Grice e Severino: la ragione conversazionale
del velino -- oltre il linguaggio, oltre l’aporia di Parmenide – la scuola di
Brecia -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo lombardo. Filosofo italiano.
Brescia, Lombardia. Intende collocarsi oltre ogni filosofia permeata dal nichilismo. Si
laurea a Pavia come alunno dell'almo collegio borromeo, discutendo una tesi su
metafisica, sotto la supervisione di BONTADINI. Insegna a Milano e Venezia. Lincei.
Critica sia il capitalismo sia il comunismo, fonti della vita inautentica in
quanto espressioni di dominio della tecnica, come d'altronde il FASCISMO, ma
anche la sinistra in quanto non è più social-democrazia, rilasciando anche
dichiarazioni sul suo punto di vista sul passato e sull'avvenire dell'Italia. Le
spiegazioni della crisi del nostro tempo rimangono molto in superficie anche
quando vogliono andare in profondità. Il fenomeno di fondo, che non viene
adeguatamente affrontato, è l'abbandono, nel mondo, dei valori della tradizione
occidentale; e questo mentre le forme della modernità dell'Occidente si
sono affermate dovunque. Un abbandono che si porta via ogni forma di assolutoe
innanzitutto Dio. Muore, dicevo, ogni forma di assolutezza e di assolutismo,
dunque anche quella forma di assoluto che è lo stato, che detiene il monopolio
legittimo della violenza. Questo grande turbine che si porta via tutte le forme
della tradizione è guidato dalla tecnica ed è irresistibile nella misura in cui
ascolta la voce che proviene dal sottosuolo del pensiero filosofico del nostro
tempo. Il turbine travolge anche le strutture statuali. Investe innanzitutto le
forme più deboli di stato. La trasformazione epocale di cui parlo non è
indolore: il vecchio ordine non intende morire, ma è sempre più incapace di
funzionare, soprattutto in paesi come l'Italia. E il nuovo ordine non ha ancora
preso le redini. È la fase più pericolosa (non solo per l'Italia). Criticando
"l'assolutismo religioso e comunista", oltre che tacciando la
magistratura di "ingenuità", poiché processando una classe politica a
fondo ha rivelato la contiguità anche con la criminalità organizzata, figlia
della guerra fredda e, secondo S., impossibile da debellare
integralmente in pochi anni senza debellare lo Stato stesso, causando notevoli
problemi. «L'Italia è uno stato acerbo. Ha 150 anni su per giù. Ma
soprattutto ha alle proprie spalle una storia di frazionamento
politico-economico-sociale, dove si sono imposte forze che hanno avuto nel
mondo un peso ben maggiore di quello dell'Italia unita.. Sull'evasione fiscale:
Una tara storica, come prima le dicevo. L'evasione fiscale è un furto ai danni
di tutti. Se c'è da costruire una strada io devo metterci anche la parte degli
evasori. Certo, molti artigiani e piccoli imprenditori, se non evadessero,
fallirebbero. Tutti sanno queste cose. Però conosco anche tanti cattolici ai
quali molti uomini di chiesa facevano capire che se non avessero ritenuto
"giusto" pagare le tasse dello stato, avrebbero fatto bene a non
pagarle. Questo Papa, da buon pastore, sta cercando di cambiare le cose. Ma non
vorrei che si perdesse di vista che la "corruzione" di fondo è
l'"evasione" del mondo dal passato dell'Occidente. Oltre alle citate
critiche, Heidegger parlando con FABRO a Roma ha a dire a proposito di
"Ritornare a Parmenide" di S. Immobilizza il mio Dasein. Già da molto
prima prima, alcuni appunti di lavoro heideggeriani testimoniano come Heidegger
seguie S. (da uno studio di ALFIERI e HERMANN -- è
stato criticato da ODIFREDDI, in risposta a un giudizio critico su un'opera di ODIFREDDIi,
ovvero l'introduzione scritta all’ABC della relatività di Russell, dove venneno
citati alcuni filosofi (tra cui S. e CROCE) in maniera non congrua e "alla
rinfusa l’ODIFREDDI l’ accusa invece di non considerare l'importanza della
scienza, come già fecero i neo-idealisti, come CROCE e GENTILE, a differenza di
filosofi che studiano a fondo alcune teorie. Nel dialogo con Chiara, “Oltre l’umano
e oltre il divino” la filosofia della necessità si contrappone alla filosofia
della libertà. Fa spesso riferimento a pensatori come PARMENIDE di VELIA,
LEOPARDI, e GENTILE. LEOPARDI e GENTILE sono all'apice della follia del
nichilismo. Considera LEOPARDI e GENTILE come i due più grandi geni che hanno
portato all'estremo la concezione del mulla ovvero l'entrare e l'uscire degli
enti dal nulla. Affronta il problema dell'essere. Tutte le filosofie
costituitesi precedentemente sono caratterizzate da un errore di fondo:
la fede del divenire. Sin dagli antichi, infatti, un ente (ovvero un
qualcosa che è) e considerato come proveniente dal nulla, dotato di esistenza e
successivamente ritornante nel nulla. Rifacendosi a VELIA, è stato definito come un neo-veliano, di cui
sarebbe l'unico esponente, peraltro criticato in senso anti-metafisico da SASSO
e VISENTIN, i quali sostengono, rovesciando la sua tesi, come, contrariamente
all'opinione diffusa, in VELIA esiste invece un deciso rifiuto della
metafisica.. Riflettendo sull'opposizione assoluta tra essere e non-essere,
dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, ritiene evidente che
l'essere non può non rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di
rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò
che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (S.rifiuta,
quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da
Heidegger). Per S., quindi, tutta la storia della filosofia
occidentale è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un
nulla, sebbene alcuni filosofi tentano di negare tale assunto. Ma, mentre
VELIA tenta di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità
dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l'esistenza delle
cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), sceglie una via differente,
portandolo a delle tesi estreme. Dato che l'essere è, e non può mai
diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni
attimo e eterno. Il di-venire non può, quindi, che rappresentare l'apparire
degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si
susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gl’essenti
entrano ed escono del cerchio dell'apparire. Quando un essente esce dal cerchio
dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente all’inter-soggetivo.
Dunque, l’essente esiste anche quando scompaie ovvero non si perceive. Vedere
senza vedere, dice Sperduto in una tragicommedia. Afferma che il di-venire dell’essente
è come lo scorrere dell’essente sulla superficie di uno specchio. L’essente,
infatti, esiste prima di entrare nel
campo inter-soggetivo dello specchio e ovviamente continua ad esistere anche
dopo esserne uscite. Il di-venire e l’ immagine inter-soggetiva dell’essere. Questo
si estende anche a ogni essente che nel divenire si manifesta. La dimostrazione
dell'eternità di tutti gli essenti, si basa sostanzialmente sul principio di
non contraddizione, ma non nella versione che ne dà Aristotele nel “De
Interpretatione”. In essa anzi il discorso del tramonto del senso dell'essere trova
la sua formulazione più rigorosa e più esplicita. Bisogna invece ritornare a VELIA
correggerne l'esito aporetico, dimostrando che l'evidenza fenomenica non è in
contrasto col principio di non contraddizione, ma scoprendo anche che il
divenire così come uscire dal nulla e ritornare nel nulla, non appare affatto,
non è affatto evidente. Di qui si potrà proseguire su una via -- quella
indicata da VELIA, il sentiero del giorno. Consideriamo la proposizione di VELIA
-- è infatti l'essere, il nulla non è. Tale proposizione esprime
l'opposizione assoluta tra i "essente" e "non essente". Pertanto
ogni essente, in quanto ent-e, è assolutamente opposto al nulla e non ci può
essere uno stato in cui un ente non sia, come pensa invece il principio di non
contraddizione aristotelico -- è necessario che l'essente sia, quando è, e che
il non-essente non sia, quando non è". Quest'enunciato esprime il pensiero
di una condizione, in cui l'essente è nulla, in cui essere = nulla. Questa
impossibile ed impensabile contraddizione costituisce una follia essenziale. Infatti
il pensiero occidentale pensa sì, consapevolmente, l'essente come essere, ma
insieme come di-veniente, cioè che esca dal nulla e ritorni nel nulla. Ad esso
sfugge invece che ciò equivale a pensare l'ente come nulla; e questo è il
nichilismo più proprio, la follia che si annida nell'inconscio della filosofia.
L’essere non è un ente tra gli enti. Esso rappresenta piuttosto l'apparire
ontologico degli enti, e per questo motivo viene definito un transcendens
rispetto all'ente. Rigetta questa concezione. Afferma che la totalità
dell'essere è costituita dalla totalità degli enti. La vera differenza
ontologica è quindi quella che si costituisce tra l'essere (l'ente) diveniente
e quello immutabile. L'essere che appare e scompare non è lo stesso
essere immutabile, ma è anch'esso eterno. Entrambi esistono, ma in differenti
dimensioni. L'essere come fondamento è una struttura eterna e non soggetta ad
alcun mutamento. Tutto è avvolto (fino alla morte) dal nichilismo Un po'
tutti i filosofi che l'hanno avuto sottomano hanno inteso il nichilismo come
allontanamento dalla verità, e l'hanno dunque declinato a seconda dell'idea di
verità a cui stavano pensando. Nella prospettiva severiniana dell'eternità di
tutte le cose, il nichilismo è dunque il credere che le cose siano mortali,
ovvero che l'essere possa non essere,ed uscire e rientrare nel nulla, ovvero
credere nel di-venire delle cose. Credere infatti che le cose escano dal nulla
e vi ritornino equivale ad identificare l'essere con il nulla: quindi si parla
di pura "follia". Al di fuori della follia appare l'eternità di ogni
cosa e di ogni evento. Al di fuori del nichilismo il sopraggiungere dell'ente è
il comparire o lo sparire dell'eterno. Il divenire dell'essere è un'opinione
senza verità. L'Occidente non domina il mondo casualmente o perché ha una
possibilità offensiva superiore; ma, al contrario, ha una possibilità offensiva
superiore perché domina il mondo che crede nelle sue stesse imprescindibili
idee guida (scienza, potenza, tecnica, salvezza, ecc.) e quindi in una cultura
che ritiene più avanzatae dove dunque l'avanzamento non è una virtù morale, ma
la capacità di capire e fare più cose per sopravvivere all'imprevedibilità
dell'esistenza. Ritiene che la filosofia abbia sempre cercato riparo contro il
terrore che scaturisce dall'imprevedibilità dell'esistenza perché innanzitutto
si è sempre creduto nell'evidenza del divenire degli enti, del loro uscire dal
nulla e rientrarvi. Anche le grandi forme di epistème che tendono a dare un
ordine ed una configurazione prestabiliti all'esistenza, si muovono sullo
stesso terreno. L'intera storia della filosofia italiana è quindi storia
del nichilismo. La radicale distruzione dell'epistème operata da parte della
filosofia e la rapida ascesa della scienz ai vertici del sapere sono
conseguenze inevitabili di questa forma di pensiero (la civiltà della tecnica
è, infatti, la forma estrema di volontà di potenza). Tutto ciò che appare
appare in maniera necessaria ed il progressivo manifestarsi degli eterni non
segue, quindi, una sequenza casuale. Ciò significa che la libertà dell'uomo non
esiste, ma appare all'interno di quell'essente (anch'esso eterno) che è il nichilismo.
Ed è proprio all'interno dell'Occidente che appare il "mortale" come
noi lo conosciamo. Ma l'Occidente è destinato al tramonto, per fare
spazio al destino della verità, la verità che testimonia la follia della fede
nel divenire. Solo all'interno del destino della verità la morte acquista un
significato inaudito: in realtà la morte è la persuasione dell'assentarsi
dell'eterno. Da quanto detto precedentemente appare chiaro come non ci
sia posto per il divino comunemente inteso. Nel corso della storia della
filosofia, l'affermazione dell'esistenza
di qualcosa di immutabile (tra cui il divino in tutti i diversi modi nei quali
filosofia e religione lo hanno concepito) è sempre stata fatta partendo dal
presupposto che il di-venire non significhi necessariamente la nascita dal
nulla e il tornare nel nulla delle cose che in esso si presentano.
Quest'affermazione è, inoltre, sempre avvenuta con l'intento di risolvere le
varie contraddizioni che quel presupposto implica e di inventare un rimedio per
l'angoscia che il pensiero dell'annientamento provoca. Questo genere di
immutabilità è, quindi, di segno diverso da quella che compete agli enti sulla
base dell'impossibilità assoluta che qualcosa si annulli. Per questo motivo è
impossibile che esista un divino. A maggior ragione è impossibile che esista un
dio dotato della capacità di creare gli enti dal nulla e di mantenerli in
esistenza grazie alla sua libera volontà (altrettanto libero potrebbe essere,
pel divino, l'annichilimento"diverso dal concetto fisico di annichilazione
-, e cioè la volontà di far cessare la durata della loro esistenza per farli
ritornare nel nulla). Essendo ogni ente eterno, non può esserci né
creazione né annientamento, e quindi neanche un Dio comunemente inteso. Alla
luce del destino della verità, ogni ente, anche il più insignificante, acquista
un significato inaudito. L'uomo si porta quindi radicalmente al di là del super-uomo
e della volontà di potenza. L’uomo è un super-dio, ben più grande del divino
della tradizione religiosa. L'inconciliabilità fra la dottrina dell'Essere e AQUINO
è stata sostenuta da Fabro. BARZAGHI, con cui ha più volte dialogato
pubblicamente, ha mostrato la possibilità di utilizzare le intuizioni sull'eternità dell'essente proprio per
affermare l'esistenza di Dio e ricondurre il pensiero del filosofo all'alveo
cristiano da cui si è staccato (entrambi sono stati alunni, all'Università
Cattolica, del filosofo cattolico e apologeta BONTADINI). Pur non rivedendo
pubblicamente il suo punto di vista sull'esistenza del divino, apprezza ed
elogia la proposta di BARZAGHI. Con “La Gloria” giunge, tra le altre
cose, alla dimostrazione necessaria dell'esistenza degli "altri".
Quando Cartesio infatti scopre che la carta vincente della scienza è la
conferma delle ipotesi da parte dell'esperienza, e cioè da parte della presenza
certa a me da parte delle cose, si apre il problema della fondazione
dell'esistenza appunto di altre dimensioni che come la mia accolgono l'accadere
del mondo, ma che a differenza della mia non sono apparenti, non sono cioè da
me visibili. I fallimenti dei tentativi di soluzione a tale problema
(eminentemente proposti ad opera della fenomenologia, sì che questo problema fu
certamente uno dei più cogenti all'interno del discorso filosofico di Husserl),
a cominciare da quello di Cartesio, si determineranno essenzialmente per
l'assenza del senso autentico dell'essente e del senso dell'oltrepassamento. L'oltrepassamento
dell'attualità nella costellazione infinita di cerchi finiti dell'apparire del destino
è necessità dell'esistenza di un altro apparire finito, diverso da quello
attuale. Nella Gloria, perviene alla fondazione del senso autentico
dell'oltrepassamento, dopo aver stabilito nelle opere precedenti che il
divenire autentico (cioè non nichilistico) non è il crearsi e l'annullarsi
dell'essente, ma il comparire e lo sparire di ciò che è eterno. Ma è in
questa sede innanzitutto fondamentale precisare, a partire da considerazioni
svolte dallo stesso S. in Destino della Necessità (che le cose della "terra"
(termine con il quale S. designa la dimensione degli essenti che via via
appaionoe che, per contro, il nichilismo pensa come fuoriuscenti dal nulla ed
al nulla ritornanti) "incominciano" ad apparire (il loro apparire
esce cioè dall'ombra del non-apparire ed entra nel cerchio dell'apparire). Con
"cerchio dell'apparire" si intende, qui, la totalità degli enti che
appaiono: è, cioè, l'apparire in quanto ha come contenuto tutto ciò che appare
(ossia è l'apparire "trascendentale"); l'apparire delle cose della
terra, quell'apparire incominciante di cui sopra, è, perciò, la relazione tra
il cerchio dell'apparire (l'apparire trascendentale) e una parte del suo
contenuto. È altrettanto fondamentale precisare che l'incominciare della
terra (a sua volta eterna), non aggiunge alcunché al tutto eterno che è, con VELIA,
appunto, “non incompiuto” (ouk atelePombaon), “non manchevole” (oulon achineton).
