristica, che non si vede come
l’effetto estetico possa essere ottenuto, se un altro elemento non vi concorre
(il significato cioè di tali relazioni astratte). Vogliamo dire che i suddetti
rapporti formali non hanno per sè nulla di caratteristico che possa spiegare il
fatto estetico, tanto è ciò vero che si presentano anche dove nessun effetto
estetico si riscontra. D'altra parte l'origine del sentimento estetico fu posta
in una specie di affinità latente (che non ha niente a che fare colla pura
stimolazione sensoriale) esistente tra la semplice forma estetica e l’anima del
soggetto percipiente (conformazione dello spirito individuale). Ed il famoso
principio fechneriano dell’economia della forza quale fonte di piacere (il
quale principio poi fu considerato in rapporto al contenuto delle nostre
rappresentazioni come in rapporto al corso delle stesse) non è che
l’espressione astratta di ciò che implica la detta armonia latente. L'economica
distribuzione della forza considerata dal punto di vista dell’obbietto trae
seco il principio dell’ unità organica e l'assenza di qualsiasi elemento
superfluo: assenza di superfluità che equivale ad esigenza di significato e di
valore, in quanto solo ciò che è insignificante è veramente superfluo.
L'applicazione del principio dell'economia fatta all'attività del soggetto
percipiente implica concentramento non faticoso dell'attenzione, in modo da
riuscire agevole e quindi piacevole il fatto psichico stesso dell’apprensione.
Avviene così che l’appercezione di un contenuto piacevole, perchè organicamente
costituito, diviene essa stessa fonte di piacere. Se si considera che la
rispondenza quanto più è possibile esatta ed adeguata dell’attività
appercettiva al contenuto appercepito non è una accidentalità, ma costituisce
un elemento essenziale della emozione estetica, tanto è vero che tutto ciò che
richiede uno sforzo mentale è antiestetico, non sì può non trovare naturale la
connessione esistente tra le modalità della nostra attenzione e le proprietà
dell'oggetto estetico. Quando uno sforzo speciale è richiesto per
l'appercezione di un contenuto estetico, vuol dire che l’espressione, la
rappresentazione (forma) e l'obbietto significato, l’idea (materia) non sono in
armonia, nel qual caso appunto non è più a parlare di bellezza. È stato notato
poi che il principio dell'economia non è in contradizione con quello dell’
esuberanza, del lussureggiamento ecc., che sono inerenti ad ogni obbietto
estetico e che contribuiscono a imprimergli la nota del disinteresse presa'in
senso largo, giacchè ciò che è superfluo considerato da un certo punto di vista
e in rapporto a dati scopi, a scopi di utilità pratica p. es., non lo è più,
una volta che è riferito ad un dato sistema armonico o ad una data unità
organica che ha valore per sè come esprimente il contenuto della vita nella sua
complessità e la Realtà nelle sue molteplici e svariate determinazioni.
L'origine e il fondamento dell'emozione estetica se non vanno posti adunque
nell'apprensione di rapporti formali ed astratti (ma nel contenuto che gli stessi
contribuiscono ad esprimere, nel loro significato), non vanno posti neanche nel
principio formale e quindi vago ed indeterminato dell'economia della forza sia
questa considerata obbiettivamente che subbiettivamente, il quale riceve gran
parte del suo valore dal fatto che esso depone per l'esistenza di un'unità
organica nell’obbietto estetico: ciò che è con parsimonia costituito e con
facilità appercepito ha evidentemente i caratteri del sistema, della totalità,
dell’individualità organica. Da qualunque punto si voglia considerare la cosa è
chiavo pertanto che l'emozione estetica deriva la sua caratteristica propria
dal contenuto (significato) espresso ed appercepito dal soggetto. Quando lo
spirito appercepisce espresso in modo adeguato ciò che ha radici più profonde
nell'intimo suo essere, quando lo spirito arriva a trovarsì a contatto con
qualche cosa di completo, di individuale e di sistematico e quando arriva a
riconoscere sé stesso, le sue aspirazioni, le sue esigenze, i suoi sentimenti,
nella natura o nell’arte, quando vede raccolti per opera dei Genti in un punto
solo e quindi intensificati tutti i raggi della sua attività, quando insomma
vede rispecchiato in un’opera tutto il fondo della sua anima e quando si sente
una cosa sola colla Realtà universale, non può non provare una intensa
emozione, che è appunto l'emozione estetica. Dopo aver accennato alla soluzione
del problema estetico nella sua forma psicologica, passiamo a trattare del
problema psicologico fondamentale quale si presenta nella filosofia generale.
L’ indagine intorno alle proprietà ed al rapporto esistente tra le varie
funzioni psichiche (funzione rappre sentativa, funzione emotiva, funzione
volitiva) è della più grande importanza e del più alto significato, in quanto
da essa dipende il concetto che ci dobbiamo formare della vita psichica in
genere e della costituzione dell’anima. La funzione emotiva in che rapporto sta
con quella rappresentativa? il sentimento in che rapporto sta con la
rappresentazione? Che cosa è il piacere o il dolore che accompagna qualsiasi
elemento della coscienza ? Ecco il problema generale, a cui gencricamente si
può riferire il problema speciale dell'origine e delle condizioni dell’emozione
estetica, salvo poi a determinare le caratteristiche proprie del piacere
estetico, tenuto conto che non tutti i piaceri sono di natura estetica. Ora noi
vediamo che la Psicologia moderna tende a risolvere il problema circa la natura
del sentimento in conformità della soluzione data dall’Estetica al problema
corrispondente. Nessun psicologo crede più all'esistenza delle cosidette
facoltà dell'anima: tutti concepiscono i fatti psichici come manifestazioni
diverse della vita ad attività psichica prosa nel suo insieme. Ora questa
attività spirituale si esplica in due forme principali irriducibili tra loro,
in quella di modificarsi in modo indistinto in totalità e in quella di
apprendere, di appercepire delle qualità distinte, degli attributi determinati
e delle relazioni. Nella sua prima forma essa si rivela essenzialmente una, identica
(senza che mostri alcuna differenziazione in sè stessa) ed intimamente connessa
con tutto il reale, che essa per così dire, avverte indistintamente nella sua
totalità: nella seconda forma invece essa appare variamente determinata in sè
stessa e nelle maniere di apprendere la realtà : nella pritma forma è vita
emotiva o sentimentale, nell’altra forma è vita wappresentativa o intellettiva.
È un errore pertanto voler intellettualizzare il sentimento col farlo derivare
da un qualsiasi rapporto : noi possiamo, sì, scomporre il sentimento e tradurlo
in rapporti, ma in tal caso noi avremo trasformato il sentimento vero e proprio
in un fatto. intellettuale. Il sentimento è un modo di essere dell’attività
psichica che si origina ogni qualvolta il contenuto della coscienza è
cosiffatto che, non potendo essere scomposto in qualità c relazioni
determinate, figura come qualcosa d'’ indistinto. E qui giova notare che anche
quando il sentimento stossos viene differenziato nelle sue principali
determinazioni di piacere e dolore nel caso che queste vengano nettamente
distinte ed appercepite cessa di essere puro sentimento per divenire un fatto
d’oriline intellettivo. Un sentimento qualificato, caratterizzato e
discriminato da tutto il complesso della vita psichica è la chiara appercezione
di una qualità psichica, non un sentimento. L'appercezione di un piacere, di un
dolore suppone l'atto della mente con cui una qualità viene separata, distinta
dal rimanente, suppone quindi una funzione intellettiva sia anche d’ ordine
rudimentale e l'atto o la funzione discriminatrice si confonde col suo prodotto
per molo che ciò che prima non era un fatto intellettivo riesce ad essere, per
così dire, trascritto in termini intellettivi, e quindi viene ad essere
snaturato. Piacere e dolore sono due qualità sensoriali come il bianco e il
nero, come il liscio e lo scabro, come il grave e l'acuto, come il caldo e il
freddo. Che essi siano determinati dalla forma dello stimolo piuttosto che da
proprietà inerenti (contenuto) allo stimolo come tale, che essi siano
determinati dal modo come lo stesso agisce, o dal modo in cui la sua
trasmissione avviene, o dalle condizioni in cuì l'organismo fisico e psichico
si trova mentre ha luogo tale azione, poco o nulla importa : dal punto di vista
psicologico il piacere e il dolore sono qualità, e come tali, appartengono alla
funzione rappresentativa dell'anima umana. Sosgiungiamo che il piacere e il
dolore, come il suono alto e quello basso e come il caldo e il freddo sono
sensazioni relative e variabili linearmente in quanto presentano. duo sole
determinazioni opposte. In altre parole : il sentimento per sua natura è
indistinto, è stuto psichico totale : non sì tosto in esso vengono delimitate
differenze, non sì tosto esso viene circoscritto e qualificato, non è più a
parlare di sentimento vero e proprio : ma di funzione intellettiva e
rappresentativa. Il sentimento in tal caso viene come ad essere
intellettualizzato, viene ad essere compenetvato dall'attività discriminativa
che è inerente all’ intellezione. Quando il sentimento stato psichico totale
vien ad essere analizzato e scomposto in qualità diverse e quando queste
vengono appercepite, il sentimento non esiste più, ma esistono le qualità
sensoriali. La vita psichica non si presenta più come sentimento, ma come
apprensione di qualità, l’attributi e di relazioni. Ma si può dire che il
piacere e il dolore siano qualità del sentimento, come si dice p. es. che il
suono alto e basso sono qualità del suono ? Noi crediamo di no, perchè parlare
di qualità del sentimento è un parlare contradittorio; è come se si dicesse
qualità di ciò che non può avere qualità, ovvero determinazioni di ciò che è
per sua natura indeterminato. Il piacere e il dolore sono qualità che possono
essere pro:lotte in parte dalla totalità della vita psichica, dallo stato in
cui la stessa totalità si può trovare, ma non sono qualità della totalità La
totalità è reale, ma non ha qualità, caratteri distintivi, differenze, le quali
implicando sempre relatività, riferimento, possono essere differenziate entro
la totalità. Uno stato di piacere o di dolore totale non significa nulla: un
piacere o dulore suppone la distinzione, la differenziazione. Il sentimento o
stato psichico totale può contribuire a generare uno stato di piacere o di
dolore, ma non può presentarsi come piacere o come dolore: già un piacere o un
dolore totale, assolutamente totale, non sarebbe nemmeno avvertito, perchè non
potrebbe cs-ere distinto: distinto da che, invero? E il piacere e il dolore
sono considerati d’ordinario come qualità del sentimento appunto perchè esse
sono determinate in parte dalla totalità della vita psichica, Sorge la
questione: Perchè una tinta di piacere o di dolore accompagna qualsiasi fatto
psichico? Perchè ogni singolo fatto psichico è messo in rapporto si noti, è
“messo in rapporto è appercepito quasi attraverso lo stato complessivo in cui
l'organismo fisico e psichico si trova in un dato momento: è da questa
appercezione che è un fatto d'ordine intellettivo è dal suddetto rapporto del
fatto singolo coll’insieme che vengono fuori le due qualità di piacere e di
dolore, le quali vengono a sovrapporsi 0, meglio, a fondersi cogli attributi
propri dei singoli fatti psichici. Ed è avvertita la qualità di piacere ovvero
quella di dolore, secondochè si ha l’appercezione di un rialzamento o di un
abbassamento dell'energia psichica e delle condizioni da cui essa dipende. Come
si vede, il sentimento non va ilentificato con le determinazioni qualitative
del piacere e del dolore : il primo è uno stato totale dell’anima, le altre
sono prodotte dal. l’appercezione (fatto intellettivo) delle differenze
(qualità) osistenti nella detta totalità. E noto che l’apprensione di un dato
contenuto psichico richiede il dispiegamento di una certa quantità di energia
mentale (attenzione), la quale pui non è illimitata, ond’è che quando ha luogo
un consumo di energia psichica superiore a quello di cui sì può disporre sarà
avvertita una sensazione sgradevole, mentrechè quando lo stesso consumo è
proporzionato alle risorse si avrà una sensazione piacevole. È il rapporto, la
proporzione che deve esistere tra attenzione e area della coscienza che ci può
dar la chiave per rendercì conto in gran parte delle determinazioni qualitative
del piacere e del dolore. si Abbiamo detto che il sentimento è la vita psichica
presa nella sua totalità : è evidente che a seconda che la detta totalità è più
o meno ricca di contenuto, a seconda che è di ordine superiore o inferiore, che
è complessa, ovvero semplice e rudimentale, si avrà o no un sentimento nobile
ed elevato. Ma, si può qui domandare, se il sentimento è la stessa vita
psichica presa nella sua totalità, come mai potrà essere avvertito? L°
avvertire implica distinzione e questa riferimento e quindi esistenza di
qualità diverse entro la totalità. A ciò si risponde che il sentimento non è
avvertito come qualità ; il suo ufficio è quello di rendere reale, attuale,
presente, immediato qualsiasi fatto psichico: esso rappresenta il coefficiente
dell’ esistenza psichica. Il problema estetico nella sua forma psicologica e il
problema psicologico fondamentale si: corrispondono, in quanto là soluzione
data ad entrambi è questa, che il sentimento ha la sua origine nella vita
psichica indistinta, nella quale non soltanto vengono ad essere fusi insieme i
vari elementi costitutivi di.essa, ma viene ad essere tolta ogni
contrapposizione del soggetto all’ oggetto. E qui sorge la necessità di andare
in traccia del carattere differenziale per cui il sentimento estetico sì
distingue da qualsiasi altro sentimento. Tale carattere si trova agevolmente,
se si riflette agli attributi dell’obbietto estetico, il quale non solo è un
sistema di parti (unità nella varietà) oltremodo complesso, ma ha un
significato deri vante dal riflettersi in esso di tutte le aspirazioni ed esigenze
più profonde dell'animo umano, per modo che nella contemplazione estctica il
soggetto si trova come in rapporto con la parte migliore di sè stesso. Si
aggiunga che l’unione del soggetto con l'oggetto è molto più intima nel caso
dell'emozione estetica che nel caso di qualsiasi altro sentimento. L'attività
del Reale, la Realtà come vita differenziantesi, spezzantesi e rivelantesi in
modo immediato nelle coscienze individuali, ecco la radice comune delle varie
sorta di sentimenti. Come vi sono varie forme od apparenze di totalità, come vi
sono varii ordini d’incentramenti individuali così vi sono vari ordini di
sentimenti più o meno definiti (ogni definizione proviene dall'elemento
rappresentativo e relativo concomitante), più o meno complessi, più o meno
interessati, perchè più o meno direttamente riferentisi all'attività pratica.
Il carattere d'individualità che controdistingue il sentimento proviene dal
fatto che la totalità è, per così dire, incentrata nella vita del soggetto, in
ciò che differenzia l’io quale determinazione speciale del Reale, avente un
posto proprio nello spazio, nel tempo e nella serie causale. Non ci sembra
inopportuno, poichè servirà a-dilucidare le idee suesposte, richiamare qui,
prima di finire, l’attenzione sul rapporto esistente tra sentimento e volontà,
o meglio, tra sentimento e attività; rapporto che è diverso da quello che
ordinariamente è ammesso. Il sentimento non produce l’azione allo stesso modo
che non è prodotto da essa e che non ne è il riflesso subbiettivo. Un tale
rapporto e A ii cir iii cdi ee n può esistere tra l’attività e le qualità
sensoriali del piacere e del dolore, non gia tra l'attività e il sentimento,
Questo come stato psichico totale è tutta la vita psichica senza alcuna
determinazione speciale, ond’è che mentre da una parte esso contiene,
trasformati e fusi insieme tutti gli elementi psichici, non è in rapporto
particolare con nessuno di essi. Tutti però quando divengono reali, quando
appaiono distinti sull'orizzonte psichico, emergono come dal fondo della vita
psichica, che dal punto di vista soggettivo è appunto il sentimento stesso.
Questo pertanto appare come il sostegno, ceme ciò che dà attività, consistenza
ai vari fatti psichici. Al di fuori del presente, del momento attuale non vi ha
sentimento, ma bensì rappresentazione : e vi ha una rappresentazione
riferentesi al passato, come ve ne ha una riferentesi al futuro : ed è chiaro
che è possibile avere una rappresentazione del sentimento, quando questo,
distaccato dalla matrice reale, viene idealmente costruito e proiettato nel
passato per mezzo della memoria e nel futuro per mezzo della immaginazione. Il
sentimento però in tal caso viene snaturato, trasformandosi in un fatto
d'ordine conoscitivo: un sentimento rappresentato è una rappresentazione e non
un sentimento, o meglio, ò una nostra costruzione ideale che non si riferisce a
nulla di reale e di attuale. La forma, diremo così, metafisica del problema
estetico è: Qual'è la natura della proluzione artistica ? L'arte in che
rapporto sta con la natura ? Si deve ritenere con gli antichi Greci che l'Arte
è una imitazione pura e semplice della natura in modo da dover essere essa
collocata al disotto di quest'ultima? Come si vede, un tale quesito non poteva
ricevere un'adeguata risposta se non dopo che la coscienza estetica del genere
umano cbbe raggiunto un grado notevole di svolgimento, dopo, cioè, che il gusto
estetico si fu di molto raffinato c che la valutazione estetica fu molto
progredita. La riflessione filosofica dovette giungere al punto da sentire il
profondo divario esistente tra il mondo empirico e quello ideale, tra le
esigenze del] intendimento e quelle della Ragione presa in senso stretto, vale
a dire presa come la facoltà del Categorico, dell'Unità e della Totalità. E
infatti il problema estetico nella sua forma metafisica non fu risoluto in
maniera adequata prima che Emanuele Kant ponesse in evidenza l’antitesi
esistente tra la relatività inevitabile della ragione teoretica e la
assolutezza dell'imperativo morale implicante l’esistenza della liberta. Il
problema circa la natura della produzione artistica non s'impose fino a tanto
che gl’immensi progressi della Filologia classica, dell’Archeologia, della
Critica non ebbero per effetto di produrre il rinnovamento di tutta la
coscienza estetica e quindi di tutte le vedute anteriormente dominanti inordine
alla valutazione estetica. Fu allora che non fu più possibile considerare il
prodotto estetico come una semplice imitazione della natura. Vediamo ora come
il problema estetico fu risoluto sotto tale forma metafisica per ricercare
poscia le caratteristiche del corrispondente problema attinente alla filosofia
generale, il quale può essere così enunciato : Che concetto dobbiamo formarci
dell’ incessante produttività della natura? ovvero: Che cosa stanno a
rappresentare le infinite * forme in cui l’attività della natura si esplica? La
produzione artistica fu considerata come l’effetto del libero, ordinato ed
armonico esercizio delle facoltà umane: ma si può qui domandare: di tutte le
facoltà umane? No, bensì di quelle facoltà soltanto che possono dare origine a
prodotti che hanno una data forma, intenlendo per quest’ ultima l'insieme delle
proprietà per cui una data cosa è valutata, non per il suo uso, non per lo
scopo determinato a cuì l’ oggetto avente quella data forma risponde, ma per
ciò che la forma sta a rappresentare, in quanto in essa si riflette
l’intendimento, il sentimento e la capacità in genere di chi l'ha concepita ed
eseguita. La forma implica adunque l’esistenza dell’ elemento razionale: ed è
lecito parlare di forma ogni volta che nell'oggetto o nel fatto vien messo in
evidenza appunto l'elemento intelligibile. Ogni qualvolta nuvi ci troviamo di
fronte ad un obbietto .che mentre figura come un prodotto dell’intelligenza
dell'attività umana, dall'altra parte non pare serva ad uno scopo pratico, o a
un uso determinato, pur non essendo scevro di significato noi siamo spinti a
giudicare come estetico il detto obbietto. Sicchè l'essenza della produzione
artistica fu posta in ciò, che l’anima umana è così fatta che sente il bisogno
di estrinsecarsi, di esprimersi in fatti, i quali mentre portano l'impronta
delle facoltà che loro diedero origine, non hanno l’ufficio nè di appagare un
desiderio, nè di far raggiungere un fine estrinseco, nè di procurare un
gudimento egoistico e interessato. La creazione artistica ha in sè stessa il
suo scopo, che è quello di completare la realtà sensibile, dando l’esistenza ad
un mondo di forme atte ad appagare le aspirazioni e le esigenze più profonde e
più elevate dell'anima umana. Il bisogno del completo, del perfetto, dell’
individualità armonica, della totalità sistematica può solo esser soddisfatto
per mezzo dell'Arte, la quale rende possibile la sovrapposizione di tutto un
mondo supra il mondo della esperienza ordinaria. Il vero artista è quegli che
crea per creare, è quegli che spinto dal bisogno di porre in opera il soprappiù
delle sue esuberanti energie, produce spontaneamente e quasi istintivamente,
senza aver dinanzi alla mente uno scopo estrinseco od interessato da
conseguire. Egli crea per dar forma definita a ciò che gli si agita nel fonito
dell'anima. L’opera d'arte è bella quando porta nettamente l'impronta della
personalità dell'artista e quando esprime l'impressione in lui prodotta dalla
vista dell'oggetto o del fatto che egli traduce. La Natura è bella quando noi
in essa riconosciamo nol stessi con ciò clie abbiamo di veramente umano, come
esseri felici e miseri ad un tempo. Ognun vede che il bello non può essere in
alcun modo confuso nè col piacevole, nè col bene ; il piacevole infatti,
risponde ad una esigenza subbiettiva ed interessata, implicando l’appagamento
di un bisogno egoistico, e il bene involge il concetto di attuazione di un fine
chiaro e cosciente, sia questo estrinseco all’obbietto come nel caso
dell'utilità o immanente all’ oggetto stesso come nel caso della perfezione.
