Grice e Scaravelli: la ragione conversazionale
-- tra critica e meta-fisica – -- la scuola di Firenze -- la scuola fiorentina –
filosofia fiorentina -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Firenze). Filosofo italiano.
Firenze, Toscana. Si laurea a Pissa sotto CARLINI. Insegna a Roma, e Firenze. Profondo
conoscitore di Kant, approfondisce nei suoi studi pubblicati con molta
riluttanza e quasi solo per esigenze concorsuali in particolare i temi relativi
ai rapporti tra la filosofia kantiana e la fisica, i problemi relativi alla critica
del giudizio ed anche i temi dell'idealismo.
Biblioteca personale, Villa Mirafiori. Saggi: “Critica del capire”, Firenze,
Sansoni, Saggio sulla categoria kantiana della realta (Firenze, Monnier); La
prima meditazione di Cartesio (Firenze, Nuova Italia); “La critica del giudizio”
(Pisa, Normale); Corsi, “Critica del capire”; “L'analitica trascendentale” (Firenze,
Nuova Italia); “La Biblioteca”; “L' attualità Mirri, Napoli, Sientifiche); Visentin,
“Le categorie e la realtà” (Firenze, Le lettere); Sasso, L’idealismo, Napoli,
Bibliopolis; La storia come metodo, Convegno a Roma); “Il problema del giudizio
storico); Mannelli, Rubbettino, pensatore europeo, Biscuso e Gembillo, Messina,
Siciliano, Sasso, il giudizio, in Filosofia e idealismo. Paralipomeni, Napoli,
Bibliopolis, Palermo, Tra critica e
metafisica. Lettore di Kant, Pisa, ETS,
Treccani Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Biscuso,
La completa dei suoi scritti, su
giornale di filosofia. Ripercorrendo il proprio itinerario
speculativo, in un documento di grande rilievo da datarsi nel 1942,
Scaravelli scriveva: dieci o quindici anni fa [...] ero pienamente
convinto di quella impostazione mentale, comune al Croce e al Gentile, che
considera la realtà come spirito, e lo spirito come autoprodursi; e in questo
autoprodursi vede l'esistenza e tutta l'esistenza. Ma nonostante fossi convinto
della validità di questa concezione, pure un lavoro che avevo cominciato su Platone
mi spingeva a ripensare le basi della concezione storiografica nella quale mi
muovevo; perché questa concezione non mi consentiva di soddisfare al bisogno
che provavo di mantenermi aderente all'intimo pensiero platonico e nello stesso
tempo di presentare questo pensiero non come semplice..
"introduzione" a un pensiero più maturo, né come un pensiero buono
per... duemila e più anni or sono secondo la corrente storiogratica
hegelianeggiante. La mia esigenza era questa: presentare Platone come un
vero e pieno pensatore, e non come uno "spicchio" dello spirito, o
una "tappa" di esso, o un "germe" inconsapevole della
propria forza dinamica e della ricchezza accumulata nel proprio seno. Il
problema si presentava allora in questo modo: cercare una posizione teoretica
tale da render possibile che ogni filosofo sia effettivamente, e non a parole,
una vera unità (o totalità) spirituale!. In questo testo non solo
troviamo esposta con chiarezza l'esigenza di criticare i presupposti della storiografia
filosofica idealistica, i quali danno luogo a risultati storiografici
inaccettabili (che Platone siahegelianamente un "germe
inconsapevole", o crocianamente uno "spicchio", o
gentilianamente una "tappa" dello spirito); ma soprattutto sono
individuate le condizioni trascendentali della storiografia filosofica, dalla
cui soddisfazione soltanto può risultare una veritiera comprensione storica: a)
aderenza all'oggetto dell'indagine storiografica; b) capacità di coglierne il
nucleo teoretico; c) compiuta unità dell'oggetto, tale che sia autonomamente
interpretabile; d) sua radicale contemporaneità. Condizioni che non si
addizionano l'una all'altra, ma che costituiscono un insieme coerente:
l'aderenza all'oggetto storico si concretizza soltanto nella individuazione del
nucleo teoretico (l'«intimo pensiero») che consente architettonicamente di
ricostruire nelle sue strutture la totalità dell'oggetto medesimo, conferendo
coerenza a tutti i suoi distinti aspetti e facendone un termine di confronto
attuale nella discussione filosofica. Sicché il principio di coerenza, così
inteso - ma sarà bene tornarci su quanto prima - può essere ritenuto la radice
delle condizioni sopra elencate. Nelle memorabili analisi di singole
opere filosofiche, tra le più profonde tra quelle prodotte dalla storiografia filosofica
italiana (e non solo) nel Novecento - basti qui ricordare La Prima Meditazione
di Cartesio, il Saggio sulla categoria kantiana della realtà o le Osservazioni
sulla "Critica del Giudizio" - Scaravelli avrà sempre cura di tener
ferme quelle condizioni, individuate nella Critica del capire: esse sole
rendono possibile una storiografia filosofica che sappia riconoscere
autonomia e novità, cioè concretezza storica, alla singole
filosofie senza ridurle a note analitiche del processo al quale
appartengono. Appare perciò opportuno esaminare innanzi tutto il percorso
compiuto dal giovane Scaravelli per liberarsi dai presupposti della
storiografia filosofica idealistica ($ 2) e per giungere a individuare le
condizioni trascendentali necessarie a pensare la storia della filosofia come
una storia reale (S 3). questo punto potremo mettere alla prova le
concrete analisi storiografiche compiute da Scaravelli nella peculiare
prospettiva della Critica del capire per valutare se esse soddisfino, e fino a
che punto, oppure no, quelle condizioni ($ 4). Ne emergerà, tra gli altri, il
problema di come pensare l'effettiva novità nella storia del pensiero, cioè i
rapporti di continuità e di discontinuità nella storia della scienza e della
filosofia, che saranno affrontati esemplarmente in alcuni scritti successivi ($
5). Concluderemo l'analisi discutendo una possibile soluzione operante di
fatto, ma da Scaravelli non tematizzata, ai problemi rimasti insoluti ($ 6), e
le sue applicazioni alla storia della fisica e della filosofia (S
7).«esposizione completa» delle sue opere e la narrazione, anche
particolareggiata, delle sue vicende biografiche, necessarie «per averne quella
conoscenza storica che individua ogni singolo pensatore con tutte le sue
caratteristiche»; «ben altro» invece «è il procedimento quando si tratti di
intendere e valutare a fondo quel pensiero, di penetrare nella sua essenza». In
questo secondo caso non lo si può ricostruire dall'esterno, limitandosi al
massimo a constatare se le idee possano coesistere tra di loro, ma occorre
mettersi in esso, e svolgere quel germe di vita che c'è implicito sviluppandone
tutti i principi che, pensandoli e vagliandoli, non rimangono su uno stesso
piano, ma, mostrando la loro coerenza o incompatibilità, fanno sorgere quello
che più ricco degli altri è capace di risolvere in sé la molteplicità dei
problemi, e che vive per propria attività eliminando gli altri elementi, cui
era congiunto. Da un lato, dunque, «la conoscenza storica» del profilo
individuale di un filosofo, dall'altro l'attività volta a «intender[ne] e
valutar[ne] a fondo» il pensiero; da un lato la completezza, dall'altro
l'essenza. Sembrerebbe qui che il giovane Scaravelli opponga comprensione
storica a intendimento teoretico di una filosofia o, come si sarebbe poi detto,
storiografia descrittiva a storiografia valutante; ma la questione è in effetti
più complessa. Infatti, affinché l'esposizione sia veramente completa è
indispensabile, oltre che scendere a particolari biografici e accidentali, non
solo «dare la totalità del sistema» ma anche «metterne in luce le eventuali
contraddizioni, lacune, deficienze». Quindi, valutarne la coerenza. E, d'altra
parte, è possibile davvero cogliere la fisionomia individuale di un pensiero
accumulando notizie biografiche ed esponendo opinioni? Comprendere
l'individualità di un pensiero non significa forse al contrario coglierne il
«germe di vita» che risolve nel principio «più ricco» gli altri principi? Per
cui, a rigore, Scaravelli avrebbe dovuto non distinguere individuazione e
valutazione, bensì valutazione e valutazione, e, di nuovo, individuazione e
individuazione: la prima mette capo a una pura e semplice accumulazione
dossografica di conoscenze intorno alla vita e alle opere di un filosofo, la
seconda sa penetrare nell'essenza di una filosofia, perché ne coglie il
principio, il quale generando gli altri principi ad esso subordinati li rende
perciò intelligibili. Con la conseguenza che comprensione storica sarà tanto la
prima quanto la seconda: se la prima consisterà «nel vedere la totalità statica
di un sistema filosofico», la seconda consisterà «nel viverne la sua coerente
intelligibilità come realizzazione di quel principio che lo ha fatto
sorgere». Si potrebbe dire che la distinzione hegeliana tra intelletto
analitico e ragione speculativa orienti inavvertitamente la differenza tra i
due diversi modi di cogliere l'individualità di un pensiero e di valutarne la
coerenza: il primo in maniera estrinseca, poiché il "metro" di
giudizio cade fuori dal pensiero giudicando'; il secondo in modo immanente, in
quanto, «ripensando e vagliando» tutti i principi di una filosofia, non li
lascia sullo stesso piano, ma ne mostra «la loro coerenza o incompatibilità» e
fa sorgere «quello che più ricco degli altri è capace di risolvere in sé la
molteplicità dei problemi, e che vive per propria attività eliminando gli altri
elementi, cui era congiunto», i quali evidentemente hanno origine diversa da
quel principio".Emerge così, già in questo precoce e importante passo, il
principio che guiderà tutta la successiva storiografia filosofica
scaravelliana: il principio di coerenza, cui il filosofo fiorentino ricorrerà
in ogni sua analisi di opere e teorizzazioni della tradizione filosofica;
principio che, come detto, deve essere inteso non quale certificazione della
possibilità che idee diverse possano coesistere tra loro, bensì come
coerentizzazione delle idee di un pensatore a partire dal principio ideale che
le genera. Perciò per "genesi di una filosofia" non si deve intendere
la nascita storica di un sistema, il suo formarsi nel corso del tempo, bensì la
genesi ideale di una posizione filosofica, che iscrive in articolazione
organica i suoi distinti elementi. Nella recensione al lavoro di
Chiocchetti non si affaccia ancora l'altro problema della storiografia
filosofica scaravelliana, quello del tipo di rapporto che lega tra loro le
filosofie nella storia; non si affaccia, perché esso non fa problema al giovane
pensatore che aderisce (ancora) all'«idealismo attuale»: il divenire gli appare
«una unità organica» di accadimenti qualitativamente diversi'; e se le diverse
filosofie sono «accadimenti», esse non potranno che apparire nella loro unità
organica alla coscienza che le pensa. E tuttavia, sebbene nella tesi di laurea
il principio gentiliano secondo il quale vanno pensate le filosofie che si sono
manifestate nella storia non faccia (ancora) problema al giovane Scaravelli,
sembra che la concreta applicazione di esso alla storia della filosofia crei
invece difficoltà, tanto da rendere la ricostruzione storica inadeguata: «a noi
sembra che il Gentile rimanga ancora nella schematizzazione dei periodi storici
caratteristica del sistema hegeliano»*. Assegnando infatti alla filosofia greca
«il momento della pura oggettività» e a quella rinascimentale «il momento della
soggettività» astratta, il filosofo siciliano irrigidisce «i momenti dialettici
o le categorie del pensiero, in particolari periodi storici», finendo per
rendere astratta e meccanica la storia stessa'. Che è quanto non sarebbe dovuto
accadere se fosse stato fedele al suo principio. Ma per Scaravelli mai un
periodo, se è effettivamente storico, può essere astratto, privo cioè del suo
significato che sarebbe dato solo da un'epoca successiva. Ogni momento
storico è sempre, in quanto se ne intende il valore, tutta la storia
implicita in esso, tutto lo spirito nella sua concretezza; e non può aspettare
un periodo successivo che completi il carattere che esso ha, perché, in quanto
vivente periodo storico, il suo carattere è la sua totalità od assolutezza
oltre la quale non è dato immaginare che sialo. Dunque, ben prima di
iniziare il suo lavoro incompiuto su Platone Scaravelli avvertiva l'esigenza di
non ridurre il pensiero greco a una semplice introduzione al pensiero moderno,
per coglierne l'autonomo significato e la specifica validità. E tuttavia,
bisogna aggiungere, nella tesi di laurea solo l'esigenza è presente, non la
soluzione. Infatti, tutto lo sforzo compiuto dal giovane Scaravelli di mostrare
come la filosofia greca e quella rinascimentale non siano momenti astratti e
incompleti che attendano la filosofia moderna per concretizzarsi e compiersi,
ma autentiche totalità spirituali, si vanifica nel momento in cui queste
gli appaiono prese da un andamento irresistibile, teleologicamente orientato.
