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Saturday, March 30, 2024

GRICE ITALICO A/Z O

 

 

Grice ed Occelo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania. Occello appears to have held that the number III was the key to understanding the world. However, according to Ippolito, he also believed that in addition to the IV elements – earth, fire, air, and water – there was a fifth principle which was circular motion. Filone says that Occelo believed that it was possible to prove that the world is indestructible.

 

Grice ed Occilo – la setta di Lucania. Roma – filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.  Brother of Occelo di Lucania.

 

Grice ed Ocone: l’implicature conversazionali dei liberali d’Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano Grice: “Ocone has selected Croce as the quintessential Italian liberal! That should please Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like Ocone’s idea of a liberalism without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ – that should please J. M. Jack!” --  Grice: “Speranza has  noted that if Bennett speaks of meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.” Grice: “While meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to make a sign stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism is Humpty Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which conversationalists rely!” Si occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume  ragionata degli studi su Croce pubblicata dalla Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli, che vince l'anno successivo la prima edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce", istituito dall'Istituto Nazionale Studi Crociani.  È stato direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far parte della Fondazione Giuseppe Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di Nazione Futura.  È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione Cortese di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino Craxi, del Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e del Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo.  Attività e pensiero Fonda a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico II, cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito dalla Edizioni Scientifiche Italiane, che si propone di rinnovare il messaggio crociano e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. Nel 2008 i suoi studi crociani prendono corpo nel volume Benedetto Croce, Il liberalismo come concezione della vita, pubblicato dall'editore Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un Croce partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie epistemiche, ha numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così formulato: riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico. Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere  Da ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di essere ostracizzati, vanno per Ocone capiti: pur in modo confuso e contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista, cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi” sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione, che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due “deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e “nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione politico-culturale “Ocone’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”.  Un estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura della traccia della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia BRedazione di un saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La riscoperta della necessità di «pensare»).  Nella sezione Dal dopoguerra ai giorni nostri, Percorso 9f Il dibattito delle ideeDall'“impegno” al postmoderno, Dal periodo tra le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né postmodernisti" da "qdR". Saggi: “Coronavirus. Fine della globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi, Roma,  “Il liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è. Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi, Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova,  (Pietro Reichlin e Aldo Rustichini) Pensare la sinistra. Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino, Soveria Mannelli  (con Dario Antiseri), “Liberali d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli  (con altri autori) “Le parole del tempo. Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami),  Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx” (Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce. Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma); “Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli scritti su Croce; Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in Istituto Italiano per gli Studi Storici  Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi.  Riccardo Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O. perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione Giuseppe tatarella.  Organigramma, su nazionefutura.  Fondazione Cortese di Napoli in//Fondazione cortese/  Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, sComitato Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione.  rubbettino.  Gianni Vattimo Pubblicazioni La recensione, Caffe' Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche, su il Giornale, Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica tedesca, su Gianni vattimo. blogspot. com.  La filosofia politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che filosofo!, su reset.  Attualità di Croce su opac.,  Europa: l'Unione che ha fallito;  opac., La natura del potere svelata dal coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale, Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide.  Chi Siamo, su loccidentale.  MIUR Traccia della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione.  Il piacere dei testi  QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale: breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è: manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Robin George Collingwood, Autobiografia Collingwood; prefazione di Corrado Ocone, su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Donatella Di Cesare, Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e libertà  Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giulio Giorello, su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P.  Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac., Corrado Ocone, Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Karl Marx: teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac.,  ragionata degli scritti su Croce, opac., La genialità di Marx agli occhi dei liberisti,  riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com. Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty a liberal too.” Grice: “Mussolini set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” --  Grice: “The test of a man’s intelligence lies in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the ‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most! Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer: there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’ means that provincials should not appy!” Corrado Ocone. Ocone.  Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale  – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Oddi: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Figlio di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo di Brescia  G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in vita Boltoni , non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che colà infierivano. N e taceremo , come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni , professore primario di medicina pratica estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso, finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale :quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci, ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni: nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè, occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente, rinnovò la scena istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse, coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti saremmo stati esclusi dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e professore della stessa cattedra , m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che pure minacciava apertamente di voler far si che avvenisse. La quale insolenza, divenuta già intollerabile ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li costrinse a partire dallo spedale, e con essi partirono quanti vi erano studenti della nazione alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli altri. Informati poscia bene del fatio i governatori dello spedale , costrinsero il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua pretesa, ingiungendogli, sepur voleva intraprendere qualche esercizio a vantaggio di taluno degli studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro luogo. Cosi, mercè la prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti alemanni, fu vinta l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea ricominciare. Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani per far le vacanze presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O., eccellentissimi uomini e della nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far potessimo qualche profitto nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro pratiche istruzioni quasi ogni giorno nello spedale di san Francesco sino al principio delle lezioni, con gran fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della qual cosa poco io dirò, potendo bene ciascuno dalla rela. zione del mio antecessore rilevare le circostanze tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo nella state invitati parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi vieppiù grati a'nostri, li condussero due volte colà, dando per tutti cavalli e legno il signor O., e quivi gl'instruirono circa il valore medico delleacque termali e deifanghi. Verso lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna per le sezioni anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada veri di quelle donne che morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare alla presenza degli scolari le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare ben tosto que lidi fondamenti della scuola clinica in Padova , che precedette tutte l'altre in Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche nel successivo anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure vennero ad insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle arti in un palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani inPadova (intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace, Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Offredi: l’implicatura conversazionale del lizio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Gli era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna a Pavia e Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza.  Saggi:“De primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus,  Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum mendis oinnibus expurgati, et egregijs  scolijs marginalibus illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN COMMENTARIIS  tractatas, altero, qui quastionum capita copiosissime comple&titur, PRAETERE A DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE  AVCTA IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS. DOCTORIS Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus D  APOLLINARIS CREMONE N. noftri, qui à principio est sicut tabula rasa, & non. 3. de anima tex. in librum primum Posteriorum mouetur ad intelligendum, nisi de potentia ad actí cap.is. reducatur sic autem intelligentia non cognoscunt, Aristotelis, exposition cum semper in actu intelligendi existant, & eodem modo et nunquam in potentia. Bruta etiam non  Mnis doctrina, et discurrunt saltem discursu pfe&to, quamuis in prin-  omnis disciplina incipiosint in potentia ad cognoscendum, & hoc est  telleştiua , ex præpropter imperfectum eorum modum cognoscendi;  existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q aliquo modo, et impertione. Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per idem medium euidenter concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu dum cognoscendi imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus; gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq; intelli-  modum fiunt, & aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt. Cũigitur intellectui  tium. Similiter aút & orationes,quæ p nostro sit potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem; scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti-  utræq; enim per prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum, ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum   naturaliter eft tex.6. 19 B  notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā, & vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare que  semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis di-  aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus in acquirêdo notitia  aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani- habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri, tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum , obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, &  speciebus predicamentorum , prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici cognosci habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione determinatur, et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea nota doctri de inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co-  C F  na nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò in alys Logicelibris conti-  à cognofcétibus propofitiones accipiantur, netur, qui cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de  in altera per singulare iam notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere debet in  versale oftendatur. Simili profe&to modo, telle&tus,o3. de syllogismo, es consequenter de alijs modis arguendi. Diuiditur autem tota illa pars hoc Goratoria rationes fuadent, aut .n.exem  modo , quia ficut in a&tionibus Nature diuersitas plis,quod est inductio,aut enthymematibus reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate fiunt, g&quidē ratiocinatio est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum, quedam vero raro (propter oratoria fuadere. defe&tum aliquem in natura,ficut monftra ) sicin   discursibus rationis quidam sunt, in quibus est nePro inductione expositionis huius libri Pofte- cefsitas, & ifti cum rectitudine rationis habentur. riorum , fub brevitate, videnda funt quædam, v3. Ală sunt , per quos vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam inueniendi, et confetur, non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter fcienciam huius libri, Quis ordo huius libribus eft defectus rationis propter alicuius principi ad cæteros libros logica Arist. Quis libri titulus,et defecttum. Pars logice, in qua de primis determiquid fubie&tú, & fic consequenter habebuntur ipsius natur, iudicatiua dicitur, & eft illa,quæ traditur in Non pigeat hoc cause. Quantū ad primum fciendum est primò, q libris Priorum,& Pofteriorī,dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi fit medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium eft cum certitudine. dum intelligentiarī, er modum Brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam eft analetica .i. refolutoria, co gisa  diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum de effe&tibus baberi nö poffit,nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare col commercio de'demonj , colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie, e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri insignim e dici Cremonesi di questo secolo. Apollinare Offredi s o lenne filosofo, astrologo e medico, lettore di metafisica nello studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV,Filippo Maria Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedica O. i suoi Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali piacemi di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed amico il prof. Baldassare Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al melodo naturale e sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie dottrine aveva proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua storia della filosofia ita liana riferisce alcune proposizioni filosofiche dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e sulle questioni de’libri d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni), dalle quali scorgesi come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse sul sentiero della libera e coscienziosa verità. Quanto alla medicina Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i migliori medici del suo tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi. Il  312   Elogia clariss. virorum Collegii Pisan.1750 negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio non scrive quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in una sua lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna, Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S. Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate dall'Arisi. Boezio, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il francese Giovanni Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum, Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali, tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni aggiunte. Di Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione formarum. La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è autore di un De Intensionc  339  titolo più particolare che sta in testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis incipiunt quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris, domini Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono 114 ed esauriscono tutto il trattato di Aristotele, quelle del Codice di Firenze non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti dell'Indice come sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum , come il Pom ponazzi,manoscritto registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae el privatae, Utin, L'Apollinare, Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte della loro vita contemporanei. Paolo Veneto ha fiorito nella prima metà del secolo XV ed è stato professore a Padova; la sua Somma di Logica e isuoi Commenti supra l'Organo sulla Fisica di Aristotele e specialmente sul De Anima furono celebri e c m mendatissimi. Di esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e Poli nel Supplemento IV al Manuale della storia della Filosofia del Tennemann. L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata Tomo I pag. 248, Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus discipulus ». Fu difensore della filosofia Cristiana contro l'Averroismo; insegnò a Piacenza evi fu aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al De Anima di Aristotele esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso fu stampato più volte; la prima edizioneè di Milano  (Vedi il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia  (esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma) da Boneto Locatelli si trovano 1.o la Logica di Pietro da Mantova; 2.o il trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo instante”) citato dal Pomponazzi nel suo “De Anima” ; 3.o un trattato responsivo di O. Apollinare da Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; 4.° un commento del Menghi alla Logica di maestro Paolo Veneto. Le due opere del Mantovano portano questi titoli. Viiri praeclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter. Incipil sublilissimus tractalus ejusdem deinslanli. Il trattato dell'Apollinare ha per titolo “Illustris philosophi et medici Apollinaris Offredi Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del Mantovano che il Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani) de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl,  -sul “De Anima” un corso che non potè finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini (Bibliothecae Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella libreria privata del Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte, come abbiam detto, che esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle questioni che vi sono registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di Roma è il Commento intero del Pomponazzi sul De Anima di Aristotele, e ciò che più monta e risulta dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua età matura, l'espressione più completa del suo insegnamento più importante, il corso da lui dato o compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segnò l'apice della sua attività, in quell'anno 1520 in cui egli stesso datava dalla Cappella di S. Barbaziano in Bologna il De Naturalium Effectuum Causis, fu ilvelerit de materia prima in rerum natura quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem (cioè la fede) malaria ali quando desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem velminusali quando est de forma tam subslunliali quam accidentali. Sed hoc proposilum non destruil. Er quo sequilur quod si aliquod ens nalurale incipil vel desinil esse, ipsum incipil vel desinit esse propter cjus formam substanlialem quae incipit vel desinit esse. Premessa la eternità della materia, tutto il trattato si aggira sulle difficoltà e le antinomie che possono sorgere dalla applicazione delle categorie del moto e della quantità alla generazione e alla cessazione delle forme nella materia, e specialmente dalla relazione della materia con la forma nei virenti. La qualità delle argomentazioni giustifica la parola sublilissimus aggiunta al titolo del Trattato e ricorda i ragionamenti della Scuola Eleatica e specialmente di Zenone sul moto. Questo libro è uno dei più curiosi esempii dell'ardire pur troppo sterile quanto ai risultati o b biettivi,ma non infecondo quanto alla ginnastica della mente,con cui la Dialettica del Medio Evo e della Rinascenza si accinse alla soluzione dei problemi più difficili. Nel manoscritto di Firenze sopracitato come anche in quello che qui facciamo conoscere Pietro Mantovano è spesso designato colle iniziali P. M. Il Sig. Fiorentino è rimasto dubbioso se queste let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che il Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii. Essendo il Manna cremonese, è chiaro che il Pomponazzi non poteva chiamarlo concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più celebre dei due Trapolini che il Pomponazzi ebbe per maestri, ecco ciò che dice il Papadopoli Libro III, Sezione 2.a capo 6 della sua storia dell'Università di Padova. Petrus Trapolinus Patavii nalus patricia genle....philosophus, malhemalicusel medicus declinante SaeculoXV celeberrimus, Medicinam in Gymnasio palrioprofessuseslutconstatex Albis gymnasticis. VixilannosLVIII; viveredesiitan. MDIX caipsadiequa caplum direplumque Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quaemulla conscripseralperiere. Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali. Di AntonioTrapolino suo precettore in medicinail Pomponazzi parla nella12a delle sue Du Vilazioni sopra il4o dei Meteorologici di Aristotele adducendo le difficoltà che egli scolaro gli opponera su certe cause della mutazione delle forme nei misti. Ivi l'autore avvicina Antonio Trapolino a Gentile Gentili, a Jacopo da Forlì e a Marsilio (di Santa Sofia) altri rinomati professori di M e dicina nell'Università di Padova. Di Pietro Roccabonella che fu pure suo maestro è menzione alla fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo professore oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly obsessed with Pomponazzi. They complained he looked more ‘a Jew than an Italian,’ but he predates Ryle’s Concept of Mind. One of his influences is Offredi, a lizii – who wrote not just on Aristotle’s De Anima (a manuscript Pomponazzi consulted) but who himself set to defend Pomponazzi – to prove that he was a real lizio, he wrote on Analytica Posteriora too – “Only a true lizio will comment on that!” -- Offredi. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Offredi,” The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Olgiati: l’implicatura conversazionale dei classici – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a whole tract to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso Seminari milanesi. Collaborò con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia neo-scolastica e fondò con loro il periodico Vita e Pensiero. Fu insignito da Pio XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Protonotario Apostolico. Inoltre fu, assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e di Giurisprudenza. Fu condirettore della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli. Fu autore di innumerevoli scritti relativi alla religione e all'istruzione. I suoi allievi più illustri furono Melchiorre e Reale. Tomba di Agostino Gemelli mons. O.. Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis, oltre ad essere dedicato a Tolkien, è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte — Università Cattolica del Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi: “Religione e vita” (Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I fondamenti della filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di giuridicità in Aquino” (Vita, Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano); “Il sillabario del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia Bustocca. Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La Famiglia Bustocca, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia. Francesco Olgiati. Olgiati. Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius, Aquino, sillabario, filosofia classica, filosofia no-classica, logica classica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Olimpio: l’implicatura conversazionale di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lived in the middle of nowhere. When he found his city became an uncomfortable place for pagans, he moved to Rome.

 

Grice ed Olivetti: l’implicatura conversazionale dell’archivista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Olivetti deals with some topics dear to me and Strawson, like subject, transcendental subject, and the rest – he also uses ‘analogy,’ which is a pet concept of mine – I have been compared to Apel, so the fact that Olivetti in his ‘conversational’ approach relies on him, helps!” - Professore a Roma -- preside della Facoltà di filosofia. Formatosi nella Facoltà di Filosofia di Roma negli anni sessanta, confrontandosi con i temi del rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti orientato sul versante marxista, storicista, postidealista, trovò in Zubiena il suo maestro. Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo portò a studiare i temi della filosofia della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di Zubiena come organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al tema della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo Zubiena nella cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di questa disciplina come antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima anzi anteriore» su base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave storica, e da ultimo il confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas e Marion, sia con la filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua opera maggiore, l'autore elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e suggerendo una teoria dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base staurologica ed etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim interlocutivo» ibidem).  La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e l'umano non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine dell'etica. Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento del soggetto trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni logica, in modo da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest. Si perverrebbe così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione trascendentale, in modo tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta traccia della rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore dell'Istituto degli Studi Filosofici Castelli e poi dell'"Archivio di Filosofia", si fece promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva, a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia della religione europea e mondiale (P. Ricœur, Marion, Mathieu, Quinzio, Melchiorre, Lévinas, Lombardi Vallauri, Forte, Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine, Falque, Grassi, Paul Gilbert, S.J. Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel Vahanian, Hénaff, Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue prolusioni e nei suoi contributi introduttivi si prospettava lo sfondo su cui si sarebbero esercitati i contributi e le discussioni del Colloquio, di seguito pubblicati in numeri monografici della Rivista "Archivio di Filosofia". I temi trattati erano spesso centrali nell'elaborazione di una filosofia della religione come filosofia tout court e abbracciavano, negli anni ottanta e novanta del Novecento, temi centrali come "Teodicea oggi?", l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia della Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro l'ambito strettamente scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non ne hanno favorito una conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e il suo insegnamento ha lasciato un traccia significativa costituendo una vera e propria scuola di filosofia della religione.  Saggi: “Il tempio simbolo cosmico” (Milani, Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani, Padova); “Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers, Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»  a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele:  Kant I., La religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di ogni rivelazione, con introduzione J.G. Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone, infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione  Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1.  E. Giacca: un filosofo della religione", Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista -- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Olivi: l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Undine). Filosofo italianao. Medico e storico italiano. Anche filosofo. Enrico Palladio degl’Olivi.

 

Grice ed Onato: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Onato or Onata was a Pythagorean. Fragments from his treatise survive. Onato.

