Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Saturday, March 30, 2024

GRICE ED ORNATO: O DELL'IMPLICATURE CONVERSAZIONALI NELLA CONVERSAZIONE D'ANTONINO CON ANTONINO -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

 

Grice ed Ornato, o dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino con Antonino – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna Piemonte). Filosofo italiano. Visse vita ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva le scienze fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con singolare amore le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana, Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei “Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, O. Becchio  G. Calogero, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto, ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo nel sogno. Quello,  proprio del giovane troppo dedito al  senso. Questo, del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire il difetto del giovane si esorta  a fuggire quello del vecchio. Il carattere  che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare, cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo  ogni volta che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la compassione senza aggiungere con Epitteto che  ella debba essere puramente esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima, e contrario alla natura, il saggio non essei'c  accessibile alla compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §, dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge  talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul  punto particolarmente della compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso tutti gli  uomini e Antonino uno stoico poco fedele al  principii della sua scuola, e segue  piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento della pietà  essere il carattere distintivo delle belle e grandi anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non  togliete nè Voltare dal tempio y nè dalla  natura umana la compassione. Fu in questa  deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del Portico [PORTICUS – stoici], Antonino e stato preceduto da altri  stoici romani illustri. Il che non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il cuore soltanto del malvagio non è capace di  essere ammollito. E però il severissimo CATONE, già deliberato in quanto a sè di morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per non lasciarsi cogliere in Utica da Cesare vincitore, come avea pur pianto alcuni  anni innanzi per un fratello amatissimo, quando trovandosi esso Catone al comando di una legione in Macedonia, alla  novella che il detto fratello era moreute in Enos città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare tempestosissimo, e giunto in Enos trova il fratello già spento (Plut., vita di Catone).  E pianse certamente Cornelio Tacito, benché stoico anch’egli, quando, dopo aver narrato come era vissuto e morto, non senza sospetto di veleno, Giulio Agricola suo suocero, aggiungeva queste  patetiche parole. Beato te. Agricola,  che vivesti sì chiaro e moristi sì a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto; quanto a te, quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla  figliuola tua, oltre all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto; avremmo pure raccolti precetti e detti da stamparli nei  nostri animi. Questo è il dolore, il coltello al nostro cuore.Senza dubbio. 0 ottimo padre, per la presenza della  moglie tua amatissima, ti soverchiarono  tutte le cose al farti onore; ma tu se stato riposto con queste meno lagrime,  e pure alcuna cosa desiderasti vedere  al chiudere degli occhi tuoi. Fra le varie divisioni dei beni  appo gli stoici, l’una è questa, che dei beni altri sono finali, altri efficienti,  altri e finali insieme ed efficienti. I beni finali sono parte della felicità e  la costituiscono: gli efficienti solo la  procurano: i finali ed efficienti insieme  e la procurano e sono parte di quella.  Del primo genere sono la letizia, la libertà deir animo, la tranquillità, ecc.  Del secondo, l’uom prudente ed amico;  del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene efficiente,  perchè muove con la sua dispozione  razionale la tua diapoaizion razionale  (lib. V), cioè è occasione a te di buone azioni. E nello stesso modo è un  bene di quel secondo genere ogni cosa,  o sia pensiero o altro, che è occasione  a te per camminare verso la perfezione. Di questo bene parla ora Antonino. Il quale, per lo esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere accompagnato  ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che costituisce la felicità,  non attrae invincibilmente il tuo volere;  ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si sottragga da tutte le altre cose che ne  lo possono sviare (conferisci quello che  ne insegna la teologia intorno alla grazia). E quando Antonino chiama questo bene razionale (che è attributo generale  del bene appo gli stoici), il fa per opposizione al preteso bene degli Epicurei, che è sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo  bene, giudica che il bene sia sensibile:  noi il giudichiamo intelligibile. E più  sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste cose era necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la maggior  