Anche l'incominciante apparire, difatti, è eterno: il suo incominciare è il suo
entrare nel cerchio dell'apparire. Entrandovi, naturalmente, apparema questo
apparire dell'entrare è lo stesso entrare, ossia è quello stesso di cui si dice
che, eterno, entra nel cerchio dell'apparire. E, così come ogni ente, anche
l'appartenenza della terra al cerchio dell'apparire è eterna. L'eterna
appartenenza al cerchio dell'apparire entra nel cerchio eterno dell'apparire.
Entrandovi, appare, e quest'ultimo apparire è lo stesso apparire incominciante
in cui consiste l'incominciante appartenenza della terra al cerchio
dell'apparire. L'apparire incominciante è cioè apparire di sé stesso (e di
tutte le altre cose che incominciano ad apparire), ed è questa autoriflessione
dell'apparire incominciante ciò che entra nel cerchio dell'apparire e
incomincia a far parte del contenuto di questo cerchio. Ma ogni essente
che incomincia ad apparire (ogni oltrepassante) è destinato ad essere
oltrepassato: diventerebbe, altrimenti, condizione indispensabile dell'apparire
degli essenti e quindi originarietà che sarebbe dovuta apparire già da sempre.
Un oltrepassante che sia non oltrepassabile è impossibile, perché altrimenti
esso dovrebbe iniziare ad appartenere allo sfondo (e intende, con questo termine, quel complesso
di significati, o costanti persintattiche costanti sintattiche di ogni
significato –, senza i quali non apparirebbe nulla, motivo per cui non possono
non essere sempre presenti. Tra questi ad esempio vi sono i significati esseree
e nulla. Inoltre, la serie progressiva degli essenti che via via appaiono è
necessariamente finita; infatti, se in direzione del passato fosse estensibile
all'infinito, ci vorrebbe un percorso infinito, e quindi mai concluso, per
giungere al momento attuale. C'è quindi un primo passo compiuto dalla
terra. La totalità attuale di ciò che è destinato ad apparire è, per
quanto sopra esposto, necessariamente oltrepassata. Ma in che senso? Essa
non è, difatti, oltrepassata dall'apparire infinitogiacché l'apparire infinito
(l'infinito oltrepassarsi da parte delle forme proprie dell'apparire finitodove
la Gloria è proprio questo infinito dispiegarsi) non è un oltrepassamento
incominciante, ma è l'oltrepassamento già da sempre ed eternamente compiuto
della totalità del finito. La totalità attuale dell'incominciante è, dunque,
necessariamente oltrepassata da un incomincianteil quale non può apparire
attualmente, ma è tuttavia necessario che appaia (in quanto l'incominciare è
incominciare ad apparire), e che quindi è necessario che appaia sopraggiungendo
in un cerchio diverso, altro, dal cerchio originario dell'apparire. La totalità
simpliciter degli essenti-che-sono-degli-oltrepassanti (la totalità
dell'oltrepassante, cioè, che include come parte la totalità attuale
dell'oltrepassante) non può essere a sua volta oltrepassata, perché ciò che la
oltrepasserebbe sarebbe un oltrepassante non incluso nella totalità
dell'oltrepassante; e se l'oltrepassante (cioè l'incominciante) che oltrepassa
la totalità degli oltrepassanti non fosse a sua volta oltrepassato, esso
sarebbe quel contenuto impossibile che è, appunto (per quanto sopra esposto),
l'incominciante non-oltrepassabile. Poiché la terra oltrepassa anche
l'attualità dell'apparire del cerchio originario, sopraggiungendo in un cerchio
diverso, il contenuto incominciante che appare nel cerchio originario
dell'apparire attuale, è oltrepassato (infinitamente) in due direzioni:
(a) In quanto contenuto incominciante, esso è oltrepassato lungo il
dispiegamento infinito del contenuto attuale del cerchio originario (o, per
utilizzare il suo lessico, lungo la Gloria del dispiegamento infinito della
terra che si inoltra nel cerchio originario). Ma non è in quanto tale contenuto
è attuale che esso viene oltrepassato lungo il dispiegamento infinito del
contenuto attuale. (b) In quanto contenuto attuale (in quanto, cioè, alla
sua attualità) il contenuto incominciante è oltrepassato invece in un altro
cerchioe in un'infinità di altri cerchi dell'apparire.
L'oltrepassante-incominciante, qui, entra nell'apparire non attuale. Anche
questa seconda direzione dell'oltrepassamento è un dispiegamento infinito nella
Gloria, ma, appunto, nella gloria che consiste nell'infinito sopraggiungere,
nel cerchio originario, della costellazione infinita degli altri cerchi. La
gloria è l'unità di queste due dimensioni. La dimensione dell'essente, che
incomincia cioè ad apparire nel cerchio originario, è necessariamente
oltrepassata da un'altra dimensione dell'essente (perché l'incominciante non
può incominciare ad appartenere all'essenza dello Sfondo, non incominciante e
non tramontante, del cerchio originario); ma anche l'attualità dell'essente che
incomincia ad apparireossia anche l'apparire (che, in quanto tale, è apparire
attuale) dell'essente che incomincia ad apparireincomincia ad apparire, sì che
(per lo stesso motivo) è necessariamente oltrepassata in un altro cerchio
dell'apparire; e anche la sintesi tra l'attualità del cerchio originario e
l'attualità in sé dell'altro cerchio incomincia ad apparire nel cerchio
originario, quando in esso incomincia ad apparire ciò che ne oltrepassa
l'attualità; e dunque (per lo stesso motivo) tale sintesi è oltrepassata in un
terzo cerchio (e, cioè, l'attualità in sé dell'altro cerchio non è oltrepassata
solo nel cerchio originario, ma necessariamente in un terzo cerchio)e così
all'infinito. In definitiva, l'oltrepassamento dell'attualità di un
cerchio non avviene solo lungo la dimensione "verticale" del singolo
cerchio, ma anche lungoquella "orizzontale" della costellazione di
cerchi del Destino. L'oltrepassamento hegeliano, invece, conserva "idealmente",
cioè astrattamente, ciò che oltrepassa, e non realmente, determinandone la
distruzione. In un contesto siffatto è fondata l'impossibilità dell'esistenza
degli "altri", perché l'altro, che è il mio oltrepassante,
determinerebbe il mio superamento, e mi consegnerebbe ad una dimensione
puramente ideale. Infatti nel sistema hegeliano l'esistenza degli altri
significa l'esistenza di soggetti empirici, sensibili, che è quindi comunque
interna all'esistenza produttiva dell'unico io. Il nichilismo è un essente che
incomincia ad apparire, ed è quindi destinato ad essere oltrepassato. L'essente
che oltrepassa il nichilismo è l'essente che porta al tramonto l'isolamento del
senso delle cose dalla verità. Il nichilismo è, infatti, pensare e vivere le
cose come nulla in quanto delle cose non appare il legame alla struttura
originaria della verità, e quindi non appare l'eternità. L'essente, o la
dimensione di essenti, che porta al tramonto l'isolamento del senso delle cose
dalla verità è la gloria (cioè la manifestazione) della verità stessa.
L'ampiezza dell'isolamento non coinvolge solo il legame tra i singoli essenti e
la verità, ma anche il legame tra gli infiniti cerchi dell'apparire, il loro
passato e il futuro del percorso che la terra è destinata a compiere in essi.
Nella Gloria non si è il divino, perché il divino crea ed annienta le cose
anche e soprattutto quando ama; e dunque appartiene al regno dell'errore perché
l'amore è volontà e la volontà è voler alterare il senso proprio ed eterno,
cancellarne l'identità. Il divino è, quindi, infinitamente meno della più
umbratile tra le cose vere. Tutto è oltre il divino e oltre ogni forma di
mortalità, compresa la vita umana come credenza nel poter creare e annientare
gli essenti. Saggi: “La struttura originaria” (Brescia, La Scuola; Milano,
Adelphi); “Fichte” (Brescia, La Scuola, poi in Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi); Filosofia della prassi,
Milano, Vita e Pensiero, Milano, Adelphi);
“Ritornare a PARMENIDE di VELIA” -- Rivista di filosofia neoscolastica», poi in
Essenza del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Ritornare a
Parmenide. Poscritto -- «Rivista di filosofia neoscolastica», poi in Essenza
del nichilismo, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Essenza del nichilismo.
Saggi, Brescia, Paideia, Milano, Adelphi, Gl’abitatori del tempo. Cristianesimo,
marxismo, tecnica (Roma, Armando,
Téchne); “Le radici della violenza” (Milano, Rusconi, IMilano, Rizzoli);
“Legge e caso, Piccola Biblioteca Milano, Adelphi,); “Destino della necessità.
Κατὰ τὸ χρεών, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi); “A Cesare e a Dio” (Milano,
Rizzoli, La strada, Milano, Rizzoli); “La filosofia antica” (Milano, Rizzoli);
“La filosofia moderna” (Milano, Rizzoli, “ Il parricidio mancato, Collana Saggi.
Milano, Adelphi, La filosofia contemporanea. Da Schopenhauer a Wittgenstein,
Milano, Rizzoli, Traduzione e
interpretazione dell'«Orestea» d’Eschilo, Milano, Rizzoli, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano,
Adelphi, “Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Biblioteca Filosofica
n.6, Milano, Adelphi); “Antologia filosofica dai Greci al nostro tempo, Milano,
Rizzoli); “La filosofia futura” (Milano, Rizzoli); “Il nulla e la poesia. Alla
fine dell'età della tecnica: LEOPARDI, Milano, Rizzoli); “Filosofia. Lo
sviluppo storico e le fonti” (Firenze, Sansoni); “Oltre il linguaggio” (Milano,
Adelphi); “La guerra” (Milano, Rizzoli); “La bilancia” (Milano, Rizzoli); “Il
declino del capitalismo” (Milano, Rizzoli); “Sortite -- sui rimedi e la gioia”
(Milano, Rizzoli); “Metafisica” (Milano, Adelphi); “Pensieri sul Cristianesimo”
(Milano, Rizzoli); “Tautótēs, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, La filosofia dai Greci al nostro tempo” (Milano,
Rizzoli); “La follia dell'angelo” (Milano, Rizzoli); “Leopardi -- Cosa arcana e
stupenda” (Milano, Rizzoli); “La tecnica” (Milano, Rizzoli); “La buona fede”
(Milano, Rizzoli); “L'anello del ritorno” (Biblioteca Filosofica Milano,
Adelphi); “Crisi della tradizione occidentale” (Milano, Marinotti); “La legna e
la cenere, ovvero, dell’esistenza” (Milano, Rizzoli); “Il mio scontro con la chiesa”
(Milano, Rizzoli); “La Gloria. ἄσσα οὐκ ἔλπονται: risoluzione di destino della
necessità (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); “Oltre l'uomo e oltre Dio”
(Genova, Melangolo, Lezioni sulla politica. I Greci e la tendenza fondamentale
del nostro tempo” (Milano, Marinotti); Tecnica e architettura” (Milano, Cortina);
Dall'Islam a Prometeo, Milano, Rizzoli); Fondamento della contraddizione,
Milano, Adelphi,. Nascere. E altri problemi della coscienza (Milano, Rizzoli, Milano, BUR,. Sull'embrione, Milano, Rizzoli, Il
muro di pietra. Sul tramonto della tradizione filosofica, Milano, Rizzoli); Ricordati
di santificare le feste” (Milano, AlboVersorio); “L'identità della follia” (Milano,
Rizzoli). “Oltrepassare” (Biblioteca Filosofica, Milano, Adelphi); Etica e
Scienza” (Milano, Editrice San Raffaele, Immortalità e destino, Milano, Rizzoli, La
buona fede. Sui fondamenti della morale, Milano, Rizzoli, Volontà, fede e
destino, Grossi, Milano-Udine, Mimesis); L'etica del capitalismo e lo spirito
della tecnica, e sulla pena di morte, Milano, AlboVersorio, La ragione, la fede,
Milano, AlboVersorio, L'identità del destino.
Milano, Rizzoli, Il diverso come icona del male, Torino, Boringhieri, Democrazia, tecnica, capitalismo, Brescia,
Morcelliana, Discussioni intorno al
senso della verità, Pisa, ETS, La guerra e il mortale, Taddio, Milano-Udine,
Mimesis. Macigni e spirito di gravità. Riflessione sullo stato attuale del
mondo, Milano, Rizzoli,. L'intima mano, Biblioteca Filosofica, Milano,
Adelphi); Volontà, destino, linguaggio. Filosofia e storia dell'Occidente,
Perone, Torino, Rosenberg e Sellier, Istituzioni di filosofia, Brescia, Morcelliana);
Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli,; Milano, BUR,. La
bilancia. Milano, BUR, Del bello, Milano, Mimesis,, La morte e la terra, Biblioteca Filosofica
Milano, Adelphi,. Capitalismo senza futuro, Rizzoli, Milano,. Educare al
pensiero, Brescia, La Scuola,. Pòlemos, Milano, Mimesis, Intorno al senso del
nulla, Milano, Adelphi,. L'etica del capitalismo e lo spirito della tecnica. E
la pena di morte, Milano, AlboVersorio, La potenza dell'errare. Sulla storia
dell'Occidente, Milano, Rizzoli,. Il morire tra ragione e fede, Venezia,
Marcianum, Parliamo della stessa realtà? Per un dialogo tra Oriente ed
Occidente, Milano, Jaca, Sul divenire. Modena, Mucchi,. Piazza della Loggia. Una
strage politica, I. Bertoletti, Brescia, Morcelliana,. In viaggio con Leopardi.
La partita sul destino dell'uomo, Milano, Rizzoli,. Dike, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi,. Cervello, mente, anima, Brescia, Morcelliana, Storia,
Gioia, Biblioteca Filosofica Milano, Adelphi, Il tramonto della politica.