L'antica si articola nel «processo onde dalle ricerche naturalistiche essa
venne innalzando l'edificio dell'atto puro e del motore immoto», concludendosi
nella teoria aristotelica del conoscere «come processo [...] autocreatore, ed
autocosciente», nella «totalità della coscienza come atto che forma la realtà
di cui è intelligenza»". . Nella moderna il processo di
purificazione dell'esperienza giunge in Bacone ad un primo, irreversibile
risultato: «il problema centrale della filosofia moderna è così formato, è
costituito in forte germoglio, e si svilupperà con rapidità giungendo a
maturazione nella mente delpensatore di Königsberg»' (si noti il lessico
decisamente hegeliano: "germoglio", "sviluppo",
"maturazione"); insomma: tutte le strade portano a Kant e poi da Kant
ripartono"'. Difficile d'altronde credere che Scaravelli non
avvertisse la problematicità di una tale impostazione. Infatti, già nel
primo capitolo discutendo del rapporto tra la logica dell'astratto e la logica
del concreto, problema che può essere declinato anche come problema del
rapporto tra il pensiero passato e il pensiero presente, tra il già-dato e il
nuovo, il giovane filosofo aveva messo in evidenza la difficoltà di intendere
tale rapporto nel modo in cui Gentile sembrava intenderlo, cioè come se il
passato (la logica dell'astratto) fosse «grado» al presente (la logica del
concreto), «combustibile» da bruciare nel suo «fuoco», insomma: «momento
precedente alla concretezza, il passato appunto che sbocca, a dar vita, nel
presente». Questa interpretazione - continuava Scaravelli - ha di giusto
questo solo elemento: che scorge l'unità del processo spirituale e la sua
inscindibilità, e vede il presente non nella sua puntualità astratta, ma come
quel presente di pensiero reale in cui confluisce tutta la vita passata.
Un'azione od un pensiero, una individualità od un avvenimento storico in corso
di svilupparsi, non sono novità sorte ex nibilo, ma si sustanziano di tutto lo
sviluppo mentale e umano che accolgono e per quanto l'accolgono in sé senza
spezzare la continuità della storia. L'individuo così, come un fatto storico, è
da intendersi come effettuale germinazione della stessa storia; germoglio che
trae il succo dalla stessa pianta che lo ha formato gemma, gemma che a sua
volta formerà la pianta. Elemento vero che occorre conservare: ma che si
ricopre facilmente di scorie dalle quali va liberato. Principalmente
questa: che in questo modo di intendere, il fatto od il passato, l'oggetto in
una parola, viene a condizionare il fare, il presente, in una parola il
soggetto. Infatti, un tale modo di intendere il rapporto tra il pensiero
presente e il suo passato implica la vanificazione della «libertà infinita» e
dell'«autonomia» del pensiero pensante, in quanto esso sarebbe condizionato
dal pensiero pensato e smarrirebbe il carattere di «attività
trascendentale dell'autocoscienza [...] assolutamente a priori»'. Eppure,
si trattava molto più che di «scorie» che offuscavano la limpidezza delle
costruzione teoretica gentiliana: Scaravelli pensava di restituire piena
coerenza all'attualismo rivendicando la concretezza dell'astratto e quindi
piena autonomia e valore di autentica spiritualità al pensiero antico. Ma
davvero la singola filosofia, «l'individuo» riesce a mantenere il suo valore in
questa versione più coerente della filosofia dell'atto? Ridotto a «gemma» che
trae il succo dalla pianta che l'ha generato, sembra invece incapace di
produrre novità alcuna: la gemma formerà di nuovo la pianta, e l'identico,
generato dall'identico, genererà a sua volta l'identico. Il problema di
come poter pensare l'individuo e il nuovo - in una parola: la storia - senza
ridurlo a nota analitica della struttura che lo avrebbe dovuto rendere
intelligibile, era ancora ben al di là di essere affrontato alla radice.
3. La ricerca di nuovi principi: la genesi della filosofia Che il
problema stesse nei principi della storiografia filosofica idealistica e non
nelle loro applicazioni, che non si trattasse insomma di «scorie» ma di vere e
proprie aporie, si fece via via sempre più chiaro a Scaravelli quanto più egli
approfondiva «le basi della concezione storiografica» nella quale si muoveva.
Documento significativo di questo travaglio è Il problema speculativo di M.
Heidegger, il primo p cane lavor publici da Son li compito Dator, stesi
ane di i essioni erto acor più tormentata prima stesura della Critica del
capire. Ora egli si mostra pienamente consapevole della posta in gioco nella
impostazione metodologica della storiografia filosofica. Si noti l'affermazione
perentoria con la quale si apre lo studio su Heidegger: Sapere a quale
scuola appartiene un filosofo è spesso uno dei più forti ostacoli a capirlo. A
cominciare dalle parole che adopra per finire con l'atteggiamento fondamentale
che costituisce la sua personalità speculativa, tutto viene visto e sentito
come già condizionato dall'ambiente in cui è vissuto: e le immagini, i
concetti, le deduzioni, appaiono a noi già piene del significato che la scuola
ha dato loro; sì che la rigidezza che offrono impedisce di cogliere lo spirito
nuovo che in loro vive e che dà loro un tutt'altro valore e significato.
Un approccio storiografico che si limitasse a riassumere le «tappe» (non sfugga
l'uso del termine) attraverso le quali « ogni scuola [...] dispone e stratifica
il processo delle proprie indagini e lo presenta come struttura della realtà»,
otterrebbe soltanto risultati generici. Saremmo dinanzi, di fatto, alla
medesima difficoltà teoretica delle storie della filosofia idealistiche che
facevano dei diversi pensatori semplici tappe dello sviluppo necessario dello
spirito: spiegando un filosofo con l'appartenenza ad una scuola - nel caso in
questione Heidegger a partire dalla fenomenologia husserliana - tutto sarebbe
già detto, e nessuno spirito nuovo potrebbe essere colto: sarebbe, si potrebbe
dire, "modo" analiticamente già compreso nella "sostanza".
Al contrario, «non solo ogni pensatore ha un proprio problema ed una sua
inconfondibile fisionomia, ma |...] tutto in lui lo fa diverso da quelli con
cui in primo tempo era accomunato». Non si tratta, tuttavia, solo di
un'apologia romantica dell'individualità, come il tono del passo sembrerebbe
suggerire: lo stesso rischio si potrebbe ripresentare se pensassimo «ogni
pensatore» come sistema chiuso, una totalità dal significato in sé già
determinato, e sulla base di tale identità analitica valutassimo il modo in cui
egli «dispone e stratifica il processo delle proprie indagini e lo presenta
come struttura della realtà». Si tratta dunque di evitare quei
presupposti storiografici che ostacolano la comprensione di un pensatore, sia
che si prenda come principio di intelligibilità la storia della filosofia nella
sua interezza o una sua epoca, sia la scuola filosofica alla quale appartiene
un pensatore, sia, infine, «la struttura esteriore in cui [...] si sono
solidificate le ricerche e le esperienze» di un singolo filosofo. Per
scongiurare il rischio di un approccio inadeguato, è necessario «cercare la
intima genesi», enucleare il «centro vitale» della individua filosofia: solo in
tal modo «ci si accorge che l'edificio va veduto in altra luce, ed organizzato
in altra forma», perché solo una ricerca che prenda le mosse dalla «genesi
teoretica» di un pensiero riesce a non esserne pura ripetizione parafrastica e
a «cogliere la forma con cui volta per volta ogni singolo momento della vita
mentale è vissuto, e capire il modo con cui è vissuto». Dove si noti come la
divaricazione tra individuazione e valutazione, che nonostante tutto rimaneva
nella recensione del '23, sia ormai pienamente superata: capire una filosofia,
infatti, comprenderla storicamente, cioè nella sua caratteristica che la
fa un'originale produzione dello spirito, significa cogliere il pensiero di un
filosofo «nella sua individualità e nel suo valore speculativo»". Lo
scritto su Heidegger approfondisce anche il significato di "genesi".
La recensione al volume di Chiocchetti si limitava ad affermare che la genesi
consiste nell'afferrare e svolgere il «germe di vita» di un sistema filosofico,
il principio che l'ha fatto sorgere come sistema, che gli attribuisce coerenza
e intelligibilità. Secondo il testo del '35, invece, la genesi va ricercata non
solo nell'enucleazione del «centro vitale» di un pensiero e nel suo
svolgimento, ma anche nel rapporto dialettico con altri pensatori e con
tradizioni specifiche di pensiero: «mostreremo - scrive Scaravelli - la genesi
[del pensiero di Heidegger] a cominciare dalle critiche a quelle posizioni in
cui idealmente inserisce il proprio ritmo, e mostreremo come in queste critiche
stesse il problema cominci a sviluppare la propria natura, per poi acquistare
forma e divenire saldo organismo di vita»" E nel coevo abbozzo
di Introduzione alla traduzione di Was ist Metaphysik? il filosofo
fiorentino ritiene che il «modo in cui il Nulla è sentito e trattato» da
Heidegger «affonda le proprie radici» in «un atteggiamento mentale che
rimontaal periodo romantico»''. Scaravelli ribadisce così la convinzione che il
problema filosofico nasca nella vita, non dalla vita, non cioè dal «mondo di
impressioni, di desideri, di passioni, di fede, di convinzioni, di tradizioni,
di solidi oggetti, di cose resistenti e cangianti»"'; che, insomma, la
filosofia, sebbene investa la vita del suo pathos logico e si sviluppi come
vita concreta, abbia la sua genesi nel pensiero. Non sarebbe in questa
sede opportuno discutere la densa ed elegantissima ricostruzione che
Scaravelli fece, essenzialmente sulla scorta di Vom Wesen des Grundes e di Was
ist Metaphysik?, del pensiero, anzi, del «problema speculativo» di Martin
Heidegger. Basti qui però ricordare che, dopo aver drasticamente separato
Heidegger dalla scuola fenomenologica" (la quale, d'altra parte, è
dissolta nella sua specificità, ricondotta com'è alla ricerca kantiana e
cartesiana che intende risalire dall'esperienza vissuta ai principi che la
formano, procedimento che non differenzia inoltre la fenomenologia da gran
parte del contemporaneo movimento speculativo tedesco), Scaravelli individua
tale problema nello «sforzo alla libertà in cui consiste il nostro essere più
fondo ed il nostro vero comportamento nel mondo»". Problema della libertà
che non seppero risolvere né Kant, rimanendo inconciliate la volontà libera e
la struttura meccanica degli avvenimenti cosmici, né Hegel, poiché la
dialettica non riesce a trasvalutare realmente in spiritualità il proprio
processo, e quindi il logo e la natura. Al contrario Heidegger dà soluzione al
problema pensando l'uomo come «libertà finita»; la libertà dell'Io è libertà
concretamente determinata, in quanto è «possibilità di costruzione d'un mondo,
di sé nel mondo»; il mondo non è semplicemente ciò che è dato all'uomo, anzi,
ciò in cui l'uomo è «gettato come cosa tra le cose», ma al tempo stesso è ciò
che è formato dall'uomo e quindi trasceso nella sua datità: «L'uomo comincia
sempre ex novo come concreta e determinata trascendenza, come rapporto a un
mondo che già esiste ma esiste solo in quando vien formato, ed è formato solo
in quanto viene trasceso»?. Questo dunque, in estrema sintesi, «il
problema speculativo» di Martin Heidegger, questa la «genesi ideale» e - per
usare i termini della recensione a Chiocchetti - l«essenza» della sua
filosofia. Se perciò il riconoscimento dell'appartenenza alla scuola
fenomenologica non può gettare luce sul nucleo teorico del pensiero
heideggeriano, tuttavia questo non sembra davvero essere comprensibile se non
nel contesto della filosofia classica tedesca, sullo sfondo della ricerca
intorno alla libertà che compirono Kant e Hegel. Uno sfondo, perciò,
filosofico. Per Scaravelli, dunque, già in questo testo, e poi con
maggiore nettezza nelle successive e maggiori opere, la filosofia si spiega da
se medesima, senza ricorso alcuno ad elementi biografici, economico-sociali,
insomma storici, come invece farà tanta storiografia filosofica italiana
post-idealistica o non- idealistica a lui coeva: solo la storia della
filosofia spiega la genesi di un pensiero filosofico. Sarà opportuno a questo
punto approfondire il problema, per capire fin dove il pensatore fiorentino
abbia spinto la "crivella" della sua critica nei confronti
dell'impostazione storiografica dell'idealismo italiano, e se a tale critica si
sia sempre mantenuto fedele. Infatti nella questione dell'inizio della
filosofia (di una qualunque filosofia) sembra nascondersi il segreto della
storicità della filosofia medesima e annidarsi tutte le difficoltà che
accompagnano il rapporto della filosofia con la storia.Nel quarto capitolo
della tesi di laurea il giovane filosofo si era soffermato con particolare
attenzione sul problema, indagando l'aporia di pensare la logica dell'astratto
come un dato; se così fosse, allora un determinato periodo storico, «isolato
dal flusso totale, e inquadrato da altre filosofie che lo hanno preceduto e
seguito», finirebbe inevitabilmente per essere valutato in base alla sua
incompiutezza'*. Con la conseguenza che la storia dellafilosofia si
atteggerebbe a «un susseguirsi di sistemi ognuno incompleto e postulante
un superamento, ognuno punto di partenza per uno sviluppo che se ha in se
stesso il suo germe, ha la sua maturazione fuori di lui». In questo quadro
concettuale la genesi della filosofia consisterebbe in fondo nel riprendere e
ripensare sempre i medesimi problemi già dati, sicché le diverse filosofie non
potrebbero che avere «'identico significato»'. Al contrario, la mente non si
