Grice e Cuoco – (Civitacampomarano). Vincenzo
Cuoco Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Nessuna nota a piè di pagina Questa
voce o sezione sull'argomento scrittori è priva o carente di note e riferimenti
bibliografici puntuali. Sebbene vi siano una bibliografia e/o dei collegamenti
esterni, manca la contestualizzazione delle fonti con note a piè di pagina o
altri riferimenti precisi che indichino puntualmente la provenienza delle
informazioni. Puoi migliorare questa voce citando le fonti più precisamente.
Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Vincenzo Cuoco Litografia di
Vincenzo Cuoco del 1840 Direttore del Tesoro del Regno di Napoli Durata mandato28 febbraio 1812 – 1815 MonarcaGioacchino Murat Dati generali Partito politicoMurattiani ProfessioneGiurista, economista Vincenzo Cuoco (Civitacampomarano, 1º
ottobre 1770 – Napoli, 14 dicembre 1823) è stato uno scrittore, giurista,
politico, storico ed economista italiano. Indice 1Biografia 2Opere 2.1Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 2.2Critiche al saggio storico 2.3Platone in Italia 3Opere 4Note 5 Bibliografia 6 Altri progetti 7 Collegamenti esterni Biografia Targa posta sulla casa
natìa di Vincenzo Cuoco a Civitacampomarano Cuoco nacque a Civitacampomarano,
un piccolo borgo del Contado di Molise, nel Regno di Napoli (attualmente in
provincia di Campobasso), figlio di Michelangelo Cuoco, un avvocato e studioso
di economia, appartenente ad una famiglia della locale borghesia di provincia,
e di Colomba de Marinis. Ricevuta una prima istruzione nel vivace
ambiente illuministico del paese natìo, animato dalla famiglia Pepe, a cui era
imparentato (tra i parenti ebbe come cugino Gabriele Pepe), nel 1787 si recò a
Napoli per studiarvi diritto e fu allievo privato di Ignazio Falconieri. Non
terminò gli studi di legge, ma a partire da questo periodo si interessò di
questioni economiche, sociali, culturali, filosofiche e politiche, materie che
resteranno sempre al centro della sua attività e dei suoi interessi.
Nell'ambiente culturale napoletano conobbe ed entrò in contatto con
intellettuali illuminati del Sud, tra i quali anche il conterraneo Giuseppe
Maria Galanti (1743-1806), che in una lettera del 4 settembre del 1790 al padre
Michelangelo, descrive Vincenzo: «capace, di molta abilità e di molto talento»,
ma «trascurato» e «indolente», forse non soddisfatto appieno della
collaborazione di Vincenzo alla stesura della sua Descrizione geografica e
politica delle Sicilie. Partecipò attivamente alla costituzione della
Repubblica Napoletana nel 1799 ed alle sue vicissitudini, ricoprendovi le
cariche di segretario del suo ex docente Ignazio Falconieri (che ricopriva la
carica di comandante militare del Dipartimento del Volturno) e di organizzatore
del Dipartimento del Volturno. In seguito alla capitolazione della
Repubblica per mano delle truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo ed al
susseguente ritorno al potere dei Borboni, conobbe il carcere per alcuni mesi,
venendo inoltre condannato alla confisca dei beni e quindi costretto
all'esilio, dapprima a Parigi e poi a Milano, dove già nel 1801 pubblicò il suo
capolavoro, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, poi ampliato nella
successiva edizione del 1806. Sempre a Milano, tra il 1802 ed il 1804
diresse il Giornale Italiano, dando un'impronta economica di rilievo al
periodico e svolgendo una vivace attività pubblicistica, che proseguirà anche a
Napoli con la sua collaborazione al Monitore delle Sicilie. Nel 1806
pubblicò il suo Platone in Italia, originale romanzo utopistico proposto in
forma epistolare, e quindi rientrò nel Regno di Napoli governato da Giuseppe
Bonaparte, ricoprendovi importanti incarichi pubblici, prima come Consigliere
di Cassazione e poi Direttore del Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei
più importanti consiglieri del governo di Gioacchino Murat. In questo
ambito preparò nel 1809 un Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione
nel Regno di Napoli, nel quale l'istruzione pubblica è vista come
indispensabile strumento per la formazione di una coscienza nazional popolare.
