Grice ed Ornato, o dell’implicature conversazionali nella
conversazione d’Antonino con Antonino – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna Piemonte). Filosofo italiano. Visse vita
ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva
le scienze fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con
singolare amore le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove
frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più
importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante
di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria
dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la
Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa
Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a
Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è
frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia
e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana,
Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel
cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei
“Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone
Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, O. Becchio G. Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in
mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due
stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto,
ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico [PORTICUS – stoici], Antonino e stato preceduto da altri
stoici romani illustri. Il che non potea non avvenire, perchè secondo un
antico senario greco, il cuore soltanto del malvagio non è capace di
essere ammollito. E però il severissimo CATONE, già deliberato in quanto a
sè di morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli
amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro
procelloso per non lasciarsi cogliere in Utica da Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso Catone al comando di una legione in
Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos città
della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da Tessalonica,
contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare tempestosissimo, e
giunto in Enos trova il fratello già spento (Plut., vita di Catone).
E pianse certamente Cornelio Tacito, benché stoico anch’egli, quando,
dopo aver narrato come era vissuto e morto, non senza sospetto di
veleno, Giulio Agricola suo suocero, aggiungeva queste patetiche
parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto; quanto a te,
quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre
all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non
ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di
abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto; avremmo pure raccolti
precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il
coltello al nostro cuore.Senza dubbio. 0 ottimo padre, per la presenza
della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le cose al farti
onore; ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e pure alcuna cosa
desiderasti vedere al chiudere degli occhi tuoi. Fra le varie divisioni
dei beni appo gli stoici, l’una è questa, che dei beni altri sono
finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed efficienti.
I beni finali sono parte della felicità e la costituiscono: gli
efficienti solo la procurano: i finali ed efficienti insieme e la
procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono la letizia, la
libertà deir animo, la tranquillità, ecc. Del secondo, l’uom prudente ed
amico; del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene
efficiente, perchè muove con la sua dispozione razionale la tua
diapoaizion razionale (lib. V), cioè è occasione a te di buone
azioni. E nello stesso modo è un bene di quel secondo genere ogni
cosa, o sia pensiero o altro, che è occasione a te per camminare
verso la perfezione. Di questo bene parla ora Antonino. Il quale, per
lo esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere
accompagnato ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che
costituisce la felicità, non attrae invincibilmente il tuo volere;
ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si
sottragga da tutte le altre cose che ne lo possono sviare (conferisci
quello che ne insegna la teologia intorno alla grazia). E quando Antonino
chiama questo bene razionale (che è attributo generale del bene appo
gli stoici), il fa per opposizione al preteso bene degli Epicurei, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo
bene, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo
intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste
cose era necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove
la maggior parte dei cementatori ed interpreti ha voluto cangiare
la parola efficiente in civile o vuoi sociale con manifesto danno
del senso e del pensiero di Antonino. Dispensazione in greco “economia” vale
generalmente governo della casa, amministrazione. E perchè molte
cose si fanno pel governo della casa, le quali da per sè sole non si
farebbero (come per esempio il risparmiare certe spese perchè le
sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di quella), quindi è
stata applicata questa voce ad ogni cosa che si faccia con fine
provvidenziale, benché sia di nessun pregio in sè od anche noiosa; come
p. e. il gastigare i rei. È usata sovente in questo senso dagli filosofi
latini di tarda età, e stoici ed altri, e massimaniente dai padri della chiesa.
È tra noi disusata perchè è disusato il concetto ch’ella esprime. Ma
per provare la sua antica cittadinanza in Italia alleghera il passo
seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati sotto essa voce nel V.
della Crusca (Medicina del cuore). Per divina dispensazione avviene che,
per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione ed infermitade
arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che, quando la scrive,
inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione a Xilandro
contro i posteriori. Se non muta poi di parere, il senso di questa
espressione con libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con
liberalità di parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende
lo £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle
preghiere, Antonino intenderebbe di biasimare le preghiere che non
mirano che all’interesse proprio di chi lo fa. E però loda quella
preghiera degl’Ateniesi, i quali, al dire di Pausania, solevano pregare
non solo per tutta l’Attica, ma anche per tutta la Grecia. Auto nel
senso peripatetico e scolastico, è l’affezione costante deWente: e
per quel carattere di costanza si distingue dalla disposizione che è variabile.