 

Grice ed Onorato: il cinargo romano – Roma – filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Onorato is a member of the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato

 

Grice ed Opillo: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Aurelio Opillo segue l'indirizzo dell’orto. Liberto di un epicureo, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie opere, fra le quali Musarum libri IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl. F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik. endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von neun Büchern mit dem Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von Gellius und besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss er sich besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton einen Pinax mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich Opilius mit Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus abgab, werden wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de gramm. 6 Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam primo, deinde rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque variae eruditionis aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex numero divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus et titulis per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106, unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl. philol. Abh.). Charis. (Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius. Aurelio plaret. Vgl. O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis. Jahrb. Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern von indices plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F. Osann, Aurelius Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G. Goetz, Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat. serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn P. Rutilius Rufus war Cos.). Opillo

 

Grice ed Opocher: l’implicatura conversazionale della giustizia – IVSTVM QVIA IVSSVM – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “There are two points that connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I love the problem of the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson (“Individuals!”) – and Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he calls it, of ‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an eschatological study!” -- Enrico Giuseppe Opocher. Con Ravà e Capograssi è considerato uno dei maggiori filosofi del diritto italiani del Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante la Grande Guerra la famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì dapprima nella periferia di Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli anni successivi riportarono un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico crebbe, dividendosi tra la città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue vacanze estive.  Dopo il liceo fu avviato, secondo il volere del padre, agli studi giuridici, benché fosse decisamente più inclinato verso la filosofia. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Padova, ma continua a coltivare i propri interessi personali seguendo le lezioni di filosofia del diritto tenute dRavà. Sotto la guida di quest'ultimo stilò una tesi su La proprietà nella filosofia del diritto di Fichte, con la quale si laurea brillantemente. Ottenuta la libera docenza, vinse il concorso per la cattedra di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che in Veneto era divenuto segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo padovano insegnò ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i corsi di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche e di dottrina dello stato Italiano.  È ricordato in maniera particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul rapporto tra diritto e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale, Lezioni di filosofia del diritto, usato da generazioni di allievi.  Fu magnifico rettore dell'Università. È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo del Bo) le attività cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri.   Saggi:“Individuale” (Padova, MILANI); “Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano, Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia politica e civile – filosofia CIVILE --.  in Scritti, G. Netto, Ateneo di Treviso, Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del Pensiero, Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd. Denominazione attuale: Società Italiana di Filosofia del Diritto, vedi.  Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della tolleranza, in La Tribuna di Treviso, Toni Negri: «Un uomo davvero libero nell'università chiusa degli anni '60», in [Il Mattino di Padova] Giuseppe Zaccaria, Ricordo  Omaggio ad un maestro, Padova, MILANI, 2Giuseppe Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Società Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned with ‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically false a posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English. Both iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht, Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Opocher. Keywords: giustizia – fairness, gius, il concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum – verbal aspect here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia del neo-Trasimaco.”

 

Grice ed Opsimo: la setta di Reggio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. A Pythagorean cited by Giamblico. Opsimo.

 

Grice ed Orazio: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venosa). Filosofo italiano. Orazio fu attirato dai problemi morali ed estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle "Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia morale per la quale vuole abbandonare la lirica (I, 1, 10-23; II, 2, 141-144. Si è notato che dal v, 145 alla fine questa epistola è un protrettico. Ma anche negli scritti precedenti Orazio tocca spesso argomenti filosofici. Scherzosamente, Orazio si chiama Epicuri de grege poreus (Epist. I, 4, 16). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche una disciplina che non deveno essere ignorate. Orazio s’interessa soprattutto per la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica del Giardino d'Epicuro, di cui si scorge l’influsso nella seconda satira del primo libro, e nella terza di questo, in versi che abbondano di reminiscenze a Lucrezioe. Orazio ri-assume la teoria del Orto d’Epicuro sull’origine del diritto e delle leggi. Più volte, satireggia paradossi del Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa. Orazio disegna la caricatura degli stoici capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita. Ma Orazio mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del Portico. Orazio si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la vita semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze e al lusso, Orazio si collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di Orazio è utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente riflessi di teorie del “Lizio” e particolarmente di Neottolemo di Pario, che assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale nella dottrina estetica che Orazio propugna. Quinto Orazio Flacco. Best known as a poet, Orazio was sent by his father to study philosophy. His studies were cut short when civil war broke out after the assassination of Giulio Cesare. His works, frequently advocate the simple country life, and a number of letters he published indicate a continuing interest in philosophy. Although he had friends that followed the doctrine of The Garden, and he was clearly familiar with these doctrines, it is not clear that he ever belonged to any particular ‘school.’ Complete Works, Dent. In an examination of Horace's philosophy, we should not look for that comprehensive love of wisdom generally termed philosophy by the ancients, including science, ethies, and speculative thought. Horace was not the speculative type of man to be interested in the composition of the universe, "Quae mare compescant causae, quid temperet annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168 at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer the pLanete wander ad rol Fone spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius that Is Crazed."). Horace was a realist, concerned with the ethical side of wisdom--with the conduct of life. Horace was thoroughly Roman, and the Romans, except only a few lofty souls such as Lucretius, Cicero, and Virgil, were of a practical, mundane nature. They cared little for the abstractions of speculation. They were born to rule-- parcere subleatio et debellare superdos.*2 than oupire, titg Shail be tnite are, to ozdain the law of peace, to be merciful to the conquered andbeat the haughty down."). The philosophy which appealed to the Romans was that which would give them mastery over self, and hence over the world. But everywhere around him Horace saw the tremendous waste of human energy, struggling nen, feverishly pursuing the bubbles that do not satisfy, frittering away their man-hood, consuming time and not achieving the mastery of life to which their heritage entitled them. For such an audience, then, in whi h the will to live was the dominant characteristie, norace, the sane, tolerant, and sympathetic man of the world, with the insight which comes from contemplation and the inspiration which comes from a realization of the dignity of his task, formulated his philosophy of living, a simple, practicable oode of ethios, to help men to saner, worthier, happier lives; & code which furnished a solution to the problems of life. It is not an explanation of life, but a way of life, something tangible, a touchstone by which men may test their own worth and contentment. How keenly he felt the importance of his mission we may know from "Sic nihi tarda fluunt ingrataque tempora, quae spem Consitiumque, morantur agendi naviter id quod alike to the poor, alike to the rich, and the neglectThe mature sorace was unusually well qualified to undertake this office of sage, monitor, and guide, for he was the product of unusual home training, thorough training 1n the schools of philosophy, and a very varied experience. Horace was ver, fortunate in his home influence. Born of a freedman father, who knew life from the point of view of the toiler, he early aoquired the common sense which 1s the basis of sound living. His father gave him an insight into the things worth seeking, by pointing out the conspiou-ous failures in his own vicinity. Instead of merely advising his son to lite frugally, he called his attention to a certain well-known fellow who had squandered his patrimony. Others he indicated as shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action of certain men whose lives were an example to the wole comunity, and shunning the practices which had made others infamous, he could always have a criterion of conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, horace was sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It 18 the finest possible tributeto the fundamental worth of this rustic freedman that norace speaks ever gratefully and without shame of his humble birth and boyhood training. just what norace's life at the 'University' of Athens may have been, we do not know. sut he gives ample proof of nis entire familarity with both Epicureanism and stoloism. The former, so ably expounded by lucretius, must have made a profound impression on norace, the lover of life. That he had a sympathy with their doctrine of impassiveness (to them the duty of man being to increase to the utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and the highest pleasure being peace of mind) is proved byTempora momentis Tapora potent. Oat qua gordine Dulla ("Not to be exoited about anything, Numicius, is almost the one and only thing that can make and keep a Ion sun and stars and the seasons departing in fixed course there are who view with no tinge of and again "Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, ral eerento ne has esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and soudii, hs eyes stare and he ds dased In another place he allies himself playfully with the more material enjoyments of the Epicureans--Once he admits, hafe shamefacedly, his weakness for the hedonism of Ceristippus ("Now imperceptibly I slip back to the terets of et, tot ne to the worla ate the rorta to And in a second passage he praises the adaptability of Aristippus,3 contrasted with the cynio. But a man with the rigid training of Horace's early years could not be completely satisfied with the superficialities of the Epicureaniem and Cyrenaism. He valued happiness, but he had too much moral fibre to find it either in impassiveness or pleasure for its own sake, and so in spite of his repugnance to the sternness of stoician, and the severity of its "Sapiens", he was drawn toward the positive virtue of the Stoias. No utterance could ring more clearly Stoic than the following: "Vir bonus et sapiens audebit dicere: 'Pentheu, 'Adiman bona.''Nempe pecus, rem,Comed bas entro toste httote tenth maniodsette sub custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.'("The good and wise man will make bold to say, 'Pentheus, Ruler of thebes, what will you force an undeserving man like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under the charge of a grim "The deity himself will free me as soon as I I suppose thig is what he means, 'I will die.' Death is the final goal of things." ) Although he appreciates the value of the stoic tenets he cannot take their asceticism altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling this jest at them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber, honoratus, pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est. "?("To sum up, the philosopher is inferior to jove alone;tingo inga aborea noalthg, sare winen troubiedThus we see that horace was an folectic, sifting from all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his needs. If there appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there are countless ones, we must remember that he regards himself as the physician of morals, ministering to many kinds of ailmente, each one demanding a diiferent prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced to a simple formula. To the Stoics Horace owes his positive dootrine of self control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his superiority to misfortune. To the Epioureans, Horace owes his theory of the wise enjoyment of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of nis own foibles and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune ("I commend the safe ana humble when funds are low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more sumptuous falls to my good fortune,Horace's life experience had been a kaleidoscopic one. His youth had been spent in association with the sons of the wealthy and well-born,andthus he acquired that tact and urbanity which were so valuable in his later relationships, and which enabled him to give advice on matters of social conduct. Then followed his attachment to the hopeless cause of the Republicans, with the disillusionment, loss of property, position, and purpose. such a complete alteration of nis entire life scheme could not but have a tremendous effect. Any faith that he might have had in politios as worthy of a man's best efforts, was of course completely shaken. From that time on he could write with thorough conviction of the insubstantiality of "Ambitio". Besides he realized keenly the moral evils that followed the civil ware, and pessimism and general contempt for nis shameful countrymenHis fresh beginning in kome in a most humble position, gave him the first taste of the real struggle of the great mass of men for the mere means of existence. From this position he could see the weaknesses of the poor, their unrest, and idle craving for the wealth which they failed to see wis not conducive to happiness. It is perhaps from this phase of his existence that orace gained an appreciation of the simple joys of life wich are attainable for all--sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Tastly nis friendship with waecenas, coming after the bitterness of life, afforded him the leisure to devote himself to poetry. ue had learned too well the instability of position to value it over highly, but from this relationship he draws the principles which he lays down as guides for patron and client.The burthen of Horace's philosophy of life is the attainment of happiness. Since he has tasted of the sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to poetry is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first undertakes an explanation of the nature of happiness. Ultimately happiness is the product of a definiteattitude toward life. It is not a mere matter of chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal. the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realize this, must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects them will suffer for his neglect. "et miPosces ante diem librum cum lumine, si non ("and if you will not call for a book with a light before dawn, if you will not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you will be kept awake and racked with jealousy and 1ove.") Men's bodily well-being, in wich they take such a keen interest, 18 not half so important as right living. Si latus aut renes morbo temptantur acutoQuaere fugen morbi. Vis reate vivere: Quis non?"l who does not?") And yet they place every other interest belore the wise regulation of life, either because they are too ignorant to realize its importance, or because they are too slothful and cowardly to face the issues. "Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue inatun,2 ("When you make haste to remove what hurts the eye, Then let every man take thought of whither his life 1s trending-- "Inter cuneta leges et percontabere doctos, Qua ratione queas traducere leniter sevum; ("In the midst of all you must read and question the what lessens care, what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of a iise mo 10e4. When once men do come to acknowledge that nappin-ess in not an accident, but tie logical outcome of & well considered and consistently pursued course of life, they should give prompt attention to these matters of vital moment,and thus horace indicates the first step toward the new life.Multit e arttase fygere et sapteatia prineAnd once aroused it will not seem so difficult, for"Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really desires happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is worth achieving can be won only atthe expense of vigorous effort."Sedit qui timuit ne non succederet. "3 osame has beer afraid of fallure, has remainedAnd again,"Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt any serious reformation. Norace invites him to draw inspiration from his own altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum. "Leroa.("I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you know witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have had my sport, but would be, not now to out it short.")Inconsistency 1s no disgrace, if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, don't delay, but act at once!"Qui recte vivendi prorogat horam("He wao postpones the season of upright living is like It gidea and will glide, rolling on to all time.""out downWith this awakened interest, norace thinks it wellfor each man to test to the fill each of the things wich men from time immemorial have deemed the "gunmum bonum", with a view to adopting as his one, whichever one seems to have the most real vaiue, to bring the calmand contentment that are significant of a life well lived. The decision is amomentousone :"Non qui Sidonio contendere callidus ostro lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque medullis, Quan qui non poterit vero distinguere falsun. "3 ("He who has not skiil to know now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in Aquinun, will not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he who will not be able to discriminate the false from the true.")Try virtue first of all. "Si virtus hoc una potest dare, fortis omissisHoo age delioiis. "1("If virtue alone can bestow this, manfully give up pleasures, and make her your aim.") Or try the pursuit of wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the heap.")Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat, Meroemur servum qui diotet nomina, laevumQui fodicet latus et cogat trans pondera dextram Porrigere. *4("If pomp and popularity secure bliss, let us buy a slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to stretch our hand over the counter.")And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem. "5"elonge that a thousand eyes gaze on you as youOr test the pleasures of food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons,Quad deceat, guid non, oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not "gt us takebaths, forgetful what 18Or the satisfaction of mirth--jests.")Then, having advised each man to try for hinself, for each must be the best judge of his own life."Metiri se quemque suo modulo ao pede verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to measure hamsel or hieAnd he will never be sure that one of these thinge might not have proved the key to happiness until he has used it and found Its futility, Horace sung up the decision which each is bound to reach.Abstract virtue is a hollow thing,"Virtutem verba putas etLnoun 11gna, "3("You think virtue words, and a holy-grove sticks.")As Cioero says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly fitted to men who consist of both body andsoul. It is too cold, too remote, andVre guan satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more satisfactory thanvirtue as a "summum bonun", for its weaknesses are all too evident. Even granted that it does have many undoubted advantages,"Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret Suadele eaus due, w2("For of course queen Cash bestows a wife with a dowry,ney tan le acornid mith Sua bon and Lode .ho man ofhundred; so you will be one of the masses.")Yet how fleeting wealth 1s!"Quiequid sub terra est in apricum proferet aetas;Defodiet condetque nitentia. And the summum bonum must be a permanent thing. rurther-more peace of mind and good health are not conferred by it--Non animo curas."4ind poia gat ar res tover son the asting oods bratheir lord, or troubles from his soul.") Nor is pleasure a necessary accompaniment of riches. Nam neque divitibus contingunt gaudia 80118. "5("I'or pleasures do not fall to the rich alone.")And his advice is bad who bide you get money rightly or not,by hook or crook, just so that you may get a nearer view of the plays of Pupius, for after all, they are lachrimose plays, and why see them nearer?Besides, in the gest for wealth alone, you areprone to lose the sense of all other values--("He has lost his armour, has deserted the post ofполог,who is always slaving, entirely absorbed in augmenting his fortune.") Ambition cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see the ignominy that it carries with it. One must seek thefavor and the gifts of the fickle Roman mob"Plausus et antoi dona Quiritis, "3and make friends of all sorts of peopleUt oulque est atra, Tia quengue deotus adopta teand although the world applauds a man today, tomorrow its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts former favorite stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition will convince a man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit. "5 pass de not de bad life whose barta and deata have Furthermore the unrestrained indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both body and mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so men must rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne voluptates; nocet empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight bought with pain is hurtful.")None of these external things, then, can be regardedas the "gummum bonum", since not only do they fail to bring the happiness all men are longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and distress which plague theworld."Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo cupiens pacto; pavor est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret utrumque.Sa guto ue ast mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et corpore torpet?"?("He who fears their opposites excites himself much in the same way as he who covets them, the flurry in both cases is a torment,whenever the unexpected appearanceagitates the one or the other.Whether one joys orif at every-It is not that in themselves these things are wrong--only that they are externals and one must not attach too much significance to them. It is because men have overestimated them that the three greatest ourses of the age have come upon the world--superficiality, restlessness, and greed.Since men are always looking for something tangibleas the secret of happiness they have bedome shallow, have grown to care far too much for outward appearance, and far too little for inward appearance, and far too little for inward worth."Si curatus insequali tonsore capilloslee mediai credis neo curatoria egere("If I have met you with my hair dressed by theha hare & hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my toga sits unevenly and awry, you laugh;whole round of life, pulls down, builds up, exchanges the square for the round?lou thinkmine an ordinary madness and do not laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee appointedtortune8, and tume aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of theAnd this same belief that happiness lies inexternals makes men restless--a feverishness that manifests itself in the iorm of travelling, forever pursuing the happiness which forever escapes them. now foolish it is to try to escape the things which batfle one by seeking another clime!"Sed neque qui Capua romam petit imbre lutoque Aspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs.Dum licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et Fhodos absene. "2AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe praised, and uhois, and far-off Rhodes.")The peace for which men are searching may be attained anywhere if they only know the secret."Nam si ratio et prudentia curas,Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum mutant qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus atque("So that in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit is common sense and wisdom that remove cares, and not a spot which commands a wide sweep of sea, their climate, not their mind,they change whorun across the sea.An active idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por totH at u20ra0, 1 a contented sptritThe people are merely consuming time, not living, who are forever on the march. They exhaust their energies and gain nothing but discontent.And of these curses of looking to externals forhappiness perhaps the worst is the ourse of avarice. Why seek for much in the world when one can use so little and more cannot delight?"Quod satis est ous contingit ninil amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire nothingThe grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion---There can be no tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing desire."Semper avarus eget; certun voto pete finem. "3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed 80a1 to yourWhat a misshapen monster avarice is anyway--"Belua multorum es capitum. Nam quid sequar aut quem?"4("A many-headed monster you are; for wnat or whom shall I follow:")As soon as one head is cut off new heads appear, so that it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, "5How helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses and westor."Nestor componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by love and both in common by wrath.and angerThere as Bannin nithin the valls o ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth, or any of these external things, which in a limited measure may contribute to the richness of life, but beyond the golden mean, pursued as an end in themselves, are the cause of so much misery, discarding all such inoidentals men must look for the real source of happiness within themselves. When men are dissatisfied, it is not the world which is wrong, but their own attitude toward the world.In culpa est animus, qui se non eifugit unquam. "Ihates his own. with the harmless place; it is the mind that is at fault which never escapes itself.") Two great doctrines Horsoe presones--the wise controlof life and the wise enjoyment of life.the first thing men must learn is to adapt themselves to circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice in the world, to realize that such a thing as periect happiness is nowhere existent and that all life 18 an adjustment.solue puae posot eret estare beatum,2 Saost the one ate ony thng Lhat on rate andkeep a man happy.")Chafing and fretting against the established order of the universe, against life's seening inequalities, only serve to augment their hardships. When once men do face the facts of life and bring themselves Into accord with them, things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked upon with indifference.("Yon sun and stars and the seasons departing infixed courses there are who view with no tinge of dread.")And it 18 not only for his individual well-being, but for the benefit of the state as well, that he have this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen to are deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are dissatisfied with our fortunes, our bitterness will taint every relationship in life, but if we are sane, life will look back at us with the same calm expression--"Sincerum est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean, Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem, speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general, forthat very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say that he strangled his father. de deserved the commendation they gave him yesterday no more than the slander they heap upon him today.caliny terig put ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how pernicious this false praise is and to what lengths it leads men."Leu, si te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you are in sound and perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour ofR2E2™E60atill paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the world they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly they are praying to the gods of trickery to shield their crimes from detection. 3ecause one is not a thief or a murderer he has no right to demand praise, for he has his reward already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae. "*("You will commit no crime through fear of punishment.")Good men desire virtue for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare boni virtutis amore."("Good men hate sinning through love of virtue.")For it is what you are that really counts, not what the world thinks. Even the school boy realizes this.("Yet the boys at their games say: 'You will be king if you act rightly.'However many of the externals of life fortune man have given a man, if he is weighed down by the sense of his own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the manconsoious of his own rectitude feare neither loss of property or of life."Si forte in medio positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream wereFreedom is another element in this wise regulationof life--freedom from all these externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in the orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the man who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of riches has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized what a hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper position, else it may take out of his hands the direction of his life--it will either be his master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia culgue, "3("Each man's hoard of money is his master or his slave.")Horace boasts of his own freedom from the opinionof the masseg--Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom, but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea, curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole."Invidus alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni maius tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's goodly• treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous of others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem. "IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1 fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. "*("The gods have given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous. "5("It remains for you to go where iuma and Anous have descended.")There is no hope of a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet he is not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and since there 18 only this brief span of years for every man, ending all too soon in oblivion, let him on that account make the best possible use of each day--"Carpe Diem" --so that thedoom of death will appear only as a dark background enhancing the brightforeground of life. Looking foward, looking backward breed discontent. Think only of the present.The surest way to get all the possible joy out oflife is to live every day as though it were the last--Grata superveniet quae non sperabitur hora. "I("Amid hope and care, amid fears and passions, believe every day has dawned for you the last; so, welcome shall arrive the hour your will not hope for.")If men keep this thought ever in mind they will f1ll each moment so full of the richness of living that there will beno regrets, no joys postponed to a future day which will never be theirs, when the summons of death does come.This means that to avoid disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have given them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu, neu dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater("Whatever hour the deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you have lived apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men not hoard it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I am not permittedThe man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too severe 18 next door to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of the really worth while sources of pleasure are within the reach of all. shere 18 health--There are all the delights of the country and out-of-door life--"Ego laudo ruris amoenirivos et musco circumlita saxa nemusque.brown rocks and wood.king, as soon as I have lorsaken tnose soenes you extol to the skies with loud acclaim.") And--"Novistine locum potiorem rure beato? Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel accepit Solem furibundus acutum? Est ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius Mbyois olet aut nitet herba lapillis?"4("Know you a place preferable to the blessed country?I nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar and the commotions of the Lion, when once he has gone mad by receiving the stings of the Sun?Is there a spot where envious care less distraots our slumbers? Is the scentThere is simple food which nourishes without distressing--"Pane egeo iam mellitis potiore placentis. "I"Besad, is what I want now more pleasant than hondedThere is sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus aptum. How foolish it is to want more when these things, if properly regarded, will make one's life rich and blessed--The wise nan will learn to value and employ what is within his reach.Not the least of the joys of life is friendship.There is a deal of the utilitarian point of view in orace's advice about sooial interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one, contact with other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said, "Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make himself as agreeable as possible. temust not pry into people's secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia, for thereby he simply makes himselfObnoxioug~~"Asperitas agrestie et inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and offensive.")When he takes up the oudgels in defence of some trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina,Propugnat nugis armatus. Equally disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit,Ut puerum saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas. "6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam et subducta viatica plorat,("He who has been taken as a companion to Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote 1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around, for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem, taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes, as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship, for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so that when accusations assail one who is well known, they may protect him and back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid desset."? went are & of arlends  Low, when those who wantAnd it is a source of shame to a man to be mock-modest and refuse to help another when it is in his power to do so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued my influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.") Tact is absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time for everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must await a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he would please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu fortunam, sio nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune, so shall we yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social interoourse isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of host and guests. The host should be most discriminating in his choice of guests so that all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That like meet and be associated with like.") and that all be the kind which will not make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus atota forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be none to carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an invaluable thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has become estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of life is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivamQuod superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat et aufert;Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire 2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions for each year, trembling on the hopes of the man. Orazio.