appaga di ciò che è dato ma solo di ciò che viene costruendo, in quanto essa è
attività. Così l'uomo che si raccoglie e medita dinanzi ai problemi che
la vita gli offre e cerca in sé una risposta che lo appaghi, ha bisogno che
questa non suoni formula vuota, sebbene semplifichi e sembri spiegare ogni
difficoltà: non cerca quindi una ben elaborata filosofia che appaia nel suo
complesso una pura e astratta contemplazione sotto la quale la vita reale
fluisca. Non cerca cioè risposte che non lo possono mai soddisfare pienamente
perché non toccano la vita che egli realmente vive, e perciò non possono far
sentire la propria necessità in modo tale da imporsi a lui come sua stessa
vita. Ma cerca risposte tali che siano della stessa natura della domanda e
scendano sullo stesso terreno dal quale quella sorge: sorge dalla vita, e
chiede qualcosa che nella vita scenda e la costituisca, e la faccia essere. E
se vivere è sviluppare le proprie energie ed attuare l'attività che dentro ci pulsa,
è chiaro che una filosofia sistematicamente costituita non possa appagare per
la sua staticita, ma occorra ricostruirla, elaborarla, appunto perché la si
deve alimentare con la vita stessa, e la vita si deve alimentare di
essa?%. La filosofia sorge dalla vita, è essa stessa vita, è risposta
vitale alla domanda posta dalla vita medesima. Mai come in questo passo
Scaravelli ha cercato di negare la divaricazione tra forma e vita, tra la pura
e astratta contemplazione filosofica e il fluire della vita «reale» (come se
quella astratta contemplazione fosse sì vita, ma irreale appunto perché
astratta). Eppure occorre chiedersi: cosa significa qui « vita»? Il mondo
preriflessivo, non informato dalla luce del logo? Oppure la vita stessa del
logo? Situazione aporetica, questa, quante altre mai: se vita e logo sono
eterogenei, come è possibile che la vita domandi e il logo risponda? La vita
parla la lingua del già-dato, il logo quella dell'attività. E se invece vita e
logo sono omogenei, come negare che la vita altro non sia che logo astratto,
appunto già da sempre logo e non vita, il quale logo astratto, se pensato nella
sua verità, è momento necessario al farsi concreto del logo concreto? Che
questa conclusione aporetica, non avvertita dal giovane filosofo, ma annidantesi
nella pagina sopra riportata, sia inevitabile, lo mostra l'adesione con la
quale poco più avanti Scaravelli discute dell'identificazione di storia e
filosofia, in cui la storia prende il posto che qui aveva la vita. Ancora una
volta Scaravelli, nel tentativo di rendere più coerente il pensiero che
discute, osserva che, nonostante la riforma della dialettica hegeliana neghi la
legittimità di una trattazione filosofica della natura che preceda e sia
momento preparatorio alla filosofia dello spirito, l'idealismo italiano
(quindi, anche quello di Croce) è ancora affetto da naturalismo nel modo di
fare la storia. Così Gentile - lo si è già ampiamente osservato - considerando
il pensiero antico periodo dell'oggettività e quello rinascimentale della astratta
setivi, ne fa me sigi carli ticate pe preparato la isogna sagitività del
pensiero la dialettica spirituale crea la realtà formando nel suo
processo gli infiniti problemi che costituiscono appunto il mondo storico. La
filosofia quindi viene ad essere la sorgente stessa della storia, ed in quanto
la storia non è che la vita dello spirito, ed il suo formarsi, ed il formarsi
spirituale è filosofia, la filosofia si risolve nella storia, e vi si
identifica. [...] Il mondo storico quindi, è quello che esaurisce in sé tutto
il processo spirituale, ed è su questo terreno che i problemi filosofici
vengono discussi ed elaborati, in quanto con l'elaborarli si vien formando la
storia appunto che è flusso reale dello spirito??.come si antern vada i dunte
il mestie col lusini de itime la ime di del de la dios no chà sorge dalla
vita/storia è di questa formatrice, tanto che con pari diritto si può dire che
sia la vita/ storia a sorgere ed essere alimentata dalla filosofia. Anzi, più
radicalmente, se la vita di cui qui si discute non è vita precategoriale ma è
«la vita dello spirito», e quindi storia, e se la storia è processo spirituale
in quanto la filosofia ne è il principio, se insomma la vita/storia è identica
alla filosofia, allora la filosofia trova la sua genesi nella stessa filosofia
e non in una impossibile realtà altra da lei. C'è tuttavia un altro
documento che dobbiamo prendere, sia pur brevemente, in considerazione, prima
di chiudere la discussione: si tratta di una lunga lettera scritta a Guido Calogero
il 19 luglio 1928. Documento per noi importante, in quanto in esso
Scaravelli non solo prende le distanze da un modo di fare storia della
filosofia che ritiene le filosofie del passato qualcosa che possa essere
"superato", ma soprattutto intende pervenire a «una posizione
filosofica a-polemica» che non crede di poter distinguere nei sistemi
filosofici quanto è da accettare e quanto è da scartare, né va alla caccia
dell'errore che faccia crollare l'intera costruzione. «Nessun filosofoè
accettabile, nessun punto del suo pensiero è incamerabile nel mio: né io
mi fermo su ciò che dice [...]; quello che conta [...] è il come dice quello
che dice, il tono che pervade l'edificio, l'armonia interna alla sua visione».
Ogni filosofia è infatti espressione, espressione «di sé stesso», della propria
«personalissima [...] esperienza di vita». Sembra quasi che Scaravelli intenda
"ridurre la filosofia sotto il concetto generale dell'arte" (le
metafore musicali, in effetti, ritornano frequentemente nella lettera: «tono»,
«armonia», «note, armonici», «timbro»), farne espressione dell'individualità
per renderla veramente storia, cioè affermazione del nuovo: «le parole, gli
schemi, i concetti, le distinzioni, le dialettiche, le sussunzioni [delle
diverse filosofie] non sono per me che tecniche diverse con cui ognuno esprime
sé stesso»; e aggiungeva, con caustica e toscanissima battuta, che «se uno è
bischero apparirà tale qualunque tecnica adoperi, modernissima o arcaica, e se
è un grande, idem con patate»?8. Qui il rapporto tra filosofia e vita
sembra ribaltarsi: non è più la vita ad esser vita della filosofia, ma è la
filosofia ad esser espressione della vita, cioè della esperienza di vita del
singolo pensatore. Ma, pur se rovesciato, il quadro teorico emerso dalla discussione
de La logica dell'astratto non muta: infatti, se il valore di una filosofia non
sta nel suo significato (ciò che dice), bensì nella sua espressione (come lo
dice), ciò vuol dire che il suo valore è nella forma e non nel contenuto (il
quale, essendo esperienza, addirittura sentimento, non può essere condiviso né
valutato da me che ho altre esperienze e altri sentimenti: «Nessun
filosofo è accettabile, nessun punto del suo pensiero è incamerabile nel mio»).
E la forma della filosofia è logo, logo e non vita. Per cui la genesi della
filosofia, in quanto genesi ideale, non potrà prodursi nella vita, «cruda e
verde» avrebbe aggiunto il vecchio Croce molti anni dopo, ma solo nella sua
espressione - cioè nella forma del logo, nella filosofia stessa. Sicché, da
questo punto di vista, Scaravelli sembra muoversi ancora all'interno
dell'orizzonte teorico dell'idealismo italiano. Infatti, si deve
aggiungere senza tema di allungare ulteriormente una considerazione già ampia
ma che concerne un punto assolutamente centrale, l'idealismo italiano molto si
affaticò intorno audendo e piania la Colini del pie dicie del sile, spale
a epo ali icofcinte. la differenza tra la concezione del reale come
spirito (Hegel) e la concezione del reale come storia (Croce) consista nel
fatto che lo spirito, «indagando nella propria essenza e andando idealmente a
ritroso nella propria genesi», incontra momenti sempre più poveri ed
elementari, mentre la storia trova sempre le proprie identiche forme, «sempre
concrete nelle opere in cui esse hanno l'esistenza»" - scrive: Ogni
singola forma ha realtà in sé; e l'esistenza è la loro connessione. Questa è la
ragione in sede speculativa, cioè la giustificazione teoretica, di una
affermazione su cui il Croce tanto insiste: che l'opera d'arte e l'opera
difilosofia non nascono per partenogenesi, ciascuna solo dalla propria forma
(per una sorta di scissiparità), cioè dallo studio dall'analisi o dal modello
di un'altra opera d'arte o d'un'altra opera di filosofia; ma nascono dalla vita
tutta quanta, dall'esistenza. Perché un'opera sia realmente esistente è
necessario che abbia le proprie radici nell'esistenza, cioè nel nesso in cui le
forme sono reali; e perciò, in quel nesso, nelle forme tutte quante30.
Ora, la filosofia potrà nascere «dalla vita tutta quanta» solo se le forme sono
reali e se reale è il loro nesso. Scaravelli risponderà alla questione
nella conclusione dell'opera, in una pagina esemplarmente ardua per la
concisione in cui l'argomentazione vi è rinserrata". La concezione
crociana come storia soddisfa l'esigenza di coerenza interna del sistema ma non
l'esigenza di concretezza dei suoi elementi, finendo così per offrire
kantianamente «"un trattato del metodo"» ma non «la storia e la
realtà stessa nel suo quotidiano formarsi». Infatti, se da una parte a
fondamento di tutte le opere e concezioni teoretiche e problemi di cui è
tessuta l'esistenza c'è una «forma come principio di cambiamento», cambiando la
quale non esisterebbe più alcun cambiamento, una forma eterna e immodificabile
di cui quelle opere, concetti e problemi sono «manifestazioni» e non «forme
assolute»; dall'altra, proprio perché manifestazioni della eterna forma e non a
loro volta forme, quelle opere, concezioni e problemi mancano di «vera
concretezza ed esistenza», sono soltanto «possibilità [...] delle sempre
identiche forme». Di qui l'aporia: o si mantiene l'assolutezza delle forme
eterne, ma allora non acquistano concretezza le opere, le concezioni e i
problemi; oppure si considerano reali solo queste opere, queste concezioni e
questi problemi, ma allora «quelle forme sfumano, e queste concretezze si
dirompono nell'inconcepibile». O intelligibilità senza concretezza, o
concretezza senza intelligibilità.Perciò, se si tiene ferma l'esigenza della
intelligibilità della filosofia cercandone di comprendere la genesi
ideale, la singola filosofia, realizzatasi in opere, concetti e problemi, non
potrà rinviare che alla sua stessa forma, a mai al nesso delle forme, cioè
all'esistenza tutta quanta. Il risultato che ci si prospetta è
paradossale: dissolta la storia della filosofia fatta di
"superamenti" e "sviluppi", emerge una comprensione
della tradizione filosofica occidentale in cui alcuni assunti della
storiografia idealistica vengono non respinti, ma radicalizzati al punto da far
dubitare proprio della loro coerenza col quadro teorico idealistico. Innanzi
tutto le filosofie debbono essere interpretate a partire dai propri principi;
siamo dinanzi alla più piena rivendicazione dell'autonomia della filosofia:
ogni singolo sistema di pensiero deve essere interpretato solo a partire da se
stesso", dal suo nocciolo teoretico (il «germe di vita»), e valutato nella
sua importanza in base alla coerenza - tra l'esperienza di vita e gli strumenti
teorici scelti per esprimerla, e tra le stesse tecniche adoperate (se vogliamo
utilizzare il lessico della lettera a Calogero), tra il principio generatore,
la sua forma immanente, e i suoi elementi a quello subordinati -. In secondo
luogo, le filosofie, non disposte più in una successione storica che sia anche
dispensatrice del loro valore, sono tutte idealmente contemporanee, e perciò
ogni filosofia può essere unainterlocutrice altrettanto legittima di un'altra
nella discussione filosofica. Come appunto avviene nella Critica del
capire. 4. Tra storicismo e non: la storia della filosofia nella Critica
del capire Se Scaravelli, grazie al lungo percorso, che abbiamo cercato
di ricostruire, di discussione critica dei presupposti della storiografia
filosofica dell'idealismo italiano e del suo storicismo, approda nella Critica
del capire alla individuazione dei principi trascendentali di una nuova e più
adeguata storiografia, nella effettiva discussione delle filosofie del passato
non sempre si affranca dalla sua origine. Di qui l'impressione di una qualche
ambiguità che suscitano alcune pagine del suo capolavoro. Da un lato,
come già accennato, Scaravelli radicalizza la tesi della contemporaneità della
storia, pervenendo ad esiti decisamente divergenti da quelli di Croce e
Gentile: contemporanea o attuale è una filosofia non tanto perché viene resa
tale dall'atto di pensiero che la pensa, quanto perché l'analisi scaravelliana,
avendo per scopo di far riemergere tutti i problemi della tradizione
filosofica, «dovrebbe far contemporanei tutti i filosofi, e invitarli tutti a
una continua discussione»'. Contemporaneità, dunque, non a parte subjecti, ma a
parte objecti. Non sfugga la differenza di atteggiamento tra Scaravelli e i
maestri dell'idealismo italiano. Infatti come è necessario discutere la coerenza
interna di ogni filosofia apparsa nella storia juxta propria (della filosofia,
non della storia) principia, così è opportuno porsi dal punto di vista della
filosofia contemporanea per discutere dei problemi filosofici, perché più
proficuo ed efficace, quindi più capace di indurre all'ascolto e alla
discussione il pubblico, ma non perché sia più vero: «Adopro l'italiano e non
il latino. Ma con questo non credo che l'italiano sia più ricco, più profondo
ecc. del latino. Cioè non credo che l'italiano abbia superato il latino».