L'espressione libera e spontanea in forme concrete, di un contenuto.ideale e la
realizzazione irreflessa di ciò che vi ha di razionale nella nostra natura,
ecco che cosa è invece la produzione artistica ; un’espressione necessaria el
obbiettiva della vita umana nella sua complessità e dell'unità della natura,
ecco che cosa è invece l’arte. Onde consegue poi che non vi è ragione di
limitare la cerchia delle sue manifestazioni, le quali hanno tutte egual
diritto alla nostra consilerazione, a patto che mettano in evidenza in modo
completo un lato della vita umana con tutte le proprietà, siano pregi o difetti
ad essa inerenti. E " x Il problema che in filosofia generale corrisponde
a quello estetico or ora esaminato è il problema teleologico. Che significato
ha l’inesauribile produttività della natura ? Che valore va attribuito alle
svariatissime forme naturali? Ora la risposta lata dai filosofi almeno da
taluni filosofi coincide con quella data dagli estetici in quanto viene ammessa
l’intima razionalità della natura, a cui accennano già le leggi naturali. Tale
razionalità può da una parte non esaurire il contenuto della natura, giacchè
questa oltre ad essere compenetrata dalla ragione 'è qualcosaltro ancora, e
dall’ altro non è tale da far considerare i fatti e gli obbietti naturali come
prodotti da un’Intelligenza cosciente identica all’umana. In altri termini, la
natura è, sì, espressione di qualcosa di razionale, ma non può essere
considerata come il prodotto di un'attività intelligente che si esplichi come
quella dell’ uomo. La natura esclude il dominio del caso e insieme una veduta
antropomorfica qualsiasi. E poichè del rimanente la produttività della natura
presenta i caratteri propri della produzione artistica (libertà, spontaneità,
molteplicità di forme definite, unità organica delle parti costitutive di
ciascuna forma, esuberanza di energia, apparente assenza di utilità, ecc.), è
ragionevole pensare che il mondo ideale dell’arte e quello reale della natura
siano prodotti da un'attività fondamentalmente identica: la quale però nel
secondo caso si esplica in modo chiaramente incosciente e nel primo in modo,
diremmo semicosciente o cosciente addirittura. In entrambi i casi la ragione è
in azione, ma (ci sia lecito esprimerci così) senza averne Vl aria: in entrambi
i casì l’idea di fine non è costitutiva dei fenomeni, ma puramente regolativa,
giacchè come il fatto estetico non è prodotto, nè sentito in vista del
raggiuugimento di un dato fine, in vista di. un vantaggio da ottenere, o di un
risultato pratico da conseguire, così il fatto naturale non può essere
interpretato o spiegato mediante il concetto di fine. Il fatto estetico e
quello naturale però implicano, ciascuno alla sua mauiera, l’esistenza
dell'elemento intelligibile e razionale atto a dar ragione della loro forma
determinata: tanto l’ uno quanto l’altro pongono l’esigenza dell’unità
sistematica atta a dar ragione delle relazioni esistenti tra le varie parti od
elementi componenti il tutto, unità sistematica che include il concetto di fine
intrinseco ed organizzatore, comunque incosciente. É evidente poi che tra
natura ed arte, tra bello natu: rale e bello artistico non può esistere
antitesi di sorta, ma soltanto differenza di grado, in quanto l’arte non fa che
presentare come raccolti in un punto quei raggi che nella natura vanno dispersi
qua e la, in quanto cioè l’arte concentra e rende continuo ciò che nella natura
si presenta discontinuo, sconnesso e quindi pressochè sfornito di alto
significato. Allo stesso modo che la scienza coordina, correggendo, modificando
(sceverando l’ essenziale e il necessario dall’accidentale), i fatti
dell’osservazione percettiva ordinaria e li presenta sotto nuova luce, così
l’arte ha per intento di mettere in evidenza i tratti caratteristici della
natura e della vita, ordinandoli, fissandoli e organizzandoli in modo che salti
agli occhi di tutti quel sigrificeto che diversamente o non sarebbe avvertito
addirittura, ovvero in modo incompleto e confuso. L'opera del genio si esplica
appunto nell’idealizzare la natura, vale a dire nel rendere appariscente ciò
che senza di Lui all'occhio volgare sarebbe per sempre rimasto nascosto.
L’opera d'arte quale espressione di un contenuto ideale, di un universale
concreto (natura propria di ciò che si vuol rappresentare) ha la sua ragione in
sè stessa: e il suo valore sta tutto nell’ essere essa parvenza perfettamente
distinta dalla realtà. Essa invero è apprezzata per sè; è un sistema,
un'individualità, qualcosa di organico esprimente la Realtà sotto un punto di
vista determinato. Qualsiasi altra cunsilerazione non riferentesi alla
contemplazione di una rappresentazione concreta, compiuta di quella medesima
Realtà, che alla Ragione appare come Vero ed al Volere come Bene, le è
estranea. Onde con
BOSANQUET [citato da H. P. Grice, “Prejudices and predilections, which become
the life and opinions of H. P. Grice” --, Zistory of Esthetic. London. It is
plain that nature in this relation differs from art principally in degree, both
being in the medium of human perception or imagination, but the one consisting
in the transient and ordinary presentation or idea of average ind, the other in
the fixed and heigtened intuitions of the genius which can record and interpret
. segue che l'appercezione estetica si riferisce al modo come è rappresentato,
come è espresso, non come è costituito, nè come agisce il Reale per sè. E evidente che una medesima cosa è giudicata
bella o brutta a seconda che è considerata o pure no espressione completa di un
dato ordine di realtà: espressione che figurerà come completa o come incompleta
secondo che un oggetto è guardato nella sua possibilità e in generale dall’uno
o dall'altro punto di vista. Un esemplare di una specie di animali nota uno
scrittore recente, sarà brutto p. es. se considerato come espressione dell’
animale in generale, perchè in quel dato esemplare (forma) la vita animale
(contenuto) non si rispecchia nella sua pienezza: potrà esser bello se
considerato come espressione tipica di una data specie di animale,. giacchè in
tal caso esso è considerato come espressione o forma di un altro contenuto ,
dass di un altro was. Insomma un oggetto è bello o brutto secondo la categoria
con la quale lo appercopiamo. Nell'arte tutta la realtà naturale ed umana che è
bella o brutta secondo i punti di vista relativi diventa bella, perchè è
appercepita come realtà in generale che si vuol vedere espressa completamente.
Tutti i personaggi, tutte le azioni, tutti gli oggetti, entrando nel mondo dell’arte
perdono (artisticamente parlando) le qualificazioni che sogliono avere per
ragioni. diverse nella vita reale, e son giudicati sclo in quanto l’arte li
ritrae più o meno perfettamente. Taluni dei Cesari sono giudicati mostri
guardati nella vita reale, ma non sono mostri come figure d’arte. PERGEA PSR i
ie ina Pr fa L'uomo nella vita ordinaria accetta il dato come immediatamente
gli si presenta senza che faccia alcun tentativo per armonizzare tra loro gli
elementi discordanti. Possiamo aggiungere che la discordanza non è neanco
avvertita. In tale stadio l’uomo non conosce per conoscere, ma conosce per
operare, per soddisfare cioè nel modo più appropriato i suoj/ istinti o le sue
tendenze; onde avviene che le cognizioni, le quali meglio rispondono alle
esigenze pratiche, appaiono complete, perfette. Se non che un tale stato non è
duraturo; ben presto con lo svolgersi della cultura e della civiltà la funzione
conoscitiva acquista un certo grado d'indipendenza, emancipanilosi dai bisogni
pratici ed acquistando valore e significato per sè. È in tale stadio che
cominciano ad essere avvertite le contradizioni esistenti tra i vari elementi
dell’esperienza ordinaria, dapprima considerati come essenzialmente costitutivi
della vera ed ultima Realtà. È in tale stadio che si formano le scienze, le
quali per dar ragione dei vari fatti sperimentali e per eliminare le
contradizioni dagli stessi presentate ricorrono a concetti d'ordine
particolare. In tal guisa questi sono come il sostrato della realtà, mentrechè
i fenomeni empiricì stanno ad indicare le varie maniere in cui il detto
sostrato si può presentare al soggetto, stanno ad indicare le varie forme che
esso può assumere. Ma siffatti concetti fondamentali delle scienze particolari
sono in realtà qual-. cosa di ultimo e d’irriducibile e (ciò che sopratutto
importa) sono privi assolutamente di elementi contradittori, sono cioè
perfettamente intelligibili? Questo problema che sorpassa evidentemente i
limiti di ciascuna scienza speciale, forma il punto di partenza del filosofare.
Ora BRADLEY, il filosofo oxoniense, nel suo saggio di metafisica intitolato
“Appearance and Reality” – Appearance and reality: a metaphysical essay.
London, Swan Sonneschein. Tale opera di Bradley è accolta con molto favore nel
mondo filosofico inglese. Mackenzie non si perita di affermare nella Rivista
Mind che il saggio di metafisica di Bradley è una delle migliori opere
filosofiche. Bradley del resto è autore di parecchie altre opere
pregevolissime, quali i “Principles of Logic” (London), “Ethical Studies” e
svariatissimi articoli per la più parte d’argomento psicologico pubblicati
nella “Mind.” -- muove appunto dal quesito: La realtà quale ci viene presentata
dalle scienze singole è consistente, ovvero è contradittoria e quindi non
realtà vera, ma apparenza? Le scienze per costruire un mondo intelligibile sono
ricorse a vari espe-. dienti o mezzi; che valore hanno questi? Sottoposti alla
critica, esaminati alla luce del principio di contradizione appaiono
consistenti? Ognuno vede che per risolvere tale problema occorre anzitutto
passare a rassegna i materiali che compongono l’edifizio della scienza per
potere di poi ricercare fino a che punto ciascuno di essi sia coerente con sè
stesso e coi rimanenti. Si fa presto ad enumerare gli organi che renduno
possibile alla scienza la costruzione della mechanica rerum; essi sono:
divisione delle qualità sensoriali in primarie e secondarie, i concetti dì
sostrato o sostantivo, di qualità, di relazione, di spazio, tempo, movimento,
cangiamento, causalità, forza, attività. Tutto il mondo per la scienza è
composto di cose , di qualità , di relazioni e, se si vuole, anche di forze .
Le qualità possono essere divise poi in primarie (estensione, resistenza) e
secondarie (colori, suoni ecc.). Dalle varie combinazioni di qualità e di
relazioni di differente ordine risultano lo spazio, il tempo, il movimento, il
cangiamento, la causazione. Possiamo dire che i concetti propriamente primitivi
sì riducono a quelli di sostanza, di qualità, di relazione e di azione, mentrechè
tutti gli altri concetti di cui si fa largo uso nella scienza, non sono che
derivazioni e combinazioni diverse di quelli primitivi. Si domanda adunque: La
Realtà è effettivamente costituita di sostanze, di qualità, di relazioni? Il
Bradley risponde subito di no, perchè tutti questi elementi, implicando
contradizioni, sono apparenza e non realtà. La sostanza , la cosa non è che
l'insieme, l’unità di tutte le qualità che caratterizzano, 0 como altrimenti si
dice, ineriscono ad essa: ma che cosa è mai questo rapporto d'inerenza? Da una
parte la cosa non s'identifica con nessuna delle qualità per sè prese (così lo
zucchero non è identico alla qualità del bianco, o a quella del dolce per sè
presa), e dall'altra parte se si dice che la cosa rappresenta l’uni ficazione,
l'aggruppamento delle varie qualità non s'intende in che cosa possa consistere
questa unificazione od ordinamento che sia. Chi tiene unite le qualità? Perchè,
come, dove queste si uniscono insieme? Qui sì tira in ballo il concetto di
relazione e si dice che la sostanza, la cosa, è data da particolari rapporti
esistenti tra le varie qualità, ma ciò non serve affatto a chiarire la
questione, perchè che cosa mai vuol dire che una cosa è uguale al rapporto di
una qualità: con un’altra qualità? Così se si dice lo zucchero è eguale ad un
dato rapporto del bianco col dolce non si dice nulla di serio e di
significante, non si sa che cosa voglia dire una qualità in rapporto con
un'altra: la prima qualità non è identica alla seconda, e non è nemmeno identica
alla relazione con la seconda . Come si vede, al problema concernente la
sostanza, la cosa, sì connette intimamente quello riguardante la natura della
qualità e della relazione, problema che esaminato a fondo, dice il Bradley, dà
luogo ad un cumulo di contradizioni. Ed invero qualità e relazione anzitutto si
presuppongono a vicenda in quanto con ogni qualità si connette intimamente un
processo di distinzione, di differenziazione e quindi un rapporto (ogni qualità
in tanto esiste in quanto emerge, distaccandosene, da un dato fondo), processo
e rapporto che sono parti essenziali della qualità come tale e non qualcosa di
sopraggiunto: chi dice qualità dice molteplicità e chi dice molteplicità dice
con ciò stesso rapporto; e in quanto ogni rapportu d'altra parte implica la
esistenza di termini e quindi di qualità tra cui esso intercede ; poi non c'è
verso di poter intendere come qualità e relazione agiscano o si comportino
reciprocamente. Noi, ricordiamolo bene, siamo a questo: la relazione è nulla
senza la qualità e viceversa la qualità è nulla senza la relazione: da un canto
sembra che la qualità consti di relazioni, e dall'altro che queste non siano
che forme di qualità. Si direbbe che in ciascuna qualità siano da distinguere
due elementi, uno che rende possibile una qualsiasi relazione e l’altro che
risulta dalla relazione stessa, elementi che appartenendo ad una stessa cosa
(qualità), bisogna che siano in relazione tra loro per modo che a’ proposito di
ciascuno di essi si renda necessario il medesimo processo di distinzione
dell'elemento che rende possibile la relazione da quello che ne risulta. Il
che, come è chiaro, I mena ad un processo ad infinitum. Il fatto è che il
Bradley non vede come la relazione salti fuori dalla qualità, nè come la
qualità possa saltar fuori dalla relazione lasciata così sospesa per aria. Da
una parte la relazione pare che non si distingua dalla qualità, e dall’altra la
presuppone: e viceversa da una parte la qualità pare che s'identifichi con la
relazione, e dall'altra ne derivi. | Come mai si può affermare adunque che la
realtà è fatta di sostanze, di qualità e di relazioni, se tali tre elementi
implicano contradizioni e sono affatto incomprensibili? Presi separatamente o
in unione essi appaiono sempre impenetrabili all’intelligenza. La relazione non
può essere considerata un addiettivo, una proprietà della qualità, giacchè
viceversa questa appare qualcosa di inerente alla relazione. Oltrechè il
rapporto di inerenza è quanto di più oscuro si possa immaginare, la relazione e
la qualità non possono essere sostantivi ed addiettivi nello stesso tempo. Se
non s'intende come le qualità possano unirsi per dare la cosa , non s'intende
del pari come i rapporti siano proprietà, siano come a dire inerenti alle
qualità. Si ode dire che la tale cosa ha la proprietà di essere in rapporto con
la tale altra cosa, ma una tale espressione implica una quantità di
controsensi. Che cosa è il rapporto per sè preso? Non sì può identificare con
la cosa e d’altra parte per sè è nulla. Il nodo della questione è tutto qui: la
relazione non essendo una cosa nè una qualità, non sì arriva a comprendere che
cosa mai possa essere, giacchè essa infatti nell’ uso ordinario e scientifico è
adoperata ora come sostantivo a cui ineriscono le qualità vere o proprie ed ora
come addiettivo, come un derivato delle qualità stesse. Se non c'è modo di
intendere l’unità delle qualità e degli attributi costituenti la cosa non c’è
modo neanche d'intendere l’unione delle relazioni con le qualità. Da un canto
il rapporto deve essere qualcosa per sè, qualcosa di distinto dalla qualità e
dall’altra fuori la qualità esso appare nulla. Una volta dichiarati
iniutelligibili perchè contradittori i concetti di sostanza, di qualità, di
relazione, non potevano non apparire del pari incomprensibili lo spazio, il
tempo, il movimento, l’attività, il cangiamento, la causazione, ecc. Tutti
questi concetti invero non risultano che di qualità e di relazioni variamente
combinate tra loro. In ciascuno di questi casi riappare l'impossibilità di
considerare la relazione come qualcosa di esistente per sè in quanto essa
presuppone delle qualità e insieme l’impossibilità di considerare le qualità
come cause produttrici delle relazioni, perché le qualità si risolvono alla
loro volta in relazioni. Da un canto le qualità sembrano constare di relazioni
e queste di quelle e dall'altro non s'intende come in ogni caso le une possano
emergere dalle altre. Ognuno vede quale sia la conclusione a cui perviene la
critica del Bradley : i concetti fondamentali delle scienze particolari non
sono che mere apparenze. Ora è giusta una tale affermazione, in base,
s'intende, all'analisi da lui fatta delle qualità e relazioni in genere e poi
del mutamento dello spazio, del tempo, della causazione, del cangiamento, ecc.
