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Friday, December 20, 2024

GRICE E SCARAVELLI

 

Grice e Scaravelli: la ragione conversazionale -- tra critica e meta-fisica – -- la scuola di Firenze -- la scuola fiorentina – filosofia fiorentina -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Si laurea a Pissa sotto CARLINI. Insegna a Roma, e Firenze. Profondo conoscitore di Kant, approfondisce nei suoi studi pubblicati con molta riluttanza e quasi solo per esigenze concorsuali in particolare i temi relativi ai rapporti tra la filosofia kantiana e la fisica, i problemi relativi alla critica del giudizio ed anche i temi dell'idealismo.  Biblioteca personale, Villa Mirafiori. Saggi: “Critica del capire”, Firenze, Sansoni, Saggio sulla categoria kantiana della realta (Firenze, Monnier); La prima meditazione di Cartesio (Firenze, Nuova Italia); “La critica del giudizio” (Pisa, Normale); Corsi, “Critica del capire”; “L'analitica trascendentale” (Firenze, Nuova Italia); “La Biblioteca”; “L' attualità Mirri, Napoli, Sientifiche); Visentin, “Le categorie e la realtà” (Firenze, Le lettere); Sasso, L’idealismo, Napoli, Bibliopolis; La storia come metodo, Convegno a Roma); “Il problema del giudizio storico); Mannelli, Rubbettino, pensatore europeo, Biscuso e Gembillo, Messina, Siciliano, Sasso, il giudizio, in Filosofia e idealismo. Paralipomeni, Napoli, Bibliopolis,  Palermo, Tra critica e metafisica. Lettore di Kant, Pisa, ETS,   Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Biscuso, La  completa dei suoi scritti, su giornale di filosofia.    Ripercorrendo il proprio itinerario speculativo, in un documento di grande rilievo da datarsi nel  1942, Scaravelli scriveva:  dieci o quindici anni fa [...] ero pienamente convinto di quella impostazione mentale, comune al Croce e al Gentile, che considera la realtà come spirito, e lo spirito come autoprodursi; e in questo autoprodursi vede l'esistenza e tutta l'esistenza. Ma nonostante fossi convinto della validità di questa concezione, pure un lavoro che avevo cominciato su Platone mi spingeva a ripensare le basi della concezione storiografica nella quale mi muovevo; perché questa concezione non mi consentiva di soddisfare al bisogno che provavo di mantenermi aderente all'intimo pensiero platonico e nello stesso tempo di presentare questo pensiero non come semplice..  "introduzione" a un pensiero più maturo, né come un pensiero buono per... duemila e più anni or sono secondo la corrente storiogratica hegelianeggiante.  La mia esigenza era questa: presentare Platone come un vero e pieno pensatore, e non come uno "spicchio" dello spirito, o una "tappa" di esso, o un "germe" inconsapevole della propria forza dinamica e della ricchezza accumulata nel proprio seno.  Il problema si presentava allora in questo modo: cercare una posizione teoretica tale da render possibile che ogni filosofo sia effettivamente, e non a parole, una vera unità (o totalità) spirituale!.  In questo testo non solo troviamo esposta con chiarezza l'esigenza di criticare i presupposti della storiografia filosofica idealistica, i quali danno luogo a risultati storiografici inaccettabili (che Platone siahegelianamente un "germe inconsapevole", o crocianamente uno "spicchio", o gentilianamente una  "tappa" dello spirito); ma soprattutto sono individuate le condizioni trascendentali della storiografia filosofica, dalla cui soddisfazione soltanto può risultare una veritiera comprensione storica: a) aderenza all'oggetto dell'indagine storiografica; b) capacità di coglierne il nucleo teoretico; c) compiuta unità dell'oggetto, tale che sia autonomamente interpretabile; d) sua radicale contemporaneità. Condizioni che non si addizionano l'una all'altra, ma che costituiscono un insieme coerente: l'aderenza all'oggetto storico si concretizza soltanto nella individuazione del nucleo teoretico (l'«intimo pensiero») che consente architettonicamente di ricostruire nelle sue strutture la totalità dell'oggetto medesimo, conferendo coerenza a tutti i suoi distinti aspetti e facendone un termine di confronto attuale nella discussione filosofica. Sicché il principio di coerenza, così inteso - ma sarà bene tornarci su quanto prima - può essere ritenuto la radice delle condizioni sopra elencate.  Nelle memorabili analisi di singole opere filosofiche, tra le più profonde tra quelle prodotte dalla storiografia filosofica italiana (e non solo) nel Novecento - basti qui ricordare La Prima Meditazione di Cartesio, il Saggio sulla categoria kantiana della realtà o le Osservazioni sulla "Critica del Giudizio" - Scaravelli avrà sempre cura di tener ferme quelle condizioni, individuate nella Critica del capire: esse sole rendono possibile una storiografia filosofica che sappia riconoscere  autonomia e novità,  cioè  concretezza storica, alla singole filosofie senza ridurle a note analitiche del processo al quale appartengono.  Appare perciò opportuno esaminare innanzi tutto il percorso compiuto dal giovane Scaravelli per liberarsi dai presupposti della storiografia filosofica idealistica ($ 2) e per giungere a individuare le condizioni trascendentali necessarie a pensare la storia della filosofia come una storia reale (S 3).  questo punto potremo mettere alla prova le concrete analisi storiografiche compiute da Scaravelli nella peculiare prospettiva della Critica del capire per valutare se esse soddisfino, e fino a che punto, oppure no, quelle condizioni ($ 4). Ne emergerà, tra gli altri, il problema di come pensare l'effettiva novità nella storia del pensiero, cioè i rapporti di continuità e di discontinuità nella storia della scienza e della filosofia, che saranno affrontati esemplarmente in alcuni scritti successivi ($ 5). Concluderemo l'analisi discutendo una possibile soluzione operante di fatto, ma da Scaravelli non tematizzata, ai problemi rimasti insoluti ($ 6), e le sue applicazioni alla storia della fisica e della filosofia (S 7).«esposizione completa» delle sue opere e la narrazione, anche particolareggiata, delle sue vicende biografiche, necessarie «per averne quella conoscenza storica che individua ogni singolo pensatore con tutte le sue caratteristiche»; «ben altro» invece «è il procedimento quando si tratti di intendere e valutare a fondo quel pensiero, di penetrare nella sua essenza». In questo secondo caso non lo si può ricostruire dall'esterno, limitandosi al massimo a constatare se le idee possano coesistere tra di loro, ma occorre mettersi in esso, e svolgere quel germe di vita che c'è implicito sviluppandone tutti i principi che, pensandoli e vagliandoli, non rimangono su uno stesso piano, ma, mostrando la loro coerenza o incompatibilità, fanno sorgere quello che più ricco degli altri è capace di risolvere in sé la molteplicità dei problemi, e che vive per propria attività eliminando gli altri elementi, cui era congiunto.  Da un lato, dunque, «la conoscenza storica» del profilo individuale di un filosofo, dall'altro l'attività volta a «intender[ne] e valutar[ne] a fondo» il pensiero; da un lato la completezza, dall'altro l'essenza.  Sembrerebbe qui che il giovane Scaravelli opponga comprensione storica a intendimento teoretico di una filosofia o, come si sarebbe poi detto, storiografia descrittiva a storiografia valutante; ma la questione è in effetti più complessa. Infatti, affinché l'esposizione sia veramente completa è  indispensabile, oltre che scendere a particolari biografici e accidentali, non solo «dare la totalità del sistema» ma anche «metterne in luce le eventuali contraddizioni, lacune, deficienze». Quindi, valutarne la coerenza. E, d'altra parte, è possibile davvero cogliere la fisionomia individuale di un pensiero accumulando notizie biografiche ed esponendo opinioni? Comprendere l'individualità di un pensiero non significa forse al contrario coglierne il «germe di vita» che risolve nel principio «più ricco» gli altri principi? Per cui, a rigore, Scaravelli avrebbe dovuto non distinguere individuazione e valutazione, bensì valutazione e valutazione, e, di nuovo, individuazione e individuazione: la prima mette capo a una pura e semplice accumulazione dossografica di conoscenze intorno alla vita e alle opere di un filosofo, la seconda sa penetrare nell'essenza di una filosofia, perché ne coglie il principio, il quale generando gli altri principi ad esso subordinati li rende perciò intelligibili. Con la conseguenza che comprensione storica sarà tanto la prima quanto la seconda: se la prima consisterà «nel vedere la totalità statica di un sistema filosofico», la seconda consisterà «nel viverne la sua coerente intelligibilità come realizzazione di quel principio che lo ha fatto sorgere».  Si potrebbe dire che la distinzione hegeliana tra intelletto analitico e ragione speculativa orienti inavvertitamente la differenza tra i due diversi modi di cogliere l'individualità di un pensiero e di valutarne la coerenza: il primo in maniera estrinseca, poiché il "metro" di giudizio cade fuori dal pensiero giudicando'; il secondo in modo immanente, in quanto, «ripensando e vagliando» tutti i principi di una filosofia, non li lascia sullo stesso piano, ma ne mostra «la loro coerenza o incompatibilità» e fa sorgere «quello che più ricco degli altri è capace di risolvere in sé la molteplicità dei problemi, e che vive per propria attività eliminando gli altri elementi, cui era congiunto», i quali evidentemente hanno origine diversa da quel principio".Emerge così, già in questo precoce e importante passo, il principio che guiderà tutta la successiva storiografia filosofica scaravelliana: il principio di coerenza, cui il filosofo fiorentino ricorrerà in ogni sua analisi di opere e teorizzazioni della tradizione filosofica; principio che, come detto, deve essere inteso non quale certificazione della possibilità che idee diverse possano coesistere tra loro, bensì come coerentizzazione delle idee di un pensatore a partire dal principio ideale che le genera. Perciò per "genesi di una filosofia" non si deve intendere la nascita storica di un sistema, il suo formarsi nel corso del tempo, bensì la genesi ideale di una posizione filosofica, che iscrive in articolazione organica i suoi distinti elementi.  Nella recensione al lavoro di Chiocchetti non si affaccia ancora l'altro problema della storiografia filosofica scaravelliana, quello del tipo di rapporto che lega tra loro le filosofie nella storia; non si affaccia, perché esso non fa problema al giovane pensatore che aderisce (ancora) all'«idealismo attuale»: il divenire gli appare «una unità organica» di accadimenti qualitativamente diversi'; e se le diverse filosofie sono «accadimenti», esse non potranno che apparire nella loro unità organica alla coscienza che le pensa. E tuttavia, sebbene nella tesi di laurea il principio gentiliano secondo il quale vanno pensate le filosofie che si sono manifestate nella storia non faccia (ancora) problema al giovane Scaravelli, sembra che la concreta applicazione di esso alla storia della filosofia crei invece difficoltà, tanto da rendere la ricostruzione storica inadeguata: «a noi sembra che il Gentile rimanga ancora nella schematizzazione dei periodi storici caratteristica del sistema hegeliano»*. Assegnando infatti alla filosofia greca «il momento della pura oggettività» e a quella rinascimentale «il momento della soggettività» astratta, il filosofo siciliano irrigidisce «i momenti dialettici o le categorie del pensiero, in particolari periodi storici», finendo per rendere astratta e meccanica la storia stessa'. Che è quanto non sarebbe dovuto accadere se fosse stato fedele al suo principio. Ma per Scaravelli mai un periodo, se è effettivamente storico, può essere astratto, privo cioè del suo significato che sarebbe dato solo da un'epoca successiva. Ogni momento storico  è sempre, in quanto se ne intende il valore, tutta la storia implicita in esso, tutto lo spirito nella sua concretezza; e non può aspettare un periodo successivo che completi il carattere che esso ha, perché, in quanto vivente periodo storico, il suo carattere è la sua totalità od assolutezza oltre la quale non è dato immaginare che sialo.  Dunque, ben prima di iniziare il suo lavoro incompiuto su Platone Scaravelli avvertiva l'esigenza di non ridurre il pensiero greco a una semplice introduzione al pensiero moderno, per coglierne l'autonomo significato e la specifica validità. E tuttavia, bisogna aggiungere, nella tesi di laurea solo l'esigenza è presente, non la soluzione. Infatti, tutto lo sforzo compiuto dal giovane Scaravelli di mostrare come la filosofia greca e quella rinascimentale non siano momenti astratti e incompleti che attendano la filosofia moderna per concretizzarsi e compiersi, ma autentiche totalità spirituali, si  vanifica nel momento in cui queste gli appaiono prese da un andamento irresistibile, teleologicamente orientato. L'antica si articola nel «processo onde dalle ricerche naturalistiche essa venne innalzando l'edificio dell'atto puro e del motore immoto», concludendosi nella teoria aristotelica del conoscere «come processo [...] autocreatore, ed autocosciente», nella «totalità della coscienza come atto che forma la realtà di cui è intelligenza»".  . Nella moderna il processo di purificazione dell'esperienza giunge in  Bacone ad un primo, irreversibile risultato: «il problema centrale della filosofia moderna è così formato, è costituito in forte germoglio, e si svilupperà con rapidità giungendo a maturazione nella mente delpensatore di Königsberg»' (si noti il lessico decisamente hegeliano: "germoglio", "sviluppo",  "maturazione"); insomma: tutte le strade portano a Kant e poi da Kant ripartono"'.  Difficile d'altronde credere che Scaravelli non avvertisse la problematicità di una tale impostazione.  Infatti, già nel primo capitolo discutendo del rapporto tra la logica dell'astratto e la logica del concreto, problema che può essere declinato anche come problema del rapporto tra il pensiero passato e il pensiero presente, tra il già-dato e il nuovo, il giovane filosofo aveva messo in evidenza la difficoltà di intendere tale rapporto nel modo in cui Gentile sembrava intenderlo, cioè come se il passato (la logica dell'astratto) fosse «grado» al presente (la logica del concreto), «combustibile» da bruciare nel suo «fuoco», insomma: «momento precedente alla concretezza, il passato appunto che sbocca, a dar vita, nel presente».  Questa interpretazione - continuava Scaravelli - ha di giusto questo solo elemento: che scorge l'unità del processo spirituale e la sua inscindibilità, e vede il presente non nella sua puntualità astratta, ma come quel presente di pensiero reale in cui confluisce tutta la vita passata. Un'azione od un pensiero, una individualità od un avvenimento storico in corso di svilupparsi, non sono novità sorte ex nibilo, ma si sustanziano di tutto lo sviluppo mentale e umano che accolgono e per quanto l'accolgono in sé senza spezzare la continuità della storia. L'individuo così, come un fatto storico, è da intendersi come effettuale germinazione della stessa storia; germoglio che trae il succo dalla stessa pianta che lo ha formato gemma, gemma che a sua volta formerà la pianta.  Elemento vero che occorre conservare: ma che si ricopre facilmente di scorie dalle quali va liberato.  Principalmente questa: che in questo modo di intendere, il fatto od il passato, l'oggetto in una parola, viene a condizionare il fare, il presente, in una parola il soggetto.  Infatti, un tale modo di intendere il rapporto tra il pensiero presente e il suo passato implica la vanificazione della «libertà infinita» e dell'«autonomia» del pensiero pensante, in quanto esso sarebbe  condizionato dal pensiero pensato e smarrirebbe il carattere di «attività  trascendentale  dell'autocoscienza [...] assolutamente a priori»'. Eppure, si trattava molto più che di «scorie» che offuscavano la limpidezza delle costruzione teoretica gentiliana: Scaravelli pensava di restituire piena coerenza all'attualismo rivendicando la concretezza dell'astratto e quindi piena autonomia e valore di autentica spiritualità al pensiero antico. Ma davvero la singola filosofia, «l'individuo» riesce a mantenere il suo valore in questa versione più coerente della filosofia dell'atto? Ridotto a «gemma» che trae il succo dalla pianta che l'ha generato, sembra invece incapace di produrre novità alcuna: la gemma formerà di nuovo la pianta, e l'identico, generato dall'identico, genererà a sua volta l'identico.  Il problema di come poter pensare l'individuo e il nuovo - in una parola: la storia - senza ridurlo a nota analitica della struttura che lo avrebbe dovuto rendere intelligibile, era ancora ben al di là di essere affrontato alla radice.  3. La ricerca di nuovi principi: la genesi della filosofia  Che il problema stesse nei principi della storiografia filosofica idealistica e non nelle loro applicazioni, che non si trattasse insomma di «scorie» ma di vere e proprie aporie, si fece via via sempre più chiaro a Scaravelli quanto più egli approfondiva «le basi della concezione storiografica» nella quale si muoveva. Documento significativo di questo travaglio è Il problema speculativo di M. Heidegger, il primo  p cane lavor publici da Son li compito Dator, stesi ane di i essioni erto acor più  tormentata prima stesura della Critica del capire. Ora egli si mostra pienamente consapevole della posta in gioco nella impostazione metodologica della storiografia filosofica. Si noti l'affermazione perentoria con la quale si apre lo studio su Heidegger:  Sapere a quale scuola appartiene un filosofo è spesso uno dei più forti ostacoli a capirlo. A cominciare dalle parole che adopra per finire con l'atteggiamento fondamentale che costituisce la sua personalità speculativa, tutto viene visto e sentito come già condizionato dall'ambiente in cui è vissuto: e le immagini, i concetti, le deduzioni, appaiono a noi già piene del significato che la scuola ha dato loro; sì che la rigidezza che offrono impedisce di cogliere lo spirito nuovo che in loro vive e che dà loro un tutt'altro valore e significato.  Un approccio storiografico che si limitasse a riassumere le «tappe» (non sfugga l'uso del termine) attraverso le quali « ogni scuola [...] dispone e stratifica il processo delle proprie indagini e lo presenta come struttura della realtà», otterrebbe soltanto risultati generici. Saremmo dinanzi, di fatto, alla medesima difficoltà teoretica delle storie della filosofia idealistiche che facevano dei diversi pensatori semplici tappe dello sviluppo necessario dello spirito: spiegando un filosofo con l'appartenenza ad una scuola - nel caso in questione Heidegger a partire dalla fenomenologia husserliana - tutto sarebbe già detto, e nessuno spirito nuovo potrebbe essere colto: sarebbe, si potrebbe dire, "modo" analiticamente già compreso nella "sostanza". Al contrario, «non solo ogni pensatore ha un proprio problema ed una sua inconfondibile fisionomia, ma |...] tutto in lui lo fa diverso da quelli con cui in primo tempo era accomunato». Non si tratta, tuttavia, solo di un'apologia romantica dell'individualità, come il tono del passo sembrerebbe suggerire: lo stesso rischio si potrebbe ripresentare se pensassimo «ogni pensatore» come sistema chiuso, una totalità dal significato in sé già determinato, e sulla base di tale identità analitica valutassimo il modo in cui egli «dispone e stratifica il processo delle proprie indagini e lo presenta come struttura della realtà».  Si tratta dunque di evitare quei presupposti storiografici che ostacolano la comprensione di un pensatore, sia che si prenda come principio di intelligibilità la storia della filosofia nella sua interezza o una sua epoca, sia la scuola filosofica alla quale appartiene un pensatore, sia, infine, «la struttura esteriore in cui [...] si sono solidificate le ricerche e le esperienze» di un singolo filosofo.  Per scongiurare il rischio di un approccio inadeguato, è necessario «cercare la intima genesi», enucleare il «centro vitale» della individua filosofia: solo in tal modo «ci si accorge che l'edificio va veduto in altra luce, ed organizzato in altra forma», perché solo una ricerca che prenda le mosse dalla «genesi teoretica» di un pensiero riesce a non esserne pura ripetizione parafrastica e a «cogliere la forma con cui volta per volta ogni singolo momento della vita mentale è vissuto, e capire il modo con cui è vissuto». Dove si noti come la divaricazione tra individuazione e valutazione, che nonostante tutto rimaneva nella recensione del '23, sia ormai pienamente superata: capire una filosofia, infatti,  comprenderla storicamente, cioè nella sua caratteristica che la fa un'originale produzione dello spirito, significa cogliere il pensiero di un filosofo «nella sua individualità e nel suo valore speculativo»".  Lo scritto su Heidegger approfondisce anche il significato di "genesi". La recensione al volume di Chiocchetti si limitava ad affermare che la genesi consiste nell'afferrare e svolgere il «germe di vita» di un sistema filosofico, il principio che l'ha fatto sorgere come sistema, che gli attribuisce coerenza e intelligibilità. Secondo il testo del '35, invece, la genesi va ricercata non solo nell'enucleazione del «centro vitale» di un pensiero e nel suo svolgimento, ma anche nel rapporto dialettico con altri pensatori e con tradizioni specifiche di pensiero: «mostreremo - scrive Scaravelli - la genesi [del pensiero di Heidegger] a cominciare dalle critiche a quelle posizioni in cui idealmente inserisce il proprio ritmo, e mostreremo come in queste critiche stesse il problema cominci a sviluppare la propria natura, per poi acquistare forma e divenire saldo organismo di vita»"  E nel coevo abbozzo di  Introduzione alla traduzione di Was ist Metaphysik? il filosofo fiorentino ritiene che il «modo in cui il Nulla è sentito e trattato» da Heidegger «affonda le proprie radici» in «un atteggiamento mentale che rimontaal periodo romantico»''. Scaravelli ribadisce così la convinzione che il problema filosofico nasca nella vita, non dalla vita, non cioè dal «mondo di impressioni, di desideri, di passioni, di fede, di convinzioni, di tradizioni, di solidi oggetti, di cose resistenti e cangianti»"'; che, insomma, la filosofia, sebbene investa la vita del suo pathos logico e si sviluppi come vita concreta, abbia la sua genesi nel pensiero.  Non sarebbe in questa sede opportuno discutere la densa ed elegantissima ricostruzione che  Scaravelli fece, essenzialmente sulla scorta di Vom Wesen des Grundes e di Was ist Metaphysik?, del pensiero, anzi, del «problema speculativo» di Martin Heidegger. Basti qui però ricordare che, dopo aver drasticamente separato Heidegger dalla scuola fenomenologica" (la quale, d'altra parte, è dissolta nella sua specificità, ricondotta com'è alla ricerca kantiana e cartesiana che intende risalire dall'esperienza vissuta ai principi che la formano, procedimento che non differenzia inoltre la fenomenologia da gran parte del contemporaneo movimento speculativo tedesco), Scaravelli individua tale problema nello «sforzo alla libertà in cui consiste il nostro essere più fondo ed il nostro vero comportamento nel mondo»". Problema della libertà che non seppero risolvere né Kant, rimanendo inconciliate la volontà libera e la struttura meccanica degli avvenimenti cosmici, né Hegel, poiché la dialettica non riesce a trasvalutare realmente in spiritualità il proprio processo, e quindi il logo e la natura. Al contrario Heidegger dà soluzione al problema pensando l'uomo come «libertà finita»; la libertà dell'Io è libertà concretamente determinata, in quanto è «possibilità di costruzione d'un mondo, di sé nel mondo»; il mondo non è semplicemente ciò che è dato all'uomo, anzi, ciò in cui l'uomo è «gettato come cosa tra le cose», ma al tempo stesso è ciò che è formato dall'uomo e quindi trasceso nella sua datità: «L'uomo comincia sempre ex novo come concreta e determinata trascendenza, come rapporto a un mondo che già esiste ma esiste solo in quando vien formato, ed è formato solo in quanto viene trasceso»?.  Questo dunque, in estrema sintesi, «il problema speculativo» di Martin Heidegger, questa la «genesi ideale» e - per usare i termini della recensione a Chiocchetti - l«essenza» della sua filosofia. Se perciò il riconoscimento dell'appartenenza alla scuola fenomenologica non può gettare luce sul nucleo teorico del pensiero heideggeriano, tuttavia questo non sembra davvero essere comprensibile se non nel contesto della filosofia classica tedesca, sullo sfondo della ricerca intorno alla libertà che compirono  Kant e Hegel. Uno sfondo, perciò, filosofico.  Per Scaravelli, dunque, già in questo testo, e poi con maggiore nettezza nelle successive e maggiori opere, la filosofia si spiega da se medesima, senza ricorso alcuno ad elementi biografici, economico-sociali, insomma storici, come invece farà tanta storiografia filosofica italiana post-idealistica o non-  idealistica a lui coeva: solo la storia della filosofia spiega la genesi di un pensiero filosofico. Sarà opportuno a questo punto approfondire il problema, per capire fin dove il pensatore fiorentino abbia spinto la "crivella" della sua critica nei confronti dell'impostazione storiografica dell'idealismo italiano, e se a tale critica si sia sempre mantenuto fedele. Infatti nella questione dell'inizio della filosofia (di una qualunque filosofia) sembra nascondersi il segreto della storicità della filosofia medesima e annidarsi tutte le difficoltà che accompagnano il rapporto della filosofia con la storia.Nel quarto capitolo della tesi di laurea il giovane filosofo si era soffermato con particolare attenzione sul problema, indagando l'aporia di pensare la logica dell'astratto come un dato; se così fosse, allora un determinato periodo storico, «isolato dal flusso totale, e inquadrato da altre filosofie che lo hanno preceduto e seguito», finirebbe inevitabilmente per essere valutato in base alla sua incompiutezza'*. Con la conseguenza che la storia dellafilosofia si atteggerebbe a «un susseguirsi di sistemi ognuno  incompleto e postulante un superamento, ognuno punto di partenza per uno sviluppo che se ha in se stesso il suo germe, ha la sua maturazione fuori di lui». In questo quadro concettuale la genesi della filosofia consisterebbe in fondo nel riprendere e ripensare sempre i medesimi problemi già dati, sicché le diverse filosofie non potrebbero che avere «'identico significato»'. Al contrario, la mente non si appaga di ciò che è dato ma solo di ciò che viene costruendo, in quanto essa è attività.  