Grice ed Occelo: la setta di Lucania --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di
Lucania. Occello appears to have held that the number III was the key to
understanding the world. However, according to Ippolito, he also believed that
in addition to the IV elements – earth, fire, air, and water – there was a
fifth principle which was circular motion. Filone says that Occelo believed
that it was possible to prove that the world is indestructible.
Grice ed Occilo – la setta di Lucania. Roma
– filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo
italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Brother of Occelo di Lucania.
Grice ed Ocone: l’implicature conversazionali dei liberali
d’Italia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano Grice: “Ocone has
selected Croce as the quintessential Italian liberal! That should please
Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like Ocone’s idea of a liberalism
without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ – that should please J. M. Jack!”
-- Grice: “Speranza has noted that if Bennett speaks of
meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.” Grice: “While
meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to make a sign
stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism is Humpty
Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si occupa soprattutto di temi concernenti il
neoidealismo italiano e la teoria del liberalismo. Allievo di Franchini, è
borsista dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napol. Qui ha
l'opportunità di lavorare direttamente nella biblioteca personale di Benedetto
Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del filosofo, raccoglie e analizza il
materiale scritto nel mondo su di lui. Un frutto parziale e selezionato del suo
lavoro vede la luce nel volume ragionata
degli studi su Croce pubblicata dalla Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli,
che vince l'anno successivo la prima edizione del "Premio nazionale di
saggistica Benedetto Croce", istituito dall'Istituto Nazionale Studi
Crociani. È stato direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di
Roma, dalla quale è stato successivamente allontanato per le sue posizioni
nazionaliste. Successivamente è entrato a far parte della Fondazione Giuseppe
Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di Nazione Futura. È anche
membro del Comitato Scientifico della Fondazione Cortese di Napoli, del
Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino Craxi, del Comitato
Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e del Comitato
Scientifico della Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero Fonda a
Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico II,
cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito dalla
Edizioni Scientifiche Italiane, che si propone di rinnovare il messaggio
crociano e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. Nel 2008
i suoi studi crociani prendono corpo nel volume Benedetto Croce, Il liberalismo
come concezione della vita, pubblicato dall'editore Rubbettino nella collana
“Maestri liberali” della Fondazione Luigi Einaudi di Roma. Il volume,
presentando l'immagine originale di un Croce partecipe del processo europeo di
distruzione delle categorie epistemiche, ha numerose recensioni. A partire
dalla sua interpretazione di Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo
senza teoria, cioè storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto
filosofico può essere così formulato: riconquistare il liberalismo alla
filosofia; ritornare in filosofia all'idealismo; ricongiungere il liberalismo
con l'idealismo (si vedano, a tal proposito, gli interventi di O. nella
polemica fra neorealisti e postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O.
ritiene che la critica rivolta a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto
nel suo pensiero il concetto di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato:
l'individualismo non è affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad
esso solo in una sua prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità).
Quello di O. è un liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal
realismo politico. Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri
propri dello scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della
sua critica del razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha
pertanto insistito sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo,
sulla priorità in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La
critica delle ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene
in quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della
filosofia contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per
coincidere Da ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato
teorico e storico dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”.
Essi, prima di essere ostracizzati, vanno per Ocone capiti: pur in modo confuso
e contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al
processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi
dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e
connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione,
che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due
“deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante
economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente
eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui
maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il
Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e
“nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione
politico-culturale “Ocone’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”.
Un estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone,
Prendiamola con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero
dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura
della traccia della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi
dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia
BRedazione di un saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito
socio-economicoArgomento: La riscoperta della necessità di «pensare»).
Nella sezione Dal dopoguerra ai giorni nostri, Percorso 9f Il dibattito delle
ideeDall'“impegno” al postmoderno, Dal periodo tra le due guerre ai giorni nostri)
dell'antologia "Il piacere dei testi", editore Paravia, è contenuto
il suo saggio "Né neorealisti né postmodernisti" da "qdR". Saggi:
“Coronavirus. Fine della globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del
secolo. Interpretazioni del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa.
L'Unione che ha fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per
il nuovo secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Pietro Reichlin e Aldo Rustichini) Pensare
la sinistra. Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza
teoria, Rubbettino, Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali d'Italia” Rubbettino,
Soveria Mannelli (con altri autori) “Le
parole del tempo. Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti,
Manifesto libri, Roma); “Spettri di Derrida, Annali della Fondazione europea
del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo
Melangolo, Genova); “Profili riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino,
Soveria Mannelli); “Marx” (Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La
libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a
Bobbio, Laterza, Roma); “Croce. Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino,
Soveria Mannelli); “Bobbio ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto
laico, Laterza, Roma); “Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli,
Torino, ragionata degli scritti su Croce; Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli. Cfr. Archivio borsisti in Istituto Italiano per gli Studi Storici Premio Croce, su mediamuseum. Comitato
Scientifico, su Fondazione luigi einaudi.
Riccardo Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O. perché
"filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/
Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, sComitato
Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione. rubbettino. Gianni Vattimo Pubblicazioni La recensione, Caffe'
Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche, su il Giornale,
Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica tedesca, su Gianni vattimo. blogspot.
com. La filosofia politica è una
pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che filosofo!, su reset. Attualità di Croce su opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia della prova scritta di Italiano
per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore
anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il
liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è:
manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero
laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Robin George Collingwood,
Autobiografia Collingwood; prefazione di Corrado Ocone, su opac., Il nuovo
realismo è un populismo / Donatella Di Cesare, Simone Regazzoni, su opac., Pietro
Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e libertà Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo
senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di
Giulio Giorello, su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac.,
Corrado Ocone, Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac.,
Karl Marx: teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti:
antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il
liberalismo come concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici,
opac., Manifesto laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento
di Bobbio, su opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini set a puzzle for liberalism – the Italians,
disorganized as they are, had to create a party: they called it the ‘Partito
Liberale Italiano’ – which is bound to close down! It opened in 1922 – while I
was at Harborne!” -- Grice: “The test of
a man’s intelligence lies in his ability to name his party – partito liberale
italiano – partito liberale democratico – partito liberale constituzionale –
the addition of ‘italiano’ at the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS
that what Borolli did at Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since
he omitted to add the ‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but
fiorentino at most! Similarly, the partito liberale democratico is NOT the
partito liberale italiano, nor is the partito liberale costituzionale.
Mussolini had it clearer: there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa
– the infix ‘nazionale’ means that provincials should not appy!” Corrado Ocone.
Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism,
dal liberalism al fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale
– Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed
Ocone” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oddi: l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Padova).
Filosofo italiano. Figlio di Oddo
degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per incarico
del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e introduce senza
ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale di San
Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo
di Brescia G. Vedova, Biografia degli
scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo
al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di
Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo
collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano
pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di
san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui
avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver
dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima
d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base
dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor
dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non
essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza
vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli
Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta
et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis
Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto
presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in
vita Boltoni , non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca
di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano. N e taceremo , come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot
Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e
di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione
nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni , professore primario di medicina pratica
estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni
a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con
ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si
riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico
ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso,
finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni
fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i
più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di
malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come
sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il
soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto
ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro
de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure
durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di
ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in
una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale
:quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci,
ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo
perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia
de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni:
nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta
insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè,
occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare aigiovanida
quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente, rinnovò la scena
istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a piegarlo le nostre
istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e l'ora occupati per
lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere altra ora ed altro
luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse, coll'insistere per le sue
pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi dagli altri prima di lui.
Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti saremmo stati esclusi
dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo consiglio intra prese a
nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo medicoper nome Emilio
Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e professore della stessa
cattedra , m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa come, ottenere che la
ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre ilsolo O.,venissefra
entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini fossero medicati longo, e
le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che pure minacciava apertamente
di voler far si che avvenisse. La quale insolenza, divenuta già intollerabile
ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli per ogni riguardo di molta
stima e riverenza, li costrinse a partire dallo spedale, e con essi partirono
quanti vi erano studenti della nazione alemanna,rimanendo così affatto solo
ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli altri. Informati poscia bene del fatio
i governatori dello spedale , costrinsero il Campolongo con severi modi a
cessare dalla sua pretesa, ingiungendogli, sepur voleva intraprendere qualche
esercizio a vantaggio di taluno degli studenti, di scegliersi un'altra ora ed u
n altro luogo. Cosi, mercè la prudenza dei nostri maestri e la costanza degli
studenti alemanni, fu vinta l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea
ricominciare. Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani
per far le vacanze presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O.,
eccellentissimi uomini e della nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far
potessimo qualche profitto nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro
pratiche istruzioni quasi ogni giorno nello spedale di san Francesco sino al
principio delle lezioni, con gran fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra:
della qual cosa poco io dirò, potendo bene ciascuno dalla rela. zione del mio
antecessore rilevare le circostanze tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo
nella state invitati parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi
vieppiù grati a'nostri, li condussero due volte colà, dando per tutti cavalli e
legno il signor O., e quivi gl'instruirono circa il valore medico delleacque
termali e deifanghi. Verso lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione
opportuna per le sezioni anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada
veri di quelle donne che morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare
alla presenza degli scolari le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare
ben tosto que lidi fondamenti della scuola clinica in Padova , che precedette
tutte l'altre in Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche
nel successivo anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure
vennero ad insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca,
raccontandosiivi quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle
arti in un palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani
inPadova (intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo
sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel
giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare
lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori
scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace,
Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno
medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque
da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi
dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover
essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di
astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo
stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro
impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei
malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Offredi: l’implicatura conversazionale del lizio
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Gli era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico.
Insegna a Pavia e Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza. Saggi:“De primo et ultimo instanti in
defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle
scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale
di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua
patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze
mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI
CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS
IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum
mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs marginalibus
illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN
COMMENTARIIS tractatas, altero, qui quastionum capita copiosissime
comple&titur, PRAETERE A DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE AVCTA
IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS. DOCTORIS Hoc aut contingit propter
posibilitatem intellectus D APOLLINARIS CREMONE N. noftri, qui à
principio est sicut tabula rasa, & non. 3. de anima tex. in librum primum
Posteriorum mouetur ad intelligendum, nisi de potentia ad actí
cap.is. reducatur sic autem intelligentia non cognoscunt, Aristotelis, exposition
cum semper in actu intelligendi existant, & eodem modo et nunquam in
potentia. Bruta etiam non Mnis doctrina, et discurrunt saltem discursu
pfe&to, quamuis in prin- omnis disciplina incipiosint in potentia ad
cognoscendum, & hoc est telleştiua , ex præpropter imperfectum eorum
modum cognoscendi; existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q aliquo
modo, et impertione. Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per idem
medium euidenter concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu dum
cognoscendi imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus;
gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim
scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq;
intelli- modum fiunt, & aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt.
Cũigitur intellectui tium. Similiter aút & orationes,quæ p nostro sit
potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem;
scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti- utræq; enim per
prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum,
ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem
accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum naturaliter
eft tex.6. 19 B notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā,
& vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare
que semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et
rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis
di- aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus
in acquirêdo notitia aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia
alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus
operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt
colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü
intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia
intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus
operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent
logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani-
habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito
fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri,
tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum ,
obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, &
speciebus predicamentorum , prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per
cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici
cognosci habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione
determinatur, et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea
nota doctri de inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co-
C F na nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò
in alys Logicelibris conti- à cognofcétibus propofitiones accipiantur,
netur, qui cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de in altera
per singulare iam notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere
debet in versale oftendatur. Simili profe&to modo, telle&tus,o3.
de syllogismo, es consequenter de alijs modis arguendi. Diuiditur autem
tota illa pars hoc Goratoria rationes fuadent, aut .n.exem modo , quia
ficut in a&tionibus Nature diuersitas plis,quod est inductio,aut
enthymematibus reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate fiunt,
g&quidē ratiocinatio est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum, quedam
vero raro (propter oratoria fuadere. defe&tum aliquem in natura,ficut
monftra ) sicin discursibus rationis quidam sunt, in quibus est
nePro inductione expositionis huius libri Pofte- cefsitas, & ifti cum
rectitudine rationis habentur. riorum , fub brevitate, videnda funt quædam, v3.
Ală sunt , per quos vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam
inueniendi, et confetur, non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter
fcienciam huius libri, Quis ordo huius libribus eft defectus rationis propter
alicuius principi ad cæteros libros logica Arist. Quis libri titulus,et defecttum.
Pars logice, in qua de primis determiquid fubie&tú, & fic
consequenter habebuntur ipsius natur, iudicatiua dicitur, & eft illa,quæ
traditur in Non pigeat hoc cause. Quantū ad primum fciendum est primò, q libris
Priorum,& Pofteriorī,dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter
cognoscendi fit medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium eft cum
certitudine. dum intelligentiarī, er modum Brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam eft
analetica .i. refolutoria, co gisa diftinguitur in hoc, g intelligimus
cum discursie. dicium certum de effe&tibus baberi nö poffit,nisifiat. Con
quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare col commercio de'demonj ,
colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie, e le maniere di
preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri insignim e dici
Cremonesi di questo secolo. Apollinare Offredi s o lenne filosofo, astrologo e
medico, lettore di metafisica nello studio di Pavia e di Piacenza, caro ed
accetto ad Eugenio IV,Filippo Maria Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria
protettor suo dedica O. i suoi Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati
poi in Milano, sui quali piacemi di trascrivere il giudizio che ne fece
l'illustre mio concittadino ed amico il prof. Baldassare Poli. Con quest'opera,
dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine delle idee lo stesso
Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata famiglia de'filosofi
peripatetici italiani, che al melodo naturale e sperimentale aggiunsero quello
della critica e delle proprie dottrine aveva proposto nuove ricerche superiori
al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le scuole moderne. I n p rova di che
il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua storia della filosofia ita liana
riferisce alcune proposizioni filosofiche dell'Offredi tratte dalle opere
sull'esposizione e sulle questioni de’libri d'Aristotele de anima (che ebbero
poi tante edizioni), dalle quali scorgesi come l'Offredi svincolasse la
filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse sul sentiero della libera e
coscienziosa verità. Quanto alla medicina Apollinare e celebrato per cure
maravigliose fra i migliori medici del suo tempo, e pubblicava al cune opere,
di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi. Il 312 Elogia
clariss. virorum Collegii Pisan.1750 negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo
Volaterrado e Spacchio non scrive quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa
onorevole menzione in una sua lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza
dell'Offredi dipende quella della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure
da'vostri sto rici e biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato
nella Biografia medica di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di
medicina a Bologna, Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio
intitolato Commentarii sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non
sembra es sere giammai stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci
tramandarono di Albertino de Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non
confondersi coll'altro Albertino di S. Pietro. Il Cattanei la dottissinio in
varie scienze, dottrine e lettere, e professore straordinario di filosofia,
fisica, etica e teologia prima a P a dova indi a Bologna, poi difilosofia
morale e di medicina nello studio di Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495
fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara.
Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino lo chiama doctrinæ et honestatis
exemplar; e lascia alcune opera accennate dall'Arisi. Boezio, Hugues de St
Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio
Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di Gand, Henricus de Gandano, Roberto
Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il francese Giovanni Gianduno o da
Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di Pietro d'Abano. Giovanni
Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae Scotista, il Burleusossia
Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum, Buridano, Vio, Gregorio
di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli Agostiniani nominalisti), Jacopo
da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di Taddeo fiorentino filosofi e medici
del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova logico, PaoloVeneto filosofo,
Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino da Padova uno dei maestri di
Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali, tutti del 15.0 secolo. Il
Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni aggiunte. Di Marliano milanese
detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi libri anteriorie stampati especie
quello Deintensione el remissione formarum. La maggior parte di questi
Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie della Filosofia e della
Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle Enciclopedie. Pietro
d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è famoso e una sua accurata
biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o letteraria dello Studio
di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu professore a Padova è da
notarsi al proposito di questo lavoro che egli è autore di un De
Intensionc 339 titolo più particolare che sta in testa alla prima
pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure si riferisce ai
corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il detto titolo è il seguente:
“In nomine individuae Trinitatis incipiunt quaestiones animasticae excellentissimi
artium et medicinae doctoris, domini Magistri Petri Pomponatii Mantuani
philosophiam ordinariam in bononiensi Gymnasio legentis. Sventuratamente il
Codice di Firenze non ha che 57 fogli invece di 267 che ne ha quello di Roma, e
delle 79 Questioni di cui contiene l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi
sono trattate; queste corrispondono generalmente per l'ordine in cui si
ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma non sempre e talvolta con parole
diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono 114 ed esauriscono tutto il
trattato di Aristotele, quelle del Codice di Firenze non vanno guari al di là
della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che sono esaminate e risolute
non sono comprese le più importanti dell'Indice come sarebbe quella della
Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta questo titolo. Da un
opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova ilPomponazzi comincið et
Remissione Formarum , come il Pom ponazzi,manoscritto registrato dal Tommasini
nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae el privatae, Utin, L'Apollinare,
Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più d'una volta dal Pomponazzi citati
insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte della loro vita contemporanei. Paolo
Veneto ha fiorito nella prima metà del secolo XV ed è stato professore a Padova;
la sua Somma di Logica e isuoi Commenti supra l'Organo sulla Fisica di
Aristotele e specialmente sul De Anima furono celebri e c m mendatissimi. Di
esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e
Poli nel Supplemento IV al Manuale della storia della Filosofia del Tennemann.
L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco
Arisi, Cremona literata Tomo I pag. 248, Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura
italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima e fu chiamato
l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a Carte che su
discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus discipulus ». Fu
difensore della filosofia Cristiana contro l'Averroismo; insegnò a Piacenza evi
fu aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al De Anima di Aristotele
esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso fu stampato più volte;
la prima edizioneè di Milano (Vedi il Tiraboschi
e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia (esistente nella Biblioteca Alessandrina di
Roma) da Boneto Locatelli si trovano 1.o la Logica di Pietro da Mantova; 2.o il
trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo
instante”) citato dal Pomponazzi nel suo “De Anima” ; 3.o un trattato
responsivo di O. Apollinare da Cremona al Mantovano in difesa della opinione
comune; 4.° un commento del Menghi alla Logica di maestro Paolo Veneto. Le due
opere del Mantovano portano questi titoli. Viiri praeclarissimi ac subtilissimi
logicim a incipit feliciter. Incipil sublilissimus tractalus ejusdem deinslanli.
Il trattato dell'Apollinare ha per titolo “Illustris philosophi et medici
Apollinaris Offredi Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem
communis opinionis adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il
principio di quello del Mantovano che il Pompovazzi cita colle parole Petrus de
Mantua o Mantuanus concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem
(Magistri Petri Mantuani) de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes,
quod sola forma secundum se el quam libel sui proprietatem potest incipere el
desinere esse. Materia enim prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus
esl, -sul “De Anima” un corso che non potè finire. Forse ad esso si
riferiva il manoscritto che Tommasini (Bibliothecae Patavinae publicae et privatae)
dice di aver veduto nella libreria privata del Rodio. Quanto a quello di
Firevze, il titolo ci avverte, come abbiam detto, che esso deriva come quello
di Roma dall'insegnamento psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si troverà
nell'Appendice l'indice delle questioni che vi sono registrate. È certo in ogni
modo che il manoscritto di Roma è il Commento intero del Pomponazzi sul De
Anima di Aristotele, e ciò che più monta e risulta dalla data apposta alla fine
del medesimo, è l'opera della sua età matura, l'espressione più completa del
suo insegnamento più importante, il corso da lui dato o compiuto sul “De Anima”,
nel tempo che segnò l'apice della sua attività, in quell'anno 1520 in cui egli
stesso datava dalla Cappella di S. Barbaziano in Bologna il De Naturalium
Effectuum Causis, fu ilvelerit de materia prima in rerum natura quam nunc sil, velminus.
Secundum tamen verilalem (cioè la fede) malaria ali quando desinil esse ulinc onsccralione,
plusaulem velminusali quando est de forma tam subslunliali quam accidentali.
Sed hoc proposilum non destruil. Er quo sequilur quod si aliquod ens nalurale
incipil vel desinil esse, ipsum incipil vel desinit esse propter cjus formam
substanlialem quae incipit vel desinit esse. Premessa la eternità della
materia, tutto il trattato si aggira sulle difficoltà e le antinomie che
possono sorgere dalla applicazione delle categorie del moto e della quantità
alla generazione e alla cessazione delle forme nella materia, e specialmente
dalla relazione della materia con la forma nei virenti. La qualità delle
argomentazioni giustifica la parola sublilissimus aggiunta al titolo del
Trattato e ricorda i ragionamenti della Scuola Eleatica e specialmente di
Zenone sul moto. Questo libro è uno dei più curiosi esempii dell'ardire pur
troppo sterile quanto ai risultati o b biettivi,ma non infecondo quanto alla
ginnastica della mente,con cui la Dialettica del Medio Evo e della Rinascenza
si accinse alla soluzione dei problemi più difficili. Nel manoscritto di
Firenze sopracitato come anche in quello che qui facciamo conoscere Pietro
Mantovano è spesso designato colle iniziali P. M. Il Sig. Fiorentino è rimasto
dubbioso se queste let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che il
Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii.
Essendo il Manna cremonese, è chiaro che il Pomponazzi non poteva chiamarlo
concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più celebre dei due Trapolini che il Pomponazzi
ebbe per maestri, ecco ciò che dice il Papadopoli Libro III, Sezione 2.a capo 6
della sua storia dell'Università di Padova. Petrus Trapolinus Patavii nalus
patricia genle....philosophus, malhemalicusel medicus declinante SaeculoXV
celeberrimus, Medicinam in Gymnasio palrioprofessuseslutconstatex Albis gymnasticis.
VixilannosLVIII; viveredesiitan. MDIX caipsadiequa caplum direplumque Patavium
estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quaemulla conscripseralperiere.
Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali. Di AntonioTrapolino suo
precettore in medicinail Pomponazzi parla nella12a delle sue Du Vilazioni sopra
il4o dei Meteorologici di Aristotele adducendo le difficoltà che egli scolaro
gli opponera su certe cause della mutazione delle forme nei misti. Ivi l'autore
avvicina Antonio Trapolino a Gentile Gentili, a Jacopo da Forlì e a Marsilio
(di Santa Sofia) altri rinomati professori di M e dicina nell'Università di
Padova. Di Pietro Roccabonella che fu pure suo maestro è menzione alla fine del
De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo professore oltre al
cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly obsessed with Pomponazzi. They
complained he looked more ‘a Jew than an Italian,’ but he predates Ryle’s
Concept of Mind. One of his influences is Offredi, a lizii – who wrote not just
on Aristotle’s De Anima (a manuscript Pomponazzi consulted) but who himself set
to defend Pomponazzi – to prove that he was a real lizio, he wrote on Analytica
Posteriora too – “Only a true lizio will comment on that!” -- Offredi.
Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Offredi,” The
Swimming-Pool Library.
Grice ed Olgiati: l’implicatura conversazionale dei
classici – filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Grice: “I’m impressed that Olgiati
dedicated a whole tract to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso
Seminari milanesi. Collaborò con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia
neo-scolastica e fondò con loro il periodico Vita e Pensiero. Fu insignito da
Pio XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Protonotario Apostolico.
Inoltre fu, assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università Cattolica del
Sacro Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e
di Giurisprudenza. Fu condirettore della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli.
Fu autore di innumerevoli scritti relativi alla religione e all'istruzione. I
suoi allievi più illustri furono Melchiorre e Reale. Tomba di Agostino Gemelli
mons. O.. Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis, oltre ad essere
dedicato a Tolkien, è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai benemeriti della
scuola, della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro
ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte — Università Cattolica
del Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi: “Religione e
vita” (Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I fondamenti
della filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della Teologia” (Vita,
Milano); “Il concetto di giuridicità in Aquino” (Vita, Milano); “Marx” (Vita,
Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano); “Il sillabario
del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia Bustocca.
Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La Famiglia Bustocca,
Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia. Francesco Olgiati.