Appo gli stoici è la forza o virtù (andreia) che mantien l’ente in quella
affezione costante; o, siccome essi favellano, è spirito (intendi
aria) che mantiene il corpo e il contiene: perchè l’ente ò corpo appo
loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra per tutte le cose
particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel medesimo
modo: perchè nelle une si manifesta come abito (pietre, legni); nelle
altre come natura (intendi principio organico mero: piante, alberi);
nelle altre come anima (principio animrle mero: bruti); nelle altre ancora
come mente e+ ragione (anima ragionevole universale e sociale
appo Antonino; uomini. Le cose governate dair abito sono adunque i
corpi dove non è altro principio costituente che il generale di
corpo: dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che quella
affezione (modo d’essere) costante por cui sono il tal corpo anziché il
tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che noi
chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al
carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di
cor poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le
classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per
carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo
corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei
dire precisamente quali sieno le emendazioni seguite o fatte da lui,
perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di questo
paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non
intelligibile, è anche manchevole, essendone stato lacerato via, non so
da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio.
Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle
sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della sua
interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei
quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli
interpreti. O. lascia scritto al principio di una lunga nota: Di questo
veramente corrotto paragrafo non so che partito trarre. La sua
interpretazione che io seguii nel volgarizzamento vuol dunque
essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose.
La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche mutilata.O.
non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo quando
avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte
note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz,
non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non
seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi
corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora difendo la
vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla
quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il
paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut
transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker,
il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui
il granchio (fan pietà Dacier o Joly che seguono ciecamente
Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è la stessa pecora
sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme,
siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv e il ToO xóojjiou
’hys.u Qvixdv; quando anzi nella distinzione di queste duo cose è fondato
il senso di tutto il paragrafo. La toO SXou qjvlcjis è la potenza
creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza
governatrice, dipendente da quella prima, generata, o formata da quella
prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo
non meno che il corpo; e la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il
senso adunque di tutto il paragrafo è questo. La
natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il
mondo, dan-dogli, per così dire, un corpo ed una mente. Ora, o questa
mente, a cui è affidato il governo del mondo, segue la ragione
(perchè la mente nel senso dello ^ìf£|jiovixbv può anche talora essere
sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha
determinate generalmente dà principio la natura formatrice del
tutto, sono involute in quella prima determinazione, sono conseguenza
necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente non segue
sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere
che non solamente le cose di minor conto che ella fa, ma anche
le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che
nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere
sragionevole nè anche in quelle di minor conto; dunque tutte le cose
vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato
e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo
migliore se l’ autore avesse potuto ripulire e pubblicare egli
stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta
in essa è ingegnosissima, naturalissima e confermata da tutto
quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù
óXov (pdcjts), la potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il
quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta
senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane; la potenza
governatrice, la mente che go- verna il mondo (TÓrìysixovixóv toù
xó^jxou), generata da quella prima, è all’incontro, nell’attuale
diversità delle cose,' nella nauìra naturata, nel mondo
propriamente detto e composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza,
l’anima di esso corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo §
è ora da aggiungersi Pierron. Ed è tanto più da stupire che il sig.
Pierron abbia egli pure sì mal compreso, in quanto che, avendo egli
già prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere suf-
ficientemente versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole
della Grecia. Quasi tutti i traduttori hanno franteso questo luogo,
pigliando l’iwoia per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne
intellectus hoc feraf.... il senso letterale, aggiungendo ciò che è
sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te stesso come uomo)
soffre cotesto, soifre cioè che tu dica esser nato a goder dei
piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio di tutti i suoi predecessori,
pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena
à le prétendre. Colia bontà delle singole azioni vuotai procacciare
di ben comporre la vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo
fedele alla lettera e studioso di conservare tutta la brevità dell’
origi- nale, avea tradotto: ai vuol comporre la vita mettendo
inaieme le azioni ad una ad una; poi comporre inaieme la vita
accozzando le azioni ad una ad una; poi allogando le azioni ad una ad’una.
Non credo che so avesse potuto ripu- lire e terminare egli stesso il suo
la- voro, si sarebbe contentato di alcuno di questi tre modi, che
tutti peccano di oscurità e di ambiguità. A costo dì essere men
breve, io ho creduto di dover essere piò chiaro non solo in questa
frase, ma in tutto questo paragrafo, svolgendo un poco il concetto dell’autore
siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti fran- tendono. 0.