? In sostanza Bradley ragiona così: Poichè la sostanza o la cosa da una parte
non può essere identica a ciascuna o anche a tutte le qualità per sè prese e
dall'altra non può essere considerata come il sito d’unificazione, come l’
unità di tutti gli attributi, poichè in altre parole è incomprensibile il
rapporto d'inerenza o il nesso del sostantivo con l'aggettivo bisogna dire che
questi ultimi concetti non costituiscono la realtà. Poichè è inconcepibile la
natura della qualità e della relazione come della loro unione, bisogna
affermare che anche siffatti concetti non sono che apparenze, errori di
prospettiva mentale, i quali vengono ad essere eliminati in un’ esperienza più
elevata. Il filosofo inglese, come si vede, prende i concetti di sostanza, di
qualità e di relazione come se fossero qualcosa di esistente per sè, come se
fossero degli elementi indipendenti, delle vere e proprie entità: ora ciò è un
errore. Non è lecito considerare la sostanza, la qualità e la relazione
separatamente dal fattore della coscienza in generale (Bewusstsein iiberhaupt,
direbbe Kant) che ne è il vero sostegno e fondamento. La sostanza, la qualità e
la relazione in tanto appaiono concetti contradittori in quanto sono stati
distaccati dalla loro matrice, da ciò per cui sono e a cui devono per conseguenza
esser riferiti, la coscienza, il soggetto in genere. Considerati come obbietti
non reggono alla critica sicuramente, ma considerati come fatti esistenti per
un soggetto in generale e non per questo o quel soggetto particolare divengono
comprensibilissimi. Ed invero l’ unificazione delle qualità costituenti la cosa
non è un atto compiuto in un sito al di fuori del soggetto, ma ha la sua radice
nell'unità della coscienza. Non esistono delle qualità per sè prese che poi in
un bel momento si uniscano tra loro per formare la cosa , ma esistono degli
elementi astratti (che dal punto di vista obbiettivo sono funzioni), i quali si
concretizzano, completandosi a vicenda, per opera della soggettività in genere.
La cosa, la sostanza insomma è ciò che è per la coscienza in genere. La cosa la
sostanza adunque è una funzione del soggetto. Ricordiamo che una funzione è
sempre una ancorchè gli atti di cui essa si compone siano molteplici. La cosa o
la sostanza non è la semplice unità delle sue qualità, ma è questa unità più il
soggetto : nè è a dire che la sostanza sia identica ad una sola qualità (come
parrebbe quando si dice, ad esempio, che lo zucchero è dolce o al rapporto
esistente tra le varie qualità : queste in tanto appaiono costitutive della
cosa, in tanto possono essere attribuite separatamente o complessivamente alla
cosa stessa in quanto sono presenti ad una coscienza. Il rapporto d'inerenza in
tal guisa cessa di essere qualcosa d’impenetrabile e di misterioso, riducendosi
ad una funzione della coscienza o della soggettività in genere per cui le varie
modificazioni vengono ad essere riguardate come elementi di un unico processo.
Parimenti la qualità e la relazione, come la sostanza, non sono delle entità,
ma vivono, agiscono e si muovono nella e per la coscienza in generale: tolta la
quale, non s'intende sicuramente nè la qualità, nè la relazione, nè la loro
unione. La qualità non esiste che come determinazione, differenziazione della
coscienza o soggettività in genere, e questa stessa mentre è attiva dà luogo a
relazioni di vario ordine. Qualità e relazione adunque non sono due fatti
distaccati, o meglio, l'uno di essi non è qualcosa di aggiunto all’altro: la
relazione presa per sè, come la qualità presa per sè non esistono, ma vengono
per così dire, generate ad uno stesso tempo dalla coscienza, la quale nell'atto
che dà luogo alla qualità dà luogo anche alla relazione, per modo che qualità e
relazione da una parte si appoggiano a vicenda e dall'altra hanno entrambe il
loro fondamento ultimo nell'unità e attività della soggettività; tanto è vero
che ciò che da un punto di vista figura come qualità, può presentarsi da un
altro punto di vista come relazione e viceversa Se si fissa l’attenzione
sull'atto o processo con cui la coscienza genera e costìtuisce la qualità si ha
la relazione: se invece l'attenzione è fissata sulla modificazione generata
nella coscienza dall'atto si ha la qualità. La relazione pertanto non è un
addiettivo della qualità come questa non è un prodotto della relazione, ma sono
due lati di uno stesso processo fondamentale compiuto dalla soggettività in
generale. E si comprende ‘agevolmente come la relazione distaccata dalla -sua
matrice che è la coscienza in generale presa quindi per sè, presupponga i
termini o le qualità e viceversa queste considerate per sè traggano seco
l’altro lato del processo, implichino cioè la relazione: esprimendo la qualità
e la relazione due punti di vista differenti di uno stesso fatto, l'uno implica
l’altro: ciascuno è vicendevolmente risultato e condizione, secondochè si muove
per primo dall'atto della coscienza (relazione) con cui si produce una
modificazione di essa qualità, ovvero da questa modificazione. I concetti di
sostanza, di qualità e di relazione adunque in tanto implicano un cumulo di
contradizioni in quanto vengono considerati separatamente dal fattore della
coscienza, della soggettività in generale in cui hanno la loro radice e ragione
di essere. Una qualità che non si riferisce ad un soggetto è nulla come una
relazione che non esprime un’ azione di un soggetto è parimenti nulla. La
scienza fa uso dei concetti di sostanza, di qualità, di relazione senza andare
in traccia di ciò che siffatti concetti implicano: la filosofia per contrario
trova che essi si riferiscono alla coscienza in generale con le sue note di
unità, di attività e di modificabilità. La sostanza, la qualità, la relazione
sono elementi costitutivi della realtà non nel senso che esistano per sè, ma
nel senso che sono una produzione, anzi, meglio diremo, sono elementi
costitutivi della coscienza o della soggettività in generale che è quanto di
più reale possa esistere. E la sostanza, la qualità e la relazione in tanto
s’implicano a vicenda in quanto come funzioni integrantisi a vicenda formano la
struttura organica della coscienza. La sostanza non è identica ad un complesso
di qualità o di rapporti tra qualità come la relazione non è un prodotto della
qualità, come la qualità non risulta dalla relazione, e come infine la
relazione non è un attributo della qualità e viceversa, ma sono tre differenti
funzioni della coscienza, tre vie che la coscienza tiene nell'adempimento del
suo ufficio che è quello di costruire l’esperienza intesa in senso largo. Per
Bradley giudicare equivale semplicemente ad identificare stabilire un'identità
formale ed astratta tra i termini del giudizio, facendo astrazione dal fattore
della coscienza necessariamente supposto dall'atto giudicativo. Ora il giudizio
non è la pura identità di due teriini, ma è l'identità più l’azione del
soggetto che rende possibile e in cui si compie il riferimento espresso nel
giudizio. Sicuramente l’un termine del giudizio non è identico sic et
simpliciter all'altro, ma è identico a questo più il fattore del soggetto. Si è
veduto come la difficoltà d’intenlere la natura propria delle qualità e delle
relazioni derivi dal considerarle come dati invece che come funzioni della
coscienza o del soggetto in genere, ond’ è che esse non figurano come attributi
della realtà, ma bensì come atti della coscienza : qualità e relazioni avendo
la loro ragione di essere nella e per la coscienza è chiaro che non sì tosto
esse vengono distaccate da tale fonlo appaiono concetti contradittori. Del
resto lu realtà presa nel suo insieme non è veramente tale che per una
coscienza : tolta questa, la realtà stessa scompare. Una realtà posta al di
fuori di qualsiasi forma di coscienza per noì è inconcepibile n almeno è come
se non esistesse, è nulla. Ora la realtà riferita ad una coscienza è costituita
di vari ordini di qualità e di relazioni, che rappresentano per così dire i
materiali .con cui il soggetto fa o costituisce la realtà. Lungi dal poter
essere le stesse considerate come apparenze costituiscono la realtà vera. Ciò
posto, ognuno vede che le contradizioni riscontrate dal Bradley nello spazio,
nel tempo, nel movimento, nel cangiamento, nell'attività, nella causazione che
in fin dei conti rappresentano delle differenti combinazioni di qualità e di
relazioni, scompaiono appenachè esse non vengono più considerate come dati, ma
funzioni della coscienza in generale. Le contradizioni esposte dal Bradley
poggiano per la più parte sulla difficoltà o impossibilità di intendere il
continuo, il quale sotto differenti forme si presenta nello. spazio, nel tempo,
nel movimento, nel cangiamento, nella causazione ecc. Ora il con/înuo
effettivamente non è concepibile che armettendo una coscienza o soggettività
che in certo qual modo sia come la forma permanente della Realtà, rispetto alla
quale cioè la realtà venga costituita e uni‘ficata. Il continuo dello spazio,
del tempo, del movimento, del cangiamento, è come a dire, il riflesso della
continuità, della permanenza, e della identità dell'attività della coscienza,
e, si badi, della continuità della coscienza in generale e non di quella
individuale. A tal proposito giova ricordare che la conoscenza, la costruzione
della realtà e l’esperienza in genere in tanto sono possibili in quanto la
funzione o l’attività della coscienza individuale s' identifica con la funzione
della coscienza in genere. Ma si può domandare: Che concetto dobbiamo e
possiamo formarci di tale coscienza in generale ? 0 meglio,. che esperienza ne
abbiamo noi? Siffatta coscienza in generale è quell'elemento subbiettivo che
viene sottinteso in ogni esperienza e quindi in ogni realtà. L'esperienza
divenga obbiettiva finchè si. vuole, si attenui fin che si A proposito del
movimento rimandiamo il lettore a ciò che ne dicemmo sulle tracce del Masci nel
I° volume di questi Saggi. vuole il fattore subbiettivo, non si riuscirà mai ad
annullare, come già si fece notare disopra, il riferimento ad una coscienza
qualsiasi: tolto il quale riferimento è annullata per ciò stesso l’esperienza e
la realtà. Noi in tanto possiamo parlare di fatti obbiettivi in quanto ad una
determinata coscienza individuale sostituiamo una forma differente di coscienza
senza riuscire mai a far senza di una qualsiasi: così si parla dei fatti di
movimento come di fatti essenzialmente obbiettivi: ora i detti fatti di
movimento non sono fenomeni riferentisi ad una coscienza? L'uomo come essere
pensante è cosiffatto che non può in nessuna maniera, semprechè non voglia
annullare sè stesso, fare astrazione da una qualsiasi forma di coscienza. Ed è
in ciò posta appunto la realtà dell’ io non già nel vario contenuto della
coscienza individuale, il quale è qualcosa di mutevole e di accidentale. Il
Bradley per mostrare come anche l'io sia apparenza e non realtà passò in
rassegna i vari significati in cui l’ io può essere preso per dedurne che
nessuno di tali significati è scevro di contradizioni; nessuno ci dà la realtà:
ma egli non accenna al significato dell’ io quale condizione prima di ogni
esperienza e quindi di ogni realtà : ora è appunto in tal senso che l'io è ciò
che vi ha di veramente reale. Non è l'io empirico, l’io individuale per sè
preso che ci dà il reale, ma è quell’elemento dell’ io individuale per cui
questo identificandosi coll’io, e la coscienza in genere si presenta come
elemento costitutivo e quindi come condizione di ogni realtà ed esperienza.
Aggiungiamo infine che una volta che lo spazio, il tempo, il movimento, il
cangiamento ecc. non vengono presentati come dati, ma come funzioni della
coscienza in generale è chiaro che nelle loro parti costitutive appaiono come
qualità o come relazioni a seconda che varia il punto di vista da cui vengono considerate:
appaiono relazioni guardate dal punto di vista dell'atto costruttivo, mentrechè
appalono qualità dal punto di vista delle modificazioni nell'atto stesso
prodottesi sempre nella coscienza in generale. L'analisi del Bradley mena
adunque a questo risultato, che i concetti fondamentali delle scienze
particolari, involgendo contradizioni, non possono essere elementi costitutivi
della realtà, ond’è che essi vanno considerati quali mere apparenze. Come si
vede, il criterio per distinguere la realtà dall’apparenza è il principio di
contradizione. Regola generale: ciò che si contradice non è reale, o, ciò che
val lo stesso, la realtà ultima non può essere contradittoria. Tale criterio è
assoluto e supremo, perchè tutti gli altri ne dipendono e perchè anche
negandolo o dubitandone, se ne ammette tacitamente la validità. Il principio di
contradizione però non va considerato come un criterio puramente formale in
quanto chi pone l’ inconsistenza tra gl’ indizii della non realtà viene ad
affermare la consistenza quale segno del reale : se ciò che Stimiamo opportuno
riprodu-re, italianizzandole, le parole inglesi consistency e inconsistency per
donotare l’ identità e la contradizione, in quanto esse esprimono bene i
concetti della presenza 0 della mancanza dell’appoggio reciproco delle varie
parti di un tutto, si rivela inconsistente e contraditturio non è reale, la
Realtà dev'essere per forza consistente. Ma, si può qui domandare, se i
concetti fondamentali di cui si fa uso nell’esperienza racchiudono contradizioni
e se ciò che è contradittorio non è reale, tuttociò che ci circonda e noi
stessi siamo come a dire al di fuori di ogni realtà, siamo non enti? No,
risponde il Bradley, noì e tutto il resto siamo, e come tali siamo apparenze,
vale a dire che abbiamo un certo grado di realtà. Il carattere fondamentale del
reale è dato da ciò, che esso possiede ogni specie di apparenza, ma in forma
armonica. Sicchè la Realtà è una nel senso che esclude qualsiasi contradizione
e comprende tutte le svariate apparenze fino a tanto che non si contradicono.
Per conseguenza il Reale non può essere che individuale e tale da abbracciare
tutte le differenze in un’ armonia secondo che questo è o no reale. La
consistency significa in modo chiaro il fatto che ciascun elemento esige la presenza
degli altri per modo che è reale quel termine che si connette, che è in
relazione con tutto il resto. Qui si può porre la questione: Ma i principii
d'identità e di contradizione per sè considerati implicano la connessione
reciproca delle varie parti di un tutto? Dal fatto che due termini non sono in
contradizione è possibile dedurre che sono in relazione reciproca e che sì
appoggiano a vicenda? L'assenza di contradizione può essere indizio di una
connessione, di una relazione, ma perchè questa sia ammessa effettivamente, si
richiede qualcos’ altro ; sì richiede una determinazicne positiva, la quale non
ci può essere fornita che dalla esperienza. Ritorneremo su questo punto quando
parleremo del rapporto esistente tra realtà e possibilità, tra l’esistenza e
l’intelligibilità. Quì vogliamo solo notare che non va confusa la funzione dei
principii supremi della ragione (identità ecc.) quali criteri per giudicare
della realta e della verita col loro ufficio quali postulati, esigenze, norme
della conoscenza. comprensiva d'ordine superiore. È a questo Uno-Tutto, a
questo Sistema, a questa Unità che supera le differenze, che vien dato il nome
di Assoluto. Prima di determinare la natura e i caratteri positivi e le
manifestazioni dell’Assoluto è bene soffermarci un momento per indagare da
quali ragioni sia stato indotto il Bradley ad ammetterne l’esistenza : ricerca
della più alta importanza codesta in quanto per tale via noi penetreremo nel
cuore della filosofia del nostro autore. Tuttociò che in qualche maniera racchiude
contradizione non è reale, è apparenza che può divenire reale solo allontanando
da sè l'elemento contradittorio, vale a dire cessando di essere determinatu in
un dato modo e trasformandosi in qualcos'altro : onde consegue che la realtà
dev'essere caratterizzata dall'assenza di contradizioni, dalla consistenza con
sè stessa, il che può avvenire solo nel caso che essa sia unità individua e
sistematica. Tuttociò però non implica che la Realtà effettivamente esista, ma
soltanto che, se esiste, non può esistere che in tale maniera, sotto questa
condizione, che sia una e consistente: condizione che determina la possibilità,
non l'attualità. Ciò che è possibile è forse reale? Una possibilità asserita,
risponde, ha sempre un significato e finchè non sia contradetta o non appaia
contradittoria, qualifica il Reale, presentandosi sempre accompagnata con
qualche idea attuale: quando voi non avete che un'idea e di essa non potete
razionalmente dubitare, siete nell’obbligo di affermarla, giacchè, è bene
tenerlo a mente, qualsiasi cosa serve a qualificare il Reale e finchè una idea
non appare inconsistente seco stessa isolatamente considerata, o presa colle
altre cose, è da riguardare vera e reale. A ciò sì aggiunga che la possibilità
è sempre relativa e implica sempre un inizio di attualità, giacchè la
possibilità assoluta o incondizionale equivale all’inconcepibilità o
impossibilità. Essa è data appunto da ciò che contradice alla conoscenza
positiva piuttosto che da ciò che appare insufficientemente connesso con la
Realtà. Come si vede, occorre determinare bene il rapporto esistente tra
pensiero e realtà, e insieme fissar bene il concetto che bisogna formarsi della
realtà e verità in genere. Ora al Bradley sembra assolutamente inconcepibile un
pensiero, per così dire, sospeso in aria, che non sia connesso con una
qualsiasi forma del Reale, con uno de suoi aspetti o con una delle sue sfere.
Per quanto ciò possa sembrare un paradosso, è inammissibile che la realtà sia
circoscritta a ciò che esiste nello spazio e nel tempo: questa non è che una
delle tante forme, delle tante manifestazioni od apparenze della realtà; tanto
è vero che ciò che è reale da un dato punto di vista, non lo è da un punto di
vista differente. Vi sono tanti mondi, tante realtà quante possono essere le
prospettive da cui può essere guardato il tutto, 0 meglio, ciascuno dei suoi
frammenti. Così vi è il mondo dell’arte, come vi è il mondo della religione,
della moralità e via di seguito, e tutti questi mondi sono differenti tra loro
per modo che ciò che è vero e reale in uno di essi non lo è del pari in un
altro ed ogni idea appartenente a questi singoli mondi qualifica in qualche
modo il Reale preso nel suo insieme. Il fatto immaginario qualifica la Realtà
alla propria maniera. Ciascun elemento occupa un posto nel sistema totale.