parte dei cementatori ed interpreti ha  voluto cangiare la parola efficiente in  civile o vuoi sociale con manifesto danno  del senso e del pensiero di Antonino. Dispensazione in greco “economia” vale generalmente governo della casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della casa, le quali  da per sè sole non si farebbero (come per esempio il risparmiare certe spese  perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di quella), quindi  è stata applicata questa voce ad ogni  cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun pregio in  sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata sovente in questo  senso dagli filosofi latini di tarda età, e stoici ed altri, e massimaniente dai padri della chiesa. È tra noi  disusata perchè è disusato il concetto ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo  dei citati sotto essa voce nel V. della  Crusca (Medicina del cuore). Per divina dispensazione avviene che, per li  pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione ed infermitade arda e salvi  l’anima. Da una nota d’O. credo che, quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di parere, il senso di  questa espressione con libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con  liberalità di parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende lo  £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle preghiere, Antonino intenderebbe di biasimare le preghiere che  non mirano che all’interesse proprio di  chi lo fa. E però loda quella preghiera  degl’Ateniesi, i quali, al dire di Pausania, solevano pregare non solo per  tutta l’Attica, ma anche per tutta la Grecia. Auto nel senso peripatetico e  scolastico, è l’affezione costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla disposizione che è variabile. Appo gli stoici è la forza o virtù (andreia) che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi favellano, è spirito (intendi aria) che mantiene il corpo e il contiene: perchè l’ente ò  corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra per tutte  le cose particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come abito (pietre, legni); nelle altre come natura (intendi principio organico mero: piante,  alberi); nelle altre come anima (principio animrle mero: bruti); nelle altre ancora come mente e+ ragione (anima ragionevole universale e sociale appo Antonino; uomini. Le cose governate dair abito sono adunque i corpi  dove non è altro principio costituente  che il generale di corpo: dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che quella affezione (modo d’essere) costante por cui sono il tal corpo  anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che noi  chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al carattere  generale di corpo v’ ha già il carattere  d’organizzazione. Nelle cose governato  dall’anima, oltre al carattere di cor poreità e di organizzazione, v’ha di più  quello di animalità ecc. Le classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un  luogo corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei dire  precisamente quali sieno le emendazioni  seguite o fatte da lui, perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di  questo paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non intelligibile, è anche manchevole, essendone  stato lacerato via, non so da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio. Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della  sua interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia scritto al principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto  paragrafo non so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii  nel volgarizzamento vuol dunque essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose. La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche mutilata.O. non la tradusse in alcun  modo, riserbandosi di farlo quando avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte note. Nel  mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz, non perchè  egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi corregge in un modo e chi in  un altro, e chi ancora difendo la vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker, il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui il granchio (fan pietà Dacier o Joly  che seguono ciecamente Gasauhono,  come fa pure Barberini: iMilano poi  è la stessa pecora sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme, siccome  fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv  e il ToO xóojjiou ’hys.u Qvixdv; quando anzi  nella distinzione di queste duo cose è fondato il senso di tutto il paragrafo. La toO  SXou qjvlcjis è la potenza creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou  è la potenza governatrice, dipendente da  quella prima, generata, o formata da quella prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo non meno che il corpo; e la mente dell’uomo  poi gOTema il corpo. Il senso adunque  di tutto il paragrafo è questo. La natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il mondo, dan-dogli, per così dire, un corpo ed una  mente. Ora, o questa mente, a cui è  affidato il governo del mondo, segue la  ragione (perchè la mente nel senso dello  ^ìf£|jiovixbv può anche talora essere sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha determinate  generalmente dà principio la