Così l'uomo che si raccoglie e medita dinanzi ai problemi che la vita gli offre e cerca in sé una risposta che lo appaghi, ha bisogno che questa non suoni formula vuota, sebbene semplifichi e sembri spiegare ogni difficoltà: non cerca quindi una ben elaborata filosofia che appaia nel suo complesso una pura e astratta contemplazione sotto la quale la vita reale fluisca. Non cerca cioè risposte che non lo possono mai soddisfare pienamente perché non toccano la vita che egli realmente vive, e perciò non possono far sentire la propria necessità in modo tale da imporsi a lui come sua stessa vita. Ma cerca risposte tali che siano della stessa natura della domanda e scendano sullo stesso terreno dal quale quella sorge: sorge dalla vita, e chiede qualcosa che nella vita scenda e la costituisca, e la faccia essere. E se vivere è sviluppare le proprie energie ed attuare l'attività che dentro ci pulsa, è chiaro che una filosofia sistematicamente costituita non possa appagare per la sua staticita, ma occorra ricostruirla, elaborarla, appunto perché la si deve alimentare con la vita stessa, e la vita si deve alimentare di essa?%.  La filosofia sorge dalla vita, è essa stessa vita, è risposta vitale alla domanda posta dalla vita medesima. Mai come in questo passo Scaravelli ha cercato di negare la divaricazione tra forma e vita, tra la pura e astratta contemplazione filosofica e il fluire della vita «reale» (come se quella astratta contemplazione fosse sì vita, ma irreale appunto perché astratta). Eppure occorre chiedersi: cosa significa qui « vita»? Il mondo preriflessivo, non informato dalla luce del logo? Oppure la vita stessa del logo? Situazione aporetica, questa, quante altre mai: se vita e logo sono eterogenei, come è possibile che la vita domandi e il logo risponda? La vita parla la lingua del già-dato, il logo quella dell'attività. E se invece vita e logo sono omogenei, come negare che la vita altro non sia che logo astratto, appunto già da sempre logo e non vita, il quale logo astratto, se pensato nella sua verità, è momento necessario al farsi concreto del logo concreto?  Che questa conclusione aporetica, non avvertita dal giovane filosofo, ma annidantesi nella pagina sopra riportata, sia inevitabile, lo mostra l'adesione con la quale poco più avanti Scaravelli discute dell'identificazione di storia e filosofia, in cui la storia prende il posto che qui aveva la vita. Ancora una volta Scaravelli, nel tentativo di rendere più coerente il pensiero che discute, osserva che, nonostante la riforma della dialettica hegeliana neghi la legittimità di una trattazione filosofica della natura che preceda e sia momento preparatorio alla filosofia dello spirito, l'idealismo italiano (quindi, anche quello di Croce) è ancora affetto da naturalismo nel modo di fare la storia. Così Gentile - lo si è già ampiamente osservato - considerando il pensiero antico periodo dell'oggettività e quello rinascimentale della astratta  setivi, ne fa me sigi carli ticate pe preparato la isogna sagitività del pensiero  la dialettica spirituale crea la realtà formando nel suo processo gli infiniti problemi che costituiscono appunto il mondo storico. La filosofia quindi viene ad essere la sorgente stessa della storia, ed in quanto la storia non è che la vita dello spirito, ed il suo formarsi, ed il formarsi spirituale è filosofia, la filosofia si risolve nella storia, e vi si identifica. [...] Il mondo storico quindi, è quello che esaurisce in sé tutto il processo spirituale, ed è su questo terreno che i problemi filosofici vengono discussi ed elaborati, in quanto con l'elaborarli si vien formando la storia appunto che è flusso reale dello spirito??.come si antern vada i dunte il mestie col lusini de itime la ime di del de la dios no chà  sorge dalla vita/storia è di questa formatrice, tanto che con pari diritto si può dire che sia la vita/ storia a sorgere ed essere alimentata dalla filosofia. Anzi, più radicalmente, se la vita di cui qui si discute non è vita precategoriale ma è «la vita dello spirito», e quindi storia, e se la storia è processo spirituale in quanto la filosofia ne è il principio, se insomma la vita/storia è identica alla filosofia, allora la filosofia trova la sua genesi nella stessa filosofia e non in una impossibile realtà altra da lei.  C'è tuttavia un altro documento che dobbiamo prendere, sia pur brevemente, in considerazione, prima di chiudere la discussione: si tratta di una lunga lettera scritta a Guido Calogero il 19 luglio 1928.  Documento per noi importante, in quanto in esso Scaravelli non solo prende le distanze da un modo di fare storia della filosofia che ritiene le filosofie del passato qualcosa che possa essere "superato", ma soprattutto intende pervenire a «una posizione filosofica a-polemica» che non crede di poter distinguere nei sistemi filosofici quanto è da accettare e quanto è da scartare, né va alla caccia dell'errore che faccia crollare l'intera costruzione.  «Nessun filosofoè accettabile, nessun punto del suo pensiero è  incamerabile nel mio: né io mi fermo su ciò che dice [...]; quello che conta [...] è il come dice quello che dice, il tono che pervade l'edificio, l'armonia interna alla sua visione». Ogni filosofia è infatti espressione, espressione «di sé stesso», della propria «personalissima [...] esperienza di vita». Sembra quasi che Scaravelli intenda "ridurre la filosofia sotto il concetto generale dell'arte" (le metafore musicali, in effetti, ritornano frequentemente nella lettera: «tono», «armonia», «note, armonici», «timbro»), farne espressione dell'individualità per renderla veramente storia, cioè affermazione del nuovo: «le parole, gli schemi, i concetti, le distinzioni, le dialettiche, le sussunzioni [delle diverse filosofie] non sono per me che tecniche diverse con cui ognuno esprime sé stesso»; e aggiungeva, con caustica e toscanissima battuta, che «se uno è bischero apparirà tale qualunque tecnica adoperi, modernissima o arcaica, e se è un grande, idem con patate»?8.  Qui il rapporto tra filosofia e vita sembra ribaltarsi: non è più la vita ad esser vita della filosofia, ma è la filosofia ad esser espressione della vita, cioè della esperienza di vita del singolo pensatore. Ma, pur se rovesciato, il quadro teorico emerso dalla discussione de La logica dell'astratto non muta: infatti, se il valore di una filosofia non sta nel suo significato (ciò che dice), bensì nella sua espressione (come lo dice), ciò vuol dire che il suo valore è nella forma e non nel contenuto (il quale, essendo esperienza, addirittura sentimento, non può essere condiviso né valutato da me che ho altre esperienze e altri sentimenti:  «Nessun filosofo è accettabile, nessun punto del suo pensiero è incamerabile nel mio»). E la forma della filosofia è logo, logo e non vita. Per cui la genesi della filosofia, in quanto genesi ideale, non potrà prodursi nella vita, «cruda e verde» avrebbe aggiunto il vecchio Croce molti anni dopo, ma solo nella sua espressione - cioè nella forma del logo, nella filosofia stessa. Sicché, da questo punto di vista, Scaravelli sembra muoversi ancora all'interno dell'orizzonte teorico dell'idealismo italiano.  Infatti, si deve aggiungere senza tema di allungare ulteriormente una considerazione già ampia ma che concerne un punto assolutamente centrale, l'idealismo italiano molto si affaticò intorno  audendo e piania la Colini del pie dicie del sile, spale a epo ali icofcinte.  la differenza tra la concezione del reale come spirito (Hegel) e la concezione del reale come storia (Croce) consista nel fatto che lo spirito, «indagando nella propria essenza e andando idealmente a ritroso nella propria genesi», incontra momenti sempre più poveri ed elementari, mentre la storia trova sempre le proprie identiche forme, «sempre concrete nelle opere in cui esse hanno l'esistenza»" - scrive:  Ogni singola forma ha realtà in sé; e l'esistenza è la loro connessione. Questa è la ragione in sede speculativa, cioè la giustificazione teoretica, di una affermazione su cui il Croce tanto insiste: che l'opera d'arte e l'opera difilosofia non nascono per partenogenesi, ciascuna solo dalla propria forma (per una sorta di scissiparità), cioè dallo studio dall'analisi o dal modello di un'altra opera d'arte o d'un'altra opera di filosofia; ma nascono dalla vita tutta quanta, dall'esistenza. Perché un'opera sia realmente esistente è necessario che abbia le proprie radici nell'esistenza, cioè nel nesso in cui le forme sono reali; e perciò, in quel nesso, nelle forme tutte quante30.  Ora, la filosofia potrà nascere «dalla vita tutta quanta» solo se le forme sono reali e se reale è il loro  nesso. Scaravelli risponderà alla questione nella conclusione dell'opera, in una pagina esemplarmente ardua per la concisione in cui l'argomentazione vi è rinserrata". La concezione crociana come storia soddisfa l'esigenza di coerenza interna del sistema ma non l'esigenza di concretezza dei suoi elementi, finendo così per offrire kantianamente «"un trattato del metodo"» ma non «la storia e la    realtà stessa nel suo quotidiano formarsi». Infatti, se da una parte a fondamento di tutte le opere e concezioni teoretiche e problemi di cui è tessuta l'esistenza c'è una «forma come principio di cambiamento», cambiando la quale non esisterebbe più alcun cambiamento, una forma eterna e immodificabile di cui quelle opere, concetti e problemi sono «manifestazioni» e non «forme assolute»; dall'altra, proprio perché manifestazioni della eterna forma e non a loro volta forme, quelle opere, concezioni e problemi mancano di «vera concretezza ed esistenza», sono soltanto «possibilità [...] delle sempre identiche forme». Di qui l'aporia: o si mantiene l'assolutezza delle forme eterne, ma allora non acquistano concretezza le opere, le concezioni e i problemi; oppure si considerano reali solo queste opere, queste concezioni e questi problemi, ma allora «quelle forme sfumano, e queste concretezze si dirompono nell'inconcepibile». O intelligibilità senza concretezza, o concretezza senza intelligibilità.Perciò, se si tiene ferma l'esigenza della intelligibilità della filosofia cercandone di comprendere la  genesi ideale, la singola filosofia, realizzatasi in opere, concetti e problemi, non potrà rinviare che alla sua stessa forma, a mai al nesso delle forme, cioè all'esistenza tutta quanta.  Il risultato che ci si prospetta è paradossale: dissolta la storia della filosofia fatta di "superamenti" e  "sviluppi", emerge una comprensione della tradizione filosofica occidentale in cui alcuni assunti della storiografia idealistica vengono non respinti, ma radicalizzati al punto da far dubitare proprio della loro coerenza col quadro teorico idealistico. Innanzi tutto le filosofie debbono essere interpretate a partire dai propri principi; siamo dinanzi alla più piena rivendicazione dell'autonomia della filosofia: ogni singolo sistema di pensiero deve essere interpretato solo a partire da se stesso", dal suo nocciolo teoretico (il «germe di vita»), e valutato nella sua importanza in base alla coerenza - tra l'esperienza di vita e gli strumenti teorici scelti per esprimerla, e tra le stesse tecniche adoperate (se vogliamo utilizzare il lessico della lettera a Calogero), tra il principio generatore, la sua forma immanente, e i suoi elementi a quello subordinati -. In secondo luogo, le filosofie, non disposte più in una successione storica che sia anche dispensatrice del loro valore, sono tutte idealmente contemporanee, e perciò ogni filosofia può essere unainterlocutrice altrettanto legittima di un'altra nella discussione filosofica. Come appunto avviene nella  Critica del capire.  4. Tra storicismo e non: la storia della filosofia nella Critica del capire  Se Scaravelli, grazie al lungo percorso, che abbiamo cercato di ricostruire, di discussione critica dei presupposti della storiografia filosofica dell'idealismo italiano e del suo storicismo, approda nella Critica del capire alla individuazione dei principi trascendentali di una nuova e più adeguata storiografia, nella effettiva discussione delle filosofie del passato non sempre si affranca dalla sua origine. Di qui l'impressione di una qualche ambiguità che suscitano alcune pagine del suo capolavoro.  