L'importante è determinare il vero posto che gli compete, L'oggetto del nostro
desiderio certo non esiste attualmente, ma è sempre però riferito alla realtà
ed è anzi tale riferimento che rende l’impedimento al soddisfacimento del
desiderio incresciosissimo: ciò che io desidero non esiste per me attualmente,
ma io sento vagamente che è in qualche parte, in una regione, per dir così,
lontana, per il che il suo non attuarsi in un dato momento produge una tensione
oltremodo spiacevole. Va notato però che se quilsiasi idea può essere riferita
alla realtà, d'altra parte perchè ciò avvenga, è necessario che la stessa idea
sia più o meno alterata (1), della necessità, del grado delle quali operazioni
noi siamo d’ ordinario completamente all’ oscuro. In conseguenza di ciò il
Bradley fu tratto a discutere della validità della celebre prova ontologica. Se
s’identifica la realtà coll’esistenza spaziale e temporale è evidente che dal
fatto che una cosa si presenta, per così dire, solo nella nostra testa non
consegue che essa esista realmente; ma lo stesso non si può dire quando si
ammette che qualsiasi idea qualifica in qualche modo la realtà; in questo EVERY
IDEA CAN BE MADE THE TRUE ADJECTIVE OF REALITY, BUT ON THE OTHER HAND, AS WE
HAVE SEEN, EVERY IDEA MUST BE ALTERED. MORE OR LESS THEY ALL REQUIRE A SUPPLEMENTATION AND
RE-ARRANGEMENT. BUT OF THIS NECESSITY AND OF THE AMOUNT OF IT WE MAY BE TOTALLY
UNAWARE. WE COMMONLY USE IDEAS WITH NO CLEAR NOTION AS TO HOW FAR THEY ARE
CONDITIONAL, AND ARE INCAPABLE OF BEING PREDICATED DOWN RIGHT OF REALITY. TO
THE SUPPOSITION IMPLIED IN OUR STATEMENTS WE USUALLY ARE BLIND, OR THE PRECISE
EXTENT OF THEM IS, AT ALL EVENTS, NOT DISTINCTLY REALISED. TO THINK IS ALWAYS
IN EFFECT TO JUDGE, AND ALL JUDGEMENTS WE HAVE FOUND TO BE MORE OR LESS TRUE,
AND IN DIFFERENT DEGREES TO DEPART FROM, AND TO REALISE, THE STANDARD
HARMONIOUSNESS SELF-CONSISTENTY, INCLUSIVENESS AND HARMONY. caso anche ciò che
si presenta soltanto nella mia testa deve avere qualche punto di contatto col
Reale. Giova ricordare a tal
proposito che una pura idea separata da tutto il mondo reale è un’ astrazione,
anzi vi ha dippiù: un'idea non riferita in qualche modo alla Realtà è una
contradizione. Si tratta di vedere adunque in che maniera l’idea dell’assoluto
possa esser riferita alla realtà. Perchè un’idea qualsiasi figuri come
qualificazione della realtà occorre che essa sia armonica, completa,
organicamente connessa col sistema totale, per il che deve essere priva di
qualsiasi elemento contradittorio. Ora l’idea dell’assoluto che è l’idea
dell’unità, della totalità, della coerenza del sistema, da una parte è inerente
alla natura propria del pensiero, tanto che si può dire che ne costituisca
l’essenza e dall’ altra è contradittoria solo nel caso che essa si consideri
come non avente niente a che fare con la realtà ; invero aver l’idea dell’
unità, del sistema assoluto e non riferirla alla Realtà quando si è detto che
il grado di realtà si misura dal grado di armonia, di comprensività ecc. è assolutamente
contradittorio. Se chi dice pensiero dice sistematizzazione, e se d'altro canto
il pensiero quale elemento integrante la realtà, è tanto più vero e reale
quanto più è sistematico, armonico, completo, non si può non affermare che il
pensiero o l’idea del sistema totale (Assoluto) è il più reale di tutti. In
questo caso l’idea è cosiffatta che essa è spinta, per così dire, a completarsi
nella esistenza : in caso contrario si rivela contradittoria. L'idea dell’
assoluto, dell’ unità ecc. non è un prodotto accidentale, arbitrario dello
spirito subbiettivo, ma è qual. cosa di essenziale allo spirito come spirito,
per il che sempre che non si voglia annullare il pensiero (e quindi in ultima
analisi la realtà stessa), non si può non renderla consistente. In sostanza
negare l’esistenza all'idea dello assoluto equivale a dire che il criterio per
giudicare del grafo di verità e realtà che è quello appunto dell'armonia e
della coerenza non è reale; o, in altre parole, negare la realtà dell’ assoluto
equivale a dire che il pensiero non è reale, che esso brancola nel vuoto
addirittura, non riferendosi e non completandosi nella realtà. Pensiero e
realtà essendo parti di un tutto, si completano a vicenda per modo che partendo
da un lata si è costretti a muoversi per forza verso il lato complementare, Da
tal punta di vista la prova ontologica va considerata come l'inverso di quella
cosmologica. Una volta che il Reale è per natura qualificato dal pensiero esso
deve per qualche via possedere ciò che implica l'essenza propria del pensiero.
Il principio della prova ontologica allora si rivela erroneo quando si crede di
poter con esso dimostrare che a qualsiasi idea formantesi nello spirito
individuale debba corrispondere senz’ altro un contenuto reale obbiettivo;
nulla di più falso e inesatto; qualsiasi idea caratterizza la realtà a patto
che essa venga profondamente mo lificata cou particolari processi (addition,
qualification, rearrangement, supplementation ecc.). L'idea dell’Assoluto che
isolatamente considerata è inconsistente, è tratta a completarsi per mezzo
dell’ esistenza L'esistenza non è la realtà, conchiude il Bradley, comunque la
realtà deve esistere ; l’esistenza è una delle forme di apparenza del reale.
Raccogliendo le fila, noi possiamo dire che per il Bradley l'Assoluto in tanto
è ammissibile in quanto è riconosciuto come possibile (giacchè la possibilità
implica inizio di attualità) e insieme come pensabile. Ciò che è conforme alla
natura propria del pensiero (armonia, comprensività) è sempre in qualche modo
reale. Sicchè il criterio della realtà è in ultima analisi posto nel pensiero.
Nulla è assolutamente erroneo o falso, ma si distinguono numerosi gradi di
realtà e verità in rapporto alla maggiore o minore armonia e comprensività del
contenuto ubbiettivo. Come si vede, la questione ora si riduce alla ricerca del
rapporto esistente tra pensiero e realtà. Ogni pensiero, anzi ogni fatto
psichico (imaginazione, desiderio ecc.) caratterizza in qualche modo la realtà
vera e propria? Stando al Bradley stesso, il pensiero ha la sua radice nella
disgiunzione del what o contenuto intel ligibile (predicato) dal that o
esistenza, reale immediatezza sensoriale (soggetto), epperò nasce da un
disperdimento dell’unità reale concreta, per raggiungere la quale il pensiero deve
annullare sè stesso; dal che consegue che ogni predicato o contenu‘o
intelligibile, ogni idealità, ogni what implica sempre una realtà, un that da
cui è stato distaccato; e l'errore, la falsità sta solo in questo, nel
congiungere un what ed un that che non si corrispondono. Nel Tutto,
nell'Assoluto ogni what trovando il suo that cessa ogni possibilità di errare e
tutto appare giustificato perfettamente. Non vi è caso duuque che un pensiero
per quanto strano si riveli considerato da un dato punto di vista o in rapporto
ad una data regione del Reale, non abbia un punto di contatto colla realtà una
volta che, dopo opportune modificazioni e trasformazioni, è introdotto nel
regno dell’ Assoluto. Solo ciò che è contradittorio è falso, tutto il resto è
in qualche modo e in qualche grado reale. I cardini della concezione bradleyana
in ordine alla natura della realtà sono: 1° qualsiasi idea qualifica il reale;
2° l’idea dell’assoluto quale sistema armonico, quale indivi dualità è
cosiffatta che deve completarsi nell'esistenza. Ora tali affermazioni sono
state rese inoppugnabili dall'autore? Qualsiasi idea e quindi qualsiasi
giudizio noi facciamo, nota l’autore, deve avere un punto di riferimento nella
realtà: e ciò perchè un pensiero che non serva a caratterizzare in qualche modo
il reale è una contradizione; il pensiero in tanto è pensiero in quanto si
rapporta alla realtà: dal che però non bisogna trarre la conseguenza che ogni
singola idea si riferisca ad un corrispondente obbietto; l'idea bisogna che sia
prima sottoposta a processi d'ordine speciale atti a trasformarla in modo da
essere essa armonica col sistema totale. Si può dire pertanto che ogni idea
contenga una parte di verità e di realtà, parte di verità e di realtà che sarà
tanto maggiore quanto minore sarà la trasformazione a cui dovrà essere
sottoposta | perchè armonizzi coll’insieme. Sorge spontanea pertanto qui la
domanda: Quali sono e in che propriamente consistono ì processi atti a dare un
contenuto obbiettivo a qualsiasi pensiero? Bradley si contenta di enumerarli,
denominandoli; sono processi di rearrangement, di addition, di supplementation
ecc.: il che certamente non equivale a risolvere la questione concernente
l’obbiettività del pensiero. Ammesso che l’obbiettività non si possa ridurre
all'esperienza ordinaria e immediata sorge la necessità di determinare entro
quali limiti e fino a che punto possa essere ascritta l’obbiettività ad un
qualsiasi contenuto psichico o ideale e tale necessità non è davvero tolta via
dalla formola del Bradley. Kant In tal guisa si idealizza l’esperienza in modo
da congiungere in una sola realtà il presente e il passato e da assegnare, per
così esprimerci, alla detta esperienza un posto nell'ordine temporale fisso.
Una volta che l’anima non è oggetto di esperienza, nè un dato (essendo
costruita e consistendo nella trascendenza di ciò che è attuale e presente), ed
una volta che il suo contenuto non è uno col suo essere, è evidente che non può
venire considerata come qualcosa di reale, ma come una specie di astrazione e
quindi come una forma dì apparenza. In altri termini la posizione del Bradley
rispetto all'anima è la seguente. Egli muove dal principio che la Realtà vera e
quindi l'Assoluto è controdistinto da questo che in esso e solo in esso
l'ideale coincide coll’esistente, l’intelligibile col dato. Il mondo invece si
presenta come il risultato della formazione di centri finiti di sentimento, per
mezzo dei quali è resa possibile la scissione e la contrapposizione dell’
elemento intelligibile alla corrispondente esistenza, nel che propriamente
consiste ogni apparenza. Idea e fatto non possono formare una cosa sola finchè
non scompare ogni finitezza ; chi dice finitezza infatti, dice dipendenza e chi
dice dipendenza dice possibilità che una data coscienza venga turbata da qualcosa
d'estraneo, vale a dire possibilità che ad una esistenza si congiunga un
contenuto diverso da essa. Finchè si rimane quindi nel dominio del relativo e
del finito il processo di idealizzazione non può che crescere e svolgersi. Esso
però si completa con delle costruzioni, le quali lungi dall’essere qual cosa di
reale, figurano come le maniere di disporre o di aggruppare i fatti psichici o
gli elementi ideali in cui propriamente consiste la vita psichica. Non esiste
adunque l'anima o lo spirito, ma bensì fatti, anzi, meglio, fenomeni psichici i
quali hanno la loro radice nel processo di idealizzazione, di distacco
dell’idea dal fatto, al che si riduce tutto l'accadere nel tempo. I detti fatti
psichici non sono la realtà, ma la sua apparenza. Agli occhi del Bradley non è
a parlare di una vita dell'anima, e ciò che ordinariamente si battezza per tale
è la legge di distinzione e di aggruppamento, sotto il cui dominio stanno gli
elementi ideali. La vita del tutto si svolge attraverso le apparenze, vale a
dire attraverso la disgiunzione dell'idea dal fatto operata da quei centri
finiti di esperienza psichica, i quali appunto in forza della loro finitezza
sono spinti a trascendere la loro esistenza attuale, appropriandosi un
contenuto estraneo. Ora tale operazione non può durare indefinitamente, giacchè
in tal caso sarebbe sfornita di ogni valore e mancherebbe di un punto di
appoggio per la serie intera: pertanto cosa succede? che lo svolgimento della
serie dei contenuti intelligibili viene arrestato ad un certo punto e con essi
viene costruito un qualcosa che è designato come la causa da cui proviene tutta
la serie. È evidente che tale costruzione è puramente ileale, tanto è ciò vero
che le proprietà di continuità ed identità ad essa assegnate non soi0 che puramente
prodotti del pensiero riflesso, idee quindi e non fatti. Delle due l'una; o
l’anima va considerata come un fatto ed allora deve avere un posto nella serie
del tempo, deve essere un obbietto tra gli altri obbietti e poichè, sempre
secondo Bradley, il tempo e le cose in esso svolgentisì non sono che apparenze,
anche l’anima è un fenomeno; ovvero l’anima è posta fuori della serie temporale
ed allora si rivela sfornita di qualsiasi contenuto e quindi si riduce al
nulla, Per formarsi poi un concetto per quanto è possibile chiaro della detta
costruzione ideale forse è bene rappresentare la cosa con un esempio: si pensi
un po’ a ciò che avviene nei sogni: il punto di partenza, poniamo, è un
sentimento con tono piacevole o dispiacevole preponderante (a cui fa riscontro
nella questione presente il sentimento fondamentale): è intorno a questo nucleo
primìtivo che la fantasia dispone una quantità di rappresentazioni che
finiscono col costituire una cosa o un evento atto a dar ragione appunto del
sentimento primitivo. Il processo con cui viene costruito il corpo non
differisce sostanzialmente da quello che ci dà l’anima: la differenza sta tutta
qui, che nel primo caso la costruzione ideale è fatta con elementi più
astratti, nei quali si prescinde da qualsiasi interiorità e che sono posti
l’uno fuori dell'altro. Non bisogna dimenticare che la connessione, la sintesi
dei fatti psichici in tanto è possibile in quanto è riconosciuta la loro
identità interiore: essi cioè possono essere collegati in modo da formare un
insieme, perchè sono identici, mentre la congiunzione di ciò che è corporeo e
materiale è resa possibile dall'intervento di un universale estrinseco che sono
le leggi naturali, le quali però sì applicano ai casi identici e simili. Anche
qui adunque interviene il principio di identità, pur avendo un valore
subordinato a quello delle leggi. E di qui l'impossibilità di penetrare
l'essenza della natura. Anima e corpo sono entrambi fenomeni, entrambi modì di
apparire della Realtà, colla differenza che la prima presenta un grado maggiore
di verità che non l’altro. Entrambi sono (ci si passi l’espressione) eiezioni
del foco centrale del Reale; ma la prima è più significativa, perchè più vicina
al Reale stesso. Al Bradley non poteva sfuggire l’obbiezione che si può fare al
suo modo di concepire l’anima e il corpo: la prima, infatti, è considerata come
il risultato di una costruzione ideale; ma questa non presuppone alla sua volta
l’anima? Allo stesso modo il corpo è considerato come un prodotto della natura,
ma questa viceversa non può avere consistenza senza la cooperazione del corpo.
Ora il nostro filosofo risponde che siffatti circoli viziosi che si presentano
ad ogni pie’ sospinto alla mente del pensatore, sono appunto la miglior prova
che siamo nel dominio delle apparenze e non della realtà. Dicemmo disopra che
la vita del Reale si svolge attraverso le apparenze, le quali hanno in fondo la
loro radice nell'esistenza di molteplici centri finiti di esperienza psichica:
ora nulla di più legittimo che domandare il come e il perchè dell'apparenza in
genere. A tali quesiti il Bradley confessa di non saper rispondere. E allora si
possono fare altre domande: 41° se la Realtà è un sistema individuale
comprendente tutto in sè, che concetto dobbiamo - formarci del questo (this) e
del mio (mine)? 2° Da che cosa siamo autorizzati a trascendere il proprio io,
il proprio centro di sentimento e ammettere quindi una realtà universale in cui
il mio sia contenuto? | 1° Il questo qui e il mio esprimono il carattere
immediato del sentimento che sî sente e non di quello che si può studiare
idealizzandolo, separandolo, cioè, dalla sua esistenza attuale, e insieme
esprimono il modo di presentarsi della immediatezza in un centro finito.
Ammesso che nella realtà significato ed esistenza coincidono, il questo,
possedendo lo stesso carattere, va considerato come un centro di realtà
immediata. Senonchè qui va notato che l'immediatezza della Realtà totale non va
identificata con quella del questo, giacchè nel primo caso l'immediatezza
comprende in sè ed è superiore alla mediazione, in quanto sviluppa ed unifica
le distinzioni e le relazioni già formate, mentrechè nel questo l'immediatezza
nasce dacchè le distinzioni non sì sono ancora prodotte. Nel sentimento
fondamentale i vari elementi sono congiunti, e non connessi, onde il suo
contenuto si presenta instabile e tendente essenzialmente alla scomposizione
(disruption), tendente quindi per propria natura a trascendere l’esistenza
attuale. Ogni singolo centro però mostra una parte impenetrabile, un fondo individuale
incomunicabile e indecomponibile per cui passando dal mondo ideale a quello del
senso, si prova un non so che di vivo e di fresco. Il che prova ancora una
volta che la Realtà non è un puro sistema intellettuale, un organismo di idee,
ma bensì una individualità concreta Non è a credere che l’opposizione delle
varie individualità, dei vari this e mine sia insuperabile, giacchè niente
vieta che vari sentimenti possano fondersi in una cosa sola nell’Assoluto. E se
la Realtà ultima non può consistere solo in un aggregato di qualità
(predicato), d'altra parte è innegabile che Essa non presenta alcun aspetto che
non possa essere in qualche modo distinto dal resto e qualificato o
idealizzato. 2° Accanto al carattere di immediatezza si riscontra in ogni singolo
centro di sentimento la tendenza a trascendere 216 IL PROBLEMA FILOSOFICO la
propria esistenza, e ciò perchè, essendo cesso finitu e trovandosi in relazione
con qualcosa di esterno, possiede contenuti che non sono consistenti col dato e
che pertanto si riferiscono, accennauo ad altro. È la natura interiore del this
che lo spinge a sorpassare sè stesso, estendendosi verso ‘una totalità più
elevata e comprensiva. Il suo carattere di esclusività poi implica il
riferimento a qualcosa di estrinseco ed è una prova del necessario assorbimento
nell’Assoluto. E appenachè cominciano a delinearsi delle distinzioni nel
sentimento è evidente che la sua assolutezza e immediatezza scompare. La
caratteristica vera delle vedute del Bradley si riscontra indubbiamente nel valove
da lui attribuito al Vero, al Bello, al Buono. La Realtà suprema è l'Assoluto,
il quale vive, opera e si muove nelle apparenze; queste che costituiscono
l'Universo vero e proprio, hanno la loro origine nella separazione dell'idea
dal fatto: separazione che si può seguire attraverso le varic sfere e province
del Reale. Ed è a seconda che l'unione dell’elemento intelligibile col dato, a
seconda che l'assunzione dell'apparenza al dominio della Realtà richiede una
trasformazione maggiore o minore, perchè possa dar luogo ad un sistema armonico
e CITAZIONE DA S. DI BRADLEY IN INGLESE: I DENY THAT THE FELT REALITY IS SHUT
UP AND CONFINED WITHIN MY FEELING. FOR THE LATTER MAY, BY ADDITION, BE EXTENDED BEYOND
ITS OWN PROPER LIMITS. IT MAY REMAIN POSITIVELY ITSELF AND YET BE ABSORBED IN
WHAT IS LARGER. THE MINE –
Harrsison, I, me, mine -- DOES NOT EXCLUDE INCLUSION IN A FULLER TOTALITY.
comprensivo insieme, che si è autorizzati a parlare di un grado maggiore o
minore di realtà contenuta nelle apparenze. Son questi i canoni fondamentali
della concezione bradleyana: è da aspettarsi che alla stregua di essi siano
valutati il Vero, il Bello e il Buono. Che cosa è la verità? La verità è pura
apparenza, risponde il nostro Autor:: essa implicando la conoscenza, e questa
la funzione giudicatrice, e l’ultima alla sua volta necessariamente la
disgiunzione del what (predicato) dal that (soggetto), è chiaro che non può non
essere apparenza: tanto è ciò vero che raggiunta (col riunire l'elemento
intelligibile coll’esistenza) la vera e propria realtà, raggiunta, per così
dire, la vita del Reale, è più lecito parlare di verità, ha più senso tale
espressione? L'inconsistenza essenziale della verità può essere stabilita così:
fin tanto che vi è differenza tra il dato e il significato o contenuto ideale,
la verità non è realizzata in medo chiaro e completo: e tostochè la detta
differenza scompare, la verità ha per ciò stesso cessato di esistere. Ma qui si
può osservare: Si è riletto innanzi a proposito della realtà dell’Assoluto che a
tale affermazione si è per intima necessità condotti dalla idea che noi abbiamo
dell’Assoluto stesso, dalla conoscenza assoluta che in certo modo condiziona e
rende possi. bile ogni altra forma di conoscenza e di verità finita
quest'ultima sempre ipotetica e condiziona‘a rispetto a qualcosa di
relativamente ignoto , ora, come è possìbile accordare insieme l'affermazione
dell’esistenza della conoscenza assoluta con l’altra che la verità e. quindi la
conoscenza è apparenza, perchè essenzialmente inconsistente e contradittoria?