natura formatrice del tutto, sono involute in  quella prima determinazione, sono conseguenza necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente  non segue sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere che non solamente le cose di  minor conto che ella fa, ma anche le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere sragionevole nè anche  in quelle di minor conto; dunque tutte le cose vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo migliore se l’ autore  avesse potuto ripulire e pubblicare egli  stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta in  essa è ingegnosissima, naturalissima e  confermata da tutto quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù óXov (pdcjts), la  potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane;  la potenza governatrice, la mente che go-  verna il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou),  generata da quella prima, è all’incontro,  nell’attuale diversità delle cose,' nella  nauìra naturata, nel mondo propriamente  detto e composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso  corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora da aggiungersi  Pierron. Ed è tanto più  da stupire che il sig. Pierron abbia egli  pure sì mal compreso, in quanto che,  avendo egli già prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere suf-  ficientemente versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole della  Grecia. Quasi tutti i traduttori hanno  franteso questo luogo, pigliando l’iwoia  per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il senso  letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te  stesso come uomo) soffre cotesto, soifre  cioè che tu dica esser nato a goder dei  piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio  di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le  prétendre. Colia bontà delle singole azioni  vuotai procacciare di ben comporre la vita.  Il testo e bravissimo. Talvolta  troppo fedele alla lettera e studioso di  conservare tutta la brevità dell’ origi-  nale, avea tradotto: ai vuol comporre  la vita mettendo inaieme le azioni ad una  ad una; poi comporre inaieme la vita  accozzando le azioni ad una ad una;  poi allogando le azioni ad una ad’una.  Non credo che so avesse potuto ripu-  lire e terminare egli stesso il suo la-  voro, si sarebbe contentato di alcuno  di questi tre modi, che tutti peccano  di oscurità e di ambiguità. A costo dì  essere men breve, io ho creduto di dover  essere piò chiaro non solo in questa  frase, ma in tutto questo paragrafo,  svolgendo un poco il concetto dell’autore siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti fran-  tendono. 0.   Nel novero degli interpreti che fran-  tesero questo luogo comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz. L’errore  sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae  col ófUTw che precede; laddove si   riferisce all’azione alla quale l’animale  ragionevole tendea e nella quale è stato  impedito. E ciò pare che abbia poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli posto  una virgola dopo il óutù.  (15) Se tu vo/eafi ftema la debita ri-  tterva.., che da lei etesaa; cioè a dire:  se tu volesti assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile; questo atto della tua volontà  fu veramente un male, perchè, come è  detto altrove, l’ animai  ragionevole non dee voler nulla che non  sìa in poter suo, ed anche il bene re-  lativo, non dee volerlo se non se con-  dizionalmente, cioè in quanto sia possibile; rimpossibilità essendo per gli  stoici sinonimo di non voluto dalla natura e dal destino, al quale il savio  non dee ripugnare. Che se poi la cosa  voluta da te fu una di quelle che non  sono pur buone in senso relativo, e  quindi il volerla fu un appetito, pren-  dendo il vocabolo volere nel significato  volgare, cioè un moto del senso, piut-  tosto che della volontà ragionevole; tu  non ricevesti nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma  bensì mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo  la tua propria natura non puoi essere  impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai  diversamente dagli altri interpreti che  io conosco, Gataker, Schultz e Pierron), e questo senso  ho procurato, di esprimere traducendo. O. lascia una breve nota a questo  luogo, ma in essa non fa che avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la  povertà dell’italiano,comparativameute  al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di  traduzione, tutti laboriosissimi, come  appare dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od ultima  prova scrisse: Sta qui fermo, perche  farai peggio se cangi. Non fu quindi  senza molto bilanciare che mi risolsi a  fare io, come feci, una quinta prova,  essendomi sembrato che il miglior par-  tito fosse qui di tradurre letteralmente,  e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad illustrazione del senso stoico di  tutto il paragrafo ricordiamoci priiniera-  inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è la forza motrice  della materia, è la natura generale, e  r anima vivificante del mondo; conside-  rato dal lato morale, è la ragione eterna  che governa e penetra l’universo, è la  provvidenza benefica, è il principio della  legge naturale che comanda il bone e  proibisce il male. Ricordiamoci ancora  che l’aria, come uno