Olgiati. Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius, Aquino, sillabario,
filosofia classica, filosofia no-classica, logica classica. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olimpio:
l’implicatura conversazionale di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lived in
the middle of nowhere. When he found his city became an uncomfortable place for
pagans, he moved to Rome.
Grice ed Olivetti: l’implicatura conversazionale dell’archivista
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Olivetti deals with some topics dear to me and Strawson,
like subject, transcendental subject, and the rest – he also uses ‘analogy,’
which is a pet concept of mine – I have been compared to Apel, so the fact that
Olivetti in his ‘conversational’ approach relies on him, helps!” - Professore a
Roma -- preside della Facoltà di filosofia. Formatosi nella Facoltà di
Filosofia di Roma negli anni sessanta, confrontandosi con i temi del rapporto
fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti orientato sul versante
marxista, storicista, postidealista, trovò in Zubiena il suo maestro. Con lui
iniziò una collaborazione intellettuale che lo portò a studiare i temi della
filosofia della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal
filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di Zubiena come
organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia
classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al
tema della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo
Zubiena nella cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo
l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di
questa disciplina come antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima
anzi anteriore» su base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo
settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta
rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave
storica, e da ultimo il confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas
e Marion, sia con la filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua
opera maggiore, l'autore elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo
suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e
suggerendo una teoria dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base
staurologica ed etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim
interlocutivo» ibidem). La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere
umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e
l'umano non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine
dell'etica. Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la
filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento
del soggetto trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito
cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni
logica, in modo da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest.
Si perverrebbe così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione
trascendentale, in modo tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta
traccia della rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore
dell'Istituto degli Studi Filosofici Castelli e poi dell'"Archivio di
Filosofia", si fece promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva,
a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia
della religione europea e mondiale (P. Ricœur, Marion, Mathieu, Quinzio, Melchiorre,
Lévinas, Lombardi Vallauri, Forte, Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine,
Falque, Grassi, Paul Gilbert, S.J. Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne,
Gabriel Vahanian, Hénaff, Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri).
Nelle sue prolusioni e nei suoi contributi introduttivi si prospettava lo
sfondo su cui si sarebbero esercitati i contributi e le discussioni del
Colloquio, di seguito pubblicati in numeri monografici della Rivista
"Archivio di Filosofia". I temi trattati erano spesso centrali
nell'elaborazione di una filosofia della religione come filosofia tout court e
abbracciavano, negli anni ottanta e novanta del Novecento, temi centrali come
"Teodicea oggi?", l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il
Dono, la Filosofia della Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua
personalità riservata entro l'ambito strettamente scientifico e il rigore
speculativo dei suoi scritti non ne hanno favorito una conoscenza pubblica al
di là dei circuiti accademici, e il suo insegnamento ha lasciato un traccia
significativa costituendo una vera e propria scuola di filosofia della
religione. Saggi: “Il tempio simbolo cosmico” (Milani, Padova); “L'esito
teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani, Padova); “Filosofia della
religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da Leibniz a Bayle: alle
radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia del soggetto” (Laterza,
Roma); "Filosofia della religione" in La filosofia, Le filosofie
speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers, Archivio di Filosofia Archives
of Philosophy, Considerazioni introduttive sul tema: Postmodernità senza Dio?,
in «Humanitas» a.c. di Ciglia e De
Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La religione entro i limiti della
sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei limiti della sola ragione, I.Kant
(Laterza, Roma); “Saggio di una critica di ogni rivelazione, con introduzione J.G.
Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia
», Tommasi, Le persone, infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi
Kantiani », Filosofia della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede
Ragione Bruno Forte, Del sacrificio e
dell'amore_In memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su
filosofia.uniroma1. E. Giacca: un
filosofo della religione", Giornale di filosofia, su
giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su libraweb.net. Marco Maria
Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista -- “philosophy of
language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico della filosofia
del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de fine –
autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito teologico
della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olivi: l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Undine). Filosofo italianao. Medico e storico
italiano. Anche filosofo. Enrico Palladio degl’Olivi.
Grice ed Onato:
la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Onato or Onata was a
Pythagorean. Fragments from his treatise survive. Onato.
Grice ed Onorato:
il cinargo romano – Roma – filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Onorato is a member of
the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato
Grice ed Opillo:
l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Aurelio Opillo segue l'indirizzo
dell’orto. Liberto di un epicureo, insegna filosofia, ma sciolge la sua
scuola per seguire Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie opere, fra le quali
Musarum libri IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt
“Opilius” vgl. F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie,
dann Rhetorik. endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte
dem P. Rutilius Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem
ein Werk von neun Büchern mit dem Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten,
die daraus von Gellius und besonders von Varro, Festus und Julius Romanus
gemacht werden, muss er sich besonders mit Worterklärungen befasst haben.
Ferner erwähnt Sueton einen Pinax mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir
wissen, dass sich Opilius mit Scheidung der echten und unechten Stücke des
plautinischen Corpus abgab, werden wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen
dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de gramm. 6 Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum
libertus, philosophiam primo, deinde rhetoricam, nocissime premmetiram docuit.
dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum in Asiam secutus ibidem Smyrnae
simulque consenuit compositque variae eruditionis aliquod volumina, ex quibus
novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub clientela Musarum indicaret,
non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex numero divarum et appellatione.
huius cognomen in plerisque indcibus et titulis per unam (L) litteram scriptum
animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide libelli, qui incribitur
pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins Opi-lines in primo librorum,
ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro de lingua lat. wird er unter
dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106, unter dem Namen Opilins Vgl. H.
Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert als Aurelius Opilius, dann als
Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich als Opilius, O. M. Vgl. R.
Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl. philol. Abh.). Charis. (Julius
Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius. Aurelio plaret. Vgl. O.
Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis. Jahrb. Supplementbd.)
Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern von indices
plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F. Osann, Aurelius
Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G. Goetz,
Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat.
serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn P.
Rutilius Rufus war Cos.). Opillo
Grice ed Opocher: l’implicatura conversazionale della
giustizia – IVSTVM QVIA IVSSVM – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “There are two points that connect me with Opocher:
‘individuality’ in Fichte, since I love the problem of the in-dividuum, perhaps
influenced by my tutee Strawson (“Individuals!”) – and Opocher’s ‘analisi’ as
he calls it, of the ‘idea’, as he calls it, of ‘giustizia’, particularly in
Thrasymachus, for which I propose an eschatological study!” -- Enrico Giuseppe
Opocher. Con Ravà e Capograssi è considerato uno dei maggiori filosofi del
diritto italiani del Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante
la Grande Guerra la famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì dapprima
nella periferia di Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli anni
successivi riportarono un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico
crebbe, dividendosi tra la città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue
vacanze estive. Dopo il liceo fu
avviato, secondo il volere del padre, agli studi giuridici, benché fosse
decisamente più inclinato verso la filosofia. Si iscrive alla facoltà di
giurisprudenza a Padova, ma continua a coltivare i propri interessi personali
seguendo le lezioni di filosofia del diritto tenute dRavà. Sotto la guida di
quest'ultimo stilò una tesi su La proprietà nella filosofia del diritto di
Fichte, con la quale si laurea brillantemente. Ottenuta la libera docenza,
vinse il concorso per la cattedra di filosofia del diritto presso la facoltà di
giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che in Veneto era divenuto
segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo padovano insegnò ininterrottamente
per quarant'anni, tenendo lezioni per i corsi di filosofia del diritto, di
storia delle dottrine politiche e di dottrina dello stato Italiano. È ricordato in maniera particolare per i suoi
studi sull'idea di giustizia, e sul rapporto tra diritto e valori, nonché per
la redazione di un celebre manuale, Lezioni di filosofia del diritto, usato da
generazioni di allievi. Fu magnifico
rettore dell'Università. È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia
Giuridica e Politica. Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e
col laico Bobbio, fu azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo
del Bo) le attività cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase
amico stretto di Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di
Toni Negri. Saggi:“Individuale” (Padova, MILANI); “Esperimentato”
(Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano, Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova,
MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Milano); Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio Cortese, Liberare e federare: L'eredità
intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2citando D. Fiorot,
La filosofia politica e civile – filosofia CIVILE --. in Scritti, G. Netto, Ateneo di Treviso,
Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del Pensiero,
Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd. Denominazione attuale: Società
Italiana di Filosofia del Diritto, vedi.
Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della tolleranza, in La Tribuna di Treviso,
Toni Negri: «Un uomo davvero libero nell'università chiusa degli anni '60», in
[Il Mattino di Padova] Giuseppe Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro, Padova, MILANI, 2Giuseppe
Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Società
Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned with
‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically false a
posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English. Both
iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is
commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he
rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht,
Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract
between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Opocher.
Keywords: giustizia – fairness, gius, il concetto di gius nel diritto romano,
iustum non quia iussum – verbal aspect here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Opocher: giustizia del neo-Trasimaco.”
Grice ed Opsimo:
la setta di Reggio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. A Pythagorean cited by
Giamblico. Opsimo.
Grice
ed Orazio: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venosa).
Filosofo italiano. Orazio fu attirato dai problemi
morali ed estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle
"Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia
morale per la quale vuole abbandonare la lirica (I, 1, 10-23; II, 2, 141-144. Si
è notato che dal v, 145 alla fine questa epistola è un protrettico. Ma anche
negli scritti precedenti Orazio tocca spesso argomenti
filosofici. Scherzosamente, Orazio si chiama Epicuri de grege poreus
(Epist. I, 4, 16). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle
parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei
suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche
una disciplina che non deveno essere ignorate. Orazio s’interessa soprattutto
per la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante
dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con
simpatia l’etica del Giardino d'Epicuro, di cui si scorge l’influsso nella seconda
satira del primo libro, e nella terza di questo, in versi che abbondano di
reminiscenze a Lucrezioe. Orazio ri-assume la teoria del Orto d’Epicuro
sull’origine del diritto e delle leggi. Più volte, satireggia paradossi del
Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa.
Orazio disegna la caricatura degli stoici capelluti e barbuti che, predicatori
ambulanti, espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita. Ma
Orazio mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del
Portico. Orazio si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la
vita semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze
e al lusso, Orazio si collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte
l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di Orazio è
utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non
è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di
incoerenze. Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente
riflessi di teorie del “Lizio” e particolarmente di Neottolemo di Pario, che
assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si
fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale
nella dottrina estetica che Orazio propugna. Quinto Orazio Flacco. Best
known as a poet, Orazio was sent by his father to study philosophy. His studies
were cut short when civil war broke out after the assassination of Giulio
Cesare. His works, frequently advocate the simple country life, and a number of
letters he published indicate a continuing interest in philosophy. Although he
had friends that followed the doctrine of The Garden, and he was clearly
familiar with these doctrines, it is not clear that he ever belonged to any
particular ‘school.’ Complete Works, Dent. In an examination of Horace's
philosophy, we should not look for that comprehensive love of wisdom generally
termed philosophy by the ancients, including science, ethies, and speculative
thought. Horace was not the speculative type of man to be interested in the
composition of the universe, "Quae mare compescant causae, quid temperet
annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168 at Stert tan doddret acunen, fre
Wetaer the pLanete wander ad rol Fone spontareduer) 18 pedoedes or subt1e
dtortinius that Is Crazed."). Horace was a realist, concerned with the
ethical side of wisdom--with the conduct of life. Horace was thoroughly Roman,
and the Romans, except only a few lofty souls such as Lucretius, Cicero, and
Virgil, were of a practical, mundane nature. They cared little for the
abstractions of speculation. They were born to rule-- parcere subleatio et debellare
superdos.*2 than oupire, titg Shail be tnite are, to ozdain the law of peace,
to be merciful to the conquered andbeat the haughty down."). The
philosophy which appealed to the Romans was that which would give them mastery
over self, and hence over the world. But everywhere around him Horace saw the
tremendous waste of human energy, struggling nen, feverishly pursuing the
bubbles that do not satisfy, frittering away their man-hood, consuming time and
not achieving the mastery of life to which their heritage entitled them. For
such an audience, then, in whi h the will to live was the dominant
characteristie, norace, the sane, tolerant, and sympathetic man of the world,
with the insight which comes from contemplation and the inspiration which comes
from a realization of the dignity of his task, formulated his philosophy of
living, a simple, practicable oode of ethios, to help men to saner, worthier,
happier lives; & code which furnished a solution to the problems of life.
It is not an explanation of life, but a way of life, something tangible, a
touchstone by which men may test their own worth and contentment. How keenly he
felt the importance of his mission we may know from "Sic nihi tarda fluunt
ingrataque tempora, quae spem Consitiumque, morantur agendi naviter id quod
alike to the poor, alike to the rich, and the neglectThe mature sorace was
unusually well qualified to undertake this office of sage, monitor, and guide,
for he was the product of unusual home training, thorough training 1n the
schools of philosophy, and a very varied experience. Horace was ver, fortunate
in his home influence. Born of a freedman father, who knew life from the point
of view of the toiler, he early aoquired the common sense which 1s the basis of
sound living. His father gave him an insight into the things worth seeking, by
pointing out the conspiou-ous failures in his own vicinity. Instead of merely
advising his son to lite frugally, he called his attention to a certain
well-known fellow who had squandered his patrimony. Others he indicated as
shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action
of certain men whose lives were an example to the wole comunity, and shunning
the practices which had made others infamous, he could always have a criterion
of conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice
and virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons,
horace was sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice.
It 18 the finest possible tributeto the fundamental worth of this rustic
freedman that norace speaks ever gratefully and without shame of his humble
birth and boyhood training. just what norace's life at the 'University' of
Athens may have been, we do not know. sut he gives ample proof of nis entire
familarity with both Epicureanism and stoloism. The former, so ably expounded
by lucretius, must have made a profound impression on norace, the lover of
life. That he had a sympathy with their doctrine of impassiveness (to them the
duty of man being to increase to the utmost his pleasure, decrease to the
utmost his pain, and the highest pleasure being peace of mind) is proved
byTempora momentis Tapora potent. Oat qua gordine Dulla ("Not to be
exoited about anything, Numicius, is almost the one and only thing that can
make and keep a Ion sun and stars and the seasons departing in fixed course there
are who view with no tinge of and again "Gaudeat an doleat capiat
metuatre, quid ad rem ntere 1, ral eerento ne has esea beeter oat matters it,
worse than BotE In body and soudii, hs eyes stare and he ds dased In another
place he allies himself playfully with the more material enjoyments of the
Epicureans--Once he admits, hafe shamefacedly, his weakness for the hedonism of
Ceristippus ("Now imperceptibly I slip back to the terets of et, tot ne to
the worla ate the rorta to And in a second passage he praises the adaptability
of Aristippus,3 contrasted with the cynio. But a man with the rigid training of
Horace's early years could not be completely satisfied with the
superficialities of the Epicureaniem and Cyrenaism. He valued happiness, but he
had too much moral fibre to find it either in impassiveness or pleasure for its
own sake, and so in spite of his repugnance to the sternness of stoician, and
the severity of its "Sapiens", he was drawn toward the positive
virtue of the Stoias. No utterance could ring more clearly Stoic than the
following: "Vir bonus et sapiens audebit dicere: 'Pentheu, 'Adiman
bona.''Nempe pecus, rem,Comed bas entro toste httote tenth maniodsette sub
custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.'("The good and wise man will make bold
to say, 'Pentheus, Ruler of thebes, what will you force an undeserving man like
me to suffer and endure?' 'I will take keep you under the charge of a grim
"The deity himself will free me as soon as I I suppose thig is what he
means, 'I will die.' Death is the final goal of things." ) Although he
appreciates the value of the stoic tenets he cannot take their asceticism
altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling this jest at
them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber, honoratus,
pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est.
"?("To sum up, the philosopher is inferior to jove alone;tingo inga
aborea noalthg, sare winen troubiedThus we see that horace was an folectic,
sifting from all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best
adapted to his needs. If there appear to be inconsistencies in his system of
ethics, and there are countless ones, we must remember that he regards himself
as the physician of morals, ministering to many kinds of ailmente, each one
demanding a diiferent prescription, and he knows all too well that life is too
complex to be reduced to a simple formula. To the Stoics Horace owes his
positive dootrine of self control, of a life in accordance with nature and
controlled by virtue, and his superiority to misfortune. To the Epioureans,
Horace owes his theory of the wise enjoyment of life, and to the Cyrenaics his
theories of moderation. Of nis own foibles and changeableness he says Cone
todtur t tale thdate pocune ("I commend the safe ana humble when funds are
low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more
sumptuous falls to my good fortune,Horace's life experience had been a
kaleidoscopic one. His youth had been spent in association with the sons of the
wealthy and well-born,andthus he acquired that tact and urbanity which were so
valuable in his later relationships, and which enabled him to give advice on
matters of social conduct. Then followed his attachment to the hopeless cause
of the Republicans, with the disillusionment, loss of property, position, and
purpose. such a complete alteration of nis entire life scheme could not but
have a tremendous effect. Any faith that he might have had in politios as
worthy of a man's best efforts, was of course completely shaken. From that time
on he could write with thorough conviction of the insubstantiality of
"Ambitio". Besides he realized keenly the moral evils that followed
the civil ware, and pessimism and general contempt for nis shameful
countrymenHis fresh beginning in kome in a most humble position, gave him the
first taste of the real struggle of the great mass of men for the mere means of
existence. From this position he could see the weaknesses of the poor, their
unrest, and idle craving for the wealth which they failed to see wis not
conducive to happiness. It is perhaps from this phase of his existence that
orace gained an appreciation of the simple joys of life wich are attainable for
all--sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Tastly nis friendship
with waecenas, coming after the bitterness of life, afforded him the leisure to
devote himself to poetry. ue had learned too well the instability of position
to value it over highly, but from this relationship he draws the principles
which he lays down as guides for patron and client.The burthen of Horace's
philosophy of life is the attainment of happiness. Since he has tasted of the
sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to poetry
is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has
a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great
majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first
undertakes an explanation of the nature of happiness. Ultimately happiness is
the product of a definiteattitude toward life. It is not a mere matter of
chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in
the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal.
the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realize this,
must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects
them will suffer for his neglect. "et miPosces ante diem librum cum
lumine, si non ("and if you will not call for a book with a light before
dawn, if you will not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you
will be kept awake and racked with jealousy and 1ove.") Men's bodily
well-being, in wich they take such a keen interest, 18 not half so important as
right living. Si latus aut renes morbo temptantur acutoQuaere fugen morbi. Vis
reate vivere: Quis non?"l who does not?") And yet they place every
other interest belore the wise regulation of life, either because they are too
ignorant to realize its importance, or because they are too slothful and
cowardly to face the issues. "Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue
inatun,2 ("When you make haste to remove what hurts the eye, Then let
every man take thought of whither his life 1s trending-- "Inter cuneta
leges et percontabere doctos, Qua ratione queas traducere leniter sevum;
("In the midst of all you must read and question the what lessens care,
what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of a iise mo 10e4.
When once men do come to acknowledge that nappin-ess in not an accident, but
tie logical outcome of & well considered and consistently pursued course of
life, they should give prompt attention to these matters of vital moment,and
thus horace indicates the first step toward the new life.Multit e arttase fygere
et sapteatia prineAnd once aroused it will not seem so difficult, for"Dope
up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really desires happiness he
must have an aggressive attitude toward it, for what is worth achieving can be
won only atthe expense of vigorous effort."Sedit qui timuit ne non
succederet. "3 osame has beer afraid of fallure, has remainedAnd
again,"Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at
the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it
on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because
his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt
any serious reformation. Norace invites him to draw inspiration from his own
altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem
Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena
brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum.
"Leroa.("I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you know
witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have had
my sport, but would be, not now to out it short.")Inconsistency 1s no
disgrace, if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, don't
delay, but act at once!"Qui recte vivendi prorogat horam("He wao
postpones the season of upright living is like It gidea and will glide, rolling
on to all time.""out downWith this awakened interest, norace thinks
it wellfor each man to test to the fill each of the things wich men from time
immemorial have deemed the "gunmum bonum", with a view to adopting as
his one, whichever one seems to have the most real vaiue, to bring the calmand
contentment that are significant of a life well lived. The decision is
amomentousone :"Non qui Sidonio contendere callidus ostro lescit Aquinatem
potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque medullis, Quan qui non
poterit vero distinguere falsun. "3 ("He who has not skiil to know
now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in Aquinun, will
not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he who will not be
able to discriminate the false from the true.")Try virtue first of all. "Si
virtus hoc una potest dare, fortis omissisHoo age delioiis. "1("If
virtue alone can bestow this, manfully give up pleasures, and make her your
aim.") Or try the pursuit of wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts.
2part that squares the heap.")Or try ambition:"Si fortunatum species
et gratia praestat, Meroemur servum qui diotet nomina, laevumQui fodicet latus
et cogat trans pondera dextram Porrigere. *4("If pomp and popularity
secure bliss, let us buy a slave to tell us the names, to nudge our left side,
and force us to stretch our hand over the counter.")And"Caude quod
spectant ocull te mille loquentem. "5"elonge that a thousand eyes
gaze on you as youOr test the pleasures of food and wine--Ne let fileen Cruad
Tumaigue trons,Quad deceat, guid non, oblitt."b10tus 0 mere apetie
eadenith tod unagesteproper, witt not "gt us takebaths, forgetful what
18Or the satisfaction of mirth--jests.")Then, having advised each man to
try for hinself, for each must be the best judge of his own life."Metiri
se quemque suo modulo ao pede verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to
measure hamsel or hieAnd he will never be sure that one of these thinge might
not have proved the key to happiness until he has used it and found Its
futility, Horace sung up the decision which each is bound to reach.Abstract
virtue is a hollow thing,"Virtutem verba putas etLnoun 11gna,
"3("You think virtue words, and a holy-grove sticks.")As Cioero
says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly fitted to
men who consist of both body andsoul. It is too cold, too remote, andVre guan
satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more satisfactory
thanvirtue as a "summum bonun", for its weaknesses are all too
evident. Even granted that it does have many undoubted
advantages,"Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret
Suadele eaus due, w2("For of course queen Cash bestows a wife with a
dowry,ney tan le acornid mith Sua bon and Lode .ho man ofhundred; so you will
be one of the masses.")Yet how fleeting wealth 1s!"Quiequid sub terra
est in apricum proferet aetas;Defodiet condetque nitentia. And the summum bonum
must be a permanent thing. rurther-more peace of mind and good health are not
conferred by it--Non animo curas."4ind poia gat ar res tover son the
asting oods bratheir lord, or troubles from his soul.") Nor is pleasure a
necessary accompaniment of riches. Nam neque divitibus contingunt gaudia 80118.
"5("I'or pleasures do not fall to the rich alone.")And his
advice is bad who bide you get money rightly or not,by hook or crook, just so
that you may get a nearer view of the plays of Pupius, for after all, they are
lachrimose plays, and why see them nearer?Besides, in the gest for wealth
alone, you areprone to lose the sense of all other values--("He has lost
his armour, has deserted the post ofполог,who is always slaving, entirely
absorbed in augmenting his fortune.") Ambition cannot satisfy any more
than virtue or wealth, for see the ignominy that it carries with it. One must
seek thefavor and the gifts of the fickle Roman mob"Plausus et antoi dona
Quiritis, "3and make friends of all sorts of peopleUt oulque est atra, Tia
quengue deotus adopta teand although the world applauds a man today, tomorrow
its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts former favorite
stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition will convince a
man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit. "5 pass de
not de bad life whose barta and deata have Furthermore the unrestrained
indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both body and
mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so men must
rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne voluptates; nocet
empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight bought with pain
is hurtful.")None of these external things, then, can be regardedas the
"gummum bonum", since not only do they fail to bring the happiness
all men are longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and
distress which plague theworld."Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo
cupiens pacto; pavor est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret
utrumque.Sa guto ue ast mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et
corpore torpet?"?("He who fears their opposites excites himself much
in the same way as he who covets them, the flurry in both cases is a
torment,whenever the unexpected appearanceagitates the one or the other.Whether
one joys orif at every-It is not that in themselves these things are
wrong--only that they are externals and one must not attach too much
significance to them. It is because men have overestimated them that the three
greatest ourses of the age have come upon the world--superficiality,
restlessness, and greed.Since men are always looking for something tangibleas
the secret of happiness they have bedome shallow, have grown to care far too
much for outward appearance, and far too little for inward appearance, and far
too little for inward worth."Si curatus insequali tonsore capilloslee
mediai credis neo curatoria egere("If I have met you with my hair dressed
by theha hare & hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my toga sits
unevenly and awry, you laugh;whole round of life, pulls down, builds up,
exchanges the square for the round?lou thinkmine an ordinary madness and do not
laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee appointedtortune8, and tume
aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of theAnd this same belief that
happiness lies inexternals makes men restless--a feverishness that manifests
itself in the iorm of travelling, forever pursuing the happiness which forever
escapes them. now foolish it is to try to escape the things which batfle one by
seeking another clime!"Sed neque qui Capua romam petit imbre lutoque Aspersus
volet in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et balnea laudat Lt
fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus lactaverit Auster in
alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi Rhodos et mytilene
pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs.Dum licet et volutem
servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et Fhodos absene.