Seguace del Pestalozzi, Cuoco prospetta «un'istruzione generale, pubblica ed
uniforme». [1] Dal 1810 ebbe l'incarico di Capo del Consiglio Provinciale
del Molise e, durante la durata di tale impiego, scrisse nel 1812 Viaggio in
Molise, opera storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato
grazie anche alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe),
presso la quale si conservano ancora suoi scritti e ritratti. Gli ultimi
suoi anni furono funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse
anche a causa del travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione),
spingendolo alla distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti,
e costringendolo a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte,
avvenuta a Napoli nel 1823, per le conseguenze di una frattura del femore,
riportata in seguito a una caduta. Opere Studioso di letteratura,
giurisprudenza e filosofia, Vincenzo Cuoco si segnala, oltre che per la sua
attività pubblicistica, per il Platone in Italia, originale romanzo utopistico
in forma epistolare e, soprattutto, per il Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, opera di fondamentale importanza nella nostra
storiografia, forse non studiata e conosciuta quanto meriterebbe. Lavorò ad
altri saggi e opere letterarie, rimaste in gran parte incompiute (salvo il saggio
Viaggio nel Molise, scritto nel 1812) e da lui stesso distrutte nel corso delle
crisi nervose causate dalla malattia che lo accompagnò nei suoi ultimi
anni. Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 «Tutte le
volte che in quest'opera si parla di "nome", di "opinione",
di "grado", s'intende sempre di quel grado, di quella opinione, di
quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle
rivoluzioni e delle controrivoluzioni.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, Prefazione alla seconda edizione) Il
Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 fu scritto durante
l'esilio a Parigi e pubblicato a Milano in forma anonima nel 1801. L'opera
narra gli eventi occorsi a Napoli tra il dicembre del 1798 (fuga di re
Ferdinando IV di Borbone in Sicilia) e la caduta della Repubblica Napoletana,
comprese le rappresaglie che ne seguirono la fine. Il saggio conobbe un
vasto successo (fu presto tradotto anche in tedesco) e andò abbastanza rapidamente
esaurito, tanto da spingere l'autore - anche per scoraggiare i tentativi di
ristampa abusiva - a porre mano ad una nuova edizione ampliata, che vide la
luce nel 1806. Nel 1807 il saggio fu tradotto anche in francese (quasi
contemporaneamente ad analoga traduzione del Platone in Italia). Accanto
alla dimensione puramente storiografica, attraverso la quale vengono ripercorsi
gli eventi che condussero alla nascita e alla rapida fine dell'effimero
esperimento repubblicano (inquadrati dall'autore nel burrascoso contesto delle
invasioni napoleoniche in Italia), l'opera si propone come un commento storico
e mira a delineare una lettura critica della vicenda rivoluzionaria. Il
racconto degli accadimenti viene proposto sotto forma di indagine rigorosa dei
fatti e investe l'esposizione dei principi teorici che mossero gli artefici
della rivoluzione napoletana. Senza indulgere in enfasi e retorica, viene
in tal modo offerto al lettore uno spaccato della vivace e avanzata cultura
filosofica e politica d'inizio secolo nella capitale del Sud d'Italia
(all'epoca in Europa seconda solo a Parigi per estensione), ove gli
insegnamenti di Mario Pagano (1748-1799), di Antonio Genovesi, di Gaetano
Filangieri (1752-1788), e di Giambattista Vico confluiscono a filtrare e
aggiornare la lettura sempre valida de Il Principe di Niccolò
Machiavelli. «I Francesi furono costretti a dedurre i princìpi loro dalla
più astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per l'ordinario
gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder
le proprie idee con le leggi della natura.» (V. Cuoco - Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap. VII) Poste a confronto la