Nel novero degli interpreti che fran- tesero questo luogo comprendi
ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz.
L’errore sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae col ófUTw che
precede; laddove si riferisce all’azione alla quale l’animale
ragionevole tendea e nella quale è stato impedito. E ciò pare che abbia
poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli
posto una virgola dopo il óutù. (15) Se tu vo/eafi ftema la debita
ri- tterva.., che da lei etesaa; cioè a dire: se tu volesti
assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile;
questo atto della tua volontà fu veramente un male, perchè, come è
detto altrove, l’ animai ragionevole non dee voler nulla che non
sìa in poter suo, ed anche il bene re- lativo, non dee volerlo se non se
con- dizionalmente, cioè in quanto sia possibile; rimpossibilità essendo
per gli stoici sinonimo di non voluto dalla natura e dal destino, al
quale il savio non dee ripugnare. Che se poi la cosa voluta da te
fu una di quelle che non sono pur buone in senso relativo, e quindi
il volerla fu un appetito, pren- dendo il vocabolo volere nel
significato volgare, cioè un moto del senso, piut- tosto che della
volontà ragionevole; tu non ricevesti nocumento nè
impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì mento, ragione
o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo la tua propria
natura non puoi essere impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo
questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai
diversamente dagli altri interpreti che io conosco, Gataker, Schultz e
Pierron), e questo senso ho procurato, di esprimere traducendo. O.
lascia una breve nota a questo luogo, ma in essa non fa che avvertire le
difficoltà del tradurlo, stante la povertà dell’italiano,comparativameute
al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui.
Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di traduzione,
tutti laboriosissimi, come appare dalle molte cancellature e correzioni.
In margine alla quarta od ultima prova scrisse: Sta qui fermo,
perche farai peggio se cangi. Non fu quindi senza molto bilanciare
che mi risolsi a fare io, come feci, una quinta prova, essendomi
sembrato che il miglior par- tito fosse qui di tradurre
letteralmente, e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad
illustrazione del senso stoico di tutto il paragrafo ricordiamoci
priiniera- inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato dal lato
fisico, è la forza motrice della materia, è la natura generale, e r
anima vivificante del mondo; conside- rato dal lato morale, è la ragione
eterna che governa e penetra l’universo, è la provvidenza benefica,
è il principio della legge naturale che comanda il bone e proibisce
il male. Ricordiamoci ancora che l’aria, come uno dei due elementi
attivi e parte essa stessa della sostanza divina, ò dagli stoici
considerata come il principio della vita sensitiva. Dice adunque
Antonino: non contentarti ora- mai di essere unito con Dio a quel
modo solamente che sono uniti con lui gli esseri solamente sensitivi,
cioè per mezzo della respirazione; ma fa’ ancora di unirti con lui
a quel modo che si appartiene agli esseri intellettivi, cioè con
cognizione e accettazione libera dello scopo che Iddio ha proposto
al- r accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi
dall’aria ambiento gli elementi della tua vita sensitiva, traggi
ancora dalla ragione ambiente gli elementi della tua vita intellettiva.
L’esistenza delle' cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg
cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo- p^). Qui mi pare che
fosse il caso di dovere assolutamente abbandonare la lettera e
contentarci di esprimere il senso del testo, piuttosto che cercar
di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea
detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu stesso ti alteri
continuamente, e peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era
contento, come appare dall’usato segno. E in vero che significa quel
tutte le cose vanno soggette a mutazione f Significa, e non può
significare di più, che tutte le cose possono essere mutate e lo
saranno effettivamente quando che sia; ma ciò liou esprime quella
condizione delle cose, per cui non hanno stato, o modo di essere che
perduri pure un istante senza mutamento, che è la vera condizione
delle cose secondo il pensiero di Anto- nino e voluta esprimere da lui.