Considerazioni sul futuro del mondo, Milano, Rizzoli); “L'essere e l'apparire” Brescia,
Morcelliana, Dell'essere e del possibile, Milano, Mimesis,. Sulla verità e la morte, Milano, Rizzoli, Il
nichilismo e la terra, Milano, Mimesis, Testimoniando il destino, Biblioteca
Filosofica, Milano, Adelphi, Ontologia e
violenza. Milano, Mimesis, Aristotele, I
principi del divenire. Libro primo della Fisica (Brescia, La Scuola). Filosofo
dell'eterno. Il mio ricordo degl’eterni. Autobiografia, Milano, Rizzoli, “Parmenideo” -- VELIA, su la Repubblica, Scianca, Addio a S.: ecco chi era il grande
filosofo dell'essere, su Il Primato Nazionale, Bovegno, il filosofo cittadino onorario, su
giornale di brescia «L'esperimento di
Barzaghi è importante e va seguito con attenzione. Immerso nell'alienazione, il
cristianesimo è come una casa invisibile di cui qualcuno dice, indicando un
banco di nebbia: "Là c'è una casa". Che cosa si riuscirebbe a vedere
se la nebbia (l'alienazione) diradasse? Forse una casa. Ma forse nulla. Nel
primo caso, il cristianesimo avrebbe ancora qualcosa da dire, e di grande» (S.,
Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa). «Rigoroso fino alla fine. Solo un po' più
triste», in Brescia oggi, Emanuele
Severino, il tributo si celebrerà a Palazzo Loggia, in Bresciaoggi. Ecco perché
la giovane Italia va in malora", su il Fatto Quotidiano, Odifreddi, La
scienza sotto tiro, su la Repubblica, Fusaro e Didero, Filosofico. Miligi et
al., "Sguardo su S.", su filosofia.) "filosofo poetante" cf. La Guerra, occorre
riconoscere che le sue posizioni, qualunque sia il giudizio che si pensa di
dover dare su di esse, non sembrano aver avuto, perlomeno fino ad ora, un vero
e proprio seguito tra coloro che si occupano professionalmente di filosofia.»
(Cfr. Visentin, Il neo-parmenidismo italiano. Le premesse storiche e filosofiche,
Napoli, Bibliopolis) Neo-parmenidismo,
su filosofia. Se noi potessimo mai non
essere, già adesso non saremmo. La prova più certa della nostra immortalità è
il fatto che noi ora siamo. Perché ciò dimostra che su di noi il tempo non può
nulla: in quanto è già trascorso un tempo infinito. È del tutto impensabile che
qualcosa che è esistito una volta, per un momento, con tutta la forza della
realtà, dopo un tempo infinito possa non esistere: la contraddizione è troppo
grossa. Su questo si fondano la dottrina cristiana del ritorno di tutte le
cose, quella induista della creazione del mondoche si ripete continuamente a
opera di Brahma, e dogmi analoghi di Platone e altri filosofi.» (A.
Schopenhauer) Sperduto, Vedere
senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena ed., Fasano di
Brindisi, "Ritornare a Velia", in Essenza del Nichilismo,
Brescia, Aristotele, Liber de Interpretatione, essenza del nichilismo, follia
estrema ed estremamente nascosta: la persuasione che gli essenti, in quanto
tali, escano dal loro non essere e vi ritornino: la persuasione che vi sia un
tempo in cui l'essente (prima di essere e dopo il suo essere) sia nulla, che il
non niente sia niente: la persuasione che è il culmine in cui si mantiene
l'intera storia dell'Occidente. Destino della necessità, Milano, Adelphi, L'alienazione
dell'Occidente. Quadrivium, Genova); “La struttura originaria, Milano, Adelphi,
Sito web Amadori F., Il libero arbitrio, "Filosofia" Antonelli,
Verità, nichilismo, prassi. Roma, Armando, Berto F., La dialettica della
struttura originaria, Padova, Poligrafo, Crapanzano, L'immutabilità del
diveniente. Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Cusano, Capire S.. La risoluzione
dell'aporetica del nulla, Milano, Mimesis Cusano N., S. Oltre il nichilismo,
Brescia, Morcelliana,. Sasso, Dal divenire all'oltrepassare. La differenza ontologica,
Roma, Aracne, Dal Sasso A., Creatio ex nihilo. Tra attualismo e metafisica” (Milano,
Mimesis); Giovanni, Sul divenire. Gentile e S., Napoli, Scientifica, Paoli, “Furor
Logicus” (Milano, Angeli); Aporia del fondamento, Napoli, Città del Sole); Fabro,
L'alienazione Genova, Quadrivium, Goggi, Al cuore del destino. Milano, Mimesis
Goggi, Vaticano. Magliulo, Quaestiones disputatae, Milano-Udine, Mimesis, Mauceri,
La hybris originaria. Cacciari Napoli-Salerno, Orthotes, Messinese, L'apparire
del mondo. sulla struttura originaria Milano, Mimesis, Messinese, Il paradiso
della verità. Pisa, ETS, Messinese, Stanze della metafisica. Carlini,
Bontadini, Brescia, Morcelliana,. Messinese, Né laico, né cattolico. S., la
Chiesa, la filosofia, Bari, Dedalo, Petterlini, Brianese e Goggi, Le parole
dell'essere. Per S., Milano, Mondadori, Poma, Necessità del divenire. Una
critica a S., Pisa, ETS,. Saccardi, Metafisica e parmenidismo – I veliani, Il
contributo della filosofia neoclassica, Napoli-Salerno, Orthotes,. Scilironi, Ontologia
e storia, Abano Terme, Francisci, Scurati, Pensare l'identità. Milano, Alboversorio, Simionato, Nulla e
negazione. L'aporia del nulla (Pisa, Plus); Soncini, Il senso del fondamento in
Genova, Marietti, Spanio, Il destino dell'essere. Brescia, Morcelliana,.
Sperduto, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Fasano di Brindisi,
Schena, Sperduto, Maestri futili? Annunzio, Levi, Pavese, Roma, Aracne, Sperduto,
Il divenire dell'eterno. Su S. (ed ALIGHIERI), Prefazione di Messinese, Roma,
Aracne,. Testoni, S., La follia dell'angelo, Milano, Mimesis, Tarca, Verità, alienazione e metafisica. Rilettura critica
della proposta filosofica di S., Treviso, Mevio Washington, Valent, Cura e
salvezza. Saggi dedicati, Bergamo, Moretti & Vitali, Visentin M., Tra
struttura e problema. Note intorno al pensiero di E. Severino, Venezia,
Marsilio [ora in Il neoparmenidismo italiano, Dal neoidealismo al
neoparmenidismo, Napoli, Bibliopolis, Metafisica Ontologia Episteme Nichilismo
Leopardi Velia Valent Galimberti. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Associazione spazio interiore ambiente, Ursini. EMANUELE
SEVERINO LA POTENZA DELL'ERRARE Sulla storia dell'Occidente Alle radici della storia dell’Occidente, in
concetti come azione, volontà, potenza, si trova l’alienazione più profonda della verità, ossia l’estremo
disfarsi della verità: nel senso in cui ci si libera di una ricchezza rimanendo impoveriti. A questo principio
cruciale della filosofia di Emanuele Severino è dedicato questo libro che, parlando di arte, cristianesimo,
politica, diritto, economia, mostra in azione l’essenza del nichilismo, il più potente dei meccanismi
dell’errare. «Quando si parla di “nichilismo”» scrive l’autore «si intende per lo più il crollo dei valori
tradizionali. Inoltre, solitamente, il nichilismo è una crisi soltanto descritta, ossia è presentato come un fatto
che accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe non accadere.» Queste pagine ci esortano invece a prestare
ascolto alla spinta che ha provocato l’inevitabile accadere della resa al nulla. Da Dante e Leopardi fino allo
stato-azienda e ai governi tecnici, la riflessione di Severino svela il meccanismo oscuro che culmina nel
rovesciamento del mezzo in scopo. Il risultato è un’analisi che porta allo scoperto come lo “scambio delle parti”
derivi dall’origine di ogni alienazione del destino della verità e che dimostra — con nuovi scorci e riferimenti
— come «la malattia nascosta (il culmine dell’errare) sia la persuasione che le cose siano nulla, e il
viverle come un nulla». 2 EMANUELE SEVERINO, accademico dei Lincei,
è autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Scrive regolarmente sul “Corriere
della Sera”. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo l’autobiografìa 1/ mio ricordo degli eterni (Rizzoli 2011,
ora in BUR), Capitalismo senza futuro (Rizzoli 2012) e Intorno al senso del nulla (Adelphi 2013). 3
Emanuele Severino La potenza
dell’errare Sulla storia
dell’Occidente 4 Proprietà letteraria riservata © 2013 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-66255-7 Prima edizione digitale 2013 da edizione
novembre 2013 In copertina: Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Andrea Cavallini /
f/zeWorldo/DOT www.rizzoli.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul
diritto d’autore. 5 La potenza dell’errare 6
Per richiamare e introdurre
Anche la storia dell’Occidente presenta un insieme di processi in cui il mezzo di cui ci si serve,
agendo in modo più o meno complesso,
diventa lo scopo (il nuovo scopo) di tale
agire e lo scopo iniziale diventa il mezzo per realizzare il nuovo scopo. Si può dire che tale
rovesciamento è uno scambio delle
parti. Altri miei scritti si rivolgono
a questo tema. La sezione prima di
questo libro intende tuttavia mettere in luce la relazione tra alcuni «luoghi» apparentemente
distanti in cui quel rovesciamento si
manifesta: arte, cristianesimo, politica,
diritto, economia. Ma intende anche richiamare che alla radice non solo di tale rovesciamento, ma
dello stesso rapporto tra mezzo e scopo,
cioè dello stesso concetto di
azione-volontà-potenza si trova Yalienazione più profonda della verità, ossia il disfarsi della verità,
in modo estremo, da parte della storia
dell’Occidente. «Disfarsi», nel senso in cui ci
si disfa di una ricchezza rimanendo impoveriti, disfatti. Appunto per questa alienazione il
rovesciamento in cui consiste lo scambio
delle parti di cui si è detto appartiene
all’ essenza del nichilismo (a sua volta richiamata nella sezione prima). Tale essenza è il più potente dei
meccanismi delVerrare. Quanto più
l’errore è profondo, tanto più è
cresciuta la potenza. L’errore è potenza. E viceversa. Non può quindi esistere un potenza «buona» e una
«cattiva»: la potenza è, in quanto tale,
errare e ferrare è la forma originaria
di ogni violenza e malvagità. L’impotenza, tuttavia, non è altro che la volontà di potenza fallita,
frustrata. E la potenza «ottenuta» e
«vincente» è soltanto l’ illusione di aver ottenuto e di aver vinto. L’essenza del nichilismo
esprime nel modo più radicale un evento
che è essenzialmente più profondo di ogni «peccato originale». L’illusione estrema è la
fede (posseduta 7 da uomini e dèi) di avere la potenza di
condurre le cose dal nulla all’essere e
dall’essere al nulla. È però possibile
parlare di errare e di errore, di alienazione
della verità, solo se la verità appare, solo se si manifesta ciò che è opportuno chiamare destino della verità
per indicare qualcosa il cui contenuto è
abissalmente diverso da tutto ciò che,
lungo Vintera storia dell’Occidente, è stato chiamato «verità». Il capitolo VI della sezione prima
richiama appunto la configurazione di
fondo di tale diversità. Con questo si sta
insieme dicendo che l’alienazione della verità non è «soltanto» un evento che appartenga alla
storia del pensiero filosofico, ma è il
terreno in cui vanno via via crescendo le
opere, le istituzioni, le res gestae - e quindi anche, e certo innanzitutto, le molteplici forme culturali -
dell’Occidente e quindi anche ogni
historia rerum gestarum. E forse è il
caso di avvertire già qui che, anche queste
pagine, per lo più, intendono parlare delle «cose segrete», delle più segrete, a lettori che non hanno la
filosofìa in cima ai loro pensieri
giacché le cose più segrete sono peraltro
manifeste, e in piena luce, nel più profondo di ogni uomo (e forse non solo), ed è inevitabile che
trapelino nel deserto in cui l’uomo è
gettato dall’alienazione della verità.
La forma in cui oggi culmina lo scambio delle parti rimane quella che altre volte ho indicato, cioè il
rapporto con la tecnica, dove tutte le
forze oggi dominanti (i «luoghi» indicati
all’inizio) sono destinate ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza, lo scopo cioè nel
perseguimento del quale la tecnica
consiste (cfr. E.S., Capitalismo senza futuro,
Rizzoli 2012). Tuttavia quest’ultima forma è preceduta e accompagnata da altre forme dove tale scambio
si costituisce tra quelle forze stesse
(ognuna peraltro destinata alla fine,
come si sta dicendo, a rinunciare alla volontà di essere lo 8
scopo che subordina a sé gli altri e ad assumere come scopo l’aumento indefinito della potenza). Ad
esempio: lo scambio esistente tra
felicità e verità - per cui dapprima la verità viene ricercata per essere veramente felici e poi
si vuole esser felici per poter
contemplare la verità con una felicità diversa da quella che serve a produrre tale
contemplazione (cfr. E.S., La buona
fede, Rizzoli 1999, 5-6; Dall’islam a Prometeo, Rizzoli 2003, 7). Altri esempi: lo scambio che si
produce tra cristianesimo e arte
cristiana (cfr. sezione prima, cap. I), tra
individuo e Stato, tra individuo e capitale, tra merce e denaro - lo scambio marxiano, questo, che ripropone
lo scambio aristotelico tra economia e
crematistica (dove l’uso del denaro non
ha come scopo l’acquisto e il consumo della merce, ma l’aumento indefinito del denaro stesso). In
generale: nella storia dell’Occidente la
verità sta alla felicità come l’arte
cristiana sta al cristianesimo, come Dio o lo Stato stanno all’individuo, come il denaro sta alla merce,
come la tecnica sta al diritto (naturale
e positivo) e, infine, sta a tutte le forze
che ancora oggi intendono servirsi della tecnica come mezzo per realizzare i loro scopi. Il primo termine
di queste coppie è ciò che, assunto
inizialmente come mezzo per realizzare il
secondo termine, diventa lo scopo di quest’ultimo, che diventa il mezzo. Come volontà di aumentare aU’infinito la
propria potenza, e riuscendo a essere la
potenza suprema, cioè vincente su ogni
altra, l’Apparato scientifico-tecnologico non può non essere planetario, destinato quindi a subordinare a
sé ogni forma politica dello Stato e
ogni trust sovranazionale che sul
fondamento della potenza economica sia riuscito a subordinare a sé tale forma. L’Apparato è
cioè destinato a costituirsi come
Superstato planetario, essenzialmente diverso
dalle logiche politiche che hanno condotto a organizzazioni internazionali come la Società delle Nazioni
e l’Onu. La forma 9 politica dello Stato nasce come scopo che
gli individui o i gruppi sociali si
danno per sopravvivere, rinunciando ai
propri impulsi (il cui soddisfacimento costituiva il loro scopo iniziale) e riconoscendo nello Stato il
«monopolio legittimo della
violenza-potenza». In modo analogo, la conflittualità oggi esistente tra gli Stati (che ripropone
il bellum omnium contro, omnes) spinge
verso la forma estrema di Superstato, il
Leviatano supremo in cui consiste l’Apparato della tecnica (e di cui il Duumvirato Usa-Urss è stato una
prima, ancora acerba ma significativa
anticipazione). Esso riesce a essere il
supremo monopolio legittimo della
potenza quando riesce a comprendere il senso autentico della propria potenza perché sente la voce del
pensiero filosofico che mostra
fimpossibilità di ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo e quindi all’agire tecnico, che più
di ogni altra forza è capace di
oltrepassare i limiti dell’uomo. Ascoltando quella voce, l’Apparato ha la capacità di mostrare
l’«illegittimità» di ogni Limite
assoluto e di ogni altra forma di potenza. Anche ma non solo in questo senso la filosofia è la
madre della potenza estrema. Ancora una
volta la filosofia degli ultimi due
secoli - e propriamente il suo sottosuolo essenziale e per lo più inesplorato (cfr. sezione prima, cap. II) - è
il fondamento della più grande
trasformazione storica del pianeta: quella
appunto dove la tecnica, ricevendo dalla filosofia la coscienza della propria forza, riesce a subordinare a
sé ogni altra forza. Questa,
sommariamente indicata, è la configurazione
complessiva di ciò che abbiamo chiamato «scambio delle parti» e dell’alienazione nichilistica della
verità che sta alla radice di esso. Ad
alcune delle forme di tale scambio si
rivolgono queste pagine. Quando
si parla di «nichilismo» si intende per lo più il crollo dei valori tradizionali. Inoltre,
solitamente, il 10 nichilismo è una crisi soltanto descritta,
ossia è presentato come un fatto che
accade, ma che sarebbe potuto o potrebbe
non accadere. Questo libro mette appunto in risalto (richiamandosi ad altri miei scritti)
l’incapacità di prestare ascolto alla
spinta che lo ha fatto inevitabilmente accadere, e al significato di questa inevitabilità. Ma
mette in risalto anche qualcosa di ben
più decisivo, giacché la definizione usuale di
«nichilismo», nonostante la sua visibilità, è soltanto una conseguenza del senso autentico, ossia di ciò
che abbiamo chiamato Yessenza - peraltro
nascosta del nichilismo. Inutile ogni
rimedio se si ignora la natura della malattia. La malattia nascosta (il culmine dell’errare) è la
persuasione che le cose siano nulla, e
il viverle come un nulla. Tanto più profonda, la malattia, quanto meno si riconosce di esserne
affetti. Ma una volta accertata la vera
malattia anche il senso del rimedio
mostra un volto essenzialmente diverso.