Rivoluzione francese e quella partenopea, Vincenzo Cuoco indaga le ragioni del
fallimento di quest'ultima e ne individua con lucidità e senza pregiudizi le
cause: ispirata e poi di fatto imposta dagli stranieri, la rivoluzione
coinvolge a Napoli solo un’élite molto limitata numericamente (e largamente
impreparata alla difficile arte del governo), senza penetrare nella coscienza
popolare e senza tenere in alcun conto le peculiarità, tradizioni, necessità
reali e aspirazioni più autentiche che caratterizzavano le genti
napoletane: «Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la
costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui
bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità, che il popolo credeva legittima
e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva,
gli avesse procurato de' beni reali, e liberato lo avesse da que' mali che
soffriva; forse… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria
desolata e degna di una sorte migliore.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, cap.XV) Se da un lato, secondo Cuoco, il
governo rivoluzionario cadde vittima - prima di tutto - della sua stessa
imperizia tecnico-politica, dall'altro l'esperimento era votato in partenza al
fallimento in quanto mirava ad applicare ciecamente il modello della Rivoluzione
francese, tal quale, senza minimamente preoccuparsi di adattarlo alla realtà
napoletana e alle sue peculiarità. D'altra parte, osserva Cuoco con
spirito squisitamente moderno e rara acutezza, si pretendeva che il popolo
aderisse ciecamente a una rivoluzione della quale non poteva capire né i
valori, né le ragioni: "«Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»…
Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua
felicità?" (Saggio..., cap. XIX) La Rivoluzione fu dunque imposta al
popolo, piuttosto che proposta o sorta dalle sue istanze più autentiche e
profonde, determinando pertanto una profonda e insanabile frattura tra gli
intellettuali che la guidarono e la popolazione che se ne sentì sostanzialmente
estranea e che spontaneamente seppe riconoscerla per quel che certo essa era a
livello geopolitico: un regime imposto dall'interesse di una potenza
straniera. L'acuta e onesta critica di Cuoco - sempre sostenuto nella sua
opera da un raro attaccamento al realismo e da una logica incalzante - nel
condannare la cieca fiducia delle élite in teorie generali che non tengono nel
giusto conto la storia e la cultura più profonde e vere dei popoli, individua
dunque già all'alba del XIX secolo nella frattura tra classi dirigenti e istanze
popolari quello che sarà forse il più grave dramma dell'intera avventura
risorgimentale italiana e che tanto dovrà pesare sulla storia dell'Italia
unita, sino ai giorni nostri. Critiche al saggio storico L'opera di
Vincenzo Cuoco ricevette aspre critiche per la sua documentazione
storiografica. Al di là delle convinzioni politiche, gli è stata rimproverata
una certa parzialità nella ricerca storiografica. L'abate Domenico Sacchinelli,
segretario del cardinale Fabrizio Ruffo, fondatore e comandante dell'Esercito
della Santa Fede in Nostro Signore Gesù Cristo, principale responsabile della
sanguinaria caduta della Repubblica e della restaurazione dei Borboni al trono,
criticò aspramente la sua opera. Al fine di far conoscere la sua versione
dei fatti, Domenico Sacchinelli pubblicò un'opera intitolata Memorie storiche
sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (1836), scritta nove anni dopo la morte
di Fabrizio Ruffo nella quale, essendo stato segretario del cardinale e
possedendo dei documenti del periodo, contestava molte delle notizie su Ruffo e
sui sanfedisti. Sacchinelli, nella prefazione, asserisce che Cuoco, a sua
differenza, non poteva sapere quello che l'esercito della Santa Fede aveva
fatto per filo e per segno, in quali paesi era stato e quali paesi aveva saccheggiato
o incendiato.[2] Per contro, Benedetto Croce la segnalò quale "[...]