dei due elementi  attivi e parte essa stessa della sostanza  divina, ò dagli stoici considerata come  il principio della vita sensitiva. Dice  adunque Antonino: non contentarti ora-  mai di essere unito con Dio a quel  modo solamente che sono uniti con lui  gli esseri solamente sensitivi, cioè per  mezzo della respirazione; ma fa’ ancora  di unirti con lui a quel modo che si  appartiene agli esseri intellettivi, cioè  con cognizione e accettazione libera  dello scopo che Iddio ha proposto al-  r accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi dall’aria ambiento  gli elementi della tua vita sensitiva,  traggi ancora dalla ragione ambiente  gli elementi della tua vita intellettiva. L’esistenza delle' cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg  cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo-  p^). Qui mi pare che fosse il caso  di dovere assolutamente abbandonare  la lettera e contentarci di esprimere il  senso del testo, piuttosto che cercar  di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione.  E tu stesso ti alteri continuamente, e  peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era  contento, come appare dall’usato segno.  E in vero che significa quel tutte le cose  vanno soggette a mutazione f Significa, e  non può significare di più, che tutte le  cose possono essere mutate e lo saranno  effettivamente quando che sia; ma ciò  liou esprime quella condizione delle cose,  per cui non hanno stato, o modo di essere che perduri pure un istante senza  mutamento, che è la vera condizione  delle cose secondo il pensiero di Anto-  nino e voluta esprimere da lui. Chi do-  vesse tradurre questo luogo in tedesco,  lo potrebbe fare, parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem  anclera-werden; come si dice in werden  non solo dai filosofi, ma anche nel lin-  guaggio famigliare, quando di una cosa  che non è ancora, ma si sta incomin-  ciando 0 si va facendo, si suol dire:  Die Saehc iat noch ini werden. Ma la  nostra lingua non ha tutta la flessibi-  lità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè  permesso il dire in italiano: tutte le coae  sano in un continuo mutarai. È una singolare coutradizione  di Marco nostro e di, altri stoici poate-  riori il venir cosi spesso parlando con  tanto dispregio della materia che aottoatà  alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi  anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto e  bellissimo, il cui corpo è la materia, e  l’anima, Dio (vedi i Ricordi passim, e  specialmente X, 1). Le rughe sul volto  del vegliardo, le screpolature delle ulive  e del fico vicini ad infradiciare, la bava  del cignale ed altre sì fatte cose hanno  pure una certa grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è  nelle suo parti che non conferisca alla  bellezza del tutto. Perchè dunque ora  tanto dispregio non solo per tale o tale  altra parte, ma universalmente per tutta , la materia che sottosta, quando questa  materia, che non è poi altro per gli  stoici se non se il suhstratum indeter-  minato di tutto il contingente sensibile,  è essa pure sostanza divina secondo la  scuola?  Intendi: « o tu voglia dire che  il mondo sia stato formato di atomi.  ed abbia quindi origine dal caso; o che  sia stato formato di nature (essenze,  entelechie, monadi), ed abbia quindi  per origino l’ intelligenza, o la natura,  che qui è sinonimo di intelligenza; que-  sta cosa pongo io certa anzi tutto, come  tratta dalla mia osservazione immediata,  che io sono attualmente parte di un tutto  governato da una natura. » Con altre  parole: « o tu faccia venire il mondo  dalla pluralità, o tu lo faccia venire  dall’unità, ella è cosa di fatto che io  ci ravviso attualmente una pluralità  governata da una unità. » Il qual me-  todo di filosofare, per cui, lasciata stare  la disputa intorno all’origine delle cose,  si viene ad esaminare la realtà attua-  le di esse; lasciato stare il lontano e  mediato, si viene ad osservare l’ imme-  diato e prossimo; lasciata stare la co-  gnizione dedotta, si viene a far capo  alla cognizione di fatto acquistata per  osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che appo  stoici mondo, tutto, natura, Dio sono   V   sostanzialmente la stessa cosa, e però  quelle che poco innanzi furono chiamate  parti del tutto, qui sono dette della  natura. Dìo, natura, mondo, tutto sono  espressioni diverse che corrispondono a  modi diversi di considerare una stessa  cosa, e questa diversità è relativa alla  mente finita dell’uomo che non può si-  multaneamente contemplare gli aspetti  e momenti diversi delle cose, e non alla  realtà obbiettiva. Quindi ò che le espres-  sioni soprascritte sono non di rado usate  runa per l’altra, poiché sostanzialmente  significano la medesima cosa. Il mondo  KÓrfixog), dice il Laerzio, era  dagli stoici considerato: 1® come causa  0 pbtenza informatrice di tutte le cose  che sono {natura nuturans, i; t£-   Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale, come  artefice e informatrice di sé medesima,  trae da sé stessa e informa tutte le coso con suprema saviezza e divina necessità,  cioè secondo le sue leggi che sono quelle  della ragione; 2" come la totalità delle  cose informate e ordinate dalla potenza  informatrice immanente in esse e go-  vernatrice di esse (dotta allora  xòv Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera  vivente, il vivente organismo, o corpo  organato da quella {natura naturata);   finalmente come l’unità dei due, cioè  dell’ organismo vivente e della forza or-  ganatrice e governatrice, in quanto l’uno  non si distingue dall’altra se non se  per la contemplazione della mente finita  deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione  di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’O., perchè non avrei  saputo quali altre più chiare sostituir  loro; atteso che io non son sicuro di  intendere qui nè che cosa abbia voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una  nota; ma non la fece, e non trovo altro,,  che si riferisca a questo luogo, ne’suoi  manoscritti, se non se un cenno pel  quale è indicato che egli lesse qui ò, ti  risolutamente^ ove tutti gli altri, che io  conosca, lessero &ti; e che egli intese  r Ù7TÓ0OU diversamente da tutti gli altri  interpreti. Gataker e Schultz  che lo segue da vicino, non sono più  chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del tutto. Così l’Ornato svolse ed  illustrò il pensiero di Antonino espresso brevissimamente e, parmì anche, poco  chiaramente nel tosto. Non ho mutato  quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’Ornato, sia perchè ho  motivo di credere che ne fosse già poco  meno che contento egli stesso, trovando  io questo paragrafo nettamente ricopiato; sia perchè non avrei voluto correr pericolo (li alterarne benché minimamente il  senso, trattandosi di un luogo che egli  intese assai diversamente da tutti gli  altri interpreti. Vuol dire che non bastano le  impressioni buone che noi riceviamo per  mezzo della sensibilità, le quali possono  e sogliono venir cancellate da impres-  sioni contrarie, ma ci vuole anche il la-  voro deir intelletto che riduca quelle ad  unità e le fermi cosi nel nostro spirito,  formandone come un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazio-  ne dello spirito alle cose di circostanza,  ma ci vuole ancora la contemplazione,  l’ applicazione dello spirito alle cose  permanenti, al generale immutabile.  Solo col ridurre ad unità il moltiplice,  a generalità il particolare, si possono  radicare le cognizioni nell’ anima, la  quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza cui la semplicità del cuore dee far rimanere se-  creta naturalmente nel cuore, ma non  artatamente celata; ed allora è l’ani-  ma veramente grave e soda e come chi  dicesse, veneranda. Sul fine del para-  grafo fa la enumerazione delle diverse  categorie alle quali si dee riferire l’oggetto osservato. Questa nota dell’ Ornato che per le  troppe citazioni del testo greco non  può qui darsi che in parte, trovasi in-  tera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non  era possibile il tradurre altrimenti.   Del resto vada a rilento chi per la  sola ragione del non potersi tradurre  sempre colla stessa voce una stessa  parola del testo, accusa Antonino qui  ed altrove di arguzia. Gli stoici crede-  vano che, là dove è una stessa parola,  debbe essere anche una stessa idea. Ed  anche Platone (vedi il Cratilo) il credette; e il credette il Vico: e tanti j  altri il credettero: e noi il crediamo.,  Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più annessa al nostro amare, ciò j  non prova altro se non che il greco e  l’italiano sono due lingue diverse. E  sap evadicelo. Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un  tiranno od un re, gli par di udire lodato  e magnificato un pastore, perchè egli  munga di molto latte; e l’animale cui  pasce e munge il re, gli pare anche più  ritroso e più infido di quello cui pasce  e munge il pastore; nè men rozzo nè  meno ineducato stima egli l’uno che  l’altro, mancando ad amhidue il tempo  per badare a sè, e vivendo il primo fra  le mura della reggia a quello stesso  modo che l’altro nella capanna sul monte. Del resto, il senso generale di tutto  questo paragrafo, non bene inteso, se-  condo me, dagli interpreti, mi pare che  sia: Tu dèi farti capace sempre pih cho  tu puoi vivere da filosofo in questa tua  corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad ogni passo esempi di quel che dice Platone:  uomini che vivono nei palagi come fa-  rebbe un rozzo pastore in sul monte:  ingolfati cioè quelli e questo nelle cure  materiali del governo dell’armentoV E  sottintende: se per costoro il palagio  non è altrimenti che una capanna, non  può ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui Antonino di raccomandare a sè medesimo anche  ' questo genere di contemplazione, cioè  a dire lo studio dei fenomeni, e delle  maraviglie, come egli dice sapientemente, “dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è  altro studio il quale possa per via più  compendiosa e sicura condurre alla co-  gnizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa reggitrice  del mondo. Nè l’uorao può presumere  di conoscere sè medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste mara-  viglie, cioè come si formi, cresca, si  conservi, si rinnovi e deperisca il suo  corpo, quale sia la natura e il modo  di operare della causa o principio a  cui dehbonsi riferire questi fenomeni,  quali le relazioni di questa vita orga-  nica del suo corpo con quella del prin-  cipio che in lui sente, vuole, e pensa,  e come possano questo due vite modificarsi fra loro scambievolmente. In vero  chi aspira a conoscere sè medesimo,  per quanto