Questo tema sta al centro di tutto il mio lavoro filosofico, ma è prevalentemente accessibile a chi ha già
una certa confidenza con il pensiero
filosofico. Come già ho accennato,
questo libro intenderebbe invece coinvolgere nella riflessione su questo tema - che è la radice più profonda
di ogni «attualità» - i lettori che tale
confidenza non hanno. Intenderebbe,
appunto, avvicinarli all’essenza del nichilismo e della potenza - quindi al destino della
verità, cioè allo stare autenticamente
oltre tale essenza. 1 * Il linguaggio di queste pagine proviene da
un gruppo di scritti (alcuni inediti e altri rielaborati), pubblicati prevalentemente sul «Corriere
della Sera» e sul settimanale «Liberal» nell’ultimo decennio. 11
Sezione prima Scambio delle
parti e alienazione della verità 12
I Il «fiore»: cristianesimo,
arte, tecnica 1. Poesia e festa Il titolo di questo capitolo che si rivolge
alla poesia di Dante e di Leopardi può
lasciare perplessi: «Il fiore»! Che serietà può
avere rivolgersi alla poesia - e per di più con un’immagine così scontata come «il fiore» - in un tempo
tragico ed enigmatico come il nostro,
dove i popoli poveri intendono non
essere esclusi dalle ricchezze dei ricchi e dove la tecnica sta avviandosi al dominio su tutte le altre
forze della civiltà? La lotta contro il
dolore e la morte si è fatta troppo dura
perché sia ancora lecito rivolgersi alla poesia e ai fiori. Ma dobbiamo subito chiederci qui: la poesia
non ha proprio nulla a che vedere con la
lotta contro il dolore e la morte? È
così scontato che la poesia appartenga al regno del superfluo? Queste domande non intendono
alludere al luogo comune che, dopo aver
chiuso la poesia nella dimensione
dell’«estetica», crede che la poesia sia qualcosa di indispensabile per le anime belle. Oggi, indebolendosi, la poesia è diventata
anche questo. Ma alVorigine la poesia
appartiene invece al gesto essenziale che
l’uomo compie contro il dolore e la morte. Appartiene al rimedio essenziale. In principio, il gesto e il rimedio
essenziale sono la festa arcaica.
All’origine la festa unisce e fonde in sé ciò che in seguito si separa e diventa canto, mito,
rito, danza, poesia, arte, sapienza,
saggezza, filosofia, tecnica, scienza (cfr. E.S., Dall’islam a Prometeo, cit., 8). Quanto più
la poesia si allontana dall’originaria
casa festiva, tanto più si indebolisce e
diventa oggetto di godimento estetico - cioè qualcosa che può certamente sembrare superfluo rispetto ai
bisogni primari dell’uomo. E invece,
nell’antica lingua greca «poesia» - poìesis
13 - significa «produzione».
La poesia appartiene cioè all’ambito
della potenza. Come gli altri fattori della festa. 14
2. Gli «odori» Anche in seguito
la grande poesia conserva le tracce di
quell’antica potenza. Nel canto XIX del Paradiso (w. 22-24) Dante si rivolge così ai beati: [...] O perpetui fiori de l’eterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti i vostri odori. Sono, i beati, i perpetui fiori della
letizia divina. Fioriscono dall’albero
della letizia eterna, che li unisce in modo che i loro «odori», per i quali essi si distinguono
l’uno dall’altro, paiono e sono tuttavia
un unico profumo: «pur uno». Mezzo
millennio dopo, Leopardi compone La ginestra o il fiore del deserto. Rivolgendosi alla ginestra
il canto dice (w. 32-37); [...] Or tutto intorno una ruina involve, dove tu siedi, o fior gentile, e quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola. Il riferimento a Leopardi e a questo suo
canto può sembrare estrinseco. Eppure il
pensiero di Leopardi porta al tramonto
l’universo in cui si muove il pensiero di Dante. Leopardi, prima ancora di Nietzsche, e nel
modo più radicale, mostra
l’impossibilità di ogni eterno, di ogni Dio, di ogni eterna letizia. Non si tratta dell’opinione,
della fantasia, del sentimento di un
«poeta» infelice e deluso. Leopardi, come
altrove ho mostrato, apre la strada della filosofia del nostro tempo: un percorso inevitabile che tuttora è
in attoed è la radice del distacco del
nostro tempo dalla grande tradizione
occidentale, che a sua volta ha la propria radice nel pensiero filosofico dei Greci. 15
Di questa radice Dante è pienamente e potentemente consapevole. Quando all’uomo non basta più la
letizia della festa arcaica, nasce la
letizia della filosofia, che per i Greci è la
massima di cui l’uomo possa godere sulla terra. Ma, in precedenza, la festa è il primo
rimedio c ontro la paura del dolore e
della morte perché è l ’immagine della lotta
umana contro di essi. Nella festa l’uomo si identifica a questa immagine. L’immagine si solleva e si libra al
di sopra della lotta: già per questo
librarsi si sente libera dal pericolo e dalla
paura, ossia è vittoria, lotta vincente, godimento della salvezza.
La paura che è vinta dalla festa è più originaria e angosciante della paura di chi, ormai
all’interno del regno della ragione e
della fede cristiana ha «paura» perché si è
allontanato dalle leggi divine, dalla «diritta via» della salvezza. Lo dice anche Dante all’inizio deìYInferno.
La «selva oscura» è la lontananza da
Dio, dalla quale proviene «la paura»; ma
questa selva paurosa Tant’è
amara che poco è più morte. ( Inferno
, I, v. 7) È tanto amara che la morte è
poco più amara. Il che vuoi dire che la
paura della morte è ancora più amara della paura suscitata dalla lontananza di Dio. È questa
ancor più amara paura a essere
inizialmente vinta dalla festa arcaica. Il deserto della morte è dunque ancora più originario
del «gran diserto» (Ibid., v. 64) della
selva dove Dante incontra Virgilio. La
paura che non è ancora raggiunta e vinta dall’evocazione dell’immagine festiva è essenzialmente più
radicale di quella di chi, dopo aver
abitato quell’immagine, se ne è allontanato
credendo di trovare altrove il rimedio, e teme le conseguenze di questo suo gesto - e tuttavia, anche e
proprio per questo 16 suo timore è pur sempre in rapporto con la
dimensione festiva e salvifica. Di quel più originario e pauroso deserto, da
cui l’uomo ha sempre tentato di
salvarsi, parla il canto della Ginestra. Il
«fiore del deserto» «il deserto consola». Nel mondo di Dante i perpetui fiori dell’eterna letizia sono lo
stato più alto dell’uomo. Ma Leopardi
vede l’impossibilità di questa letizia:
dal deserto che è il regno della morte non si può uscire. La ginestra è il poeta stesso; il «poeta» è
insieme il «filosofo»; il «genio» è
l’unità di poesia e filosofia, e questa unità è lo stato più alto che l’uomo può raggiungere prima di
essere afferrato dal nulla della morte
(e dopo che la tecnica ha invano tentato
di salvarlo). Leopardi vive e sa di vivere questo stato supremo, effimero paradiso terrestre; sa di essere il
«genio». Il genio della ginestra
«consola» il deserto perché sa che non ci si può salvare dal deserto della morte. La
consolazione consiste nella poesia
pensante, nel pensiero poetante. (Cfr. E. S., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica:
Leopardi, Rizzoli 1990 e Cosa arcana e
stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli 1997). Nell’incontro di Dante col «cielo»,
all’inizio del viaggio nell’oltretomba,
la parola «consolazione» è invece assente in
quanto riferita alla paura del poeta. Dal «cielo» giunge per lui la salvezza. Quando Virgilio glielo dice,
Dante si sente come i fiori che escono
dal gelo notturno - e questo suo stato è la
prima prefigurazione della rosa dei beati: Quali i fioretti, dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li
imbianca si drizzan tutti aperti in loro
stelo tal mi fec’io [...]. ( Inferno , II, w. 127-130) Dalla paura del gelo notturno al calore
eterno - «un sol calar di molte brace»
-, da cui si leva l’unico «odore» dei fiori
dell’eterna letizia. 17 3. Volontà di sapienza Volendo essere il rimedio contro la paura
originaria del dolore e della morte, la
festa arcaica vuol essere sempre più
potente. Questa volontà attraversa l’intera storia dei mortali e oggi si presenta come civiltà della tecnica.
Potenziamento crescente della festa, che
è potenziamento delfimmagine festiva
della lotta in cui la vita consiste. Il
potenziamento delfimmagine festiva procede lungo due vie: quella del contenuto delfimmagine e
quella della forma, cioè del modo in cui
l’immagine esprime il contenuto. Ma
appunto perché la potenza originaria della festa sdoppia la via della propria crescita, appunto per questo
l’originaria potenza festiva si
indebolisce. Il potenziamento del contenuto è il sorgere e l’articolarsi del mito; il
potenziamento della forma è il sorgere e
l’articolarsi di ciò che sarà chiamato «arte»,
«poesia», «tecnica». Gli abitatori originari della casa festiva tendono a separarsi e la separazione diviene
violenta e irreparabile quando il contenuto
sapienziale del mito non sa resistere
alla propria volontà di sapienza e diventa lògos, ragione, filosofìa. Il mito, infatti, vuole
sapere per salvare. Ma la volontà di
salvezza è massimamente esigente: richiede che il sapere sia capace di resistere a qualsiasi
dubbio; e ciò che possiede in modo
assoluto questa capacità è la «verità», intesa
come i Greci per la prima volta l’intendono, cioè come sapere che non può essere in alcun modo smentito.
Questo il senso della verità che, lungo
l’intera tradizione dell’Occidente,
giunge fino al XIX secolo - fino a Leopardi. In questo senso della verità il pensiero di Dante è
essenzialmente immerso, e in modo
pienamente consapevole. È questo senso
radicale della verità a separarsi dal mito e a
scorgere e insieme a produrre il differenziarsi; il separarsi e dunque l’indebolimento degli abitatori
dell’antica casa festiva. 18 Li separa da sé e gli uni dagli altri. Separati,
è inevitabile che si trovino estranei
gli uni agli altri, dunque sostanzialmente in
conflitto e pertanto privati della forza a essi conferita dalla loro unità originaria. Arte, poesia, tecnica,
sapienza incominciano a vivere di vita
propria. La loro capacità di salvare dal
dolore e dalla morte si prolunga, ma indebolita. Pochi oggi credono che la poesia o la
filosofia possano salvare dal dolore e
dalla morte. E il discorso può essere esteso in
consistente misura alla religione.
Eppure, per quasi due millenni e mezzo la verità evocata dalla tradizione filosofica è la via lungo la
quale procede non solo Finterà cultura,
ma l’intera civiltà dell’Occidente. È la
«diritta via», la «verace via» di cui parla Dante. Nascendo, la filosofia porta alla luce la forma estrema di
ciò che per il mortale è il pericolo:
intende il dolore come l’andare nel
«nulla» da parte dei piaceri, e la morte come l’andare nel «nulla», da cui non c’è ritorno, da parte
della vita intera. E per poter così
intendere il dolore e la morte la filosofia deve pensare il significato radicale del «nulla» e
dell’«essere». La filosofia salva il
mortale perché essa crede che la verità esiga
che quanto più conta, nella vita dell’uomo, sia già da sempre salvo dal nulla, cioè sia in quell’Essere, o
addirittura sia quell’Essere, già da
sempre salvo dal nulla, che è il divino. In
questa concezione del divino si inserivano l’esperienza cristiana e la riflessione teologica su di
essa. Dante è uno dei massimi testimoni
di questa inscrizione. 19 4. Potenza della «bella menzogna» Ma i testimoni non aggiungono alcunché al
testimoniato. Questo significa che Dante
non è soltanto un testimone. Si sa che
il concetto che Dante possiede della poesia va in direzione opposta al suo fare poetico. Egli non fa quel
che pensa. Pensa che la poesia sia
soltanto «bella menzogna» qualora non si
faccia «banditrice del vero», testimone della verità che sta nascosta sotto «il velame della favola» e il
«favoloso e ornato parlare». Dante pensa
della poesia quello che pensa Platone. E
anche di tutto il gran volume della sapienza greco-latina- cristiana - comprendente anche la
configurazione dell’oltretomba e i
viaggi che in esso si possono compiere -,
anche di tutto questo egli pensa, nella sostanza, quel che è già stato pensato, per quanto rilevanti siano
alcune sue prese di posizione. Scrive allora la Commedia solo per esprimere
in un «favoloso e ornato parlare» la
verità già pensata da altri? Per questo
impegna e consuma tutta la sua vita?
Impegna e consuma tutta la sua vita per qualcosa di essenzialmente più decisivo. Anche senza
rendersene conto, con la Commedia egli
intende produrre la nuova immagine
salvifica della festa: intende rinnovare la festa che salva, consentendo ai mortali di sopportare il
dolore e la morte. Questo suo gesto
scuote fino alle radici il grande albero della
tradizione. Che Dante scriva la
Commedia significa cioè che per lui la
grande sapienza della tradizione greco-cristiana e la stessa vita a essa conforme hanno una potenza salvifica
inferiore a quella della dimensione dove
la verità e la vita adeguata alla verità
sono il contenuto del canto e della poesia. «Bella menzogna» e «velame della favola», la
poesia, quando il suo contenuto non è la
verità; ma più potente della 20 nuda verità quando, avendo come contenuto
la verità, le conferisce una potenza
salvifica ben superiore a quella che la
verità possiede di per sé sola.
La poesia della verità parla inoltre a tutti, anche agli indotti. La difesa di Dante della lingua volgare, su
cui egli fa crescere il proprio
linguaggio poetico, non è un fatto semplicemente letterario o astrattamente culturale, ma
esprime la coscienza che ad attendere e
a tendere alla salvezza della verità sono
tutti i mortali, e coloro, tra essi, che sono gli indotti, possono identificarsi a quella rinnovata immagine
festiva, che è la verità della
filosofia, solo se tale immagine si presenta non nella sua cruda e astrale concettualità, ma,
attraverso un ulteriore rinnovamento,
con le parole terrene della poesia.