Chi do- vesse tradurre questo luogo in tedesco, lo potrebbe fare,
parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem
anclera-werden; come si dice in werden non solo dai filosofi, ma anche
nel lin- guaggio famigliare, quando di una cosa che non è ancora,
ma si sta incomin- ciando 0 si va facendo, si suol dire: Die Saehc
iat noch ini werden. Ma la nostra lingua non ha tutta la flessibi-
lità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè permesso il dire in italiano:
tutte le coae sano in un continuo mutarai. È una singolare
coutradizione di Marco nostro e di, altri stoici poate- riori il
venir cosi spesso parlando con tanto dispregio della materia che
aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi
anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto
e bellissimo, il cui corpo è la materia, e l’anima, Dio (vedi i
Ricordi passim, e specialmente X, 1). Le rughe sul volto del
vegliardo, le screpolature delle ulive e del fico vicini ad infradiciare,
la bava del cignale ed altre sì fatte cose hanno pure una certa
grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è nelle suo parti
che non conferisca alla bellezza del tutto. Perchè dunque ora tanto
dispregio non solo per tale o tale altra parte, ma universalmente per
tutta , la materia che sottosta, quando questa materia, che non è
poi altro per gli stoici se non se il suhstratum indeter- minato di
tutto il contingente sensibile, è essa pure sostanza divina secondo
la scuola? Intendi: « o tu voglia
dire che il mondo sia stato formato di atomi. ed abbia quindi
origine dal caso; o che sia stato formato di nature (essenze,
entelechie, monadi), ed abbia quindi per origino l’ intelligenza, o la
natura, che qui è sinonimo di intelligenza; que- sta cosa pongo io
certa anzi tutto, come tratta dalla mia osservazione immediata, che
io sono attualmente parte di un tutto governato da una natura. » Con
altre parole: « o tu faccia venire il mondo dalla pluralità, o tu
lo faccia venire dall’unità, ella è cosa di fatto che io ci ravviso
attualmente una pluralità governata da una unità. » Il qual me-
todo di filosofare, per cui, lasciata stare la disputa intorno
all’origine delle cose, si viene ad esaminare la realtà attua- le
di esse; lasciato stare il lontano e mediato, si viene ad osservare l’
imme- diato e prossimo; lasciata stare la co- gnizione dedotta, si
viene a far capo alla cognizione di fatto acquistata per
osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che appo
stoici mondo, tutto, natura, Dio sono V sostanzialmente
la stessa cosa, e però quelle che poco innanzi furono chiamate
parti del tutto, qui sono dette della natura. Dìo, natura, mondo, tutto
sono espressioni diverse che corrispondono a modi diversi di
considerare una stessa cosa, e questa diversità è relativa alla
mente finita dell’uomo che non può si- multaneamente contemplare gli
aspetti e momenti diversi delle cose, e non alla realtà obbiettiva.
Quindi ò che le espres- sioni soprascritte sono non di rado usate
runa per l’altra, poiché sostanzialmente significano la medesima cosa. Il
mondo KÓrfixog), dice il Laerzio, era dagli stoici considerato: 1®
come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le cose che sono {natura
nuturans, i; t£- Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale,
come artefice e informatrice di sé medesima, trae da sé stessa e informa
tutte le coso con suprema saviezza e divina necessità, cioè secondo
le sue leggi che sono quelle della ragione; 2" come la totalità
delle cose informate e ordinate dalla potenza informatrice
immanente in esse e go- vernatrice di esse (dotta allora xòv Toù
xd^fjLou) e quindi come l’opera vivente, il vivente organismo, o
corpo organato da quella {natura naturata); finalmente come
l’unità dei due, cioè dell’ organismo vivente e della forza or-
ganatrice e governatrice, in quanto l’uno non si distingue dall’altra se
non se per la contemplazione della mente finita deU'uomo. Vedi i
Prologo nell’edizione di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero di
che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’O.,
perchè non avrei saputo quali altre più chiare sostituir loro;
atteso che io non son sicuro di intendere qui nè che cosa abbia voluto dire
r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una nota; ma
non la fece, e non trovo altro,, che si riferisca a questo luogo,
ne’suoi manoscritti, se non se un cenno pel quale è indicato che
egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove tutti gli altri, che io
conosca, lessero &ti; e che egli intese r Ù7TÓ0OU diversamente da
tutti gli altri interpreti. Gataker e Schultz che lo segue da
vicino, non sono più chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del