Perciò, per quanto riguarda il rapporto fra realtà e conoscenza, scrive a Fossi
nella lettera del 20 agosto 1937: Io accetto l'identità realtà =
conoscenza (o conoscenza = produzione di realtà [...)) come cosa pacifica [...]
mi metto in pieno idealismo. E dopo averlo dato per ormai lapalissiano, discuto
la struttura del conoscere; e qui dentro trovo tanti mai dubbi, e distinzioni e
rapporti, e diavoli e santi, e quel vecchio problema già liquidato e
dimenticato, viene invece a vendicarsi ampiamente e risorge più vigoroso di
prima proprio perché interno al proprio purissimo idealistico
conoscere34.interlocutrice altrettanto legittima di un'altra nella discussione
filosofica. Come appunto avviene nella Critica del capire. 4. Tra
storicismo e non: la storia della filosofia nella Critica del capire Se
Scaravelli, grazie al lungo percorso, che abbiamo cercato di ricostruire, di
discussione critica dei presupposti della storiografia filosofica
dell'idealismo italiano e del suo storicismo, approda nella Critica del capire
alla individuazione dei principi trascendentali di una nuova e più adeguata
storiografia, nella effettiva discussione delle filosofie del passato non
sempre si affranca dalla sua origine. Di qui l'impressione di una qualche ambiguità
che suscitano alcune pagine del suo capolavoro. Da un lato, come già
accennato, Scaravelli radicalizza la tesi della contemporaneità della storia,
pervenendo ad esiti decisamente divergenti da quelli di Croce e Gentile:
contemporanea o attuale è una filosofia non tanto perché viene resa tale
dall'atto di pensiero che la pensa, quanto perché l'analisi scaravelliana,
avendo per scopo di far riemergere tutti i problemi della tradizione
filosofica, «dovrebbe far contemporanei tutti i filosofi, e invitarli tutti a
una continua discussione»'. Contemporaneità, dunque, non a parte subjecti, ma a
parte objecti. Non sfugga la differenza di atteggiamento tra Scaravelli e i
maestri dell'idealismo italiano. Infatti come è necessario discutere la
coerenza interna di ogni filosofia apparsa nella storia juxta propria (della
filosofia, non della storia) principia, così è opportuno porsi dal punto di
vista della filosofia contemporanea per discutere dei problemi filosofici,
perché più proficuo ed efficace, quindi più capace di indurre all'ascolto e
alla discussione il pubblico, ma non perché sia più vero: «Adopro l'italiano e
non il latino. Ma con questo non credo che l'italiano sia più ricco, più
profondo ecc. del latino. Cioè non credo che l'italiano abbia superato il
latino». Perciò, per quanto riguarda il rapporto fra realtà e conoscenza,
scrive a Fossi nella lettera del 20 agosto 1937: Io accetto l'identità
realtà = conoscenza (o conoscenza = produzione di realtà [...)) come cosa
pacifica [...] mi metto in pieno idealismo. E dopo averlo dato per ormai
lapalissiano, discuto la struttura del conoscere; e qui dentro trovo tanti mai
dubbi, e distinzioni e rapporti, e diavoli e santi, e quel vecchio problema già
liquidato e dimenticato, viene invece a vendicarsi ampiamente e risorge più
vigoroso di prima proprio perché interno al proprio purissimo idealistico
conoscere34.In ultima analisi nella Critica del capire Scaravelli mostra di
aver maturato una concezione della filosofia diversa da quella idealistica:
filosofia è «porre il problema, e vivere il problema, concludere con la fede
nel riporre sempre il problema. E sempre essere al principio senza accumulare
scienza»". In conseguenza di ciò nella Critica del capire i diversi
filosofi sono convocati all'interno della discussione di un problema, per
illuminarlo di volta in volta con l'esemplarità della loro posizione teoretica.
Sicché la discussione non procede seguendo una successione storica. Ad esempio,
nel capitolo dedicato giudizio, l'analisi prende le mosse da Kant, per passare
a Hegel, poi si ritorna a Kant, e prosegue ancora passando per Cartesio, di
nuovo per Kant, Schelling, Fichte, Hegel ecc. fino a Croce. Ma non
si ricostruisce la genesi e lo sviluppo del problema a partire dai
diversi filosofi che l'hanno dibattuto, bensì, al contrario, le posizioni dei
singoli servono ad illustrare esemplarmente la genesi e lo sviluppo del
problema che urge verso la soluzione. Dall'altro lato, però, Scaravelli
era pienamente consapevole di non essersi completamente liberato
dell'impostazione storicistica nella quale si era formato, per lo stesso modo
in cui era andato elaborando la riflessione critica dei problemi filosofici.
Cioè, non sempre ha la forza di tener ferma la subordinazione dello sviluppo
temporale, con i vari e successivi "superamenti", alla
chiarificazione concettuale del problema.Lo mostra con nettezza il
seguente passo della lettera, inviata presumibilmente a Ernesto
Codignola, del 14 agosto 1935, in momento decisivo della stesura del suo
capolavoro: In realtà io mi vengo, in questo libro, faticosamente
spogliando di manie storico-espositive: e perciò rinvango il passato: alla
Gentile - purtroppo -, che rimpinzava la sua Teoria generale e la sua Logica
con esposizioni e critiche di Platone-Aristotele-Kant etc. etc.; e così ho
fatto io. Ma se le elimino - in coscienza - dovrei rifare il libro di sana
pianta. Perché questo libro è proprio nato e vissuto (povero ragazzo) in
quest'epoca disgraziata in cui io sono (o ero) a cavallo fra una posizione
storicistica e una... che ancora non mi è ben chiara ma che dovrebbe nascere da
questo mio lavoro36. Prendiamo allora in esame, a prova di tale
incertezza, un esempio concreto di analisi storica di una filosofia nella
Critica del capire. Nella seconda parte del capitolo Gli opposti Scaravelli si
interroga sul rapporto fra contraddittorietà e distinzione all'interno del
rapporto fra i contraddittori A non A. Secondo la «rigorosa posizione di
Parmenide» il puro contradditorio non esiste. Ma, argomenta Scaravelli,
essendo il contraddittorio, per quanto indeterminato, il «substrato
indispensabile di ogni cosa» - infatti A non A è la realtà -, tutto quanto
scomparirebbe: «eliminato il contraddittorio, ogni contrarietà, ogni
opposizione, ogni distinzione, vanisce nel sogno di esseri effimeri vaganti nel
nulla». Parmenide, come Schelling, è uscito dalle distinzioni del mondo
«con un incanto, con un salto nell'identità», che non riesce a giustificare. «E
lì dentro, se proprio chiusi i portoni di bronzo si sono tagliate le
connessioni con la contraddittorietà, non c'è nulla da vedere né nulla da
sentire: la vita vi è terminata; anzi la vita non vi è mai cominciata»*
Perché la posizione di Parmenide è rigorosa, se non è capace di giustificare
l'identità avendo negato la contraddittorietà? Perché Parmenide non accetta di
ammettere ciò che non può cogliere, e quindi pensare, nella sua purezza.
Per vivere occorre ammettere il contradittorio, dice il Forestiero di Elea. E
il puro contradittorio è proprio come la vita: non si coglie mai. Cogliere la
vita... ma la vita si vive; cogliere il trapasso fra essere e non-essere... ma
quando si ficca il viso a fondo, e l'essere, puro essere, privo di ogni
determinazione, scompare, e ci si trova dinanzi il Nulla, il passaggio non si vede
avvenire: è avvenuto. Non passa, è passato, ammoniva Hegel. La riflessione
arriva troppo tardi; la vita è già stata.Parmenide, potremmo aggiungere noi, si
ritrae davanti a questa trasformazione, anzi, la nega, perché nega anche
qualsiasi distinzione fra i due A del contraddittorio A non A. E da questa
negazione salta nell'identità dell'essere. Ma si tratta di una scelta
ingiustificata. Se infatti si toglie dalla contradittorietà ogni sospetto
di distinzione, ogni ombra di distinzione, si ha l'in distinto. E basta.
Trasformare l'indistinto in identico, fermarlo nell'uno, richiede un arresto
nel processo, un capovolgimento violento, un vigore sintetico che forzi
l'indistinto e lo stringa in sé, lo renda compatto, omogeneo, uno,
identico: Essere. Questa violenza a quel processo che porterebbe i due
termini della contradittorietà - scomparsa ogni distinzione - fino
all'indistinto, violenza che lo arresta e inverte, si chiama Parmenide. Una
fermata mentale: P'Uno38. Dunque, la coerenza di Parmenide sta
nell'esigenza di ammettere solo ciò che si può pensare: ma se il
contraddittorio non si può pensare nella sua purezza, senza la distinzione, se
la distinzione tra i due A del rapporto di contraddittorietà non si può
pensare, perché il non diverrebbe forza non solo distinguente ma
anche annichilente, ricacciando il secondo A nel non-essere A, e
quindi nell'impensabilità del non-essere, allora non si può ammettere né
la contraddittorietà né la distinzione. Si tratta però di una coerenza
che mostra due principali limiti: il primo consiste nel fatto che «il non
distinto non è identico a identico», cioè che il processo di dissoluzione della
distinzione nell'indistinto non è di per sé costretto ad arrestarsi
nell'identità"; il secondo nella constatazione che dimostrare l'assurdità
della contraddittorietà non significa dimostrare né la validità né l'esistenza
dell'identità, «perché il metodo dimostrativo su cui qui si fa leva è quello
della "dimostrazione per assurdo"; e la dimostrazione per assurdo non
fonda l'identità, ma si basa su di essa». La genesi intima del pensiero
parmenideo è dunque nella esigenza di costringere l'indistinto, la perdita di
ogni ombra di distinzione, nella pura identità dell'essere e dell'uno. Esigenza
che si traduce in una decisione violenta, in quanto per ottenere la
trasformazione dell'indistinto in identico si deve agire dall'esterno (cioè
introducendo esigenze estranee) sul processo di dissoluzione della distinzione.