 

Grice ed Ordine: l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Diamante). Filosofo italiano. Professore a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del Rinascimento e Bruno. Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno, è anche uno dei migliori conoscitori attuali del milieu sociale, artistico, letterario e spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età moderna.Sigillo d’Ateneo dell’Urbino. Centro  di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile” (Milano, Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno” (Teorie & oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo);  “La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard e la religione” (Milano,  Cortina); “Teoria della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re. L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo, Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was a PRIEST before he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a priest, as A. J. P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher. Campanella was a priest too, and I’m not sure about Telesio. I mention the three because while there is a Keats-Shelley Association in Rome, only the Italians can think of ONE centro di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI – enough to have a triple split personality!” Nuccio Ordine. Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso, risus significant laetiia animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi telesiani, divenne centro di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! – telesio not a priest!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita dell’utilitarismo di Geremia Bentham” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Orestada: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean cited by Giamblico. He frees Senofane from slavery – as cited by Diogene Laerzio.

 

Grice ed Orestano:  l’implicatura conversazionale dell’opzione eroica –  filosofia siciliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo italiano. Self-described as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something pompous about Italian philosophers and their isms – Orestano’s ism is the superrealism!”  Grice: “When I was invited to deliver my lectures on the conception of value, I was hoping it was a first, but Orestano had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano, Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano, Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano, Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca, Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova Europa” (Milano,  Bocca); Prolegomeni alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano, Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano, Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”; “Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della moda e questioni sociali,  Dizionario Biografico degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in  Federalisti siciliani tra XIX e XX secolo, A. R. S. Intergruppo Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di storia, in  La politica tra storia e diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano);  Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O.  Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va   speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il  artista o un politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per  . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.   glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del  MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta,  W (rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta.  (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F ,  1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 , , limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00.   pure evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”.  Queste formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C , lim W (gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di  e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”.  Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0  T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or ora  ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella guerra o il duello, negativi.  Se il progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >.  Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di binomi: gr g+1 1 T   (go+ 1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica, sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni. Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè, anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato. Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme, un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La psicologia è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti, consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li chiamava Genovesi, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua utilità, sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella proposizione universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere che i dubbii della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i risultati che la psicologia ci potrà offrire non avranno valore di modificazione del contenuto normativo della  morale, ma bensì tenderebbero a modificare il carattere formale di essa, come dottrina del dorer essere e come scienza. Al Congresso medesimo Calò presenta una comunicazione intorno alla Calderoni ritiene che l'assenza della ricerca e della sufficiente analisi di quello ch'è il fatto ultimo e irriducibile su cui poggia tutta la vita morale, il giudizio etico, ha impedito il costituirsi dell'etica come scienza. Molto ha anche nociuto “la nessuna, o quasi, distinzione che si è fatta tra il giudizio etico e il giudizio teoretico o conoscitivo, La morale deve invece ricercare come ogni altra scienza, dei fatti ultimi, elementari, irriducibili su cui fondare l'edificio autonomo delle proprie investigazioni. L'elemento irriducibile, la realtà ultima, da cui deve prendere le mosse ogni dottrina morale, è un fatto psicologico, un sentimento,  non uccidere per esempio, apparterrà sempre al contenuto normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre la psicologia intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le conclusioni intorno al fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla simpatia saranno negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione presenta i caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti sociali, oppure i caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la valutazione etica e una gradazione fondata su altra base, non su quella della realtà effettiva dei fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno positive, l'etica, assumendole come sue proprie, avrà a fondamento il significato psicologico e antropologico dell'umanità morale e potrà scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine TAOROZZI ri-assume il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere dalla scienza, e che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano universale valore massime conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’ “Ama il tuo prossimo. Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un sentimento, d'un'azione, d'una determinazione volitiva, tale giudizio si presenta alla nostra coscienza con un sentimento particolare di approvazione o di disapprovazione. L'esame retrospettivo ci dice, che quel giudizio non risulta da un meccanico sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato (buono, giusto, ecc.), dal paragone delle loro estensioni e connotazioni rispettive, dalla rivelazione pura e semplice del loro rapport. Ciò che interviene, e ciò che più importa, è il sentimento di approvazione o di disapprovazione, di adesione o di ripugnanza. Qui si presenta un problema fondamentale. Trattasi di vedere se il sentimento di approvazione o di disapprovazione accompagni semplicemente, come effetto o come carattere, la rivelazione del rapporto in cui l'obbietto considerato è con quel predicato. O se quel sentimento appunto renda possibile la costituzione del predicato e quindi, mercè la capacità di riferimento propria della ragione, l'enunciazione del rapporto. Questo problema non può essere risoluto senza una analisi comparativa del giudizio conoscitivo e del giudizio valutativo. E quest'analisi mostra appunto che, mentre nella funzione conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto, nella funzione valutatrice è, al contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere è constatare, attingere ciò che è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello spirito non è di chi constata, ma di chi reagisce. Non di chi afferma e riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge qualcosa risultante da ciò che in lui non corrisponde, ma risponde alla realtà conosciuta. E l'atteggiamento non di chi afferma o nega, ma di chi si sovrappone alla realtà, o che le assenta o che le si ribelli, sia che lodi, sia che condanni. Mentre, per il teoretico, il sentimento è un accessorio trascurabile, per il moralista, esso è la vera realtà etica, poichè il senti mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto di giudizio etico. In ultima analisi, ogni giudizio etico si riduce ad approvazione o disapprovazione d'un sentimento, d'un istinto, d'una volizione, d'un'azione. Ora l'approvazione e la disapprovazione non sono che due speciali sentimenti, due forme diverse d’uno stesso sentimento, il sentimento del valore. Ilgiudizio etico, dunque, intanto è possibile in quanto si compie una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la ragione valutativa ch'esso suscita in noi. E, insomma, questa stessa reazione che costituisce tutto quanto noi diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto come soggetto del giudizio. Si direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica quanto e come vive nel senti mento valutativo. Questo poi varia e quasi si determina e si atteggia diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e di venta volta a volta sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico o dei loro contrari, di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o di stima di se stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che ognuna di queste determinazioni del sentimento di approvazione e di disapprovazione ha una sua individualità e che l'analisi di esse ci dà l'analisi di tutta la coscienza morale. Il sentimento del valore, come fatto fondamentale della coscienza etica, si pone a norma della realtà interiore e dispone gerarchicamente i vari istinti e le varie tendenze. Un'altra sua proprietà è anche quella di avvertire ogni atto che rappresenti un non-valore come un'intima contradizione, il che dà luogo al sentimento particolare dell'obbligazione. Il sentimento del valore è dunque di sua natura tale da assumere, di fronte al resto della realtà psichica, un'attitudine speciale e da contrapporre all'esistenza di fatto un'esistenza di diritto. Esso si distingue profondamente dal piacere e dal dolore, perchè questi sono stati subbiettivi interessanti semplicemente l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del valore è obbiettivo anche rispetto alla individualità del soggetto che giudica. Il sentimento del valore oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio benessere individuale; sono io che sento, ma non perme. Altro carattere differenziale è questo, che nei sentimenti di piacere e dolore lo stato subbiettivo è confuso con l'oggetto della rappresentazione, mentre nel sentimento del valore, l'oggetto è nettamente distinto dall'atto valutativo e può essere rappresentato come obbietto di conoscenza teorica. Ciò ch'è piacevole e spiacevole non esiste che nel sentimento e per il sentimento, mentre ciò ch'è valutato è chiaramente rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è insomma conosciuto. Non si può valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero che la valutazione si presenta spessissimo sotto forma di preferenza e il valore viene appreso comparativamente ad altri come plus-valore o come minus valore. Sebbene il giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel sentimento,esso non esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della funzione conoscitiva, la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la funzione apprezzativa. La grande varietà dei giudizi morali osservabile fra individui diversi dipende appunto dal diverso modo come sono appresi e considerati gli obbietti,dai diversi elementi che ci pone in luce la funzione conoscitiva. Così, mentre l'analisi del processo della valutazione etica è compito della psicologia morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni morali si riferiscono non possono esser tratti analiticamente dalla natura stessa dei nostri sentimenti di valore. Essi possono essere determinati in parte in base alla considerazione di rapporti for mali della volontà, in parte in base all'esperienza storica e sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative. Calderoni, nelle sue Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è recentemente proposto di porre in rilievo talune concordanze fra le leggi economiche del valore e della rendita e le valutazioni morali sociali. In tal modo egli crede che l'economia politica possa apportare un contributo positivo alla scienza della morale e aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale può considerarsi, così Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste vengono fatte da taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali oppongono a queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore, e richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del produttore, Calderoni accenna più particolarmente a due specie di disarmonie economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione, e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da Calderoni così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut  consumo si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti, per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni Calderoni passa a rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero, a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli  Vi è nella vita una gran quantità di atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò Calderoni vuole opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica. In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende strettamente dal nu  e la un virtù, virtù, mero di persone sedute dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni, individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione; mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto maggiore è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni si troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito, individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita. Grice: “I love Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin ‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do I” --.  Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della nazionalita, l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico, l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni.  Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.

 

Grice ed Grice ed Oribasio: l’implicatura conversazionale di Marte, o la scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano.  – Giuliano’s personal philosopher. He shared Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises survive.

 

Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale nella logica della monarchia romana – i sette re – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Grice: “Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer, is supposed to take part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori della Repubblica Romana. “De' paragrandini metallici”  (Milano, Fondazione Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente. La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia, dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria. Tentando di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro centinaio di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne catturato dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco Bandiera (padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.  Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della città.  Quando Pio IX concesse l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia.  Fu eletto deputato al parlamento della Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani, Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari, Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli.  Riconoscimenti Il comune di Vallerano (VT) lo ha onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, G.  Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi, «Lettere Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  -- rità assai leggieri, e, se grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della dignità regale nella città de'sette colli, ha dovuto essere da  me corretta, e ridottasotto la forma seguente. Come lo abbiamo già detto, la successione al trono, mai non appartenne in Roma a fi gliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi (Numa, Servio, Tarquinio il Superbo). Lo sposo della figliuola Maggiore fu a tutti gli altri preferito (Servio). Quando i generi erano morti, la successione passa ai primogeniti del primo genero (Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo concerne; Anco Marcio). Quando si tratta di due re, in luogo di un solo, e di quella magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a quello, secondo l'ordine legale due figli di genero (Remo e Romolo; Bruto e Collatino). La figliastra del re fu equiparata alla figlia nel dritto di dare il trono al marito, o aʼsuoi discendenti maschi, in un tempo ,in cui probabilmente figlie proprie non esistevano (Tullo Osti). Quando non v'ebbero, nè generi, nè figliuoli di generi, il trono passa a’nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta contingenza, come legittimi eredi de’dritti degli ascendenti loro (Tullo Ostilio, se si preferisce l'ipotesi , nella quale egli è nipote d'una figlia di Romolo maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la memoria, è stato ugualmenle un genero di re (Numa Marcio); due altri, ne'quali' non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto (i figliaoli d'Anco ); due di che solo si parla presso Plutar  se si ricusi di considerare 1'Ersilia dalla quale discende, come figlia di Romolo, e se si rispetta la tradizione, secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più ilpadre adotetivo della seconda Ersilia. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramandò il suo grado nell'erede necessario della moglie: Bruto rispetto a Lucrezio Tricipitino suo successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in non cale imaschi,ricadde in unapersona e slranea,cioènonlegatadipiirentelacolla fami glia reale (Tarquinio Prisco). Quando, non ostante l'aversi eredi legit timi per parte di donna,una persona estranea conseguì la dignità regia, ciò avvenne contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio). Non altra è l'espression' rigorosa de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti correggerne la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se posso dirlo, in nessun modo 'temeraria.'Le mie autorità , i miei ragiovamenti , non sofferirono contraddi zióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si volle 'solamente avvertirmi che nel mio si stema erano alcuni fatti dubbiosi, e ricavati perconghiettura.  stato . co: Voleso e Proculo,sono statiproposti senza gran fattofermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità di candidati, e sembrano'avervi rinunziato essi stessi; finalmen tefurono messi innanzi inun tempo ,nel quale tutto che concerne le leggi relative alla succes sione regia era evidentemente suggetto di contro versia , e dispuldvasi intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io risposta, ioviho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni; lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè (per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo d'anui), non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini, sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. Francesco Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ornato, o dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino con Antonino – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna Piemonte). Filosofo italiano. Visse vita ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva le scienze fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con singolare amore le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana, Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei “Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, O. Becchio  G. Calogero, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto, ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo nel sogno. Quello,  proprio del giovane troppo dedito al  senso. Questo, del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire il difetto del giovane si esorta  a fuggire quello del vecchio. Il carattere  che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare, cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo  ogni volta che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la compassione senza aggiungere con Epitteto che  ella debba essere puramente esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima, e contrario alla natura, il saggio non essei'c  accessibile alla compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §, dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge  talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul  punto particolarmente della compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso tutti gli  uomini e Antonino uno stoico poco fedele al  principii della sua scuola, e segue  piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento della pietà  essere il carattere distintivo delle belle e grandi anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non  togliete nè Voltare dal tempio y nè dalla  natura umana la compassione. Fu in questa  deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del Portico [PORTICUS – stoici], Antonino e stato preceduto da altri  stoici romani illustri. Il che non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il cuore soltanto del malvagio non è capace di  essere ammollito. E però il severissimo CATONE, già deliberato in quanto a sè di morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per non lasciarsi cogliere in Utica da Cesare vincitore, come avea pur pianto alcuni  anni innanzi per un fratello amatissimo, quando trovandosi esso Catone al comando di una legione in Macedonia, alla  novella che il detto fratello era moreute in Enos città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare tempestosissimo, e giunto in Enos trova il fratello già spento (Plut., vita di Catone).  E pianse certamente Cornelio Tacito, benché stoico anch’egli, quando, dopo aver narrato come era vissuto e morto, non senza sospetto di veleno, Giulio Agricola suo suocero, aggiungeva queste  patetiche parole. Beato te. Agricola,  che vivesti sì chiaro e moristi sì a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto; quanto a te, quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla  figliuola tua, oltre all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto; avremmo pure raccolti precetti e detti da stamparli nei  nostri animi. Questo è il dolore, il coltello al nostro cuore.Senza dubbio. 0 ottimo padre, per la presenza della  moglie tua amatissima, ti soverchiarono  tutte le cose al farti onore; ma tu se stato riposto con queste meno lagrime,  e pure alcuna cosa desiderasti vedere  al chiudere degli occhi tuoi. Fra le varie divisioni dei beni  appo gli stoici, l’una è questa, che dei beni altri sono finali, altri efficienti,  altri e finali insieme ed efficienti. I beni finali sono parte della felicità e  la costituiscono: gli efficienti solo la  procurano: i finali ed efficienti insieme  e la procurano e sono parte di quella.  Del primo genere sono la letizia, la libertà deir animo, la tranquillità, ecc.  Del secondo, l’uom prudente ed amico;  del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene efficiente,  perchè muove con la sua dispozione  razionale la tua diapoaizion razionale  (lib. V), cioè è occasione a te di buone azioni. E nello stesso modo è un  bene di quel secondo genere ogni cosa,  o sia pensiero o altro, che è occasione  a te per camminare verso la perfezione. Di questo bene parla ora Antonino. Il quale, per lo esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere accompagnato  ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che costituisce la felicità,  non attrae invincibilmente il tuo volere;  ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si sottragga da tutte le altre cose che ne  lo possono sviare (conferisci quello che  ne insegna la teologia intorno alla grazia). E quando Antonino chiama questo bene razionale (che è attributo generale  del bene appo gli stoici), il fa per opposizione al preteso bene degli Epicurei, che è sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo  bene, giudica che il bene sia sensibile:  noi il giudichiamo intelligibile. E più  sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste cose era necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la maggior  parte dei cementatori ed interpreti ha  voluto cangiare la parola efficiente in  civile o vuoi sociale con manifesto danno  del senso e del pensiero di Antonino. Dispensazione in greco “economia” vale generalmente governo della casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della casa, le quali  da per sè sole non si farebbero (come per esempio il risparmiare certe spese  perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di quella), quindi  è stata applicata questa voce ad ogni  cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun pregio in  sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata sovente in questo  senso dagli filosofi latini di tarda età, e stoici ed altri, e massimaniente dai padri della chiesa. È tra noi  disusata perchè è disusato il concetto ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo  dei citati sotto essa voce nel V. della  Crusca (Medicina del cuore). Per divina dispensazione avviene che, per li  pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione ed infermitade arda e salvi  l’anima. Da una nota d’O. credo che, quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di parere, il senso di  questa espressione con libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con  liberalità di parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende lo  £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle preghiere, Antonino intenderebbe di biasimare le preghiere che  non mirano che all’interesse proprio di  chi lo fa. E però loda quella preghiera  degl’Ateniesi, i quali, al dire di Pausania, solevano pregare non solo per  tutta l’Attica, ma anche per tutta la Grecia. Auto nel senso peripatetico e  scolastico, è l’affezione costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla disposizione che è variabile. Appo gli stoici è la forza o virtù (andreia) che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi favellano, è spirito (intendi aria) che mantiene il corpo e il contiene: perchè l’ente ò  corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra per tutte  le cose particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come abito (pietre, legni); nelle altre come natura (intendi principio organico mero: piante,  alberi); nelle altre come anima (principio animrle mero: bruti); nelle altre ancora come mente e+ ragione (anima ragionevole universale e sociale appo Antonino; uomini. Le cose governate dair abito sono adunque i corpi  dove non è altro principio costituente  che il generale di corpo: dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che quella affezione (modo d’essere) costante por cui sono il tal corpo  anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che noi  chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al carattere  generale di corpo v’ ha già il carattere  d’organizzazione. Nelle cose governato  dall’anima, oltre al carattere di cor poreità e di organizzazione, v’ha di più  quello di animalità ecc. Le classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un  luogo corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei dire  precisamente quali sieno le emendazioni  seguite o fatte da lui, perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di  questo paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non intelligibile, è anche manchevole, essendone  stato lacerato via, non so da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio. Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della  sua interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia scritto al principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto  paragrafo non so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii  nel volgarizzamento vuol dunque essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose. La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche mutilata.O. non la tradusse in alcun  modo, riserbandosi di farlo quando avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte note. Nel  mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz, non perchè  egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi corregge in un modo e chi in  un altro, e chi ancora difendo la vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker, il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui il granchio (fan pietà Dacier o Joly  che seguono ciecamente Gasauhono,  come fa pure Barberini: iMilano poi  è la stessa pecora sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme, siccome  fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv  e il ToO xóojjiou ’hys.u Qvixdv; quando anzi  nella distinzione di queste duo cose è fondato il senso di tutto il paragrafo. La toO  SXou qjvlcjis è la potenza creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou  è la potenza governatrice, dipendente da  quella prima, generata, o formata da quella prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo non meno che il corpo; e la mente dell’uomo  poi gOTema il corpo. Il senso adunque  di tutto il paragrafo è questo. La natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il mondo, dan-dogli, per così dire, un corpo ed una  mente. Ora, o questa mente, a cui è  affidato il governo del mondo, segue la  ragione (perchè la mente nel senso dello  ^ìf£|jiovixbv può anche talora essere sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha determinate  generalmente dà principio la natura formatrice del tutto, sono involute in  quella prima determinazione, sono conseguenza necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente  non segue sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere che non solamente le cose di  minor conto che ella fa, ma anche le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere sragionevole nè anche  in quelle di minor conto; dunque tutte le cose vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo migliore se l’ autore  avesse potuto ripulire e pubblicare egli  stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta in  essa è ingegnosissima, naturalissima e  confermata da tutto quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù óXov (pdcjts), la  potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane;  la potenza governatrice, la mente che go-  verna il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou),  generata da quella prima, è all’incontro,  nell’attuale diversità delle cose,' nella  nauìra naturata, nel mondo propriamente  detto e composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso  corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora da aggiungersi  Pierron. Ed è tanto più  da stupire che il sig. Pierron abbia egli  pure sì mal compreso, in quanto che,  avendo egli già prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere suf-  ficientemente versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole della  Grecia. Quasi tutti i traduttori hanno  franteso questo luogo, pigliando l’iwoia  per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il senso  letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te  stesso come uomo) soffre cotesto, soifre  cioè che tu dica esser nato a goder dei  piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio  di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le  prétendre. Colia bontà delle singole azioni  vuotai procacciare di ben comporre la vita.  Il testo e bravissimo. Talvolta  troppo fedele alla lettera e studioso di  conservare tutta la brevità dell’ origi-  nale, avea tradotto: ai vuol comporre  la vita mettendo inaieme le azioni ad una  ad una; poi comporre inaieme la vita  accozzando le azioni ad una ad una;  poi allogando le azioni ad una ad’una.  Non credo che so avesse potuto ripu-  lire e terminare egli stesso il suo la-  voro, si sarebbe contentato di alcuno  di questi tre modi, che tutti peccano  di oscurità e di ambiguità. A costo dì  essere men breve, io ho creduto di dover  essere piò chiaro non solo in questa  frase, ma in tutto questo paragrafo,  svolgendo un poco il concetto dell’autore siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti fran-  tendono. 0.   Nel novero degli interpreti che fran-  tesero questo luogo comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz. L’errore  sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae  col ófUTw che precede; laddove si   riferisce all’azione alla quale l’animale  ragionevole tendea e nella quale è stato  impedito. E ciò pare che abbia poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli posto  una virgola dopo il óutù.  (15) Se tu vo/eafi ftema la debita ri-  tterva.., che da lei etesaa; cioè a dire:  se tu volesti assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile; questo atto della tua volontà  fu veramente un male, perchè, come è  detto altrove, l’ animai  ragionevole non dee voler nulla che non  sìa in poter suo, ed anche il bene re-  lativo, non dee volerlo se non se con-  dizionalmente, cioè in quanto sia possibile; rimpossibilità essendo per gli  stoici sinonimo di non voluto dalla natura e dal destino, al quale il savio  non dee ripugnare. Che se poi la cosa  voluta da te fu una di quelle che non  sono pur buone in senso relativo, e  quindi il volerla fu un appetito, pren-  dendo il vocabolo volere nel significato  volgare, cioè un moto del senso, piut-  tosto che della volontà ragionevole; tu  non ricevesti nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma  bensì mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo  la tua propria natura non puoi essere  impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai  diversamente dagli altri interpreti che  io conosco, Gataker, Schultz e Pierron), e questo senso  ho procurato, di esprimere traducendo. O. lascia una breve nota a questo  luogo, ma in essa non fa che avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la  povertà dell’italiano,comparativameute  al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di  traduzione, tutti laboriosissimi, come  appare dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od ultima  prova scrisse: Sta qui fermo, perche  farai peggio se cangi. Non fu quindi  senza molto bilanciare che mi risolsi a  fare io, come feci, una quinta prova,  essendomi sembrato che il miglior par-  tito fosse qui di tradurre letteralmente,  e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad illustrazione del senso stoico di  tutto il paragrafo ricordiamoci priiniera-  inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è la forza motrice  della materia, è la natura generale, e  r anima vivificante del mondo; conside-  rato dal lato morale, è la ragione eterna  che governa e penetra l’universo, è la  provvidenza benefica, è il principio della  legge naturale che comanda il bone e  proibisce il male. Ricordiamoci ancora  che l’aria, come uno dei due elementi  attivi e parte essa stessa della sostanza  divina, ò dagli stoici considerata come  il principio della vita sensitiva. Dice  adunque Antonino: non contentarti ora-  mai di essere unito con Dio a quel  modo solamente che sono uniti con lui  gli esseri solamente sensitivi, cioè per  mezzo della respirazione; ma fa’ ancora  di unirti con lui a quel modo che si  appartiene agli esseri intellettivi, cioè  con cognizione e accettazione libera  dello scopo che Iddio ha proposto al-  r accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi dall’aria ambiento  gli elementi della tua vita sensitiva,  traggi ancora dalla ragione ambiente  gli elementi della tua vita intellettiva. L’esistenza delle' cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg  cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo-  p^). Qui mi pare che fosse il caso  di dovere assolutamente abbandonare  la lettera e contentarci di esprimere il  senso del testo, piuttosto che cercar  di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione.  E tu stesso ti alteri continuamente, e  peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era  contento, come appare dall’usato segno.  E in vero che significa quel tutte le cose  vanno soggette a mutazione f Significa, e  non può significare di più, che tutte le  cose possono essere mutate e lo saranno  effettivamente quando che sia; ma ciò  liou esprime quella condizione delle cose,  per cui non hanno stato, o modo di essere che perduri pure un istante senza  mutamento, che è la vera condizione  delle cose secondo il pensiero di Anto-  nino e voluta esprimere da lui. Chi do-  vesse tradurre questo luogo in tedesco,  lo potrebbe fare, parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem  anclera-werden; come si dice in werden  non solo dai filosofi, ma anche nel lin-  guaggio famigliare, quando di una cosa  che non è ancora, ma si sta incomin-  ciando 0 si va facendo, si suol dire:  Die Saehc iat noch ini werden. Ma la  nostra lingua non ha tutta la flessibi-  lità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè  permesso il dire in italiano: tutte le coae  sano in un continuo mutarai. È una singolare coutradizione  di Marco nostro e di, altri stoici poate-  riori il venir cosi spesso parlando con  tanto dispregio della materia che aottoatà  alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi  anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto e  bellissimo, il cui corpo è la materia, e  l’anima, Dio (vedi i Ricordi passim, e  specialmente X, 1). Le rughe sul volto  del vegliardo, le screpolature delle ulive  e del fico vicini ad infradiciare, la bava  del cignale ed altre sì fatte cose hanno  pure una certa grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è  nelle suo parti che non conferisca alla  bellezza del tutto. Perchè dunque ora  tanto dispregio non solo per tale o tale  altra parte, ma universalmente per tutta , la materia che sottosta, quando questa  materia, che non è poi altro per gli  stoici se non se il suhstratum indeter-  minato di tutto il contingente sensibile,  è essa pure sostanza divina secondo la  scuola?  Intendi: « o tu voglia dire che  il mondo sia stato formato di atomi.  ed abbia quindi origine dal caso; o che  sia stato formato di nature (essenze,  entelechie, monadi), ed abbia quindi  per origino l’ intelligenza, o la natura,  che qui è sinonimo di intelligenza; que-  sta cosa pongo io certa anzi tutto, come  tratta dalla mia osservazione immediata,  che io sono attualmente parte di un tutto  governato da una natura. » Con altre  parole: « o tu faccia venire il mondo  dalla pluralità, o tu lo faccia venire  dall’unità, ella è cosa di fatto che io  ci ravviso attualmente una pluralità  governata da una unità. » Il qual me-  todo di filosofare, per cui, lasciata stare  la disputa intorno all’origine delle cose,  si viene ad esaminare la realtà attua-  le di esse; lasciato stare il lontano e  mediato, si viene ad osservare l’ imme-  diato e prossimo; lasciata stare la co-  gnizione dedotta, si viene a far capo  alla cognizione di fatto acquistata per  osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che appo  stoici mondo, tutto, natura, Dio sono   V   sostanzialmente la stessa cosa, e però  quelle che poco innanzi furono chiamate  parti del tutto, qui sono dette della  natura. Dìo, natura, mondo, tutto sono  espressioni diverse che corrispondono a  modi diversi di considerare una stessa  cosa, e questa diversità è relativa alla  mente finita dell’uomo che non può si-  multaneamente contemplare gli aspetti  e momenti diversi delle cose, e non alla  realtà obbiettiva. Quindi ò che le espres-  sioni soprascritte sono non di rado usate  runa per l’altra, poiché sostanzialmente  significano la medesima cosa. Il mondo  KÓrfixog), dice il Laerzio, era  dagli stoici considerato: 1® come causa  0 pbtenza informatrice di tutte le cose  che sono {natura nuturans, i; t£-   Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale, come  artefice e informatrice di sé medesima,  trae da sé stessa e informa tutte le coso con suprema saviezza e divina necessità,  cioè secondo le sue leggi che sono quelle  della ragione; 2" come la totalità delle  cose informate e ordinate dalla potenza  informatrice immanente in esse e go-  vernatrice di esse (dotta allora  xòv Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera  vivente, il vivente organismo, o corpo  organato da quella {natura naturata);   finalmente come l’unità dei due, cioè  dell’ organismo vivente e della forza or-  ganatrice e governatrice, in quanto l’uno  non si distingue dall’altra se non se  per la contemplazione della mente finita  deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione  di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’O., perchè non avrei  saputo quali altre più chiare sostituir  loro; atteso che io non son sicuro di  intendere qui nè che cosa abbia voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una  nota; ma non la fece, e non trovo altro,,  che si riferisca a questo luogo, ne’suoi  manoscritti, se non se un cenno pel  quale è indicato che egli lesse qui ò, ti  risolutamente^ ove tutti gli altri, che io  conosca, lessero &ti; e che egli intese  r Ù7TÓ0OU diversamente da tutti gli altri  interpreti. Gataker e Schultz  che lo segue da vicino, non sono più  chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del tutto. Così l’Ornato svolse ed  illustrò il pensiero di Antonino espresso brevissimamente e, parmì anche, poco  chiaramente nel tosto. Non ho mutato  quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’Ornato, sia perchè ho  motivo di credere che ne fosse già poco  meno che contento egli stesso, trovando  io questo paragrafo nettamente ricopiato; sia perchè non avrei voluto correr pericolo (li alterarne benché minimamente il  senso, trattandosi di un luogo che egli  intese assai diversamente da tutti gli  altri interpreti. Vuol dire che non bastano le  impressioni buone che noi riceviamo per  mezzo della sensibilità, le quali possono  e sogliono venir cancellate da impres-  sioni contrarie, ma ci vuole anche il la-  voro deir intelletto che riduca quelle ad  unità e le fermi cosi nel nostro spirito,  formandone come un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazio-  ne dello spirito alle cose di circostanza,  ma ci vuole ancora la contemplazione,  l’ applicazione dello spirito alle cose  permanenti, al generale immutabile.  