sia dato all’uomo di pur  conoscere sè stesso, e non cura di co-  noscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si compone  Tesser suo, porta gran pericolo di er-  rare nel vano, e di prendere astrazioni  por realtà, il che avvenne appunto agli  stoici, ignorantissimi di anatomia o  quindi più ancora di fisiologia. Perchè  uno appunto degli errori fondamentali  della loro filosofia, quello por cui mu-  tilavano la natura umana escludendo  da essa la sensibilità che riferivano al  corpo come a cosa straniera all’ uomo  propriamente, il quale per essi non era  altro che ragione e volontà; questo er-  rore, dico, è in gran parte da attribuire  alla imperfezione delle loro cognizioni,  ai loro errori circa la costituzione fisica delluomo e le relazioni in che ella  si trova colla sua costituzione morale  e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro totale ignoranza dello  leggi che governano i fenomeni dell’or-  ganismo corporeo dell’uomo, delle rela-  zioni intimissime della vita di esso organismo corporeo con quella della mente,  e della natura egualmente spirituale di  ambidue. Questi versi sono di Omero e  sono dei più famosi nell’antichità, dei  più spesso citati e ripetuti, imitati dai  poeti posteriori; o però Antonino non  li scrisse per intero, ma solo quei brani  che sono stampati in corsivo, bastando  quelli a richiamare alla memoria i versi  interi, alle diverse sentenze contenuto  in essi alludendo egli poi nella parte se-  guente del paragrafo. Con questi versi Glauco (dopo aver  detto magnanimo Tidide a che mi chiedi  il mio lignaggio?) incomincia la sua risposta a Diomede, il quale, prima di  accettare il combattimento con lui,  aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe.  Io li ho tradotti letteralmente, giovan-  domi in parte della traduzione del Monti,  la. quale, come nota a tutti i lettori,  avrei volentieri dato qui inalterata, se  in essa fosse più fedelmente espresso,  e nell’ ultimo verso non interamente  guasto il senso delle parole di Omero. Il qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom  nasce e così muor: il che fa fare un falso  sillogismo a Glauco, il quale secondo  la traduzione del Monti, concludendo,  affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che dovea  affermare delle schiatte umane, mutando,  come direbbero i loici, nella conclusione  il piccolo termine, che nella premessa  minore- non era uomo ma schiatta o  stirpe, come disse il Monti. E pure il  verso di Omero ò chiarissimo. Questo  strafalcione il Monti non avrebbe fatto  se, come quasi ignorante del greco, con  tante altre traduzioni avesse saputo consultare quella mirabilissima, non  solo per eleganza di stile ma ancora  per fedeltà, precisione e chiarezza, del  Voss, il quale in cinque bellissimi esametri tedeschi traduce letteralmente i  cinque esametri greci. Anche il Pope,  sebbene i suoi lavori sui poemi di Omero,  tutto die pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione,  non fece qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare dei  nostri che con nobilissimo intendimento  si diedero all’ardua impresa di recare  nella nostra lingua chi l’una e chi l’altra  di quelle poche reliquie che ci rimangono della greca poesia (dico poche  rispetto a ciò che fu divorato dal tem-  po); i quali avrebbero meglio inteso e  meglio tradotti moltissimi luoghi se  avessero potuto consultare, se non tutti  gli interpreti, cementatori ed espositori,  almeno i traduttori tedeschi. Ma basterà  che io nomini il più valente, a parer  mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne  forse una più intima notizia del greco,  nulla mancava, non valor d’arte, non  felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla perfezione, dei tragici greci. E in vero,  leggendo io le traduzioni del Bcllotti e  riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in moltissimi luoghi ad am-  mirarne la eccellenza, anzi direi quasi  in tutti quei luoghi dov’egli capì ab-  bastanza intimamente il suo testo e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche in molti  altri luoghi io ebbi a lamentare che  egli pure non abbia saputo o potuto  giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte  da* suoi predecessori alemanni. Nel solo  Agamennone, che anche considerato in  sè stesso e non come parte di una  grande e sublime trilogia, è forse il  più bel monumento della scena antica,  e certamente il più grande di tutti per  sublimità tragica, recondita filosofia,  splendore di immagini e copia di alti  e forti pensieri, quanti errori avrebbe  evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire a quella  grande anima e colossale ingegno di  Eschilo, so egli avesse solo potuto pro-  fittare della traduzione e dei Prolegomeni di Humboldt? Non dirò  del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo^ che forse non era an-  cora pubblicato quando il Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è tanto più da  lamentare che a Bellotti siano mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare  che sia presto per sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello  che avrebbe potuto il Bellotti. Ritornando al paragrafo di Antonino  e al luogo citato di Omero, è da notare  come siffatti pensieri intorno al poco o  niun valore della vita considerata in sè,  e di tutte le cose umane e dell’ uomo  stesso, così