Il Bradley risponde che quando si parla di conoscenza assoluta non bisogna
correre col pensiero ad una forma di conoscenza in cui si abbia la perfetta e
completa compenetrazione del reale, l’ identificazione della verità colla
realtà, ma bensì ad una forma di conoscenza vaga, indeterminata, potenziale o
virtuale intorno al Tutto, che vale come incitamento alla conoscenza
particolareggiata. Nella conoscenza del Reale preso nel suo insieme permane la
differenza tra il predicato (verità o conoscenza) e il soggetto (Realtà), per
modo che quello figura sempre come condizionato da quel qualcosa di più, che è
nel soggetto e non nel predicato, Il tipo e l'essenza in altri termini non
possono giammai raggiungere ed esaurire la realtà, giacchè l'essenza realizzata
è troppo per essere semplice verità o conoscenza e l'essenza non realizzata o
astratta è troppo poco per essere reale. Sicchò anche l’assoluta verità in fin
dei conti da un certo punto di vista può essere considerata come erronea. Va notato
però qui che la verità assoluta intesa nel modo anzidetto non è
intellettualmente correggibile, giacchè essa può esser corretta e svolta
soltanto trascendendo l’intelletto, nessuna alterazione di questo potendoci
dare la realtà ultima. Può essere modificata solo tenendo conto di tutti gli
altri aspetti dell'esperienza, con che la natura propria della verità viene a
scomparire. La verità finita per contrario è sempre modificabile
intellettualmente, potendo sempre essere estesa, armonizzata e completata mediante
l’attività del pensiero; la verità finita insomma si può presentare come
condizionata da un'altra verità d'ordine superiore. Anche il Bello va
considerato a senso del Bradley come apparenza, in quanto esso racchiude del
pari contradizione e quindi separazione od opposizione addirittura tra l’idea e
l’esistenza, tra il what e il that . Considerando il bello per sè
indipendentemente dalla relazione che esso necessariamente implica con un
soggetto che lo contempla” noi troviamo che esso racchiude contradizione per
questo, che mentre da una parte esige la piena concordanza e l'unificazione del
contenuto col dato, dall’altra parte ciò riesce impossibile, trattandosi di un
oggetto finito in cui i due aspetti del criterio della realtà l’armonia e
l’estensione o la comprensività sempre divergono almeno parzialmente. Invero
nel bello o l’espressione è imperfetta e inadequata, ovvero il contenuto
espresso è troppo ristretto, troppo meschino; in entrambi i casi vi è
differenza di armonizzazione o di comprensività, vi è discrepanza interiore e
quindi un grado minore di realtà. Il contenuto del bello che già in quanto
determinato da ciò che è al di fuori, non ha la sua ragione di essere in sè da
un canto tende a trascendere la sua estrinsicazione attuale e dall’altro in
questa stessa nel maggior numero dei casi non può non rivelarsi di molto
inferiore alla Realtà. Ma il bello non può essere considerato indipendentemente
dal soggetto che lo contempla, onde si può dire che è determinato da una
qualità subbiettiva e quindi estrinseca ad esso. Dovendo essere rappresentata e
dovendo insieme produrre un sentimento nel subbietto, la bellezza viene al
essere caratterizzata internamente da ciò che è posto al di fuori. Ciò posto,
come non parlare di apparenza quando la vita del bello implica una relazione
estrinseca ? Vero è che la relazione può sparire col parziale o totale
assorbimento dell’io senziente e percipiente, ma per codesta via la bellezza
come tale viene a svanire. Passiamo al Buono È anche questo un'apparenza? Il Bradley
non esita a rispondere di sì; anch'esso, infatti, come la verità, implica
disgiunzione e quindi sforzo per unificare l’esistenza con l’idea ; con questa
differenza che nella verità noi partiamo dall’esistenza per completarla
idealmente, rendendola intelligibite, mentrechè nel buono noi cominciamo
dall'avere un'idea di ciò che è bene e dipoi ci sforziamo di attuarla o di
trovarle attuata nell'esistenza. Pertanto il buono come il vero implicano
separazione del what dal that e un processo nel tempo. Le contradizioni
presentate dal buono in genere e dalla moralità in ispecie sono numerose. Tra
le altre meritano di essere ricordate le seguenti: 1° l'essenza del buono è
riposta nella disgiunzione dell'idea dal fatto, disgiunzione che nel corso del
tempo non scompare che per riapparire di nuovo; ed anzi giova notare che
scomparendo essa definitivamente, non si avrebbe più il buono nel vero senso
della parola. 2° Da una parte il buono appare atto a qualificare ciò che non è
sè stesso, in quanto la bellezza, la verità, il piacere, le sensazioni possono
tutte essere considerate come cose buone, ma dall'altra parte il buono non è
tale da esaurire la natura della totalità delle cose, ciascuna delle. quali
contiene qualcosa di proprio ; onde consegue che il buono non è nel Tutto e che
il Tutto come tale non è buono. 3° Inteso il buono come la realizzazione della
perfezione, e riposta quest’ultima nell’attuazione dell'armonia e insieme della
comprensività di un sistema, sì presenta la questione se tra perfezionamento dell’individuo
o affermazione dell'io e perfezionamento della Collettività o sacrificio
dell'individuo che rappresenta solo una parte del Tutto non vi sia mai
contradizione, nel qual caso è necessario determinare se il buono sia riposto
nell’affermazione dell'individuo o nel suo sacrificio. 4° Tanto i fini
puramente egoistici quanto quelli altruistici suno inconseguibili ; giacchè
l'individuo per sè non può divenire centro di un sistema armonico e
l’attuazione dell'ideale sociale non può avvenire in modo completo fin tanto
che persiste l'affermazione del proprio io; e nel caso che l'individuo venga
assorbito nel Tutto, non è lecito più parlare di Buono. | La moralità stessa
considerata come l’identificazione del volere individuale coll’idea formatasi
dall’individuo della propria pertezione implica contradizione; il volere
individuale infatti è sempre determinato da qualcosa di estrinseco, è spesso
relativo a contingenze naturali e dipendenti da fatti che non sono sotto il
dominio dell'attività conoscitiva individuale; dal che cousegue che la moralità
stessa è spinta a trascendere sè stessa in qualcos'altro che non è più
moralità; questo qualcos'altro è la religione, per la quale tutto è espressione
di una volontà suprema e per la quale quindi tutte le cose sono buone. Se non
che dal punto di vista religioso l’io finito deve perfezionarsi, deve cioè
conformare il volere individuale al Bene supremo; in caso contrario il male
permane ed è qui riposta la contradizione della religione, ord’essa si rivela
anche apparenza e non realtà. Il punto centrale della religione infatti, è la
fede non meramente teoretica, ma pratica; per il che essa da una parte implica
il credere puro e semplice e dall'altra l’operare come se non si credesse. La
sua massima è: Esser certi della vittoria finale del Bene e nondimeno operare
come se tale certezza non esistesse. Tale discrepanza interiore pervade tutto
il campo della religione. Giacchè la religione è anche apparenza si può sperare
salvezza nella Filosofia ? Se la religione fosse nient’ altro che una forma di
conoscenza, la risposta non potrebbe ese sere che affermativa e per quel tanto
che la religione contiene di conoscenza essa passa e in certo modo si'completa,
consumandosi, nella filosofia, ma l'essenza delta religione non è riposta nella
conoscenza come d’altra parte non è riposta nel puro sentimento, ma piuttosto
nel tentativo di esprimere la realtà del Bene per mezzo deile varie forme del
nostro essere. Da tal punto di vista I religione è qualcosa di diverso e di più
elevato della filosofia. Del resto la filosofia avendo per obbietto le verità
ultime, e la verità in qualsiasi forma essendo apparenza, essa non può non
essere risguardata anche come apparenza, La sua debolezza è posta in ciò, che
essendo un prodotto dell’attività intellettuale, non può non presentarsi quale
manifestazione unilaterale e quindi inconsistente dell’Assoluto. La Realtà deve
necessariamente soddisfare tutto il nostro essere; le nostre esigenze
fondamentali in ordine alla conoscenza ed alla vita, in ordine al bello ed al
buono devono in essa trovare il loro completo appagamento. Il che non può
accadere che per via di una esperienza immediata e concreta nella quale tutti
gli elementi dell'universo, sensazione, tono emozionale, pensiero e volere
siano fusi in un sentimento comprensivo. E qui va notato che per gli esseri
finiti è certamente impossibile sperimentare l'Assoluto : in altri termini è
impossibile costruire la vita dell'’Assoluto nei suoi particolari, avere
un'esperienza specifica della sua costituzione: ciò non esclude però che si
possa avere una certa idea astratta e incompleta della sua natura. E le
sorgenti di tale conoscenza sono: 1° Il sentimento in cui noi sperimentiamo un
tutto complessivo che da una parte accenna a differenziamenti, mentrechè
dall’altra non presenta relazioni e qualità nettamente distinte. É questa
esperienza primitiva che per quanto imperfetta, è sempre valida a suggerirci
l'idea generale di un'esperienza. totale e complessiva in cui pensiero, volere
e sentimento siano fusi insieme da formare una cosa sola. 2. Le
differenziazioni e le relazioni di qualunque specie siano, una volta sorte
nella coscienza, mostrano la loro tendenza accentuata ad essere assorbite
nell’Unità, nel Sistema. 3. Le idee del buoro, del bello ecc., menano per vie
differenti al medesimo risultato, in quanto più o meno chiaramente implicano
l’esperienza di un Tutto che trascenda le relazioni e le differenziazìioni. Con
questi mezzi noi possiamo formarci l’idea cenerale di una intuizione assoluta
în cui, eliminate le distinzioni fenomenali, il tutto si presenta in molo
immediato e cenerale. In conclusione, Ja conoscenza reale e positiva
dell’Assoluto è fondata tutta sull'esperienza psichica, una volta che questa
venga estesa, armonizzata e completata. CITAZIONE DA SARLO IN INGLESE: “MY WAY OF CONTACT WITH
REALITY IS THROUGH A LIMITED APERTURE, FOR I CANNOT GET AT IT DIRECTLY EXCEPT
THROUGH THE FELT THIS, AND OUR IMMEDIATE INTERCHANGE AND TRANFLUENCE TAKES
PLACE THROUGH ONE SMALL OPENING. EVERYTHING BEYOND, THOUGH NOT LESS REAL, IS AN
EXPANSION OF THE COMMON ESSENCE WHICH WE FEEL BURNINGLY IN THIS ONE FOCUS. AND
SO, IN THE END, TO KNOW THE UNIVERSE, WE MUST FALL BACK UPON OUR PERSONA
EXPERIENCE AND SENSATION. – GRICE, -- BRADLEY, citato da Grice – Studies in the
way of words --. Tali sono le ilee
fondamentali emesse dal Bradley circa la Realtà e l'Assoluto, idee che sono ben
lontane dal formare un vero sistema. Nel sottoporle ad un rapido esame critico
nvi non scenderemo ad. analisi minuto e partico-, lareggiate, ma mireremo a determinare
il valore e il significato dei punti salienti della dottrina, volgendo uno
sguardo sintetico all'insieme, Cominciamo dal fissare quale è il punto di vista
e quale il procedimento del filosofare del Bradley. Il filosofo inglese non ha
preso le mosse nè dall'esperienza volgare, nè da quella propriamente
scientifica, non è partito, cioè, da alcun ordine di fatti, ma sì è, per così
dire, chiuso nel suo pensiero ed alla stregua delle leggi di questo ha
giudicato delle idee fondamentali, ordinariamente ammesse dagli scienziati e
dai filosofi. Egli non fa che passare a rassegna e sottoporre ad esame i punti
di arrivo e di fermata dei suoi predecessori e dovunque riscontra
contradizione, pronuncia la sentenza : Tuttociò è apparenza, non realtà.
Parrebbe che egli prima di tutto dovesse approfondire la nozione di apparenza e
quella di realtà, una volta che egli pone come base del suo filosofare la
distinzione appunto dell'apparenza dalla realtà. Che cosa è l'apparenza? Qual'è
la sua origine? Quali i suoi presupposti ? sono questioni che non possono
essere trascurate da chi voglia filosofare sul serio. Dire semplicemente :
tuttociò che non ‘è consistente o non si mantiene identico con sè stesso,
tuttociò che si rivela contradittorio è apparenza, è dire pressochè nulla. Che
tuttociò che racchiude contradizione non sia reale, non v'è chi possa metterlo
in dubbio: ma da dir ciò ad affermare che il contradittorio implichi apparenza
molto vi corre. Egli, è vero, ha affermato che l'apparenza è controdistinta da
questo carattere, che la contradizione in essa esistente può essere risoluta in
un ordine superiore e più elevato di esperienza, ma ognuno comprende che finchè
non sì aggiunge altro, non vi è ragione di dichiararsi soddisfatti. Si può ad esempio
domandare: È lecito parlare di apparenza quando non si ammette un soggetto a
cui la Realtà appare e quando l’unica via per cui la Realtà stessa appare
centro di sentimento, esperienza psichica ecc. è pur essa apparenza ? Il
movimento, il cangiamento, lo spazio, il tempo, l'attività, l'io, la cosa ecc.,
si dice sono apparenze: ma qual'è la loro origine? Perchè ci appaiono con tali
e tali altre proprietà ? Ognuno intende che finchè non si sarà dato ragione di
ciò, nulla di positivo e di determinato è lecito affermare. E qui è bene notare
che la più parte delle contradizioni riscontrate dal Bradley hanno la loro
origine nel fatto che egli sostantiva i processi e le attività, nel fatto che
reputa una cosa fissa rigida, ciò che, essendo continuo, incessante scorre. Ora
ciò che è continuo non può essere misurato completamente che mediante il
calcolo infinitesimale, e l' infinitesimo non essendo una quantità finita, non
è possibile cogliere l'istante in cui le condizioni del presentarsi della
contradizione veramente si verifichino, in cui cioè la dimostrazione per
contradictionem sia sul serio applicabile. Così il movimento tra due punti
dello spazio infinitamente prossimi avviene sempre nell’intervallo tra due
momenti infinitamente prossimi, cioè mai il mobile è in due luoghi nello stesso
tempo, mai in due tempi nello stesso Bradley presenta la Realtà come un sistema
o inoltre pone come criterio per decidere del grado di realtà l’armonia, la
comprensività, la consistenza reciproca delle parti componenti un tutto. È
evidente che chi dice sistema, armonia, consistenza ecc. dice organismo e chi
dice organismo dice relazione, interdipendenza degli elementi; ora l'Autore
avendo affermato che la relazione è qualcosa d'inintelligibile, come mai può
porre la stessa relazione quale criterio della realtà e intelligibilità e
insieme presentare la realtà stessa come costituita da un insieme di relazioni?