Unendo poesia e filosofia (e, sul tronco della filosofia, il cristianesimo), Dante fa cenno all’antica
festa di ritornare presso i mortali. Ciò
significa che troppo flebile rimembranza
è per lui la liturgia cristiana - in cui peraltro si sente ancora forte l’eco della festa arcaica. Dante pensa
che dalla poesia non possa separarsi la
festa della verità e della cristianità -
cioè il luogo dove sulla terra il mortale sperimenta la propria salvezza e la propria destinazione
all’«eterna letizia». La liturgia
cristiana deve diventare liturgia poetica.
Questo pensiero di Dante non si mantiene dunque sotto la protezione della cattedrale del passato:
scava a fondo nel terreno del suo tempo
e sbuca in un altro emisfero. In tale
pensiero si dice che lo scopo dell’esistenza è l’immagine festiva come unità di poesia e di filosofia. Dante
non si limita a essere un grande
testimone della situazione dove lo scopo
dell’esistenza, sulla terra, è la verità cristianamente concretantesi e la vita a essa adeguata: al
di là delle sue convinzioni sulla
poesia, Dante, nel suo agire poetico, evoca la
poesia come fattore indispensabile all’immagine festiva che 21
consente all’uomo di sopportare il dolore e la morte. Certo, la poesia è terrena; a differenza
della nuda verità parla, oltre che ai
sapienti, anche agli indotti; mentre nella
letizia eterna del paradiso nessuno è indotto. Nell’eterna letizia la poesia, in quanto indispensabile
alla verità, è cioè destinata a
scomparire come scompare la fede - giacché la
fede è l’assenso alle «cose che non si vedono» (non apparentia, dice l’apostolo Paolo), mentre
nel paradiso le cose si mostrano e non
hanno bisogno della fede. Ma perché
qui, sulla terra, si libri l’immagine festiva e
salvifica è necessario che alla fede, che cresce sul tronco della verità filosofica, si unisca anche la poesia.
E Dante è pur sempre un essere terreno
quando giunge al cospetto dei fiori
dell’Eterno e della «candida rosa». Rispetto alla verità che si mostra nel paradiso, le forme visibili della
«rosa sempiterna» dei beati - «Il fiume
e li topazii / ch’entrano ed escono e il
rider de l’erbe» ( Paradiso , XXX, v.v. 76-77) - sono forme esterne, preamboli, prefazioni - «prefazi» -
della loro verità, che in qualche modo
esse coprono d’ombre («son di lor vero
umbriferi prefazi», ibid., v. 78), mentre i beati la contemplano in sé stessa. Ma nella condizione terrena -
all’interno della quale Dante pur sempre
rimane compiendo il suo viaggio nell’oltretomba
- è l’ombra terrena della poesia a illuminare
la sapienza del contenuto, a rendere potente l’immagine che salva: a rendere potente la sua forza
salvifica e a rendersi quindi indispensabile
alla potenza dell’immagine: E vidi
lume in forma di rivera fulvido di
fulgore, intra due rive dipinte di
mirabil primavera. Di tal fiumana
uscian faville vive, e d’ogni parte si
mettean ne’ fiori, quasi rubin che oro
circunscrive. Poi, come inebriate da li
odori, riprofondavan sé nel miro
gurge; e s’una intrava, un’altra n’uscia
fòri. 22 (
Ibid w. 61-69) Come semplice verità
della ragione e della fede, l’immagine
terrena della beatitudine del paradiso impallisce e dunque non dispiega la propria potenza salvifica se
i beati non appaiono insieme nelle forme
della poesia: come i perpetui fiori
dell’eterna letizia che ora, in questa più alta regione del cielo, formano le due rive, «dipinte di
mirabil primavera», del fiume, «fulvido
di fulgore», da cui escono di continuo le
scintille degli angeli della vita eterna, api che sui fiori depongono rubini nell’oro e che restano a
loro volta «inebriate da li odori». 23
5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana Imponendo la propria presenza alla liturgia
sacra, la liturgia poetica, si è detto,
scava nel terreno del tempo in cui Dante
vive - e sbuca in un altro emisfero. Di che cosa si tratta? La Commedia apre uno spazio nel quale lo
scopo del mortale è l’immagine festiva
dove la poesia si unisce alla filosofia
- e dove la sophla si dispiega nel kérygma cristiano. Anche se Dante deve chiamare «commedia» e non
«tragedia» il proprio poetare cristiano,
tuttavia la commedia, sulla scia della
tragedia attica intende riproporre il clima della festa arcaica - sebbene ormai la festa non possa
più prescindere dalla filosofìa, che è
peraltro il principio della separazione
degli abitatori della casa festiva. Dante pensa come scopo dei mortali la festa, nella forma poetica della
«commedia» filosofico-cristiana. (La
tragedia infatti si arrende al dolore e
alla morte, dice Platone nel libro X della Repubblica e quindi è la «commedia» la forma poetica adeguata
all’eterna letizia cristiana). San
Pietro gli dice: E tu, figliuol, che
per lo mortai pondo ancor giù tornerai,
apri la bocca, e non asconder quel ch’io
non ascondo. (Paradiso, XXVII, w.
64-66) Il riferimento immediato è alla
corruzione della Chiesa, ma il contesto
imprescindibile di tale riferimento è tutto il
contenuto della Commedia : su tutto questo contenuto Dante è convinto di dover aprire la bocca e non
nascondere quel che in cielo non è
nascosto. Non nasconderlo è proclamarlo
appunto scopo dell’uomo. E se lo scopo è il dispiegarsi dell’immagine festiva, nella quale il
contenuto filosofico- cristiano deve
stare unito alla poesia, allora, questo contenuto, in quanto separato dalla poesia, non è più lo
scopo a cui l’uomo deve mirare. 24
Ma quando la filosofia, che già si è fatta innanzi, si unisce al messaggio cristiano, è soprattutto questo
messaggio a parlare alle genti, e a dir
loro che la salvezza si ottiene seguendo Gesù
e nient’altro. Ogni altro che si voglia seguire è un secondo padrone; e non si possono servire due
padroni. Quaerite primum regnum Dei. Il
messaggio cristiano non dice di tendere
all’unità del regno di Dio e della poesia. La primarietà che compete al regno di Dio in quanto scopo
non include la poesia. La «bella
menzogna» della poesia, «il velame della
favola» poetica, «il favoloso e ornato parlare» non sono necessari per andare in cielo. La Commedia di Dante, già con la sua
semplice esistenza, intende invece
mostrare che il viaggio dalla terra al cielo è
autentico solo se è avvolto, espresso, sorretto dalla poesia. Unita alla filosofia cristiana, la poesia
salva. In quanto separato dalla poesia,
il contenuto filosofico-cristiano cessa
quindi di essere lo scopo: diventa, nella Commedia, il mezzo per poter cantare la verità, cioè per
raggiungere quello scopo che è «l’unità
della verità e del canto. Cercate per prima
l’unità del regno di Dio e della poesia. Separato dalla poesia, il regno di Dio non salva. Questo è lo straordinario pensiero di Dante
- anche se in lui tale pensiero può aver
evitato di guardare in faccia sé stesso.
Tale pensiero è infatti la perentoria negazione del mondo sapienziale e morale - cioè della
filosofia e del cristianesimo - che pure
è cantato nella Commedia. Nel pensiero
di Dante la salvezza può presentarsi all’uomo in un’immagine salvifica che dev’essere guidata
da due padroni, cioè dal mondo cristiano
e dalla poesia; e pertanto il mondo
cristiano, come id quod primum quaeritur, dunque come indipendente e separato dalla poesia, non
appartiene allo scopo dell’esistenza.
Tale mondo può essere cioè presente solo
come mezzo per raggiungere lo scopo, ossia l’unità di 25
mondo cristiano e di poesia, e dunque resta negato, essenzialmente negato, nella sua pretesa di
essere l’unico padrone a cui l’uomo
debba affidarsi - che è la pretesa evangelica. La Commedia si rivolge al divino - al
salvifico - per cantarlo; non canta per
rivolgersi al divino. Non canta per
rivolgersi al divino, inteso come l’unico padrone che si serve della poesia per mostrare la propria gloria
al di sopra di tutto, anche della
poesia. Così inteso, il divino non salva. Certo, il canto della Commedia canta il divino, ma,
appunto, è il divino che appare nella
sua inscindibile unità alla poesia - e che è
salvifico solo in quanto è cantato.
Questo che si è indicato è il tratto comune di tutta la grande arte cristiana, da Giotto a Bach e
oltre ancora, lungo un processo dove il
divino diventerà sempre di più il pretesto
perché il canto si levi come unico padrone di ciò che rimarrà dell’immagine festiva sapienzialmente e
religiosamente salvifica. Diventa sempre
più intenso e perentorio il processo in
cui, per il grande artista «cristiano», al di sopra di tutto - anche al di sopra del messaggio di Gesù -
finisce con Tesserci l’arte; nell’arte
egli vede, sempre di più, la salvezza. Quando
non si sentirà più cristiano, l’artista crederà di essere lui il vero creatore del mondo. La negazione
oggettiva - ossia non intenzionale - del
mondo sapienziale della tradizione greco-
cristiana è quella esercitata dall’arte nel tempo della dominazione di tale mondo. Sussiste, questa
dominazione, anche quando le forze della
terra, specie quelle pratico-
economico-politiche agiscono in direzione contraria alla sapienza e alla morale filosofico-cristiana.
Anche questo agire è una negazione di
tale sapienza, ma è una negazione che
avviene alTinterno del riconoscimento esplicito, da parte dei potenti, che tale sapienza è l’inviolabile
guida del mondo. È quindi una negazione
in malafede. Video meliora proboque,
26 deteriora sequor. Invece la
grande arte cristiana, dunque anche la
poesia di Dante, non nega in malafede la sapienza filosofico-cristiana, perché
ancora non sa o ancora non rende
esplicito che il suo sentirsi indispensabile a tale sapienza, e alla evocazione delfimmagine salvifica, è in
effetti la negazione perentoria del modo
in cui il cristianesimo, cresciuto sul
tronco della filosofia greca, intende sé stesso. È una negazione che dal sottosuolo preme sul
pavimento della coscienza, ma che ancora
non lo frantuma e non si rende
visibile. 27 6. «L’anima riceve vita» Negazione perentoria ma implicita, dunque; e
non solo implicita ma an che soltanto
«sentita», voluta, vissuta, cioè senza
sostegno e fondamento che non sia appunto la
prepotenza con cui il nuovo modo di sentire del poeta si contrappone al vecchio, sapienziale - il vecchio
modo che però ha alle proprie spalle il
fondamento costituito dalla grande
tradizione filosofica. Per quanto innovatrice, la negazione della verità della tradizione, da
parte della poesia e dell’arte, attende
ancora che venga alla luce la necessità di
lasciarsi alle spalle la verità che la filosofìa ha portato alla
luce e in cui si manifesta il «vero»
senso del divino. Nel tempo del dominio
della verità filosofico-cristiana, l’arte cristiana apre la porta alla «morte di Dio», ma senza ancora
sapere quel che sta facendo e senza
riuscire a scorgerne la legittimità e la
necessità. È Nietzsche a parlare
della «morte di Dio» - e a fondarla
(cfr. sezione prima, cap. V). Ma è innanzitutto il pensiero di Leopardi a scorgere questo fondamento a
mostrare la necessità di questa morte,
cioè Yimpossibilità di ogni eterno, di
ogni divino, di ogni vita perpetua che fiorisca dall’eterna letizia. Nonostante tutto, la gigantesca
potenza filosofica di Leopardi rimane
oggi ancora celata, sebbene fosse stata
intravista da Nietzsche e Wagner. Di questa gigantesca potenza, qui, non si può dir nulla di
determinato e pertanto rinvio ancora una
volta ai miei due scritti sopra ricordati, Il
nulla e la poesia: Leopardi; e Cosa arcana e stupenda. Si deve però richiamare che il carattere
indissolubile dell’unità di poesia e
filosofìa, al quale Dante guarda per
primo nel mondo cristiano, forma uno dei temi più esplicitamente, potentemente e diffusamente
presenti nel pensiero di Leopardi. Ma è
presente nella sua innegabile 28 necessità - cioè appoggiandosi al
fondamento, di cui qui sopra si parlava,
che invece è assente nella negazione del
mondo sapienziale cristiano da parte dell’arte cristiana e dunque della poesia di Dante -, cioè nella
negazione che è soltanto volontà di
negazione, soltanto volontà di
autoaffermazione. E va aggiunto che l’unità di poesia e filosofia è presente nel pensiero di Leopardi
con il senso radicalmente nuovo che la
filosofia assume quando essa si rende
conto delfimpossibilità della «verità» e del «divino» evocati dalla tradizione dell’Occidente. Leopardi mostra per primo, aprendo la strada
della filosofia del nostro tempo, che
l’uomo non può salvarsi dal nulla. La
«verità», ora, è questa, terribile. Ci si è anche rallegrati, nella cultura degli ultimi due secoli, della morte
di un Dio divenuto più angosciante della
paura da cui egli avrebbe dovuto
liberare. Ciononostante l’angoscia diventa massima quando ci si rende conto che nessuna opera umana potrà
mai salvare l’uomo dal nulla. Il
contenuto del mito consente al mortale di
sopportare il dolore e la morte: è il tratto sapienziale che, sebbene unito agli altri tratti dell’immagine
festiva, più le conferisce la potenza
salvifica e dunque la letizia per la quale
la festa si configura come lo scopo supremo del mortale. La filosofia porta il mito al tramonto, ma nella
tradizione dell’Occidente ne diventa
anche l’erede. La filosofìa della
tradizione è la suprema theoria - e in origine questa parola significa appunto «festa». Ma quando la
filosofia scorge, e innanzitutto nel
pensiero di Leopardi, che la verità innegabile
è l’impossibilità, per l’uomo, di salvarsi dal nulla, allora la verità della filosofia non può più dare
alcuna letizia. Leopardi vede dapprima
che la conoscenza della verità rende estrema e
insopportabile l’angoscia dell’uomo e che se per il mortale può esserci, sia pur breve, un tempo di
letizia, cioè di festa, questo deve
nascondere la verità e non essere altro che «bella 29
menzogna» - che dunque può essere solo «umbrifera», apportatrice di ombre che oscurano e che non
possono essere, come in Dante,
«prefazii» della verità. Ma dopo questo
primo modo di intendere la poesia
Leopardi si avvede anche, ben presto, che ormai non solo r«intelletto», ma nemmeno la «fantasia» può
lasciarsi ingannare dalla poesia e che
dunque è inevitabile che anche e
soprattutto nella poesia la verità terribile si mostri. Il risultato di questa consapevolezza è che l’unico tratto
festivo e caducemente salvifico concesso
al mortale è la potenza con cui la
poesia esprime la nullità dell’uomo. Il
«genio» è il produttore: gignens. Genera quanto ormai, eco lontana, è possibile ripristinare
dell’immagine salvifica della festa.