tutto. Così l’Ornato svolse ed illustrò il pensiero di Antonino espresso
brevissimamente e, parmì anche, poco chiaramente nel tosto. Non ho
mutato quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’Ornato,
sia perchè ho motivo di credere che ne fosse già poco meno che
contento egli stesso, trovando io questo paragrafo nettamente ricopiato;
sia perchè non avrei voluto correr pericolo (li alterarne benché minimamente
il senso, trattandosi di un luogo che egli intese assai
diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol dire che non bastano
le impressioni buone che noi riceviamo per mezzo della sensibilità,
le quali possono e sogliono venir cancellate da impres- sioni
contrarie, ma ci vuole anche il la- voro deir intelletto che riduca
quelle ad unità e le fermi cosi nel nostro spirito, formandone come
un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazio- ne
dello spirito alle cose di circostanza, ma ci vuole ancora la
contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle cose permanenti,
al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a
generalità il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima,
la quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza
cui la semplicità del cuore dee far rimanere se- creta naturalmente nel
cuore, ma non artatamente celata; ed allora è l’ani- ma veramente
grave e soda e come chi dicesse, veneranda. Sul fine del para-
grafo fa la enumerazione delle diverse categorie alle quali si dee
riferire l’oggetto osservato. Questa nota dell’ Ornato che per le troppe
citazioni del testo greco non può qui darsi che in parte, trovasi
in- tera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non
era possibile il tradurre altrimenti. Del resto vada a rilento chi
per la sola ragione del non potersi tradurre sempre colla stessa
voce una stessa parola del testo, accusa Antonino qui ed altrove di
arguzia. Gli stoici crede- vano che, là dove è una stessa parola,
debbe essere anche una stessa idea. Ed anche Platone (vedi il Cratilo) il
credette; e il credette il Vico: e tanti j altri il credettero: e noi il
crediamo., Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv
non si trova più annessa al nostro amare, ciò j non prova altro se non
che il greco e l’italiano sono due lingue diverse. E sap evadicelo.
Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente
educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un tiranno od un re, gli
par di udire lodato e magnificato un pastore, perchè egli munga di
molto latte; e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche
più ritroso e più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè
men rozzo nè meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando
ad amhidue il tempo per badare a sè, e vivendo il primo fra le mura
della reggia a quello stesso modo che l’altro nella capanna sul monte.
Del resto, il senso generale di tutto questo paragrafo, non bene inteso,
se- condo me, dagli interpreti, mi pare che sia: Tu dèi farti
capace sempre pih cho tu puoi vivere da filosofo in questa tua
corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad
ogni passo esempi di quel che dice Platone: uomini che vivono nei
palagi come fa- rebbe un rozzo pastore in sul monte: ingolfati cioè
quelli e questo nelle cure materiali del governo dell’armentoV E
sottintende: se per costoro il palagio non è altrimenti che una capanna,
non può ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico?
Gran ragione ha qui Antonino di raccomandare a sè medesimo anche ' questo
genere di contemplazione, cioè a dire lo studio dei fenomeni, e
delle maraviglie, come egli dice sapientemente, “dell’organismo
corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è altro
studio il quale possa per via più compendiosa e sicura condurre alla
co- gnizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa
reggitrice del mondo. Nè l’uorao può presumere di conoscere sè
medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste mara- viglie, cioè come
si formi, cresca, si conservi, si rinnovi e deperisca il suo corpo,
quale sia la natura e il modo di operare della causa o principio a
cui dehbonsi riferire questi fenomeni, quali le relazioni di questa vita
orga- nica del suo corpo con quella del prin- cipio che in lui
sente, vuole, e pensa, e come possano questo due vite modificarsi fra
loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere sè medesimo,
per quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè stesso, e non cura di
co- noscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si
compone Tesser suo, porta gran pericolo di er- rare nel vano, e di
prendere astrazioni por realtà, il che avvenne appunto agli
stoici, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di fisiologia.