prima vigorosa manifestazione del pensiero vichiano, antiastrattista e storico,
e l'inizio della nuova storiografìa, fondata sul concetto dello svolgimento
organico dei popoli, e della nuova politica, la politica del liberalismo
nazionale, rivoluzionario e moderato insieme." (B. Croce, Storia della
storiografia italiana, Volume primo, Laterza, 1921) Platone in
Italia Platone in Italia, 1916 «Se l'arte dell'eloquenza è l'arte di
persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di dire sempre il vero, il solo
vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di nostra inferma natura di
rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti, quanto più atte al fine, cioè
quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel pensiero.» (V. Cuoco -
Platone in Italia) Il Platone in Italia, diviso in due volumi, è un
originale esempio di romanzo storico scritto in forma epistolare che l'autore
finge di aver tradotto dal greco. L'opera, scritta prima del suo rientro
a Napoli nel 1806 (e pubblicata nello stesso anno), è dedicata alla
celebrazione del mito di un'immaginata "Italia pitagorica", intesa
come antico e mitico luogo della saggezza. Nel racconto immaginario di
Cuoco si descrive il viaggio intrapreso dal giovane Cleobolo, discepolo di
Platone, in visita nella Magna Grecia in compagnia del suo maestro: il viaggio
fornisce lo spunto per esaltare l'originalità e la natura primigenia della
civiltà italiana, vista da Cuoco come più antica di quella ellenica: è
nell'Italia meridionale che quelle popolazioni raggiungono per prime l'apice
sia nel campo delle istituzioni civili, sia nelle scienze e nelle arti.
Anche in quest'opera è chiaramente rintracciabile l'influsso di Vico e del suo
De antiquissima Italorum sapientia, laddove Cuoco ne coglie non solo la
dimensione storica, ma anche quella filosofica. Importante dal punto di
vista ideologico, l'opera intende affermare la supremazia culturale italiana
rispetto alla Francia e al resto d'Europa e può essere considerata un
preannuncio della corrente d'orgoglio nazionale che si svilupperà in tutto il
primo Ottocento e che culminerà nel celebre Del primato morale e civile degli
Italiani di Vincenzo Gioberti. A tratti disorganica e monotona, l'opera
non rende giustizia al suo autore da un punto di vista squisitamente
letterario, specie se confrontata con lo stile straordinariamente persuasivo,
agile ed efficace del Saggio sulla rivoluzione napoletana. Opere Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, in Scrittori d'Italia 43, Bari,
Laterza, 1913. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 74, vol. 1, 2ª ed.,
Bari, Laterza, 1928. Platone in Italia, in Scrittori d'Italia 92, vol. 2, Bari,
Laterza, 1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 93, vol. 1, Bari, Laterza,
1924. Scritti vari, in Scrittori d'Italia 94, vol. 2, Bari, Laterza, 1924. Note
^ Rapporto al re Gioacchino Marat e Progetto di decreto per l'ordinamento della
Pubblica Istruzione nel Regno di Napoli, vedi Carlo Salinari Carlo Ricci, Storia
della letteratura italiana, Volume terzo, Parte prima, Edizioni Laterza, Bari
1981. p 11 ^ sacchinelli-memorie, prefazione. Bibliografia Fulvio Tessitore, Lo
storicismo di Vincenzo Cuoco, Morano editore, Napoli, 1965 Fulvio Tessitore,
Vincenzo Cuoco tra illuminismo e storicismo, Libreria Scientifica Editore,
Napoli, 1971. Fulvio Tessitore, Vincenzo Cuoco, in Il Contributo italiano alla
storia del Pensiero – Filosofia , Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,
2012. Dario De Salvo, la Pedagogia del Reale di Vincenzo Cuoco,
PensaMultimedia, Lecce-rovato, 2016. A. Boroli e AA.VV., Universo - la grande
enciclopedia per tutti, Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara, 1970;
AA.VV., l'Enciclopedia, UTET Torino - Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara
- Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Roma, 2003; Mario Themelly, «CUOCO,
Vincenzo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 31, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, 1985. Felice Battaglia, «CUOCO, Vincenzo»,
la voce nella Enciclopedia Italiana, Volume 12, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Fausto Moriani, Esoterismi e storie: Platone
nell'interpretazione di Vincenzo Cuoco, in Le vie della ricerca. Studi in onore
di Francesco Adorno, Olschki, Firenze, 1996, pp. 677–688. Domenico Sacchinelli,
Sulla vita del cardinale Fabrizio Ruffo (PDF), Tipografia di Carlo Calanco,
1836. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina
dedicata a Vincenzo Cuoco Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di
o su Vincenzo Cuoco Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Vincenzo Cuoco Collegamenti esterni Cuòco, Vincenzo,
su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Felice Battaglia, CUOCO, Vincenzo, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata
Cuoco, Vincenzo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2010. Modifica su Wikidata Cuòco, Vincènzo, su sapere.it, De Agostini. Modifica
su Wikidata (EN) Vincenzo Cuoco, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Mario Themelly, CUOCO, Vincenzo, in
Dizionario biografico degli italiani, vol. 31, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1985. Modifica su Wikidata Opere di Vincenzo Cuoco, su Liber Liber. Modifica su
Wikidata Opere di Vincenzo Cuoco, su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Vincenzo Cuoco, su Open Library, Internet Archive.