Solo col ridurre ad unità il moltiplice,  a generalità il particolare, si possono  radicare le cognizioni nell’ anima, la  quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza cui la semplicità del cuore dee far rimanere se-  creta naturalmente nel cuore, ma non  artatamente celata; ed allora è l’ani-  ma veramente grave e soda e come chi  dicesse, veneranda. Sul fine del para-  grafo fa la enumerazione delle diverse  categorie alle quali si dee riferire l’oggetto osservato. Questa nota dell’ Ornato che per le  troppe citazioni del testo greco non  può qui darsi che in parte, trovasi in-  tera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non  era possibile il tradurre altrimenti.   Del resto vada a rilento chi per la  sola ragione del non potersi tradurre  sempre colla stessa voce una stessa  parola del testo, accusa Antonino qui  ed altrove di arguzia. Gli stoici crede-  vano che, là dove è una stessa parola,  debbe essere anche una stessa idea. Ed  anche Platone (vedi il Cratilo) il credette; e il credette il Vico: e tanti j  altri il credettero: e noi il crediamo.,  Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più annessa al nostro amare, ciò j  non prova altro se non che il greco e  l’italiano sono due lingue diverse. E  sap evadicelo. Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un  tiranno od un re, gli par di udire lodato  e magnificato un pastore, perchè egli  munga di molto latte; e l’animale cui  pasce e munge il re, gli pare anche più  ritroso e più infido di quello cui pasce  e munge il pastore; nè men rozzo nè  meno ineducato stima egli l’uno che  l’altro, mancando ad amhidue il tempo  per badare a sè, e vivendo il primo fra  le mura della reggia a quello stesso  modo che l’altro nella capanna sul monte. Del resto, il senso generale di tutto  questo paragrafo, non bene inteso, se-  condo me, dagli interpreti, mi pare che  sia: Tu dèi farti capace sempre pih cho  tu puoi vivere da filosofo in questa tua  corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad ogni passo esempi di quel che dice Platone:  uomini che vivono nei palagi come fa-  rebbe un rozzo pastore in sul monte:  ingolfati cioè quelli e questo nelle cure  materiali del governo dell’armentoV E  sottintende: se per costoro il palagio  non è altrimenti che una capanna, non  può ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui Antonino di raccomandare a sè medesimo anche  ' questo genere di contemplazione, cioè  a dire lo studio dei fenomeni, e delle  maraviglie, come egli dice sapientemente, “dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è  altro studio il quale possa per via più  compendiosa e sicura condurre alla co-  gnizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa reggitrice  del mondo. Nè l’uorao può presumere  di conoscere sè medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste mara-  viglie, cioè come si formi, cresca, si  conservi, si rinnovi e deperisca il suo  corpo, quale sia la natura e il modo  di operare della causa o principio a  cui dehbonsi riferire questi fenomeni,  quali le relazioni di questa vita orga-  nica del suo corpo con quella del prin-  cipio che in lui sente, vuole, e pensa,  e come possano questo due vite modificarsi fra loro scambievolmente. In vero  chi aspira a conoscere sè medesimo,  per quanto sia dato all’uomo di pur  conoscere sè stesso, e non cura di co-  noscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si compone  Tesser suo, porta gran pericolo di er-  rare nel vano, e di prendere astrazioni  por realtà, il che avvenne appunto agli  stoici, ignorantissimi di anatomia o  quindi più ancora di fisiologia. Perchè  uno appunto degli errori fondamentali  della loro filosofia, quello por cui mu-  tilavano la natura umana escludendo  da essa la sensibilità che riferivano al  corpo come a cosa straniera all’ uomo  propriamente, il quale per essi non era  altro che ragione e volontà; questo er-  rore, dico, è in gran parte da attribuire  alla imperfezione delle loro cognizioni,  ai loro errori circa la costituzione fisica delluomo e le relazioni in che ella  si trova colla sua costituzione morale  e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro totale ignoranza dello  leggi che governano i fenomeni dell’or-  ganismo corporeo dell’uomo, delle rela-  zioni intimissime della vita di esso organismo corporeo con quella della mente,  e della natura egualmente spirituale di  ambidue. Questi versi sono di Omero e  sono dei più famosi nell’antichità, dei  più spesso citati e ripetuti, imitati dai  poeti posteriori; o però Antonino non  li scrisse per intero, ma solo quei brani  che sono stampati in corsivo, bastando  quelli a richiamare alla memoria i versi  interi, alle diverse sentenze contenuto  in essi alludendo egli poi nella parte se-  guente del paragrafo. Con questi versi Glauco (dopo aver  detto magnanimo Tidide a che mi chiedi  il mio lignaggio?) incomincia la sua risposta a Diomede, il quale, prima di  accettare il combattimento con lui,  aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe.  Io li ho tradotti letteralmente, giovan-  domi in parte della traduzione del Monti,  la. quale, come nota a tutti i lettori,  avrei volentieri dato qui inalterata, se  in essa fosse più fedelmente espresso,  e nell’ ultimo verso non interamente  guasto il senso delle parole di Omero. Il qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom  nasce e così muor: il che fa fare un falso  sillogismo a Glauco, il quale secondo  la traduzione del Monti, concludendo,  affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che dovea  affermare delle schiatte umane, mutando,  come direbbero i loici, nella conclusione  il piccolo termine, che nella premessa  minore- non era uomo ma schiatta o  stirpe, come disse il Monti. E pure il  verso di Omero ò chiarissimo. Questo  strafalcione il Monti non avrebbe fatto  se, come quasi ignorante del greco, con  tante altre traduzioni avesse saputo consultare quella mirabilissima, non  solo per eleganza di stile ma ancora  per fedeltà, precisione e chiarezza, del  Voss, il quale in cinque bellissimi esametri tedeschi traduce letteralmente i  cinque esametri greci. Anche il Pope,  sebbene i suoi lavori sui poemi di Omero,  tutto die pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione,  non fece qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare dei  nostri che con nobilissimo intendimento  si diedero all’ardua impresa di recare  nella nostra lingua chi l’una e chi l’altra  di quelle poche reliquie che ci rimangono della greca poesia (dico poche  rispetto a ciò che fu divorato dal tem-  po); i quali avrebbero meglio inteso e  meglio tradotti moltissimi luoghi se  avessero potuto consultare, se non tutti  gli interpreti, cementatori ed espositori,  almeno i traduttori tedeschi. Ma basterà  che io nomini il più valente, a parer  mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne  forse una più intima notizia del greco,  nulla mancava, non valor d’arte, non  felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla perfezione, dei tragici greci. E in vero,  leggendo io le traduzioni del Bcllotti e  riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in moltissimi luoghi ad am-  mirarne la eccellenza, anzi direi quasi  in tutti quei luoghi dov’egli capì ab-  bastanza intimamente il suo testo e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche in molti  altri luoghi io ebbi a lamentare che  egli pure non abbia saputo o potuto  giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte  da* suoi predecessori alemanni. Nel solo  Agamennone, che anche considerato in  sè stesso e non come parte di una  grande e sublime trilogia, è forse il  più bel monumento della scena antica,  e certamente il più grande di tutti per  sublimità tragica, recondita filosofia,  splendore di immagini e copia di alti  e forti pensieri, quanti errori avrebbe  evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire a quella  grande anima e colossale ingegno di  Eschilo, so egli avesse solo potuto pro-  fittare della traduzione e dei Prolegomeni di Humboldt? Non dirò  del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo^ che forse non era an-  cora pubblicato quando il Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è tanto più da  lamentare che a Bellotti siano mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare  che sia presto per sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello  che avrebbe potuto il Bellotti. Ritornando al paragrafo di Antonino  e al luogo citato di Omero, è da notare  come siffatti pensieri intorno al poco o  niun valore della vita considerata in sè,  e di tutte le cose umane e dell’ uomo  stesso, così frequenti nei poeti ebraici;  frequentissimi in questo scritto di An-  tonino e divenuti quasi abituali nei  cristiani dei primi secoli, si trovino  pure non di rado anche nei poeti greci  più antichi, voglio dire in quelli delle  prime e più splendide epoche della greca  letteratura, sebbene i Greci fossero un  popolo di allegra immaginazione. Forse  non dispiacerà al lettore il vederne  qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre nulla  di più infermo che Vuomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che  siatn noi dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte. L’uomo è l’ombra di un  sogno. Nel Prometeo di Eschilo  e non vedevi V imbecille natura a  vano sogno eguale onde è impedito il cieco  umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,  perocché veggo  non essere noi, quanti viviamo, altro che  larve ed ombra vana. Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete  chiama sè medesimo: ombra di un  fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare  tutte le cose umane come un' ombra, E  vuoisi notare come appo i tragici ed  anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che durano  un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo,  alludeva evidentemente Antonino con  quelle sue parole: il più breve detto,  anche di quelli che sono i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli di  Omero. Questa nota fu scritta in tempo che  io, quasi appona ripatriato dopo trent’anni di assenza, e mandato a stare in  un cantuccio al tutto vacuo di studi e  di lettere (prendendo i vocaboli in un  senso un po’ alto), e ridottomi a passare  nella solitudine i pochi momenti d’ozio  che r esercizio di un pubblico ufficio mi  lasciava, avea potuto, non saprei diro perchè, immaginarmi che il valentissimo sig. Bellotti fosse già del numero  di quei felici che più non vivono altri-  menti sulla terra che per la memoria  di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non  cangio nulla a quello che ho scritto di  lui; ma aggiungo V espressione di un voto,  che deve esser quello di tutti gli amatori  delle buone lettere desiderosi di vedere  vie più chiara e più grande la rino-  manza di un nobilissimo ingegno: ed '  è che l’esimio sig. Bellotti, come sta  ora, da quanto mi dissero, rivedendo o  migliorando il suo Yolgarizzamento di  Sofocle, così possa egli poi rivedere ed  emeudare quello ancora di Eschilo, il  quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse al-  cune eccezioni, non pecca gravemente  che nella parte lirica; laddove in questo  trovai, 0 parvemi certamente trovare,  molti luoghi da dover essere emendati  non solo nella parte lirica troppo spesso  non traducibile in italiano (come è in-  traducibile Pindaro, secondo che fu sen-  tenziato anche da Leopardi  non ismentito dal tentativo più audace  che felice di Borghi); ma  eziandio nel dialogo. Ella comjyie nondimeno..», si avea  proposto. Mi sono scostato, anche nel  senso, interamente dall’ Ornato, il quale  avea tradotto: ella rende intero e com-  piuto quanto ella avea fatto fino allora;  primieramente perchè il senso voluto  esprimere dall’ Ornato non mi sembrava  abbastanza chiaro; e poi, e principal-  mente perchè mi parve troppo grande  licenza il tradurre per quanto avea fatto  fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi  sembra qui usato nel senso il più ovvio  del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è quello di  proporre, e così l’ intende anche lo Schultz contrariamente al’Gataker seguito dall’ Ornato. Veggo bene le ra-  gioni che possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma  non mi persuadono. Il pensiero di An-  tonino mi sembra chiaramente, l’anima razionale, la quale non si propone  altro che di operare sempre secondo  ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura,  in qualunque istante le sopravvenga la  morte, compie sempre interamente il  compito che ella si avea proposto, e  in modo soddisfacente a sè stessa; ella  ha tutto ciò che potea desiderare, ha  totalmente esaurita la sua parte come  attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando la natura lo  vuole, è la conclusione, il compimento  della parte a lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma  della vita universale. Bone avverte qui il Gataker aver già  Socrate usato il medesimo argomento  per indurre Alcibiade a disprezzare la  moltitudine, alla quale peritavasi di  farsi innanzi a concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impau-  risce? forse Micillo il ciabattieref Trigaió  il conciatore f Trochilo il ferravecchio?  ora non sono costoro quelli dei quali si  compone V adunanza del popolo? Che se  non temi di favellare a ciascuno di essi  separatamente, che è dò.che ti fa timido  a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate era giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe anche potuto ricor-  dare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi conservatoci da Plu-  tarco: preni ad uno ad uno »iete tante  volpi; riuniti insieme siete tanti allocchi.  Ma il medesimo ragionamento applicato  allo cose di cui parla Marco nostro non  ò molto concludente. E una melodia,  per es., come qui avverte opportuna-  mente il Pierron, è qualche cosa di più  che una semplice successione di suoni,  e Antonino dimentica di considerare  ciò appunto per cui le note musicali  hanno potenza da commovere T anima  sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci era la  lotta infelice della volontà e liberta  morale dell’ uomo contro l’ inflessibile  necessità; o per dir più veramente,  quella fatale retribuzione di giustizia  che risulta inevitabilmente alla vita  umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il /«<o  non era altro che la concatenazione  delle cause secondo le leggi della na-  tura, cioè della ragione e quindi della  giustizia; quella necessità, dico, non  era punto una cosa cieca neppure nella  mente dei poeti: sendo che a Nemesi  figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di vendicare i  delitti e rovesciare le troppo grandi e-  immeritate prospérità, a Nemesidico,  e alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i due  concetti più puri fra tutte le divinità  immaginate dall’ antico politeismo, il  semplice, ma sublime buon senso dei  Greci riferiva tutto ciò che risguarda  il supremo governo del mondo. L’idea  dunque della giustizia era congiunta  con quella della necessità^ sebbene in  modo diverso, anche nella mento dei  poeti, come in quella degli stoici. Cho  se Antonino non fa qui esplicitamente  alcuna allusione a quella retribuzione  di giustizia, che era l’elemento morale  della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea nobilissima dell’antica tragedia;  egli è perchè questa inutilità intendeano  gli stoici e i poeti allo stesso modo, e  quasi esprimevano colle medesime pa-  role; laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non erano  forse i poeti quelli clie la intendeano  in modo men vicino al vero. Benissimo il Gataker ricorda qui  alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai quali alludea  probabilmente Antonino in questo luogo.  Già condannato a morte per giudizio  iniquo de’ suoi cittadini, in proposito.  di uno che non ristava dal dirgli vil-  lanie, disse Focione: non sarà alcuno  che faccia costui cessare dal disonorar  «è medesimo? E già vicino a morire,  questa sola ingiunzione fece al figliuolo:  dimenticasse il fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole che seguono  di Marco nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser prese come,  espressione di nn sospetto nel caso  particolare di Focione, ma bensì in un  senso generale, quasi dicesse Antonino  con istoica riserva, non bastar sempre  le parole a dar certo fondamento a un  giudizio sulle disposizioni interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere,  neppur quando il fingere potesse gio-  vare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce inìquo, seguendo lo Schultz  che tradusse iniquum. Ma non e ben risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal  consueto segno. E veramente non parmi  che lo ayvcofjLov possa esser preso in  questo senso, sebbene abbia quello  ingrato, disleale, disamorato. Il senso  più ovvio di questo aggettivo è privo  di senno, stolto, inavveduto, e parmi che  41 1 reo Aurelio questo senso quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia quello di  inìquo. Dopo aver detto Antonino essere da pazzoy cioè a dire da stolto, il  volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi gene-  rale ed assoluta, poiché non si può fare  altrimenti, che essi debbano di neces-  sità peccare, e il volere ad un tempo  che essi facciano una eccezione a favor  tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è  possibile ai malvagi;.da tiranno perchè  vuoi esser distinto e che ti si abbia  maggior rispetto che agli altri uomini.  Anche il Gataker intende 1’ àyvwi^ov  così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre,  quando deve essere riferito al figliuolo,  corno fece O., seguendo Gataker e Schultz. La medesima sentenza  si trova anche nel Manuale del mede-  simo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco stesso:  io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com-  prenderà facilmente come il senso stoico  di questa frase, tante volte ripetuta  da Marco nostro, è al tutto alieno da  quello della famosa sentenza del sofista  Protagora: V uomo è misura di tutte le  cose. La sentenza del sofista si riferiva  ad ogni cosa, alla verità obbiettiva, alla  moralità come alla sensibilità, e tendea  quindi a distruggere la possibilità' di  ogni cognizione teorica, la morale come  la religione. La sentenza di Antonino al  contrario, il quale, per un errore direi  quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli  stoici anteriori, tutta l’essenza dell’ uo-  mo alla ragione e alla volontà ragionevele, non si riforisce ad altro che alla  sensibilità, cioè ai piaceri e ai dolori  di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare, operazione propria dell’intelletto;  e nota qui il carattere esclusivo del  Portico, il quale considerava e stimava  un nulla, non che la sensibilità ma l’in-  telletto stesso, a paragone dei buon  uso della volontà, cioè della moralità  della ragione. Traducendo ho usato il vo-  cabolo raziocinio piuttosto che intelletto,  perchè in italiano il senso della parola  intelletto può essere troppo facilmente  confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i  due corrispondenti tedeschi Verstandnis e  Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad seipsum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Oro: l’implicatura conversazionale -- Grice e Trissino – la difficoltà dei segni di Trissino non favorì la diffusione della sua filosofia – filosofia italiana  (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO (Vicenza).  Filosofo italiano. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò, infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che riguarda la cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva rimodellare la poesia italiana.  Fu anche un grande diplomatico e oratore politico in contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila, Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X, Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per conto del papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo, come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto Andrea Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino Vicenza, che venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto della bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O. nacque da antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima metà Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti di Milano invase alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di Trissino, feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello al servizio della Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi, ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice insieme a Domicilla Thiene di San Silvestro.   Targa marmorea che Trissino fece realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in S.Maria della Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida del dotto bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita. Alla morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Il 19 novembre 1494 sposò Giovanna, figlia del giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare,  Francesco, Vincenzo e Giulio.  Trissino sostene l'Impero come istituzione, come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania, l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato "dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi 110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova", privilegi trasmissibili ai propri discendenti.   Stemma di Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna, Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito, Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri. Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino, cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi, le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche).  In seguito si recò a Roma, dove stampò nel 1524 la Sofonisba (dedicandola papa Leone X), la prima tragedia regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per segnalare alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole, venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della cattedrale di Vicenza.  Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi fondamentali: la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia, Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso. Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla.  Queste opere sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio: orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della Milizia Aurata.  Secondo quanto riportato dallo storico Castellini, Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio l'arcivescovado di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia, in quanto desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio avviato nella gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di Bartolomeo O. Da Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro come erede universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo lottò in tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di eresia calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi rapporti con Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia, dove morì il 21 settembre 1540.  Trissino manifestò il proprio fervente sostegno all'Impero dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo poema in 27 canti L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato, come si vede fin dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Nel 1548 stampò anche la commedia I Simillimi, anch'essa la prima commedia regolare.  Villa O. di Cricoli (VI) Intanto nella villa di Cricoli alle porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata dal padre Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine. Qui Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura, Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio Pollione.  Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras), che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della poesia italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta, i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che allora infuriavano.  Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio), due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua, idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni.  Questa intensa speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi: innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica, traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi, attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso (padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.  Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date:  Dà alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta.  Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca, modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche del Petrarca (occhi di stelle e simili).  Il Castellano è un dialogo sulla lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto, fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità dantesca non era ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito sulla lingua italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il fiorentino Machiavelli al quale il Trissino aveva letto il De vulgari eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni, Baldassarre Castiglione.  Poetica Le teorie che soggiacciono a questo vasto programma vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto e ispirazione dalla società rinascimentale.  Sul piano linguistico immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre, che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di dialettismi.  Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca. Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre, inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel melodramma.  Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga teocritea e del poema omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni genere vengono date ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le unità di tempo e di luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative, per il poema epico. Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda fantastica costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire raccontata dall'inizio alla fine, e i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti attorno ad essa, tutti per un solo scopo, e le loro vicende dovranno venire concluse entro l'arco del poema, non lasciando nulla in sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una caratteristica che gli diventerà propria, viene dal Trissino investito di un alto valore morale e politico, profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasformano in un percorso di formazione morale e culturale.  Per questi tre generi nuovi, il poeta propone l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno dell'esametro e del trimetro giambico classici (vedi paragrafi sottostanti).  Sul piano dello stile e dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e di Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello stile poetico l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le parole le cose di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione medievale e bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario e registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco l'insuccesso di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in scena con L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi sciolti in 27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con Ariosto.  L'idea che soggiace alla composizione dell'opera è illustrata nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un volgare illustre che contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o anche latine e greche, come infatti nel poema avviene. Come detto più volte, inoltre, lo scopo del poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso dei modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura, arte militare e via di seguito.  