"2AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe praised, and uhois,
and far-off Rhodes.")The peace for which men are searching may be attained
anywhere if they only know the secret."Nam si ratio et prudentia curas,Non
locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum mutant qui trans mare
currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus atque("So that in whatmay Bay
You have lared a pleasent Lite, tor seineit is common sense and wisdom that
remove cares, and not a spot which commands a wide sweep of sea, their climate,
not their mind,they change whorun across the sea.An active idleness busies
us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por totH at u20ra0, 1 a contented
sptritThe people are merely consuming time, not living, who are forever on the
march. They exhaust their energies and gain nothing but discontent.And of these
curses of looking to externals forhappiness perhaps the worst is the ourse of
avarice. Why seek for much in the world when one can use so little and more
cannot delight?"Quod satis est ous contingit ninil amplius optet. "2'
dia to whose lot 1a118 a competency, desire nothingThe grasping continually
after more only breeds dissatisfao-tion---There can be no tranquillity so long
as one is subject to an ever-increasing desire."Semper avarus eget; certun
voto pete finem. "3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed 80a1 to
yourWhat a misshapen monster avarice is anyway--"Belua multorum es
capitum. Nam quid sequar aut quem?"4("A many-headed monster you are;
for wnat or whom shall I follow:")As soon as one head is cut off new heads
appear, so that it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare
preantes, "5How helpless men are in the olutch of such a power as this,
which never gives them a moment's real rest and peace of mind!How wretched the
heat of their desires has always made mankind, and how heroie 1g the figure of
the man who has risen above them, is well illustrated by Homer's tale of the
Trojan war, wherein the struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and
Achilles and Paris arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses
and westor."Nestor componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden;
Huno amor, ira quidem communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque
libidine et ira Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et
quid sapientia possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit,
adversis rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle
the strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by
love and both in common by wrath.and angerThere as Bannin nithin the valls o
ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a
hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of
things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth,
or any of these external things, which in a limited measure may contribute to
the richness of life, but beyond the golden mean, pursued as an end in
themselves, are the cause of so much misery, discarding all such inoidentals
men must look for the real source of happiness within themselves. When men are
dissatisfied, it is not the world which is wrong, but their own attitude toward
the world.In culpa est animus, qui se non eifugit unquam. "Ihates his own.
with the harmless place; it is the mind that is at fault which never escapes
itself.") Two great doctrines Horsoe presones--the wise controlof life and
the wise enjoyment of life.the first thing men must learn is to adapt
themselves to circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice
in the world, to realize that such a thing as periect happiness is nowhere
existent and that all life 18 an adjustment.solue puae posot eret estare
beatum,2 Saost the one ate ony thng Lhat on rate andkeep a man
happy.")Chafing and fretting against the established order of the universe,
against life's seening inequalities, only serve to augment their hardships. When
once men do face the facts of life and bring themselves Into accord with them,
things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked upon with
indifference.("Yon sun and stars and the seasons departing infixed courses
there are who view with no tinge of dread.")And it 18 not only for his
individual well-being, but for the benefit of the state as well, that he have
this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen to are
deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are dissatisfied with
our fortunes, our bitterness will taint every relationship in life, but if we
are sane, life will look back at us with the same calm expression--"Sincerum
est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean,
Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough
that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great
parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae
magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste
tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem,
speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household
and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know
him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low
senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general,
forthat very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say
that he strangled his father. de deserved the commendation they gave him
yesterday no more than the slander they heap upon him today.caliny terig put
ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how
pernicious this false praise is and to what lengths it leads men."Leu, si
te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi
Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you
are in sound and perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour
ofR2E2™E60a:till
paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the world they offer
sacrifices publioly to the gods, while secretly they are praying to the gods of
trickery to shield their crimes from detection. 3ecause one is not a thief or a
murderer he has no right to demand praise, for he has his reward already in
freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for fear of the
consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae. "*("You
will commit no crime through fear of punishment.")Good men desire virtue
for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare boni virtutis
amore."("Good men hate sinning through love of virtue.")For it
is what you are that really counts, not what the world thinks. Even the school
boy realizes this.("Yet the boys at their games say: 'You will be king if
you act rightly.'However many of the externals of life fortune man have given a
man, if he is weighed down by the sense of his own guilt or unworthines, he
cannot enjoy them. But the manconsoious of his own rectitude feare neither loss
of property or of life."Si forte in medio positorum abstemius
herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia naturam mutare pecunia
nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though
Fortune's clear stream wereFreedom is another element in this wise regulationof
life--freedom from all these externals which so often bring disaster."Ne
cOtia divitiis Arabun liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t
freedon of my ledsuz1oon oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down
for a copper fixed in the orossings, not see; for he who shall desire shall
also fear: further, the man who shall live in fear, I will never regard as
free. Once the love of riches has fastened itself upon a man he cannot escape
it. If he only realized what a hard master it was he would flee from it as the
fox did from the lion in the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad,
an oe be aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper
position, else it may take out of his hands the direction of his life--it will
either be his master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia culgue,
"3("Each man's hoard of money is his master or his
slave.")Horace boasts of his own freedom from the opinionof the
masseg--Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a
source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly
miseraole."Invidus alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non
invenere tyranni maius tormentum."2("The envious man repines at his
neignbour's goodly• treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he
is covetous of others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is
his own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure
ta pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. "*("The
gods have given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop
their powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final
and always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous.
"5("It remains for you to go where iuma and Anous have
descended.")There is no hope of a life after death in norade--it ig an
eternal exile. Yet he is not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept
1t as such, and since there 18 only this brief span of years for every man,
ending all too soon in oblivion, let him on that account make the best possible
use of each day--"Carpe Diem" --so that thedoom of death will appear
only as a dark background enhancing the brightforeground of life. Looking
foward, looking backward breed discontent. Think only of the present.The surest
way to get all the possible joy out oflife is to live every day as though it
were the last--Grata superveniet quae non sperabitur hora. "I("Amid
hope and care, amid fears and passions, believe every day has dawned for you
the last; so, welcome shall arrive the hour your will not hope for.")If
men keep this thought ever in mind they will f1ll each moment so full of the
richness of living that there will beno regrets, no joys postponed to a future
day which will never be theirs, when the summons of death does come.This means
that to avoid disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have
given them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu,
neu dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater("Whatever
hour the deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you
have lived apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men
not hoard it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I
am not permittedThe man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too severe
18 next door to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of the
really worth while sources of pleasure are within the reach of all. shere 18
health--There are all the delights of the country and out-of-door
life--"Ego laudo ruris amoenirivos et musco circumlita saxa nemusque.brown
rocks and wood.king, as soon as I have lorsaken tnose soenes you extol to the
skies with loud acclaim.") And--"Novistine locum potiorem rure beato?
Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel accepit Solem furibundus acutum? Est
ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius Mbyois olet aut nitet herba
lapillis?"4("Know you a place preferable to the blessed country?I
nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar and the commotions of
the Lion, when once he has gone mad by receiving the stings of the Sun?Is there
a spot where envious care less distraots our slumbers? Is the scentThere is
simple food which nourishes without distressing--"Pane egeo iam mellitis
potiore placentis. "I"Besad, is what I want now more pleasant than
hondedThere is sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus
aptum. How foolish it is to want more when these things, if properly regarded,
will make one's life rich and blessed--The wise nan will learn to value and
employ what is within his reach.Not the least of the joys of life is
friendship.There is a deal of the utilitarian point of view in orace's advice
about sooial interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one,
contact with other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said,
"Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and
heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make
himself as agreeable as possible. temust not pry into people's
secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must
never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he
must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a
teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must
not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia,
for thereby he simply makes himselfObnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.")When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina,Propugnat nugis armatus. Equally
disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely
to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit,Ut puerum
saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas.
"6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of
sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous
duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he
should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne
pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should
be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you
for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give
way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of
friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and
unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in
anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his
client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he
cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear
hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus
amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam
et subducta viatica plorat,("He who has been taken as a companion to
Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote
1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get
noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around,
for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem,
taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by
patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the
sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes,
as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he
refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship,
for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so
that when accusations assail one who is well known, they may protect him and
back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if
it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid
desset."? went are & of arlends Low, when those who wantAnd it is a source of
shame to a man to be mock-modest and refuse to help another when it is in his
power to do so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued
my influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.")
Tact is absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time
for everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present
books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must await
a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he would
please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu fortunam, sio
nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune, so shall we
yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social interoourse
isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of host and
guests. The host should be most discriminating in his choice of guests so that
all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That like meet
and be associated with like.") and that all be the kind which will not
make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus atota
forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be none to
carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an invaluable
thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has become
estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of life
is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivamQuod
superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in
annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat
et aufert;Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire
2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my
gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions
for each year, trembling on the hopes of the man. Orazio.
Grice ed Ordine: l’implicatura
conversazionale di BRVNO al rogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Diamante).
Filosofo italiano. Professore a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi
studiosi del Rinascimento e Bruno. Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio
su Bruno, è anche uno dei migliori conoscitori attuali del milieu sociale,
artistico, letterario e spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi
dell'Età moderna.Sigillo d’Ateneo dell’Urbino. Centro di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani.
“L' utilità dell'inutile” (Milano, Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità
e conoscenza in Bruno” (Teorie & oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari,
Milano, La Nave di Teseo); “La soglia
dell'ombra -- Letteratura, filosofia e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro
il Vangelo armato: Bruno, Ronsard e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria della novella e teoria del
riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re. L'impresa di Enrico III e i
suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la vita. Una piccola biblioteca
ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo, Gli uomini non sono isole. I
classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di Teseo). Grice: “Some like
Bruno, but I don’t – for one, he was a PRIEST before he was burned – no
philosopher *I* know is a priest. Being a priest, as A. J. P. Kenny well knows,
disqualifies you as a philosopher. Campanella was a priest too, and I’m not
sure about Telesio. I mention the three because while there is a Keats-Shelley
Association in Rome, only the Italians can think of ONE centro di studi
TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI – enough to have a triple split
personality!” Nuccio Ordine. Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso,
risus significant laetiia animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi
telesiani, divenne centro di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! –
telesio not a priest!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita
dell’utilitarismo di Geremia Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Orestada: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean cited by Giamblico. He frees
Senofane from slavery – as cited by Diogene Laerzio.
Grice ed Orestano: l’implicatura conversazionale dell’opzione
eroica – filosofia siciliana -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Alia).
Filosofo italiano. Self-described as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice:
“There is something pompous about Italian philosophers and their isms –
Orestano’s ism is the superrealism!” Grice:
“When I was invited to deliver my lectures on the conception of value, I was
hoping it was a first, but Orestano had written two big volumes on it!” – Studia
a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti nella concezione
del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre vicino
alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato da Balbo
nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in contrapposizione
al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore d'un'idea filosofica
positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si ritira a vita privata
nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera principale “Nuovi principi”
(Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della Società filosofica
italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. Autore di
noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una scuola di Palermo. Saggi:
“Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”, Roma, Biblioteca Pedagogica
de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i
Diritti della scuola”, A proposito dei principi di pedagogia e didattica” (Città
di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di popoli -- saggio di una valutazione
aristocratica delle nazionalità” (Milano, Treves); “Verità dimostrate, Napoli,
Rondinella); “Opera letteraria di Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia);
“Esame critico di Marinetti e del Futurismo” (Roma, Estratto dalla
"Rassegna Nazionale"); “Civiltà europea e civiltà americana” (Roma, Danesi);
“Nuove vedute logiche” (Milano, Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli
Bocca); “Verità dimostrate, Milano, Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni
I, Milano, Bocca Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto”
(Milano, Bocca, Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca);
“Verso la nuova Europa” (Milano, Bocca);
Prolegomeni alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo,
Galilei, Tasso” (Milano, Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi
filosofici” (Milano, Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia
della filosofia”; “Kant”; “Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi
pedagogici, studi danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura;
conversazioni di varia filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla
Sicilia, Filosofia della moda e questioni sociali, Dizionario Biografico degli Italiani, E. Guccione,
L'idea di Europa in Federalisti
siciliani tra XIX e XX secolo, A. R. S. Intergruppo Federalista Europeo,
Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di storia, in La politica tra storia e diritto, Scritti in
memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può
raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante
per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale
di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio
della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di
valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti
concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI
VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le
quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola
dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di
volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le
variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE
ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più
importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO
DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore
di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il
valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL
DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE
al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno
si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore.
La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui
si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se
la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica
si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la
circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un
proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W
(99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al
danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per
quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0
W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con
segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di
queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come
indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque
riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla.
‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della
volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si
è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di
una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla
determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE.
L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante
constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti
concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi
tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo
indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della
volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che
però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e
negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una
doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore
nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio
iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al
momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò
facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale,
allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la
volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo
che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui.
In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione
iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati
fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi
comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in
principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra
l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di
questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse
altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse
altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande
interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più
basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto
di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può
esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti
proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”.
Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie
talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora
i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE
D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui
si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e
che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante
e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y
g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0
, , limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= –
00. pure evidente, che la
trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE
è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si
determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono
mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per
far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a
“g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C , lim W (gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO
DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e
per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo
colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al
posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula
del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y
gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0
T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0.
Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a
colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di
tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or
ora ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri
guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande
valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di
piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto
PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale
(1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti
estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno
distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il
punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di
una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti.
Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e
psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure
in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore
etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda
direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o
categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè,
anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva
una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come
sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo
strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale
valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato.
Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo
fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme,
un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita
umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso
di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia
porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La
psicologia è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è
impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore
di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde
la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo
contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti,
consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo
morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si
suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni
sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non
rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per
riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo
scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non
può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a
determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge
argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e
necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie
di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia
nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti
psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li
chiamava Genovesi, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame
particolareggiato comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così
in generale, come nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia
e di protezione. Le dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono
la loro decisione non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la
psicologia può rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è
generale nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli,
quando si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei
fatti e degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con
essi il concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una
morale immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si
potesse attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente,
un valore definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde
a un istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua
utilità, sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella
proposizione universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere
che i dubbii della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i
risultati che la psicologia ci potrà offrire non avranno valore di
modificazione del contenuto normativo della morale, ma bensì tenderebbero
a modificare il carattere formale di essa, come dottrina del dorer essere e
come scienza. Al Congresso medesimo Calò presenta una comunicazione intorno
alla Calderoni ritiene che l'assenza della ricerca e della sufficiente analisi
di quello ch'è il fatto ultimo e irriducibile su cui poggia tutta la vita
morale, il giudizio etico, ha impedito il costituirsi dell'etica come scienza.
Molto ha anche nociuto “la nessuna, o quasi, distinzione che si è fatta tra il
giudizio etico e il giudizio teoretico o conoscitivo, La morale deve invece
ricercare come ogni altra scienza, dei fatti ultimi, elementari, irriducibili
su cui fondare l'edificio autonomo delle proprie investigazioni. L'elemento
irriducibile, la realtà ultima, da cui deve prendere le mosse ogni dottrina
morale, è un fatto psicologico, un sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà
sempre al contenuto normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre
la psicologia intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le
conclusioni intorno al fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla
simpatia saranno negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione
presenta i caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti
sociali, oppure i caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la
valutazione etica e una gradazione fondata su altra base, non su quella della
realtà effettiva dei fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno
positive, l'etica, assumendole come sue proprie, avrà a fondamento il
significato psicologico e antropologico dell'umanità morale e potrà
scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine TAOROZZI ri-assume
il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere dalla scienza, e
che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano universale valore massime
conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’ “Ama il tuo prossimo.
Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un sentimento, d'un'azione,
d'una determinazione volitiva, tale giudizio si presenta alla nostra coscienza
con un sentimento particolare di approvazione o di disapprovazione. L'esame
retrospettivo ci dice, che quel giudizio non risulta da un meccanico
sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato (buono, giusto, ecc.),
dal paragone delle loro estensioni e connotazioni rispettive, dalla rivelazione
pura e semplice del loro rapport. Ciò che interviene, e ciò che più importa, è
il sentimento di approvazione o di disapprovazione, di adesione o di
ripugnanza. Qui si presenta un problema fondamentale. Trattasi di vedere se il
sentimento di approvazione o di disapprovazione accompagni semplicemente, come
effetto o come carattere, la rivelazione del rapporto in cui l'obbietto
considerato è con quel predicato. O se quel sentimento appunto renda possibile
la costituzione del predicato e quindi, mercè la capacità di riferimento
propria della ragione, l'enunciazione del rapporto. Questo problema non può
essere risoluto senza una analisi comparativa del giudizio conoscitivo e del
giudizio valutativo. E quest'analisi mostra appunto che, mentre nella funzione
conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto, nella funzione valutatrice è, al
contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere è constatare, attingere ciò che
è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello spirito non è di chi constata, ma
di chi reagisce. Non di chi afferma e riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge
qualcosa risultante da ciò che in lui non corrisponde, ma risponde alla realtà
conosciuta. E l'atteggiamento non di chi afferma o nega, ma di chi si
sovrappone alla realtà, o che le assenta o che le si ribelli, sia che lodi, sia
che condanni. Mentre, per il teoretico, il sentimento è un accessorio
trascurabile, per il moralista, esso è la vera realtà etica, poichè il senti
mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto di giudizio etico. In ultima
analisi, ogni giudizio etico si riduce ad approvazione o disapprovazione d'un
sentimento, d'un istinto, d'una volizione, d'un'azione. Ora l'approvazione e la
disapprovazione non sono che due speciali sentimenti, due forme diverse
d’uno stesso sentimento, il sentimento del valore. Ilgiudizio etico, dunque, intanto
è possibile in quanto si compie una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la
ragione valutativa ch'esso suscita in noi. E, insomma, questa stessa reazione
che costituisce tutto quanto noi diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto
come soggetto del giudizio. Si direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica
quanto e come vive nel senti mento valutativo. Questo poi varia e quasi si
determina e si atteggia diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e
di venta volta a volta sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico
o dei loro contrari, di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o
di stima di se stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che
ognuna di queste determinazioni del sentimento di approvazione e di
disapprovazione ha una sua individualità e che l'analisi di esse ci dà
l'analisi di tutta la coscienza morale. Il sentimento del valore, come fatto
fondamentale della coscienza etica, si pone a norma della realtà interiore e
dispone gerarchicamente i vari istinti e le varie tendenze. Un'altra sua
proprietà è anche quella di avvertire ogni atto che rappresenti un non-valore
come un'intima contradizione, il che dà luogo al sentimento particolare
dell'obbligazione. Il sentimento del valore è dunque di sua natura tale da
assumere, di fronte al resto della realtà psichica, un'attitudine speciale e da
contrapporre all'esistenza di fatto un'esistenza di diritto. Esso si distingue
profondamente dal piacere e dal dolore, perchè questi sono stati subbiettivi
interessanti semplicemente l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del
valore è obbiettivo anche rispetto alla individualità del soggetto che giudica.
Il sentimento del valore oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio
benessere individuale; sono io che sento, ma non perme. Altro carattere
differenziale è questo, che nei sentimenti di piacere e dolore lo stato
subbiettivo è confuso con l'oggetto della rappresentazione, mentre nel
sentimento del valore, l'oggetto è nettamente distinto dall'atto valutativo e
può essere rappresentato come obbietto di conoscenza teorica. Ciò ch'è
piacevole e spiacevole non esiste che nel sentimento e per il sentimento, mentre
ciò ch'è valutato è chiaramente rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è
insomma conosciuto. Non si può valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero
che la valutazione si presenta spessissimo sotto forma di preferenza e il
valore viene appreso comparativamente ad altri come plus-valore o come minus
valore. Sebbene il giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel
sentimento,esso non esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della
funzione conoscitiva, la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la
funzione apprezzativa. La grande varietà dei giudizi morali osservabile fra
individui diversi dipende appunto dal diverso modo come sono appresi e
considerati gli obbietti,dai diversi elementi che ci pone in luce la funzione
conoscitiva. Così, mentre l'analisi del processo della valutazione etica è
compito della psicologia morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni
morali si riferiscono non possono esser tratti analiticamente dalla natura
stessa dei nostri sentimenti di valore. Essi possono essere determinati in
parte in base alla considerazione di rapporti for mali della volontà, in parte
in base all'esperienza storica e sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative.
Calderoni, nelle sue Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è
recentemente proposto di porre in rilievo talune concordanze fra le leggi
economiche del valore e della rendita e le valutazioni morali sociali. In tal
modo egli crede che l'economia politica possa apportare un contributo positivo
alla scienza della morale e aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale
può considerarsi, così Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste
vengono fatte da taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali
oppongono a queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore,
e richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura
determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di
approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, Calderoni accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da Calderoni
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli individui,
i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono perciò di
un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è possibile la
correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento di
produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso di
prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni Calderoni passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò Calderoni
vuole opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in
filosofia morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a
difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che cresce
col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione; mentre
colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria e
l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto maggiore
è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni si
troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very
seriously – as he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with
‘e’ from Latin ‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter,
Italian altro. So we have W for value (worth), and the possibilities that ego
desires the evil for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism.
Altruism can be reciprocal. In a purely altruistic society, things go well –
but Pound knows who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for
Meinong, and so do I” --. Francesco
Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione eroica, Alighieri, Galilei, Tasso,
Vinci, concezione aristocratica della nazionalita, l’eroe Mussolini, l’eroe
Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico, l’ozione dell’eroe non e una
ozione. It’s not an option, Calderoni. Luigi
Speranza, “Grice ed Orestano”.
Grice ed Grice ed
Oribasio: l’implicatura conversazionale di Marte, o la scuola di Giuliano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma) Filosofo italiano. – Giuliano’s
personal philosopher. He shared Giuliano’s enthusiasm for paganism. His
treatises survive.
Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale nella
logica della monarchia romana – i sette re – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Grice: “Only in Italy, a philosopher,
rather than a cricketer, is supposed to take part in a revolution and write a
book about his shire!” -- Fondatori della Repubblica Romana. “De' paragrandini
metallici” (Milano, Fondazione
Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente.
La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di
filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia,
dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione
delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di
Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria.
Tentando di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro
centinaio di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne
catturato dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco
Bandiera (padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari
furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse
per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando
sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse
l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue
attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò
un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della
Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in
riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica
molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di
Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi
italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di
prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani,
Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari,
Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono
questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano (VT) lo
ha onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico,
quella del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa
sulla facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto
Statale di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi
indirizzi di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della
Enciclopedia Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti,
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione
Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M.
Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F.