Le relazioni certamente implicano l’esistenza di un sistema: ma da ciò non si
può dedurre che esse in genere siano qualcosa d’inintelligibilie. Il fatto è
che il Bradley considerando a parte ed isolatamente ciascun concetto
fondamentale (qualità, relazione ecc.), fa presto a riscontrarvi degli elementi
contradittori. Tale procedimento è erroneo; i vari concetti vanno messi in
connessione tra loro in modo da integrarsi a vicenda. Che cosa è la Realtà ? È
l’esperienza, risponde il filosofo inglese. Di qui la necessità di domandare: E
che cosa é luogo, ma sempre la serie dei punti e dei momenti si svolge con
perfetta corrisponlenza nella continuità del movimento, Masci, Un metafisica
anti-evoluzionista. Napoli. Lo stesso ragionamento può esser valido a
dimostrare la falsità dell’affermazione che la causazione non esiste per questo
che non è ammissibile nè un azione causale continua nè una discontinua, data la
divisibilità infinita del tempo. E la difficoltà che l'Autore prova ad
ammettere il continuo dipende dacchè non pone come punto di riferimento la
coscienza in generale, Di ciò fu discusso disopra. l'esperienza ? Dall’insieme
dell’opera del Bradley pare si possa ricavare che per lui l’esperienza è data
dal complesso, dalla totalità della nostra vita psichica, prima che in questa
sia sopravvenuta alcuna distinzione e differenziazione. Noi sentiamo di
esistere, sentiamo di vivere; è in questo sentimento primitivo che è riposta
l’esperienza immediata, la quale poi è l’unica via per cui noi possiamo
penetrare nel Reale. Prima di ricercare quale concetto dobbiamo formarci di
tale sentimento notiamo una contradizione in cui è caduto l’autore; mentre egli
afferma recisamente che la Realtà si riduce all’esperienza psichica, alla
sentience , non meno recisamente e ripetutamente afferma che tutti i fatti
psichici non sono che apparenze, perchè tutti involgono separazione del what
dal that, tutti tendono a trascendere sè stessi. Non dice egli che la Realtà si
riduce all’unificazione e fusione dei vari fatti psichici, unità e fusione che
noi non conosciamo e non possiamo neanche imaginare, data la trasformazione che
subiscono i vari elementi mediante l'unificazione? Ora, come si può ad un tempo
dire che la Realtà è l’esperienza ? (1) Se l’io empirico che è poi Ja medesima
cosa dell'esperienza psichica presa nel suo insieme non è reale, come mai si
può affermare che la Realtà è l’esperienza psichica ? Inoltre come sì può
mettere d’accordo l’asserzione che il contenuto della Realtà è la sentient
experience (sentimento) con l’altra che la Realtà risulti dalle attinenze,
dalle relazioni che una cosa ha con le altre in modo che quanto maggiori son queste
tanto maggiore è il grado di realtà attribuibile alla cosa stessa, chè in
sostanza il criterio della realtà posto nell'armonia e nella comprensività
(inclusivness, harmony), non dice altro? Il sentimento poi inteso come
l’insieme della vita psichica in cuì nessuna distinzione sia comparsa di io ©
non io, di soggetto ed oggetto si presenta come qualcosa di così vago ed
indeterminato di subbiettivo e di individuale , che non si riesce a comprendere
come possa valere a fornirci una certa idea di ciò che sia la Realtà ultima, la
Realtà, diremmo, ontologica. Esso già implica sempre il rapporto del soggetto
con qualcosaltro, rapporto che è condizione essenziale della sua origine,
comunque siffatto rapporto non sia avvertito come tale e insieme implica l’ esistenza
di rappresentazioni, di imagini poste di rincontro o almeno distinte dal
soggetto. Inteso quale cenestesi, vale a dire qualche risultato finale di una
quantità di sensazioni organiche provenienti dai vari organi, ovvero infine
come il grado infimo di psichicità, come sensazione e impulso iniziale ed
elementare, non può mai essere presentato quale oggetto di esperienza atta ad
esprimere la Realtà. A volte si direbbe che il Bradley prenda il sentimento
come quel qualcosa che rende attuale un determinato contenuto psichico, ma,
come tale, essendo qualcosa di eminentemente Notiamo qui come per il nostro
Rosmini il sentimento proviene dal rapporto del principio senziente (che può
essere considerato dal punto di vista del Bradley una sostanzializzazione del
that ), col termine esteso che alla sua volta può essere considerato una
sostanzializzazione del what . Per il Rosmini, si noti bene, il principio
senziente e il termine esteso per sè considerati, separati l'uno dall'altro,
erano astrazioni non altrimenti che il what e Îl that. Vedi. DE SaRLO : Le basi
della Piscoloyia secondo Rosmini, Roma. subbiettivo ed individuale (individuum
ineffabile) e avendo un contenuto particolare non può essere considerato quale
simbolo di quella unità totale in cui il what coincide col that e in cui
consiste la Realtà ultima ed obbiettiva. Da tal punto di vista il sentimento
presenta tutte le contradizioni dell’esperienza sensibile. Non vi è via
d'uscita: se si vuol considerare la Realtà come null'altro che la sentience,
occorre considerare come reale l'io empirico quale si rivela per via del
sentimento; occorre però sempre determinare e precisare la natura del
sentimento. Notiamo qui che l’indeterminatezza del significato, la variabilità
e contradittorietà del valore attribuito all’ io dipese sempre da ciò che si
confuse l'io empirico fenomenico con la coscienza in generale (Io nonmenico, se
così piace), e dacchè si credette di poter riporre la natura dell'io nell’ una
o nell'altra funzione psichica, considerando le altre come secondarie e
derivate; ora nulla di più erroneo e falso. Passiamo ora a discutere della
natura della conoscenza a senso del Bradley. La conoscenza per lui non ha altro
obbietto che quello di qualificare la Realtà (soggetto), il che si può soltanto
conseguire, idealizzando la Realtà stessa, disgiungendo il what (predicato) dal
that . L'ideale verso cui tende la conoscenza è di far coincidere l' idea col
fatto: tale ideale però non viene mai attuato in modo completo : e se ciò
avvenisse, non vi sarebbe più ragione di parlare nè di conoscenza nè di verità:
avvenuta l’unificazione del what col that si avrebbe la vita vera e reale
dell’Assoluto. La verità e la conoscenza in conseguenza di ciò non può essere
che apparenza come tutto quello che involge separazione dell’ idea dall’
esistenza. E tutto lo svolgimento della conoscenza e della vita psichica sì
compie partendo dall'unità imperfetta e incompleta del sentimento, procedendo
per via delle distinzioni e differenziazioni del contenuto psichico che
implicano una quantità di relazioni e tendendo infine alla scomparsa e
trasformazione di queste ultime in un sistema organico ed armonico che tutto
comprende in sè, tendendo ad una forma di intuizione e di vita universale di
cui noi a mala pena possiamo formarci un'idea generale’ ed astratta. Da tal
punto di vista gl’individui sono forme della vita universale che in essi si
divide e insieme si concentra ner modo che non solamente possono apprendere a
conoscere sè stessi, ma anche l’Universale e il Tutto che in essi vive, opera è
si muove. E la funzione conoscitiva e cogitativa consiste nel qualificare, nel
caratterizzare, nell’ analizzare il detto universale che si presenta nei centri
del sentimento individuale. Ora, anzitutto non si riesce a comprendere in che
cosa possa consistere lo stadio finale della conoscenza detto intuitivo, lo
stadio in cui la conoscenza vera e propria sì annulla in qualcosa di superiore
e di più elevato ; in ogni caso se ciò si verificasse, si avrebbe un regresso e
non un progresso: il pensare discorsivo (il giudicare) lungi dal rappresentare
un’imperfezione rappresenta la via, l’unica via per cui la Realtà acquista
valore, consistenza e significato. L'unione del what col that non è che un
prodotto della fantasia individuale. Oltre la conoscenza vera e propria non è
possibile quindi ammettere uno stato superiore e più clevato. Si dovrà forse
ammettere una doppia vita nel reale, la vita quale sì esplica nei centri di
sentimento (vita del pensiero) ed un’altra vita d'ordine superiore? Ed una tale
opinione come si concilia con l’altra che il Reale non è nulla al di fuori
delle apparenze ? Poi, è assolutamente contrario al vero affermare che il
progresso e lo svolgimento della conoscenza sia in rapporto diretto colla
trasformazione del processo discorsivo e successivo in processo intuitivo ed -
estratemporaneo. L'intuizione stessa infatti allora solo acquista l’ evidenza
necessaria quando interviene l’attività del pensiero, per così dire, a scorrere
dall'uno all’altro elemento della rappresentazione totale per compararli,
misurandoli. L'essenza del pensiero e della conoscenza è riposta nella
proprietà di stabilire rapporti tra le cose: tolti i rapporti non si avrà
conoscenza, c nemmeno vita psichica, giacchè la psiculogia moderna ha messo in
sodo che la legge della relatività è legge psichica fondamentale. E
l'intuizione è soltanto la causa occasionale dell’ evidenza immediata,
mentreché il vero fondamento di questa si trova nella natura collegatrice e
comparativa del pensiero. Si direbbe che per il Bradley la conoscenza cominci
coll’ analisi, collo scumporre il dato che vive in ciascun centro di esperienza
individuale, ma è ammissibile ciò ? L'esistenza di questo dato non deve essere
considerata già come un primo stadio di conoscenza ? Se si vuol rimanere sul
terreno dei fatti che ci vengono suggeriti dalle accurate analisi psicologiche
e gnoseologiche non vi ha dubbio alcuno che la conoscenza debba essere
considerata come una specie di successiva sostituzione di una forma di
coscienza ad un’altra forma di coscienza, di un contenuto psichico ad un altro
contenuto psichico, di una forma di relazione tra soggetto ed oggetto ad
un’altra forma: sostituzione che ha lo scopo di porre in luogo del subbiettivo,
dell’individuale e del contradittorio, l’obbiettivo, l’universale, il coerente.
La conoscenza in tanto è possibile in quanto il Reale assume una particolare
esistenza nel soggetto individuale e da tal punto di vista è veramente lecito
affermare che ogni conoscenza implica la separazione di un dato contenuto dalla
propria esistenza: la sensazione, l’imagine, la rappresentazione ed anche
l’idea o il concetto sono fatti psichici che non vanno identificati col fatto.
D'altronle tutta la conoscenza non va forse riguardata come una costruzione
fatta coi detti materiali o elementi psichici (sensazione, rappresentazione,
concetto) ? La realtà in quanto conosciuta è successivamente e sempre più
perfettamente sensazione, percezione, imagine, concetto, o per dirla
altrimenti, qualità sensibile, cosa, essenza. L'elemento della conoscenza
scientifica è il concetto : sapere scientificamente vale sapere per concetti:
ma il concetto obbiettivo, il concetto reale e concreto è la verità della
sensazione e percezione, e non vi è senza di queste. E ciò che dal nostro punto
dì vista importa massimamente di ricordare è che la funzione relativista o di
riferimento che compone i singoli elementi della serie non è diversa da quella
che li connette poi nelle formazioni e processi logici e finalmente nei sistemi
più vasti che sono le scienze: per modo che la conoscenza risulta omogenea
nelle parti e nel tutto. Chiamare la conoscenza un'apparenza è per lo meno
assurdo : se tale espressione può avere un senso, questo è che la conoscenza
falsifichi in qualche modo la realtà; ma per poter affermare ciò prima di tutto
bisognerebbe aver potuto apprendere per altra via la natura vera della realtà e
di tale apprensione immediata non parlò mai Bradley, e poi conoscere
l'apparenza come apparenza equivale a conoscere la verità; un'apparenza
conosciuta come tale non è più apparenza. E una conoscenza che apprende la
realtà può essere più chiamata ragionevolmente apparenza ? E come mai è
concepibile una realtà sfornita di quella relazione essenzialissima che è la
conoscenza, che è poi il riferimento ad una coscienza o ad un soggetto in
genere ? Anzi come maisi può affermare una tale realtà? Separare assolutamente
il vivere dal sapere di vivere è impossibile. La vita, la realtà implica una
forma qualsiasi di interiorità e questa alla sua volta una forma di
unificazione del molteplice che è la caratteristica ultima della conoscenza
(processo di analisi e sintesi insieme). E che altro è questo se non il primo
germe dell’ indissolubile legame che tien uniti la realtà, l’attività,
l’interiorità e la conoscenza? In conclusione diremo che affermare che la
conoscenza è semplice apparenza e che come tutte le apparenze, è manchevole,
imperfetta, insufficiente, equivale a scindere Cfr. a tale proposito Masci,
Lezioni di Filosofia teoretica fatte nella R. Università di Napoli.
arbitrariamente la realtà in due parti ed a rendere incerta la conoscenza
stessa dell’apparenza. Tutte le apparenze che formano come a dire la struttura
dell’ universo, sono spiegate dal Bradley per mezzo del processo di
disgiunzione dell'idea dal fatto, del what dal that corrispondente. Una volta
che l'Assoluto si è scisso in una quantità di centri finiti di sentimento, il
processo di disgiunzione si è andato sempre più estendendo e complicando fino a
dare le forme di apparenze più svariate e notevoli, quali il Buono, il Vero, e
il Bello Prima di vedere se il modo di concepire questi ultimi sia giusto,
vediamo se il processo di disgiunzione del contenuto intelligibile
dall’esistenza possa essere ammesso quale processo diremmo quasi, cosmico, giacchè
la scissione stessa dello Assoluto nei detti centri di sentimento deve essere
considerata come espressione dell’ inconsistenza iniziatasi in seno al Tutto.
Il processo di distinzione e di differenziazione implica sempre questo, che il
dato non coincide coll’idea. Se ciò non fosse, perchè la vita universale
dovrebbe spezzarsi in forme individuali ? Il Bradley veramente non dà alcuna
dilucidazione in ordine a tale questione, che pure è importantissima dal suo
punto di vista. Il processo di idealizzazione o di disgiunzione del what dal
that in tanto è concepibile in quanto sì compie in un centro finito di
sentimento; come mai può dunque esso venir riguardato quale processo universale
ed obbiettivo? È vero che l'Autore ammette un Pensiero, una Volontà, un Sentimento
obbiet - tivo, elementi della Realtà ultima da differenziare profondamente
dalle corrispondenti funzioni spirituali subbiettive quali appaiono nel tempo e
nella serie dei fatti psichici, ma noi non possiamo formarci alcun concetto
positivo di una Ragione vbbiettiva assoluta per sè presa è posta di. rincontro
a noi; l’idea dello spirito obbiettivo e del suo svolgimento storico è giusta,
ma ha valore scientifico solo rel caso che è intesa nel senso di esistenza e di
processo storico, di processo civè che si compia nel tempo e nello spazio per
mezzo dello spirito subbiettivo e individuale. Una delle contradizioni di
Bradley è questa, che egli mentre considera la conoscenza come pura apparenza e
toglie ogni realtà al soggetto, risguarda i fatti più importanti
dell’esperienza psichica, quali è senso di spontaneità nelle sue varie forme,
come qualcosa di derivato, come un prodotto della nostra riflessione. La
nozione di attività, secondo Bradley, implica l’idea dell’ Io che riesce a
produrre un cingiamento, previa la rappresentazione del detto mutamento ; il
che poi non è possibile se non coll’ interpretare in modo largo molteplici
esperienze passate. Sicchè non si può attribuire al senso d’energia maggior
realtà che al senso del nutrimento nel caso in cui si provi sollievo, mediante
l'opportuno cibo, dai dolori della fame (1). L’ori (1) Notiamo qui che la
realtà non compete al senso di nutrimento, ma al senso della fame, come la
realta primitiva o l'immediatezza non compete a ciò che consegue
all’espansività, che è poi in fondo nient'altro che un’espressione
dell’attività, ma al senso di espansività. In ogni caso il senso di sollievo
prodotto dal nutrimento figura come indice dell’appagamento di un bisogno, di
una tendenza, di una forma di attività che è quindi qualcosa di primitivo e di
fondamentale. gine, infatti, del senso dell'attività è posta dall’Autore nel
senso di espansione, di allargamento, per così dire, dell’ Io, il quale formato
com'è di un gruppo di elementi intimamente connessi tra loro, tende ad
estendere i suoi legami ad altri elementi. Non bisogna però credere che
l’espansione sia identica alla coscienza dell’attività, giacchè è solamente
dopo che l’anima ha raggiunto un grado notevole di sviluppo che si può avere
tale coscienza, mentre l'espansione è primitiva. Quando dopo ripetute
esperienze | siamo venuti a cognizione che a taluni modi del nostro Io
conseguono dei mutamenti, noi allora cominciamo ad acquistare Ja nozione
dell'attività o del volere. Insomma noi diciamo di essere attivi ogni qual
volta il Non-Io (consistente in sensazioni esterne o interne, in percezioni o
idee) subisce dei mutamenti in seguito all'idea ed al desiderio formato
dall’Io. Tale espansione della nostra area, come dice il Bradley, comincia dal
darci un certo senso interpretato come qualcosa che dall’ Io passi al NonIo; è
ih questo qualcosa che propriamente consiste l’energia, la forza, la volontà,
ecc. Il Bradley prosegue ancora l’analisi dicendo che quando il gruppo dell’ Io
è come a dire contratto dal Non-Io, mentre dall’altra parte un’ idea piacevole
di espansione è suggerita, si prova un senso di oppressione ; e quando ì limiti
di resistenza ordinaria son mossi e l'espansione ideale, progredendo sempre, è
attuata solo in parte con varie oscillazioni si prova quel senso speciale detto
di tensione e di sforzo. È naturale che da tal punto di vista l’attenzione
nelle varie sue forme non possa essere più considerata né come una facoltà
speciale, nè come funzione particolare della mente avente sede in un dato
organo cerebrale ; l’attenzione al pari della memoria e dell'intensità viene ad
essere riguardata come una qualità generale appartenente in vario grado a tutti
gli elementi psichici: anzi si può dire che l’attenzione e l'intensità vengano
pressochè a formare una cosa sola. Date certe condizioni che facilitino il
predominio di un fatto psichico nella coscienza (in ciò sta il carattere
essenziale dell'attenzione), deve avvenire che taluni elementi sensorali o
ideali divengano prominenti ed emergenti rispetto al resto, e per ciò stesso
appaia indebolita l’ intensità degli altri. Il Bradley poi non attribuisce un
valore essenziale al fattore muscolare, prima perchè in molti casi in cui ha
luogo l’attenzione quello è escluso, poi perchè anche quando è chiamata in
esercizio l’attività muscolare o direttamente sopra un organo percipiente,
ovvero indirettamente col movimento di tutto il corpo, la prima causa
dell’azione muscolare va cercata in un’ idea o in un sentimento precedente. È
l’idea, e più di tutto l'idea dell’ interesse che si può avere per un dato
fatto psichico, che ci dà la chiave per intendere il meccanismo dell'attenzione
dalla forma più semplice alla più complicata. E la coscienza dell’energia
interiore è perfettamente riducibile al predominio nella coscienza dell'idea
dell’ Io che attendè ad una data cosa. Che giudizio si può portare su tale
veduta del Bradley? Certamente essa ha grande valore in quanto prova a
sufficienza che l’attività psichica non va intesa come correlativo, per così
dire, necessario dell’ attività motrice. Il Bain, il Miinsterberg ed altri
avevano asserito che senza le sensazioni muscolari o almeno senza le sensazioni
d’innervazione motrice lo spirito è incapace di sentirsi in alcun modo attivo ;
per loro quindi la forza, l'energia psichica, base dell'individualità, non
poteva avere che una sola origine, il movimento; il fatto interiore
dell’attività era considerato come un semplice reflesso di un fenomeno esterno,
quale è la mozione. Ora da tal punto di vista l’analisi psicologica del Bradley
è stata utile, perchè ha mostrato che tutti i processi intellettuali sono per
sè attivi, e, date certe condizioni, tutti indistintamente sono in grado di
svolgere energia sotto le forme più differenti. Non soltanto nella forma in cui
si rivela attivo alla coscienza, ma in molteplici altre forme lo spirito è
causa agente. Cade così l’ ipotesi di un organo speciale dell’attenzione, o
dell'attività psichica in genere: allo stesso modo che non vi è un organo
particolare della vita, così non vi può essere un organo particolare
dell'attività nelle varie sue modalità (sforzo, attenzione, volontà ecc.).