Il poema è ligio, insomma, a quanto stabilito nella Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico cioè la guerra gotica tra l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che occuparono l'Italia (per la quale il poeta segue lo storico bizantino Procopio di Cesarea), che viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente) pochi protagonisti ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno specchio di altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che sarebbe anche un percorso di formazione bellica e morale del suo lettore ideale, cioè Carlo V stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti italiani, fu uno dei più clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana, come noto, anche se ebbe un impatto profondissimo. Critiche violente vennero da Giambattista Giraldi Cinzio (che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco Bolognetti, ma non solo. I quali derisero il poema per la sua imitazione pedissequa dei valori dell'eroismo classico (grandezza e generosità d'animo, nobiltà e gloria), per l'attenzione estrema alla corretta applicazione delle regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un rilievo psicologico ai personaggi, assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa parola per parola del modello omerico (ma in generale di tutte le moltissime fonti tradotte dal poeta) fu ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento venne a scontrarsi con la prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza rima costruito in maniera formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende il dettato fiacco e stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui il poeta si dilunga nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della Roma medievale, di città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe geografiche dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di seguito, soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è addirittura corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di difficile lettura.  Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia un posto di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi solenni e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione, tipicamente aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della Controriforma.  Sarà proprio alla fine del secolo, infatti, che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma non solo.  “I simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli sono indicati da lui stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia antica -- Menandro è stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della quale il Trissino ha fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte poetica di Orazio) ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da Plauto (essenzialmente i Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente, mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere linguistiche  Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino, stampato con lettere aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I suoi saggi di filosofia del linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola, Castellano, Dubbi, Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese discussioni suscita il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare l'alfabeto classico italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell' “Ɛpistola del Trissinω” delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua italiana”, dove suggerisce l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e consonanti della fonologia greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi resi allora, e ancor oggi, con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed “ω”) e chiuse, z sorda e “z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione dell’“i” e dell’ “u” con valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v).  Ri-propone questa idea, sebbene ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico della Crusca (cruschense) Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei secoli a venire, invece, la sua proposta di utilizzare la “z” al posto della “t” nelle vocaboli latini che finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione” -- oratione > orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal signo “v” (uita > “vita”)  I punti principali dell'abecedario riformato sono i seguenti: carattere fonema Distinto da Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O chiusa [o] V v V con valore di consonante [v] U u U con valore di vocale [u] J j con valore di consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA” “ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee vengono confermate. Nel Castellano, propone il modello di una lingua cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B.  Rucellai, che nel poemetto in versi sciolti Le api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e della dottrina ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello e sì alto pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli umani ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii d’Acheronte ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei mortali». Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del pensiero platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin, O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti, ), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse in Germania.  Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim, Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la sua morte  e vi verrà coinvolto, invece, il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione.  Il suo poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio, Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S. Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di riferimento privilegiato.  Bisogna fare a questo punto una distinzione essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma), riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.  Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede), da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”, infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”), ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza dell'opera tassiana col poema trissiniano.  Mentre nel Rinascimento i critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera  in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera (non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede, animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba, considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto, alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino (prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.  Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che, meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il secondo è Carducci che stronca  il poema ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici, non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese, poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe possede una copia delle Rime trissiniane  Opere: “Sofonisba, tragedia Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana; De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli; Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini  Gian Giorgio Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio Trissino, Miniatura di O.. Incisione da Castelli La vita di Giovangiorgio Trissino, Targa a O., in piazza Gian Giorgio Trissino. Targa posta sulla casa natale di Gian Giorgio Trissino, in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a Firenze, raffigurante Giovan Giorgio Trissino, membro dell'Accademia Neoplatonica che lì ebbe sede.  Bernardo Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e Giacomo a Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino, Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT  JOANNES O. GASP. FILIUS PRÆCEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato; Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Giambattista Nicolini, Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si cerca, si può cogliere".  Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio Magrini, Reminiscenze Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o Monografia di un letterato, Silvestro Castellini, Storia della città di Vicenza.  Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin, O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare cugini di altri rami della medesima famiglia.  La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre, accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes, la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et Cricoli au XVIe siècle,.  Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI, voce O. nel sito Treccani L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia dell'Italiano.  "Palladio" è anche un riferimento indiretto alla mitologia greca: Pallade Atena era la dea della sapienza, particolarmente della saggezza, della tessitura, delle arti e, presumibilmente, degli aspetti più nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio talvolta femmina che, al di fuori della sua relazione con la dea, è citata soltanto nell'Eneide di Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il nome possa avere un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi, La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della mostra dedicata a O., in occasione dell’anniversario della promulgazione dello Statuto del Comune, organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e Pro Loco di Trissino.  L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti, Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi fondamentali:  Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino, oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri Pozza, Sulla Sofonisba:  E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino, Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C. Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle Rime:  A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa):  F. Ermini, L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del Trissino,Storia della Lett. italiana,Milano, Garzanti, Marcello Aurigemma, Letteratura epica e didascalica, in Letteratura italiana,  IV, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla Controriforma, Bari, Laterza, Marcello Aurigemma, Lirica, poemi e trattati civili del Cinquecento, Bari, Laterza, Guido Baldassarri. Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, Renato Bruscagli, Romanzo ed epos dall’Ariosto al Tasso, in Il Romanzo. Origine e sviluppo delle strutture narrative nella cultura occidentale, Pisa, ETS, D. Javitch, La politica dei generi letterari nel tardo Cinquecento, «Studi italiani», David Quint, Epic and Empire. Politics and generic form from Virgil to Milton, Princeton, Princeton University Press, Tateo, La letteratura epica e didascalica, in Storia della letteratura italiana,  IV, Il Primo Cinquecento, Roma, Salerno, Sergio Zatti, L'imperialismo epico del Trissino, in Id., L'ombra del Tasso, Milano, Bruno Mondadori, aRenato Barilli, Modernità del Trissino, «Studi Italiani», A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel Rinascimento, Roma, Franco Angeli,  D. Javitch, La nascita della teoria dei generi letterari, «Italianistica», Gigante, «Azioni formidabili e misericordiose». L'esperimento epico del Trissino, in «Filologia e Critica», Stefano Jossa, Ordine e casualità: ideologizzazione del poema e difficoltà del racconto fra Ariosto e Tasso, «Filologia e critica», S. Sberlati, Il genere e la disputa, Roma, Bulzoni, Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, M. Pozzi, Dall’immaginario epico all’immaginario cavalleresco, in L’Italia letteraria e l’Europa dal Rinascimento all’Illuminismo, in Atti del Convegno di Aosta,  N. Borsellino e B. Germano, Roma, Salerno, M. De Masi, L'errore di Belisario, Corsamonte, Achille, «Studi italiani», Claudio Gigante, Un'interpretazione dell'«Italia liberata dai Goti», in Id., Esperienze di filologia cinquecentesca. Salviati, Mazzoni, Trissino, Costo, il Bargeo, Tasso, Roma, Salerno Editrice, E. Musacchio, Il poema epico ad una svolta: O. tra modello omerico e virgiliano, in «Italica»,  Valentina Gallo, Paradigmi etici dell'eroico e riuso mitologico nel V libro dell'‘Italia' di Trissino, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», Alessandro Corrieri, Rivisitazioni cavalleresche nell'Italia liberata da' Gotthi d’O., «Schifanoia», A. Corrieri, La guerra celeste dell'Italia liberata da' Gotthi di Giangiorgio Trissino, «Schifanoia», Claudio Gigante, Epica e romanzo in O., in La tradizione epica e cavalleresca in Italia, C. Gigante e Palumbo, BruxellesI. E. Peter Lang,  Corrieri, Lo scudo d’Achille e il pianto di Didone: da L’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trìssino a Delle Guerre de’ Goti di Gabriello Chiabrera, «Lettere italiane»,Alessandro Corrieri, I modelli epici latini e il decoro eroico nel Rinascimento: il caso de L’Italia liberata da’ Gotthi d’O., «Lettere italiane», Sul dibattito sui generi letterari e la Poetica (in ordine di stampa):  E. Proto, Sulla ‘Poetica’ di G. G. Trissino, Napoli, Giannini e figli, C. Guerrieri-Crocetti, Giovan Battista Giraldi Cintio e il pensiero critico del secolo XVI, Milano-Genova-Napoli, Società Dante Alighieri, Mazzacurati, La mediazione trissiniana, in Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, Mazzacurati, Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli, Liguori, A. Quondam, La poesia duplicata. Imitazione e scrittura nell'esperienza del Trissino, in Atti del Convegno di Studi su G. Trissino, N. Pozza, Vicenza, Accademia Olimpica, G. Mazzacurati, Il Rinascimento del Moderni. La crisi culturale Professoree la negazione delle origini” (Bologna, Il Mulino); M. Pozzi, Lingua, cultura, società. Saggi della letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Dell’Orso, Per il rapporto fra l’epica del T. e quella del Tasso (in ordine di stampa):  E. Williamson, Tasso’s annotations to Trissino’s Poetics, «Modern Language Notes», M. Clarini, Le postille del Tasso al Trissino, «Studi Italiani», G. Baldassarri, «Inferno» e «Cielo». Tipologia e funzione del «meraviglioso» nella «Liberata», Roma, Bulzoni, R. Bruscagli, L’errore di Goffredo, «Studi tassiani», S. Zatti, Tasso lettore del Trissino, in Torquato Tasso e la cultura estense, G. Venturi, Firenze, Olsckhi, Sulla lingua e il dibattito dei contemporanei si vedano almeno (in ordine di stampa):  B. Migliorini, Le proposte trissiniane di riforma ortografica, «Lingua nostra» G. Nencioni, Fra grammatica e retorica. Un caso di polimorfia della lingua letteraria, Firenze, Olsckhi, B. Migliorini, Note sulla grafia nel Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, B. Migliorini, Il Cinquecento, in Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni [e ristampe]. E.Bonora, "La questione della lingua", Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, C. Segre, L’edonismo linguistico del Cinquecento, in Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli,  O. Castellani-Pollidori, Il Cesano de la lingua toscana, Firenze, Olschki, O. Castellani-Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla lingua. Con un’edizione critica del testo, Firenze, Olschki,  Franco Subri, Gli scritti grammaticali inediti di Tolomei: le quattro lingue di toscana, «Giornale storico della letteratura italiana», I. Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni,  M. Pozzi, Trattatisti del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi, Richardson, Trattati sull’ortografia del volgare, Exeter, University of Exeter,  Pozzi, O. e la letteratura italiana, in Id., Lingua, cultura e società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, A. Cappagli, Gli scritti ortofonici di Claudio Tolomei, «Studi di grammatica italiana», Maraschio, Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia,  C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale, L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di Dante e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di stampa):  M. Aurigemma, Dante nella poetica linguistica del Trissino, «Ateneo veneto», foglio speciale,  C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,Floriani, Trissino: la «questione della lingua», la poetica, negli Atti del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, etc...(ora in Gentiluomini letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La teoria linguistica di Dante, Napoli, Liguori,  C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri, «Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia (Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del “De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di studi della fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G. Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi intitolati Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non riproducono però l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle edizioni moderne:  La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro, Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino, nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche. Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento. org/ cinquecento/trissino. pdf.  A. Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia. Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. O. Opere di Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. ItalicaRinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi.  L’uomo solo ha il comercio del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non dico nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra tutte le cose che sono solamente a l'uomo e dato il parlare ,sendo a lui necessario solo. Certo non a gl’angeli non a gl’animali inferiori e necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso.  E la natura certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola] nostro, niun'altra ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o quello CONCETTO de la mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e neffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi concetto, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è TOTALMENTE  NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui avidis simi sispecchiano. Per tanto pare, che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha mestieri. Ma chi opponesse a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi trattiamo di quelle cose, che Sono Che Q a bene essere , devemo essi lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vol lero aspettare la divina cura. Seconda risposta,e meglio è,che questi demoni a MANIFESTARE fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere , se non qualche cosa di ciascuno, perchè è, e quanto è 1 : il che certamente s a n no ; perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non fu bisogno provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA siano guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una medesima specie, hanno le medesime azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le altrui conoscere; ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA a la prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli organi loro. E così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare; non che quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che fischiare. Il testo ha: nonindigent, nisiutsciantquilibetde quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio il tradurre cosi:non hanno bisogno di conoscere, se non ciascheduno di ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado.  Se alcuno poi argumentasse da quello, che Ovidio disse nel quinto della Metamorfosi, che LE PICHE parlarono. Dico che dice questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se si dicesse che le piche al presente e altri uccelli parlano, dico che è falso; perciò che tale atto NON è parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO (cf. ‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno espressamente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se non rappresentazione , o vero imitazione del SUONO di quello, che prima avesse detto. E così appare, agl’UOMINI SOLI essere stato dato il PARLARE; ma per qual cagione esso gli fosse NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini il comercio. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI NATURA ma per ragione. E essa ragione o circa la separazione !, o circa il giudidizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi ogni uno de la sua pro . La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla parola discernimento. del parlare. , pria specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le bestie; nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come l'angelo, sendo per la grossezza e opacità del CORPO mortale la umana specie da ciò ritenuta. Fu adunque bisogno che volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE IL SUO CONCETTO avesse qualche SEGNO SENSUALE e razionale; per ciò che dovendo prendere una cosa da la ragione, e ne la ragione portarla, bisognava essere razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l fosse solamente razionale, non potrebbe trapassare; se solo sensuale, non potrebbe prendere dalla ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno che il subietto, di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, egli è per natura una cosa sensuale e inquanto che, secondo la volontà di ciascu , significa qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem signum est, ipsum subjectum nobile, dequoloquimur: natura sensuale quidem, in quantum sonus est , esse; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum. A noi pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo fu prima dato il parlare, e che disse prima, & in che lingua l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato il parlare, e che cosa prima disse, & a chi parlò, e dove e quando, & eziandio in che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava , disse , ‘Dio ci ha commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette , che a pensare, che così eccellente azione de la il generazione umana prima da l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u m a n a generazione , ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è ragionevol cosa , che quello che fu davanti , cominciasse da alle grezza, e conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA, che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata ,  ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo parlare primieramente a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio & amatore ,inspirando il primo uomo con ogni perfezione compi , ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni,  11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia , la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo credere, che da Dio proceda , che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso, diremo che fuori: se dentro , diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu l'autore di quest'opera.   madre, e senza latte si nutri, e che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare , quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone , che gli Italiani. R ir   tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima ,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli , e quanto al proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo , e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di Babel , la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore , il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem , non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità , usasse della lingua della grazia , e non di quella della confusione.   Hi come gravemente mi vergogno di rin  15 e per  De la divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e l'animo la fugge , non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati , oh da principio , e che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi commesso , gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo , o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che erano rimase , venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di  ,  superare con l'arte sua non solamente la na tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna , & a battiture assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ; parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano ; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osserva che in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase , come a tutti gli architetti una , a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono , sì come io comprendo , del seme di Sem , il quale fu il terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo , che allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la  P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta , là onde primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci , parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi & altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua  si chiama Europa, e più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta , tenne un terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli , Francesi & Italiani .Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama ,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est protractum . Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19  glese, e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova, cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che intervenne al parlare , che da principio era il medesimo. Ma conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada , però so lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte , conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole , pare che eziandio abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre parti diviso , perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo parlare si muta , e de la invenzione de la grammatica. A   la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor. Gerardo di Berneil , « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor , prima che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque , perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani , e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, Romani e Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano , come sono i Bolognesi del borgo di san Felice , e i Bolognesi   della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque , che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale , la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ; m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi & abiti), simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n tunquecisianomolto lontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli antiquissimi Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora parlano in Pavia ; nè altrimente questo, ch'io dico , ci paja maraviglioso , che  , 1Iqualicisianomolto lontani (magis....quam a coetaneis perlonginquis). ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto, il quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose , che a poco a poco si movono , il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che sono poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta , e sia la vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che lontani e separati dimorano, sia variamente variato; sì come sono ancora variamente variati i costumi & abiti loro , i quali nè da natura,nè da consorzio umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica ; la quale grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata , non par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare , il quale  DE LA VOLGARE ELOQUENZIA. 23   De la varietà del parlare in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Gian Giorgio Trissino dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua italiana, filosofia del linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di comunicazione, il parlare umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la parlata dei genovesi, la filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la filosofia del linguagio, only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trissino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Orrontio: la scuola di Roma – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino – cited by Porfirio.