L'aver individuato la genesi intima del pensiero parmenideo, quindi, permette a
Scaravelli di valutarne la coerenza: esso è giudicato rigoroso perché, senza
fare concessioni al senso comune, muovendo dall'inammissibilità di
accogliere ciò che non si può pensare puramente, nega ogni contraddittorietà ed
ogni distinzione, per concludere nella più salda e bronzea identità. Tuttavia,
proprio tenendo fermo il principio di coerenza, Scaravelli può sostenere che
«se non è facile contraddire Parmenide [...] è impossibile contraddire la
verità». Quasi che il processo di disvelamento della verità sia inarrestabile e
affermandosi ricacci nelle tenebre dell'errore tutto quanto si discosta da
essa. Perciò «il processo prosegue, e Parmenide rimane indietro nella storia
del pensiero»". Espressione, questa, sorprendente, che forse si
potrebbe definire un lapsus mai emendato" rivelatore di un non
risolto legame con lo storicismo idealistico e di quella incertezza di cui si
diceva commentando la lettera a Codignola; su ciò è necessario fermare
l'attenzione per svolgere due considerazioni. Salta infatti subito agli
occhi come una tale affermazione sembri ridurre Parmenide a una tappa
necessariamente superata nella storia della filosofia, proprio nella migliore
(o peggiore) tradizione storicistica, denunciata da Scaravelli fin dalla
tesi di laurea. Proseguiamo allora nella lettura della Critica del capire, per
chiederci in che senso la storia del pensiero prosegua il suo cammino - se non
verso la verità, almeno lontano dall'errore. Subito dopo la trattazione di
Parmenide (e dopo un'ampia analisi della dimostrazione per assurdo), cioè del
tentativo di abolire ogni distinzione nella contraddittorietà, emerge il
tentativo di pensare la distinzione senza la contraddittorietà. Privati del
non-essere reciproco che li fa termini di una relazione, «i distinti si
separano ...] si possono suddistinguere e dividere e moltiplicare
all'infinito». L'arresto dello sbriciolamento cui i distinti senza la
contraddittorietà vanno incontro può avvenire solo grazie ad una forza pari
alla distinzione: l'atomo di Democrito «è un "fermo", un
ostacolo», un rendere identiche le parti che la distinzione tentava ancora di
separare. Essendo questo vigore estraneo alla distinzione, la
disgregazione continua: i puri distinti, «perso ogni reciproco rapporto, ogni
riferimento, non son neppure 1 molti sterminati diversi, ma, indeterminati
interiormente ed esteriormente, vagano nel vacuo irrelato, nell'indistinto; e
diventano, ciascuno, mero indistinto». Non interessa ora la conclusione che
Scaravelli trae dall'esame dell'identità, della distinzione e della
contraddittorietà (sono principi cooriginari, tutti necessari e nessuno
sufficiente), quanto un'altra e implicita conclusione che può trarsi da questa
pagina: la genesi del pensiero di Democrito è nella filosofia di Parmenide,
nella sua negazione della distinzione e nel tentativo opposto di pensare la
pura distinzione senza la contraddittorietà. La filosofia sorge dalla
filosofia*. E i filosofi sono nomi con cui designare posizioni
filosofiche. In secondo luogo, infatti, l'analisi scaravelliana sembra
risolvere Parmenide (e Democrito) in una determinata posizione filosofica:
essendo una posizione filosofica, può ripresentarsi nel corso del pensiero,
rappresenta cioè un'esigenza duratura, e Parmenide è il nome di questa
esigenza: «tutte le volte che si desidera o si sogna di cancellare la
distinzione, sorge l'Uno come mèta, come termine cui porta il sogno e il
desiderio. E l'Uno prende il nome di Sostanza, o di Amore, o di Beatitudine
della trasparenza intellettuale»". Non solo Parmenide, dunque, ma Spinoza,
Schelling e tanti altri ancora... Sicché sorge il problema di come sia
conciliabile il ripresentarsi di una posizione filosofica con la originalità e
novità attribuita ad ogni filosofo". Cioè, detto nei termini tradizionali
del dibattito teorico sulla storiografia filosofica in Italia, il problema
della continuità e della discontinuità nella storia del pensiero. 5.
Continuità e discontinuità nella storia del pensiero Dopo la
pubblicazione della Critica del capire Scaravelli intraprese contemporaneamente
due ricerche: la prima dedicata all'Analitica trascendentale kantiana, la
seconda alla genesi della concezione della realtà come storia. Ricerche
complementari e gemmate da un unico ceppo, l'approfondimento della sintesi a
priori, del suo carattere e della sua sopravvivenza nella tradizione
idealistica", che avrebbero dovuto concretizzarsi in due monografie. Com'è
noto, solo la prima, e in forma ridotta rispetto al progetto iniziale, vide la
luce nel 1947 col titolo Saggio sulla categoria kantiana della realtà; alla
seconda, che Scaravelli avrebbe voluto intitolare Dalla logica come scienza del
concetto puro alla logica come teoria del giudizio individuale, invece
rinunciò, sebbene l'elaborazione di alcune parti dell'opera fosse assai
avanzata.Questi due lavori assumono per noi una notevole importanza per il
fatto che in entrambi Scaravelli tocca la questione della continuità e della
discontinuità della storia del pensiero, scientifico nella prima opera,
filosofico nella seconda. Infatti, nel Saggio si presenta la questione della
discontinuità tra fisica classica e fisica moderna; nello scritto dedicato alla
logica crociana, invece, la questione - apparentemente altra ma in realtà
medesima - della segreta continuità di modi di pensare che, sorti per
soddisfare alcune esigenze, continuavano ad operare in contesti teorici e per
fini affatto diversi da quelli nei quali e per i quali erano stati
originariamente concepiti, con conseguenze distorsive molto importanti.
Scaravelli si riferisce in particolare alla «mentalità» che ha generato la
kantiana sintesi a priori e che sopravvive come « un vero e proprio reliquato»
nella dialettica hegeliana", producendo i suoi effetti anche
nell'idealismo italiano"". Prima di dare inizio all'analisi dei
testi scaravelliani sarà opportuno premettere una osservazione. Il problema
della continuità e della discontinuità nella storia del pensiero fu uno dei
temi principali del dibattito sullo statuto teorico della storiografia filosofica
in Italia, assai vivo negli anni Quaranta e Cinquanta", cioè proprio nel
periodo di elaborazione degli scritti di cui si sta qui ragionando. E tuttavia
non mi pare che in quel dibattito si sia a sufficienza rilevata la difficoltà
di cogliere la natura delle categorie di continuità e di discontinuità.
Infatti, qualora siano pensate astrattamente - come per lo più è avvenuto e
ancora avviene -, come indipendenti e addirittura reciprocamente escludentisi,
quella natura inevitabilmente sfugge, in quanto esse, al contrario, sono per
necessità correlative. Non si dà infatti discontinuità se non sullo sfondo di
una continuità rispetto alla quale i discontinui si distinguano e che alla
discontinuità permetta perciò di istituirsi. E, d'altra parte, la continuità
non può essere pura omogeneità, ripetizione dell'identico, perché, se così
fosse, non vi sarebbe continuità ma identità, puntuale identità, che nega il
dispiegarsi del continuo nel tempo, sicché alla continuità necessita almeno un
"grano" di discontinuità se vuole davvero essere continuità e non
serrarsi nell'immobile identità.Il problema è affrontato da Scaravelli nella
Nota che chiude la lunga e fondamentale lettera a Fossi del 10 gennaio 1934:
ritornando sul rapporto tra distinti e contraddittori, il filosofo fiorentino
sottolinea come i contraddittori siano solo parte del rapporto tra due distinti
e non esauriscano quindi il rapporto medesimo. Prendiamo ad es. in
considerazione i distinti A e B: B non è semplicemente non A, ma una delle
possibili determinazioni di non A, che appunto ha il vigore di distinguersi da
non A. Al contrario, se ammettiamo che i contraddittori possano annullare ogni
distinzione, che nessun B possa distinguersi rispetto ai C, D ecc., perché
tutti necessariamente identici a non A, allora otteniamo non il nulla, bensì
l'indistinto. Vediamo cosa ne risulta per il nostro problema. La situazione
teoretica che Scaravelli ha ipotizzato - invece di avere un rapporto costituito
da distinti e contraddittori si ha un rapporto costituito dai soli
contraddittori - porta al fatto che l'«indistinto che rimane al posto del
rapporto» garantisce quel «minimum necessario alla continuità». Ma allora
cadiamo nella metafisica aristotelico-tomista, nella quale la materia che funge
da sostrato garantisce il divenire, il quale è passaggio dalla privazione alla
forma, ovvero dalla potenza all'atto. «Ma a me, personalmente, questo non
interessa, perché ritengo la continuità una delle tante interpretazioni del
rapporto stesso. Cioè la continuità storica sarebbe, per me, una teoria che interpreta
in modo speciale (e già metafisico) la relazione tra contraddittori e distinti;
teoria che non ha fondamenti sufficientemente saldi». In cosa consiste
l'interpretazione metafisica del rapporto? Nell'identificare
"indistinto" ed "omogeneo" (la continuità storica sarebbe -
contraddittoriamente - una omogeneità che di dispiega identicamente nel tempo):
«e ciò è possibile se si ha di già una metafisica, o una concezione in cui non
si tien conto che l'indistinto non può fare da omogeneo, ossia da "identico",
ossia non lo si può considerare come se avesse una sua rigidità»°. Ora,
della continuità non possiamo fare a meno, pena la negazione stessa di
qualsivoglia rapporto tra distinti. Allora, come interpretare non
metafisicamente la continuità storica, sottraendola sia alla omogeneità
che fa identici tutti i distinti, sia alla irrelatività dei distinti di cui si
nega ogni relazione che non sia appunto quella della distinzione? La
peculiarità della risposta scaravelliana a questo problema sta nell'uso, non
tematizzato, della nozione di «mentalità»: si tratterà di comprendere le
continuità prodotte dalla forza vincolante di una «posizione mentale» che
orienta la ricerca di filosofi e scienziati; e inoltre le discontinuità che si
producono tra mentalità diverse che si succedono alle precedenti e si
distinguono dalle coeve e differenti, e che nel loro succedersi e distinguersi
sembrano scandire la storia. Occorrerà allora prima ripercorrere l'uso fatto da
Scaravelli di questa nozione per comprenderne poi la pregnanza teorica nelle
ricerche successive alla Critica del capire. 6. Una soluzione non
tematizzata: la nozione di mentalità La nozione di mentalità - e dei suoi
equivalenti «posizione mentale», «atteggiamento mentale», ecc. - compare molto
presto nella riflessione teorica di Scaravelli e, cosa assai significativa,
proprio in relazione alla teoria gentiliana della storiografia filosofica.
Discutendo nel terzo capitolo della tesi di laurea la prima triade della logica
di Hegel, il giovane filosofo mette in luce come la difficoltà di dedurre il
divenire dalla opposizione di essere e non essere nasca «dalla insufficiente
coscienza della propria posizione mentale nel risolvere il problema»".
Dove si noti la divaricazione tra la posizione mentale (o mentalità) e la
coscienza di essa, ovvero tra l'adesione profonda ad un modo di pensare e la
consapevolezza di tale adesione cui si attribuisce la responsabilità di
impostare il problema non nei termini di cui si è coscienti ma in quelli cui in
effetti si aderisce. Non si può certo affermare che nella tesi di laurea
Scaravelli fosse consapevole della importanza che la nozione di mentalità
poteva avere nella ricostruzione della storia del pensiero scientifico e
filosofico. Ma già nella lettera del 2 gennaio 1926 a Piero Fossi vi
presta attenzione; in essa, parlando del libro diManzoni sulla rivoluzione
francese, Scaravelli definisce antistorica la mentalità dello scrittore
lombardo e si interroga subito dopo sul significato di mentalità: Quando
si dice antistorica la mentalità del secolo XVIII, si fa un luogo comune, va
bene, ma si dice qualcosa di vero o no? Cosa c'è di vero in questo luogo
comune? Di falso ci sarà che pretende di legare insieme, accatastare, tanti
uomini in una sola denominazione (dispregiativa, negativa o no importa poco)
che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però è strano che si leggono vari
autori di una stessa epoca, levate poche eccezioni, si sente, si vede, si
avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si pensa) che hanno molti punti a comune.
Ossia molte visioni, molti modi di impostare la questione, molti argomenti su
cui insistono di preferenza, molte soluzioni e piccolissime difficoltà che
incontrano per la strada [...]. Cos'è quest'aria di famiglia? A ogni modo è su
questa somiglianza di molti particolari accidentali, poco importanti, a volte
trascurabili, sempre secondari, ma per il numero e la circostanza
notevolissimi, e a volte imponenti, è su questa somiglianza direi del
pulviscolo atmosferico, che aleggia intorno a ogni viso, che si basa il
giudizio sul carattere complessivo di un'epoca. Giudizio schematico
perene cualzo astratto. anzi perene somma e non grualzio ma somma uale,
erneace, scocclante e mta clante volte, ma ineliminabile. Dunque non è falso
che la "mentalità" di un secolo possa essere in un modo, per esempio
antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo stato quasi gassoso, come è quasi
fluido il pulviscolo che addiziona e stringe, ma falsa no... Ma all'ingrosso,
ecco: se è vero che di molti schemi mi son liberato così che se qualcuno
venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia greca è la filosofia
dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili, io strillerei come
un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora non vedo che ci sia
di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità antistorica":
nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio, Spinoza ecc. ecc. ed anche
Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non troppo53. È importante
sottolineare, in primo luogo, come la nozione di mentalità (termine di uso
comune già da un ventennio) 54 ricorra in testi e autori centrali
nella formazione di Scaravelli. Non perché, individuata la fonte, il
problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo uso, che è di
volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è possibile che la
"logica" insita nella fonte persista in chi la utilizza, e che le
difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di questo. Si pensi, ad
es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile nega la possibilità
di una storia della scienza che non sia una storia della filosofia, la quale
considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei concetti filosofici
immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di questi concetti non pel
valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato, quale determinazione
oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in perpetua formazione,
per cui si pongono via via e si risolvono i singoli problemi scientifici»».
Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire fenomenologica, tra il
valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la mentalità per mezzo della
quale egli pone e risolve i problemi. Ancor più significativo mi sembra
l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio Macchioro; ne L'Evangelio, che
Scaravelli aveva recensito", si legge che la «mentalità del fanciullo e
del primitivo» è ricchissima di elementi fantastici e quindi di contenuto
mitico, al contrario della «mentalità dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni
rivestono più facilmente le forme logiche o intellettive»". Siamo dinanzi
alla nota tesi di Levy-Bruhl sul prelogismo; tesi che era assai più
diffusamente sostenuta in opere precedenti, che Scaravelli mostra di conoscere
e apprezzare". In Macchioro, come in Levy-Bruhl, laManzoni sulla
rivoluzione francese, Scaravelli definisce antistorica la mentalità dello
scrittore lombardo e si interroga subito dopo sul significato di
mentalità: Quando si dice antistorica la mentalità del secolo XVIII, si
fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa di vero o no? Cosa c'è di vero
in questo luogo comune? Di falso ci sarà che pretende di legare insieme,
accatastare, tanti uomini in una sola denominazione (dispregiativa, negativa o
no importa poco) che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però è strano
che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate poche eccezioni, si
sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si pensa) che hanno
molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di impostare la questione,
molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte soluzioni e piccolissime
difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è quest'aria di famiglia? A
ogni modo è su questa somiglianza di molti particolari accidentali, poco
importanti, a volte trascurabili, sempre secondari, ma per il numero e la
circostanza notevolissimi, e a volte imponenti, è su questa somiglianza direi
del pulviscolo atmosferico, che aleggia intorno a ogni viso, che si basa il
giudizio sul carattere complessivo di un'epoca. Giudizio schematico
perene cualzo astratto. anzi perene somma e non grualzio ma somma uale,
erneace, scocclante e mta clante volte, ma ineliminabile. Dunque non è falso
che la "mentalità" di un secolo possa essere in un modo, per esempio
antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo stato quasi gassoso, come è quasi
fluido il pulviscolo che addiziona e stringe, ma falsa no... Ma all'ingrosso,
ecco: se è vero che di molti schemi mi son liberato così che se qualcuno
venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia greca è la filosofia
dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili, io strillerei come
un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora non vedo che ci sia
di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità antistorica":
nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio, Spinoza ecc. ecc. ed anche
Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non troppo53. È importante
sottolineare, in primo luogo, come la nozione di mentalità (termine di uso
comune già da un ventennio) 54 ricorra in testi e autori centrali
nella formazione di Scaravelli. Non perché, individuata la fonte, il
problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo uso, che è di
volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è possibile che la "logica"
insita nella fonte persista in chi la utilizza, e che le difficoltà di quella
si trasformino nella difficoltà di questo. Si pensi, ad es., a quella pagina
della Teoria generale in cui Gentile nega la possibilità di una storia della
scienza che non sia una storia della filosofia, la quale considera
concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei concetti filosofici immanenti
alla stessa scienza, studiando ogni forma di questi concetti non pel valore che
essa ebbe ogni volta per lo scienziato, quale determinazione oggettiva del
reale, bensì come grado della mentalità, in perpetua formazione, per cui si
pongono via via e si risolvono i singoli problemi scientifici»». Dove si noti
la distinzione, che si potrebbe definire fenomenologica, tra il valore che al concetto
attribuisce lo scienziato e la mentalità per mezzo della quale egli pone e
risolve i problemi. Ancor più significativo mi sembra l'uso che di tale
nozione aveva fatto Vittorio Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva
recensito", si legge che la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è
ricchissima di elementi fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario
della «mentalità dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più
facilmente le forme logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi
di Levy-Bruhl sul prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in
opere precedenti, che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In
Macchioro, come in Levy-Bruhl, laManzoni sulla rivoluzione francese, Scaravelli
definisce antistorica la mentalità dello scrittore lombardo e si interroga
subito dopo sul significato di mentalità: Quando si dice antistorica la
mentalità del secolo XVIII, si fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa
di vero o no? Cosa c'è di vero in questo luogo comune? Di falso ci sarà che
pretende di legare insieme, accatastare, tanti uomini in una sola denominazione
(dispregiativa, negativa o no importa poco) che dia una caratteristica comune a
tutti. Ma però è strano che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate
poche eccezioni, si sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non:
si pensa) che hanno molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di
impostare la questione, molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte
soluzioni e piccolissime difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è
quest'aria di famiglia? A ogni modo è su questa somiglianza di molti
particolari accidentali, poco importanti, a volte trascurabili, sempre
secondari, ma per il numero e la circostanza notevolissimi, e a volte
imponenti, è su questa somiglianza direi del pulviscolo atmosferico, che
aleggia intorno a ogni viso, che si basa il giudizio sul carattere complessivo
di un'epoca. Giudizio schematico perene cualzo astratto. anzi perene
somma e non grualzio ma somma uale, erneace, scocclante e mta clante volte, ma
ineliminabile. Dunque non è falso che la "mentalità" di un secolo
possa essere in un modo, per esempio antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo
stato quasi gassoso, come è quasi fluido il pulviscolo che addiziona e stringe,
ma falsa no... Ma all'ingrosso, ecco: se è vero che di molti schemi mi son
liberato così che se qualcuno venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia
greca è la filosofia dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili,
io strillerei come un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora
non vedo che ci sia di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità
antistorica": nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio, Spinoza
ecc. ecc. ed anche Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non
troppo53. È importante sottolineare, in primo luogo, come la nozione di
mentalità (termine di uso comune già da un ventennio) 54 ricorra in
testi e autori centrali nella formazione di Scaravelli. Non perché,
individuata la fonte, il problema sia risolto, come se la fonte potesse
spiegare il suo uso, che è di volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma
perché è possibile che la "logica" insita nella fonte persista in chi
la utilizza, e che le difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di
questo. Si pensi, ad es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile
nega la possibilità di una storia della scienza che non sia una storia della
filosofia, la quale considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei
concetti filosofici immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di
questi concetti non pel valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato,
quale determinazione oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in
perpetua formazione, per cui si pongono via via e si risolvono i singoli
problemi scientifici»». Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire
fenomenologica, tra il valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la
mentalità per mezzo della quale egli pone e risolve i problemi. Ancor più
significativo mi sembra l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio
Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva recensito", si legge che
la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è ricchissima di elementi
fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario della «mentalità
dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più facilmente le forme
logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi di Levy-Bruhl sul
prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in opere precedenti,
che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In Macchioro, come in
Levy-Bruhl, laManzoni sulla rivoluzione francese, Scaravelli definisce
antistorica la mentalità dello scrittore lombardo e si interroga subito dopo
sul significato di mentalità: Quando si dice antistorica la mentalità del
secolo XVIII, si fa un luogo comune, va bene, ma si dice qualcosa di vero o no?
Cosa c'è di vero in questo luogo comune? Di falso ci sarà che pretende di legare
insieme, accatastare, tanti uomini in una sola denominazione (dispregiativa,
negativa o no importa poco) che dia una caratteristica comune a tutti. Ma però
è strano che si leggono vari autori di una stessa epoca, levate poche
eccezioni, si sente, si vede, si avverte, ci si accorge ecc. (bada, non: si
pensa) che hanno molti punti a comune. Ossia molte visioni, molti modi di
impostare la questione, molti argomenti su cui insistono di preferenza, molte
soluzioni e piccolissime difficoltà che incontrano per la strada [...]. Cos'è
quest'aria di famiglia? A ogni modo è su questa somiglianza di molti
particolari accidentali, poco importanti, a volte trascurabili, sempre
secondari, ma per il numero e la circostanza notevolissimi, e a volte
imponenti, è su questa somiglianza direi del pulviscolo atmosferico, che
aleggia intorno a ogni viso, che si basa il giudizio sul carattere complessivo
di un'epoca. Giudizio schematico perene cualzo astratto. anzi perene
somma e non grualzio ma somma uale, erneace, scocclante e mta clante volte, ma
ineliminabile. Dunque non è falso che la "mentalità" di un secolo
possa essere in un modo, per esempio antistorica. Sarà un'asserzione vaga, allo
stato quasi gassoso, come è quasi fluido il pulviscolo che addiziona e stringe,
ma falsa no... Ma all'ingrosso, ecco: se è vero che di molti schemi mi son
liberato così che se qualcuno venisse ora a dirmi per esempio che la filosofia
greca è la filosofia dell'oggetto e la moderna quella del soggetto, o simili,
io strillerei come un'oca spennata, è pur vero che altri li mantengo e per ora
non vedo che ci sia di male. E fra questi mantengo quelli di "mentalità
antistorica": nella qual casella caccerei Leibniz, Cartesio, Spinoza
ecc. ecc. ed anche Manzoni. Forse un po' a disagio ci sta; ma non
troppo53. È importante sottolineare, in primo luogo, come la nozione di
mentalità (termine di uso comune già da un ventennio) 54 ricorra in
testi e autori centrali nella formazione di Scaravelli. Non perché, individuata
la fonte, il problema sia risolto, come se la fonte potesse spiegare il suo
uso, che è di volta in volta diverso nei diversi contesti. Ma perché è
possibile che la "logica" insita nella fonte persista in chi la
utilizza, e che le difficoltà di quella si trasformino nella difficoltà di
questo. Si pensi, ad es., a quella pagina della Teoria generale in cui Gentile
nega la possibilità di una storia della scienza che non sia una storia della
filosofia, la quale considera concretamente ciascuna scienza «come sviluppo dei
concetti filosofici immanenti alla stessa scienza, studiando ogni forma di
questi concetti non pel valore che essa ebbe ogni volta per lo scienziato,
quale determinazione oggettiva del reale, bensì come grado della mentalità, in
perpetua formazione, per cui si pongono via via e si risolvono i singoli
problemi scientifici»». Dove si noti la distinzione, che si potrebbe definire
fenomenologica, tra il valore che al concetto attribuisce lo scienziato e la
mentalità per mezzo della quale egli pone e risolve i problemi. Ancor più
significativo mi sembra l'uso che di tale nozione aveva fatto Vittorio
Macchioro; ne L'Evangelio, che Scaravelli aveva recensito", si legge che
la «mentalità del fanciullo e del primitivo» è ricchissima di elementi
fantastici e quindi di contenuto mitico, al contrario della «mentalità
dell'adulto e del moderno, le cui intuizioni rivestono più facilmente le forme
logiche o intellettive»". Siamo dinanzi alla nota tesi di Levy-Bruhl sul
prelogismo; tesi che era assai più diffusamente sostenuta in opere precedenti,
che Scaravelli mostra di conoscere e apprezzare". In Macchioro, come in
Levy-Bruhl, lamentalità appare come universo di pensiero chiuso, compatto, in
cui non si scorge la ragione né del suo sorgere né del suo tramontare.