Da un lato, come già accennato, Scaravelli radicalizza la tesi della contemporaneità della storia, pervenendo ad esiti decisamente divergenti da quelli di Croce e Gentile: contemporanea o attuale è una filosofia non tanto perché viene resa tale dall'atto di pensiero che la pensa, quanto perché l'analisi scaravelliana, avendo per scopo di far riemergere tutti i problemi della tradizione filosofica, «dovrebbe far contemporanei tutti i filosofi, e invitarli tutti a una continua discussione»'. Contemporaneità, dunque, non a parte subjecti, ma a parte objecti. Non sfugga la differenza di atteggiamento tra Scaravelli e i maestri dell'idealismo italiano. Infatti come è necessario discutere la coerenza interna di ogni filosofia apparsa nella storia juxta propria (della filosofia, non della storia) principia, così è opportuno porsi dal punto di vista della filosofia contemporanea per discutere dei problemi filosofici, perché più proficuo ed efficace, quindi più capace di indurre all'ascolto e alla discussione il pubblico, ma non perché sia più vero: «Adopro l'italiano e non il latino. Ma con questo non credo che l'italiano sia più ricco, più profondo ecc. del latino. Cioè non credo che l'italiano abbia superato il latino». Perciò, per quanto riguarda il rapporto fra realtà e conoscenza, scrive a Fossi nella lettera del 20 agosto 1937:  Io accetto l'identità realtà = conoscenza (o conoscenza = produzione di realtà [...)) come cosa pacifica [...] mi metto in pieno idealismo. E dopo averlo dato per ormai lapalissiano, discuto la struttura del conoscere; e qui dentro trovo tanti mai dubbi, e distinzioni e rapporti, e diavoli e santi, e quel vecchio problema già liquidato e dimenticato, viene invece a vendicarsi ampiamente e risorge più vigoroso di prima proprio perché interno al proprio purissimo idealistico conoscere34.interlocutrice altrettanto legittima di un'altra nella discussione filosofica. Come appunto avviene nella  Critica del capire.  4. Tra storicismo e non: la storia della filosofia nella Critica del capire  Se Scaravelli, grazie al lungo percorso, che abbiamo cercato di ricostruire, di discussione critica dei presupposti della storiografia filosofica dell'idealismo italiano e del suo storicismo, approda nella Critica del capire alla individuazione dei principi trascendentali di una nuova e più adeguata storiografia, nella effettiva discussione delle filosofie del passato non sempre si affranca dalla sua origine. Di qui l'impressione di una qualche ambiguità che suscitano alcune pagine del suo capolavoro.  Da un lato, come già accennato, Scaravelli radicalizza la tesi della contemporaneità della storia, pervenendo ad esiti decisamente divergenti da quelli di Croce e Gentile: contemporanea o attuale è una filosofia non tanto perché viene resa tale dall'atto di pensiero che la pensa, quanto perché l'analisi scaravelliana, avendo per scopo di far riemergere tutti i problemi della tradizione filosofica, «dovrebbe far contemporanei tutti i filosofi, e invitarli tutti a una continua discussione»'. Contemporaneità, dunque, non a parte subjecti, ma a parte objecti. Non sfugga la differenza di atteggiamento tra Scaravelli e i maestri dell'idealismo italiano. Infatti come è necessario discutere la coerenza interna di ogni filosofia apparsa nella storia juxta propria (della filosofia, non della storia) principia, così è opportuno porsi dal punto di vista della filosofia contemporanea per discutere dei problemi filosofici, perché più proficuo ed efficace, quindi più capace di indurre all'ascolto e alla discussione il pubblico, ma non perché sia più vero: «Adopro l'italiano e non il latino. Ma con questo non credo che l'italiano sia più ricco, più profondo ecc. del latino. Cioè non credo che l'italiano abbia superato il latino». Perciò, per quanto riguarda il rapporto fra realtà e conoscenza, scrive a Fossi nella lettera del 20 agosto 1937:  Io accetto l'identità realtà = conoscenza (o conoscenza = produzione di realtà [...)) come cosa pacifica [...] mi metto in pieno idealismo. E dopo averlo dato per ormai lapalissiano, discuto la struttura del conoscere; e qui dentro trovo tanti mai dubbi, e distinzioni e rapporti, e diavoli e santi, e quel vecchio problema già liquidato e dimenticato, viene invece a vendicarsi ampiamente e risorge più vigoroso di prima proprio perché interno al proprio purissimo idealistico conoscere34.In ultima analisi nella Critica del capire Scaravelli mostra di aver maturato una concezione della filosofia diversa da quella idealistica: filosofia è «porre il problema, e vivere il problema, concludere con la fede nel riporre sempre il problema. E sempre essere al principio senza accumulare scienza»". In conseguenza di ciò nella Critica del capire i diversi filosofi sono convocati all'interno della discussione di un problema, per illuminarlo di volta in volta con l'esemplarità della loro posizione teoretica. Sicché la discussione non procede seguendo una successione storica. Ad esempio, nel capitolo dedicato giudizio, l'analisi prende le mosse da Kant, per passare a Hegel, poi si ritorna a Kant, e prosegue ancora passando per Cartesio, di nuovo per Kant, Schelling,  Fichte, Hegel ecc. fino a Croce. Ma non si  ricostruisce la genesi e lo sviluppo del problema a partire dai diversi filosofi che l'hanno dibattuto, bensì, al contrario, le posizioni dei singoli servono ad illustrare esemplarmente la genesi e lo sviluppo del problema che urge verso la soluzione.  Dall'altro lato, però, Scaravelli era pienamente consapevole di non essersi completamente liberato dell'impostazione storicistica nella quale si era formato, per lo stesso modo in cui era andato elaborando la riflessione critica dei problemi filosofici. Cioè, non sempre ha la forza di tener ferma la subordinazione dello sviluppo temporale, con i vari e successivi "superamenti", alla chiarificazione  concettuale del problema.Lo mostra con nettezza il seguente passo della lettera, inviata  presumibilmente a Ernesto Codignola, del 14 agosto 1935, in momento decisivo della stesura del suo capolavoro:  In realtà io mi vengo, in questo libro, faticosamente spogliando di manie storico-espositive: e perciò rinvango il passato: alla Gentile - purtroppo -, che rimpinzava la sua Teoria generale e la sua Logica con esposizioni e critiche di Platone-Aristotele-Kant etc. etc.; e così ho fatto io. Ma se le elimino - in coscienza - dovrei rifare il libro di sana pianta. Perché questo libro è proprio nato e vissuto (povero ragazzo) in quest'epoca disgraziata in cui io sono (o ero) a cavallo fra una posizione storicistica e una... che ancora non mi è ben chiara ma che dovrebbe nascere da questo mio lavoro36.  Prendiamo allora in esame, a prova di tale incertezza, un esempio concreto di analisi storica di una filosofia nella Critica del capire. Nella seconda parte del capitolo Gli opposti Scaravelli si interroga sul rapporto fra contraddittorietà e distinzione all'interno del rapporto fra i contraddittori A non A.  Secondo la «rigorosa posizione di Parmenide» il puro contradditorio non esiste. Ma, argomenta  Scaravelli, essendo il contraddittorio, per quanto indeterminato, il «substrato indispensabile di ogni cosa» - infatti A non A è la realtà -, tutto quanto scomparirebbe: «eliminato il contraddittorio, ogni  contrarietà, ogni opposizione, ogni distinzione, vanisce nel sogno di esseri effimeri vaganti nel nulla».  Parmenide, come Schelling, è uscito dalle distinzioni del mondo «con un incanto, con un salto nell'identità», che non riesce a giustificare. «E lì dentro, se proprio chiusi i portoni di bronzo si sono tagliate le connessioni con la contraddittorietà, non c'è nulla da vedere né nulla da sentire: la vita vi è terminata; anzi la vita non vi è mai cominciata»*  Perché la posizione di Parmenide è rigorosa, se non è capace di giustificare l'identità avendo negato la contraddittorietà? Perché Parmenide non accetta di ammettere ciò che non può cogliere, e quindi pensare, nella sua purezza.  Per vivere occorre ammettere il contradittorio, dice il Forestiero di Elea. E il puro contradittorio è proprio come la vita: non si coglie mai. Cogliere la vita... ma la vita si vive; cogliere il trapasso fra essere e non-essere... ma quando si ficca il viso a fondo, e l'essere, puro essere, privo di ogni determinazione, scompare, e ci si trova dinanzi il Nulla, il passaggio non si vede avvenire: è avvenuto. Non passa, è passato, ammoniva Hegel. La riflessione arriva troppo tardi; la vita è già stata.Parmenide, potremmo aggiungere noi, si ritrae davanti a questa trasformazione, anzi, la nega, perché nega anche qualsiasi distinzione fra i due A del contraddittorio A non A. E da questa negazione salta nell'identità dell'essere. Ma si tratta di una scelta ingiustificata. Se infatti si toglie  dalla contradittorietà ogni sospetto di distinzione, ogni ombra di distinzione, si ha l'in distinto. E basta.  Trasformare l'indistinto in identico, fermarlo nell'uno, richiede un arresto nel processo, un capovolgimento violento, un vigore sintetico che forzi l'indistinto e lo stringa in sé, lo renda compatto, omogeneo, uno, identico:  Essere. Questa violenza a quel processo che porterebbe i due termini della contradittorietà - scomparsa ogni distinzione - fino all'indistinto, violenza che lo arresta e inverte, si chiama Parmenide. Una fermata mentale:  P'Uno38.  Dunque, la coerenza di Parmenide sta nell'esigenza di ammettere solo ciò che si può pensare: ma se il contraddittorio non si può pensare nella sua purezza, senza la distinzione, se la distinzione tra i due A del rapporto di contraddittorietà non si può pensare, perché il non diverrebbe forza non solo  distinguente  ma anche annichilente,  ricacciando il secondo A nel non-essere  A, e quindi  nell'impensabilità del non-essere, allora non si può ammettere né la contraddittorietà né la distinzione.  Si tratta però di una coerenza che mostra due principali limiti: il primo consiste nel fatto che «il non distinto non è identico a identico», cioè che il processo di dissoluzione della distinzione nell'indistinto non è di per sé costretto ad arrestarsi nell'identità"; il secondo nella constatazione che dimostrare l'assurdità della contraddittorietà non significa dimostrare né la validità né l'esistenza dell'identità, «perché il metodo dimostrativo su cui qui si fa leva è quello della "dimostrazione per assurdo"; e la dimostrazione per assurdo non fonda l'identità, ma si basa su di essa».  La genesi intima del pensiero parmenideo è dunque nella esigenza di costringere l'indistinto, la perdita di ogni ombra di distinzione, nella pura identità dell'essere e dell'uno. Esigenza che si traduce in una decisione violenta, in quanto per ottenere la trasformazione dell'indistinto in identico si deve agire dall'esterno (cioè introducendo esigenze estranee) sul processo di dissoluzione della distinzione. L'aver individuato la genesi intima del pensiero parmenideo, quindi, permette a Scaravelli di valutarne la coerenza: esso è giudicato rigoroso perché, senza fare concessioni al senso comune,  muovendo  dall'inammissibilità di accogliere ciò che non si può pensare puramente, nega ogni contraddittorietà ed ogni distinzione, per concludere nella più salda e bronzea identità. Tuttavia, proprio tenendo fermo il principio di coerenza, Scaravelli può sostenere che «se non è facile contraddire Parmenide [...] è impossibile contraddire la verità». Quasi che il processo di disvelamento della verità sia inarrestabile e affermandosi ricacci nelle tenebre dell'errore tutto quanto si discosta da essa. Perciò «il processo prosegue, e Parmenide rimane indietro nella storia del pensiero»".  Espressione, questa, sorprendente, che forse si potrebbe definire un lapsus mai emendato"  rivelatore di un non risolto legame con lo storicismo idealistico e di quella incertezza di cui si diceva commentando la lettera a Codignola; su ciò è necessario fermare l'attenzione per svolgere due  considerazioni. Salta infatti subito agli occhi come una tale affermazione sembri ridurre Parmenide a una tappa necessariamente superata nella storia della filosofia, proprio nella migliore (o peggiore)  tradizione storicistica, denunciata da Scaravelli fin dalla tesi di laurea. Proseguiamo allora nella lettura della Critica del capire, per chiederci in che senso la storia del pensiero prosegua il suo cammino - se non verso la verità, almeno lontano dall'errore. Subito dopo la trattazione di Parmenide (e dopo un'ampia analisi della dimostrazione per assurdo), cioè del tentativo di abolire ogni distinzione nella contraddittorietà, emerge il tentativo di pensare la distinzione senza la contraddittorietà. Privati del non-essere reciproco che li fa termini di una relazione, «i distinti si separano ...] si possono suddistinguere e dividere e moltiplicare all'infinito». L'arresto dello sbriciolamento cui i distinti senza la contraddittorietà vanno incontro può avvenire solo grazie ad una forza pari alla distinzione: l'atomo di Democrito «è un  "fermo", un ostacolo», un rendere identiche le parti che la distinzione tentava ancora di separare.  Essendo questo vigore estraneo alla distinzione, la disgregazione continua: i puri distinti, «perso ogni reciproco rapporto, ogni riferimento, non son neppure 1 molti sterminati diversi, ma, indeterminati interiormente ed esteriormente, vagano nel vacuo irrelato, nell'indistinto; e diventano, ciascuno, mero indistinto». Non interessa ora la conclusione che Scaravelli trae dall'esame dell'identità, della  distinzione e della contraddittorietà (sono principi cooriginari, tutti necessari e nessuno sufficiente), quanto un'altra e implicita conclusione che può trarsi da questa pagina: la genesi del pensiero di Democrito è nella filosofia di Parmenide, nella sua negazione della distinzione e nel tentativo opposto di pensare la pura distinzione senza la contraddittorietà. La filosofia sorge dalla filosofia*.  