Mansutti. Milano: Electa, G. Polizzi,
Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi, «Lettere Italiane», Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. --
rità assai leggieri, e, se grandemente non m'inganno, assai consentanei alla
ragione, de'quali ho stiinato aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che
costruiscono l'istoria della dignità regale nella città de'sette colli, ha
dovuto essere da me corretta, e ridottasotto la forma seguente. Come lo
abbiamo già detto, la successione al trono, mai non appartenne in Roma a fi
gliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre a' generi loro, quando
ve n'ebbe di viventi (Numa, Servio, Tarquinio il Superbo). Lo sposo della figliuola
Maggiore fu a tutti gli altri preferito (Servio). Quando i generi erano morti,
la successione passa ai primogeniti del primo genero (Tullo Ostilio, secondo la
mia correzione della leggenda che lo concerne; Anco Marcio). Quando si tratta
di due re, in luogo di un solo, e di quella magistrature binaria ed a vita che
si surroga ne primi tempi alla dignità regia, parimente non si rinunzia a
queste medesime regole, e se non trovansi due generi che potessero elevarsi al
potere supremo, si'elevano egualmente a quello, secondo l'ordine legale due
figli di genero (Remo e Romolo; Bruto e Collatino). La figliastra del re fu equiparata
alla figlia nel dritto di dare il trono al marito, o aʼsuoi discendenti maschi,
in un tempo ,in cui probabilmente figlie proprie non esistevano (Tullo Osti). Quando
non v'ebbero, nè generi, nè figliuoli di generi, il trono passa a’nipoti che
s'a mò riguardare, in sì fatta contingenza, come legittimi eredi de’dritti
degli ascendenti loro (Tullo Ostilio, se si preferisce l'ipotesi , nella quale
egli è nipote d'una figlia di Romolo maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre,
o de 'magistrali che ne tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza
ottenerla, dimandano la dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci
ha trasmesso la memoria, è stato ugualmenle un genero di re (Numa Marcio); due altri,
ne'quali' non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono
per le vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto (i figliaoli d'Anco
); due di che solo si parla presso Plutar se si ricusi di considerare
1'Ersilia dalla quale discende, come figlia di Romolo, e se si rispetta la
tradizione, secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più ilpadre
adotetivo della seconda Ersilia. In un caso, nel quale il capo supremo non potè
far valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle
sue figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema
autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramandò il suo grado
nell'erede necessario della moglie: Bruto rispetto a Lucrezio Tricipitino suo
successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi
furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in
non cale imaschi,ricadde in unapersona e slranea,cioènonlegatadipiirentelacolla
fami glia reale (Tarquinio Prisco). Quando, non ostante l'aversi eredi legit
timi per parte di donna,una persona estranea conseguì la dignità regia, ciò
avvenne contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio). Non altra è l'espression'
rigorosa de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti
correggerne la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se
posso dirlo, in nessun modo 'temeraria.'Le mie autorità , i miei ragiovamenti ,
non sofferirono contraddi zióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si
volle 'solamente avvertirmi che nel mio si stema erano alcuni fatti dubbiosi, e
ricavati perconghiettura. stato . co: Voleso e Proculo,sono statiproposti
senza gran fattofermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor
qualità di candidati, e sembrano'avervi rinunziato essi stessi; finalmen
tefurono messi innanzi inun tempo ,nel quale tutto che concerne le leggi
relative alla succes sione regia era evidentemente suggetto di contro versia ,
e dispuldvasi intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione
organica dello Io risposta, ioviho presentato l'analisi, per così dire più
condensata, delle tradizioni; lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per
'messo unicamente qualche volta. o. Spesso la successione al trono in Roma
s' è fatta contra ogni principio d'equità, d'utilità, e di convenienza
reciproca de' cittadini. Perchè (per qui contentarmi d' un solo esempio il
quale abbraccia un lungo periodo d'anui), non certamente a vantaggio del
partito latino, o di quel deʼ sabini, sotto la dinastia etrusca, la dignità
regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised on many
topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their unstable
political history, with political philosophy, his ‘research’ on the consulate
proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed him? Other
than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to oppose what
he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there are various
cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. Francesco
Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli”
– The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ornato, o dell’implicature conversazionali nella
conversazione d’Antonino con Antonino – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna Piemonte). Filosofo italiano. Visse vita
ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva
le scienze fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con
singolare amore le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove
frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più
importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante
di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria
dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la
Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa
Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a
Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è
frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia
e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana,
Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel
cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei
“Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone
Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, O. Becchio G. Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in
mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due
stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto,
ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico [PORTICUS – stoici], Antonino e stato preceduto da altri
stoici romani illustri. Il che non potea non avvenire, perchè secondo un
antico senario greco, il cuore soltanto del malvagio non è capace di
essere ammollito. E però il severissimo CATONE, già deliberato in quanto a
sè di morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli
amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro
procelloso per non lasciarsi cogliere in Utica da Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso Catone al comando di una legione in
Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos città
della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da Tessalonica,
contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare tempestosissimo, e
giunto in Enos trova il fratello già spento (Plut., vita di Catone).
E pianse certamente Cornelio Tacito, benché stoico anch’egli, quando,
dopo aver narrato come era vissuto e morto, non senza sospetto di
veleno, Giulio Agricola suo suocero, aggiungeva queste patetiche
parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto; quanto a te,
quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre
all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non
ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di
abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto; avremmo pure raccolti
precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il
coltello al nostro cuore.Senza dubbio. 0 ottimo padre, per la presenza
della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le cose al farti
onore; ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e pure alcuna cosa
desiderasti vedere al chiudere degli occhi tuoi. Fra le varie divisioni
dei beni appo gli stoici, l’una è questa, che dei beni altri sono
finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed efficienti.
I beni finali sono parte della felicità e la costituiscono: gli
efficienti solo la procurano: i finali ed efficienti insieme e la
procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono la letizia, la
libertà deir animo, la tranquillità, ecc. Del secondo, l’uom prudente ed
amico; del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene
efficiente, perchè muove con la sua dispozione razionale la tua
diapoaizion razionale (lib. V), cioè è occasione a te di buone
azioni. E nello stesso modo è un bene di quel secondo genere ogni
cosa, o sia pensiero o altro, che è occasione a te per camminare
verso la perfezione. Di questo bene parla ora Antonino. Il quale, per
lo esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere
accompagnato ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che
costituisce la felicità, non attrae invincibilmente il tuo volere;
ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si
sottragga da tutte le altre cose che ne lo possono sviare (conferisci
quello che ne insegna la teologia intorno alla grazia). E quando Antonino
chiama questo bene razionale (che è attributo generale del bene appo
gli stoici), il fa per opposizione al preteso bene degli Epicurei, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo
bene, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo
intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste
cose era necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove
la maggior parte dei cementatori ed interpreti ha voluto cangiare
la parola efficiente in civile o vuoi sociale con manifesto danno
del senso e del pensiero di Antonino. Dispensazione in greco “economia” vale
generalmente governo della casa, amministrazione. E perchè molte
cose si fanno pel governo della casa, le quali da per sè sole non si
farebbero (come per esempio il risparmiare certe spese perchè le
sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di quella), quindi è
stata applicata questa voce ad ogni cosa che si faccia con fine
provvidenziale, benché sia di nessun pregio in sè od anche noiosa; come
p. e. il gastigare i rei. È usata sovente in questo senso dagli filosofi
latini di tarda età, e stoici ed altri, e massimaniente dai padri della chiesa.
È tra noi disusata perchè è disusato il concetto ch’ella esprime. Ma
per provare la sua antica cittadinanza in Italia alleghera il passo
seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati sotto essa voce nel V.
della Crusca (Medicina del cuore). Per divina dispensazione avviene che,
per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione ed infermitade
arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che, quando la scrive,
inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione a Xilandro
contro i posteriori. Se non muta poi di parere, il senso di questa
espressione con libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con
liberalità di parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende
lo £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle
preghiere, Antonino intenderebbe di biasimare le preghiere che non
mirano che all’interesse proprio di chi lo fa. E però loda quella
preghiera degl’Ateniesi, i quali, al dire di Pausania, solevano pregare
non solo per tutta l’Attica, ma anche per tutta la Grecia. Auto nel
senso peripatetico e scolastico, è l’affezione costante deWente: e
per quel carattere di costanza si distingue dalla disposizione che è variabile.
Appo gli stoici è la forza o virtù (andreia) che mantien l’ente in quella
affezione costante; o, siccome essi favellano, è spirito (intendi
aria) che mantiene il corpo e il contiene: perchè l’ente ò corpo appo
loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra per tutte le cose
particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel medesimo
modo: perchè nelle une si manifesta come abito (pietre, legni); nelle
altre come natura (intendi principio organico mero: piante, alberi);
nelle altre come anima (principio animrle mero: bruti); nelle altre ancora
come mente e+ ragione (anima ragionevole universale e sociale
appo Antonino; uomini. Le cose governate dair abito sono adunque i
corpi dove non è altro principio costituente che il generale di
corpo: dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che quella
affezione (modo d’essere) costante por cui sono il tal corpo anziché il
tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che noi
chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al
carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di
cor poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le
classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per
carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo
corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei
dire precisamente quali sieno le emendazioni seguite o fatte da lui,
perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di questo
paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non
intelligibile, è anche manchevole, essendone stato lacerato via, non so
da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio.
Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle
sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della sua
interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei
quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli
interpreti. O. lascia scritto al principio di una lunga nota: Di questo
veramente corrotto paragrafo non so che partito trarre. La sua
interpretazione che io seguii nel volgarizzamento vuol dunque
essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose.
La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche mutilata.O.
non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo quando
avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte
note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz,
non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non
seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi
corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora difendo la
vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla
quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il
paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut
transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker,
il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui
il granchio (fan pietà Dacier o Joly che seguono ciecamente
Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è la stessa pecora
sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme,
siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv e il ToO xóojjiou
’hys.u Qvixdv; quando anzi nella distinzione di queste duo cose è fondato
il senso di tutto il paragrafo. La toO SXou qjvlcjis è la potenza
creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza
governatrice, dipendente da quella prima, generata, o formata da quella
prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo
non meno che il corpo; e la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il
senso adunque di tutto il paragrafo è questo. La
natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il
mondo, dan-dogli, per così dire, un corpo ed una mente. Ora, o questa
mente, a cui è affidato il governo del mondo, segue la ragione
(perchè la mente nel senso dello ^ìf£|jiovixbv può anche talora essere
sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha
determinate generalmente dà principio la natura formatrice del
tutto, sono involute in quella prima determinazione, sono conseguenza
necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente non segue
sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere
che non solamente le cose di minor conto che ella fa, ma anche
le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che
nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere
sragionevole nè anche in quelle di minor conto; dunque tutte le cose
vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato
e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo
migliore se l’ autore avesse potuto ripulire e pubblicare egli
stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta
in essa è ingegnosissima, naturalissima e confermata da tutto
quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù
óXov (pdcjts), la potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il
quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta
senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane; la potenza
governatrice, la mente che go- verna il mondo (TÓrìysixovixóv toù
xó^jxou), generata da quella prima, è all’incontro, nell’attuale
diversità delle cose,' nella nauìra naturata, nel mondo
propriamente detto e composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza,
l’anima di esso corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo §
è ora da aggiungersi Pierron. Ed è tanto più da stupire che il sig.
Pierron abbia egli pure sì mal compreso, in quanto che, avendo egli
già prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere suf-
ficientemente versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole
della Grecia. Quasi tutti i traduttori hanno franteso questo luogo,
pigliando l’iwoia per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne
intellectus hoc feraf.... il senso letterale, aggiungendo ciò che è
sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te stesso come uomo)
soffre cotesto, soifre cioè che tu dica esser nato a goder dei
piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio di tutti i suoi predecessori,
pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena
à le prétendre. Colia bontà delle singole azioni vuotai procacciare
di ben comporre la vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo
fedele alla lettera e studioso di conservare tutta la brevità dell’
origi- nale, avea tradotto: ai vuol comporre la vita mettendo
inaieme le azioni ad una ad una; poi comporre inaieme la vita
accozzando le azioni ad una ad una; poi allogando le azioni ad una ad’una.
Non credo che so avesse potuto ripu- lire e terminare egli stesso il suo
la- voro, si sarebbe contentato di alcuno di questi tre modi, che
tutti peccano di oscurità e di ambiguità. A costo dì essere men
breve, io ho creduto di dover essere piò chiaro non solo in questa
frase, ma in tutto questo paragrafo, svolgendo un poco il concetto dell’autore
siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti fran- tendono. 0.
Nel novero degli interpreti che fran- tesero questo luogo comprendi
ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz.
L’errore sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae col ófUTw che
precede; laddove si riferisce all’azione alla quale l’animale
ragionevole tendea e nella quale è stato impedito. E ciò pare che abbia
poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli
posto una virgola dopo il óutù. (15) Se tu vo/eafi ftema la debita
ri- tterva.., che da lei etesaa; cioè a dire: se tu volesti
assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile;
questo atto della tua volontà fu veramente un male, perchè, come è
detto altrove, l’ animai ragionevole non dee voler nulla che non
sìa in poter suo, ed anche il bene re- lativo, non dee volerlo se non se
con- dizionalmente, cioè in quanto sia possibile; rimpossibilità essendo
per gli stoici sinonimo di non voluto dalla natura e dal destino, al
quale il savio non dee ripugnare. Che se poi la cosa voluta da te
fu una di quelle che non sono pur buone in senso relativo, e quindi
il volerla fu un appetito, pren- dendo il vocabolo volere nel
significato volgare, cioè un moto del senso, piut- tosto che della
volontà ragionevole; tu non ricevesti nocumento nè
impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì mento, ragione
o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo la tua propria
natura non puoi essere impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo
questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai
diversamente dagli altri interpreti che io conosco, Gataker, Schultz e
Pierron), e questo senso ho procurato, di esprimere traducendo. O.
lascia una breve nota a questo luogo, ma in essa non fa che avvertire le
difficoltà del tradurlo, stante la povertà dell’italiano,comparativameute
al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui.
Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di traduzione,
tutti laboriosissimi, come appare dalle molte cancellature e correzioni.
In margine alla quarta od ultima prova scrisse: Sta qui fermo,
perche farai peggio se cangi. Non fu quindi senza molto bilanciare
che mi risolsi a fare io, come feci, una quinta prova, essendomi
sembrato che il miglior par- tito fosse qui di tradurre
letteralmente, e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad
illustrazione del senso stoico di tutto il paragrafo ricordiamoci
priiniera- inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato dal lato
fisico, è la forza motrice della materia, è la natura generale, e r
anima vivificante del mondo; conside- rato dal lato morale, è la ragione
eterna che governa e penetra l’universo, è la provvidenza benefica,
è il principio della legge naturale che comanda il bone e proibisce
il male. Ricordiamoci ancora che l’aria, come uno dei due elementi
attivi e parte essa stessa della sostanza divina, ò dagli stoici
considerata come il principio della vita sensitiva. Dice adunque
Antonino: non contentarti ora- mai di essere unito con Dio a quel
modo solamente che sono uniti con lui gli esseri solamente sensitivi,
cioè per mezzo della respirazione; ma fa’ ancora di unirti con lui
a quel modo che si appartiene agli esseri intellettivi, cioè con
cognizione e accettazione libera dello scopo che Iddio ha proposto
al- r accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi
dall’aria ambiento gli elementi della tua vita sensitiva, traggi
ancora dalla ragione ambiente gli elementi della tua vita intellettiva.
L’esistenza delle' cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg
cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo- p^). Qui mi pare che
fosse il caso di dovere assolutamente abbandonare la lettera e
contentarci di esprimere il senso del testo, piuttosto che cercar
di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea
detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu stesso ti alteri
continuamente, e peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era
contento, come appare dall’usato segno. E in vero che significa quel
tutte le cose vanno soggette a mutazione f Significa, e non può
significare di più, che tutte le cose possono essere mutate e lo
saranno effettivamente quando che sia; ma ciò liou esprime quella
condizione delle cose, per cui non hanno stato, o modo di essere che
perduri pure un istante senza mutamento, che è la vera condizione
delle cose secondo il pensiero di Anto- nino e voluta esprimere da lui.
Chi do- vesse tradurre questo luogo in tedesco, lo potrebbe fare,
parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem
anclera-werden; come si dice in werden non solo dai filosofi, ma anche
nel lin- guaggio famigliare, quando di una cosa che non è ancora,
ma si sta incomin- ciando 0 si va facendo, si suol dire: Die Saehc
iat noch ini werden. Ma la nostra lingua non ha tutta la flessibi-
lità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè permesso il dire in italiano:
tutte le coae sano in un continuo mutarai. È una singolare
coutradizione di Marco nostro e di, altri stoici poate- riori il
venir cosi spesso parlando con tanto dispregio della materia che
aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi
anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto
e bellissimo, il cui corpo è la materia, e l’anima, Dio (vedi i
Ricordi passim, e specialmente X, 1). Le rughe sul volto del
vegliardo, le screpolature delle ulive e del fico vicini ad infradiciare,
la bava del cignale ed altre sì fatte cose hanno pure una certa
grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è nelle suo parti
che non conferisca alla bellezza del tutto. Perchè dunque ora tanto
dispregio non solo per tale o tale altra parte, ma universalmente per
tutta , la materia che sottosta, quando questa materia, che non è
poi altro per gli stoici se non se il suhstratum indeter- minato di
tutto il contingente sensibile, è essa pure sostanza divina secondo
la scuola? Intendi: « o tu voglia
dire che il mondo sia stato formato di atomi. ed abbia quindi
origine dal caso; o che sia stato formato di nature (essenze,
entelechie, monadi), ed abbia quindi per origino l’ intelligenza, o la
natura, che qui è sinonimo di intelligenza; que- sta cosa pongo io
certa anzi tutto, come tratta dalla mia osservazione immediata, che
io sono attualmente parte di un tutto governato da una natura. » Con
altre parole: « o tu faccia venire il mondo dalla pluralità, o tu
lo faccia venire dall’unità, ella è cosa di fatto che io ci ravviso
attualmente una pluralità governata da una unità. » Il qual me-
todo di filosofare, per cui, lasciata stare la disputa intorno
all’origine delle cose, si viene ad esaminare la realtà attua- le
di esse; lasciato stare il lontano e mediato, si viene ad osservare l’
imme- diato e prossimo; lasciata stare la co- gnizione dedotta, si
viene a far capo alla cognizione di fatto acquistata per
osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che appo
stoici mondo, tutto, natura, Dio sono V sostanzialmente
la stessa cosa, e però quelle che poco innanzi furono chiamate
parti del tutto, qui sono dette della natura. Dìo, natura, mondo, tutto
sono espressioni diverse che corrispondono a modi diversi di
considerare una stessa cosa, e questa diversità è relativa alla
mente finita dell’uomo che non può si- multaneamente contemplare gli
aspetti e momenti diversi delle cose, e non alla realtà obbiettiva.
Quindi ò che le espres- sioni soprascritte sono non di rado usate
runa per l’altra, poiché sostanzialmente significano la medesima cosa. Il
mondo KÓrfixog), dice il Laerzio, era dagli stoici considerato: 1®
come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le cose che sono {natura
nuturans, i; t£- Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale,
come artefice e informatrice di sé medesima, trae da sé stessa e informa
tutte le coso con suprema saviezza e divina necessità, cioè secondo
le sue leggi che sono quelle della ragione; 2" come la totalità
delle cose informate e ordinate dalla potenza informatrice
immanente in esse e go- vernatrice di esse (dotta allora xòv Toù
xd^fjLou) e quindi come l’opera vivente, il vivente organismo, o
corpo organato da quella {natura naturata); finalmente come
l’unità dei due, cioè dell’ organismo vivente e della forza or-
ganatrice e governatrice, in quanto l’uno non si distingue dall’altra se
non se per la contemplazione della mente finita deU'uomo. Vedi i
Prologo nell’edizione di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero di
che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’O.,
perchè non avrei saputo quali altre più chiare sostituir loro;
atteso che io non son sicuro di intendere qui nè che cosa abbia voluto dire
r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una nota; ma
non la fece, e non trovo altro,, che si riferisca a questo luogo,
ne’suoi manoscritti, se non se un cenno pel quale è indicato che
egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove tutti gli altri, che io
conosca, lessero &ti; e che egli intese r Ù7TÓ0OU diversamente da
tutti gli altri interpreti. Gataker e Schultz che lo segue da
vicino, non sono più chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del
tutto. Così l’Ornato svolse ed illustrò il pensiero di Antonino espresso
brevissimamente e, parmì anche, poco chiaramente nel tosto. Non ho
mutato quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’Ornato,
sia perchè ho motivo di credere che ne fosse già poco meno che
contento egli stesso, trovando io questo paragrafo nettamente ricopiato;
sia perchè non avrei voluto correr pericolo (li alterarne benché minimamente
il senso, trattandosi di un luogo che egli intese assai
diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol dire che non bastano
le impressioni buone che noi riceviamo per mezzo della sensibilità,
le quali possono e sogliono venir cancellate da impres- sioni
contrarie, ma ci vuole anche il la- voro deir intelletto che riduca
quelle ad unità e le fermi cosi nel nostro spirito, formandone come
un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazio- ne
dello spirito alle cose di circostanza, ma ci vuole ancora la
contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle cose permanenti,
al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a
generalità il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima,
la quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza
cui la semplicità del cuore dee far rimanere se- creta naturalmente nel
cuore, ma non artatamente celata; ed allora è l’ani- ma veramente
grave e soda e come chi dicesse, veneranda. Sul fine del para-
grafo fa la enumerazione delle diverse categorie alle quali si dee
riferire l’oggetto osservato. Questa nota dell’ Ornato che per le troppe
citazioni del testo greco non può qui darsi che in parte, trovasi
in- tera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non
era possibile il tradurre altrimenti. Del resto vada a rilento chi
per la sola ragione del non potersi tradurre sempre colla stessa
voce una stessa parola del testo, accusa Antonino qui ed altrove di
arguzia. Gli stoici crede- vano che, là dove è una stessa parola,
debbe essere anche una stessa idea. Ed anche Platone (vedi il Cratilo) il
credette; e il credette il Vico: e tanti j altri il credettero: e noi il
crediamo., Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv
non si trova più annessa al nostro amare, ciò j non prova altro se non
che il greco e l’italiano sono due lingue diverse. E sap evadicelo.
Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente
educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un tiranno od un re, gli
par di udire lodato e magnificato un pastore, perchè egli munga di
molto latte; e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche
più ritroso e più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè
men rozzo nè meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando
ad amhidue il tempo per badare a sè, e vivendo il primo fra le mura
della reggia a quello stesso modo che l’altro nella capanna sul monte.
Del resto, il senso generale di tutto questo paragrafo, non bene inteso,
se- condo me, dagli interpreti, mi pare che sia: Tu dèi farti
capace sempre pih cho tu puoi vivere da filosofo in questa tua
corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad
ogni passo esempi di quel che dice Platone: uomini che vivono nei
palagi come fa- rebbe un rozzo pastore in sul monte: ingolfati cioè
quelli e questo nelle cure materiali del governo dell’armentoV E
sottintende: se per costoro il palagio non è altrimenti che una capanna,
non può ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico?
Gran ragione ha qui Antonino di raccomandare a sè medesimo anche ' questo
genere di contemplazione, cioè a dire lo studio dei fenomeni, e
delle maraviglie, come egli dice sapientemente, “dell’organismo
corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è altro
studio il quale possa per via più compendiosa e sicura condurre alla
co- gnizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa
reggitrice del mondo. Nè l’uorao può presumere di conoscere sè
medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste mara- viglie, cioè come
si formi, cresca, si conservi, si rinnovi e deperisca il suo corpo,
quale sia la natura e il modo di operare della causa o principio a
cui dehbonsi riferire questi fenomeni, quali le relazioni di questa vita
orga- nica del suo corpo con quella del prin- cipio che in lui
sente, vuole, e pensa, e come possano questo due vite modificarsi fra
loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere sè medesimo,
per quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè stesso, e non cura di
co- noscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si
compone Tesser suo, porta gran pericolo di er- rare nel vano, e di
prendere astrazioni por realtà, il che avvenne appunto agli
stoici, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di fisiologia.