L'attività psichica a dati stimoli e in determinate condizioni reagisce in vari
modi e secondo che la percezione immediata di talo reazione si fonde con uno o
coll’altro degli effetti che vengono prodotti nell'organismo (sensazione
muscolare, p. cs.), assumerà un colore particolare. L'errore degli analizzatori
superficiali fu quello di credere che i fatti organici, i quali servono in
certo modo a fissare, a determinare e a dare un nome alle formé dell’attività
psichica, costituissero il fatto essenziale ed ultimo. Il Bradley infatti
mostrò che l’attenzione può assumere varie forme, da quella in cui si ha
coscienza di un dispiegamento notevole di attività a quella in cui non se. ne
ha alcuna coscienza; eppure l’attività psichica esiste sempre, ed è
imprescindibile in tutte le funzioni mentali. Se non che due sono, secondo noi,
i difetti dell’analisi del Bradley. Da una parte egli parla di idee e di
rappresentazioni che possono avere il predominio nella coscienza, parla
dell'interesse che si può avere per un dato obbietto o per una data operazione,
parla della tendenza espansiva, ecc., senza porsi mai il problema se e fino a
che punto tutto ciò sia compatibile col non ammettere la realtà del soggetto :
egli infatti parla dell’ Io come di un composto, di un aggregato di elementi
psichici; ora un tale concetto contradice necessariamente al concetto dell’
espansività come fondamento del sentimento : giacchè in forza di che ed a quale
scopo quel gruppo di elementi psichici formanti l'Io tende ad espandersi ? E
l’attività delle idee e delle rappresentazioni per cui esse emergono nella
coscienza donde vien loro? E senza l’unità del soggetto come è spiegabile
l'interesse che pure forma il caposaldo della teoria del Bradley? E qual'è il
fondamento del legame esistente tra i vari fatti psichici? Non suppone forse
agni nesso ed ogni rapporto un'unità ed identità fondamentale? Non basta
ancora: egli ammette che si possa avere l’idea di un'idea in quanto l’idea pura
e semplice di una cosa riguarda il suo contenuto logico, mentre l’idea d'una
idea consiste in uno stato psichico che include un'altra esìstenza psichica
attuale. Ora come mai sarebbe possibile un tal fenemeno senza la realtà ed attività
od efficacia del soggetto capace di riflettere sul!e stesse sue operazioni e
capace di rimanere identico a sè stesso attraverso: } cangiamenti Dall'altra
parte il Bradley cade in errore quando tenta di ridurre l’origine del senso di
attività ad un fatto meramente derivativo prodotto per mezzo dell’
interpretazione di esperienze passate, presentando così il senso di energia
come un’appercezione del tutto illusoria. Niente di più falso. La percezione
interna per cui noi giungiamo a cognizione di ciò che accade dentro di noi può
avere un doppio senso, a seconda che noi vogliamo intendere con essa
l’esperienza immediata, ovvero la riflessione su ciò che è offerto da quella.
Dobbiamo distinguere per così dire il vivere dal sapere di vivere. L'esperienza
immediata è la vera sorgente di tutti i dati di fatto, mentre la riflessione
rappresenta il mezzo di generalizzare, riconoscendole, le no stre esperienze; e
supponendo che nel corso dello sviluppo mentale siano state formate nozioni e
parole per i singoli stati interni, la percezione interna intesa nel secondo
modo, cioè come riflessione, consisterà nella sussunzione di un determinato
fatto psichico sotto la nozione ad esso spettante; sussunzione che può
esplicarsi in un giudizio vero e proprio, ma per lo più si riduce ad una
semplice denominazione. La riflessione in ogni caso non può mutare il dato di
fatto dell’esistenza di un fenomeno. Donde consegue che quando noi, mediante la
riflessione, diamo un nome od anche giudichiamo un fatto immediato della coscienza,
il quale offre dei caratteri distintivi da non poter essere confuso con altre
sensazioni o sentimenti, noi non possiamo aggiungere nulla di nuovo. Il
riflettere insomma non può creare nulla e quindi non può darci un sentimento
quale fatto immediato della coscienza, ma solo può dare un nome e mettere in
forma di proposizione ciò che già esisteva. nel co Ed in ciò sta la differenza
tra l’esperienza immediata d e l’analisi, giacchè la prima ci mette in contatto
con la realtà, mentre la seconda verte sulla scomposizione del fatto reale nei
suoi vari elementi. Alla genesi del senso di i attività, concorrono, è vero,
parecchi elementi, ma questi sE producono un qualcosa che si rivela alla
coscienza in modo I semplice, immediato ed irreducibile; e, ciò che più imi
porta, non è la ricognizione dei detti elementi quella che Ì ci fa provare il
senso di attività: la riflessione o ricogni a zione è posteriore all’
insorgenza del fatto immediato della coscienza. Del resto si comprende
agevolmente che tutte le interpretazioni, tutti i ragionamenti e tutte le
riflessioni fatte sopra i dati psichici non potrebbero mai dare origine a nuovi
dati. Pensare sopra le modalità dell’attività presuppone già la percezione
immediata dell’attività stessa. Del resto il Bradley stesso, pur servendosi di
altri nomi, non solo parla della coscienza e dell’io come di un'’attività, ma
anche di un'attività che si propone dei fini e sceglie i mezzi per giungervi,
di un'attività che può trovarsi in lotta con altre forze psichiche e resistervi
e farle anzi concorrere al proprio intento. Nè poteva essere diversamente: la
recettività e la reattività nella psiche non sono due fatti distinti, i quali
possano venire studiati l'uno in disparte dall’altro, giacchè essi concorrono
ad una sola operazione, per modo che l'uno rende valido l'altro, il quale da sè
sarebbe nullo. Non si può concepire una forma qualsiasi di Attività, e sia
anche l’espansività bradleyana, che non implichi un grado di coscienza: è
parimenti la coscienza riesce impensabile separata dall'attività. Va notato
infine che la percezione immediata si distingue dalla pura rappresentazione, da
quella che potrebbe esser chiamata percezione mediata, derivata, reflessa per
questo che la prima è più che semplice rappresentazione, è sopratutto sentimento
derivante dalla cooperazione di tutto l'essere fisico e psichico: ora chi può
negare che la percezione dell'attività lungi dal presentarsi coi caratteri di
una semplice ilea o rappresentazione, di un contenuto distaccato dalla matrice
reale, è invece in modo precipuo sentimento ? Dicemmo già disopra che il Vero,
il Buono ed il Bello per il Bradley non sono che apparenze, le quali se
accennano alla Realtà, non sono la Realtà. A noi sembra che tutto il
ragionamento dell'autore poggi su presupposti falsi. Così egli muove dal
principio che l'ideale verso cui tende la conoscenza è l’identificazione e
l’uniticazione del pensiero con l'essere, ideale che, se raggiunto, mena dritto
all'annientamento della conoscenza e quindi della verità stessa, giacchè in tal
caso si avrà la Vita, il Reale, non più la scienza della Vita e del Reale, in
altri termini sì vivrà il Reale e null'altro. In tal guisa la conoscenza è
essenzialmente contradittoria : da una parte essa non è possibile che sotto la
condizione che vi sia distinzione e differenziazione nella realtà (pensiero ed'
essere) e dall’altra parte il suo svolgimento e la sua perfezione è riposta
tutta nel togliere via qualsiasi distinzione e differenziazione, è riposta,
cioè, nel suo annientamento. Ora è evidente che l’errore del Bradley è
nell’aver creduto che la conoscenza miri all’ identificazione ed all’
unificazione completa del pensiero con l’ essere, mentre essa ha per intento di
trasformare il contenuto subbiettivo e individuale della coscienza in contenuto
obbiettivo ed universale; intento che può essere ottenuto non già annullando il
fat-. tore della coscienza come dovrebbe avvenire se, giusta le idee del
Bradley, l’ideale ultimo della conoscenza fosse l'identificazione e
l'unificazione completa del pensiero con: l'essere, ma sostituendo, anzi
aggiungendo al semplice ed esclusivo punto di vista della coscienza individuale
il punto di vista della coscienza in genere. In tal guisa il fattore della
coscienza persiste sempre, tanto è ciò vero che a misura che la conoscenza
progredisce l’ individuo acquista coscienza della propria cooperazione
all'edificio della verità. L'ideale verso cui tende la conoscenza adunque non è
l'assorbimento di uno dei termini nell'altro, ma, diremo così, la maggior
visione dell'uno per mezzo del predominio dell'altro. Il fatto è che io
acquisto più coscienza di me stesso come essere finito, subbiettivo,
individuale, quanto più mi pongo a considerare le cose dal punto di vista
obbiettivo ed universale. La coscienza individuale quando guarda con l’occhio
della coscienza universale non cessa di essere individuale, non si annulla
nella coscienza universale. D'altronde la stessa coscienza universale non è
fuori la coscienza individuale, ma concresce con questa non altrimenti che la
vita generale di un qualsiasi essere organico cresce col crescere delle singole
funzioni del medesimo essere. Il processo della conoscenza, a noi sembra, si
compie proprio in senso inverso a quello indicato DAL FILOSOFO INGLESE – Grice:
‘inglese? I’d say, “dal filosofo oxoniense!” --: il punto di partenza infatti è
il contenuto rappresentativo o percettivo primitivo in cui l’imagine psichica è
identificata con l'oggetto, anzi è presa per la sola realtà, in cui insomma non
vi ha distinzione fra oggetto e rappresentazione subbiettiva e si procede
ponendo sempre più la realtà universale ed obbiettiva di fronte alla vita
psichica subbiettiva ed individuale: ed a misura che l’edificio della realtà
vien completato diviene più viva la coscienza dell'attività individuale. Ed
invero chi, se non l’intelligenza dei singoli soggetti rende possibile la detta
costruzione? È sempre l’individuo che opera anche universalizzandosi. E la
mente umana lungi dal tendere a confondere insieme i due processi, il
subbiettivo l’obbiettivo, l' indi. viduale e l’universale, tiene a tenerli
distinti e distaccati: La conoscenza certamente implica una parziale identità
del pensiero e dell'essere (del subbietto e dell’obbietto), ma insieme una
parziale distinzione; nò ciò è in alcun modo contradittorio, giacchè l’
identità e la differenza sono condizioni della possibilità della conoscenza;
non già condizioni contradittorie una della possibilità, l’altra
dell'impossibilità. Se si bada che la conoscenza non s'intende per nulla se si
prende come una mera rivelazione estrinseca, come una relazione meccanica (ed è
questo l’errore principale, a noi pare, della filosofia del Lotze, il quale
subordinò la relazione della conoscenza al rapporto causale) sì acquista la
convinzione che la rivelazione della realtà alla coscienza, per essere
soggettiva ed interna, non è meno oggettiva e vera. Dal fatto che la conoscenza
implica due termini non deriva nient’affatto adunque che essa sia apparenza:
tutt'altro: piuttosto la Realtà una, identica, immutabile che, secondo l’autore,
dovrebbe assorbire tutte le apparenze, trasformandole, si presenta quale
creazione della fantasia senza alcuna consistenza. Lo svolgimento e il
progresso della conoscenza nun è nient'affatto in rapporto diretto della
riduzione di uno dei fattori della conoscenza all’altro, essendo entrambi
indispensabili, irriducibili o aventi uffici differenti. Nè si può imaginare o
concepire cosa mai risulterebbe dall’ unificazione e identità totale dei due
termini della conoscenza: il Bradley crede che ne risulterebbe la Realtà
ultima: potrà essere: ma in tal caso bisogna dire che questa non solo è
assolutamente inconoscibile, ma inconcepibile. Con che diritto adunque parla
egli dell’Assoluto? La Realtà ultima si presenta come un grado inferiore di
realtà, come qualchecosa sfornita per sè di valore e significato che le può
venire solo da ciò che viceversa viene considerato come apparenza. Passiamo al
Buono: anche questo, stando al Bradley, è apparenza e per ragioni affini a
quelle per cui sono tali la verità e la conoscenza. Il Buono da una parte è
condizionato dal distacco dell’ilea (che in tal caso riceve il nome d' ideale)
dal reale, dal fatto, da ciò che esiste, e dall’altra ha l'obbiettivo di
attuare l'ideale, di tramutare l’idea in fatto, vale a dire di annientare sè
stesso. Ma oltre di questa il Buono implica una quantità di altre contradizioni
dipendenti dalle sue varie determinazioni: così per quanti sforzi si facciano,
il perfezionamento individuale non può sempre coincidere col bene della
collettività, come d'altra parte il maggior perfezionamento dell'ordinamento
sociale trarrà sempre seco degli svantaggi per l'individuo: la divisione del
lavoro, per citarne uno, produce lo svolgimento parziale ed unilaterale delle
facoltà umane: e via di seguito. Qui faremo due osservazioni: Bradley è spinto
a considerare il buono come apparenza dal presupposto che la realtà sia solo da
riporre nell'attuazione completa dell'ideale, attuazione che figura come
l'annullamento del buono: ora ciò è falso, giacchè la realtà consiste iuvece
nel processo continuo che tende all'attuazione di un ideale, senza che questo
sia mai attuato completamente per la ragione che esso non essendo qualcosa di
fisso, di s'abile e di permanente, assume sempre nuove forme, si eleva e si
complica sempre dippiù. A misura che l’uomo s'avvicina ad un dato ideale,
questo, trasformandosi e perfezionandosi, s' allontana ancora. E la realtà
lungi dall'essere posta nell’attuazione completa dell'ideale che è
irraggiungibile, risiede in tutto il processo : in caso contrario bisognerebbe
confessare che la realtà è come se non esistesse. La vita è nel movimento, nel
processo e non nell’equilibrio stabile che invece è la morte. La religione e
anche l’arte cercano di dare una forma e di personificare l’illeale, ma
tuttociò non entra nella considerazione del Buono dal punto di vista
metafisico. Bradley considera il buuno preso per sè, astraendo dal fattore
della coscienza in cui e per cui esiste. E certamente il Buono risguardato come
una cosa invece che come un processo inerente all'anima umana cume tale, non
può non apparire contradittorio. Non è il buono che tende all'annullemento li
sè stesso, ma è lo spirito umano che ha tra le altre funzioni quella (che
sostantivata costituisce il Buono) di proporsi incessantemente dei fini alla
cui attuazione esso si adopera, è lo spirito umano che ha delle tendenze ed
esigenze al cui soddisfacimento si affatica. E nessuno vorrà sostenere che
nell’operare in tal guisa l’anima umana si contradica, ovvero tenda ad
annullare sè stessa. È naturale invece che essa aspiri ad annullare, mediante
l’appagamento, i suoi bisogni, che sono indizio di imperfezione e di
manchevolezza. Se i detti bisogni rinascono sempresotto novelle forme, ciò
avviene perchè la realtà vera non è in qualcosa di dato, ma nel farsi. Per quel
che concerne l’ apparente contradizione e l'impossibilità apparente di derivare
il bene individuale dal bene sociale e questo da quello, noteremo che tra le
specie di cause c'è anche la causa reciproca, la quale è ammissibile purchè sia
ben definita. La detta causa (che si riscontra in tuttociò che è organicamente
costituito) non consiste in due cause di cui una produce l’altra ad ogni
istante, ma di cui ciascuna ad ogni istante produce un effetto della specie
della prima e così via. Così un perfezionamento nel sistema circolatorio può
produrne uno in quello della respirazione e viceversa. Tra società e individuo
esiste appunto un rapporto causale reciproco in quanto il perfezionamento
individuale è condizionato da quello sociale e viceversa: i due si limitano, sì
determinano a vicenda senza che a nessuno di essi possa essere attribuito un
valore non diciamo assoluto, ma neanche preponderante. E lo sbaglio del Bradley
è quello di aver pensato che potesse considerare un elemento facendo astrazione
dall’ altro, dal che conseguì che egli trovò contradizioni dappertutto. La
moralità poi presenta una natura contradittoria precipuamente per questo che
essa è condizionata da qualcosa che non può csistere: tale è appunto la
determinazione interna della volontà. Questa separata da qualunque elemento
estrinseco è una pura astrazione : di qui la necessità nella moralità di
trascendere sè stessa, passando in qualcos'altro che non è più moralità: questo
qualcos'altro è per il Bradley la Religione, ove domina la fede che tutto sia
ed accada come deve essere ed accadere. Ci asteniamo dal discutere se questi
passaggi da una sfera di apparenze in un'altra siano comprensibili e se abbiano
alcun significato, essendo passaggi verbali anzichè reali. Il nostro filosofo
vede un complemento della moralità vera e propria nientemeno che nella
rassegnazione fatalistica, la quale implica la separazione del volere dalla
natura e l'affermazione che il volere stesso non può esercitare alcuna azione e
produrre alcun effetto. Ognuno vede che in tal guisa il volere umano viene ad
essere completamente snaturato, perchè viene ad esser distaccato
dall'ordinamento sistematico delle cose. Ora non abbiamo bisogno di spendere
molte parole per provare l'assurdità di una tale opinione e per mostrare le
tristissime conseguenze che ne derivano: non solo non è lecito parlare in tal
caso di progresso, di sviluppo e di perfezionamento, ma la storia stessa
diviene un non senso. Tutta l’esperienza contradice ad una tale veduta. Dal fatto
che il liberum arbitrium indifferentie è inammissibile non consegue
l'annullamento dell’attività umana e di quell’energia personale che è un
potente fattore di vita e di movimento nel mondo umano. La contradizione che
Bradley trova nell'intima natura della religione si può eliminare con molta
facilità ‘se si pensa che l'aver fede nel trionfo del bene non trae seco come
logica conseguenza la paralisi della propria volontà, di ogni iniziativa
individuale, l’annientamento di quella spontaneità che è la radice della
personalità. Il trionfo finale del bene non è una quantità definita, fissa che,
una volta ammessa, non è suscettibile di aumento, ma è invece una variabile che
può sempre comportare l’azione di un nuovo fattore. Il trionfo del bene può
essere assicurato per mezzo della cooperazione degli altri uomini; ma ciò forse
trae seco l’inutilità della mia cooperazione? La coscienza della mia dignità
non mi spingerà a concorrere al risultato finale? Perchè l'individuo dovrebbe
forzare la volontà all’inazione e quindi all’annientamento? Anche qui il
difetto appare nell’aver distaccato il volere dalla natura e nell’averlo
riconosciuto incapace di produrre effetti. Quanto al Bello va notato che
l'oggetto estetico considerato per sè indubbiamente è un'apparenza in quanto la
sua essenza è riposta nella rappresentazione concreta e determinata di un’idea,
ma un’apparenza che è avvertita, I, per ciò stesso l’apprensione della realtà?