E i filosofi sono nomi con cui designare posizioni filosofiche. In secondo luogo, infatti, l'analisi scaravelliana sembra risolvere Parmenide (e Democrito) in una determinata posizione filosofica: essendo una posizione filosofica, può ripresentarsi nel corso del pensiero, rappresenta cioè un'esigenza duratura, e Parmenide è il nome di questa esigenza: «tutte le volte che si desidera o si sogna di cancellare la distinzione, sorge l'Uno come mèta, come termine cui porta il sogno e il desiderio. E l'Uno prende il nome di Sostanza, o di Amore, o di Beatitudine della trasparenza intellettuale»". Non solo Parmenide, dunque, ma Spinoza, Schelling e tanti altri ancora... Sicché sorge il problema di come sia conciliabile il ripresentarsi di una posizione filosofica con la originalità e novità attribuita ad ogni filosofo". Cioè, detto nei termini tradizionali del dibattito teorico sulla storiografia filosofica in Italia, il problema della continuità e della discontinuità nella storia del pensiero.  5. Continuità e discontinuità nella storia del pensiero  Dopo la pubblicazione della Critica del capire Scaravelli intraprese contemporaneamente due ricerche: la prima dedicata all'Analitica trascendentale kantiana, la seconda alla genesi della concezione della realtà come storia. Ricerche complementari e gemmate da un unico ceppo, l'approfondimento della sintesi a priori, del suo carattere e della sua sopravvivenza nella tradizione idealistica", che avrebbero dovuto concretizzarsi in due monografie. Com'è noto, solo la prima, e in forma ridotta rispetto al progetto iniziale, vide la luce nel 1947 col titolo Saggio sulla categoria kantiana della realtà; alla seconda, che Scaravelli avrebbe voluto intitolare Dalla logica come scienza del concetto puro alla logica come teoria del giudizio individuale, invece rinunciò, sebbene l'elaborazione di alcune parti dell'opera fosse assai avanzata.Questi due lavori assumono per noi una notevole importanza per il fatto che in entrambi Scaravelli tocca la questione della continuità e della discontinuità della storia del pensiero, scientifico nella prima opera, filosofico nella seconda. Infatti, nel Saggio si presenta la questione della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna; nello scritto dedicato alla logica crociana, invece, la questione - apparentemente altra ma in realtà medesima - della segreta continuità di modi di pensare che, sorti per soddisfare alcune esigenze, continuavano ad operare in contesti teorici e per fini affatto diversi da quelli nei quali e per i quali erano stati originariamente concepiti, con conseguenze distorsive molto importanti. Scaravelli si riferisce in particolare alla «mentalità» che ha generato la kantiana sintesi a priori e che sopravvive come « un vero e proprio reliquato» nella dialettica hegeliana", producendo i suoi effetti anche nell'idealismo italiano"".  Prima di dare inizio all'analisi dei testi scaravelliani sarà opportuno premettere una osservazione. Il problema della continuità e della discontinuità nella storia del pensiero fu uno dei temi principali del dibattito sullo statuto teorico della storiografia filosofica in Italia, assai vivo negli anni Quaranta e Cinquanta", cioè proprio nel periodo di elaborazione degli scritti di cui si sta qui ragionando. E tuttavia non mi pare che in quel dibattito si sia a sufficienza rilevata la difficoltà di cogliere la natura delle categorie di continuità e di discontinuità. Infatti, qualora siano pensate astrattamente - come per lo più è avvenuto e ancora avviene -, come indipendenti e addirittura reciprocamente escludentisi, quella natura inevitabilmente sfugge, in quanto esse, al contrario, sono per necessità correlative. Non si dà infatti discontinuità se non sullo sfondo di una continuità rispetto alla quale i discontinui si distinguano e che alla discontinuità permetta perciò di istituirsi. E, d'altra parte, la continuità non può essere pura omogeneità, ripetizione dell'identico, perché, se così fosse, non vi sarebbe continuità ma identità, puntuale identità, che nega il dispiegarsi del continuo nel tempo, sicché alla continuità necessita almeno un "grano" di discontinuità se vuole davvero essere continuità e non serrarsi nell'immobile identità.Il problema è affrontato da Scaravelli nella Nota che chiude la lunga e fondamentale lettera a Fossi del 10 gennaio 1934: ritornando sul rapporto tra distinti e contraddittori, il filosofo fiorentino sottolinea come i contraddittori siano solo parte del rapporto tra due distinti e non esauriscano quindi il rapporto medesimo. Prendiamo ad es. in considerazione i distinti A e B: B non è semplicemente non A, ma una delle possibili determinazioni di non A, che appunto ha il vigore di distinguersi da non A. Al contrario, se ammettiamo che i contraddittori possano annullare ogni distinzione, che nessun B possa distinguersi rispetto ai C, D ecc., perché tutti necessariamente identici a non A, allora otteniamo non il nulla, bensì l'indistinto. Vediamo cosa ne risulta per il nostro problema. La situazione teoretica che Scaravelli ha ipotizzato - invece di avere un rapporto costituito da distinti e contraddittori si ha un rapporto costituito dai soli contraddittori - porta al fatto che l'«indistinto che rimane al posto del rapporto» garantisce quel «minimum necessario alla continuità». Ma allora cadiamo nella metafisica aristotelico-tomista, nella quale la materia che funge da sostrato garantisce il divenire, il quale è passaggio dalla privazione alla forma, ovvero dalla potenza all'atto. «Ma a me, personalmente, questo non interessa, perché ritengo la continuità una delle tante interpretazioni del rapporto stesso. Cioè la continuità storica sarebbe, per me, una teoria che interpreta in modo speciale (e già metafisico) la relazione tra contraddittori e distinti; teoria che non ha fondamenti sufficientemente saldi». In cosa consiste l'interpretazione metafisica del rapporto? Nell'identificare "indistinto" ed "omogeneo" (la continuità storica sarebbe - contraddittoriamente - una omogeneità che di dispiega identicamente nel tempo): «e ciò è possibile se si ha di già una metafisica, o una concezione in cui non si tien conto che l'indistinto non può fare da omogeneo, ossia da "identico", ossia non lo si può considerare come se avesse una sua rigidità»°.  Ora, della continuità non possiamo fare a meno, pena la negazione stessa di qualsivoglia rapporto tra distinti. Allora, come interpretare non metafisicamente la continuità storica, sottraendola sia alla  omogeneità che fa identici tutti i distinti, sia alla irrelatività dei distinti di cui si nega ogni relazione che non sia appunto quella della distinzione? La peculiarità della risposta scaravelliana a questo problema sta nell'uso, non tematizzato, della nozione di «mentalità»: si tratterà di comprendere le continuità prodotte dalla forza vincolante di una «posizione mentale» che orienta la ricerca di filosofi e scienziati; e inoltre le discontinuità che si producono tra mentalità diverse che si succedono alle precedenti e si distinguono dalle coeve e differenti, e che nel loro succedersi e distinguersi sembrano scandire la storia. Occorrerà allora prima ripercorrere l'uso fatto da Scaravelli di questa nozione per comprenderne poi la pregnanza teorica nelle ricerche successive alla Critica del capire.  6. Una soluzione non tematizzata: la nozione di mentalità  La nozione di mentalità - e dei suoi equivalenti «posizione mentale», «atteggiamento mentale», ecc. - compare molto presto nella riflessione teorica di Scaravelli e, cosa assai significativa, proprio in relazione alla teoria gentiliana della storiografia filosofica. Discutendo nel terzo capitolo della tesi di laurea la prima triade della logica di Hegel, il giovane filosofo mette in luce come la difficoltà di dedurre il divenire dalla opposizione di essere e non essere nasca «dalla insufficiente coscienza della propria posizione mentale nel risolvere il problema»". Dove si noti la divaricazione tra la posizione mentale (o mentalità) e la coscienza di essa, ovvero tra l'adesione profonda ad un modo di pensare e la consapevolezza di tale adesione cui si attribuisce la responsabilità di impostare il problema non nei termini di cui si è coscienti ma in quelli cui in effetti si aderisce.  Non si può certo affermare che nella tesi di laurea Scaravelli fosse consapevole della importanza che la nozione di mentalità poteva avere nella ricostruzione della storia del pensiero scientifico e filosofico.  Ma già nella lettera del 2 gennaio 1926 a Piero Fossi vi presta attenzione; in essa, parlando del libro diManzoni sulla rivoluzione francese, Scaravelli definisce antistorica la mentalità dello scrittore lombardo e si interroga subito dopo sul significato di mentalità:  Quando si dice antistorica la mentalità del secolo XVIII, si fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa di vero o no? Cosa c'è di vero in questo luogo comune? Di falso ci sarà che pretende di legare insieme, accatastare, tanti uomini in una sola denominazione (dispregiativa, negativa o no importa poco) che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però è strano che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate poche eccezioni, si sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si pensa) che hanno molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di impostare la questione, molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte soluzioni e piccolissime difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è quest'aria di famiglia? A ogni modo è su questa somiglianza di molti particolari accidentali, poco importanti, a volte trascurabili, sempre secondari, ma per il numero e la circostanza notevolissimi, e a volte imponenti, è su questa somiglianza direi del pulviscolo atmosferico, che aleggia intorno a ogni viso, che si basa il giudizio sul carattere complessivo di un'epoca. Giudizio schematico  perene cualzo astratto. anzi perene somma e non grualzio ma somma uale, erneace, scocclante e mta clante volte, ma ineliminabile. Dunque non è falso che la "mentalità" di un secolo possa essere in un modo, per esempio antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo stato quasi gassoso, come è quasi fluido il pulviscolo che addiziona e stringe, ma falsa no... Ma all'ingrosso, ecco: se è vero che di molti schemi mi son liberato così che se qualcuno venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia greca è la filosofia dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili, io strillerei come un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora non vedo che ci sia di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità antistorica": nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio,  Spinoza ecc. ecc. ed anche Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non troppo53.  È importante sottolineare, in primo luogo, come la nozione di mentalità (termine di uso comune già  da un ventennio) 54  ricorra in testi e autori centrali nella formazione di Scaravelli. Non perché,  individuata la fonte, il problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo uso, che è di volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è possibile che la "logica" insita nella fonte persista in chi la utilizza, e che le difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di questo. Si pensi, ad es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile nega la possibilità di una storia della scienza che non sia una storia della filosofia, la quale considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei concetti filosofici immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di questi concetti non pel valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato, quale determinazione oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in perpetua formazione, per cui si pongono via via e si risolvono i singoli problemi scientifici»». Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire fenomenologica, tra il valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la mentalità per mezzo della quale egli pone e risolve i problemi.  