Perchè uno appunto degli errori fondamentali della loro filosofia,
quello por cui mu- tilavano la natura umana escludendo da essa la
sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’ uomo
propriamente, il quale per essi non era altro che ragione e volontà;
questo er- rore, dico, è in gran parte da attribuire alla
imperfezione delle loro cognizioni, ai loro errori circa la costituzione
fisica delluomo e le relazioni in che ella si trova colla sua
costituzione morale e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro
totale ignoranza dello leggi che governano i fenomeni dell’or-
ganismo corporeo dell’uomo, delle rela- zioni intimissime della vita di
esso organismo corporeo con quella della mente, e della natura egualmente
spirituale di ambidue. Questi versi sono di Omero e sono dei più
famosi nell’antichità, dei più spesso citati e ripetuti, imitati
dai poeti posteriori; o però Antonino non li scrisse per intero, ma
solo quei brani che sono stampati in corsivo, bastando quelli a
richiamare alla memoria i versi interi, alle diverse sentenze
contenuto in essi alludendo egli poi nella parte se- guente del
paragrafo. Con questi versi Glauco (dopo aver detto magnanimo Tidide a
che mi chiedi il mio lignaggio?) incomincia la sua risposta a Diomede, il
quale, prima di accettare il combattimento con lui, aveagli chiesto
qual fosse la sua stirpe. Io li ho tradotti letteralmente, giovan-
domi in parte della traduzione del Monti, la. quale, come nota a tutti i
lettori, avrei volentieri dato qui inalterata, se in essa fosse più
fedelmente espresso, e nell’ ultimo verso non interamente guasto il
senso delle parole di Omero. Il qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti
come segue: CosxVuom nasce e così muor: il che fa fare un falso
sillogismo a Glauco, il quale secondo la traduzione del Monti,
concludendo, affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che dovea affermare delle
schiatte umane, mutando, come direbbero i loici, nella conclusione
il piccolo termine, che nella premessa minore- non era uomo ma schiatta o
stirpe, come disse il Monti. E pure il verso di Omero ò chiarissimo.
Questo strafalcione il Monti non avrebbe fatto se, come quasi
ignorante del greco, con tante altre traduzioni avesse saputo consultare
quella mirabilissima, non solo per eleganza di stile ma ancora per
fedeltà, precisione e chiarezza, del Voss, il quale in cinque bellissimi
esametri tedeschi traduce letteralmente i cinque esametri greci. Anche il
Pope, sebbene i suoi lavori sui poemi di Omero, tutto die
pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione,
non fece qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare
dei nostri che con nobilissimo intendimento si diedero all’ardua
impresa di recare nella nostra lingua chi l’una e chi l’altra di
quelle poche reliquie che ci rimangono della greca poesia (dico poche
rispetto a ciò che fu divorato dal tem- po); i quali avrebbero meglio
inteso e meglio tradotti moltissimi luoghi se avessero potuto
consultare, se non tutti gli interpreti, cementatori ed espositori,
almeno i traduttori tedeschi. Ma basterà che io nomini il più valente, a
parer mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne forse una più
intima notizia del greco, nulla mancava, non valor d’arte, non
felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla
perfezione, dei tragici greci. E in vero, leggendo io le traduzioni del
Bcllotti e riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in
moltissimi luoghi ad am- mirarne la eccellenza, anzi direi quasi in
tutti quei luoghi dov’egli capì ab- bastanza intimamente il suo testo
e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche
in molti altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure non abbia
saputo o potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte da* suoi
predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che anche considerato
in sè stesso e non come parte di una grande e sublime trilogia, è
forse il più bel monumento della scena antica, e certamente il più
grande di tutti per sublimità tragica, recondita filosofia,
splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri, quanti errori
avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire
a quella grande anima e colossale ingegno di Eschilo, so egli
avesse solo potuto pro- fittare della traduzione e dei Prolegomeni di
Humboldt? Non dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo^ che
forse non era an- cora pubblicato quando il Bellotti traducea
l’Agamennone. Ed è tanto più da lamentare che a Bellotti siano
mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare che sia presto per
sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello che avrebbe
potuto il Bellotti. Ritornando al paragrafo di Antonino e al luogo
citato di Omero, è da notare come siffatti pensieri intorno al poco
o niun valore della vita considerata in sè, e di tutte le cose
umane e dell’ uomo stesso, così frequenti nei poeti ebraici;
frequentissimi in questo scritto di An- tonino e divenuti quasi abituali
nei cristiani dei primi secoli, si trovino pure non di rado anche
nei poeti greci più antichi, voglio dire in quelli delle prime e
più splendide epoche della greca letteratura, sebbene i Greci fossero
un popolo di allegra immaginazione. Forse non dispiacerà al lettore
il vederne qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre
nulla di più infermo che Vuomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che
siatn noi dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ ombra che sogna.
Letteralmente la seconda parte. L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel
Prometeo di Eschilo e non vedevi V
imbecille natura a vano sogno eguale onde è impedito il cieco umano
gregge? Nell’Aiace di Sofocle, perocché
veggo non essere noi, quanti viviamo, altro che larve ed ombra
vana. Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete chiama sè
medesimo: ombra di un fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto
incomincio a stimare tutte le cose umane come un' ombra, E vuoisi
notare come appo i tragici ed anche appo i) lepidissimo Aristofane
la parola effimeri, cioè quelli che durano un giorno, è spessissimo
usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze d’
antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi
del suo tempo, alludeva evidentemente Antonino con quelle sue
parole: il più breve detto, anche di quelli che sono i più noti
ecc., accennava poi per esempio quelli di Omero. Questa nota fu
scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato dopo trent’anni di
assenza, e mandato a stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi
e di lettere (prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e
ridottomi a passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r
esercizio di un pubblico ufficio mi lasciava, avea potuto, non saprei
diro perchè, immaginarmi che il valentissimo sig. Bellotti fosse già del
numero di quei felici che più non vivono altri- menti sulla terra
che per la memoria di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del
mio errore, non cangio nulla a quello che ho scritto di lui; ma
aggiungo V espressione di un voto, che deve esser quello di tutti gli
amatori delle buone lettere desiderosi di vedere vie più chiara e
più grande la rino- manza di un nobilissimo ingegno: ed ' è che
l’esimio sig. Bellotti, come sta ora, da quanto mi dissero, rivedendo
o migliorando il suo Yolgarizzamento di Sofocle, così possa egli
poi rivedere ed emeudare quello ancora di Eschilo, il quale, a
parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse al- cune
eccezioni, non pecca gravemente che nella parte lirica; laddove in
questo trovai, 0 parvemi certamente trovare, molti luoghi da dover
essere emendati non solo nella parte lirica troppo spesso non
traducibile in italiano (come è in- traducibile Pindaro, secondo che fu sen-
tenziato anche da Leopardi non ismentito dal tentativo più audace
che felice di Borghi); ma eziandio nel dialogo. Ella comjyie
nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche nel senso,
interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero e
com- piuto quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè
il senso voluto esprimere dall’ Ornato non mi sembrava abbastanza
chiaro; e poi, e principal- mente perchè mi parve troppo grande
licenza il tradurre per quanto avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv,
il quale mi sembra qui usato nel senso il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”,
che è quello di proporre, e così l’ intende anche lo Schultz
contrariamente al’Gataker seguito dall’ Ornato. Veggo bene le ra- gioni
che possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma non mi
persuadono. Il pensiero di An- tonino mi sembra chiaramente, l’anima
razionale, la quale non si propone altro che di operare sempre
secondo ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto
ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura, in qualunque istante
le sopravvenga la morte, compie sempre interamente il compito che
ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè stessa; ella ha
tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente esaurita la sua parte
come attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando la natura
lo vuole, è la conclusione, il compimento della parte a lei
assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma della vita
universale. Bone avverte qui il Gataker aver già Socrate usato il
medesimo argomento per indurre Alcibiade a disprezzare la
moltitudine, alla quale peritavasi di farsi innanzi a concionare: qual è,
diss’egli, di costoro quegli che ti impau- risce? forse Micillo il
ciabattieref Trigaió il conciatore f Trochilo il ferravecchio? ora
non sono costoro quelli dei quali si compone V adunanza del popolo? Che
se non temi di favellare a ciascuno di essi separatamente, che è dò.che
ti fa timido a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate
era giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe
anche potuto ricor- dare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li
Ateniesi conservatoci da Plu- tarco: preni ad uno ad uno »iete
tante volpi; riuniti insieme siete tanti allocchi. Ma il medesimo
ragionamento applicato allo cose di cui parla Marco nostro non ò
molto concludente. E una melodia, per es., come qui avverte
opportuna- mente il Pierron, è qualche cosa di più che una semplice
successione di suoni, e Antonino dimentica di considerare ciò
appunto per cui le note musicali hanno potenza da commovere T anima
sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci
era la lotta infelice della volontà e liberta morale dell’ uomo
contro l’ inflessibile necessità; o per dir più veramente, quella
fatale retribuzione di giustizia che risulta inevitabilmente alla
vita umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella
necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il
/«<o non era altro che la concatenazione delle cause secondo le
leggi della na- tura, cioè della ragione e quindi della giustizia;
quella necessità, dico, non era punto una cosa cieca neppure nella
mente dei poeti: sendo che a Nemesi figlia appunto di essa necessità e
particolarmente incaricata di vendicare i delitti e rovesciare le troppo
grandi e- immeritate prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia
(5“tx-ri), che erano i due concetti più puri fra tutte le divinità
immaginate dall’ antico politeismo, il semplice, ma sublime buon senso
dei Greci riferiva tutto ciò che risguarda il supremo governo del
mondo. L’idea dunque della giustizia era congiunta con quella della
necessità^ sebbene in modo diverso, anche nella mento dei poeti,
come in quella degli stoici. Cho se Antonino non fa qui esplicitamente
alcuna allusione a quella retribuzione di giustizia, che era l’elemento
morale della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della
lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea nobilissima
dell’antica tragedia; egli è perchè questa inutilità intendeano gli
stoici e i poeti allo stesso modo, e quasi esprimevano colle medesime
pa- role; laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non
erano forse i poeti quelli clie la intendeano in modo men vicino al
vero. Benissimo il Gataker ricorda qui alcuni detti memorabili di
Pocione, conservatici da Plutarco, ai quali alludea probabilmente
Antonino in questo luogo. Già condannato a morte per giudizio
iniquo de’ suoi cittadini, in proposito. di uno che non ristava dal
dirgli vil- lanie, disse Focione: non sarà alcuno che faccia costui
cessare dal disonorar «è medesimo? E già vicino a morire, questa
sola ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il fatto ingiusto degli
Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco nostro: mpposto che non
e in fingenac, non debbono esser prese come, espressione di nn sospetto
nel caso particolare di Focione, ma bensì in un senso generale,
quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non bastar sempre le
parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle disposizioni interne
dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur quando il fingere
potesse gio- vare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce
inìquo, seguendo lo Schultz che tradusse iniquum. Ma non e ben
risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal
consueto segno. E veramente non parmi che lo ayvcofjLov possa esser preso
in questo senso, sebbene abbia quello ingrato, disleale,
disamorato. Il senso più ovvio di questo aggettivo è privo di
senno, stolto, inavveduto, e parmi che 41 1 reo Aurelio questo senso
quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia quello di
inìquo. Dopo aver detto Antonino essere da pazzoy cioè a dire da stolto,
il volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi
gene- rale ed assoluta, poiché non si può fare altrimenti, che essi
debbano di neces- sità peccare, e il volere ad un tempo che essi
facciano una eccezione a favor tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche
da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è
possibile ai malvagi;.da tiranno perchè vuoi esser distinto e che ti si
abbia maggior rispetto che agli altri uomini. Anche il Gataker
intende 1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto
malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre,
quando deve essere riferito al figliuolo, corno fece O., seguendo Gataker
e Schultz. La medesima sentenza si trova anche nel Manuale del
mede- simo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal
Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai
teco stesso: io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore
com- prenderà facilmente come il senso stoico di questa frase,
tante volte ripetuta da Marco nostro, è al tutto alieno da quello
della famosa sentenza del sofista Protagora: V uomo è misura di tutte le
cose. La sentenza del sofista si riferiva ad ogni cosa, alla verità
obbiettiva, alla moralità come alla sensibilità, e tendea quindi a
distruggere la possibilità' di ogni cognizione teorica, la morale
come la religione. La sentenza di Antonino al contrario, il quale,
per un errore direi quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli stoici
anteriori, tutta l’essenza dell’ uo- mo alla ragione e alla volontà
ragionevele, non si riforisce ad altro che alla sensibilità, cioè ai
piaceri e ai dolori di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi
raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare,
operazione propria dell’intelletto; e nota qui il carattere esclusivo
del Portico, il quale considerava e stimava un nulla, non che la
sensibilità ma l’in- telletto stesso, a paragone dei buon uso della
volontà, cioè della moralità della ragione. Traducendo ho usato il
vo- cabolo raziocinio piuttosto che intelletto, perchè in italiano
il senso della parola intelletto può essere troppo facilmente
confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben
determinata nella nostra lingua, come è fra i due corrispondenti tedeschi
Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad
seipsum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oro: l’implicatura conversazionale --
Grice e Trissino – la difficoltà dei segni di Trissino non favorì la diffusione
della sua filosofia – filosofia italiana (Vicenza).
TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO (Vicenza).
Filosofo italiano. Ritratto di Vincenzo
Catena. Persona di spicco della cultura rinascimentale, notissimo al tempo, il
Trissino incarnò perfettamente il modello dell'intellettuale universale di
tradizione umanistica. Si interessò, infatti, di linguistica e di grammatica,
di architettura e di filosofia, di musica e di teatro, di filologia e di
traduzioni, di poesia e di metrica, di numismatica, di poliorcetica, e di molte
altre discipline. Nota era, anche presso i contemporanei, la sua erudizione
sterminata, specie per quel che riguarda la cultura e la lingua greche,
sull'esempio delle quali voleva rimodellare la poesia italiana. Fu anche
un grande diplomatico e oratore politico in contatto con tutti i grandi
intellettuali della sua epoca quali Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni,
Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista
Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila, Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il
condottiero Cesare Trivulzio, Leone X, Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore
Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per conto del papato, della Repubblica di
Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo, come tutta la sua famiglia
da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto Andrea Palladio, appena
adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino Vicenza, che venne da lui
portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto della bellezza greca e
delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O. nacque da antica e nobile famiglia.
Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima metà Professoreil condottiero
Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti di Milano invase alcuni
territori vicentini, e riconquistò la valle di Trissino, feudo avito. Suo padre
Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello al servizio della Repubblica di
Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile famiglia veronese. Ebbe un
fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre sorelle: Antonia, Maddalena,
andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi, ed Elisabetta, poi suor
Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice insieme a Domicilla
Thiene di San Silvestro. Targa marmorea che Trissino fece
realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in S.Maria della
Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida del dotto
bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi filosofia a
Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore per i
classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita. Alla
morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della
Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Il 19 novembre 1494 sposò
Giovanna, figlia del giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe
cinque figli: Cecilia, Gaspare, Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come istituzione,
come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne
interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente
esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania,
l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato
"dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello
stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che
nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto
biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente
d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN
TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi
110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova",
privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Stemma di
Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da Castelli.
In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna, Mantova,
Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove riscoprì il
De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed entrò nel
circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui si
riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito, Machiavelli
e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri. Qui il
Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia Sofonisba.
Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il poeta
ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui suoi
sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il poemetto le
Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino, cfr. il
paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di Luigi
Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite
sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano
all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi,
le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere
anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino
moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In seguito si recò a
Roma, dove stampò nel 1524 la Sofonisba (dedicandola papa Leone X), la prima
tragedia regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la
lingua italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si
suggeriva l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per
segnalare alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute
cagionevole, venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo
soggiorno a Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della
cattedrale di Vicenza. Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi
fondamentali: la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari
eloquentia, Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed
ispirato a quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e
le prime quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica
di Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma
letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso.
Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla. Queste opere
sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio:
orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato
finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare
l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni
e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè
poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi
libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A
Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano
Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente
VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della
Milizia Aurata. Secondo quanto riportato dallo storico Castellini,
Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei
successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio
l'arcivescovado di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia,
in quanto desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio
avviato nella gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia
del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di
Bartolomeo O. Da Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro
come erede universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo
lottò in tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di
eresia calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi
rapporti con Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia,
dove morì il 21 settembre 1540. Trissino manifestò il proprio fervente
sostegno all'Impero dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo
poema in 27 canti L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato,
come si vede fin dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata
di Torquato Tasso. Nel 1548 stampò anche la commedia I Simillimi, anch'essa la
prima commedia regolare. Villa O. di Cricoli (VI) Intanto nella villa di
Cricoli alle porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata dal
padre Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine. Qui
Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura,
Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé
ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio
Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di
Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua
Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras),
che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta
parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della poesia
italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta,
i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare
eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi
sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo
cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che
allora infuriavano. Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi
diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele
lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un
saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio),
due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un
manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie
quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da
rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune
consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono
clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua,
idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni. Questa intensa
speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte
molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare
della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le
norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e
l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il
primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima
commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato
a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli
Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal
Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate
ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se
si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta
Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza
rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione
destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi:
innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica,
traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del
linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi,
attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio
sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di
Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia
alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato
come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari
solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che
è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma
iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli
a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il
suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo
bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e
quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di
queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso
(padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.
Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date: Dà
alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti
Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue
opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non
con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare
eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le
Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai
Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere
poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo
apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della
letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il
modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che
imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima
apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni
petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui
la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e
poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai
classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o
biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello
stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede
in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di
Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta
piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro
nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da
allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi
sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca,
modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti
da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella
siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del
Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le
ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi
neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente
quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche
del Petrarca (occhi di stelle e simili). Il Castellano è un dialogo sulla
lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a
Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il
castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone
per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari
eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto,
fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli
autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e
Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a
parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino sollevarono
grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità dantesca non era
ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito sulla lingua
italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre secoli dopo.
Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il fiorentino Machiavelli
al quale il Trissino aveva letto il De vulgari eloquentia sempre agli Orti
Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni, Baldassarre
Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a questo vasto programma
vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per il Trissino,
essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere modellato
sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il continente.
Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di resuscitare
dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto e
ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano linguistico immagina
una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre, che
contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una collaborazione
ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo del toscano
trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si mostra
vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre, inoltre,
della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e latino, come
fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande successo nei
secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel melodramma.
Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga teocritea e del poema
omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni genere vengono date
ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le unità di tempo e di
luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative, per il poema epico.
Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il
poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda fantastica
costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle quali destinate
a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione generale della
vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di matrice storica e
dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire raccontata dall'inizio
alla fine, e i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti attorno ad essa, tutti
per un solo scopo, e le loro vicende dovranno venire concluse entro l'arco del
poema, non lasciando nulla in sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una
caratteristica che gli diventerà propria, viene dal Trissino investito di un
alto valore morale e politico, profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che
lo trasformano in un percorso di formazione morale e culturale. Per
questi tre generi nuovi, il poeta propone l'endecasillabo sciolto,
corrispettivo moderno dell'esametro e del trimetro giambico classici (vedi
paragrafi sottostanti). Sul piano dello stile e dei registri il poeta
rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e di Dionigi di Alicarnasso, che
ponevano come vertice dello stile poetico l'energia, cioè la capacità di
rappresentare visivamente con le parole le cose di cui s sta narrando,
prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e Dante. Sempre dietro
Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro registri stilistici e
non tre, come voluto dalla tradizione medievale e bembesca (la cosiddetta rota
Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri stilistici soltanto: quello
basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio dalle Georgiche, e quello
alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a reimpostare daccapo i rapporti
ormai consolidati fra genere letterario e registro stilistico, e fu una novità
che avrebbe causato non poco l'insuccesso di un poeta il cui punto debole fu
proprio lo stile. Tornò in scena con L'Italia liberata da' Gotthi, un
vastissimo poema di endecasillabi sciolti in 27 canti, iniziato intorno nell'età
di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo poema epico moderno e sarà destinato,
come la Sofonisba, a inaugurare un genere del tutto nuovo, in dichiarata
antitesi alla tradizione medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni
stava sfondando con Ariosto. L'idea che soggiace alla composizione
dell'opera è illustrata nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema,
dove O. dichiara di essersi ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di
Omero. Con la guida di Omero e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti),
inoltre, reclama l'uso di un volgare illustre che contempli l'inserimento di
voci dialettali, arcaiche o anche latine e greche, come infatti nel poema
avviene. Come detto più volte, inoltre, lo scopo del poema è 'ammaestrare
l'imperatore', non solo attraverso dei modelli cavallereschi, ma anche
attraverso conoscenze tecniche di architettura, arte militare e via di
seguito. Il poema è ligio, insomma, a quanto stabilito nella Poetica: la
trama è tratta da un accadimento storico cioè la guerra gotica tra l'imperatore
bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che occuparono l'Italia (per la quale
il poeta segue lo storico bizantino Procopio di Cesarea), che viene raccontata
dall'inizio alla fine, e i (relativamente) pochi protagonisti ruotano attorno
ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno specchio di altrettanti vizi e
virtù da correggere, in questa crociata che sarebbe anche un percorso di
formazione bellica e morale del suo lettore ideale, cioè Carlo V
stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti italiani, fu uno dei più
clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana, come noto, anche se ebbe un
impatto profondissimo. Critiche violente vennero da Giambattista Giraldi Cinzio
(che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco Bolognetti, ma non solo. I quali
derisero il poema per la sua imitazione pedissequa dei valori dell'eroismo
classico (grandezza e generosità d'animo, nobiltà e gloria), per l'attenzione
estrema alla corretta applicazione delle regole aristoteliche, più che alla
fluidità della narrazione o al dare un rilievo psicologico ai personaggi,
assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa parola per parola del modello
omerico (ma in generale di tutte le moltissime fonti tradotte dal poeta) fu
ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento venne a scontrarsi con la
prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza rima costruito in maniera
formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende il dettato fiacco e
stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui il poeta si dilunga
nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della Roma medievale, di
città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe geografiche
dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di seguito,
soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è addirittura
corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di difficile lettura.
Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia un posto di rilievo nella
letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi solenni e composti nella
dignità del loro ideale e della loro missione, tipicamente aristocratici,
anticipava le preoccupazioni morali della Controriforma. Sarà proprio alla fine del secolo, infatti,
che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma non solo. “I
simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli sono indicati da lui
stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia antica -- Menandro è
stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della quale il Trissino ha
fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte poetica di Orazio)
ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da Plauto (essenzialmente i
Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente, mentre i cori sono
costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere linguistiche
Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino, stampato con lettere
aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I suoi saggi di filosofia del
linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola, Castellano, Dubbi,
Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese discussioni suscita
il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare l'alfabeto classico
italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell' “Ɛpistola del Trissinω”
delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua italiana”, dove suggerisce
l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e consonanti della fonologia
greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi resi allora, e ancor oggi,
con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed “ω”) e chiuse, z sorda e
“z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione dell’“i” e dell’ “u” con
valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v). Ri-propone questa idea, sebbene
ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico della Crusca (cruschense)
Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei secoli a venire, invece, la
sua proposta di utilizzare la “z” al posto della “t” nelle vocaboli latini che
finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione” -- oratione >
orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal signo “v” (uita
> “vita”) I punti principali
dell'abecedario riformato sono i seguenti: carattere fonema Distinto da
Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O
chiusa [o] V v V con valore di consonante [v] U u U con valore di vocale [u] J
j con valore di consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA”
“ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee vengono
confermate. Nel Castellano, propone il modello di una lingua
cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei
letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della
fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si
appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari
eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i
generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa
a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si
dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri
stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di
essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla
lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo
e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua
letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una
similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano
è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e
lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a
Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata
sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un
prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la
lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e
vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o
nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà
non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da
parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta
aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e
nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura
neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il
Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma
soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di
Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci
vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B. Rucellai, che nel poemetto in versi sciolti Le
api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e della dottrina
ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello e sì alto
pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli umani
ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii d’Acheronte
ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei mortali».
Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del pensiero
platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si
aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola
Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di
essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto
contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato
da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla
lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti,
), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse
in Germania. Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e
una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che
scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un
luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione
religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la
vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della
scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e
millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim,
Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata
prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la
sua morte e vi verrà coinvolto, invece,
il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione. Il suo
poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e
queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in
maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio,
Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà
umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o Vulcano
come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e nel
pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai
critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto
la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione
risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era
demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può
capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della
costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la
protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo
diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli
cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel
suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui
e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della
città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i
canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso
totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S.
Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema
totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è
regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di
riferimento privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione
essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le
opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono
notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in
mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e
ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione
del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non
e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse
accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua
filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti
paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo
specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la
tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può
dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col
teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia
di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di
Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la
tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu
soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè
piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma),
riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una
linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in
pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.
Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato
infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede),
da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che
nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che
compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via
via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi
del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente
come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra
cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad
esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”,
infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”),
ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza
dell'opera tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i
critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo
cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso
sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le
ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla
fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o
nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato
rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera
(non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede,
animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi
letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti
importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non
bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di
Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna
anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte
le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e
con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu
l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una
delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba,
considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira
dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il
Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una
tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è
uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del
giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una
riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove
si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una
intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può
dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche
nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della
tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto,
alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino
(prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.
Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito
Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione
italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che,
meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione
poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo
storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il
secondo è Carducci che stronca il poema
ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin
che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un
letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si
assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino
trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in
generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai
latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza
della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è
nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici,
non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla
poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno
presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno
otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre
Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco
seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese,
poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che
amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica
più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda
la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel
Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo
alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe
possede una copia delle Rime trissiniane Opere: “Sofonisba, tragedia
Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana;
De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli;
Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema
epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini Gian Giorgio
Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio
Trissino, Miniatura di O.. Incisione da Castelli La vita di Giovangiorgio
Trissino, Targa a O., in piazza Gian Giorgio Trissino. Targa posta sulla
casa natale di Gian Giorgio Trissino, in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di
Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a
Firenze, raffigurante Giovan Giorgio Trissino, membro dell'Accademia
Neoplatonica che lì ebbe sede. Bernardo Morsolin O. o Monografia di un
letterato del secolo XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio
Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato
del secolo XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e
Giacomo a Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino,
Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato.
L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM
GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT JOANNES O. GASP. FILIUS PRÆCEPTORI OPTIMO ET
SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato; Morsolin O. o Monografia di un letterato
del secolo XVI, Giambattista Nicolini, Vita di Giangiorgio Trissino,
Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον ἁλωτόν", letteralmente
"ciò che si cerca, si può cogliere".
Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato, Pierfilippo
Castelli, La vita di Giovan Giorgio Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio
Magrini, Reminiscenze Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin,
Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o
Monografia di un letterato, Silvestro Castellini, Storia della città di
Vicenza. Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin,
O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion
ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare
cugini di altri rami della medesima famiglia.
La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni
drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile
intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i
discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più
prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la
denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero
Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti
a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre,
accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il
venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello
d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la
moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano
al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes,
la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette
affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni
ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col
patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi
Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il
tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion,
Justice civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana
et Cricoli au XVIe siècle,. Bernardo
Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,
voce O. nel sito Treccani L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino,
Giangiorgio, in L'Enciclopedia dell'Italiano.
"Palladio" è anche un riferimento indiretto alla mitologia
greca: Pallade Atena era la dea della sapienza, particolarmente della saggezza,
della tessitura, delle arti e, presumibilmente, degli aspetti più nobili della
guerra; Pallade, a sua volta, è un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio
talvolta femmina che, al di fuori della sua relazione con la dea, è citata
soltanto nell'Eneide di Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il
nome possa avere un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi
Paolo Portoghesi, La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della
mostra dedicata a O., in occasione dell’anniversario della promulgazione dello
Statuto del Comune, organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino
e Pro Loco di Trissino. L. Cicognara,
Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova,
Giachetti, Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi
fondamentali: Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino,
oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti
del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri
Pozza, Sulla Sofonisba: E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino,
Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba
di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C.
Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle
Rime: A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella
tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto
delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di
letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa): F. Ermini,
L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia
dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico,
Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del
Trissino,Storia della Lett. italiana,Milano, Garzanti, Marcello Aurigemma,
Letteratura epica e didascalica, in Letteratura italiana, IV, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla
Controriforma, Bari, Laterza, Marcello Aurigemma, Lirica, poemi e trattati
civili del Cinquecento, Bari, Laterza, Guido Baldassarri. Il sonno di Zeus.
Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma,
Bulzoni, Renato Bruscagli, Romanzo ed epos dall’Ariosto al Tasso, in Il
Romanzo. Origine e sviluppo delle strutture narrative nella cultura
occidentale, Pisa, ETS, D. Javitch, La politica dei generi letterari nel tardo
Cinquecento, «Studi italiani», David Quint, Epic and Empire. Politics and
generic form from Virgil to Milton, Princeton, Princeton University Press, Tateo,
La letteratura epica e didascalica, in Storia della letteratura italiana, IV, Il Primo Cinquecento, Roma, Salerno,
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Milano, Bruno Mondadori, aRenato Barilli, Modernità del Trissino, «Studi
Italiani», A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema
epico-cavalleresco nel Rinascimento, Roma, Franco Angeli, D. Javitch, La nascita della teoria dei
generi letterari, «Italianistica», Gigante, «Azioni formidabili e
misericordiose». L'esperimento epico del Trissino, in «Filologia e Critica»,
Stefano Jossa, Ordine e casualità: ideologizzazione del poema e difficoltà del
racconto fra Ariosto e Tasso, «Filologia e critica», S. Sberlati, Il genere e
la disputa, Roma, Bulzoni, Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico
tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, M. Pozzi, Dall’immaginario epico
all’immaginario cavalleresco, in L’Italia letteraria e l’Europa dal
Rinascimento all’Illuminismo, in Atti del Convegno di Aosta, N. Borsellino e B. Germano, Roma, Salerno, M.
De Masi, L'errore di Belisario, Corsamonte, Achille, «Studi italiani», Claudio
Gigante, Un'interpretazione dell'«Italia liberata dai Goti», in Id., Esperienze
di filologia cinquecentesca. Salviati, Mazzoni, Trissino, Costo, il Bargeo,
Tasso, Roma, Salerno Editrice, E. Musacchio, Il poema epico ad una svolta: O.
tra modello omerico e virgiliano, in «Italica»,
Valentina Gallo, Paradigmi etici dell'eroico e riuso mitologico nel V
libro dell'‘Italia' di Trissino, in «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», Alessandro Corrieri, Rivisitazioni cavalleresche nell'Italia
liberata da' Gotthi d’O., «Schifanoia», A. Corrieri, La guerra celeste
dell'Italia liberata da' Gotthi di Giangiorgio Trissino, «Schifanoia», Claudio
Gigante, Epica e romanzo in O., in La tradizione epica e cavalleresca in
Italia, C. Gigante e Palumbo, BruxellesI. E. Peter Lang, Corrieri, Lo scudo d’Achille e il pianto di
Didone: da L’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trìssino a Delle Guerre
de’ Goti di Gabriello Chiabrera, «Lettere italiane»,Alessandro Corrieri, I
modelli epici latini e il decoro eroico nel Rinascimento: il caso de L’Italia
liberata da’ Gotthi d’O., «Lettere italiane», Sul dibattito sui generi
letterari e la Poetica (in ordine di stampa): E. Proto, Sulla ‘Poetica’
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«meraviglioso» nella «Liberata», Roma, Bulzoni, R. Bruscagli, L’errore di
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dibattito dei contemporanei si vedano almeno (in ordine di stampa): B.
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inediti di Tolomei: le quattro lingue di toscana, «Giornale storico della
letteratura italiana», I. Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo
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Alessandria, Edizioni dell’Orso, A. Cappagli, Gli scritti ortofonici di Claudio
Tolomei, «Studi di grammatica italiana», Maraschio, Trattati di fonetica del
Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia,
C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo
Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale, L'omerida italico: Gian Giorgio
Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto
Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di Dante e l'importanza del De
vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di stampa): M. Aurigemma,
Dante nella poetica linguistica del Trissino, «Ateneo veneto», foglio
speciale, C. Dionisotti, Geografia e
storia della letteratura italiana, in Geografia e storia della letteratura
italiana, Torino, Einaudi,Floriani, Trissino: la «questione della lingua», la
poetica, negli Atti del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, etc...(ora
in Gentiluomini letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento,
Napoli, Liguori, I. Pagani, La teoria linguistica di Dante, Napoli,
Liguori, C. Pulsoni, Per la fortuna del
De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri, «Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante
attraverso il Cinquecento: Il De vulgari eloquentia e la questione della
lingua, «Rinascimento», Per le trafile del codice dantesco posseduto dal
Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di Milano, cfr. l'introduzione
diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia (Firenze, Le Monnier) e G.
Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del “De vulgari eloquentia”,
in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di studi della fondazione “Giorgio
Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G. Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i
testi d’O si rileggono nei due volumi intitolati Tutte le opere Scipione Maffei
(Verona, Vallarsi), che non riproducono però l'alfabeto inventato riformato.
Alcuni testi hanno avuto delle edizioni moderne: La Poetica si rilegge
nei Trattati di poetica e di retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è
riprodotto con l'alfabeto inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi,
Roma, Salerno (che contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il
Castellano, i Dubbii grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti
con l'alfabeto inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R.
Cremante, nel Teatro, Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto
inventato d’O ed è dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione
del De vulgari eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella
collana “I classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al
testo latino, nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi
sotto). Per l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere,
invece, alle prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe
sette-ottocentesche. Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi
ed edizioni sul Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2
settembre ) presso// nuovorinascimento. org/ cinquecento/trissino. pdf. A. Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia. Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL,
Horizons Unlimited srl. O. Opere di Gian Giorgio Trissino, su Progetto
Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
ItalicaRinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il
comercio del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non
dico nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra
tutte le cose che sono solamente a l'uomo e dato il parlare ,sendo a lui
necessario solo. Certo non a gl’angeli non a gl’animali inferiori e
necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo
bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce di fare cosa alcuna
invano. Se volemo poi sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola]
nostro, niun'altra ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o
quello CONCETTO de la mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e
neffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi
concetto, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel
fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui
avidis simi sispecchiano. Per tanto pare, che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha
mestieri. Ma chi opponesse a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal
cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi
trattiamo di quelle cose, che Sono Che Q a bene essere , devemo essi
lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vol lero aspettare
la divina cura. Seconda risposta,e meglio è,che questi demoni a MANIFESTARE fra
sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere , se non qualche cosa di
ciascuno, perchè è, e quanto è 1 : il che certamente s a n no ; perciò che si
conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non fu
bisogno provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA siano
guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una medesima specie, hanno le
medesime azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le
altrui conoscere; ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA
a la prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina
e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli
organi loro. E così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che
fischiare. Il testo ha: nonindigent, nisiutsciantquilibetde quolibet, quia
est, et quantus est. Parrebbe più proprio il tradurre cosi:non hanno bisogno di
conoscere, se non ciascheduno di ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia
l'esistenza e il grado. Se alcuno poi argumentasse da quello, che Ovidio
disse nel quinto della Metamorfosi, che LE PICHE parlarono. Dico che dice
questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se si dicesse che le piche al
presente e altri uccelli parlano, dico che è falso; perciò che tale atto NON è
parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si
sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO (cf.
‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno
espressamente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se non
rappresentazione , o vero imitazione del SUONO di quello, che prima avesse
detto. E così appare, agl’UOMINI SOLI essere stato dato il PARLARE; ma per qual
cagione esso gli fosse NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e NECESSARIO
agl’uomini il comercio. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI NATURA ma
per ragione. E essa ragione o circa la separazione !, o circa il giudidizio, o
circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi ogni uno de la
sua pro . La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla parola
discernimento. del parlare. , pria specie s'allegra; giudichiamo che niuno
intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le bestie; nè
anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come l'angelo, sendo per la
grossezza e opacità del CORPO mortale la umana specie da ciò ritenuta. Fu
adunque bisogno che volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE IL SUO
CONCETTO avesse qualche SEGNO SENSUALE e razionale; per ciò che dovendo
prendere una cosa da la ragione, e ne la ragione portarla, bisognava essere
razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE
NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l fosse
solamente razionale, non potrebbe trapassare; se solo sensuale, non potrebbe
prendere dalla ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno che il
subietto, di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, egli è per
natura una cosa sensuale e inquanto che, secondo la volontà di ciascu ,
significa qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem signum est, ipsum
subjectum nobile, dequoloquimur: natura sensuale quidem, in quantum sonus est ,
esse; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum. A noi
pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod
rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per
l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è
SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo fu prima dato il parlare, e
che disse prima, & in che lingua l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo
che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato il parlare, e che
cosa prima disse, & a chi parlò, e dove e quando, & eziandio in che
linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima
parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del
mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre
sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava , disse , ‘Dio ci ha
commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso,
e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in
scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol
cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa
inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa.
Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che
sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega
meglio col senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette , che a
pensare, che così eccellente azione de la il generazione umana prima da
l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso
essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che
voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in
pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per
modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e
da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio;
con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u
m a n a generazione , ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è
ragionevol cosa , che quello che fu davanti , cominciasse da alle grezza, e
conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio
tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse
primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo
aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e
se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello
che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo
averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA,
che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino
secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata ,
ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento
della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di
maniera che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge
le nevi, e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a
far risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa
distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose credia
mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da
le cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo
primo parlare primieramente a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo
parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne
l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire,
pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di
ogni perfezione principio & amatore ,inspirando il primo uomo con ogni
perfezione compi , ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale
non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse
contra le obiezioni, 11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che
non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro
segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella
riverenzia , la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna
volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una
medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda , che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori
laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso, diremo che
fuori: se dentro , diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra
perchè i negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal
che molti per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse;
però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato
l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e
donde fu l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e
che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte,
Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di
Adamo .Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda,
che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole,
a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua
materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere
stata quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare ,
quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo
tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le
spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè
se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra sensualità,
non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti
e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente
si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che
Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e
molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone , che gli Italiani. R
ir tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di
parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima ,e dico forma, quanto a i
vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli , e quanto al
proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua
userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come
di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo , e tutti i suoi
posteri fino a la edificazione de la torre di Babel , la quale si interpreta la
torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli
di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione
rimase, acciò che il nostro Redentore , il quale doveva nascere di
loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la
confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le
labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum
humanitatem , non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve
tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità , usasse della lingua
della grazia , e non di quella della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin
15 e per De la divisione del parlare in
più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di
passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e l'animo la fugge , non
starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati , oh da principio ,
e che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua
corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a
tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà
della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse
dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi commesso , gli animali del cielo
e de la terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come
prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera
volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo , o vero
scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le
sferze, che erano rimase , venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua
e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo,
sotto persuasione di gigante, di , superare con l'arte sua non
solamente la na tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad
edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione,
per la quale sperava di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non
solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza
misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo?
Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna , & a battiture
assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione
castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ;
parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per
ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere
s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che
dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in
molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano
; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osserva che
in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa
loquela attualmente rimase , come a tutti gli architetti una , a tutti i
conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di
tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera , di
tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più
eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più grosso e barbaro il loro
parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti
nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la
sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto
al numero ; e furono , sì come io comprendo , del seme di Sem , il quale fu il
terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la
antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er
la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo , che
allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per
tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la P
Sottodivisione del parlare per il mondo, principal radice dela propagazione
umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da l'u no e l'altro lato
per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra distesa; final mente
in fino a l'occidente prodotta , là onde primieramente le gole razionali
gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri
mieramente vennero, o pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi
cotali por tarono tre idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione
meridionale di Europa, parte la settentrionale, & i terzi, i quali al
presente chiamiamo Greci , parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia
da uno istesso idio ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi
volgari , come di sotto dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da
la foce del Danubio, o vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali
(li quali da i confini d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono
terminati), tenne uno solo idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari ,
Tedeschi, Sassoni , Inglesi & altre molte nazioni fosse in diversi volgari
derivato ; rimanendo questo solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio
, che quasi tutti i predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal
termine di questo idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro
idioma tutto quel tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si
chiama Europa, e più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che
resta , tenne un terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ;
perciò che volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè
Spagnuoli , Francesi & Italiani .Il segno adunque che i tre volgari di
costoro procedessero da uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose
chiamano per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e
vive,muore, ama ,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa ,
quelli che proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i
confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini
la parte orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia
il seno del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi
sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal
settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il
testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus
orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est
protractum . Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit
idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè dai
confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto che
da quei confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre.
Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19 glese,
e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e
da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il
verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova, cimentare,
ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da niuna
autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che intervenne al
parlare , che da principio era il medesimo. Ma conciòsiachepercammininoti più
tosto e più sicuramente si vada , però so lamente per questo nostro idioma
anderemo,e gli altri lascieremo da parte , conciò sia che quello che ne l'uno è
ragionevole , pare che eziandio abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque
loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre parti diviso ,
perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri oil. E che questo dal principio
de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar si deve)
appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti dottori
dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo parlare
si muta , e de la invenzione de la grammatica. A la quale
convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione
di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose
convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor. Gerardo di Berneil , «
Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor
sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor , prima che gentil core, Nè cor
gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque , perchè egli in tre parti
sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè stessa
si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de la
sinistra, cioè altramente parlano i Padovani , e altramente i Pisani : e
investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel
parlare,come è iMila nesi e Veronesi, Romani e Fiorentini;e ancora perchè siano
differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole
tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e quel che è più maraviglioso,
cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città
dimorano , come sono i Bolognesi del borgo di san Felice , e i Bolognesi
della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi
sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque
, che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa
può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella
che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo
quella confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela
prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale , la
nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ; m a come le altre cose
che sono nostre (come sono costumi & abiti), simutano;cosìquesta,secondo
ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi.Però non è da
dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il
parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo
sottilmente investigare le altre opere nostre,le troveremo molto più differenti
da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a
n tunquecisianomolto lontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli
antiquissimi Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di
quello, che ora parlano in Pavia ; nè altrimente questo, ch'io dico , ci paja
maraviglioso , che , 1Iqualicisianomolto lontani (magis....quam a
coetaneis perlonginquis). ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto, il
quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose , che a poco a poco si
movono , il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va riazione de la
cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più
stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che
sono poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia sempre
il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa
città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta , e
sia la vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la
istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia, nè può per
alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che lontani e
separati dimorano, sia variamente variato; sì come sono ancora variamente
variati i costumi & abiti loro , i quali nè da natura,nè da consorzio umano
sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi
nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica ; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata , non
par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere
variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare , il
quale DE LA VOLGARE ELOQUENZIA. 23 De la varietà del parlare
in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Gian Giorgio Trissino
dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua italiana, filosofia del
linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di comunicazione, il parlare
umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la parlata dei genovesi, la
filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la filosofia del linguagio,
only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trissino” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Orrontio: la scuola di Roma – Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino – cited by
Porfirio.
Grice ed Orsi: l’implicatura conversazionale -- filosofia
fascista – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palma di Montechiaro). Filosofo italiano. Grice: “Orsi uses ‘psicologia
speculativa’ where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes
to prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella
sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione
dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” –
e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come
atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o
cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica”
“Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a
Domenico D’Orsi, back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi
is associated with “Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many
and varied – but most notably philosophical psychology, which the Italians call
‘psicologia speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have
the great Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning
the old Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s
psychological behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has philosophized on
democracy. I democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has
also ‘cured’ the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to
study Napoli!” Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa.
As most Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a
book that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia
speculativa. I can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing
Lotze’s ‘seele’ as ‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa,
are elementary enough – but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo),
‘animo/corpo, corpo animato, corpo inanimate) is interesting. But far more
interesting is Orsi’s unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be
confused with LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of
reflections. But mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as
discovered by Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’
and ‘sentito’ and more generally, between the ‘sentire’ as a processo
fisiologico – Spaventa goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ –
the first is the processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as
unearthed by Orsi, calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is
the ‘unita reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold,
there’s cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated
bodies cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive
from say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a
‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or
represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi.
Keywords: animo, amore, Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli,
Sophia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ortensio:
l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher.
Grice ed Ortes – l’implicatura conversazionale del
verso -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Being English, I was often confronted with that very
‘silly’ song by Cleese and Idle, but then they were never the first! Which is
good, since they are Cambridge and Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”. Considerato
uno dei più dotati tra i filosofi veneti settecenteschi, precursore
nell'analizzare dal punto di vista della produzione complessiva alcuni aspetti
come popolazione e consumo. La sua impostazione filosofica si fonda su un
rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo vide far gran confusione fra moneta e
ricchezza. Fu un sostenitore del libero scambio pur con alcune restrizioni
della proprietà che interessavano il clero, anche se appartenevano al passato ed
è considerato per questo un anticipatore di Malthus, ma con qualche contraddizione.
Malthus prevede l'aumento della popolazione, in trenta anni, in modo
esponenziale, quindi molto di più dell'aumento delle sussistenze. Altre saggi:
“Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Pasquali,
“ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla religione e sul governo dei
popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli antichi” -- esposto in versi
per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia, “Riflessioni
sulla popolazione delle nazioni per rapporto all'economia nazionale: errori
popolari intorno all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano,
Ricciardi), Donati (Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario
Letterario Bompiani. Milano, Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto
i suoi studi matematici influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente,
come in fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle
opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni
e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato
dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero
determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa
qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli.
Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o
dallaprofessione,come la milizia,lelettere ecc.,o da qualche prerogativa, come
dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste qualità
gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si studia di
determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un esempio. Se
si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della stessa, O. ragiona
così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie nobili sia 20,000,
quella che proviene da cariche,magistrature,commende ecc. 3,300, quella che
vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti, e colla
riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i nobili
sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300 + 700
= 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser
pretesto la virtù,ma verofinel’interesseproprio,poichè,dipen dendo il valore
delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si deve
prima d'ogni altra cosa cercare l'utileproprio. Avverte che v'ha sempre
un'opinione predominante che varið col variare dei secoli: ai tempi di Roma li
bera era la conquista; sottoAugusto illusso;ilplato nismo ai tempi di
Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII ; le lettere sotto Leon X ; finalmente
lozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione, PIACERI E
DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire
di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia
figlio di vana alterigia.L'uomo che dee servire a molte di queste opi
nionisaràpiù civile, ma piùtimidoefinto;chiapoche; sarà più rozzo,ma anche più
sicuro e più libero. E come l’Ortes si studia di ridurre a calcolo le opi
nioni,così parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è
l'Ortes in questo scritto.Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio
la dottrina chetuttociòcheèconforme alla conservazione e sviluppo del nostro
essere, genera piacere; il contrario,dolore; parla dei dolori e piaceri
delsenso,dei dolori e piaceri dell'opinione; mostra l'uomo naturalmente
soggetto al dolore, e che il piacere non è che un sollievo del dolore; con
ragionamento curioso studiasi mostrare che il piacere non può mai s u perare il
dolore, perchè il piacere essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che
questo sia, tutto quel di più di piacere che si volesse applicare gene rerebbe
dolore contrario, come l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo
la danza ecc. Il calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della
elasticità delle fibre onde alcuno è fornito,e,quanto ai piacerie dolori
d'opinione, dalla stima che ciascuno fadeglistessi. L'autore
nonpretendeanovitàdidot trina, professa di avere scritto secondo la propria
espe rienza, con un temperamento indolente é coisuoi sensi
inun'etàdimezzo.Vedrem poi com’eglistessone ab bia dato un giudizio severo. Due
altre opere filosofiche si hanno di O.: un ragionamento delle
scienze utili e delle dilettevoli per rapportoallafelicità umana;— e riflessioni
su gli oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto
alle lingue (1); ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che,
a dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio
delle umane facoltà nella scienza e nelle arti belle,anche queste in
titolandole scienze ma dilettevoli,in contrapposto delle a ltre che chi ama
scienze utili; nelle scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle
l'imaginazione; quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste il veroma elaborato
dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia concesso il lavoro
dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe : Sol la scienza del
ver giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dallatraduzione del Pope, perchè
volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta in
mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a sè.