frequenti nei poeti ebraici;  frequentissimi in questo scritto di An-  tonino e divenuti quasi abituali nei  cristiani dei primi secoli, si trovino  pure non di rado anche nei poeti greci  più antichi, voglio dire in quelli delle  prime e più splendide epoche della greca  letteratura, sebbene i Greci fossero un  popolo di allegra immaginazione. Forse  non dispiacerà al lettore il vederne  qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre nulla  di più infermo che Vuomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che  siatn noi dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte. L’uomo è l’ombra di un  sogno. Nel Prometeo di Eschilo  e non vedevi V imbecille natura a  vano sogno eguale onde è impedito il cieco  umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,  perocché veggo  non essere noi, quanti viviamo, altro che  larve ed ombra vana. Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete  chiama sè medesimo: ombra di un  fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare  tutte le cose umane come un' ombra, E  vuoisi notare come appo i tragici ed  anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che durano  un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo,  alludeva evidentemente Antonino con  quelle sue parole: il più breve detto,  anche di quelli che sono i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli di  Omero. Questa nota fu scritta in tempo che  io, quasi appona ripatriato dopo trent’anni di assenza, e mandato a stare in  un cantuccio al tutto vacuo di studi e  di lettere (prendendo i vocaboli in un  senso un po’ alto), e ridottomi a passare  nella solitudine i pochi momenti d’ozio  che r esercizio di un pubblico ufficio mi  lasciava, avea potuto, non saprei diro perchè, immaginarmi che il valentissimo sig. Bellotti fosse già del numero  di quei felici che più non vivono altri-  menti sulla terra che per la memoria  di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non  cangio nulla a quello che ho scritto di  lui; ma aggiungo V espressione di un voto,  che deve esser quello di tutti gli amatori  delle buone lettere desiderosi di vedere  vie più chiara e più grande la rino-  manza di un nobilissimo ingegno: ed '  è che l’esimio sig. Bellotti, come sta  ora, da quanto mi dissero, rivedendo o  migliorando il suo Yolgarizzamento di  Sofocle, così possa egli poi rivedere ed  emeudare quello ancora di Eschilo, il  quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse al-  cune eccezioni, non pecca gravemente  che nella parte lirica; laddove in questo  trovai, 0 parvemi certamente trovare,  molti luoghi da dover essere emendati  non solo nella parte lirica troppo spesso  non traducibile in italiano (come è in-  traducibile Pindaro, secondo che fu sen-  tenziato anche da Leopardi  non ismentito dal tentativo più audace  che felice di Borghi); ma  eziandio nel dialogo. Ella comjyie nondimeno..», si avea  proposto. Mi sono scostato, anche nel  senso, interamente dall’ Ornato, il quale  avea tradotto: ella rende intero e com-  piuto quanto ella avea fatto fino allora;  primieramente perchè il senso voluto  esprimere dall’ Ornato non mi sembrava  abbastanza chiaro; e poi, e principal-  mente perchè mi parve troppo grande  licenza il tradurre per quanto avea fatto  fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi  sembra qui usato nel senso il più ovvio  del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è quello di  proporre, e così l’ intende anche lo Schultz contrariamente al’Gataker seguito dall’ Ornato. Veggo bene le ra-  gioni che possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma  non mi persuadono. Il pensiero di An-  tonino mi sembra chiaramente, l’anima razionale, la quale non si propone  altro che di operare sempre secondo  ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura,  in qualunque istante le sopravvenga la  morte, compie sempre interamente il  compito che ella si avea proposto, e  in modo soddisfacente a sè stessa; ella  ha tutto ciò che potea desiderare, ha  totalmente esaurita la sua parte come  attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando la natura lo  vuole, è la conclusione, il compimento  della parte a lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma  della vita universale. Bone avverte qui il Gataker aver già  Socrate usato il medesimo argomento  per indurre Alcibiade a disprezzare la  moltitudine, alla quale peritavasi di  farsi innanzi a concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impau-  risce? forse Micillo il ciabattieref Trigaió  il conciatore f Trochilo il ferravecchio?  ora non sono costoro quelli dei quali si  compone V adunanza del popolo? Che se  non temi di favellare a ciascuno di essi  separatamente, che è dò.che ti fa timido  a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate era giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe anche potuto ricor-  dare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi conservatoci da Plu-  tarco: preni ad uno ad uno »iete tante  volpi; riuniti insieme siete tanti allocchi.  