Considerato però l'oggetto bello sentita e riconosciuta come tale non inclu ed
il soggetto senziente come parti di un tutto, come elementi di un unico
processo, il fatto estetico non è più un’ apparenza, ma qualcosa di reale e di
altamente reale. La realtà dell’arte e della bellezza così considerata va
riposta appunto nel processo suggestivo o significativo che si voglia dire, per
cui una data percezione o rappresentazione è il punto di partenza dello
svolgimento di un corso di fatti psichici atti a riempire ed a rapire l'animo
di chi contempla. La sproporzione tra l’' espressione e il suo contenuto lungi
dall’essere un difetto da cui il Bello aspiri a liberarsi, forma la sua
sostanza. Il Bello ha raggiunto il grado completo e perfetto di realtà quando
una data espressione (parvenza), suggerendo un certo contenuto ideale, agisce
in modo particolare sull’animo umano: onde consegue che non vi può essere
tendenza a fare sparire o a trasformare in maniera più o meno completa quei
rapporti e quei termini che costituiscono l’essenza del bello considerato come
un tutto 0 come un processo sottoposto a parecchie condizioni variabili entro
certi limiti di grado, ma non di natura o di qualità. Come non esiste un Vero e
un Bene obbiettivo, così non è a parlare di un Bello obbiettivo: ed anzi
possiamo aggiungere che tali espressioni non hanno nemmeno senso, L'errore del
Bra:lley sta tutto nell’aver creduto di poter considerare per sè,
sostantivandoli, il vero, il buono e il bello separatamente dal soggetto: quale
meraviglia quindi se dopo aver ridotto le astrazioni ad ipostasi, s'è accorto
che queste contengono numerose contradizioni? Sicuro; il Vero, il Buono, il
Bello come sono costruiti dal filosofo inglese sono null'altro che apparenze,
perchè sono astrazioni. Ed egli in fin dei conti non sa trarsi d’impaccio se
non dicendo che le dette apparenze tendono a trascendere sè stesse,
trasformandosi, completandosi, perfezionandosi e passando in qualcosaltro che è
la Realtà ultima. Se non che questa non soltanto è un prodotto della fantasia,
è una chimera, ma è essenzialmente contradittoria : infatti una. Realtà da cui
viene esclusa la conoscenza, la tendenza a. porsi sempre dinanzi un ideale da
raggiungere e la proprietà di sentirsi riempita l’anima da una rappresentazione
concreta, atta a suggerire un processo ideale, una Realtà da cui è escluso ogni
moto ed ogni vita, ogni esigenza di qualcosaltro, una Realtà che è pura
immobilità e invariabilità, lungi dall’apparite allo spirito umano come la più
alta e quindi come la Realtà ultima, si presenta come un grado infimo di
realtà, se per giudicare di questa occorre fondarsi sul valore e sull’azione
che è atta ad esercitare. Quello che ha valore è l’esistenza spirituale e il
mondo che essa crea. Un mondo senza coscienza è come se non vi fosse (Lotze).
La Realtà caratterizzata da ciò che dal comune degli uomini è riguardato come
meno reale : ecco l’ultima espressione della filosofia del Bradley, il cui
obbiettivo doveva esser quello di rimuovere le contradizioni di cui formicola
il mondo delle apparenze. La Filosofia bradleyana in sostanza ha comune col
naturalismo l’errore di considerare la vita dello spirito subbiettivo quale si
presenta nella storia e nell’ esperienza umana, come un fenomeno secondario e
passeggero. Così noi vediamo che la filosofia del Bradley, il quale finisce la
sua opera con le seguenti parole: Outside of spirit there îs not, and there
cannot be, any reality, and, the more that anything îs spiritual, so much the
more is veritably real, portata alle sue ultime conseguenze e interpretata in
modo completo mena alla negazione del soggetto e quindi dello spirito, dello
spirito umano almeno che è quello chie noi conosciamo e che possiamo
apprezzare. E la Realtà che doveva essere one experience, selfperviding and
superior to mere relations, si mostra come trascendente ogni esperienza e
quindi come una costruzione arbitraria e puramente fantastica. Una Metafisica
che come questa del Bradley presenta molteplici elementi fusi insieme pone
necessariamente l'e». sigenza della ricerca delle fonti. Notiamo anzitutto che
le idee del filosofo inglese non si connettono con quelle della filosofia
inglese tradizionale, la quale nelle sue indagini psicologiche e gnoseologiche
segue un metodo prevalentemente empirico. La filosofia di Bradley è una
emanazione diretta della speculazione tedesca svoltasi segnatamente nella prima
metà di questo secolo. Se noi volessimo fare un'analisi minuta e.
particolareggiata delle vedute bradleyane in rapporto alla loro origine
potremmo agevolmente mostrare come lo studio di ciascun filosofo tedesco abbia
lasciato delle tracce nella mente del nostro autore: così il suo concetto di
riporre il fondamento e la caratteristica delle apparenze nella disgiunzione
del what dal that ricorda evidentemente il corrispondente concetto
dell’Hartmann per cui il distacco dell'idea dalla volontà segna l’ origine
della fenomenologia dell’ Incosciente e insieme la condizione dello svolgimento
della Coscienza ; il modo di considerare la realtà della natura ricorda
evidentemente la concezione del Lotze per cui la conoscenza o la
rappresentazione dell'universo non è un'aggiunta accessoria all'esistenza
indipendente di esso, onde la luce e il suono lungi dall'essere copie delle
ondulazioni e delle vibrazioni da cui derivano o dall’ essere pure parvenze o
inganni o qualcosa di secondario e di sopraggiunto sono il fine che la natura
si è proposta di conseguire coi movimenti e che non può conseguire da sola, ma
mediante l’azione sua sopra esseri sensibili. Da tal punto di vista la
magnificenza e la bellezza dei colori e dei suoni, la molteplicità e
l’intensità delle emozioni suscitate dalla natura nell’ anima di chi la
contempla sono il fine della sensibilità nel mondo. Racimolando qua e là potrei
moltiplicare gli esempi atti a provare che lo spirito del Bradley si è, per
così dire, modellato tutto sui grandi maestri della Metafisica alemanna: ma il
mio compito è quello di ricercare piuttosto quali siano le fonti primarie e
dirette del sistema, se così vogliamo chiamarlo, del nostro autore. Ora queste
a me pare si riducano alle due correnti della filosofia dell’identità e della
filosofia herbartiana : ho detto della filosofia dell’ identità e non
dell'hegelismo, come a prima vista si potrebbe esser tratti a credere, giacchè
egli pur avendo tratto molto del suo nutrimento vitale dal sistema
dell’Assoluto hegeliano, ha cercato di porre insieme, se non di combinare e
fondere in un tutto armonico, le vedute di Fichte, di Schelling e di Hegel, in
quanto la Realtà per lui non è solamente pensiero, ma l’ unità del pensiero e
dell’ altro (the Olher) l'identità del soggetto e dell'oggetto, del sapere e
del volere (Fichte), della coscienza e dell’ inconscio, dello spirito e della
natura (Schelling). Noi ci crediamo quindi autcrizzati ad affermare che le idee
del Bradley sono state attinte dalla filosofia dell’identità in ordine ai seguenti
punti: il passaggio o la trascendenza di un'idea in un'altra, di un grado di
realtà in un grado più elevato fino a giungere alla Realtà assoluta, la cui
vita armonica e comprensiva è considerata come una specie di esperienza
intuitiva, di cui a mala pena possiamo formarci un'idea astratta e
indeterminata; 2° la credenza nella più perfetta razionalità delle cose e
quindi nell’ottimismo più completo per cui tutte le contradizioni che si
presentano nel mondo delle apparenze quali 1’ esistenza del male, del brutto,
dell'errore, dell’accidente vengono considerati come momenti transitori della
Realtà, anzi, diremo meglio, come illusioni, le quali in un grado più elevato
di esperienza scompaiono, perchè vengono radicalmente armonizzate col sistema
totale ; il concetto che tutto, anche ciò che sembra più falso ed erroneo,
possa avere un certo grado di realtà, che insomma tuttociò che è' possibile sia
fino ad un certo punto reale; la concezione dello svolgimento della vita
psichica come di una successiva posizione di limiti da parte dell'io, di una
successiva e inin. terrotta trasformazione dell'io in non-io ; 5° il
disperdimento della vita universale in una quantità di centri di esperienza |
psichica limitati spazialmente e temporalmente per cui è resa possibile
l’esistenza psichica subbiettiva o cosciente. Ma abbiamo detto che la filosofia
del Bradley non è una derivazione pura e semplice della filosofia dell’
identità, ma bensì della fusione di questa colla filosofia herbartiana. Infatti
se si pensa che il motivo del filosofare per l’Herbart è l'eliminazione delle
contradizioni presentate dal pensare comune e che per lui il compito della
filosofia sta nel passare dall’apparire all'essere e nell’intendere le ragioni
‘così della differenza come della relazione che passa tra l'uno e l’altro, nel
ritrovar l'essere nello apparire e nel vedere perchè apparisca in quel modo; se
si pensa che a senso del medesimo filosofo tedesco, la guida, la base e la
norma essenziale per poter filosofare con vantaggio è fornita dal principio di
contradizione, e che le apparenze contradittorie, le quali più richiamarono
l’attenzione dell’ Herbart furono appunto lo spazio e il tempo, l'inerenza o la
cosa e le sue proprietà, la causalità e il cangiamento, l'io e la relazione; se
si pensa che per lo stesso filosofo il reale va risoluto in relazioni fisse,
riducendosi l’accadere apparente ad effetto di prospettiva, non sì può non
convenire che il sistema herbartiano non meno della filosofia dell'identità
hanno determinato le concezioni metafisiche del filosofo inglese da noi
studiato. Questi prese da Herbart il criterio per giudicare della realtà
(principio di contradizione) e il concetto dell’immutabilità e inalterabilità
dell’essere, mentre dall’'idealismo. assoluto prese il concetto dell'unità
armonica e comprensiva, il concetto del sistema totale delle cose. Herbart,
infatti, mirava a intendere ed a spiegare il singolare, l’in- dividuo e di qui
il suo pluralismo delle sostanze, mentre l’'idealismo assoluto aveva per
intento sopratutto d' intendere l’unità, il sistema, la finalità. Ora si
domanda: La fusione compiuta dal Bradley in che modo propriamente avvenne?
Perchè avvenne così e non diversamente ? É una fusione razionale ? Egli,
appropriatosi il metodo dell’Herbart, non potè non giungere alla conclusione
che l’ essere doveva essere inalterabile ed immutabile, ma d’ altra parte i
concetti della zufallige Ansicht, il metodo delle relazioni, la ‘ perturbazione
e la conservazione degli enti, il loro essere insieme, le loro mutevoli relazioni,
il loro luogo nello spazio intelligibile rivelandoglisi idee oscure,
inintelligibili e spesso contradittorie, lo spinsero verso l’Universale. Una
delle analisi più accurate del Bradley fu infatti quella concer-. nente la
qualità e la relazione per mostrare che esse si implicano a vicenda, ciascuna
intendendosi soltanta per . mezzo dell’ altra. Respinti così come mere
apparenze il pluralismo delle sostanze, le qualità semplici, il metodo delle
relazioni, ecc., pose la realtà in un sistema individuale, in una specie di
unità che tutte le apparenze comprende, ar- monizzandole e coordinandole tra
loro. Una volta che le relazioni non sono delle essenze intermedie, nò vedute
accidentali, riferimenti ausiliari che non importino punto alla natura della
cosa, bisogna pensarle come stati delle cose stesse ed ogni cangiamento di
relazioni come cangiamento di stati interni, ma perchè ciò sia possibile
occorre che le cose siano concepite come modi o parti di un’unica essenza, di
una sostanza ‘infinita; giacchè così ogni causalità non è causalità in altro,
ma in sè stesso (Lotze). Il pensiero del Bradley determinatosi per così dire in
contrapposizione al concetto dell'evoluzione ed alla ten- denza propria della
scienza contemporanea a voler tutto ridurre a divenire senza fermare in alcun
modo l’atten- zione su ciò che diviene e perchè diviene, e modellatosi d'altra
parte sulle obbiezioni volte dalla critica herbartiana al concetto del
mutamento e all’ assoluto predominio della categoria della causalità, non potè
non considerare l'essere quale immutabile e inalterabile ed escludente quindi
qualsiasi forma di divenire. Ma d’altra parte le obbiezioni rivolte da quegli
stessi che originariamente appartennero alla scuola herbartiana (dal Lotze, p.
es.) ai concetti fon- damentali del maestro, le analisi critiche fatte dai
filosofi contemporanei in genere e segnatamente dai criticisti, delle nozioni
di sostanza, di rapporto, di qualità, non pote- rono non influire sul nostro
filosofo in modo da fargli respin- gere la pluralità delle sostanze e quel
carattere disgregativo ed atomistico del realismo herbartiano per cui questo
non riesce a dar ragione dell’unità e del sistema. E la difficoltà sta tutta
nella 'possibilità di porre insieme, non diciamo di fondere, la concezione
dell’immu- tabilità dell’ essere con quella dell’ unità armonica del sistema
totale che tutto comprende in sè, del sistema orga- nico che sì fa e non può
non farsi, giacchè il sistema, l’ unità armonica non è un dato. Il germe non si
può dire che sia la pianta come non si può dire che sia la pianta questa stessa
presa in uno stadio determinato. La realtà della pianta è posta nell’uniîtà e
continuità del processo che la rende possibile. Ora come si fa a conciliare
l’unità e la continuità del processo con l’immutabilità, l’immobilità e l’
inalterabilità dell’ essere? È evidente che questi sono concetti della nostra
mente. Perchè le apparenze che come tali contengono già in sè un certo grado di
realtà, possano assurgere al grado di realtà ultima, bisogna che trascendendo
sè stesse, si trasformino in qualcosaltro: ora tuttociò non implica processo,
non implica una forma di divenire? Nè vale il dire che detta trasformazione,
detto processo è pura apparenza, è processo per quel centro finito di
esperienza psichica che si trova in una data serie, ma non per l'insieme che è
permanente, immutabile, inalterabile. Se l'Assoluto, come ripetutamente afferma
il Bradley, non è fuori le apparenze, ma è le apparenze, se l'Assoluto è
l'esperienza psichica interna, come mai può essere detto immutabile,
inalterabile? In seguito a ciò è lecito affermare che nell’Assoluto non si
compie alcun processo? Anzi pare che occorra dire che se ne compiono
molteplici, infiniti for- s'anche. Che l’immutabilità riguardi le parti e non
il tutto è un’altra questione; si varii, si muti pure una particella sola, ciò
basta perchè vi sia processo e divenire vero, reale e non semplicemente
apparente o effetto di prospettiva. É soltanto a chi contempla dal di fuori, a
chi consi- dera, a chi medita sul Tutto, che questo preso nel suo insieme e
quindi coi compensi reciproci che possono venire tra le varie parti, può
apparire come qualcosa di immu- tabile: ma la realtà che vive, opera e si muove
non può dichiararsi estranea al processo. L’immutabilità, la per- manenza sono
concetti astratti, formati dalla mente, non fatti reali. L'uno e l'essere
immutabile in tanto possono stare insieme in quanto sono considerati quali
concetti logici astratti (a mo’ della scuola eleatica), ma nel fatto concreto
l’ Unità sistematica comprendendo le differenze, non può non involgere
processo, cangiamento e in conse- guenza moto e vita nelle parti. Delle due
l'una; osi ferma l’' attenzione sull’ individuale e si avrà l’immutabi- lità,
ma non si darà ragione del sistema e dell'unità totale, ovvero si ferma
l’attenzione sull’ universale ed allora per poter dar ragione della
differenziazione, dalla specificazione bisogna ricorrere al mutamento, al
divenire, al processo. Aggiugiamo qui poi anche che posta la divisione della
vita universale in particolari centri di sentimento o di esperienza, non è
possibile non ammettere un modo qual- siasi in cui i letti centri siano
ordinati e disposti: e non potrebbe consistere in questo appunto il
corrispettivo reale ed obbiettivo della forma spaziale? Non s'impone così la
esigenza dello spazio intelligibile? S Prima di finire, qualche osservazione
ancora intorno all'azione esercitata sul pensiero del Bradley dai recenti .
progressi della psicologia esatta, intesa questa come descri- zione ed analisi dei
fatti interni. Il lettore che ha seguito con attenzione la nostra esposizione
critica si sarà accorto che nei punti in cui si è allontanato dalla
speculazione tedesca, presentando delle vedute originali, sì è mostrato appunto
psicologo sagace e sopra tutto scevro di pregiu- dizi. Nelle pagine in cuì egli
discute la questione se si possa ridurre la Realtà ultima e la sostanza
dell’universo all'una od all'altra delle funzioni psichiche quali l’ intel-
letto, la volontà ecc., egli dimostra a meraviglia che dai metafisici le dette
funzioni psichiche vengono snaturate. Ed è in questa parte che si trova la sua
originalità. Ora tutto ciò che è verissimo — al nostro autore è stato senza
dubbio suggerito dalle analisi psicologiche accura- tamente fatte, ma possiamo
noi dire che tali concetti concordano coll’ insieme delle dottrine da lui
professate? Possiamo noi dire che la Realtà quale viene intesa da lui (Unità
del pensiero, del volere, del sentimento estetico ecc., obbiettivamente
considerati) concordi coi risultati della psicologia esatta? E la teoria della
conoscenza fondata sui dati della stessa Psicologia può andar congiunta con la
Metafisica bradleyana? (4) Forse non è inutile richiamare qui l’attenzione
sopra una forma di Metafisica contemporanea che nacque anche come questa del
Bradley in contrapposizione al movimento scientifico contemporaneo, inten-
diamo parlare della Metafisica del Teichmiille», la quale se ha qualche punto
di contatto con quella del Bradley, se ne differenzia essenzial- mente per il fatto
che essa poggia sulla realtà del soggetto individuale Io sostanza. Non dobbiamo
intrattenerci sulle ragioni di tale differenza : diremo soltanto che tra queste
possono essere al diversa cultura psicologica dei due autori e l’azione che
l'ambiente speculativo del proprio paese ha esercitato su ciascuno dei due
metafisici. De Sarlo. Keywords: implicatura, Bradley, citato da Sarlo e Grice.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sarlo”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Sarno:
la ragione conversazionale del sentire – scuola napoletana -- filosofia
campanese – la scuola di Napoli – filosofia naoletana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Interprete
di BRUNO e CAMPANELLA. Collabora al “Giornale critico della filosofia italiana”
con saggi su BRUNO, CAMPANELLA, e VICO. Medita sulla violenza. Si suicida con
un colpo di rivoltella. Si interessa a BRUNO e CAMPANELLA. Il suo punto di
partenza è l’opposizione tra un sentimento sempre identico a se stesso,
essenzialmente interiore -- sensus sui -- ed un sentire esteriore, che si
tramuta nelle cose di cui ha esperienza, che si presta e si dona tutt’intero
alle cose, affinché esse vivano in lui. Atre saggi: Pensiero e poesia (Laterza,
Bari); Filosofia poetica (Laterza, Bari); Filosofia del sentire (Pescara,
Tracce); Sulla violenza (Bari, Laterza); M. Perniola, “L’enigma” (Costa, Genova); A. Marroni, Filosofo del farsi altro.
Angelo, L'estetica italiana” (Laterza, Bari); Marroni, La passione per il
presente in “Filosofie dell'intensità. un maestro occulto della filosofia
italiana” (Mimesis, Milano); Marroni, "I carmina in foliis volitantia"
in Agalma, Giornale Critico di Filosofia Italiana. Antonio Sarno. Sarno.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sarno” – The Swimming-Pool Library.


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