Ancor più significativo mi sembra l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva recensito", si legge che la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è ricchissima di elementi fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario della «mentalità dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più facilmente le forme logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi di Levy-Bruhl sul prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in opere precedenti, che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In Macchioro, come in Levy-Bruhl, laManzoni sulla rivoluzione francese, Scaravelli definisce antistorica la mentalità dello scrittore lombardo e si interroga subito dopo sul significato di mentalità:  Quando si dice antistorica la mentalità del secolo XVIII, si fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa di vero o no? Cosa c'è di vero in questo luogo comune? Di falso ci sarà che pretende di legare insieme, accatastare, tanti uomini in una sola denominazione (dispregiativa, negativa o no importa poco) che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però è strano che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate poche eccezioni, si sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si pensa) che hanno molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di impostare la questione, molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte soluzioni e piccolissime difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è quest'aria di famiglia? A ogni modo è su questa somiglianza di molti particolari accidentali, poco importanti, a volte trascurabili, sempre secondari, ma per il numero e la circostanza notevolissimi, e a volte imponenti, è su questa somiglianza direi del pulviscolo atmosferico, che aleggia intorno a ogni viso, che si basa il giudizio sul carattere complessivo di un'epoca. Giudizio schematico  perene cualzo astratto. anzi perene somma e non grualzio ma somma uale, erneace, scocclante e mta clante volte, ma ineliminabile. Dunque non è falso che la "mentalità" di un secolo possa essere in un modo, per esempio antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo stato quasi gassoso, come è quasi fluido il pulviscolo che addiziona e stringe, ma falsa no... Ma all'ingrosso, ecco: se è vero che di molti schemi mi son liberato così che se qualcuno venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia greca è la filosofia dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili, io strillerei come un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora non vedo che ci sia di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità antistorica": nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio,  Spinoza ecc. ecc. ed anche Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non troppo53.  È importante sottolineare, in primo luogo, come la nozione di mentalità (termine di uso comune già  da un ventennio) 54  ricorra in testi e autori centrali nella formazione di Scaravelli. Non perché,  individuata la fonte, il problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo uso, che è di volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è possibile che la "logica" insita nella fonte persista in chi la utilizza, e che le difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di questo. Si pensi, ad es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile nega la possibilità di una storia della scienza che non sia una storia della filosofia, la quale considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei concetti filosofici immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di questi concetti non pel valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato, quale determinazione oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in perpetua formazione, per cui si pongono via via e si risolvono i singoli problemi scientifici»». Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire fenomenologica, tra il valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la mentalità per mezzo della quale egli pone e risolve i problemi.  Ancor più significativo mi sembra l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva recensito", si legge che la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è ricchissima di elementi fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario della «mentalità dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più facilmente le forme logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi di Levy-Bruhl sul prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in opere precedenti, che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In Macchioro, come in Levy-Bruhl, laManzoni sulla rivoluzione francese, Scaravelli definisce antistorica la mentalità dello scrittore lombardo e si interroga subito dopo sul significato di mentalità:  Quando si dice antistorica la mentalità del secolo XVIII, si fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa di vero o no? Cosa c'è di vero in questo luogo comune? Di falso ci sarà che pretende di legare insieme, accatastare, tanti uomini in una sola denominazione (dispregiativa, negativa o no importa poco) che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però è strano che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate poche eccezioni, si sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si pensa) che hanno molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di impostare la questione, molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte soluzioni e piccolissime difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è quest'aria di famiglia? A ogni modo è su questa somiglianza di molti particolari accidentali, poco importanti, a volte trascurabili, sempre secondari, ma per il numero e la circostanza notevolissimi, e a volte imponenti, è su questa somiglianza direi del pulviscolo atmosferico, che aleggia intorno a ogni viso, che si basa il giudizio sul carattere complessivo di un'epoca. Giudizio schematico  perene cualzo astratto. anzi perene somma e non grualzio ma somma uale, erneace, scocclante e mta clante volte, ma ineliminabile. Dunque non è falso che la "mentalità" di un secolo possa essere in un modo, per esempio antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo stato quasi gassoso, come è quasi fluido il pulviscolo che addiziona e stringe, ma falsa no... Ma all'ingrosso, ecco: se è vero che di molti schemi mi son liberato così che se qualcuno venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia greca è la filosofia dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili, io strillerei come un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora non vedo che ci sia di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità antistorica": nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio,  Spinoza ecc. ecc. ed anche Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non troppo53.  È importante sottolineare, in primo luogo, come la nozione di mentalità (termine di uso comune già  da un ventennio) 54  ricorra in testi e autori centrali nella formazione di Scaravelli. Non perché,  individuata la fonte, il problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo uso, che è di volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è possibile che la "logica" insita nella fonte persista in chi la utilizza, e che le difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di questo. Si pensi, ad es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile nega la possibilità di una storia della scienza che non sia una storia della filosofia, la quale considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei concetti filosofici immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di questi concetti non pel valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato, quale determinazione oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in perpetua formazione, per cui si pongono via via e si risolvono i singoli problemi scientifici»». Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire fenomenologica, tra il valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la mentalità per mezzo della quale egli pone e risolve i problemi.  Ancor più significativo mi sembra l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva recensito", si legge che la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è ricchissima di elementi fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario della «mentalità dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più facilmente le forme logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi di Levy-Bruhl sul prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in opere precedenti, che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In Macchioro, come in Levy-Bruhl, laManzoni sulla rivoluzione francese, Scaravelli definisce antistorica la mentalità dello scrittore lombardo e si interroga subito dopo sul significato di mentalità:  Quando si dice antistorica la mentalità del secolo XVIII, si fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa di vero o no? Cosa c'è di vero in questo luogo comune? Di falso ci sarà che pretende di legare insieme, accatastare, tanti uomini in una sola denominazione (dispregiativa, negativa o no importa poco) che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però è strano che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate poche eccezioni, si sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si pensa) che hanno molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di impostare la questione, molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte soluzioni e piccolissime difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è quest'aria di famiglia? A ogni modo è su questa somiglianza di molti particolari accidentali, poco importanti, a volte trascurabili, sempre secondari, ma per il numero e la circostanza notevolissimi, e a volte imponenti, è su questa somiglianza direi del pulviscolo atmosferico, che aleggia intorno a ogni viso, che si basa il giudizio sul carattere complessivo di un'epoca. Giudizio schematico  perene cualzo astratto. anzi perene somma e non grualzio ma somma uale, erneace, scocclante e mta clante volte, ma ineliminabile. Dunque non è falso che la "mentalità" di un secolo possa essere in un modo, per esempio antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo stato quasi gassoso, come è quasi fluido il pulviscolo che addiziona e stringe, ma falsa no... Ma all'ingrosso, ecco: se è vero che di molti schemi mi son liberato così che se qualcuno venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia greca è la filosofia dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili, io strillerei come un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora non vedo che ci sia di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità antistorica": nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio,  Spinoza ecc. ecc. ed anche Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non troppo53.  È importante sottolineare, in primo luogo, come la nozione di mentalità (termine di uso comune già  da un ventennio) 54  ricorra in testi e autori centrali nella formazione di Scaravelli. Non perché,  individuata la fonte, il problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo uso, che è di volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è possibile che la "logica" insita nella fonte persista in chi la utilizza, e che le difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di questo. Si pensi, ad es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile nega la possibilità di una storia della scienza che non sia una storia della filosofia, la quale considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei concetti filosofici immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di questi concetti non pel valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato, quale determinazione oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in perpetua formazione, per cui si pongono via via e si risolvono i singoli problemi scientifici»». Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire fenomenologica, tra il valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la mentalità per mezzo della quale egli pone e risolve i problemi.  Ancor più significativo mi sembra l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva recensito", si legge che la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è ricchissima di elementi fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario della «mentalità dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più facilmente le forme logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi di Levy-Bruhl sul prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in opere precedenti, che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In Macchioro, come in Levy-Bruhl, lamentalità appare come universo di pensiero chiuso, compatto, in cui non si scorge la ragione né del suo sorgere né del suo tramontare.  Proprio per questo suo carattere, la nozione di mentalità, e l'opposizione che in Macchioro si dava tra «mentalità prelogica» e «mentalità razionale», doveva apparire a Scaravelli sicuramente rischiosa, perché non dissimile dal modo gentiliano di leggere la filosofia antica come filosofia dell'oggetto e del logo astratto e la filosofia moderna come filosofia del soggetto e del logo concreto, e quindi di rendere un periodo storico momento che non ha in sé la totalità spirituale, ma la deve ricevere dal periodo successivo". E tuttavia, nonostante i rischi, ad essa Scaravelli non avrebbe rinunciato, anzi ne avrebbe ampliato il campo di applicazione: dal significato di forma mentis del singolo filosofo - che è l'accezione prevalente in cui è utilizzata la nozione di mentalità o dei suoi equivalenti nelle sporadiche ricorrenze degli scritti, per lo più inediti, degli anni Venti e Trenta ® -, essa avrebbe designato sia filosofie della  stessa epoca, tra le quali si possono cogliere i «punti in comune» e «somiglianze», come diceva nella lettera a Fossi,sia, soprattutto, filosofie lontane nel tempo ma accomunate da una medesima  impostazione: ad es. la «mentalità matematica». La mentalità, dunque, se non potrà mai essere una vera e propria categoria («si sente [...) non: si pensa»), sarà comunque una nozione strumentale «utile, efficace», addirittura «ineliminabile», in quanto permetterà di porre in relazione filosofie diverse, senza cadere nelle forzature antistoriche della storiografia attualistica. E perciò ad essa Scaravelli ricorrerà ripetutamente.  