Ma il medesimo ragionamento applicato  allo cose di cui parla Marco nostro non  ò molto concludente. E una melodia,  per es., come qui avverte opportuna-  mente il Pierron, è qualche cosa di più  che una semplice successione di suoni,  e Antonino dimentica di considerare  ciò appunto per cui le note musicali  hanno potenza da commovere T anima  sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci era la  lotta infelice della volontà e liberta  morale dell’ uomo contro l’ inflessibile  necessità; o per dir più veramente,  quella fatale retribuzione di giustizia  che risulta inevitabilmente alla vita  umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il /«<o  non era altro che la concatenazione  delle cause secondo le leggi della na-  tura, cioè della ragione e quindi della  giustizia; quella necessità, dico, non  era punto una cosa cieca neppure nella  mente dei poeti: sendo che a Nemesi  figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di vendicare i  delitti e rovesciare le troppo grandi e-  immeritate prospérità, a Nemesidico,  e alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i due  concetti più puri fra tutte le divinità  immaginate dall’ antico politeismo, il  semplice, ma sublime buon senso dei  Greci riferiva tutto ciò che risguarda  il supremo governo del mondo. L’idea  dunque della giustizia era congiunta  con quella della necessità^ sebbene in  modo diverso, anche nella mento dei  poeti, come in quella degli stoici. Cho  se Antonino non fa qui esplicitamente  alcuna allusione a quella retribuzione  di giustizia, che era l’elemento morale  della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea nobilissima dell’antica tragedia;  egli è perchè questa inutilità intendeano  gli stoici e i poeti allo stesso modo, e  quasi esprimevano colle medesime pa-  role; laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non erano  forse i poeti quelli clie la intendeano  in modo men vicino al vero. Benissimo il Gataker ricorda qui  alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai quali alludea  probabilmente Antonino in questo luogo.  Già condannato a morte per giudizio  iniquo de’ suoi cittadini, in proposito.  di uno che non ristava dal dirgli vil-  lanie, disse Focione: non sarà alcuno  che faccia costui cessare dal disonorar  «è medesimo? E già vicino a morire,  questa sola ingiunzione fece al figliuolo:  dimenticasse il fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole che seguono  di Marco nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser prese come,  espressione di nn sospetto nel caso  particolare di Focione, ma bensì in un  senso generale, quasi dicesse Antonino  con istoica riserva, non bastar sempre  le parole a dar certo fondamento a un  giudizio sulle disposizioni interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere,  neppur quando il fingere potesse gio-  vare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce inìquo, seguendo lo Schultz  che tradusse iniquum. Ma non e ben risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal  consueto segno. E veramente non parmi  che lo ayvcofjLov possa esser preso in  questo senso, sebbene abbia quello  ingrato, disleale, disamorato. Il senso  più ovvio di questo aggettivo è privo  di senno, stolto, inavveduto, e parmi che  41 1 reo Aurelio questo senso quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia quello di  inìquo. Dopo aver detto Antonino essere da pazzoy cioè a dire da stolto, il  volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi gene-  rale ed assoluta, poiché non si può fare  altrimenti, che essi debbano di neces-  sità peccare, e il volere ad un tempo  che essi facciano una eccezione a favor  tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è  possibile ai malvagi;.da tiranno perchè  vuoi esser distinto e che ti si abbia  maggior rispetto che agli altri uomini.  Anche il Gataker intende 1’ àyvwi^ov  così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre,  quando deve essere riferito al figliuolo,  corno fece O., seguendo Gataker e Schultz. La medesima sentenza  si trova anche nel Manuale del mede-  simo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco stesso:  io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com-  prenderà facilmente come il senso stoico  di questa frase, tante volte ripetuta  da Marco nostro, è al tutto alieno da  quello della famosa sentenza del sofista  Protagora: V uomo è misura di tutte le  cose. La sentenza del sofista si riferiva  ad ogni cosa, alla verità obbiettiva, alla  moralità come alla sensibilità, e tendea  quindi a distruggere la possibilità' di  ogni cognizione teorica, la morale come  la religione. La sentenza di Antonino al  contrario, il quale, per un errore direi  quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli  stoici anteriori, tutta l’essenza dell’ uo-  mo alla ragione e alla volontà ragionevele, non si riforisce ad altro che alla  sensibilità, cioè ai piaceri e ai dolori  di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare, operazione propria dell’intelletto;  e nota qui il carattere esclusivo del  Portico, il quale considerava e stimava  un nulla, non che la sensibilità ma l’in-  telletto stesso, a paragone dei buon  uso della volontà, cioè della moralità  della ragione. Traducendo ho usato il vo-  cabolo raziocinio piuttosto che intelletto,  perchè in italiano il senso della parola  intelletto può essere troppo facilmente  confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i  due corrispondenti tedeschi Verstandnis e  Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad seipsum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.

 

No comments:

Post a Comment