Volgendosi all’opera del genio, - dice Leopardi nel «pensiero» 259-61 dello Zibaldone - «l’anima
riceve vita, se non altro passeggera,
dalla stessa forza con cui sente la morte
perpetua delle cose e sua propria». Questa «vita» è appunto quanto rimane dell’antica letizia della festa
- le opere del genio, scrive Leopardi in
quel «pensiero» dello Zibaldone,
«riaccendono l’entusiasmo», sono «consolazione» che «apre il cuore e ravviva» ma tale «vita» e «forza»
festive posseggono la potenza
dell’immagine in cui il genio presenta la terribile verità innegabile della filosofia, cioè la morte
e la nullità dell’uomo e di tutte le
cose. L’immagine prodotta dal genio
unisce la poesia alla filosofia, ma è la potenza della poesia a consentire al mortale di sollevarsi ancora
per un poco al di sopra del nulla che si
mostra nella verità terribile della
filosofia. Nel genio, l’unione
di filosofia e poesia è l’ultimo modo in
cui, col disincanto rispetto alla tradizione cristiana, è concessa al mortale l’aura festiva di una passeggera
letizia. Il pensiero di Leopardi mostra
cioè che quando sarà manifesta 30 l’incapacità della tecnica di salvare
l’uomo dal nulla, resterà quell’ultima
forma di tecnica che è la poesia pensante del
genio, l’ultima festa - «l’ultimo quasi rifugio», dice Leopardi - a cui tendere prima del «silenzio nudo» e
della «quiete altissima» della
morte. 31 7. Il «profumo» e il «deserto» Il genio è la ginestra, il «fiore del
deserto». La ginestra «siede» tra le
rovine del deserto che il vulcano ha steso
attorno a sé: una ruina
involve dove tu siedi, o fior
gentile. come il genio, cioè Leopardi,
«siede» a notte sulle «rive» del «flutto
indurato» della lava: Sovente in
queste rive; che, desolate, a bruno veste il flutto indurato, e par che
ondeggi, seggo la notte. Il «lume» divino, le «scintille» del fiume
di fuoco dell’amore divino fulvido di fulgore, intradue rive dipinte di mirabil primavera. è ormai divenuto «il flutto indurato» della
lava, sepolcro che sigilla, copre e a
«bruno veste» la vita annientata dal fuoco
del vulcano. La mirabile primavera delle rive del paradiso è vestita a lutto. La ginestra, cioè il genio,
siede tra le rovine delfeterno. Esse
sono il «deserto». Ma Inodorata
ginestra», che è la «nobile natura» del genio,
è «contenta dei deserti»: guarda in faccia il deserto del nulla e, sapendo di non potervisi sottrarre, ne è
«contenta», cioè non si illude di poter
aver altro, non si sente il perpetuo fiore
dell’eterna letizia che «d’eternità s’arroga il vanto». La «nobile natura» del genio della ginestra tien ferma
dinanzi agli occhi la verità terribile,
non le sottrae nulla, non distoglie lo
sguardo dal fato comune del nulla:
32 Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al cumun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale. Non detrae nulla dal «vero» in cui appare
l’essenziale nullità deH’uomo; ardisce
sollevare lo sguardo mortale sulla
verità: questa forma intransigente di volontà di verità è l’essenza della filosofia del nostro tempo.
Leopardi la inaugura. Ma la «franca
lingua» che nulla detrae alla verità è
la libera lingua della poesia, la potenza dell’immagine che mostra l’impotenza dell’essere e dell’uomo.
Senza la potenza poetica l’uomo è subito
risucchiato nella pietrificata
contemplazione nel nulla. Riesce a persistere ancora per un poco nell’ultima eco dell’aura festiva,
unendo dunque filosofia e poesia. La
ginestra non detrae alcunché alla verità
angosciante della nullità del tutto; e tuttavia il can i. C’è uno «scambio delle parti» già a partire dal
«fiore» della poesia, che da mezzo per
mostrare la verità diventa fine; per arrivare alla tecnica, che, da mezzo per realizzare gli
scopi delle grandi forze dell’Occidente
è destinata a diventare il loro scopo.
Anche le pagine che seguono possono essere lette come un contributo a una fenomenologia, finora solo
abbozzata nei miei scritti, di questo
«scambio delle parti». 35 Poesia, tecnica e meccanismo dello scambio
delle parti Il problema del fiore della
poesia conduce dunque al problema della
tecnica. Oggi se ne continua a discutere. Ma se
ne discute rimanendo all’interno della dimensione che ha reso possibile qualcosa come la festa, la tecnica,
la poesia, il mito, la filosofia, il
cristianesimo, la scienza. Si rimane all’interno della dimensione dove l’uomo percepisce sé
stesso come un mortale, che in preda
alla morte e al nulla ha bisogno di
salvarsi. Siamo proprio sicuri
che questa dimensione, in cui l’intero
pianeta è ormai completamente immerso, non debba finalmente esser messa essa stessa in
questione? Siamo proprio sicuri che
l’eterna letizia non possa avere altro
significato che quello che la tradizione le ha conferito? Al di là di questo significato, noi siamo
perpetui fiori dell’eterna letizia, ma
non nel senso che è stato
inevitabilmente distrutto dal pensiero e dalla cultura del nostro tempo. Il senso autentico
dell’eternità del Tutto è abissalmente
lontano dal senso che l’eterno possiede nella
tradizione filosofico-cristiana; e non è nemmeno qualcosa che possa essere rintracciato in qualche altra
forma di civiltà, diversa da quella
dell’Occidente - anche se esso risplende nel
fondo di ogni uomo. Nel paradiso
della tecnica, la tecnica può essere guidata e
animata o dalla scienza moderna o dalla poesia che si unisce alla filosofia del tempo della tecnica. Ma in
entrambi i casi, per quanto alta possa
essere la luce del tramonto, è inevitabile
che ci si renda conto dell’essenziale incapacità del mortale di vincere il nulla - ossia di vincere il
divenire, il contenuto della fede, cioè
della volontà che le cose siano un uscire dal nulla e un ritornarvi. Comunque si configuri, il
paradiso della tecnica è cioè destinato
all’angoscia estrema. 36 Può essere quello, allora, il tempo in cui
l’uomo incomincia a volgersi verso il
senso inaudito dei fiori dell’eterna letizia.
Esso non è un futuro da produrre e da creare. Già da sempre attende di essere condotto
fuori dall’ombra: già da sempre attende
che tramontino le ombre che attirano su
di sé la cura dei mortali, lasciando fuori del linguaggio (e, in questo senso, nell’ombra) la luce piena di
quel senso inaudito. 37
II Preghiera e «macchina»
politico-economica 1. Credere e
pregare Nella sua essenza il
cristianesimo è una grande religione
della salvezza. Ma - Gesù è esplicito - solo chi crede in lui sarà salvo. La fede, peraltro, può ottenere
la salvezza solo se la vuole, e solo se,
d’altra parte, questo volerla non è un atto di
imperio ma è un chiederla a Dio. Chiedere a Dio la salvezza è pregare. Nella sua essenza il cristianesimo è
quindi la preghiera, così intesa.
Appunto per questo Tertulliano dice che
la preghiera insegnata da Gesù «è veramente la sintesi di tutto il Vangelo». Alla fine del Vangelo di Marco (16, 16-17)
Gesù dice: «Chi crederà sarà salvo, chi
non crederà sarà condannato». Ma prima
di questa sentenza il testo (Me., 11) racconta come Gesù abbia unito strettamente e
sorprendentemente il tema del credere a
quello della preghiera. In quanto inseparabile
dalla fede, la preghiera sta dunque al centro di ciò che più conta: la salvezza eterna. In quel testo Gesù dice. «Abbiate fede in
Dio. In verità vi dico che se qualcuno
dirà a questa montagna: “Togliti di lì e
gettati nel mare”, e non avrà alcun dubbio nel suo cuore [et non haesita = verit in corde suo], ma crederà
che quel che dice s’abbia a compiere
[fiat], questo gli accadrà [fiet ei]. Perciò vi
dico: tutte le cose che chiederete nella preghiera abbiate fede [credite] di ottenerle e le otterrete [et
evenient vobis]. E quando vi accingete a
pregare, perdonate, se avete qualcosa
contro qualcuno, affinché il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni i vostri peccati». Marco accenna
subito dopo a quello che a suo avviso è
il centro della preghiera insegnata da Gesù,
ma non lo sviluppa. Essa è invece compiutamente riportata nel Vangelo di Matteo (6, 9). 38
In questa concezione della preghiera è presente un grande sottinteso. Supponiamo che un uomo chieda a
Dio qualcosa, per esempio di essere
aiutato in una certa circostanza, ma che
in un primo tempo Dio ritenga di non dargli ascolto; e che tuttavia quell’uomo insista, sino a che, alla
fine, riesca a ottenere quel che voleva.
Se ci si chiede che Dio sia mai questo,
la risposta è scontata: non è il Dio delle religioni monoteistiche; non è il Dio di Gesù. E non
può esserlo, perché se alla fine egli
cambiasse parere ciò accadrebbe o perché
quell’uomo è più potente di lui, oppure perché alla fine Dio si renderebbe conto di aver avuto
torto a non dargli ascolto subito. Ma un
Dio che è meno potente di un uomo o che
può aver torto non è, appunto, il Dio del monoteismo, non è il Dio di Gesù. Chiedere a Dio qualcosa è pregare. Se si
prega Dio di avere da lui qualcosa che
egli non vuol dare, non si potrà mai essere
esauditi. Egli è l’Onnipotente. A Dio si può chiedere dunque solo quel che egli vuol dare. Si può volere
solo quel che egli vuole. Appunto per
questo, Gesù insegna a dire, nella
preghiera: «Sia fatta la tua volontà». È sul fondamento di questo decisivo sottinteso che va
interpretato il senso deH’affermazione
paradossale che la fede muove le montagne
e che, se uno riesce ad avere la forza (si potes) di credere, «tutte le cose sono possibili per lui» (omnia
possibilia sunt credenti, Me., 9,
23). Se avendo fede si ottiene il
massimo, cioè la salvezza eterna, si può
anche ottenere tutto il resto. Purché sia voluto da Dio, l’Onnipotente. Già Platone, dando forma
filosofica al mito biblico, afferma che
Dio è «tecnica» divina, cioè la più
potente. Inoltre, se Gesù dice
che chi crede sarà salvo, egli vuole la
salvezza dell’uomo. Quel suo dire è cioè un comandare 39
all’uomo di credere. Non lo lascia solo, dunque, a trovare la forza che lo porti a credere. Vuole che
creda. E quindi, pregando, l’uomo deve
innanzitutto chiedere, senza aver dubbi,
di credere, e otterrà di essere un credente, cioè salvo. (Chiedendo di credere, chiede insieme di non
aver dubbi intorno a questa sua
richiesta. Si può mostrare che chiedere
con fede di aver fede non è una contraddizione?) Dal punto di vista cristiano, se l’uomo vuole ciò che Dio
vuole, non può non ottenerlo, perché Dio
è l’Onnipotente. Da quel punto di vista,
la fede che muove le montagne non è un paradosso. Pregando nel modo voluto da Gesù, l’uomo non
solo ottiene ciò che vuole, ma sa di
ottenerlo, perché non può non sapere di
voler quello stesso che è voluto da Dio, che è
l’Onnipotente. E non spezza
nemmeno in due quella preghiera, come se
nella prima parte di essa egli voglia che sia fatta la volontà di Dio, ma nella seconda gli dica quel che vuole
lui - il pane quotidiano, la remissione
dei debiti; la liberazione dal male ecc.
Infatti, se Gesù gli comanda di chiedere il pane, è perché sa che il Padre vuole che l’uomo abbia il
pane. Lo stesso si dica per gli altri
doni richiesti. Anche per quello che è
espresso dalle parole «e perdona a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
Infatti nella preghiera autentica l’uomo
può chiedere di essere perdonato solo se
sa che Dio vuole perdonarlo. E lo sa per lo meno perché crede che sia il Figlio di Dio a
comandargli di chiedere al Padre di
essere perdonato, e il Figlio non potrebbe
comandarglielo se sapesse che Dio non vuole perdonare l’uomo.
La preghiera di Gesù contiene dunque anche l’implicazione, vincolante e compromettente,
tra il perdono per i propri debiti, che
un uomo chiede a Dio, e il perdono, da
parte di quest’uomo, dei debiti che gli altri hanno nei suoi 40
confronti. Perdonami come io perdono, dice quell’uomo. Egli chiede perdono perché sa che Dio vuole
perdonarlo. Ma il suo perdonare i debiti
che gli altri hanno contratto nei suoi
confronti? Questo suo perdonare gli altri può essere un gesto che riguardi lui solo, cioè dove Dio lo lasci
solo a compierlo? No. Lasciarlo solo
vorrebbe dire, per Dio, non volere che
l’uomo perdoni e non volere nemmeno che non perdoni: starsene in disparte lasciando che sia l’uomo
a trovar la forza che lo può salvare
eternamente - visto che se non perdona
non è perdonato. Ma in questo modo l’uomo dovrebbe volere qualcosa che Dio o non vuole o rispetto a cui
è indifferente. Verrebbe meno, allora,
il principio per il quale l’uomo può
ottenere soltanto ciò che Dio vuole. È dunque impossibile che Dio, dopo aver detto all’uomo che se non
perdonerà non sarà perdonato lo lasci
solo a raccogliere le forze che gli occorrono
per riuscire a perdonare le offese ricevute dal prossimo. Tutto questo significa che - quando, nella
preghiera di Gesù, l’uomo chiede a Dio
di perdonare i propri debiti come egli
perdona quelli dei propri debitori - è necessario che l’uomo creda che Dio vuole che egli abbia la
forza di perdonarli. Anche il perdono
delle offese è dunque qualcosa che
l’uomo chiede a Dio, sapendo che anche questa sua capacità di perdonare è voluta da Dio, e che
quindi egli otterrà anche questa
capacità (più diffìcile da avere che non la
capacità di muovere le montagne).
L’uomo è salvo solo se ha fede nel Liglio di Dio. Ma la fede è inseparabile dalla volontà che vuole quello
che è voluto da Dio, e la preghiera è
quel mettersi in rapporto con Dio, dove
non solo si dice di volere quel che Dio vuole, ma lo si vuole effettivamente, cioè si perdona il prossimo,
lo si ama, e si fa tutto ciò che Dio
prescrive. E volendo tutto questo si è
convinti di ottenerlo, giacché chi crede di volere quel che è voluto da Dio non può pensare che Dio non sia
capace di 41 ottenere quel che vuole. Chi vuole che sia fatta la volontà di Dio è
il giusto, il buono, il santo, ossia è
quel che Dio vuole che egli sia. Ma è anche
necessario che egli sia convinto di essere il giusto, il buono, il santo, perché se fosse incerto di esserlo
sarebbe in dubbio anche sul proprio star
volendo quel che Dio vuole. Chi si trova
in questo dubbio ammette la possibilità di star volendo qualcosa di non voluto da Dio; dunque non
vuole quel che Dio vuole e quindi non
può nemmeno credere di ottenerlo. Volere
qualcosa, infatti, è credere di volerlo. Se non si crede di volerlo non lo si sta volendo ma si resta
incerti se lo si voglia o meno, non ci
si trova cioè nella condizione di chi, pregando, riesce a muovere le montagne. Convinto di essere il giusto che perdona le
offese e ama il suo prossimo, chi prega
nel modo dovuto agisce nel mondo e si
imbatte in situazioni via via diverse, portando sempre con sé quella convinzione. (Altrimenti
abbandonerebbe l’insegnamento di Gesù.)