Perchè uno appunto degli errori fondamentali della loro filosofia,
quello por cui mu- tilavano la natura umana escludendo da essa la
sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’ uomo
propriamente, il quale per essi non era altro che ragione e volontà;
questo er- rore, dico, è in gran parte da attribuire alla
imperfezione delle loro cognizioni, ai loro errori circa la costituzione
fisica delluomo e le relazioni in che ella si trova colla sua
costituzione morale e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro
totale ignoranza dello leggi che governano i fenomeni dell’or-
ganismo corporeo dell’uomo, delle rela- zioni intimissime della vita di
esso organismo corporeo con quella della mente, e della natura egualmente
spirituale di ambidue. Questi versi sono di Omero e sono dei più
famosi nell’antichità, dei più spesso citati e ripetuti, imitati
dai poeti posteriori; o però Antonino non li scrisse per intero, ma
solo quei brani che sono stampati in corsivo, bastando quelli a
richiamare alla memoria i versi interi, alle diverse sentenze
contenuto in essi alludendo egli poi nella parte se- guente del
paragrafo. Con questi versi Glauco (dopo aver detto magnanimo Tidide a
che mi chiedi il mio lignaggio?) incomincia la sua risposta a Diomede, il
quale, prima di accettare il combattimento con lui, aveagli chiesto
qual fosse la sua stirpe. Io li ho tradotti letteralmente, giovan-
domi in parte della traduzione del Monti, la. quale, come nota a tutti i
lettori, avrei volentieri dato qui inalterata, se in essa fosse più
fedelmente espresso, e nell’ ultimo verso non interamente guasto il
senso delle parole di Omero. Il qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti
come segue: CosxVuom nasce e così muor: il che fa fare un falso
sillogismo a Glauco, il quale secondo la traduzione del Monti,
concludendo, affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che dovea affermare delle
schiatte umane, mutando, come direbbero i loici, nella conclusione
il piccolo termine, che nella premessa minore- non era uomo ma schiatta o
stirpe, come disse il Monti. E pure il verso di Omero ò chiarissimo.
Questo strafalcione il Monti non avrebbe fatto se, come quasi
ignorante del greco, con tante altre traduzioni avesse saputo consultare
quella mirabilissima, non solo per eleganza di stile ma ancora per
fedeltà, precisione e chiarezza, del Voss, il quale in cinque bellissimi
esametri tedeschi traduce letteralmente i cinque esametri greci. Anche il
Pope, sebbene i suoi lavori sui poemi di Omero, tutto die
pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione,
non fece qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare
dei nostri che con nobilissimo intendimento si diedero all’ardua
impresa di recare nella nostra lingua chi l’una e chi l’altra di
quelle poche reliquie che ci rimangono della greca poesia (dico poche
rispetto a ciò che fu divorato dal tem- po); i quali avrebbero meglio
inteso e meglio tradotti moltissimi luoghi se avessero potuto
consultare, se non tutti gli interpreti, cementatori ed espositori,
almeno i traduttori tedeschi. Ma basterà che io nomini il più valente, a
parer mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne forse una più
intima notizia del greco, nulla mancava, non valor d’arte, non
felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla
perfezione, dei tragici greci. E in vero, leggendo io le traduzioni del
Bcllotti e riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in
moltissimi luoghi ad am- mirarne la eccellenza, anzi direi quasi in
tutti quei luoghi dov’egli capì ab- bastanza intimamente il suo testo
e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche
in molti altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure non abbia
saputo o potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte da* suoi
predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che anche considerato
in sè stesso e non come parte di una grande e sublime trilogia, è
forse il più bel monumento della scena antica, e certamente il più
grande di tutti per sublimità tragica, recondita filosofia,
splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri, quanti errori
avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire
a quella grande anima e colossale ingegno di Eschilo, so egli
avesse solo potuto pro- fittare della traduzione e dei Prolegomeni di
Humboldt? Non dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo^ che
forse non era an- cora pubblicato quando il Bellotti traducea
l’Agamennone. Ed è tanto più da lamentare che a Bellotti siano
mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare che sia presto per
sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello che avrebbe
potuto il Bellotti. Ritornando al paragrafo di Antonino e al luogo
citato di Omero, è da notare come siffatti pensieri intorno al poco
o niun valore della vita considerata in sè, e di tutte le cose
umane e dell’ uomo stesso, così frequenti nei poeti ebraici;
frequentissimi in questo scritto di An- tonino e divenuti quasi abituali
nei cristiani dei primi secoli, si trovino pure non di rado anche
nei poeti greci più antichi, voglio dire in quelli delle prime e
più splendide epoche della greca letteratura, sebbene i Greci fossero
un popolo di allegra immaginazione. Forse non dispiacerà al lettore
il vederne qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre
nulla di più infermo che Vuomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che
siatn noi dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ ombra che sogna.