Nella Critica del capire il termine mentalità non compare. E sembrerebbe a ragione. Infatti nel capolavoro di Scaravelli non si muove da un pensatore per rintracciarne la parentela con altri in nome dell'appartenenza a una medesima epoca storica o di una comune posizione teorica; ma, all'opposto, discutendo i problemi, si incontrano di volta in volta i filosofi che a quel problema hanno cercato di dare una soluzione. Eppure il fatto che il lemma "mentalità" non compaia non significa che ne non sia avvertita l'esigenza: così Scaravelli riconosce in alcuni pensatori dei rappresentanti tipici di una posizione filosofica - l'abbiamo potuto constatare per Parmenide e Democrito" - o di un "tipo"; anzi,l'espressione «a tipo», seguita da una qualificazione aggettivale, ricorre in modo significativo". Oppure riconosce un'«aria di famiglia» nei poeti e pensatori romantici, che si sforzano di cogliere e pensare il non-identico e l'individuale senza tuttavia riuscirvi®. Ma soprattutto è importante il riconoscimento della pervasività e della forza costrittiva della «struttura [di pensiero] euclidea»: essa «è talmente diffusa che le varie menti [si noti il termine] compiono con apparente spontaneità la medesima sintesi».  Scaravelli, in una delle analisi più sottili e famose di tutta la sua opera, sta mostrando come nella dimostrazione per assurdo la confutazione di una tesi non implichi necessariamente la verità del suo contrario:  Prendiamo un esempio ben conosciuto: siano due rette a, b, parallele; una retta e che incontra a in un qualunque punto P, deve incontrare anche b. La dimostrazione, è noto, non può avvenire che per assurdo; e suona: «se c non incontrasse b, sarebbe parallelo a b, allora per il punto P uscirebbero due distinte rette parallele alla retta b; il che è assurdo: dunque c incontra l». Si vede qui che non ci si ferma affatto al meramente logico «c non incontra b»; ma si esce da questa asserzione, si va nell'intuizione, e si aggiunge l'asserzione: «allora c è parallelo a b»; il che è un determinare, al di là della constatazione che c «non incontra...» un ulteriore comportamento di questo c. Per fare questa determinazione "in più", occorre compiere una sintesi che niente ci obbliga a compiere in questo determinato modo.  Ora, nota Scaravelli, è proprio la «struttura euclidea» che ci impedisce di cogliere la «libertà nascosta» che si cela nelle pieghe della dimostrazione per assurdo e che potrebbe condurci a sintesi del tutto diverse da quelle che danno luogo alla geometria euclidea. Infatti, appena qualcuno «si accorge di questo "più" che la dimostrazione per assurdo maschera e utilizza ai suoi fini [...] è l'iniziatore di una geometria non-euclidea»**.  Siamo qui in presenza di uno dei modi in cui Scaravelli utilizzerà, negli scritti successivi alla Critica del capire, la nozione di mentalità. In alcuni di questi scritti, infatti, Scaravelli, che pure ha di fatto rinunciato a proporre disegni storico-filosofici necessitanti o teleologicamente orientati",  ', si ritrova dinanzi alproblema della continuità/ discontinuità di determinati stili di pensiero o, per dirla con Giulio Preti, di  "logiche" e "paradigmi". Grazie alla sua plasticità la nozione di mentalità permette a Scaravelli di affrontare il problema della continuità/discontinuità: di dare conto della persistenza di una posizione filosofica o scientifica, delle fratture che attraversano sia la storia della filosofia che quella della scienza.  7. Mentalità nella storia della scienza e nella storia della filosofia  Per concludere, mi limiterò a ricostruire e discutere due esempi di uso della nozione di mentalità in due scritti successivi alla Critica del capire, nella convinzione che ulteriori esempi potrebbero forse arricchire ma non mutare il quadro concettuale che ormai si è delineato". Questi esempi mostreranno come Scaravelli sia riuscito ad evitare il rischio grave di sostanzializzare la mentalità, di farne cioè non tanto un "tipo ideale", dalla funzione euristica, quanto l'ipostatizzazione di un'attitudine di pensiero, rispetto alla quale i singoli che vi partecipano sono solo modi o momenti di quella.  Il primo esempio, tratto dal Saggio sulla categoria kantiana della realtà, concerne la storia della scienza e in particolare la discontinuità nella storia della fisica, fra la fisica classica, dominata dalla «mentalità laplaciana»"? e la fisica moderna, le cui esperienze non possono più essere soddisfatte con le leggi della fisica classica.  Il secondo esempio, ripreso dallo scritto dedicato alla logica crociana, riguarda invece la storia della filosofia: ricostruendo la storia ideale del "concetto", si intende mettere in luce «la mentalità inconsciamente matematizzante»'® sottesa a tanta parte della storia della filosofia da Pitagora e il tardo Platone fino a Kant e oltre, che porta a concepire il concetto come universale.  Cominciamo dunque dal problema della continuità/ discontinuità nella storia della fisica". Aderendo alle tesi del fisico ed epistemologo francese Louis de Broglie, Scaravelli sostiene che la teoria dellarelatività einsteiniana sia, per quanto innovatrice, «il coronamento della fisica classica»": fisica classica e teoria della relatività condividono infatti la mentalità laplaciana, ossia la convinzione che la conoscenza dei punti di un sistema e delle grandezze delle velocità di questi punti permette, almeno in linea di principio, «il calcolo rigoroso dello stato del sistema in un istante ulteriore»". Condizioni comuni per la comprensione dei fenomeni fisici sono dunque che la variazione di tutti i fenomeni avvenga in modo rigorosamente continuo, e che i fenomeni si svolgano nello spazio-tempo. «Fisica classica e concezione einsteiniana, insomma, si rappresentano cartesianamente l'universo come un gigantesco meccanismo di cui, possedendo i dati del suo stato iniziale, si può rigorosamente descrivere tutta l'evoluzione, localizzandone le parti nello spazio e le modificazioni nel tempo»". Solo la teoria dei quanti ha inveceoperato una vera e propria «rivoluzione»* nella storia della fisica. Essa ha infatti sovvertito «dalle fondamenta [...] tutta la concezione della fisica classica»,  ', perché «la continuità dei fenomeni cosmici, e  la rigida causalità del loro susseguirsi»", principi che, come abbiamo appena visto, formano l'ossatura della fisica classica, vengono radicalmente rivisti dalla fisica quantistica. L'esistenza del "quanto d'azione", la sua presenza nell'intima compagine e tessitura di ogni evento o fenomeno fisico, «oltre a costringerci ad ammettere la "discontinuità" dell'energia e perciò la discontinuità in tutti quanti i fenomeni fisici, ha portato come immediata conseguenza un fatto di importanza fondamentale: è impossibile avere con rigore assoluto la posizione nello spazio-tempo di un quid in moto, e la velocità che questo quid ha in quel punto dello spazio»". Per la teoria dei quanti «Il determinismo causale (...] con la sua continuità, e la rappresentazione degli eventi del mondo nel tempo e nello spazio, sono due cose che si escludono a vicenda»®.  Il problema allora suona: come è avvenuta la rivoluzione quantistica? Ovvero: come è stata possibile nella storia della scienza (della fisica), che per lungo tempo ha accumulato i suoi risultati mostrando una sostanziale continuità, quella radicale discontinuità che è costituita dall'affermarsi della fisica moderna?  Il problema è irresolubile solo se pensiamo come astrattamente opposte e incompossibili continuità e discontinuità. Ma, come si è già osservato, la discontinuità si può produrre soltanto sullo sfondo di una continuità, e, viceversa, la continuità implica una trasformazione che, per quanto lenta e graduale, tuttavia non può che distinguersi dalla mera ripetizione dell'identico (ammesso e non concesso che l'identico possa, a rigore, ripetersi). Il problema, quindi, affrontato nel concreto significato di continuità e discontinuità, si duplica: 1) come è stata possibile la rivoluzione quantistica, la rottura dei quadri concettuali della fisica classica? 2) quale continuità lega nella discontinuità fisica classica e fisica moderna, tanto che entrambe possono ricadere nella storia unitaria della fisica?  La risposta alla prima domanda è netta: sono le «esperienze», condotte con rigore e finezza, che hanno rivelato ai ricercatori «fenomeni i quali in nessun modo possono rientrare nei quadri e nei principi della fisica classica». E alle esperienze bisogna aggiungere la rielaborazione teorica dei principi (il tempo, lo spazio, la causalità) necessari per pensare adeguatamente quei fenomeni, che dalla rivoluzione quantistica «sono usciti completamente diversi». Il valore dei risultati di queste ricerche è stato «enorme», tale che non è stato possibile respingerle sullo sfondo del quadro della fisica classica.  Ciò ha provocato, in un primo tempo, «uno stato di crisi»:  Sembrava impossibile abbandonare il quadro della concezione classica, i cui principi formano il solido terreno della tradizione senza la quale pare che non ci si possa muovere con sicurezza, né aver filo con cui legare fra loro in unità le varie esperienze, né aver addirittura concetti con cui pensare. E d'altra parte era ancor più impossibile respingere questi fenomeni che pur non si lasciavano riconnettere a quei principi?.  La crisi è tanto più drammatica quanto più costrittiva è la forza che la «mentalità laplaciana» esercita sugli scienziati. Questo aspetto risulta ancor più evidente nella prima versione del primo capitolo, La  "forma mentis" della fisica classica, quando l'opera si doveva ancora intitolare Kant e la fisica moderna": «molticambiamenti di concetti fisici |...] urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a risultati che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in una mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si noti come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della fisica moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi di una tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia, quell'esigenza teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e «ineliminabile», davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato possibile creare la fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis della fisica classica urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla radice.  Con l'imporsi della fisica moderna la crisi è superata e intorno alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno una tale forza che «han costretto i fisici ad accettare la "costante di Planck",83.  Ma allora, e passiamo così alla seconda questione, che tipo di continuità sta sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che ha costretto i fisici a superare le resistenze ad abbandonare la fisica classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la mentalità che li sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la consapevolezza che queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio come le esperienze della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che determinati «fatti accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non corrispondo a leggi già note», mettendo così in dubbio «la validità di queste leggi, o almeno la loro estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio la continuità della storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della fisica classica un caso particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni macroscopici, delle leggi della fisica moderna.  Siamo dinanzi dunque non a un crollo di un paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile paradigma, come avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una profonda rottura (discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un caso particolare della fisica moderna.  Il problema per la filosofia è diverso: infatti qui la discontinuità è data dall'autonomia del singolo filosofo, mentre la continuità si manifesta, da un lato, come nella storia della fisica, nel ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che tutti i filosofi sono tali non per il contenuto di esperienzacambiamenti di concetti fisici |...] urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a risultati che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in una mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si noti come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della fisica moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi di una tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia, quell'esigenza teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e «ineliminabile», davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato possibile creare la fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis della fisica classica urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla radice.  Con l'imporsi della fisica moderna la crisi è superata e intorno alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno una tale forza che «han costretto i fisici ad accettare la "costante di Planck",83.  