Agisce nel mondo, cioè nella polis. La
«politica» è appunto questo suo agire tra gli individui, le istituzioni, i gruppi sociali. Per Gesù la
«politica» è innanzitutto perdonare le
offese e amare. Ma che una certa azione
sia un’offesa, una cert’altra sia un perdono e una cert’altra ancora sia una forma di amore è
chi agisce nel mondo a doverlo
decidere. A questo punto chi presta
ascolto alla parola di Gesù si trova
davanti a due strade. O rinuncia a credere che il modo in cui egli decide di considerare offesa,
perdono, amore certe azioni sia esso
stesso un volere ciò che Dio vuole; oppure non
compie questa rinuncia e crede che tutto quello che egli vuole e fa sia voluto da Dio. Nel primo caso, non
può più credere - in relazione alle
valutazioni e decisioni che egli, da solo, deve
adottare nel mondo - nell’identità tra la volontà propria e 42
quella di Dio: rinuncia a credere e quindi a pregare nel modo autentico; rinuncia pertanto alla propria
salvezza (perché «solo chi crede sarà
salvo»). Sul piano politico è la rinuncia a
ogni progettazione cristiana della politica. Nel secondo caso crede che ogni sua azione privata o pubblica
sia la volontà di Dio e che quindi egli
sia il giusto, il buono, il santo che sa
capire quando un’azione è offesa, perdono, amore e dunque sa realizzare il regno di Dio in terra. Non ammette che sia per un equivoco che egli
giudica come offesa un’azione; né può
ammettere che nel proprio agire non sia
presente il vero perdono e il vero amore,
conciliabili con la punizione del colpevole che non può essere che giusta. Sul piano politico è, questo, il
passo decisivo verso la teocrazia, che è
il regno di Dio in questo mondo, mentre
Gesù assicura che il suo regno non è di questo mondo. Certo, chi ha l’intenzione di essere
cristiano tenta di ritrarsi da ciò a cui
conducono entrambe queste strade (anche se
entrambe sono una tentazione costante). Tenterà di camminare un po’ sull’una e un po’
sull’altra. Ma anche in questo modo
tradirà la propria fede, non ne salverà la
coerenza. Non sono infatti, quelle indicate, le conseguenze del rapporto che nei Vangeli viene istituito tra
il credere e il pregare? Lo scambio delle parti che si presenta nella
preghiera di Gesù è una delle più
potenti anticipazioni dello scambio in
cui la tecnica, da mezzo, sta diventando scopo. Prima di Gesù l’uomo prega Dio, la Potenza suprema, per
salvarsi: la salvezza è lo scopo, la
Potenza divina il mezzo. Ma anche Gesù
fa capire che lo scopo determina, condiziona, configura il mezzo, e che quindi uno scopo umano, cioè
assunto da un essere bisognoso di
salvezza, quindi debole, finito, mortale
quale è l’uomo, indebolisce e vanifica il mezzo (la Potenza) e 43
pertanto pregiudica la propria realizzazione. Anche Gesù fa capire che l’uomo deve porre come scopo non
il soddisfacimento dei propri bisogni ma
la volontà di Dio («Sia fatta la tua
volontà»). In questo modo gli sarà dato tutto il resto. È, questo, uno dei modelli più
rilevanti della situazione in cui
l’uomo, dopo aver tentato di servirsi della tecnica, capisce che, per salvarsi, deve dire anche
alla Tecnica: «Sia fatta la tua volontà,
non la mia», che, posta come scopo
(volontà capitalistica, comunista, cristiana, democratica ecc.), non ha la potenza della Tecnica e quindi,
condizionandolo, indebolisce il proprio
mezzo, ostacolando in tal modo sé
stessa. Sennonché, ponendo come
scopo la Tecnica, la volontà cessa di
essere ciò che intendeva essere, giacché per essere ciò che intendeva essere doveva essere scopo.
Nello stesso modo, si è visto, pregando
autenticamente, il cristiano è costretto a
imboccare quelle due strade che lo portano a non esser più cristiano. Proprio per aver fede in Gesù e
quindi per pregare autenticamente, per
salvarsi, il cristiano non può più essere
cristiano. Non lo è, sia facendo la propria sia facendo la volontà di Dio. È indubbio che «chi vorrà
salvare la propria vita la perderà», ma
non è nemmeno vero che «chi perderà la
propria vita per amor mio [héneken emou, cioè avendo me come scopo, dice Gesù, Me., 8, 35] e del
Vangelo, la salverà». Lo scambio delle
parti dove la Potenza, da mezzo, diventa
scopo e quindi salvifica, non salva, giacché la vita, intesa come vita autentica, cioè cristiana, è perduta
anche quando, dopo che la si è perduta,
Gesù assicura che la si sia salvata. È
perduta lungo entrambe le strade, qui sopra indicate, che chi vorrebbe esser cristiano è costretto a
imboccare. Proprio perché, per raggiungere
la salvezza, ci si serve di ciò che si
considera come la Potenza suprema (teologica o
tecnologica), proprio per questo non ci si può salvare; ma non 44
ci si salva nemmeno assumendo come scopo la Potenza suprema, perché, rispetto alla Potenza
teologica, la volontà che intenderebbe
esser cristiana non può esserlo e, rispetto
alla potenza tecnologica, la volontà che vorrebbe essere scopo, cioè volontà capitalistica, comunista,
democratica, totalitaria, cristiana
ecc., cessando di essere scopo, non può più essere ciò che essa intende essere. 45
2. Nota su cristianesimo, islam, modernità Continua ad aumentare la pressione dei
popoli poveri su quelli ricchi. Non si
tratta solo di spostamenti di masse
umane, determinati dal bisogno elementare di sopravvivere. Da sempre, infatti, l’uomo interpreta la
propria sofferenza. Il modo in cui soffre
nel corpo e nell’anima e tenta di uscirne
dipende da ciò che egli crede di essere, dal modo in cui interpreta la propria vita. «Cultura» è
innanzitutto questo credere. Per quanto
ne sappiamo, in questo credere sono sin
dall’inizio presenti gli dèi. L’uomo crede di essere un vivente che è in pericolo e che sta in rapporto con
misteriose potenze che lo possono
aiutare o schiacciare. Il senso della «cultura» è legato a quello della «coltivazione» e del
«culto». La pressione dei poveri sui
ricchi è cioè un fenomeno eminentemente
culturale. Gran parte
dell’immigrazione è islamica. Il culto dei poveri è diverso da quello cristiano in cui, almeno
formalmente, i Paesi ricchi si
riconoscono. Dopo l’Unione Sovietica, è l’islam
a essersi posto alla guida dell’interpretazione della sofferenza e della fame dei poveri. In quest’ultimo
decennio si è reso altrettanto visibile
- sebbene non nelle forme drammatiche
della protesta islamica contro l’Occidente - il rinnovato vigore della Chiesa cattolica. Si tratta di
un fenomeno ambivalente, perché da un
lato la Chiesa non può non vedere
nell’islam un alleato contro l’ateismo della modernità, dall’altro non può non avvertire che l’islam
è anche l’avversario dove la religiosità
dei fedeli è molto più convinta di
quella cristiana (non dice forse la Chiesa che «l’Europa è terra di missione»?), tanto da alimentare quel fondamentalismo che convince individui a
immolare la propria vita per il trionfo
della causa. D’altra parte non è nemmeno
possibile affermare che l’ambivalente tensione tra 46
islam e cristianesimo è il fenomeno culturale che più determina la fisionomia degli ultimi decenni.
Se non altro perché la modernità, contro
cui cristianesimo e islam si trovano
alleati, esiste. La tecnica, che è
impensabile senza la cultura moderna,
stupisce il mondo. Tuttavia la tecnica sta procedendo senza guardarsi le spalle, cioè senza sapersi
difendere dalle critiche della
tradizione occidentale, che la accusano di violare limiti inviolabili. Un gigante, la tecnica, che
tocca il cielo, ma che rimane incapace
di interloquire con chi gli dice che il cielo
non va toccato. Intendo dire che
chi potrebbe rendere il gigante capace di
replicare è la punta estrema della modernità, ossia quella essenza, prevalentemente nascosta, della
filosofìa del nostro tempo che è in
grado di mostrare l’inesistenza di ogni
inviolabile e che quindi il gigante è legittimato a toccare il cielo. E tuttavia quell’essenza è come l’arco
di Ulisse, che nessuno dei Proci è in
grado di tendere. Da un lato, pertanto,
la potenza cieca della tecnica; dall’altro lato quegli sguardi impotenti del laicismo contemporaneo, che
andando avanti così non riuscirà mai a
possedere Penelope, cioè a dominare il
mondo, lasciando ancora a lungo la scena alla coscienza religiosa.
47 3. La Barriera e
Prometeo Nel nobile modo in cui
Benedetto XVI ha espresso la sua
rinuncia è indicato esplicitamente il problema centrale del cristianesimo: il cristianesimo si trova oggi
in un mondo «soggetto a rapide mutazioni
e turbato da questioni di gran peso per
la vita della fede» (in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis
prò vita fidei perturbato ). Rispetto a
questo problema, che un pontefice
dichiari di non avere più le forze per affrontarlo è un tema che, nonostante la sua rilevanza e
pertinenza, passa in secondo piano. Nel
testo, la parola pondus («peso») compare
tre volte: come peso delle questioni riguardanti la vita della fede, come «peso» del gesto di
rinuncia e come peso del ministerium che
viene lasciato per il venir meno delle
forze. Ma solo il primo peso vien detto «grande»: la vita della fede è oggi gravata da «questioni di gran
peso» ed è essa stessa turbata dal
turbamento del mondo. Il mondo cristiano (tanto
meno un pontefice) non può riconoscere che il turbamento della fede è ben più profondo di quello
visibile, dovuto alla corruzione
alfinterno della Chiesa. Il turbamento
del mondo, tuttavia, riguarda non solo la
fede religiosa, ma anche quelle altre forme di fede ancora dominanti (e che non amano sentirsi dire che
sono a loro volta «fedi»). Mi riferisco
soprattutto al capitalismo, alla
democrazia, al capitalismo-comunismo cinese, o, in Iran, alla mescolanza di teocrazia e capitalismo; e il
comuniSmo sovietico, come il nazismo,
era tra le più rilevanti di queste
forze. Ognuna delle quali avverte la necessità di eliminare le proprie degenerazioni, ma si rifiuta di
ammettere l’inevitabilità del proprio
tramonto. Non è una metafora né
un’iperbole fuori luogo affermare che ognuna di esse si sente un dio che deve distruggere gli infedeli. Ma,
come la fede 48 religiosa, anche la vita di queste altre
forze è gravata da «questioni di gran
peso» - da questioni che fanno
intravedere l’inevitabilità di tale tramonto. Certo, un pontefice deve credere che il
cristianesimo durerà fino alla fine del
mondo. Ma la gran questione è se quelle
forze - dunque anche il cristianesimo - si rendano conto del loro vero avversario, che le scuote e le
travolge. Il «relativismo» è stato
l’avversario di Benedetto XVI. Lo sforzo
di combatterlo ha avuto un carattere soprattutto pastorale. Il semplicismo concettuale e l’ingenuità del
relativismo ne favoriscono infattila
diffusione presso le masse, e tale
diffusione è tutt’altro che irrilevante per la vita della fede. Giovanni Paolo II si avvicinava maggiormente
all’avversario autentico quando
individuava negli inizi della filosofia
moderna (Cartesio) la matrice di tutti i grandi «mali» del XX secolo, quali le dittature del comuniSmo e
del nazionalsocialismo, o l’egoismo
dell’economia capitalistica. In questa
prospettiva, lo stesso relativismo può essere inteso come un parto di quella matrice. Ma tutte queste interpretazioni non riescono
ancora a guardare in faccia l’avversario
autentico. Riusciranno le varie forme di
fede ad alzare lo sguardo affinché, se vogliono vivere un po’ più a lungo, non accada loro di
combattere i nani, quando invece il
gigante pesa già su di esse e toghe loro il
respiro? Il gigante che possiamo chiamare «Prometeo». Anche qui, è ovvio, mi limiterò ad alcuni
cenni; doppiamente insufficienti perché a
chi sta per morire, e non vuole, è
estremamente difficile fargli alzare lo sguardo sulla propria morte.
All’inizio dei tempi è invece un altro gigante a togliere all’uomo il respiro, impedendogli di vivere.
L’uomo può incominciare a vivere solo se
vuole trasformare sé stesso e il
49 mondo da cui è circondato.
Se non fa questo non può nemmeno
compiere quella trasformazione di sé che è il
respirare in senso letterale. E muore. Vive solo se si fa largo nella Barriera che gli impedisce di
trasformare sé e il mondo. La Barriera è
l’Ordine immutabile della natura. Solo se la
penetra, la sfonda, la squarta, e comunque la fa arretrare, può liberarsi un poco alla volta dal suo peso e
ottenere ciò che egli vuole. La Barriera
è l’altro gigante: il Tremendum (per
servirci, ma per altri scopi, dell’espressione di Rudolf Otto). Ma è anche il Fascinans (ancora Otto), perché
l’uomo può incominciare a vivere solo se
domina le parti della Barriera
frantumata, e se ne ciba - così come Adamo, cibandosi del frutto proibito, frantumando cioè l’icona
stessa del divino, può diventare Dio (
eritis sicut dii, «sarete come dèi», dice il
serpente). E infatti il tremendum-fascinans è il tratto essenziale del sacro, del divino, del
Dio. La Barriera divina vive inviolata
solo se uccide l’uomo; l’uomo vive
soltanto se uccide Dio. Il fuoco è il simbolo
essenziale della potenza divina; e Prometeo ruba il fuoco - uccide l’inviolabilità degli dèi - per darlo
all’uomo. Prometeo è l’uomo. Soprattutto
da due secoli egli è l’avversario della
tradizione. Mostra infatti che il divino merita di tramontare e che su questo meritarlo si fonda tutto ciò
che più salta agli occhi, ossia
l’allontanamento della modernità e soprattutto
del nostro tempo dai valori della tradizione e dunque dalla «vita della fede». (In questo contesto, la
corruzione della Chiesa è più grave di
tutte le forme passate del suo degrado.)
Se Dio esistesse, non potrebbe esistere l’uomo, ossia ciò la cui esistenza è considerata innegabile anche da
chi si è alleato con Dio. Giacché, dopo
l’inizio dell’uomo, la Barriera si è ritirata,
ha lasciato spazio al mondo, Dio è diventato trascendente, e l’uomo della tradizione lo ha trovato meno
tremendum e più fascinans, e gli si è
alleato, diventando uomo di fede, non solo
50 cristiana ma anche quella
degli dèi - delle barriere - in cui
consistono le forze (sopra menzionate) via via dominanti nel mondo. Prometeo, ora, ruba il fuoco
dell’alleanza dell’uomo con Dio. È la
potenza di questo furto a nascondersi, per lo più inesplorata, sotto le «rapide mutazioni» del
nostro tempo, «turbato da questioni di
gran peso per la vita della fede».
51 4. Macchine razionali e
grande politica Una delle radici dello
Stato moderno è il desiderio dell’uomo
di sottrarsi all’imprevedibilità della vita facendo funzionare lo Stato come una «macchina
tecnicamente razionale» a cui viene
riconosciuto il monopolio della forza e
che quindi consente a ognuno di «calcolare» in anticipo le conseguenze delle azioni proprie e altrui.
Così si esprime Max Weber; ma questa
constatazione risale a Hobbes. Allo Stato si
chiede di eliminare il più possibile il rischio del vivere. Anche il capitalismo è un calcolo razionale
(a differenza delle forme violente di
acquisizione della ricchezza). Tuttavia
è anche rischio, scommessa, imprevedibilità delle conseguenze dell’agire. Due componenti
inseparabili, fino a che il capitalismo
esiste nella sua forma tradizionale. Il talento
dell’imprenditore sta nell’indovinare ciò che dal punto di vista scientifico è imprevedibile: la forma
relativamente più remunerativa di
investimento. A sua volta, il talento è
inseparabile dalla fortuna. Il più
«capace» degli imprenditori, se è sfortunato, non è veramente capace. È vero: oggi si sa che una teoria
scientifica non è valida se non è
confermata e che tale conferma è una forma di
fortuna, una «circostanza felice». Ma l’imprenditore capace deve avere una fortuna incomparabilmente più
grande di quella sinora richiesta per le
teorie scientifiche: egli ha tanto più
successo quanto più rischia, cioè si lascia alle spalle - in base alle proprie intuizioni - le precauzioni
della razionalità scientifica - che
essendo di dominio pubblico, sono tra l’altro
adottabili anche dalla concorrenza.