In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli
oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a
discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso della
parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era
partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità
apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli ani
mi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo autore,
esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si può
negare che osservazioni argute si tro vino spesso nell'Ortesa ncheinqueste
riflessionisugli oggetti apprensibili, suicostumi, e sulle cognizioni umane per
rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura assai
noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua prediletta in
economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica persuasione, non
già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente dice, che allora
un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in
America, come un tempo un romito potea condurli in Soria, perchè gl’inglesi
stessi voleano e avean voluto così. Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si
conduce a qualche sentenza netta e perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI,
COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto all'indolee ai pregi della propria lingua. Chi volesse calcare l'autore
straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un ritratto con soprapporvi
isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando il quadro in
un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli scrittori s'accordino
sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui l’Ortes osserva, che il
miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi starsene in Francia per
passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico
fosse così ben rilevato nella lingua francese a Parigi, come il fu già in
Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta sembrerebbe anche gaio,come
quando si lagna che, temendosi la fatica dello studio, si trascu rassero le
cognizioni vere, contentandosi di dizionari, giornali, compendi o altri
repertori per dilettare, diver tire,ocome diceano,per amuseare! È USO
DELLA PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo governisi da chi più
ciarla , non da chi più sa, egli conclude: se chi preten desse governar altri
senza render ragione del suo go verno,sarebbe uomo assai vano;ilsarebbe non men
certamente chi pretendesse governarli per sola copia ed eleganza di voci.
Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni.
« Qui cade a proposito (così egli) d'avvertire l'errore di quelli che si
figurano di richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune (cioè gli in
teressi comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali)
perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni
a'tempi de'lorobisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e
la ra » gione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi
trasandati fosse stata più riconosciuta » per sè stessa in quei costumi, di
quel che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario
di sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti
i tempi; ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando
tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una
miseria » di mente, per cui si creda la natura non più capace » d'invenzioni in
sua natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar
in sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in » troducendo, e
deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gli usatichea
quellidan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della comun
ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se
ciòfosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto
innocente, tanto inevitabile e necessaria,e potendo,anzidovendo,quella comun
ragione,per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo suo
artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in sembianze
ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè medesima.
Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non esercitarsi
che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la verità, la
ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni esterne di tempi
molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed interno di queste
virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle materiali loro
modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor senso e
significato. Si pigli intanto l'Ortes in parola, poichè avrem campo di trovarlo
in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel desso.
Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso libro,
che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi,
da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora
queste meditazioni di filosofia. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ostiliano:
la filosofia romana sotto il principato di Vespasiano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A follower of the Portico. His claim to fame is that
Vespasiano (si veda) banished him from Rome. Ostilliano.
Grice ed Otranto: l’implicatura conversazionale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto).
Filosofo italiano. Grice: “Otranto wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’
which is an art of ‘divination,’ as when we say that smoke divinates fire!” -- Grice:
“Had Otranto not written ‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a
philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si
sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia,
però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse
la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue
competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete
al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani.
E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello
scalpello”, con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di
testi liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro
i Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo);
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere;. J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O.
Abt von Casole. Beiträge zur Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter
Innozenz III. und Friedrich II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής
Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση.
Athena, L. Hoffmann: Der anti-jüdische
Dialog Kata Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on
in Italian Byzantine convents under Roman rules. Longobards being raped, or
raping Greek monks. Nicola Nettario d’Otranto. Otranto. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool Library. Grice ed Otranto –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Grice ed Ottaviano:
l’implicatura conversazionale nel secolo d’oro della filosofia romana sotto il
principato d’Ottaviano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. il primo principe. Historia
augusta, scritta d’Ottaviano. His philosophical teachers are well known. The
education of a prince. Augusto lasciò alla sua morte un dettagliato
resoconto delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti. Svetonio in particolare
racconta che una volta morto, lasciò tre rotoli, che contenevano: il
primo, disposizioni per il suo funerale, il secondo, un riassunto delle opere,
da incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti al suo mausoleo, il
terzo: la situazione dell'Impero. Quanti soldati erano sotto le armi e dove
erano dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle casse
imperiali, oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato da
un'iscrizione, sia in latino sia in traduzione greca, rinvenuta nel 1555. Era
incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla città di Roma e ad Augusto,
situato ad Ancyra (l'odierna Ankara, la capitale della Turchia) e pertanto è
stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie, molte delle quali sono
giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui
dedicati. In uno stile volutamente stringato e senza concessioni
all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati
via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le
elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato,
ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue
spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il documento
non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua
famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa,
Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. Ottaviano fu
totus politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendicava egli stesso nelle
sue memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo
esattamente le sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con
una imprevista e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto
in termini politici. Si trattava di un «miracolo» ed egli capì subito che
andava capitalizzato. Durante i giochi da lui organizzati in memoria di Cesare,
nel luglio 44 - momento di massima incertezza politica, tra 'liberatori'
perplessi e cesariani frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per
ben sette giorni. Il fenomeno fece molta impressione. «Il volgo – scrive
Ottaviano nelle sue memorie - credette (“vulgus credidit”) che quella stella
significasse che l'anima di Cesare era stata accolta tra gli dei immortali.
Usando tale pretesto (quo nomine) feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al
busto di Cesare che feci consacrare nel foro». Il brano è citato da Plinio
nella Naturalis Historia, il quale commenta: «Queste furono le sue parole,
destinate al pubblico, ma una gioia intima gli suggeriva che quella stella era
nata per lui, e che lui nasceva in essa». L'episodio ha avuto una eco imponente
nella letteratura poetica e storiografica, coeva e successiva. La formale
decisione del Senato romano - che stabili essere Giulio Cesare un dio - ebbe
luogo il primo gennaio del 42: Divus lulins. In tal modo Ottaviano diventava
ope legis «figlio di Dio», Divi filius. C'è chi pensa che già nell'agosto 43,
in concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, Ottaviano abbia
ottenuto tale prezioso riconoscimento'. Ma di fatto le premesse Ottaviano le
aveva poste con l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una
vasta tradizione superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma
al benefico «astrum Caesariso fa già riferimento Virgilio giovane, e ormai
rinfrancato, nell'Ecloga. La carriera di Augusto era incominciata già l'anno
prima, quando, neanche allora in ottima salute, aveva raggiunto Cesare in
Ispagna per esser presente all'ultima durissima lotta contro i pompeiani,
culminata nella battaglia, fino all'ultimo incerta, di Munda. Difficile
stabilire se Cesare lo avesse già allora notato, se Azia - madre di Ottaviano -
abbia attratto l'attenzione di Cesare su di lui, se Ottaviano abbia forzato la
situazione superando le esitazioni materne. Quanto ci sia di riscrittura post eventum
e quanto invece di autenticamente vero in questo passaggio, che i biografi
cortigiani di Augusto esaltarono come premonitore, forse non si potrà mai
accertare. In ogni caso spicca la capacità dimostrata da Cesare di scegliere un
'successore', In politica non accade quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre
che l'idea della propria indispensabilità, anche la certezza della propria
superiorità. Di qui la loro sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel
quale pur debbono 'pescare' chi verrà dopo di loro. A sua volta Ottaviano ha
cercato per anni, e resta tra gli arcana delle sue ultime ore di vita se sia
stato davvero pago della scelta compiuta (Svetonio, Vita di Tiberio, 21). E ben
si comprende: Cesare sceglieva un figlio adottivo ed erede che poteva, se si
fosse confermato capace, diventare un capoparte; O., invece, pur avendo
«restaurato la repubblica» cercava un successore. Anche dal modo in cui risolse
questa tormentosa difficoltà degli anni finali viene fuori il ritratto di un
politico totale dotato di una visione in cui la certezza della propria insostituibilità'
(che rende, tra l'altro, ancor più disperante la ricerca di un successore) si
sposa con la tenacia nel perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare
conservazione e rivoluzione, dare alle istanze fondamentali della rivoluzione
cesariana una salda cornice di conservazione. Il che era molto di più, e molto
più complicato, di una riproposizione aggiornata del 'principato di Pompeo'.
Gli anni della lunga pace non erano stati facili. Non erano mancati, in quei
lunghi anni di governo solitario, congiure, insidie, e persino il rischio che i
conflitti si riaprissero. Da qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono
e non irrilevanti. E se Seneca ne era informato vuol dire che ne trovava la
traccia nelle inedite Historiae ab initio bellorum civilium che suo padre aveva
continuato a scrivere e ad aggiornare ma non se l'era sentita di pubblicare. E
anche questa prudenza di uno storico accorto, che da giovane aveva fatto a
tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per Augusto, alla fine,
l'unica scelta possibile era quella della «storia sacra». Perciò, quando la
lunga 'pace civile' del suo interminabile governo non ebbe più bisogno di una
ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica, egli
inventò un altro strumento che affermasse in modiessenziali e monumentali,
sperabilmente 'per sempre', la sua verità: il solenne e sacralizzante riepilogo
dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi, non soltanto ad una
cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nacque in lui l'idea delle
Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero e perciò salvatesi:
covate e limate nel corso degli anni, e alla fine pronte, oltre che per
l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato intimidito e
allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca dell'erede
designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso. Per
Roma era una radicale novità. Era la via epigrafica alla «storia sacra», sul
modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico (Dario a Bisutun) e del
mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae era quello non solo di
dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare anapoditticamente
ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare accettare questa
'verità' come l'unica vera nel momento stesso in cui la successio dinastica ne
rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro grandezza e, insieme, la
loro fragilità. Ottaviano.
Grice ed Ottaviano – l’implicatura conversazionale e
il collettivismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Modica).
Filosofo. Grice: “Perhaps with
Holllinghurst, and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have
cherished in the analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a
debate which should fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano.
Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari, poi a Napoli, ottenne la
cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi a Catania, dove fonda e
diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande
conoscitore della filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e
studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo”
(Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue
critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo
Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si
occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri
nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi
Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di
Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore,
presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della
nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca
Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte
del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre,
nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova,
diede spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne
dapprima Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber
figurarum, scoperto da L. Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria.
Fonda e diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non
ebbe seguito. Opere principali: Pietro Abelardo. La vita, le opere, il
pensiero” (Poliglotta, Roma); “Il "Tractatus super quatuor evangelia"
di Fiore, Archivio di filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino,
Avendanth, Raterio, Anselmo d’Aosta, Abelardo, Incertus auctor” (Olschki,
Firenze); Joachimi abbatis Liber contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da
Fiore), Reale Accademia d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno
alla condanna di Gioacchino da Fiore” (Rondinella, Napoli); Pier Lombardo, in
Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione
del Libro, Urbino); “Critica dell'Idealismo” (Rondinella, Napoli); “Metafisica
dell'essere parziale” MILANI, Padova); “La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia” (MILANI, Padova); Tommaso
Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in
Italia, introduzione e note D. D'Orsi” (MILANI, Padova); E. Scarcella,
Dizionario Biografico degli Italiani, D. D'Orsi, Il filosofo della quarta età:
ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”, Catania, di. D.'Orsi, Tra Socrate e
Gesù: quattro anni fa moriva, quotidiano “La Sicilia”, Catania,. E. Scarcella, Dizionario Biografico degli Italiani, stituto
dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore Massimiliano Pace, Info Magazine. Grice: “I
love Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and
philosophy. More specifically, as a Sicilian he was not interested in Italian
philosophy, which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved
Gentile – he corresponded extensively with him! La visione cristiana di Ernesto
Buonaiuti, F. Campitelli, Foligno. A proposito di un libro sul Prepositino, in
«Rivista di filosofia neoscolastica», Traduzione, prefazione e note di:
Anselmus Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba,
Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo,
Angelo Signorelli editore, Roma. Ricerche lulliane, in «Estudis universitaris
catalans». Pietro Abelardo. La vita, le opere, il pensiero, Tipografia
Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Raimondo Lullo, in «Rivista di
cultura»; L'Ars compendiosa de R. Lulle, avec une étude sur la bibliographie et
le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in francese: L'Ars
compendiosa de R. Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le Fond
Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin. Guglielmo
d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero, Biblioteca di filosofia e scienze,
Roma. A proposito di un libro su S. Anselmo, in «Rivista di filosofia
neoscolastica». I problemi del realismo, in «Giornale critico della filosofia
italiana». Le “Quaestiones super libro Praedicamentorum” di Simone di
Faversham, in «Memorie della R. Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione,
prefazione e note di: Tommaso d’Aquino, Saggio contro la Dottrina averroistica
dell’unità dell’intelletto, Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note
di: Tommaso d’Aquino, Saggio sull'essere e l'essenza e altri opuscoli,
prefazione, traduzione e note critiche di C. Ottaviano, Carabba, Lanciano. Frammenti
abelardiani, in «Rivista di cultura», Prof. P, Loescher, Roma. Il
"Tractatus super quatuor evangelia" di Gioacchino da Fiore, in
«Archivio di filosofia», Padova. Osservazioni critiche sui presupposti del
problema della conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della
nozione di individuo, in «Archivio di filosofia». Il pensiero e il suo atto, in
«Archivio di filosofia». La riforma della logica di Aristotele, in «Archivio di
filosofia». Nota polemica, in «Rivista di cultura». Le opere di Simone di
Faversham e la sua posizione nel problema degli universali, in «Archivio di
filosofia». Traduzione, curatela e note di: Tractatus de Universalibus
attribuito a San Tommaso d’Aquino, a cura di O., Reale Accademia d'Italia, Roma.
Introduzione, traduzione, prefazione e note di: Anselmo d'Aosta, Il Monologio,
Palermo 1932. Antologia del pensiero medioevale. Per le scuole medie
superiori, Ires, Palermo. Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth,
Raterio, S. Anselmo, Pietro Abelardo, Incertus auctor, a cura di O., Olschki,
Firenze. Riccardo di San Vittore, la vita, le opere, il pensiero, in
«Atti della Reale Accademia dei Lincei», Traduzione, prefazione e note di:
Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente verso Dio, traduzione,
prefazione e note di O., Antologia del pensiero medievale per le scuole medie
superiori, Palermo. Il pensiero di Francesco Orestano, Ires, Palermo. Il
superamento dell'immanenza in B. Varisco, in «Archivio di filosofia», Traduzione
e note di: P. Abelardus, Epistolario completo. Contributo agli studi sulla vita
e il pensiero di Pietro Abelardo, trad. it. e note critiche di C. Ottaviano,
Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum. La Scuola di Gioacchino
da Fiore, a cura di Carmelo Ottaviano, Reale Accademia d'Italia - Studi e
documenti, Roma. Critica del principio d'immanenza, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», Il perduto “Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un
manoscritto romano, in «Estudis franciscans», Un documento intorno alla
condanna di Gioacchino da Fiore, Rondinella, Napoli (poi ripubblicato in
"Siculorum Gymnasium", Università di Catania). Storia,
filosofia della storia, scienza della storia, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», Un brano inedito della Philosophia di Guglielmo di Conches, A.
Morano, Napoli. Il cosiddetto “riferimento necessario alla coscienza”
nell'idealismo, in AA. VV., Atti del IX Congresso nazionale di Filosofia,
(Padova), Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova. Pier Lombardo, in
Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione
del Libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli (Pubblicato
nuovamente da Milani, Padova 1948) Traduzione, prefazione e note di:
Pietro Abelardo, L'origine delle monache; e La regola del Paracleto,
traduzione, prefazione e note di Carmelo Ottaviano, Carabba, Lanciano
1936. L'unica forma possibile di idealismo, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», La scuola attualista e Scoto Eriugena, in «Rivista di Filosofia
Neoscolastica», Riflessioni sulla polemica Orestano – Olgiati, in «Rivista di
Filosofia Neoscolastica», Curatela di: Campanella, Epilogo magno (Fisiologia
italiana). Testo inedito con le varianti dei codici e delle edizioni latine, a
cura di O., Reale Accademia d'Italia, Roma 1Kritik des Idealismus, mit einer
Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen: Realismus-Idealismus?, Aschendorff,
Munster. Metafisica dell'essere parziale, MILANI, Padova. L'unità del
pensiero cartesiano e il cartesianesimo in Italia, MILANI, Padova. Scritti con 327 giudizi della critica italiana e
straniera, Tipografia agostiniana, Roma. Panteismo o trascendenza, in
«Humanitas». Il problema morale come fondamento del problema politico, Milani,
Padova. L'idealismo trascendentale e la metafisica classica, in «Rivista di
Filosofia Neoscolastica». La soluzione scientifica del problema politico,
Rondinella editore, Napoli. Le incertezze della scienza moderna, Padova. Progetto
di un disegno di legge per salvare la Democrazia dalla dittatura, MILANI,
Padova. Dalla democrazia ingenua alla democrazia critica, MILANI, Padova. Che
cosa è il social-liberalismo, MILANI, Padova, Lineamenti programmatici
per una riforma della scuola italiana, MILANI, Padova. Presentazione di:
Agostino Sepinski, Cristo interiore secondo San Bonaventura, presentazione O.
trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova. Critica del
socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà per tutti, MILANI,
Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti, ovvero la mia
soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica e
pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova. La legge
della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e
applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La
Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La
Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e
collettivismo. Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti,
Solfanelli, Chieti. Tommaso Campailla. Contributo all'interpretazione e alla
storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Domenico
D'Orsi, MILANI, Padova. «Sophia: fonti e studi di storia della filosofia» Palermo:
Ires, Il complemento del titolo varia in: rivista internazionale di fonti e
studi di storia della filosofia; poi in: rassegna critica di filosofia e storia
della filosofia. Luogo ed editore variano in: Napoli, A. Rondinella; poi in:
Padova, Milani. Alcuni degli articoli più significativi scritti da Ottaviano
per Sophia: Le «rationes necessariae» in S. Anselmo, in Questioni e testi
medievali , in «Sophia», nNovità abelardiane, in Questioni e testi medievali ,
in «Sophia». Storicismo attualista, in «Sophia», Storicismo attualista, seconda
puntata, in «Sophia». Controversie medievali. A proposito della paternità
tomistica di un “Tractatus de universibus”, e della data del “De unitate
intellectus”, in «Sophia», Intorno al IX Congresso nazionale di Filosofia di
Padova, in «Sophia». Intorno alla critica dell'immanenza, in «Sophia», Critica
del principio di immanenza, in «Sophia», A proposito della storia, in «Sophia».
I grandi idealisti contemporanei, in «Sophia». L'idealismo sulla via di
Damasco, in «Sophia». Contraddizioni idealistiche, in «Sophia». La fondazione
del realismo, in «Sophia». Postilla alla “Difesa del principio di immanenza”,
in «Sophia». Postilla a “Immanenza, idealismo e realismo”, in «Sophia». Idealisti
per forza, in «Sophia», Ancora sulla fondazione del realismo, in «Sophia». Fanatismo
idealista, ovvero l'agonia dell'Idealismo, in «Sophia». Nuova illustrazione del
documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore. Postilla, in «Sophia». Intorno
all'idealismo e al realismo, in «Sophia». Postilla all'art. di Chiocchetti: “A
proposito dell'idealismo di C. Ottaviano”, in «Sophia». Anti-moderno, in
«Sophia». Intorno alla critica all'idealismo, in «Sophia». Intorno alla
valutazione della filosofia moderna, in «Sophia». La teoria delle “species” e
l'idealismo immanentistico, in «Sophia». La natura della sensazione e la
fondazione del realismo, in «Sophia». Referendum ai nostri Lettori in occasione
della ripresa delle Rivista, in «Sophia», «Sophia», Il vero significato della
relatività galileiana nel movimento, in «Sophia». Natura pura e soprannaturale,
in «Sophia». I fondamenti logici della relatività, in «Sophia». Gli argomenti
probativi dell'evoluzionismo, in «Sophia», Intorno al significato storico
dell'idealismo italiano, in «Sophia». Intorno alla legge di conservazione
dell'energia, ossia del materialismo, in «Sophia», Intuizionismo e logicismo in
matematica, in «Sophia», Intorno alla gratuità dell'ordine soprannaturale, in
«Sophia». Postilla a E. Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo logico, in
«Sophia». Valutazione critica del pensiero di B. Croce. 1) L'estetica, in
«Sophia», Valutazione critica del pensiero di B. Croce. 2) Lo storicismo
assoluto, in «Sophia», Bilancio di Benedetto Croce, in «Sophia». Einstein
filosofo, in «Sophia», Giudizio intorno alla Logistica, in «Sophia», Logica,
matematica, poesia, in «Sophia», Crolla l'idolo einsteiniano, in «Sophia», Il
“compagno Scioccherellov”, ossia la tragicommedia del comunismo, in «Sophia», Mi
intrattengo ancora con il “compagno Scioccherellov”, in «Sophia», “Individui di
tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia come idea-forza, in
«Sophia», Giudizio su Benedetto Croce come uomo politico, in «Sophia». L'assalto
alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del
tesoro della Stato, in «Sophia», Difesa della scuola statale, ossia l'Antistato
contro lo Stato, in «Sophia», L'“ordine della scuola italiana”, in «Sophia», In
difesa dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, in «Sophia». Come
integrare la dottrina relativistica di Einstein, in «Sophia», AA. VV., O. nella
filosofia del Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, a cura di
Francesco Rando e Francesco Solitario, Prometheus, Milano 2008. A.
Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del tragico nell'opera di O., a cura
di Ghisalberti e Francesco Rando, Prometheus, Milano/ Bontadini,
Dall'attualismo al problematicismo, Brescia. Coniglione, «Sophia». Nel segno di
Ottaviano: una rivista a tutto campo, in AA. VV., La cultura filosofica
italiana attraverso le riviste, a cura di Piero Di Giovanni, Franco Angeli,
Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di tromba, in
«La Critica», Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di Carmelo Ottaviano
nel trigesimo della morte, quotidiano “La Sicilia”, Catania, Orsi, Tra Socrate
e Gesù: quattro anni fa moriva il filosofo Carmelo Ottaviano, quotidiano “La
Sicilia”, Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica di
Carmelo Ottaviano, in Archivium Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di
un'opera quale compendio di una vita filosofica, Introduzione a O., Campailla.
Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia,
introduzione e note a cura di Orsi, MILANI, Padova, Noce, Il problema
dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato del Progresso e postulato
del Peccato, Il Mulino, Bologna, Noce, Giovanni Gentile, Il Mulino, Bologna, Tommasi,
Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci dal Novecento, a
cura di Pozzoni, Limina Mentis Editrice, Villasanta Ferro, L'«antimoderno» di O., in «Rivista di
Filosofia Neoscolastica», Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari,
Mathieu, La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le
Monnier, Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza
gnoseologica, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Vita e Pensiero,
Milano. P. Mazzarella, Il contributo di O. agli studi di filosofia
medievale, in «Sophia», Mazzarella, Tra finito e infinito. Saggio sul pensiero
di O., Milani, Padova, Mignosi, O., in «La Tradizione», Minazzi, Il principio
di immanenza nel dibattito filosofico italiano degli anni Trenta: il confronto
tra Giulio Preti e Carmelo Ottaviano, in numero monografico de «Il Protagora»,
Aspetti e problemi della filosofia italiana contemporanea, a cura di Antonio
Quarta, Scarcella, O. in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 79,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca, Di una recente critica del
principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche», Sciacca, Il secolo XX,
Bocca, Milano. Ottaviano. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano”
– The Swimming-Pool Library. Ottaviano.
Grice ed Ovidio:
l’implicatura convrsazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona).
Filosofo italiano. Publio Ovidio Nasone. Muore a Tomi, rivela influssi
filosofici assai svariati. A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la
rappresentazione dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla
setta di Crotona deriva in larga misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui
Pitagora -- di cui si dice che si innalza sino al divino colla filosofia e scorge
con l’animo ciò che la natura nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un
ampio insegnamento sulla natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e
condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibizione con la
teoria della metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e
nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano
invece influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met.),
in complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno
pensare a Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman reader
of Ovid's Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his way
through the labyrinth of mythological tales that comprise, one segment becomes
in some ways a fresh start. It begins the third and last pentad. As he marks
this formal boundary, Ovid introduces what he calls a *historical* emphasis.