 

Grice ed Orsi: l’implicatura conversazionale -- filosofia fascista – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palma di Montechiaro). Filosofo italiano. Grice: “Orsi uses ‘psicologia speculativa’ where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes to prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani  e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” – e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica” “Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a Domenico D’Orsi, back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi is associated with “Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many and varied – but most notably philosophical psychology, which the Italians call ‘psicologia speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have the great Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning the old Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s psychological behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has philosophized on democracy. I democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has also ‘cured’ the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to study Napoli!” Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa. As most Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a book that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia speculativa. I can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing Lotze’s ‘seele’ as ‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa, are elementary enough – but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo animato, corpo inanimate) is interesting. But far more interesting is Orsi’s unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be confused with LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of reflections. But mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as discovered by Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’ and ‘sentito’ and more generally, between the ‘sentire’ as a processo fisiologico – Spaventa goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ – the first is the processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as unearthed by Orsi, calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is the ‘unita reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold, there’s cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated bodies cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive from say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a ‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore, Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ortensio: l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher.

 

Grice ed Ortes – l’implicatura conversazionale del verso -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Being English, I was often confronted with that very ‘silly’ song by Cleese and Idle, but then they were never the first! Which is good, since they are Cambridge and Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”. Considerato uno dei più dotati tra i filosofi veneti settecenteschi, precursore nell'analizzare dal punto di vista della produzione complessiva alcuni aspetti come popolazione e consumo. La sua impostazione filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo vide far gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un sostenitore del libero scambio pur con alcune restrizioni della proprietà che interessavano il clero, anche se appartenevano al passato ed è considerato per questo un anticipatore di Malthus, ma con qualche contraddizione. Malthus prevede l'aumento della popolazione, in trenta anni, in modo esponenziale, quindi molto di più dell'aumento delle sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Pasquali, “ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla religione e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli antichi” -- esposto in versi per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia, “Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto all'economia nazionale: errori popolari intorno all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano, Ricciardi), Donati (Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario Letterario Bompiani. Milano, Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto i suoi studi matematici influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente, come in fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli. Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o dallaprofessione,come la milizia,lelettere ecc.,o da qualche prerogativa, come dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste qualità gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si studia di determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un esempio. Se si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della stessa, O. ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie nobili sia 20,000, quella che proviene da cariche,magistrature,commende ecc. 3,300, quella che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti, e colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300 + 700 = 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser pretesto la virtù,ma verofinel’interesseproprio,poichè,dipen dendo il valore delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si deve prima d'ogni altra cosa cercare l'utileproprio. Avverte che v'ha sempre un'opinione predominante che varið col variare dei secoli: ai tempi di Roma li bera era la conquista; sottoAugusto illusso;ilplato nismo ai tempi di Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII ; le lettere sotto Leon X ; finalmente lozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione,  PIACERI E DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia figlio di vana alterigia.L'uomo che dee servire a molte di queste opi nionisaràpiù civile, ma piùtimidoefinto;chiapoche; sarà più rozzo,ma anche più sicuro e più libero. E come l’Ortes si studia di ridurre a calcolo le opi nioni,così parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è l'Ortes in questo scritto.Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la dottrina chetuttociòcheèconforme alla conservazione e sviluppo del nostro essere, genera piacere; il contrario,dolore; parla dei dolori e piaceri delsenso,dei dolori e piaceri dell'opinione; mostra l'uomo naturalmente soggetto al dolore, e che il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento curioso studiasi mostrare che il piacere non può mai s u perare il dolore, perchè il piacere essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia, tutto quel di più di piacere che si volesse applicare gene rerebbe dolore contrario, come l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc.  Il calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre onde alcuno è fornito,e,quanto ai piacerie dolori d'opinione, dalla stima che ciascuno fadeglistessi. L'autore nonpretendeanovitàdidot trina, professa di avere scritto secondo la propria espe rienza, con un temperamento indolente é coisuoi sensi inun'etàdimezzo.Vedrem poi com’eglistessone ab bia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.: un   ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per rapportoallafelicità umana;— e riflessioni su gli oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue (1); ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio delle umane facoltà nella scienza e nelle arti belle,anche queste in titolandole scienze ma dilettevoli,in contrapposto delle a ltre che chi ama scienze utili; nelle scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle l'imaginazione; quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste il veroma elaborato dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia concesso il lavoro dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe : Sol la scienza del ver giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dallatraduzione del Pope, perchè volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta in mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a sè. In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso della parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli ani mi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo autore, esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali.  SUL MODO DI TRADURRE. Non si può negare che osservazioni argute si tro vino spesso nell'Ortesa ncheinqueste riflessionisugli oggetti apprensibili, suicostumi, e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura assai noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua prediletta in economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica persuasione, non già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente dice, che allora un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in  America, come un tempo un romito potea condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e avean voluto così. Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche sentenza netta e perspicua, come, p. es., dopo  GOLDONI, COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto all'indolee ai pregi della propria  lingua. Chi volesse calcare l'autore straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un ritratto con soprapporvi isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando il quadro in un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli scrittori s'accordino sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui l’Ortes osserva, che il miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi starsene in Francia per passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico fosse così ben rilevato nella lingua francese a Parigi, come il fu già in Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta sembrerebbe anche gaio,come quando si lagna che, temendosi la fatica dello studio, si trascu rassero le cognizioni vere, contentandosi di dizionari, giornali, compendi o altri repertori per dilettare, diver tire,ocome diceano,per amuseare! È  USO DELLA PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo governisi da chi più ciarla , non da chi più sa, egli conclude: se chi preten desse governar altri senza render ragione del suo go verno,sarebbe uomo assai vano;ilsarebbe non men certamente chi pretendesse governarli per sola copia ed eleganza di voci. Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. « Qui cade a proposito (così egli) d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune (cioè gli in teressi comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali) perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni a'tempi de'lorobisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e la ra » gione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi trasandati fosse stata più riconosciuta » per sè stessa in quei costumi, di quel che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario di sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i tempi; ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una miseria » di mente, per cui si creda la natura non più capace » d'invenzioni in sua natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in » troducendo, e deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gli usatichea quellidan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della comun ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se ciòfosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto innocente, tanto inevitabile e necessaria,e potendo,anzidovendo,quella comun ragione,per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo suo artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in sembianze ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè medesima. Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non esercitarsi che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la verità, la ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni esterne di tempi molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed interno di queste virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle materiali loro modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor senso e significato. Si pigli intanto l'Ortes in parola, poichè avrem campo di trovarlo in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel desso. Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso libro, che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi, da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora queste meditazioni di filosofia. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ostiliano: la filosofia romana sotto il principato di Vespasiano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Portico. His claim to fame is that Vespasiano (si veda) banished him from Rome. Ostilliano.

 

Grice ed Otranto: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Grice: “Otranto wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as when we say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written ‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia, però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani. E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello scalpello”, con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di testi liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro i Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo); un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di  lettere;.  J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O. Abt von Casole. Beiträge zur Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση. Athena,  L. Hoffmann: Der anti-jüdische Dialog Kata Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks. Nicola Nettario d’Otranto. Otranto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool Library. Grice ed Otranto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.

 

Grice ed Ottaviano: l’implicatura conversazionale nel secolo d’oro della filosofia romana sotto il principato d’Ottaviano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. il primo principe. Historia augusta, scritta d’Ottaviano. His philosophical teachers are well known. The education of a prince.  Augusto lasciò alla sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti. Svetonio in particolare racconta che una volta morto, lasciò tre rotoli, che contenevano:  il primo, disposizioni per il suo funerale, il secondo, un riassunto delle opere, da incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti al suo mausoleo, il terzo: la situazione dell'Impero. Quanti soldati erano sotto le armi e dove erano dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato da un'iscrizione, sia in latino sia in traduzione greca, rinvenuta nel 1555. Era incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla città di Roma e ad Augusto, situato ad Ancyra (l'odierna Ankara, la capitale della Turchia) e pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie, molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui dedicati.  In uno stile volutamente stringato e senza concessioni all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato, ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra.  Il documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. Ottaviano fu totus politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendicava egli stesso nelle sue memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini politici. Si trattava di un «miracolo» ed egli capì subito che andava capitalizzato. Durante i giochi da lui organizzati in memoria di Cesare, nel luglio 44 - momento di massima incertezza politica, tra 'liberatori' perplessi e cesariani frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben sette giorni. Il fenomeno fece molta impressione. «Il volgo – scrive Ottaviano nelle sue memorie - credette (“vulgus credidit”) che quella stella significasse che l'anima di Cesare era stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine) feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di Cesare che feci consacrare nel foro». Il brano è citato da Plinio nella Naturalis Historia, il quale commenta: «Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una gioia intima gli suggeriva che quella stella era nata per lui, e che lui nasceva in essa». L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che stabili essere Giulio Cesare un dio - ebbe luogo il primo gennaio del 42: Divus lulins. In tal modo Ottaviano diventava ope legis «figlio di Dio», Divi filius. C'è chi pensa che già nell'agosto 43, in concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, Ottaviano abbia ottenuto tale prezioso riconoscimento'. Ma di fatto le premesse Ottaviano le aveva poste con l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico «astrum Caesariso fa già riferimento Virgilio giovane, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga. La carriera di Augusto era incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in ottima salute, aveva raggiunto Cesare in Ispagna per esser presente all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se Cesare lo avesse già allora notato, se Azia - madre di Ottaviano - abbia attratto l'attenzione di Cesare su di lui, se Ottaviano abbia forzato la situazione superando le esitazioni materne. Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani di Augusto esaltarono come premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità dimostrata da Cesare di scegliere un 'successore', In politica non accade quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono 'pescare' chi verrà dopo di loro. A sua volta Ottaviano ha cercato per anni, e resta tra gli arcana delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta (Svetonio, Vita di Tiberio, 21). E ben si comprende: Cesare sceglieva un figlio adottivo ed erede che poteva, se si fosse confermato capace, diventare un capoparte; O., invece, pur avendo «restaurato la repubblica» cercava un successore. Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la certezza della propria insostituibilità' (che rende, tra l'altro, ancor più disperante la ricerca di un successore) si sposa con la tenacia nel perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione, dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una riproposizione aggiornata del 'principato di Pompeo'. Gli anni della lunga pace non erano stati facili. Non erano mancati, in quei lunghi anni di governo solitario, congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se Seneca ne era informato vuol dire che ne trovava la traccia nelle inedite Historiae ab initio bellorum civilium che suo padre aveva continuato a scrivere e ad aggiornare ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico accorto, che da giovane aveva fatto a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per Augusto, alla fine, l'unica scelta possibile era quella della «storia sacra». Perciò, quando la lunga 'pace civile' del suo interminabile governo non ebbe più bisogno di una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica, egli inventò un altro strumento che affermasse in modiessenziali e monumentali, sperabilmente 'per sempre', la sua verità: il solenne e sacralizzante riepilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi, non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nacque in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degli anni, e alla fine pronte, oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso. Per Roma era una radicale novità. Era la via epigrafica alla «storia sacra», sul modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico (Dario a Bisutun) e del mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae era quello non solo di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare accettare questa 'verità' come l'unica vera nel momento stesso in cui la successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro grandezza e, insieme, la loro fragilità. Ottaviano.

 

Grice ed Ottaviano – l’implicatura conversazionale e il collettivismo – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Modica). Filosofo. Grice: “Perhaps with Holllinghurst, and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have cherished in the analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a debate which should fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano. Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari, poi a Napoli, ottenne la cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi a Catania, dove fonda e diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande conoscitore della filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria.  Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo” (Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche.  Compone inoltre un ampio e comprensivo Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore, presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre, nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova, diede spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne dapprima Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber figurarum, scoperto da L. Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non ebbe seguito. Opere principali: Pietro Abelardo. La vita, le opere, il pensiero” (Poliglotta, Roma); “Il "Tractatus super quatuor evangelia" di Fiore, Archivio di filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, Anselmo d’Aosta, Abelardo, Incertus auctor” (Olschki, Firenze); Joachimi abbatis Liber contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da Fiore), Reale Accademia d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore” (Rondinella, Napoli); Pier Lombardo, in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro, Urbino); “Critica dell'Idealismo” (Rondinella, Napoli); “Metafisica dell'essere parziale” MILANI, Padova); “La tragicità del reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia” (MILANI, Padova); Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note D. D'Orsi” (MILANI, Padova); E. Scarcella, Dizionario Biografico degli Italiani, D. D'Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”, Catania, di. D.'Orsi, Tra Socrate e Gesù: quattro anni fa moriva, quotidiano “La Sicilia”, Catania,. E. Scarcella,  Dizionario Biografico degli Italiani, stituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore  Massimiliano Pace, Info Magazine. Grice: “I love Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy. More specifically, as a Sicilian he was not interested in Italian philosophy, which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile – he corresponded extensively with him! La visione cristiana di Ernesto Buonaiuti, F. Campitelli, Foligno. A proposito di un libro sul Prepositino, in «Rivista di filosofia neoscolastica», Traduzione, prefazione e note di: Anselmus Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba, Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo, Angelo Signorelli editore, Roma. Ricerche lulliane, in «Estudis universitaris catalans». Pietro Abelardo. La vita, le opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Raimondo Lullo, in «Rivista di cultura»; L'Ars compendiosa de R. Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in francese: L'Ars compendiosa de R. Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin.  Guglielmo d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero, Biblioteca di filosofia e scienze, Roma. A proposito di un libro su S. Anselmo, in «Rivista di filosofia neoscolastica». I problemi del realismo, in «Giornale critico della filosofia italiana». Le “Quaestiones super libro Praedicamentorum” di Simone di Faversham, in «Memorie della R. Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione, prefazione e note di: Tommaso d’Aquino, Saggio contro la Dottrina averroistica dell’unità dell’intelletto, Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note di: Tommaso d’Aquino, Saggio sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione, traduzione e note critiche di C. Ottaviano, Carabba, Lanciano. Frammenti abelardiani, in «Rivista di cultura», Prof. P, Loescher, Roma. Il "Tractatus super quatuor evangelia" di Gioacchino da Fiore, in «Archivio di filosofia», Padova. Osservazioni critiche sui presupposti del problema della conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della nozione di individuo, in «Archivio di filosofia». Il pensiero e il suo atto, in «Archivio di filosofia». La riforma della logica di Aristotele, in «Archivio di filosofia». Nota polemica, in «Rivista di cultura». Le opere di Simone di Faversham e la sua posizione nel problema degli universali, in «Archivio di filosofia». Traduzione, curatela e note di: Tractatus de Universalibus attribuito a San Tommaso d’Aquino, a cura di O., Reale Accademia d'Italia, Roma. Introduzione, traduzione, prefazione e note di: Anselmo d'Aosta, Il Monologio, Palermo 1932.  Antologia del pensiero medioevale. Per le scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, S. Anselmo, Pietro Abelardo, Incertus auctor, a cura di O., Olschki, Firenze.  Riccardo di San Vittore, la vita, le opere, il pensiero, in «Atti della Reale Accademia dei Lincei», Traduzione, prefazione e note di: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente verso Dio, traduzione, prefazione e note di O., Antologia del pensiero medievale per le scuole medie superiori, Palermo. Il pensiero di Francesco Orestano, Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in B. Varisco, in «Archivio di filosofia», Traduzione e note di: P. Abelardus, Epistolario completo. Contributo agli studi sulla vita e il pensiero di Pietro Abelardo, trad. it. e note critiche di C. Ottaviano, Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum. La Scuola di Gioacchino da Fiore, a cura di Carmelo Ottaviano, Reale Accademia d'Italia - Studi e documenti, Roma. Critica del principio d'immanenza, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Il perduto “Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un manoscritto romano, in «Estudis franciscans», Un documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore, Rondinella, Napoli (poi ripubblicato in "Siculorum Gymnasium", Università di Catania).  Storia, filosofia della storia, scienza della storia, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Un brano inedito della Philosophia di Guglielmo di Conches, A. Morano, Napoli. Il cosiddetto “riferimento necessario alla coscienza” nell'idealismo, in AA. VV., Atti del IX Congresso nazionale di Filosofia, (Padova), Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova.  Pier Lombardo, in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli (Pubblicato nuovamente da Milani, Padova 1948)  Traduzione, prefazione e note di: Pietro Abelardo, L'origine delle monache; e La regola del Paracleto, traduzione, prefazione e note di Carmelo Ottaviano, Carabba, Lanciano 1936.  L'unica forma possibile di idealismo, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», La scuola attualista e Scoto Eriugena, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Riflessioni sulla polemica Orestano – Olgiati, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Curatela di: Campanella, Epilogo magno (Fisiologia italiana). Testo inedito con le varianti dei codici e delle edizioni latine, a cura di O., Reale Accademia d'Italia, Roma 1Kritik des Idealismus, mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen: Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. Metafisica dell'essere parziale, MILANI, Padova.  L'unità del pensiero cartesiano e il cartesianesimo in Italia, MILANI, Padova. Scritti  con 327 giudizi della critica italiana e straniera, Tipografia agostiniana, Roma. Panteismo o trascendenza, in «Humanitas». Il problema morale come fondamento del problema politico, Milani, Padova. L'idealismo trascendentale e la metafisica classica, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica». La soluzione scientifica del problema politico, Rondinella editore, Napoli. Le incertezze della scienza moderna, Padova. Progetto di un disegno di legge per salvare la Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla democrazia ingenua alla democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il social-liberalismo, MILANI, Padova,  Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, MILANI, Padova. Presentazione di: Agostino Sepinski, Cristo interiore secondo San Bonaventura, presentazione O. trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova. Critica del socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà per tutti, MILANI, Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti, ovvero la mia soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica e pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova.  La legge della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e collettivismo. Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti. Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Domenico D'Orsi, MILANI, Padova. «Sophia: fonti e studi di storia della filosofia» Palermo: Ires, Il complemento del titolo varia in: rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia; poi in: rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed editore variano in: Napoli, A. Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni degli articoli più significativi scritti da Ottaviano per Sophia:  Le «rationes necessariae» in S. Anselmo, in Questioni e testi medievali , in «Sophia», nNovità abelardiane, in Questioni e testi medievali , in «Sophia». Storicismo attualista, in «Sophia», Storicismo attualista, seconda puntata, in «Sophia». Controversie medievali. A proposito della paternità tomistica di un “Tractatus de universibus”, e della data del “De unitate intellectus”, in «Sophia», Intorno al IX Congresso nazionale di Filosofia di Padova, in «Sophia». Intorno alla critica dell'immanenza, in «Sophia», Critica del principio di immanenza, in «Sophia», A proposito della storia, in «Sophia». I grandi idealisti contemporanei, in «Sophia». L'idealismo sulla via di Damasco, in «Sophia». Contraddizioni idealistiche, in «Sophia». La fondazione del realismo, in «Sophia». Postilla alla “Difesa del principio di immanenza”, in «Sophia». Postilla a “Immanenza, idealismo e realismo”, in «Sophia». Idealisti per forza, in «Sophia», Ancora sulla fondazione del realismo, in «Sophia». Fanatismo idealista, ovvero l'agonia dell'Idealismo, in «Sophia». Nuova illustrazione del documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore. Postilla, in «Sophia». Intorno all'idealismo e al realismo, in «Sophia». Postilla all'art. di Chiocchetti: “A proposito dell'idealismo di C. Ottaviano”, in «Sophia». Anti-moderno, in «Sophia». Intorno alla critica all'idealismo, in «Sophia». Intorno alla valutazione della filosofia moderna, in «Sophia». La teoria delle “species” e l'idealismo immanentistico, in «Sophia». La natura della sensazione e la fondazione del realismo, in «Sophia». Referendum ai nostri Lettori in occasione della ripresa delle Rivista, in «Sophia», «Sophia», Il vero significato della relatività galileiana nel movimento, in «Sophia». Natura pura e soprannaturale, in «Sophia». I fondamenti logici della relatività, in «Sophia». Gli argomenti probativi dell'evoluzionismo, in «Sophia», Intorno al significato storico dell'idealismo italiano, in «Sophia». Intorno alla legge di conservazione dell'energia, ossia del materialismo, in «Sophia», Intuizionismo e logicismo in matematica, in «Sophia», Intorno alla gratuità dell'ordine soprannaturale, in «Sophia». Postilla a E. Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo logico, in «Sophia». Valutazione critica del pensiero di B. Croce. 1) L'estetica, in «Sophia», Valutazione critica del pensiero di B. Croce. 2) Lo storicismo assoluto, in «Sophia», Bilancio di Benedetto Croce, in «Sophia». Einstein filosofo, in «Sophia», Giudizio intorno alla Logistica, in «Sophia», Logica, matematica, poesia, in «Sophia», Crolla l'idolo einsteiniano, in «Sophia», Il “compagno Scioccherellov”, ossia la tragicommedia del comunismo, in «Sophia», Mi intrattengo ancora con il “compagno Scioccherellov”, in «Sophia», “Individui di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia come idea-forza, in «Sophia», Giudizio su Benedetto Croce come uomo politico, in «Sophia». L'assalto alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del tesoro della Stato, in «Sophia», Difesa della scuola statale, ossia l'Antistato contro lo Stato, in «Sophia», L'“ordine della scuola italiana”, in «Sophia», In difesa dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, in «Sophia». Come integrare la dottrina relativistica di Einstein, in «Sophia», AA. VV., O. nella filosofia del Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, a cura di Francesco Rando e Francesco Solitario, Prometheus, Milano 2008.  A. Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del tragico nell'opera di O., a cura di Ghisalberti e Francesco Rando, Prometheus, Milano/ Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia. Coniglione, «Sophia». Nel segno di Ottaviano: una rivista a tutto campo, in AA. VV., La cultura filosofica italiana attraverso le riviste, a cura di Piero Di Giovanni, Franco Angeli, Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di tromba, in «La Critica», Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di Carmelo Ottaviano nel trigesimo della morte, quotidiano “La Sicilia”, Catania, Orsi, Tra Socrate e Gesù: quattro anni fa moriva il filosofo Carmelo Ottaviano, quotidiano “La Sicilia”, Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica di Carmelo Ottaviano, in Archivium Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una vita filosofica, Introduzione a O., Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Orsi, MILANI, Padova, Noce, Il problema dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato del Progresso e postulato del Peccato, Il Mulino, Bologna, Noce, Giovanni Gentile, Il Mulino, Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci dal Novecento, a cura di Pozzoni, Limina Mentis Editrice, Villasanta  Ferro, L'«antimoderno» di O., in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu, La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier, Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza gnoseologica, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Vita e Pensiero, Milano.  P. Mazzarella, Il contributo di O. agli studi di filosofia medievale, in «Sophia», Mazzarella, Tra finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi, O., in «La Tradizione», Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico italiano degli anni Trenta: il confronto tra Giulio Preti e Carmelo Ottaviano, in numero monografico de «Il Protagora», Aspetti e problemi della filosofia italiana contemporanea, a cura di Antonio Quarta, Scarcella, O. in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 79, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca, Di una recente critica del principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche», Sciacca, Il secolo XX, Bocca, Milano. Ottaviano. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.