Proprio per questo suo carattere, la nozione di mentalità, e l'opposizione che
in Macchioro si dava tra «mentalità prelogica» e «mentalità razionale», doveva
apparire a Scaravelli sicuramente rischiosa, perché non dissimile dal modo
gentiliano di leggere la filosofia antica come filosofia dell'oggetto e del
logo astratto e la filosofia moderna come filosofia del soggetto e del logo
concreto, e quindi di rendere un periodo storico momento che non ha in sé la
totalità spirituale, ma la deve ricevere dal periodo successivo". E tuttavia,
nonostante i rischi, ad essa Scaravelli non avrebbe rinunciato, anzi ne avrebbe
ampliato il campo di applicazione: dal significato di forma mentis del singolo
filosofo - che è l'accezione prevalente in cui è utilizzata la nozione di
mentalità o dei suoi equivalenti nelle sporadiche ricorrenze degli scritti, per
lo più inediti, degli anni Venti e Trenta ® -, essa avrebbe designato sia
filosofie della stessa epoca, tra le quali si possono cogliere i «punti
in comune» e «somiglianze», come diceva nella lettera a Fossi,sia, soprattutto,
filosofie lontane nel tempo ma accomunate da una medesima impostazione:
ad es. la «mentalità matematica». La mentalità, dunque, se non potrà mai essere
una vera e propria categoria («si sente [...) non: si pensa»), sarà comunque
una nozione strumentale «utile, efficace», addirittura «ineliminabile», in
quanto permetterà di porre in relazione filosofie diverse, senza cadere nelle
forzature antistoriche della storiografia attualistica. E perciò ad essa
Scaravelli ricorrerà ripetutamente. Nella Critica del capire il termine
mentalità non compare. E sembrerebbe a ragione. Infatti nel capolavoro di
Scaravelli non si muove da un pensatore per rintracciarne la parentela con
altri in nome dell'appartenenza a una medesima epoca storica o di una comune
posizione teorica; ma, all'opposto, discutendo i problemi, si incontrano di
volta in volta i filosofi che a quel problema hanno cercato di dare una
soluzione. Eppure il fatto che il lemma "mentalità" non compaia non
significa che ne non sia avvertita l'esigenza: così Scaravelli riconosce in
alcuni pensatori dei rappresentanti tipici di una posizione filosofica -
l'abbiamo potuto constatare per Parmenide e Democrito" - o di un
"tipo"; anzi,l'espressione «a tipo», seguita da una qualificazione aggettivale,
ricorre in modo significativo". Oppure riconosce un'«aria di famiglia» nei
poeti e pensatori romantici, che si sforzano di cogliere e pensare il
non-identico e l'individuale senza tuttavia riuscirvi®. Ma soprattutto è
importante il riconoscimento della pervasività e della forza costrittiva della
«struttura [di pensiero] euclidea»: essa «è talmente diffusa che le varie menti
[si noti il termine] compiono con apparente spontaneità la medesima
sintesi». Scaravelli, in una delle analisi più sottili e famose di tutta
la sua opera, sta mostrando come nella dimostrazione per assurdo la
confutazione di una tesi non implichi necessariamente la verità del suo
contrario: Prendiamo un esempio ben conosciuto: siano due rette a, b,
parallele; una retta e che incontra a in un qualunque punto P, deve incontrare
anche b. La dimostrazione, è noto, non può avvenire che per assurdo; e suona:
«se c non incontrasse b, sarebbe parallelo a b, allora per il punto P
uscirebbero due distinte rette parallele alla retta b; il che è assurdo: dunque
c incontra l». Si vede qui che non ci si ferma affatto al meramente logico «c
non incontra b»; ma si esce da questa asserzione, si va nell'intuizione, e si
aggiunge l'asserzione: «allora c è parallelo a b»; il che è un determinare, al
di là della constatazione che c «non incontra...» un ulteriore comportamento di
questo c. Per fare questa determinazione "in più", occorre compiere
una sintesi che niente ci obbliga a compiere in questo determinato modo.
Ora, nota Scaravelli, è proprio la «struttura euclidea» che ci impedisce di
cogliere la «libertà nascosta» che si cela nelle pieghe della dimostrazione per
assurdo e che potrebbe condurci a sintesi del tutto diverse da quelle che danno
luogo alla geometria euclidea. Infatti, appena qualcuno «si accorge di questo
"più" che la dimostrazione per assurdo maschera e utilizza ai suoi
fini [...] è l'iniziatore di una geometria non-euclidea»**. Siamo qui in
presenza di uno dei modi in cui Scaravelli utilizzerà, negli scritti successivi
alla Critica del capire, la nozione di mentalità. In alcuni di questi scritti,
infatti, Scaravelli, che pure ha di fatto rinunciato a proporre disegni
storico-filosofici necessitanti o teleologicamente orientati", ', si
ritrova dinanzi alproblema della continuità/ discontinuità di determinati stili
di pensiero o, per dirla con Giulio Preti, di "logiche" e
"paradigmi". Grazie alla sua plasticità la nozione di mentalità
permette a Scaravelli di affrontare il problema della continuità/discontinuità:
di dare conto della persistenza di una posizione filosofica o scientifica,
delle fratture che attraversano sia la storia della filosofia che quella della
scienza. 7. Mentalità nella storia della scienza e nella storia della
filosofia Per concludere, mi limiterò a ricostruire e discutere due
esempi di uso della nozione di mentalità in due scritti successivi alla Critica
del capire, nella convinzione che ulteriori esempi potrebbero forse arricchire
ma non mutare il quadro concettuale che ormai si è delineato". Questi esempi
mostreranno come Scaravelli sia riuscito ad evitare il rischio grave di
sostanzializzare la mentalità, di farne cioè non tanto un "tipo
ideale", dalla funzione euristica, quanto l'ipostatizzazione di
un'attitudine di pensiero, rispetto alla quale i singoli che vi partecipano
sono solo modi o momenti di quella. Il primo esempio, tratto dal Saggio
sulla categoria kantiana della realtà, concerne la storia della scienza e in
particolare la discontinuità nella storia della fisica, fra la fisica classica,
dominata dalla «mentalità laplaciana»"? e la fisica moderna, le cui
esperienze non possono più essere soddisfatte con le leggi della fisica
classica. Il secondo esempio, ripreso dallo scritto dedicato alla logica
crociana, riguarda invece la storia della filosofia: ricostruendo la storia
ideale del "concetto", si intende mettere in luce «la mentalità
inconsciamente matematizzante»'® sottesa a tanta parte della storia della
filosofia da Pitagora e il tardo Platone fino a Kant e oltre, che porta a
concepire il concetto come universale. Cominciamo dunque dal problema
della continuità/ discontinuità nella storia della fisica". Aderendo alle
tesi del fisico ed epistemologo francese Louis de Broglie, Scaravelli sostiene
che la teoria dellarelatività einsteiniana sia, per quanto innovatrice, «il
coronamento della fisica classica»": fisica classica e teoria della
relatività condividono infatti la mentalità laplaciana, ossia la convinzione
che la conoscenza dei punti di un sistema e delle grandezze delle velocità di questi
punti permette, almeno in linea di principio, «il calcolo rigoroso dello stato
del sistema in un istante ulteriore»". Condizioni comuni per la
comprensione dei fenomeni fisici sono dunque che la variazione di tutti i
fenomeni avvenga in modo rigorosamente continuo, e che i fenomeni si svolgano
nello spazio-tempo. «Fisica classica e concezione einsteiniana, insomma, si
rappresentano cartesianamente l'universo come un gigantesco meccanismo di cui,
possedendo i dati del suo stato iniziale, si può rigorosamente descrivere tutta
l'evoluzione, localizzandone le parti nello spazio e le modificazioni nel
tempo»". Solo la teoria dei quanti ha inveceoperato una vera e propria
«rivoluzione»* nella storia della fisica. Essa ha infatti sovvertito «dalle
fondamenta [...] tutta la concezione della fisica classica», ', perché
«la continuità dei fenomeni cosmici, e la rigida causalità del loro
susseguirsi»", principi che, come abbiamo appena visto, formano l'ossatura
della fisica classica, vengono radicalmente rivisti dalla fisica quantistica.
L'esistenza del "quanto d'azione", la sua presenza nell'intima
compagine e tessitura di ogni evento o fenomeno fisico, «oltre a costringerci
ad ammettere la "discontinuità" dell'energia e perciò la discontinuità
in tutti quanti i fenomeni fisici, ha portato come immediata conseguenza un
fatto di importanza fondamentale: è impossibile avere con rigore assoluto la
posizione nello spazio-tempo di un quid in moto, e la velocità che questo quid
ha in quel punto dello spazio»". Per la teoria dei quanti «Il determinismo
causale (...] con la sua continuità, e la rappresentazione degli eventi del
mondo nel tempo e nello spazio, sono due cose che si escludono a
vicenda»®. Il problema allora suona: come è avvenuta la rivoluzione quantistica?
Ovvero: come è stata possibile nella storia della scienza (della fisica), che
per lungo tempo ha accumulato i suoi risultati mostrando una sostanziale
continuità, quella radicale discontinuità che è costituita dall'affermarsi
della fisica moderna? Il problema è irresolubile solo se pensiamo come
astrattamente opposte e incompossibili continuità e discontinuità. Ma, come si
è già osservato, la discontinuità si può produrre soltanto sullo sfondo di una
continuità, e, viceversa, la continuità implica una trasformazione che, per
quanto lenta e graduale, tuttavia non può che distinguersi dalla mera
ripetizione dell'identico (ammesso e non concesso che l'identico possa, a
rigore, ripetersi). Il problema, quindi, affrontato nel concreto significato di
continuità e discontinuità, si duplica: 1) come è stata possibile la
rivoluzione quantistica, la rottura dei quadri concettuali della fisica
classica? 2) quale continuità lega nella discontinuità fisica classica e fisica
moderna, tanto che entrambe possono ricadere nella storia unitaria della
fisica? La risposta alla prima domanda è netta: sono le «esperienze»,
condotte con rigore e finezza, che hanno rivelato ai ricercatori «fenomeni i
quali in nessun modo possono rientrare nei quadri e nei principi della fisica
classica». E alle esperienze bisogna aggiungere la rielaborazione teorica dei
principi (il tempo, lo spazio, la causalità) necessari per pensare
adeguatamente quei fenomeni, che dalla rivoluzione quantistica «sono usciti
completamente diversi». Il valore dei risultati di queste ricerche è stato
«enorme», tale che non è stato possibile respingerle sullo sfondo del quadro
della fisica classica. Ciò ha provocato, in un primo tempo, «uno stato di
crisi»: Sembrava impossibile abbandonare il quadro della concezione
classica, i cui principi formano il solido terreno della tradizione senza la
quale pare che non ci si possa muovere con sicurezza, né aver filo con cui
legare fra loro in unità le varie esperienze, né aver addirittura concetti con
cui pensare. E d'altra parte era ancor più impossibile respingere questi
fenomeni che pur non si lasciavano riconnettere a quei principi?. La
crisi è tanto più drammatica quanto più costrittiva è la forza che la
«mentalità laplaciana» esercita sugli scienziati. Questo aspetto risulta ancor
più evidente nella prima versione del primo capitolo, La "forma
mentis" della fisica classica, quando l'opera si doveva ancora intitolare
Kant e la fisica moderna": «molticambiamenti di concetti fisici |...]
urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la
sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del
corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o
meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente
instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto
pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a
risultati che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in
una mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si
noti come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della
fisica moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi
di una tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia,
quell'esigenza teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e
«ineliminabile», davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato
possibile creare la fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis
della fisica classica urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla
radice. Con l'imporsi della fisica moderna la crisi è superata e intorno
alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che
confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno una tale forza che «han
costretto i fisici ad accettare la "costante di Planck",83. Ma
allora, e passiamo così alla seconda questione, che tipo di continuità sta
sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che
ha costretto i fisici a superare le resistenze ad abbandonare la fisica
classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la mentalità che li
sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la consapevolezza che
queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio come le esperienze
della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che determinati «fatti
accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non corrispondo a leggi già
note», mettendo così in dubbio «la validità di queste leggi, o almeno la loro
estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio la continuità della
storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della fisica classica un caso
particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni macroscopici, delle leggi
della fisica moderna. Siamo dinanzi dunque non a un crollo di un
paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile paradigma, come
avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una profonda rottura
(discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un caso particolare
della fisica moderna. Il problema per la filosofia è diverso: infatti qui
la discontinuità è data dall'autonomia del singolo filosofo, mentre la
continuità si manifesta, da un lato, come nella storia della fisica, nel
ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che tutti i filosofi
sono tali non per il contenuto di esperienzacambiamenti di concetti fisici
|...] urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la
sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del
corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o
meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente
instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto
pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a
risultati che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in
una mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si
noti come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della
fisica moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi
di una tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia,
quell'esigenza teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e
«ineliminabile», davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato
possibile creare la fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis
della fisica classica urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla
radice. Con l'imporsi della fisica moderna la crisi è superata e intorno
alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che
confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno una tale forza che «han
costretto i fisici ad accettare la "costante di Planck",83. Ma
allora, e passiamo così alla seconda questione, che tipo di continuità sta
sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che
ha costretto i fisici a superare le resistenze ad abbandonare la fisica
classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la mentalità che li
sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la consapevolezza che
queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio come le esperienze
della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che determinati «fatti
accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non corrispondo a leggi già
note», mettendo così in dubbio «la validità di queste leggi, o almeno la loro
estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio la continuità della
storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della fisica classica un caso
particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni macroscopici, delle leggi
della fisica moderna. Siamo dinanzi dunque non a un crollo di un
paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile paradigma, come
avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una profonda rottura
(discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un caso particolare
della fisica moderna. Il problema per la filosofia è diverso: infatti qui
la discontinuità è data dall'autonomia del singolo filosofo, mentre la
continuità si manifesta, da un lato, come nella storia della fisica, nel
ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che tutti i filosofi
sono tali non per il contenuto di esperienzacambiamenti di concetti fisici
|...] urtano quel fondo più fondo del nostro essere che non è altro poi che la
sedimentazione in noi della "tradizione'»"'; ad es., a proposito del
corpuscolo, il filosofo fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o
meno passeggera, bensì «di qualcosa di molto più profondo e veramente
instadicabile», perché nato da una «esigenza teorica [...] che è, a quanto
pare, ineliminabile»*. Dunque: vi sono esigenze teoriche, che portano a risultati
che si consolidano in una tradizione, in una seconda natura, cioè in una
mentalità, che ha la sua forza sia nel peso della tradizione medesima (si noti
come Scaravelli parli di mentalità della fisica classica, ma non della fisica
moderna: infatti una mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi di una
tradizione), sia nel rispondere a quell'esigenza. E tuttavia, quell'esigenza
teorica, per quanto forte, per quanto «insradicabile» e «ineliminabile»,
davvero insradicabile e ineliminabile non è, se è stato possibile creare la
fisica quantistica, una fisica che contro la forma mentis della fisica classica
urta, perché tanto diversa da sovvertirla alla radice. Con l'imporsi
della fisica moderna la crisi è superata e intorno alla nuova teoria si forma
quasi spontaneamente il consenso: le esperienze che confermano la scoperta del
«quanto d'azione» hanno una tale forza che «han costretto i fisici ad accettare
la "costante di Planck",83. Ma allora, e passiamo così alla
seconda questione, che tipo di continuità sta sullo sfondo della discontinuità
tra fisica classica e fisica moderna? Ciò che ha costretto i fisici a superare
le resistenze ad abbandonare la fisica classica e i suoi inveterati quadri
concettuali e la mentalità che li sorreggeva sono state le nuove esperienze e
insieme la consapevolezza che queste si riferivano a fatti ed eventi della
natura, proprio come le esperienze della fisica classica. La fisica moderna ha
preso atto che determinati «fatti accuratamente vagliati e rigorosamente
assodati non corrispondo a leggi già note», mettendo così in dubbio «la
validità di queste leggi, o almeno la loro estensione»". L'enfasi vuole
sottolineare proprio la continuità della storia della fisica, ottenuta rendendo
le leggi della fisica classica un caso particolare, valide per inquadrare solo
i fenomeni macroscopici, delle leggi della fisica moderna. Siamo dinanzi
dunque non a un crollo di un paradigma e alla sostituzione con un altro e
incommensurabile paradigma, come avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni
dopo, ma ad una profonda rottura (discontinuità) che si realizza rendendo la
fisica classica un caso particolare della fisica moderna. Il problema per
la filosofia è diverso: infatti qui la discontinuità è data dall'autonomia del
singolo filosofo, mentre la continuità si manifesta, da un lato, come nella
storia della fisica, nel ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel
fatto che tutti i filosofi sono tali non per il contenuto di
esperienzacambiamenti di concetti fisici |...] urtano quel fondo più fondo del
nostro essere che non è altro poi che la sedimentazione in noi della
"tradizione'»"'; ad es., a proposito del corpuscolo, il filosofo
fiorentino sostiene che non si tratta di una moda più o meno passeggera, bensì
«di qualcosa di molto più profondo e veramente instadicabile», perché nato da
una «esigenza teorica [...] che è, a quanto pare, ineliminabile»*. Dunque: vi
sono esigenze teoriche, che portano a risultati che si consolidano in una
tradizione, in una seconda natura, cioè in una mentalità, che ha la sua forza
sia nel peso della tradizione medesima (si noti come Scaravelli parli di
mentalità della fisica classica, ma non della fisica moderna: infatti una
mentalità si forma innanzi tutto col consolidarsi di una tradizione), sia nel
rispondere a quell'esigenza. E tuttavia, quell'esigenza teorica, per quanto
forte, per quanto «insradicabile» e «ineliminabile», davvero insradicabile e
ineliminabile non è, se è stato possibile creare la fisica quantistica, una
fisica che contro la forma mentis della fisica classica urta, perché tanto
diversa da sovvertirla alla radice. Con l'imporsi della fisica moderna la
crisi è superata e intorno alla nuova teoria si forma quasi spontaneamente il
consenso: le esperienze che confermano la scoperta del «quanto d'azione» hanno
una tale forza che «han costretto i fisici ad accettare la "costante di
Planck",83. Ma allora, e passiamo così alla seconda questione, che
tipo di continuità sta sullo sfondo della discontinuità tra fisica classica e
fisica moderna? Ciò che ha costretto i fisici a superare le resistenze ad
abbandonare la fisica classica e i suoi inveterati quadri concettuali e la
mentalità che li sorreggeva sono state le nuove esperienze e insieme la
consapevolezza che queste si riferivano a fatti ed eventi della natura, proprio
come le esperienze della fisica classica. La fisica moderna ha preso atto che
determinati «fatti accuratamente vagliati e rigorosamente assodati non
corrispondo a leggi già note», mettendo così in dubbio «la validità di queste
leggi, o almeno la loro estensione»". L'enfasi vuole sottolineare proprio
la continuità della storia della fisica, ottenuta rendendo le leggi della
fisica classica un caso particolare, valide per inquadrare solo i fenomeni
macroscopici, delle leggi della fisica moderna. Siamo dinanzi dunque non
a un crollo di un paradigma e alla sostituzione con un altro e incommensurabile
paradigma, come avrebbe sostenuto Thomas Kuhn quindici anni dopo, ma ad una
profonda rottura (discontinuità) che si realizza rendendo la fisica classica un
caso particolare della fisica moderna. Il problema per la filosofia è
diverso: infatti qui la discontinuità è data dall'autonomia del singolo
filosofo, mentre la continuità si manifesta, da un lato, come nella storia
della fisica, nel ricorrere di determinate mentalità, dall'altro nel fatto che
tutti i filosofi sono tali non per il contenuto di esperienza
che pensano, ma per le categorie con cui lo pensano, le quali,
pur essendo intese in accezioni anche molto differenti, restano sempre quelle
categorie e non altre. Ci siamo già ampiamente soffermati nelle pagine
precedenti sia sull'autonomia dei singoli filosofi sia sulle categorie che sono
oggetto di continua riflessione e discussione critica. Per concludere, prediamo
allora in esame la questione della mentalità nella storia della filosofia.
Nella lettera a Fossi del 14 ottobre 1945 abbiamo letto che il capitolo del
lavoro inconcluso sulla storia ideale della logica crociana intitolato Il
concetto come universale doveva mettere in luce «la mentalità inconsciamente
matematizzante»85, sottesa a tanta parte della storia della filosofia da
Pitagora e il tardo Platone fino a Kant e oltre, che portava appunto a
concepire il concetto come universale. In questo scritto, invero, non compare
mai l'espressione mentalità o forma mentis; tuttavia il passo della lettera
appena citato ci autorizza a considerarlo come un'esposizione della struttura e
della storia della mentalità matematica" nella filosofia.Per
Scaravelli nella rappresentazione non c'è, in quanto rappresentazione, né unità
né molteplicità. «Molteplicità e unità sono completamente estranee al
rappresentare». Perché si possa dunque parlare di molteplicità delle
rappresentazioni, è stato necessario prima rendere discontinuo l'omogeneo e
continuo tessuto rappresentativo, poi vedere questi elementi discontinui come
molti, facendo intervenire il concetto di numero. La mentalità matematica
consiste appunto in questo intervento della quantità nel tessuto
rappresentativo, la quale quantità «agisce poi in base ad una propria legge,
estranea a qualunque qualificazione». replicatrice di tale operazione
(rendere discontinuo il tessuto rappresentativo, e fare intervenire il numero),
che ha la stessa «tremendamente rigida ossatura interna» del numero. Come «i
numeri con la loro speciale legge di interna gravitazione che li governa» non
rimangono inerti, ma esercitano la loro un'altra»®. Di qui si potrebbe
trarre la conclusione, estremamente interessante, che la mentalità agisca come
una forza, attrattiva e repulsiva, che impedisce nuove soluzioni filosofiche e
scientifiche, mentre favorisce tutte quelle soluzioni che la confermano.
"campo gravitazionale" si potrebbero caratterizzare in base alla
maggiore o minor resistenza che esse numero e rappresentazione, ciò che si va
ad esaminare è in effetti la diagonale di un parallelogrammo delle forze:
da un lato la gravitazione interna del mondo numerico, dall'altro lato la
immediata presenza della rappresentazione. Ed a seconda della lunghezza
maggiore o minore di uno di questi lati rispetto all'altro, si apre il cammino
verso il regno dei miti, dei simboli o dei sogni, da certe dottrine dell'ultimo
Platone a Proclo, alle romantiche filosofie della natura...; perché né le
rappresentazioni scompaiono del tutto, e si sarebbe allora puri matematici nel
puro regno della scienza, né hanno forza sufficiente di sottrarsi a quel mondo
dei numeri, e si sarebbe allora puri critici nel puro regno della
critica88. Dove, anche la presenza della rappresentazione è una forza.
Ora, è proprio della mentalità matematica, che costituisce «"l'essere
essenziale" del [suo] essere»", ritenere che il metodo della
filosofia e il metodo delle scienze, cioè innanzi tutto della matematica e
della fisica, sia il medesimo, e identica la radice da cui nascono. Questa
prospettiva, eminentemente chai e e no quele emira (ma primi a and sche
mila quie, come fa o, ne difo pri Scaravelli le romantiche filosofie
della natura. Ma la sua logica si impone ben oltre, oltre la dialettica h
egeliana, fin nel pensiero di Hamelin, Blondel e Gentile, richiamati nelle
pagine conclusive del capitolo:
L'ideale, o per esser precisi l'idea che presiede a tutta questa
operazione, rimane sempre quella che assume vari nomi: dal più físico:
l'incondizionato nella serie delle cause; al più metafisico: la necessità
incondizionata; cioè sempre l'Unità assoluta. E proprio una Unità tale che,
come nel tessuto fisico dello spazio cartesiano non si vede ragione alcuna che
possa garantire la minima differenza di oggetti tra loro o di figure
geometriche fra di loro, è impossibile logicamente trovare la ragione di
qualsiasi presenza che non si disciolga, anzi che non si sia già disciolta, in
quella unità. Poiché la logica che sottende ogni dialettica è quella che
sottendeva ogni funzione trascendentale: è la logica della unità. Ed anche
quando per sottrarsi al gorgo che fa ruotare il molteplice e lo attira verso
l'uno, si fa forza in senso opposto, e si dà valore al molteplice sì da tenerlo
in perfetto equilibrio con l'uno, questo molteplice è solo «'inquietudine» e
non ha altra sua consistenza che questa inquietudine. Che è il massimo di
non-uno che è possibile raggiungere con quella concezione della realtà®°. La nozione di mentalità, che qui prende il
nome di «concezione della realtà», non è tematizzata ma è impiegata per
comprendere le profonde continuità che sembrano legare carsicamente i diversi
pensatori nella storia, che ostacolano il sorgere del nuovo, che orientano e
costringono alla ripetizione o alla variazione sul tema. Eppure, proprio la discussione condotta da
Scaravelli in queste pagine mostra come de facto sia possibile prendere
criticamente le distanze dalla mentalità nella quale siamo immersi ma dalla
quale non siamo determinati. Giustificare de jure la novità nella storia, sia
essa la storia della filosofia che la storia della scienza, fu il rovello di
Scaravelli. Se nella storia della scienza sono le nuove esperienze e la
rielaborazione della categorie necessarie a pensarle che giustificano il sorgere
di nuove teorie, nella storia della filosofia la rottura delle catene della
tradizione è resa possibile dal lavoro critico del pensiero. Ma cosa spinga lo
scienziato a scrutare più a fondo il suo oggetto e a cercare nuove esperienze,
e il filosofo a passare al vaglio della critica il già-pensato per capirne con
maggior rigore l'intima tessitura, è problema al quale Scaravelli non diede
soluzione. Forse perché Trovare Una soluzione avrebbe significato ai suoi occhi
«accumulare scienza», cioè fondare metafisicamente il nuovo, compromettendone
appunto la novità.Luigi Scaravelli. Scaravelli. Keywords: paralipomena, la
storia della filosofia di Scaravelli, criticismo, critica del capire, giudizio
storico, storia come metodo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Scaravelli” – The
Swimming-Pool Library.
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