Modifica su Wikidata Controllo di autorità VIAF (EN) 54161254 · ISNI (EN) 0000 0000 8077 3484
· SBN CFIV028581 · BAV 495/74971 · CERL cnp00405880 · LCCN (EN) n83018038 · GND
(DE) 119403331 · BNE (ES) XX1242885 (data) · BNF (FR) cb120246741 (data) · J9U
(EN, HE) 987007274408605171 · NSK (HR) 000774737 · CONOR.SI (SL) 170970211 ·
WorldCat Identities (EN) lccn-n83018038 Portale Biografie
Portale Due Sicilie Portale Economia Portale
Letteratura Portale Risorgimento Categorie: Scrittori italiani del
XVIII secoloScrittori italiani del XIX secoloGiuristi italiani del XVIII
secoloGiuristi italiani del XIX secoloPolitici italiani del XVIII
secoloPolitici italiani del XIX secoloNati nel 1770Morti nel 1823Nati il 1º
ottobreMorti il 14 dicembreNati a CivitacampomaranoMorti a NapoliEconomisti
italiani del XVIII secoloEconomisti italiani del XIX secoloPersonalità del
RisorgimentoPersonalità della Repubblica Napoletana (1799)[altre] L'opera
filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei
molte plici articoli del “Giornale italiano”. La filosofia italica di Cuoco si
continua nel “Platone in Italia”, nuova ed alta testimonianza di quello spirito
che vediamo in opera ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio
milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello
spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e
compenetra il suo Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive
che “ama di morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non
esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed
aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre
di più di quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce
dalla pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo
stesso: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso
si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone
in Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco,
in una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica
degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria,
quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di
Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con
ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente
l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non
accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di
questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del
“Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne
accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un
viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il
suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto,
Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente
o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La
lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI,
Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il
viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più
agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio,
come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega
ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo
viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo
l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può
servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può
ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il
capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più
pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite
trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace;
immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v '
impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone
un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine
che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate
con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto
fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente,
manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo
egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci
mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2
). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima accennate,
non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non
scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immaginazione
del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS, Saggi critici, v. III,
pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11, pp.
35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3) L.
SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don
Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di
fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici. E gli stessi personaggi,
che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto,
noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro
passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma,
poichè ci – Platone e il suo scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa
funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad
annunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò
un nome, come ne potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano,
conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose,
è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che
perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso
dichiarato dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta
virtuosi, potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le
cognizioni che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima
italorum sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si
debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico
dovè certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di
dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra
penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino
anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa.
E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto
del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là,
vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci
latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da
esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia”
di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa
ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non
esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e
non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno,
per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia pitagorica
e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da ciò,
notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un
fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre
in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti....
Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma
nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora....
Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai
in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli
occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia
che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda
ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de'
popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare
la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre
un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo.
Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico
poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana
trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si
pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a
noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non
parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio
non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a
noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le
ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco,
di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che
per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per
cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim.
Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una
sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”.
Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio,
nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi
mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la
corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e
poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte
delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose.
Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero
ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie
città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende
ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili.
Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è
se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non
vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran
giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra
sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della
prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano.
Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città,
si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza
è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si
sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al
piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a
Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e
degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in
diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici,
che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani
in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si
conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi
nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fratello
di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo di
stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle
immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno
opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro
filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in
Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani,
potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte
ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla
quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed
hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre
che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici
mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è
duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola
la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee
del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io!
Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e
valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione,
perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono
le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma
queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal
nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in
Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che
volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle,
tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche
olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate
dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il
siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia,
che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi,
Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta
ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi
nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani
ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari
popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia
intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente
dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali
han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra
volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è
infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la
debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza,
ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano
ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par
di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto
ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da
questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice
Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo
istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che
non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà organizzazione
e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi conformandosi ad
un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo risorge nelle più
elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di ristabilir la pace
e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea far dell'Italia
una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo più vasto per
esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con coloro, che la
vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e la divisione
degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia di tutti
non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la patria
comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti coloro
che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama poi
barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno
vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri.
Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra
voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è
sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia
stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un
mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta
non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia
chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma
l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio,
sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il
popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne:
spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i
vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente
per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma
quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua
natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla
stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono
alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio
ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la
terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una
città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o
Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le
mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini.
La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura
la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini
dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto
ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che
è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia
al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e
l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che
disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i
maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto?
Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è
necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il
lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la
conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render
più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo
conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne
fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si
acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una
cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del
popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che
s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi
muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi,
debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare
inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono
immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci.
La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di
quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha
bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori,
i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro
Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a
poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una
diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il
popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il
vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa
essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più
verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità
ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno
utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio
storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore,
sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che
mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in
eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa
cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di
bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù
ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti
di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle
cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà,
e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo
delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta
natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male,
spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una,
perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della
materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il
costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque,
conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo
formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle
leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il
che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella
educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che
Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La
ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti
esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno
o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle
sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li
hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il
buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o,
conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno
sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo
il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto
miseramente il suo legno tra gli scogli. La legge però resterà sempre un astratto, se
gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La
legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte
più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi.
Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi
sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle
opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il
pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad
un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le
considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il
bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto
su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli
occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò
menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel
che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione,
lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano
autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi
la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione
e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè
mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno;
nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria,
potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due
classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la
vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione
ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco,
coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non
può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua
indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti
si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e
plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che
nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione
dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e
pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova,
spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi,
perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia
vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza
matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali
i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres
non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri
che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il
prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto
divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in
una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano
mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e
la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il
Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in
Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna
tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non
solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi
non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le
passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte
le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro:
e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla
plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È
segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà
dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e
che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con
modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da
queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita
è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la
molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di
funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo
perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u
topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi
saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi
industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I
partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei.
Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più
avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si
vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà
l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose.
Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre
poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno
di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più
numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali,
nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare....
Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I
cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti
nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò
scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello
stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già
esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto,
ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni
ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della
democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle
altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto
attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso
quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà
possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle
varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un
contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia
è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma,
mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno,
poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria;
nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi
cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge
unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar
gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di
difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui,
che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non
si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che
può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve
rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in
attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome
d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione
d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro
viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte
è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo
italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in
bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le
riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è
in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita,
le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si
conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del
commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma
reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia
d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi;
e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche...,
così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più
lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di
accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e
principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a
morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ».
« Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e
attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti
e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e
della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e
de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel
linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de
gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare,
amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi
siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi:
questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle
parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia,
intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la
fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez
zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo
diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto
a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come
entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà
un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto
il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio,
rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del
genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate
ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le
virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno
arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti,
per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli
dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e
dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande
sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma
che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come
quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel
presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa
e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle
napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra
vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista
prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci
e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da
contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è
civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente poli tico,
prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il Platone in
Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il
Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal
Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico italiano. È
l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel
lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da
essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la
scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del vivere e le
norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che
nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre
che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni
che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano
nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa
del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica,
il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il
Platone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani,
come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune:
un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato
dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al
quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3
) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il
Cuoco e il Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del
Primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è
lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in
potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o
almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia:
perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta
realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato
giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti
italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di
purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a
sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il
Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca
e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della
Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li
bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed
italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza;
nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi,
ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha
nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle
quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la
volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande,
Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella
visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione
nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. -
No comments:
Post a Comment