Ma allora, e passiamo così alla seconda questione, che tipo di continuità sta sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che ha costretto i fisici a superare le resistenze ad abbandonare la fisica classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la mentalità che li sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la consapevolezza che queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio come le esperienze della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che determinati «fatti accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non corrispondo a leggi già note», mettendo così in dubbio «la validità di queste leggi, o almeno la loro estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio la continuità della storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della fisica classica un caso particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni macroscopici, delle leggi della fisica moderna.  Siamo dinanzi dunque non a un crollo di un paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile paradigma, come avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una profonda rottura (discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un caso particolare della fisica moderna.  Il problema per la filosofia è diverso: infatti qui la discontinuità è data dall'autonomia del singolo filosofo, mentre la continuità si manifesta, da un lato, come nella storia della fisica, nel ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che tutti i filosofi sono tali non per il contenuto di esperienzacambiamenti di concetti fisici |...] urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a risultati che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in una mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si noti come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della fisica moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi di una tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia, quell'esigenza teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e «ineliminabile», davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato possibile creare la fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis della fisica classica urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla radice.  Con l'imporsi della fisica moderna la crisi è superata e intorno alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno una tale forza che «han costretto i fisici ad accettare la "costante di Planck",83.  Ma allora, e passiamo così alla seconda questione, che tipo di continuità sta sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che ha costretto i fisici a superare le resistenze ad abbandonare la fisica classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la mentalità che li sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la consapevolezza che queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio come le esperienze della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che determinati «fatti accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non corrispondo a leggi già note», mettendo così in dubbio «la validità di queste leggi, o almeno la loro estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio la continuità della storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della fisica classica un caso particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni macroscopici, delle leggi della fisica moderna.  Siamo dinanzi dunque non a un crollo di un paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile paradigma, come avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una profonda rottura (discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un caso particolare della fisica moderna.  Il problema per la filosofia è diverso: infatti qui la discontinuità è data dall'autonomia del singolo filosofo, mentre la continuità si manifesta, da un lato, come nella storia della fisica, nel ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che tutti i filosofi sono tali non per il contenuto di esperienzacambiamenti di concetti fisici |...] urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a risultati che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in una mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si noti come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della fisica moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi di una tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia, quell'esigenza teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e «ineliminabile», davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato possibile creare la fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis della fisica classica urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla radice.  Con l'imporsi della fisica moderna la crisi è superata e intorno alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno una tale forza che «han costretto i fisici ad accettare la "costante di Planck",83.  Ma allora, e passiamo così alla seconda questione, che tipo di continuità sta sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che ha costretto i fisici a superare le resistenze ad abbandonare la fisica classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la mentalità che li sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la consapevolezza che queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio come le esperienze della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che determinati «fatti accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non corrispondo a leggi già note», mettendo così in dubbio «la validità di queste leggi, o almeno la loro estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio la continuità della storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della fisica classica un caso particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni macroscopici, delle leggi della fisica moderna.  Siamo dinanzi dunque non a un crollo di un paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile paradigma, come avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una profonda rottura (discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un caso particolare della fisica moderna.  Il problema per la filosofia è diverso: infatti qui la discontinuità è data dall'autonomia del singolo filosofo, mentre la continuità si manifesta, da un lato, come nella storia della fisica, nel ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che tutti i filosofi sono tali non per il contenuto di esperienza        che pensano, ma per le categorie con cui lo pensano, le quali, pur essendo intese in accezioni anche molto differenti, restano sempre quelle categorie e non altre.  Ci siamo già ampiamente soffermati nelle pagine precedenti sia sull'autonomia dei singoli filosofi sia sulle categorie che sono oggetto di continua riflessione e discussione critica. Per concludere, prediamo allora in esame la questione della mentalità nella storia della filosofia. Nella lettera a Fossi del 14 ottobre 1945 abbiamo letto che il capitolo del lavoro inconcluso sulla storia ideale della logica crociana intitolato Il concetto come universale doveva mettere in luce «la mentalità inconsciamente matematizzante»85, sottesa a tanta parte della storia della filosofia da Pitagora e il tardo Platone fino a Kant e oltre, che portava appunto a concepire il concetto come universale. In questo scritto, invero, non compare mai l'espressione mentalità o forma mentis; tuttavia il passo della lettera appena citato ci autorizza a considerarlo come un'esposizione della struttura e della storia della mentalità matematica"  nella  filosofia.Per Scaravelli nella rappresentazione non c'è, in quanto rappresentazione, né unità né molteplicità.  «Molteplicità e unità sono completamente estranee al rappresentare». Perché si possa dunque parlare di molteplicità delle rappresentazioni, è stato necessario prima rendere discontinuo l'omogeneo e continuo tessuto rappresentativo, poi vedere questi elementi discontinui come molti, facendo intervenire il concetto di numero. La mentalità matematica consiste appunto in questo intervento della quantità nel tessuto rappresentativo, la quale quantità «agisce poi in base ad una propria legge, estranea a qualunque qualificazione».  replicatrice di tale operazione (rendere discontinuo il tessuto rappresentativo, e fare intervenire il numero), che ha la stessa «tremendamente rigida ossatura interna» del numero. Come «i numeri con la loro speciale legge di interna gravitazione che li governa» non rimangono inerti, ma esercitano la loro  un'altra»®. Di qui si potrebbe trarre la conclusione, estremamente interessante, che la mentalità agisca come una forza, attrattiva e repulsiva, che impedisce nuove soluzioni filosofiche e scientifiche, mentre favorisce tutte quelle soluzioni che la confermano.  "campo gravitazionale" si potrebbero caratterizzare in base alla maggiore o minor resistenza che esse numero e rappresentazione, ciò che si va ad esaminare  è in effetti la diagonale di un parallelogrammo delle forze: da un lato la gravitazione interna del mondo numerico, dall'altro lato la immediata presenza della rappresentazione. Ed a seconda della lunghezza maggiore o minore di uno di questi lati rispetto all'altro, si apre il cammino verso il regno dei miti, dei simboli o dei sogni, da certe dottrine dell'ultimo Platone a Proclo, alle romantiche filosofie della natura...; perché né le rappresentazioni scompaiono del tutto, e si sarebbe allora puri matematici nel puro regno della scienza, né hanno forza sufficiente di sottrarsi a quel mondo dei numeri, e si sarebbe allora puri critici nel puro regno della critica88.  Dove, anche la presenza della rappresentazione è una forza.  Ora, è proprio della mentalità matematica, che costituisce «"l'essere essenziale" del [suo] essere»", ritenere che il metodo della filosofia e il metodo delle scienze, cioè innanzi tutto della matematica e della fisica, sia il medesimo, e identica la radice da cui nascono. Questa prospettiva, eminentemente  chai e e no quele emira (ma primi a and sche mila quie, come fa o, ne difo pri  Scaravelli le romantiche filosofie della natura. Ma la sua logica si impone ben oltre, oltre la dialettica h egeliana, fin nel pensiero di Hamelin, Blondel e Gentile, richiamati nelle pagine conclusive del capitolo:  L'ideale, o per esser precisi l'idea che presiede a tutta questa operazione, rimane sempre quella che assume vari nomi: dal più físico: l'incondizionato nella serie delle cause; al più metafisico: la necessità incondizionata; cioè sempre l'Unità assoluta. E proprio una Unità tale che, come nel tessuto fisico dello spazio cartesiano non si vede ragione alcuna che possa garantire la minima differenza di oggetti tra loro o di figure geometriche fra di loro, è impossibile logicamente trovare la ragione di qualsiasi presenza che non si disciolga, anzi che non si sia già disciolta, in quella unità. Poiché la logica che sottende ogni dialettica è quella che sottendeva ogni funzione trascendentale: è la logica della unità. Ed anche quando per sottrarsi al gorgo che fa ruotare il molteplice e lo attira verso l'uno, si fa forza in senso opposto, e si dà valore al molteplice sì da tenerlo in perfetto equilibrio con l'uno, questo molteplice è solo «'inquietudine» e non ha altra sua consistenza che questa inquietudine. Che è il massimo di non-uno che è possibile raggiungere con quella concezione della realtà®°.  La nozione di mentalità, che qui prende il nome di «concezione della realtà», non è tematizzata ma è impiegata per comprendere le profonde continuità che sembrano legare carsicamente i diversi pensatori nella storia, che ostacolano il sorgere del nuovo, che orientano e costringono alla ripetizione o alla variazione sul tema.  Eppure, proprio la discussione condotta da Scaravelli in queste pagine mostra come de facto sia possibile prendere criticamente le distanze dalla mentalità nella quale siamo immersi ma dalla quale non siamo determinati. Giustificare de jure la novità nella storia, sia essa la storia della filosofia che la storia della scienza, fu il rovello di Scaravelli. Se nella storia della scienza sono le nuove esperienze e la rielaborazione della categorie necessarie a pensarle che giustificano il sorgere di nuove teorie, nella storia della filosofia la rottura delle catene della tradizione è resa possibile dal lavoro critico del pensiero. Ma cosa spinga lo scienziato a scrutare più a fondo il suo oggetto e a cercare nuove esperienze, e il filosofo a passare al vaglio della critica il già-pensato per capirne con maggior rigore l'intima tessitura, è problema al quale Scaravelli non diede soluzione. Forse perché  Trovare Una  soluzione avrebbe significato ai suoi occhi «accumulare scienza», cioè fondare metafisicamente il nuovo, compromettendone appunto la novità.Luigi Scaravelli. Scaravelli. Keywords: paralipomena, la storia della filosofia di Scaravelli, criticismo, critica del capire, giudizio storico, storia come metodo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Scaravelli” – The Swimming-Pool Library.

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