 

Grice ed Ovidio: l’implicatura convrsazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Publio Ovidio Nasone. Muore a Tomi, rivela influssi filosofici assai svariati. A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la rappresentazione dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla setta di Crotona deriva in larga misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui Pitagora -- di cui si dice che si innalza sino al divino colla filosofia e scorge con l’animo ciò che la natura nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibizione con la teoria della metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano invece influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met.), in complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno pensare a Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman reader of Ovid's Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his way through the labyrinth of mythological tales that comprise, one segment becomes in some ways a fresh start. It begins the third and last pentad. As he marks this formal boundary, Ovid introduces what he calls a *historical* emphasis. Troy is founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman matter, settings, and themes occupy ever more of our attention as the thing approaches its end. Ovid includes some of the same tales that he had used in his less successful (less read, not even the emperor read it!)  in the Fasti, his “most Roman work” in terms of its proclaimed matter: the very Roman calendar – “tempora cum causis Latium digesta per annum.” – And the Romans always found a cause to celebrate! As we read of Hippolytus deified as Virbius, or encounter the list of Alban kings, the last pentad of the Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more imperial readership the “Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of of the Metamorphoses is fully continuous with the first part, simultaneously a fresh start and a seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is a development of long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects signal the work's conclusion, wherein the large-scale historical progression promised in the work's opening lines will be fulfilled: having set out "from the first beginnings of the world," primaque ab origine mundi Ovid's narrative will now reach "my own times," mea tempora the present for both author and readers. Thus, if we, after reading of so many nymphs and maidens transformed into trees or waterfowl, are surprised to find Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's development and fulfillment of narrative patterns also remind us that from the start we had reason to expect such figures to appear. His vast work of transformative myth embraces even them. Whereas Rome contribute something new to the last pentad of the Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid has made throughly familiar. Already at the start, the council of the gods, called by Jupiter to discuss Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of heaven's architecture and social distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,” Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to contemporary attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds their heralded arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as a frame for other tales, which are often only tenuously related to the newly-prominent national theme – or rather the theme of the history of the nation. We are well aware, when we arrive at this point, that traditionally important and familiar cycles of myth, such as those concerning Theseus and Hercules function mainly as framing devices that connect tales. Many of these are only tangentially related to the framing narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does Ovid introduce Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative mode. The traditional story appears to establish a structural pattern for the progress of the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales. Troy may be familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict our convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess, when Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our attention? As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other tales in the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally recalls those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared, at least for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale of Ceyx and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material. Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere, however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid achieves a rich and grimly detailed impression of corporality through his descriptive language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise description. The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's house, but in a way that defeats definition; for the house occupies a liminal site, hovering at the boundaries between earth, sea, and sky. The structure itself if it can be called a struc-scarcely separates inside from outside, for its porous nature defeats such distinctions: “innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti, tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit. nulla quies intus nullaque silentia parte.” She added innumerable approaches to the building, and a thousand openings. With no doors did she shut its threshold: it lies open night and day. The whole house is of resounding brass, produces a roar, echoes and repeats what it hears. There is no quiet within, silence in no quarter. In and out of the house issue personified rumors: atria turba tenet: ueniunt, leue uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta uagantur milia rumorum confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls; they come and go, a light crowd; lies mixed with truth wander here and there by the thousands; and the confused words of rumor roll about. Only when this expansive description is finished do we learn its relevance to its surroundings: rumors of the Greek expedition have reached Troy. This house of Fama and her attendant rumors, "lies mixed with truth," creates a remarkable preface to the beginning of the Trojan War, inviting us readers to consider it as an interpretive comment on all that follows. Feeney connects the passage to themes of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the authority of Ovid's epic predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of the Metamorphoses, where extensively adapted sometimes severely distorted-versions of their tales are woven into a new fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor narrates the battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad: but Homer's version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its context, Ovid's a vast expansion that engulfs its context, displacing the Trojan War in our attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of Ovid's poem, from Book 12 to the end, not only because of the formal introductory description of the house of Fama, but also because of the increasing role of internal narration in the later books: as the poem proceeds, the epic narrator recedes, and more and more tales are reported by an internal narrator to an internal audience. Fama also forms a boundary for Books 12-15, prominently recurring at the very end of the Metamor-phoses, where fama provides the means of the poet's continued sur-vival: perque omnia saecula fama,/ siquid habent veri uatum praesagia, winam (15.878-79). The recurring presence of Fama serves as a reminder of the fundamental lack of definition and stability characteristic of narrative style throughout the work. Flux remains Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol and an embodiment of flux within the narrative. Fama resists the tendency toward interpretive simplicity and transparency that the introduction of historical and political topics might lead us to expect. As we proceed through the last pen-tad, historical and historico-political modes of understanding events, however pervasive their presence, ultimately never reduce Ovidian flux to order. Fate, for instance, a cosmic principle beloved of some Greek and Roman historians, whose workings they trace in the unfolding of events, duly turns up from time to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of historicized myth that is likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas the Aeneid is deeply imbued with a sense of fate, guiding the reader to a teleological understanding of myth and history, fate is an historical prop in the Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from dominating its context, the context dominates it, as in the summaries of the Eneide that Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum moenibus esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure from Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the “Eneide”, however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest summary. Ovid acknowledges Virgil's historical vision without permitting that vision to structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of transformation on the narrative surface: the loss of human identity in metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous, echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions of this story. Ovid could not retell this story with directing readers awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo – Roma’s first king -- , and to accompanying images and slogans concerning the foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least provisionally to define the relationship between this figure from the remote past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus, Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes. The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,” the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore, this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti, erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of these same heroes near each other is to make inevitable the reader's recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues. Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir. 2.296), "Venus joined to the Avenger" -- an expression that invites reflection on the sexual significance of “iungere." Venus's husband stands outside the door, wir ante fores."? A myth of political origin, its official representation in art, and resistance to it are prominent also in the Metamorphoses in the tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the tale offers rich reflections on official interpretation of art. When Minerva chooses to depict her victory over Neptune in the two divinities' dispute over the naming of Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes its didactic message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic correlate to the power of enforcement that lies behind that message. Readers often side with the Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior; yet Minerva does not ask for our approval, nor need she take much thought for the judges of the con-test. Her views of the story are enforceable and will determine the outcome of the plot. Her power allows her to impose her perspective on events. Because the historical subjects of the later books of the Metamorphoses so often bring official interpretations within view, it is worth noting that, according to one political approach to literature currently in favor, only official interpretations are possible. On this view, all activity of writing and reading takes place within a fixed political system, often unrecognized by the participants, that "advances the interests" of "elites."' Proponents of this approach offer a powerfully reductive historicism: nothing is important about literature except the historically determined power-relationships that govern its production and reception; all attention to literary qualities of a text is sentimental and self-indulgent aestheticism. Whereas this view contracts all understanding of literature to the narrowly political, some recent writers on history in Roman literature expand the historical to a larger field that embraces Varro's theologia tripertita and the universal history of Cornelius Nepos, Diodorus Siculus, and others. In the shift, for instance, from mythological to historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad similarity to Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of history in the Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical principles is far deeper and more intimate than has been recognized before. For instance, the poem's "alternation between diachrony and synchrony is a narrative technique characteristic of universal history. The poem's chronological framework from first origins to the present also reflects the aims of universal history; yet Wheeler, like most critics today, does not view the poem "as a natural process of evolution from chaos to cosmos, culminating in the peace and properity of the Augustan age."' Arguing for a subtler and less overtly political patterning of events, Wheeler traces historical principles behind the increasingly historical subject matter of the last pentad. The movement from myth to history represents "a shift," in Wheeler's view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis." The terms are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses alongside Varro's “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and comprehensive work, among whose aims was to organize conceptions of divinity into mythical, natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used the “Antiquitates” as a source in the later books of the Metamorphoses as well as in the Fasti, and it is surely right to call attention to the presence of Varronian principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does not structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs; yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the Metamorphoses remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing, and intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his work escapes their power to shape his material and to govern our responses to his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse, unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the 'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book 1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans, in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad, "mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from Roman history and even "current events," all brought within the narrative sweep. Among "current events" we may locate the transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs lines after the hero's death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler has explored Ovid's anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules' death. Troy is assumed to exist already in the world of the poem, and that "Ovid could have avoided the anachronism by placing stories about the dead and deified Hercules in the mouths of characters who report retrospective events in inset narratives that temporarily suspend the main chronological thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology, first recounting Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator, Alemene, mother of Hercules, to recount his birth. Chronology appears to reverse direction, but chronological dislocation turns out to be more complex than simple reversal. Wheeler's conclusions refute the common notion that Ovid's shift to historical topics results in a more linear narrative explication and greater chronological regularity. The reintroduction of Hercules is therefore part and parcel of a larger web of anachronism involving the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis, both of which should have occurred already in the poem's historical continuum. It should be clear, furthermore, that Ovid's transpositions of the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis are a deliberate structural strategy to furnish new points of origin for the narrative of the final books of the poem. That is, Ovid deliberately violates his earlier chronological scheme to provide new beginning points for the final pentad i.e., from the foundation of Troy and the birth of Achilles to the present) As a result, the formality and regularity of the pentadic structure produces a paradoxical result: on the one hand, it divides the work symmetrically into thirds and hence to some extent structures the experience of the reader: we may compare the division of Virgil's Aeneid into halves, in allusive reference to the Odyssey and Iliad." On the other hand, in effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid reinforces the narrative indirection and unpredictability that have characterized the Metamorphoses from its beginning. The tales that follow the foundation of Troy both illuminate and obscure the newly initiated narrative patterns of the last pentad. At this point, Ovid's readers may expect him to expand upon the origins of the Trojan conflict. He does so in his account of Peleus and Thetis, the parents of Achilles, but hastily summarizes the elements of the story that are traditionally the most important: Thetis receives a prophecy that she will bear a son who will surpass his father; Jupiter, despite his passion, avoids mating with Thetis "lest the universe contain anything greater than Jupiter" (ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters the authority for the prophecy, substituting the shape-shifting divinity Proteus for Themis as its source. He then develops the story in his own way, dwelling upon a description of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt to, assault her (which she thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to Peleus that he tie her up as she sleeps, and the successful results. Some of this account will remind us of epic predecessors, for Proteus is familiar from the Odyssey as well as from a brief appearance carlier in the Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet in emphasizing shape-shifting and sexual assault, Ovid flaunts the unedifying nature of his account and its lack of relevance to any of the large-scale themes, providential, historical, and originary, that one might expect at the threshhold of events that lead to the foundation of Rome. An account of origins this may be, with reference to historical subjects, and formally analogous to Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid. Yet Ovid offers it manifestly without the interpretive guidance that would associate it with Virgilian themes. As an account of origins, it explores causes of the Trojan War still more remote than those developed by Ovid's pre-decessors, suggesting a line of interpretation that traces events back to lust, violence, and deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid on the one hand traces Trojan subject matter from its origins, and on the other characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen haberet. And if you wish to follow his lineage down to him in continuous sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and Priam, allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he had not experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure authority for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as ordo perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his carmen perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from first beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly indeterminate origin. The tale that follows is primarily a natural actiology, incorporating both historical and epic subjects into an account of how Hector's brother became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who in her hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her pursuer is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic in his susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/ pectus habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon be fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are his guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est. ego sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound was given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of the natural world. Trojan history, along with all notions of historical progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described. Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with truth," which issue from her echoing house, and have met her also as "the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure, any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible. Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences, books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and Ovid's version of Aeneid 7-12 begins here, too. Ovid adds an epitaph for Caieta: hic me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne cremauit. By emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by another, Ovid calls attention to an etymological explanation of her name from kaiew, glossed by cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil omitted. Ovid is in a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology that would later find a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another effect of Ovid's revision is to fill out the earlier account, suggesting that there is more to the story than what Virgil provides. There follows a severely abridged summary of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in Latium up to Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here resumes his earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he reduces to brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many tales not in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the lliad, expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length, and adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle between Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate over the arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated until it is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that had offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed to seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.). In Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical of the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon, recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus, impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae, and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis (Met. 14.508-9). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean; neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore, harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually occurs in Aeneid 12. There, shortly before the final encounter of Aeneas and Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating that the Latins not be required to give up their language and dress, and that Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales” in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil mentions the chronologically later reconciliation long before describing the former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of Carthage, will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's reconciliation in Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only some of Juno's grudges, it contributes only a partial sense of closure to the end of Virgil's poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges more specifically recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of Jupiter's address to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/ deberi caelo fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the chronology of Juno's reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead to a time beyond Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas, which indeed it serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem ucteres finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli tempestius erat caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled all the gods, even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources of rising lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for heaven. The thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid introduces these lines into bizarre, surreal surroundings of his own making. Their immediate context is one of the strangest transformations in the poem-the tale of Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town Ardea may be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote from Virgil, and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is typical of Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of a species, tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of traits and features in the change from the old to the new shape. This case goes beyond the typical in the sheer imaginative effort required to make the shift from a ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human social organizations, are characteristically distinct from the natural. This is not just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself, with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical, and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician: ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough: 'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice, twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum n/umero relatus (CIL = Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to the apotheosis of Romulus later in Book 14, but first there intervenes a king-list an annalistic structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses. Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His text demands interpretation without providing the resources to arrive at one. Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death, Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been placing Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by emulating Hercules. Although the details of Ennius's account are far from clear, Ovid's non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his principal source, the original and canonical version of Romulus's deification. History appears to be going backwards as the divine agents in the Romans' war with Tatius take action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite having so recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus tacitorum more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt portasque petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit nec strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures, keep their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose bodies are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had barred; yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she turned it on its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation earlier, in the apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly inconsistent. We may try to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's historical framework, by which Juno gives up her wrath at the second Punic War. But Ovid makes no attempt to clarify and so rescue historical consistency; indeed, he appears to mock the tradition of multiplereconciliations of Juno, exploiting it for its comic absurdity. There are serious consequences as well: the equation of history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable to the Romans once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other divinities intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in unbarring the gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the Forum Romanum to come to her assistance. Their spring, normally cold, they bring to a hasty boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the Romans time to arm themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting deification for Romulus as the fulfillment, now: due, of a long-standing promise. Mars cites Jupiter's original words, representing them as an exact quotation: tu mihi concilio quondam praesente deorum (nam memoro memorique animo pia uerba notaui) "unus crit, quem tu tolles in cacrula caeli" dixisti: rata sit uerborum summa tuorum. Once, at an assembled council of the gods, you told me (for I remem-ber, and marked the pious words in my retentive mind),there will be one whom you will carry to the blue of heaven.' Let the content of your words be fulfilled. The words Marte quotes appear to gain even more authority by referential confirmation from outside the text of the Metamorphoses doubly cited, as it were: for while Mars cites Jupiter, Ovid cites Ennius's Annales. Readers of Ovid's contemporary Fasti will remember the recurrence of Ennius's line in a third context, for Mars cites it there as part of a parallel appeal for Romulus's deification. Although Marte describes his son to Jupiter as the latter's "worthy grandson" (Met.), Romulus's exploits have no part in the appeal. Deification results directly from Jupiter's promise, so strongly emphasized, and at the beginning of the speech Mars needs only to establish that now is the time for its fulfillment: tempus adest, genitor, quoniam fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab uno, praemia (sunt promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris inponere caelo. Since, father, Roman affairs are well established on great foundations, and do not depend on a single protector, it is time to pay the reward it was promised to me and to my worthy grandson to remove him from the earth and to place him in heaven. In all this there is no mention of Romulus's great benefactions, such as might sustain a euhemeristic interpretation of the hero's advancement to divine status. Far from avoiding comparison to Ennius, Ovid ostentatiously quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact that in stripping the hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation of them. Ennius's words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well suited to a familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again of their second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis of Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its lack of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers readers little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment when the apotheosis occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably dissimilar. While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply one in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero. Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example, Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence, Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents, Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia, importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is, according to Livy's patriotic interpretation, the whole point of the rape of the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus, Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason, Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill. A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body, calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history, reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance with which the fabulous incorporates all else into its domain-including history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and "mythological," of course, are not simply descriptive of the subject matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all, Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/ fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.) and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay often operates in just this way: words that initially appear figurative become literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance, similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last pentad, historical events lose their connection to fata and pass under the sway of Fama in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with truth" (mixtaque cum ueris... commenta, 12.54) issue from the house of Fama, while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured historical vision of the Metamorphoses.  Fasti (Ovidio)Fasti Ritratto immaginario di Ovidio (di Anton von Werner) AutorePublio Ovidio Nasone 1ª ed. Original edal 9 d.C. Editio princeps Bologna, Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende, oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.  L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni “INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o valenza.  Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe Ovidio e che non gli permise di terminarla.   Indice 1Struttura 1.1Libro I: gennaio 1.2Libro II: febbraio 1.3Libro III: marzo 1.4Libro IV: aprile 1.5Libro V: maggio 1.6Libro VI: giugno 2Note 3Voci correlate 4Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio, modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.  Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare dell'origine del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile  Festività romane Fasti (antica Roma)  I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa, 1811 (on-line) Traduzione in inglese dei Fasti, su tkline.freeserve.co.uk. V · D · M Publio Ovidio Nasone Portale Antica Roma   Portale Lingua latina   Portale Religioni Categorie: Opere letterarie in latinoOpere di OvidioOpere letterarie del I secolo. Ovidio.

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