Letteralmente la seconda parte. L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel
Prometeo di Eschilo e non vedevi V
imbecille natura a vano sogno eguale onde è impedito il cieco umano
gregge? Nell’Aiace di Sofocle, perocché
veggo non essere noi, quanti viviamo, altro che larve ed ombra
vana. Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete chiama sè
medesimo: ombra di un fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto
incomincio a stimare tutte le cose umane come un' ombra, E vuoisi
notare come appo i tragici ed anche appo i) lepidissimo Aristofane
la parola effimeri, cioè quelli che durano un giorno, è spessissimo
usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze d’
antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi
del suo tempo, alludeva evidentemente Antonino con quelle sue
parole: il più breve detto, anche di quelli che sono i più noti
ecc., accennava poi per esempio quelli di Omero. Questa nota fu
scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato dopo trent’anni di
assenza, e mandato a stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi
e di lettere (prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e
ridottomi a passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r
esercizio di un pubblico ufficio mi lasciava, avea potuto, non saprei
diro perchè, immaginarmi che il valentissimo sig. Bellotti fosse già del
numero di quei felici che più non vivono altri- menti sulla terra
che per la memoria di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del
mio errore, non cangio nulla a quello che ho scritto di lui; ma
aggiungo V espressione di un voto, che deve esser quello di tutti gli
amatori delle buone lettere desiderosi di vedere vie più chiara e
più grande la rino- manza di un nobilissimo ingegno: ed ' è che
l’esimio sig. Bellotti, come sta ora, da quanto mi dissero, rivedendo
o migliorando il suo Yolgarizzamento di Sofocle, così possa egli
poi rivedere ed emeudare quello ancora di Eschilo, il quale, a
parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse al- cune
eccezioni, non pecca gravemente che nella parte lirica; laddove in
questo trovai, 0 parvemi certamente trovare, molti luoghi da dover
essere emendati non solo nella parte lirica troppo spesso non
traducibile in italiano (come è in- traducibile Pindaro, secondo che fu sen-
tenziato anche da Leopardi non ismentito dal tentativo più audace
che felice di Borghi); ma eziandio nel dialogo. Ella comjyie
nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche nel senso,
interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero e
com- piuto quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè
il senso voluto esprimere dall’ Ornato non mi sembrava abbastanza
chiaro; e poi, e principal- mente perchè mi parve troppo grande
licenza il tradurre per quanto avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv,
il quale mi sembra qui usato nel senso il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”,
che è quello di proporre, e così l’ intende anche lo Schultz
contrariamente al’Gataker seguito dall’ Ornato. Veggo bene le ra- gioni
che possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma non mi
persuadono. Il pensiero di An- tonino mi sembra chiaramente, l’anima
razionale, la quale non si propone altro che di operare sempre
secondo ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto
ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura, in qualunque istante
le sopravvenga la morte, compie sempre interamente il compito che
ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè stessa; ella ha
tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente esaurita la sua parte
come attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando la natura
lo vuole, è la conclusione, il compimento della parte a lei
assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma della vita
universale. Bone avverte qui il Gataker aver già Socrate usato il
medesimo argomento per indurre Alcibiade a disprezzare la
moltitudine, alla quale peritavasi di farsi innanzi a concionare: qual è,
diss’egli, di costoro quegli che ti impau- risce? forse Micillo il
ciabattieref Trigaió il conciatore f Trochilo il ferravecchio? ora
non sono costoro quelli dei quali si compone V adunanza del popolo? Che
se non temi di favellare a ciascuno di essi separatamente, che è dò.che
ti fa timido a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate
era giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe
anche potuto ricor- dare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li
Ateniesi conservatoci da Plu- tarco: preni ad uno ad uno »iete
tante volpi; riuniti insieme siete tanti allocchi. Ma il medesimo
ragionamento applicato allo cose di cui parla Marco nostro non ò
molto concludente. E una melodia, per es., come qui avverte
opportuna- mente il Pierron, è qualche cosa di più che una semplice
successione di suoni, e Antonino dimentica di considerare ciò
appunto per cui le note musicali hanno potenza da commovere T anima
sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci
era la lotta infelice della volontà e liberta morale dell’ uomo
contro l’ inflessibile necessità; o per dir più veramente, quella
fatale retribuzione di giustizia che risulta inevitabilmente alla
vita umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella
necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il
/«<o non era altro che la concatenazione delle cause secondo le
leggi della na- tura, cioè della ragione e quindi della giustizia;
quella necessità, dico, non era punto una cosa cieca neppure nella
mente dei poeti: sendo che a Nemesi figlia appunto di essa necessità e
particolarmente incaricata di vendicare i delitti e rovesciare le troppo
grandi e- immeritate prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia
(5“tx-ri), che erano i due concetti più puri fra tutte le divinità
immaginate dall’ antico politeismo, il semplice, ma sublime buon senso
dei Greci riferiva tutto ciò che risguarda il supremo governo del
mondo. L’idea dunque della giustizia era congiunta con quella della
necessità^ sebbene in modo diverso, anche nella mento dei poeti,
come in quella degli stoici. Cho se Antonino non fa qui esplicitamente
alcuna allusione a quella retribuzione di giustizia, che era l’elemento
morale della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della
lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea nobilissima
dell’antica tragedia; egli è perchè questa inutilità intendeano gli
stoici e i poeti allo stesso modo, e quasi esprimevano colle medesime
pa- role; laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non
erano forse i poeti quelli clie la intendeano in modo men vicino al
vero. Benissimo il Gataker ricorda qui alcuni detti memorabili di
Pocione, conservatici da Plutarco, ai quali alludea probabilmente
Antonino in questo luogo. Già condannato a morte per giudizio
iniquo de’ suoi cittadini, in proposito. di uno che non ristava dal
dirgli vil- lanie, disse Focione: non sarà alcuno che faccia costui
cessare dal disonorar «è medesimo? E già vicino a morire, questa
sola ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il fatto ingiusto degli
Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco nostro: mpposto che non
e in fingenac, non debbono esser prese come, espressione di nn sospetto
nel caso particolare di Focione, ma bensì in un senso generale,
quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non bastar sempre le
parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle disposizioni interne
dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur quando il fingere
potesse gio- vare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce
inìquo, seguendo lo Schultz che tradusse iniquum. Ma non e ben
risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal
consueto segno. E veramente non parmi che lo ayvcofjLov possa esser preso
in questo senso, sebbene abbia quello ingrato, disleale,
disamorato. Il senso più ovvio di questo aggettivo è privo di
senno, stolto, inavveduto, e parmi che 41 1 reo Aurelio questo senso
quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia quello di
inìquo. Dopo aver detto Antonino essere da pazzoy cioè a dire da stolto,
il volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi
gene- rale ed assoluta, poiché non si può fare altrimenti, che essi
debbano di neces- sità peccare, e il volere ad un tempo che essi
facciano una eccezione a favor tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche
da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è
possibile ai malvagi;.da tiranno perchè vuoi esser distinto e che ti si
abbia maggior rispetto che agli altri uomini. Anche il Gataker
intende 1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto
malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre,
quando deve essere riferito al figliuolo, corno fece O., seguendo Gataker
e Schultz. La medesima sentenza si trova anche nel Manuale del
mede- simo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal
Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai
teco stesso: io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore
com- prenderà facilmente come il senso stoico di questa frase,
tante volte ripetuta da Marco nostro, è al tutto alieno da quello
della famosa sentenza del sofista Protagora: V uomo è misura di tutte le
cose. La sentenza del sofista si riferiva ad ogni cosa, alla verità
obbiettiva, alla moralità come alla sensibilità, e tendea quindi a
distruggere la possibilità' di ogni cognizione teorica, la morale
come la religione. La sentenza di Antonino al contrario, il quale,
per un errore direi quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli stoici
anteriori, tutta l’essenza dell’ uo- mo alla ragione e alla volontà
ragionevele, non si riforisce ad altro che alla sensibilità, cioè ai
piaceri e ai dolori di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi
raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare,
operazione propria dell’intelletto; e nota qui il carattere esclusivo
del Portico, il quale considerava e stimava un nulla, non che la
sensibilità ma l’in- telletto stesso, a paragone dei buon uso della
volontà, cioè della moralità della ragione. Traducendo ho usato il
vo- cabolo raziocinio piuttosto che intelletto, perchè in italiano
il senso della parola intelletto può essere troppo facilmente
confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben
determinata nella nostra lingua, come è fra i due corrispondenti tedeschi
Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad
seipsum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.
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