Troy is founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman matter,
settings, and themes occupy ever more of our attention as the thing approaches
its end. Ovid includes some of the same tales that he had used in his less
successful (less read, not even the emperor read it!) in the Fasti, his “most Roman work” in terms
of its proclaimed matter: the very Roman calendar – “tempora cum causis Latium
digesta per annum.” – And the Romans always found a cause to celebrate! As we
read of Hippolytus deified as Virbius, or encounter the list of Alban kings,
the last pentad of the Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more
imperial readership the “Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of
of the Metamorphoses is fully continuous with the first part, simultaneously a
fresh start and a seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is
a development of long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects
signal the work's conclusion, wherein the large-scale historical progression
promised in the work's opening lines will be fulfilled: having set out
"from the first beginnings of the world," primaque ab origine mundi
Ovid's narrative will now reach "my own times," mea tempora the
present for both author and readers. Thus, if we, after reading of so many
nymphs and maidens transformed into trees or waterfowl, are surprised to find
Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's development and fulfillment of
narrative patterns also remind us that from the start we had reason to expect
such figures to appear. His vast work of transformative myth embraces even
them. Whereas Rome contribute something new to the last pentad of the
Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid has made throughly
familiar. Already at the start, the council of the gods, called by Jupiter to discuss
Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of heaven's architecture and
social distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the
like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,”
Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood
on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses
Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to
contemporary attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment
throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam
fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds
their heralded arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use
Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as a frame for other
tales, which are often only tenuously related to the newly-prominent national
theme – or rather the theme of the history of the nation. We are well aware,
when we arrive at this point, that traditionally important and familiar cycles
of myth, such as those concerning Theseus and Hercules function mainly as
framing devices that connect tales. Many of these are only tangentially related
to the framing narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does
Ovid introduce Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative
mode. The traditional story appears to establish a structural pattern for the
progress of the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales.
Troy may be familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict
our convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess,
when Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our
attention? As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other
tales in the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally
recalls those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared,
at least for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale
of Ceyx and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material.
Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as
Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical
themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters
them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his
last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and
Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts
the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But
before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive
passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter
terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod
est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis
ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at
the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the
boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere,
however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor
holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and
the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications
in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid
achieves a rich and grimly detailed impression of corporality through his
descriptive language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise
description. The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's
house, but in a way that defeats definition; for the house occupies a liminal
site, hovering at the boundaries between earth, sea, and sky. The structure
itself if it can be called a struc-scarcely separates inside from outside, for
its porous nature defeats such distinctions: “innumerosque aditus ac mille
foramina tectis addidit et nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet;
tota est ex aere sonanti, tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit.
nulla quies intus nullaque silentia parte.” She added innumerable approaches to
the building, and a thousand openings. With no doors did she shut its
threshold: it lies open night and day. The whole house is of resounding brass,
produces a roar, echoes and repeats what it hears. There is no quiet within,
silence in no quarter. In and out of the house issue personified rumors: atria
turba tenet: ueniunt, leue uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta
uagantur milia rumorum confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls;
they come and go, a light crowd; lies mixed with truth wander here and there by
the thousands; and the confused words of rumor roll about. Only when this
expansive description is finished do we learn its relevance to its
surroundings: rumors of the Greek expedition have reached Troy. This house of
Fama and her attendant rumors, "lies mixed with truth," creates a
remarkable preface to the beginning of the Trojan War, inviting us readers to
consider it as an interpretive comment on all that follows. Feeney connects the
passage to themes of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the
authority of Ovid's epic predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and
Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of the Metamorphoses, where
extensively adapted sometimes severely distorted-versions of their tales are
woven into a new fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor
narrates the battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad:
but Homer's version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its
context, Ovid's a vast expansion that engulfs its context, displacing the
Trojan War in our attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of
Ovid's poem, from Book 12 to the end, not only because of the formal
introductory description of the house of Fama, but also because of the
increasing role of internal narration in the later books: as the poem proceeds,
the epic narrator recedes, and more and more tales are reported by an internal
narrator to an internal audience. Fama also forms a boundary for Books 12-15,
prominently recurring at the very end of the Metamor-phoses, where fama
provides the means of the poet's continued sur-vival: perque omnia saecula
fama,/ siquid habent veri uatum praesagia, winam (15.878-79). The recurring
presence of Fama serves as a reminder of the fundamental lack of definition and
stability characteristic of narrative style throughout the work. Flux remains
Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol and an embodiment of
flux within the narrative. Fama resists the tendency toward interpretive
simplicity and transparency that the introduction of historical and political
topics might lead us to expect. As we proceed through the last pen-tad,
historical and historico-political modes of understanding events, however
pervasive their presence, ultimately never reduce Ovidian flux to order. Fate,
for instance, a cosmic principle beloved of some Greek and Roman historians,
whose workings they trace in the unfolding of events, duly turns up from time
to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of historicized myth
that is likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas the Aeneid is
deeply imbued with a sense of fate, guiding the reader to a teleological
understanding of myth and history, fate is an historical prop in the
Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from dominating
its context, the context dominates it, as in the summaries of the Eneide that Ovid
employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum moenibus esse/spem
quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure from Troy with
unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil integrates
fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the “Eneide”,
however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest summary. Ovid
acknowledges Virgil's historical vision without permitting that vision to
structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid
shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a
characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and
figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her
hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature
of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of
transformation on the narrative surface: the loss of human identity in
metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the
obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid
now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language
for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this
national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic
predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous,
echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all
within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers
familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet
Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to
interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by
introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian
fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his
readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to
sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one
interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the
structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is
another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid
invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world
outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical
themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in
the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the
Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding
to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his
contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions
of this story. Ovid could not retell this story with directing readers
awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis
of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their
thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo –
Roma’s first king -- , and to accompanying images and slogans concerning the
foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place
among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least
provisionally to define the relationship between this figure from the remote
past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the
later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus,
Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures
are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that
they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the
statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's
parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it
will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of
meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes.
The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to
promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past
to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of
change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing
patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns
are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these
sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by
means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,”
the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but
also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore,
this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti,
erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive
father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer
of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in
interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum
itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's
Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea
on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of
these same heroes near each other is to make inevitable the reader's
recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the
same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly
regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely
verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues.
Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to
regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their
interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian
flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is
the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars
Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s
father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the
Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away
from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological
tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in
Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery
back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who
stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.
2.296), "Venus joined to the Avenger" -- an expression that invites
reflection on the sexual significance of “iungere." Venus's husband stands
outside the door, wir ante fores."? A myth of political origin, its official
representation in art, and resistance to it are prominent also in the
Metamorphoses in the tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the
tale offers rich reflections on official interpretation of art. When Minerva
chooses to depict her victory over Neptune in the two divinities' dispute over
the naming of Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes
its didactic message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic
correlate to the power of enforcement that lies behind that message. Readers
often side with the Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior;
yet Minerva does not ask for our approval, nor need she take much thought for
the judges of the con-test. Her views of the story are enforceable and will
determine the outcome of the plot. Her power allows her to impose her
perspective on events. Because the historical subjects of the later books of
the Metamorphoses so often bring official interpretations within view, it is
worth noting that, according to one political approach to literature currently
in favor, only official interpretations are possible. On this view, all
activity of writing and reading takes place within a fixed political system,
often unrecognized by the participants, that "advances the interests"
of "elites."' Proponents of this approach offer a powerfully
reductive historicism: nothing is important about literature except the
historically determined power-relationships that govern its production and
reception; all attention to literary qualities of a text is sentimental and
self-indulgent aestheticism. Whereas this view contracts all understanding of
literature to the narrowly political, some recent writers on history in Roman
literature expand the historical to a larger field that embraces Varro's
theologia tripertita and the universal history of Cornelius Nepos, Diodorus
Siculus, and others. In the shift, for instance, from mythological to
historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad similarity to
Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of history in the
Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical principles is far
deeper and more intimate than has been recognized before. For instance, the
poem's "alternation between diachrony and synchrony is a narrative
technique characteristic of universal history. The poem's chronological
framework from first origins to the present also reflects the aims of universal
history; yet Wheeler, like most critics today, does not view the poem "as
a natural process of evolution from chaos to cosmos, culminating in the peace
and properity of the Augustan age."' Arguing for a subtler and less
overtly political patterning of events, Wheeler traces historical principles
behind the increasingly historical subject matter of the last pentad. The
movement from myth to history represents "a shift," in Wheeler's
view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis." The terms
are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses alongside Varro's
“Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and comprehensive
work, among whose aims was to organize conceptions of divinity into mythical,
natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used the “Antiquitates”
as a source in the later books of the Metamorphoses as well as in the Fasti,
and it is surely right to call attention to the presence of Varronian
principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does not
structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's
vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that
Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has
much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that
Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the Metamorphoses
remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing, and
intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse,
unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede
them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the
'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be
sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book
1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary
reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes
throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up
as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly
brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans,
in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War
tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next
three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a
narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the
moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad,
"mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from
Roman history and even "current events," all brought within the
narrative sweep. Among "current events" we may locate the
transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is
thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess
Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's
patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity
of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed
the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach
Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it
is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But
Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by
internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological
movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent
or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with
manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in
the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city
after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs lines after the hero's
death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler
has explored Ovid's anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules'
death. Troy is assumed to exist already in the world of the poem, and that
"Ovid could have avoided the anachronism by placing stories about the dead
and deified Hercules in the mouths of characters who report retrospective
events in inset narratives that temporarily suspend the main chronological
thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology, first recounting
Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator, Alemene, mother of
Hercules, to recount his birth. Chronology appears to reverse direction, but
chronological dislocation turns out to be more complex than simple reversal.
Wheeler's conclusions refute the common notion that Ovid's shift to historical
topics results in a more linear narrative explication and greater chronological
regularity. The reintroduction of Hercules is therefore part and parcel of a
larger web of anachronism involving the foundation of Troy and the marriage of
Peleus and Thetis, both of which should have occurred already in the poem's
historical continuum. It should be clear, furthermore, that Ovid's
transpositions of the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis
are a deliberate structural strategy to furnish new points of origin for the
narrative of the final books of the poem. That is, Ovid deliberately violates
his earlier chronological scheme to provide new beginning points for the final
pentad i.e., from the foundation of Troy and the birth of Achilles to the
present) As a result, the formality and regularity of the pentadic structure
produces a paradoxical result: on the one hand, it divides the work
symmetrically into thirds and hence to some extent structures the experience of
the reader: we may compare the division of Virgil's Aeneid into halves, in
allusive reference to the Odyssey and Iliad." On the other hand, in
effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid reinforces the narrative
indirection and unpredictability that have characterized the Metamorphoses from
its beginning. The tales that follow the foundation of Troy both illuminate and
obscure the newly initiated narrative patterns of the last pentad. At this
point, Ovid's readers may expect him to expand upon the origins of the Trojan
conflict. He does so in his account of Peleus and Thetis, the parents of
Achilles, but hastily summarizes the elements of the story that are
traditionally the most important: Thetis receives a prophecy that she will bear
a son who will surpass his father; Jupiter, despite his passion, avoids mating
with Thetis "lest the universe contain anything greater than Jupiter"
(ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters the authority for the
prophecy, substituting the shape-shifting divinity Proteus for Themis as its
source. He then develops the story in his own way, dwelling upon a description
of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt to, assault her (which she
thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to Peleus that he tie her up as
she sleeps, and the successful results. Some of this account will remind us of
epic predecessors, for Proteus is familiar from the Odyssey as well as from a
brief appearance carlier in the Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet
in emphasizing shape-shifting and sexual assault, Ovid flaunts the unedifying
nature of his account and its lack of relevance to any of the large-scale
themes, providential, historical, and originary, that one might expect at the
threshhold of events that lead to the foundation of Rome. An account of origins
this may be, with reference to historical subjects, and formally analogous to
Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid. Yet Ovid offers it
manifestly without the interpretive guidance that would associate it with
Virgilian themes. As an account of origins, it explores causes of the Trojan
War still more remote than those developed by Ovid's pre-decessors, suggesting
a line of interpretation that traces events back to lust, violence, and
deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid on the one hand
traces Trojan subject matter from its origins, and on the other
characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of
Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately
linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling
digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the
Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than
formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another
tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam
first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy
tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal
couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his
neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise
turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of
learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which
of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si
fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked
by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even
inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt
huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex
Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui
nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen
haberet. And if you wish to follow his lineage down to him in continuous
sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and
Priam, allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he
had not experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no
less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure
authority for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as
ordo perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his
carmen perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from
first beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly
indeterminate origin. The tale that follows is primarily a natural actiology,
incorporating both historical and epic subjects into an account of how Hector's
brother became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who
in her hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her
pursuer is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic
in his susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/
pectus habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon
be fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are
his guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est.
ego sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound
was given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the
snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws
himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into
the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at
its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's
name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of
the natural world. Trojan history, along with all notions of historical
progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into
aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and
suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural
actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the
Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his
narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The
poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and
catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her
descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent
Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the
heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone
by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to
his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri
quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis
inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to
be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any
commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To
attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard
are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the
Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described.
Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with
truth," which issue from her echoing house, and have met her also as
"the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal
succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia
ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting
the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure,
any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The
identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest
anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman
readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part
of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of
his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible.
Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy
until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's
death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the
anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's
appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius
Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged
episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such
widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I
would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by
it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all
seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely
loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even
subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with
irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in
modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the
larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the
account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent
thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis
in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a
common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences,
books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of
Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the
apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it
raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and
intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's
nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and
Ovid's version of Aeneid 7-12 begins here, too. Ovid adds an epitaph for
Caieta: hic me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne
cremauit. By emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by
another, Ovid calls attention to an etymological explanation of her name from
kaiew, glossed by cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil
omitted. Ovid is in a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology
that would later find a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another
effect of Ovid's revision is to fill out the earlier account, suggesting that
there is more to the story than what Virgil provides. There follows a severely
abridged summary of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in
Latium up to Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here
resumes his earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he
reduces to brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many
tales not in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the
lliad, expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length,
and adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle
between Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate
over the arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated
until it is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that
had offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed
to seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.).
In Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical
of the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon,
recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus,
impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words
picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who
opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet
the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to
transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae,
and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae
sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis (Met.
14.508-9). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of
Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event
foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy
to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's
apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have
not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem
et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean;
neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you
unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will
carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision
has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed
well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a
reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the
reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for
the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera
luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius
referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore,
harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her
plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of
all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a
reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the
foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually
occurs in Aeneid 12. There, shortly before the final encounter of Aeneas and
Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating
that the Latins not be required to give up their language and dress, and that
Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales”
in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's
own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia
bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil
mentions the chronologically later reconciliation long before describing the
former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a
conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of
Carthage, will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's
reconciliation in Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only
some of Juno's grudges, it contributes only a partial sense of closure to the
end of Virgil's poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges
more specifically recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of
Jupiter's address to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/
deberi caelo fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the
chronology of Juno's reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead
to a time beyond Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas,
which indeed it serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem
ucteres finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli
tempestius erat caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled all
the gods, even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources of
rising lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for
heaven. The thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid
introduces these lines into bizarre, surreal surroundings of his own making.
Their immediate context is one of the strangest transformations in the poem-the
tale of Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town
Ardea may be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote
from Virgil, and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is
typical of Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of
a species, tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of
traits and features in the change from the old to the new shape. This case goes
beyond the typical in the sheer imaginative effort required to make the shift
from a ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human
social organizations, are characteristically distinct from the natural. This is
not just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical,
and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind
has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is profoundly
historical, for how Romans understand the altars and temples of their gods, how
they connect the remote to the recent past, depends on the symbolic narrative
or narratives that their minds associate with monuments in their city. Ovid's
revision of Vergil is the revision of a well known and compelling historical
vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as editors note, offer a
parallel to the language of an inscription for a statue of Aeneas found at
Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum n/umero relatus (CIL =
Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to the apotheosis of
Romulus later in Book 14, but first there intervenes a king-list an annalistic
structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses.
Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman
readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier
lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His
transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine
status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition
to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as
an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that
could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that
we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in
a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that
is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's
soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both
their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does
not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and
Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural
features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an
incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of
Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away
from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is
a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It
is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is
otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or
make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an
epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas
and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope
of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's
destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of
Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history
as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted
king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in
the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives
mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque
senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia
conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might
of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's
gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls
are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations
themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because
Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of
Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His
text demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because
Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical
parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical
exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally
unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits
the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The
apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result
from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who
record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of
exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it
into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans
largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the
shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic
actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration
as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of
them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death,
Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus
aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's
deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly
likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of
founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been
placing Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by
emulating Hercules. Although the details of Ennius's account are far from
clear, Ovid's non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his
principal source, the original and canonical version of Romulus's deification. History
appears to be going backwards as the divine agents in the Romans' war with
Tatius take action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite
having so recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus
tacitorum more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt
portasque petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit
nec strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures,
keep their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose
bodies are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had
barred; yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she
turned it on its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation
earlier, in the apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly
inconsistent. We may try to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's
historical framework, by which Juno gives up her wrath at the second Punic War.
But Ovid makes no attempt to clarify and so rescue historical consistency;
indeed, he appears to mock the tradition of multiplereconciliations of Juno,
exploiting it for its comic absurdity. There are serious consequences as well:
the equation of history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable
to the Romans once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other
divinities intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in
unbarring the gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the
Forum Romanum to come to her assistance. Their spring, normally cold, they
bring to a hasty boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the
Romans time to arm themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting
deification for Romulus as the fulfillment, now: due, of a long-standing
promise. Mars cites Jupiter's original words, representing them as an exact
quotation: tu mihi concilio quondam praesente deorum (nam memoro memorique
animo pia uerba notaui) "unus crit, quem tu tolles in cacrula caeli"
dixisti: rata sit uerborum summa tuorum. Once, at an assembled council of the
gods, you told me (for I remem-ber, and marked the pious words in my retentive
mind),there will be one whom you will carry to the blue of heaven.' Let the
content of your words be fulfilled. The words Marte quotes appear to gain even
more authority by referential confirmation from outside the text of the
Metamorphoses doubly cited, as it were: for while Mars cites Jupiter, Ovid
cites Ennius's Annales. Readers of Ovid's contemporary Fasti will remember the
recurrence of Ennius's line in a third context, for Mars cites it there as part
of a parallel appeal for Romulus's deification. Although Marte describes his
son to Jupiter as the latter's "worthy grandson" (Met.), Romulus's
exploits have no part in the appeal. Deification results directly from
Jupiter's promise, so strongly emphasized, and at the beginning of the speech
Mars needs only to establish that now is the time for its fulfillment: tempus
adest, genitor, quoniam fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab
uno, praemia (sunt promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris
inponere caelo. Since, father, Roman affairs are well established on great
foundations, and do not depend on a single protector, it is time to pay the
reward it was promised to me and to my worthy grandson to remove him from the
earth and to place him in heaven. In all this there is no mention of Romulus's
great benefactions, such as might sustain a euhemeristic interpretation of the
hero's advancement to divine status. Far from avoiding comparison to Ennius,
Ovid ostentatiously quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact
that in stripping the hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation
of them. Ennius's words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well
suited to a familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again
of their second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis
of Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its
lack of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers
readers little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of
Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the
Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic
identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent
developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats
the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment when the apotheosis
occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably dissimilar.
While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply one
in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in
the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero.
Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are
numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's
version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far
beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example,
Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the
Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to
the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the
violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a
problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an
easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his
narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother
Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the
Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for
apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not
depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence,
Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark
makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio Cass.).
Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According to Livy,
Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted from their
pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia, importuned by
the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to argue that
their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita rem
coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to Livy's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance
seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of
Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill.
A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she
passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body,
calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's
apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel
to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's
goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he
has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even
scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made
amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic
rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both
available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again
conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum
as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly
notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in
caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.)
and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her
own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her
anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the
star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay
often operates in just this way: words that initially appear figurative become
literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described
in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's
apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance,
similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's
progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also
may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates
even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a
joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their
fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last
pentad, historical events lose their connection to fata and pass under the sway
of Fama in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with
truth" (mixtaque cum ueris... commenta, 12.54) issue from the house of
Fama, while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama),
announces Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the
fractured historical vision of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio)Fasti
Ritratto immaginario di Ovidio (di Anton von Werner) AutorePublio Ovidio Nasone
1ª ed. Original edal 9 d.C. Editio princeps Bologna, Baldassarre Azzoguidi, Generepoema
epico Lingua originalelatino Manuale. I Fasti sono un poema che espone le
origini delle festività romane, quindi è un'opera di carattere calendariale ed
eziologico di Ovidio, scritto in distici elegiaci, ad imitazione degli Aitia
(Cause) di Callimaco, di cui riprende, oltre che il metro, anche alcune
soluzioni formali e narratologiche. L'opera, scritta molto probabilmente
per aderire alla moralizzante propaganda tipica dell'età augustea, fu
progettata in un totale di 12 libri, secondo l'andamento del calendario. Con
essa l'autore, che probabilmente attingeva a Varrone e a Verrio Flacco, si era
proposto di spiegare l'origine della differenza tra i giorni fasti (dalla
parola latina "fas", lecito) in cui i Romani potevano trattare
gl’affari pubblici e privati, e i giorni “INfasti,” nei quali era vietato. Al
tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio di turno, indaga e rivisita, mese per
mese, tutti i molteplici riti, le festività e le consuetudini, tipiche del
costume e dell'uomo romano, che, al suo tempo, si praticavano senza ormai
conoscerne l'esatta origine o valenza. Tuttavia, dei Fasti si sono
conservati solamente 6 libri, da gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con
la famosa relegatio (esilio che non comportava la perdita dei beni né tantomeno
dei diritti civili) che colpe Ovidio e che non gli permise di terminarla.
Indice 1Struttura 1.1Libro I: gennaio 1.2Libro II: febbraio 1.3Libro III:
marzo 1.4Libro IV: aprile 1.5Libro V: maggio 1.6Libro VI: giugno 2Note 3Voci
correlate 4Altri progetti 5 Collegamenti
esterni Struttura Libro I: gennaio Il primo libro doveva presentare una dedica
ad Ottaviano. Quest'ultima, ora spostata al secondo libro, è stata sostituita
(verosimilmente nell'esilio di Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al
nipote adottivo di Augusto stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca
brevemente la nascita del calendario romano e il significato dei giorni
fortunati o dies fasti, per poi passare al mito di Giano, esposto dal dio
stesso in colloquio con Ovidio, sul modello degli Aitia callimachei e, dopo un
distico sulle None di gennaio, modellato sulle sezioni astronomiche di Arato,
all'esposizione dell'origine dei riti agonali, dei riti in onore di Carmenta,
inframmezzato da una esposizione sulle Idi, che divide questo mini-epillio in
due sezioni, la prima delle quali è una lunga profezia sulle origini di Roma
recitata dalla stessa ninfa. Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al
distico elegiaco, che Ovidio afferma di aver piegato alla poesia eziologica,
dopo che in gioventù fu il suo verso d'amore e ad una dedica a Cesare (forse
Augusto), si passa a parlare dell'origine del nome februarius, per poi
discutere delle calende, con la rievocazione del mito di Arione, delle none,
con il mito dell'Orsa Callisto, di Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica.
Ovidio rievoca, poi, le feste Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del
dio Terminus e si sofferma a parlare del regifugium, con la leggenda di
Lucrezia. Infine, parla della festa degli Equirria. Libro III: marzo Sezione
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scriverla! Libro IV: aprile Festività
romane Fasti (antica Roma) I Fasti di P.
Ovidio Nasone; tradotti in terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato
con note dal dottor Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia
Rosa, 1811 (on-line) Traduzione in inglese dei Fasti, su
tkline.freeserve.co.uk. V · D · M Publio Ovidio Nasone Portale Antica
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