Sebbene siano entrambi macchine tecnicamente razionali, Stato e intrapresa capitalistica vanno dunque
in direzioni opposte: azzeramento e
moltiplicazione del rischio. La
tendenza verso lo Stato-azienda - o l’azienda-Stato - 52
non è soltanto un fenomeno italiano. Alla sua base sta il crescente potenziamento dell’economia e il
crescente indebolimento dello Stato
moderno. Ciononostante, a quel
potenziamento corrisponde non solo l’indebolimento dello Stato, ma anche quello della produzione
economica legata principalmente al
rischio, al talento e alla fortuna del singolo
imprenditore. La «macchina» economica tende cioè a diventare l’erede della «macchina» statale e
del compito, proprio di quest’ultima, di
garantire gli individui dal rischio del
vivere. Contro l’oppressione di uno
Stato sempre più obsoleto rispetto ai
bisogni della società civile, le destre mirano invece, ancora, a un’azienda-Stato diretta da ultimo
(sebbene non esclusivamente) da uno o
più superimprenditori capaci di
rischiare, e soprattutto fortunati. Ma in questo modo si mira a qualcosa che corre a sua volta il rischio di
diventare obsoleto prima di nascere. Lo
Stato-azienda, così inteso, è uno Stato a
rischio. Certo, in democrazia l’elettorato ha il diritto di rischiare e di imporre il rischio alle
minoranze, credendo che la fortuna
continuerà ad accompagnare i superimprenditori
statali. Però è opportuno sapere quel che si sta facendo. La difesa dello Stato tradizionale contro le
prevaricazioni dell’economia è invece
propria delle sinistre. Che a loro volta
stentano a comprendere la tendenza, di cui si è detto, che conduce dalla «macchina tecnicamente
razionale» dello Stato a quella di una
economia sempre più simile alle procedure
scientifiche e sempre meno bisognosa del carisma e della fortuna di certe persone - la presenza delle
quali può peraltro costituire un
passaggio obbligato. Ormai, anche le sinistre
credono nella necessità di rafforzare l’iniziativa privata; e la concezione minimalista dello Stato non
equivale, per le destre, alla
soppressione di esso. Tuttavia le sinistre
continuano a credere nella capacità dell’apparato giuridico 53
statale di guidare i popoli. Per esse la crisi dello Stato può essere superata restando all’interno della
politica. Ma si vuol riflettere sul
fatto che la macchina dello Stato e
quella economica sono «tecnicamente» razionali? Non è già significativo che tanto lo Stato moderno
quanto il capitalismo siano considerati
delle «macchine»? Si tratta di comprendere
che è la tecnica a conferire potenza agli Stati e alle economie. E si è richiamato che nel suo significato più
autentico la tecnica è la potenza che
presta ascolto alla voce del pensiero
filosofico degli ultimi due secoli - alla voce cioè che mostra l’inesistenza di ogni limite assoluto
all’agire dell’uomo e innanzitutto
all’agire tecnico. Tale ascolto non va confuso con un ozio astratto: è la condizione che
consente all’operatività tecnica di
accrescere indefinitamente la propria potenza.
Andiamo verso un tempo in cui, a eliminare il rischio del vivere, non sarà più né la forma tradizionale
dello Stato, né lo Stato-azienda, ma la
tecnica, di cui entrambi hanno così
bisogno da doverla togliere dalla sua funzione di mezzo per assegnarle quella di scopo. Non più lo Stato
o lo Stato-azienda che si servono della
razionalità tecnologica, ma quest’ultima
che si serve di ciò che rimane di essi una volta che da scopi siano diventati mezzi: mezzi di cui la
tecnica può servirsi per accrescere il
proprio dominio sul mondo. Se a questo
punto si vuol usare ancora la parola «politica», si può dire che la «grande politica» è
destinata a restare estranea alle destre
e alle sinistre mondiali sino a quando non
comprendono l’inevitabilità della rotazione che dalla dominazione dello Stato e dell’economia
conduce alla dominazione della
tecnica. 54 5. Efficienza e solidarietà In uno dei suoi significati economici più
importanti la «collaborazione» riguarda
oggi, nel sistema capitalistico, il
rapporto tra datori di lavoro e lavoratori (nel senso più ampio di questo termine). Con la fine del
socialismo reale è finita anche, nelle
società avanzate del pianeta, la volontà di
soffocare questa forma di collaborazione e di sostituirla col suo opposto, cioè con la lotta di
classe. La collaborazione riguarda il
rapporto tra gli interessi di chi lavora
e quelli del capitale. Quest’ultimo collabora con gli interessi dei lavoratori quando non si
propone soltanto il proprio interesse,
cioè l’aumento del profitto, ma anche la
salvaguardia di un dignitoso tenore di vita del lavoratore. A sua volta, il lavoratore collabora con gli
interessi del capitale quando non si
propone soltanto di aumentare il proprio
tenore di vita, ma anche il rafforzamento dell’intrapresa in cui egli si trova ad agire. Il primo tipo di collaborazione conduce alla «solidarietà»; il secondo
all’«effìcienza». Fino a questo punto,
si può credere che, sia nell’ambito del
capitale sia in quello del lavoro, quando esiste la collaborazione di cui stiamo parlando, ci si
proponga, in egual modo, la sintesi di
efficienza e solidarietà - la sintesi in cui,
appunto, consiste tale collaborazione e si può credere che il centro del problema stia nel saper realizzare
le condizioni che conducono alla
collaborazione. Ma in questo modo si va fuori
strada: non si scorge la configurazione autentica del problema e ci si priva degli strumenti per poterlo
affrontare. Visibilissima in tutte le
società avanzate, la lotta tra capitale
e lavoro ha quasi completamente perduto i connotati della «lotta di classe» marxista; ma non si
estingue con la realizzazione di quella
sintesi di efficienza e solidarietà che
sarebbe perseguita in egual modo dalle forze lungimiranti del 55
capitale e del lavoro: non vi si estingue, perché essa si ripropone a causa del diverso modo in cui
tale sintesi è perseguita da queste due
forze. Oggi si tende a mascherare
questa diversità. Per esempio dicendo
che efficienza e solidarietà «devono alimentarsi in una circolarità virtuosa» - una espressione
che si è fatta strada tanto nel mondo
imprenditoriale, quanto nel mondo cattolico
(o, in generale, cristiano) e in quello delle sinistre. Nella alimentazione circolare i due elementi in
circolo sono posti sullo stesso piano.
Ma è un’apparenza, come è un’apparenza
la «virtù» del circolo. Infatti,
dal punto di vista del capitale i «livelli di solidarietà» (quelli cioè fino e non oltre i quali può
essere spinta la solidarietà) sono
stabiliti dai livelli al di sotto dei quali il
capitale ritiene che l’efficienza (cioè l’incremento del profitto) non possa scendere. Ma dal punto di vista del
lavoro i livelli di efficienza (cioè
fino a che punto debba essere promosso lo
sviluppo economico) sono stabiliti dai livelli al di sotto dei quali chi lavora ritiene di non poter far
scendere il proprio tenore di vita e la
qualità della propria vita. Nel primo caso la
collaborazione di efficienza e solidarietà ha come scopo primario e dominante l’efficienza; nel
secondo caso la collaborazione ha come
scopo primario e dominante la solidarietà.
Nel primo caso la solidarietà è un mezzo per
realizzare l’efficienza; nel secondo l’efficienza è un mezzo per realizzare la solidarietà. In entrambi i casi
le due semicirconferenze della
«circolarità virtuosa» sono diseguali,
si alimentano in modo diseguale, la circolarità è claudicante, cioè viziosa. I due avversari possono gettarsi a vicenda
polvere negli occhi, invocando ed
elogiando la collaborazione. Ma quando
la Chiesa cattolica dichiara che il profitto deve avere come 56
scopo il bene comune della società pensa a una sintesi di efficienza e solidarietà, cioè a una forma di
collaborazione, dove lo scopo dell’agire
economico è la solidarietà e
l’efficienza è il mezzo per realizzarla. E quando il capitalista afferma che «non si può dire a un capitalista
“limita il tuo guadagno”», perché «un
imprenditore deve produrre ricchezza e
quanto più lo fa, più opera per il bene della
società», il capitalista che parla così pensa a una sintesi di efficienza e di solidarietà, cioè a una forma
di collaborazione dove invece lo scopo
dell’agire economico è l’efficienza e la
solidarietà è il mezzo per realizzarla. In entrambi i casi, come si è detto, la collaborazione è una
circolarità viziosa, dove ognuno dei due
fattori circolanti tende a fare dell’altro il
proprio «alimento» evitando di diventare a sua volta l’«alimento» dell’altro. Ciò significa che la «collaborazione» è un
paravento, una maschera che più o meno
consapevolmente nasconde il proprio
opposto, ossia la lotta, l’opposizione, il conflitto irrisolto. Si evita di riconoscere che se la
collaborazione tra interessi del
capitale e interessi del lavoro esistesse per
davvero, allora ognuno dei due limiterebbe sé stesso per far posto all’altro, e pertanto non esisterebbe
più né il senso autentico
dell’intrapresa capitalistica, né il senso autentico del lavoro; e che se invece questi due fattori
esistono per davvero - come in effetti
esistono storicamente per davvero -, allora
ognuno dei due vuole diventare lo scopo dell’altro e ridurre l’altro alla funzione di mezzo, e in questo
caso il loro «alimentarsi in una
circolarità virtuosa» svanisce, cioè
svanisce la loro collaborazione.
Si tratta infatti di comprendere che se lo scopo dell’agire economico è la sintesi di quei due fattori -
ossia è la sintesi costituita dalla loro
collaborazione -, allora, in questa loro
sintesi, ognuno dei due limita l’altro, gli impedisce di 57
espandersi sino a diventare l’unico scopo, e quindi ne distrugge la configurazione originaria. Se un
uomo (fuor di metafora: l’agire
economico) ama due donne (fuor di
metafora: la crescita del profitto e la solidarietà), e crede che il suo amore per l’una e il suo amore per
l’altra abbiano a «collaborare», cioè ad
«alimentarsi in una circolarità
virtuosa», quest’uomo si inganna, perché l’amore che darebbe a una se non ci fosse l’altra non può esserci
più quando oltre a quell’una ama anche
l’altra. Se i due amori si alimentano
virtuosamente e collaborano, ognuna delle due donne è meno amata, l’amore «vero», «esclusivo» che ci
sarebbe potuto essere per lei è andato
perduto; se invece questo amore «vero»
ed «esclusivo» rimane, allora esso non potrà più dividersi tra le due donne e cioè l’amore «vero» ed
«esclusivo» per l’una finirà
inevitabilmente col detronizzare e vanificare l’amore «vero» ed «esclusivo» per l’altra. Fuor di metafora: o efficienza e solidarietà
collaborano, ma allora non ci sarà più
né capitalismo - cioè volontà di «non
limitare il proprio guadagno» - né dottrina sociale della Chiesa o delle sinistre, che, sia pure in
modo diverso, non intendono limitare la
realizzazione del bene comune,
sacrificandone parti o aspetti al profitto; oppure efficienza e solidarietà mantengono i caratteri che
storicamente sono loro propri e per i
quali ognuna di queste due forze intende essere
lo scopo primario dell’agire economico, ma allora non ci potrà essere collaborazione tra i due, ma
urto, lotta, conflitto più o meno
mascherati. Per ora, si può dire che
ognuno dei due antagonisti tende a
predicar male e a razzolar bene. Cioè predica la collaborazione con l’altro (e dunque predica,
più o meno consapevolmente, la propria
rovina - e questo è appunto il predicar
«male»), ma in effetti persegue il proprio scopo tentando di ridurre a mezzo lo scopo
dell’antagonista (e 58 questo è appunto il razzolar «bene»). Ci
sono avvisaglie, nel mondo, che oltre a
predicar male i due avversari incomincino
anche a razzolar male, e cioè incomincino a «collaborare». Ma questo fatto vorrebbe dire che i due
avversari - efficienza capitalistica e
solidarietà cristiana o progressista - stanno
avviandosi al tramonto: così come va al tramonto quel «vero» amore per una donna quando esso viene a
trovarsi in compagnia dell’amore per
un’altra. Stanno avviandosi al tramonto
perché rinunciano al proprio scopo, cioè rinunciano a sé stessi. 59
6. Governi tecnici Che cos’è
oggi un «governo tecnico» in Europa - e, con
qualche riserva, nel mondo? È un insieme di decisioni, vincolanti per un popolo, che, guidate dalla
competenza scientifica, si propongono il
benessere di quel popolo. Ma tale
«benessere» non è lo stesso per le destre, le sinistre, la Chiesa cattolica, il comuniSmo cinese, l’islam ecc.:
in generale, per le diverse concezioni
culturali dell’«uomo» e del «bene».
Appunto per questo, quando si produce un forte condizionamento politico dei partiti che
sostengono un governo tecnico (come ad
esempio è accaduto in Italia), le
decisioni vincolanti sono guidate da una mescolanza di competenza scientifica e di volontà politica,
e la competenza scientifica è
soprattutto il mezzo per realizzare il concetto che forze politiche quasi sempre contrapposte
hanno del benessere del popolo che esse
intendono guidare. Tale concetto non ha
un carattere scientifico. L’azione
politica non è la scienza politica. Si dice, appunto, che la «politica» (Yazione politica) è un’«arte»,
avvolta quindi da quell’alone di
arbitrarietà che compete a ogni arte. Accade
quindi, al governo tecnico così inteso, che la scienza serva per realizzare una forma di non-scienza, tanto
più lontana dalla coerenza scientifica
quanto più accentuato è il contrasto delle
forze politiche che sostengono tale governo. È vero che per Max Weber la scienza ha un carattere
puramente strumentale, il cui scopo non
ha un valore scientificamente appurabile; ma
è anche vero che in questo modo la ragione vien posta al servizio della non-ragione, alla quale viene
affidata la sorte del mondo. (Certo, si
dovrà poicapire che cosa sta dietro la
ragione scientifica.) Ma nei
governi tecnici che agiscono nelle economie di
mercato il benessere del popolo, perseguito attraverso il 60
condizionamento politico, è il benessere quale è inteso, appunto, all’interno delle categorie della
produzione capitalistica della
ricchezza. In questa situazione, il
capitalismo è la condizione ultima della politica e del governo tecnico: la politica è un mezzo di cui il c
apitalismo si serve. Chi si propone
ancora, nel mondo democratico, una
economia non capitalistica? Tolta qualche eccezione, anche le sinistre vogliono essere ormai lontanissime
da ogni forma di marxismo o di economia
pianificata. La contrapposizione tra
destra, sinistra, centro ha un consistente denominatore comune, è una lotta all 'interno del sistema
capitalistico. Parlare dunque di un
condizionamento capitalistico dei
governi tecnici e della politica sembra soltanto un’owietà. E lasciarsi alle spalle la distinzione
tradizionale di centro, destra, sinistra
significa, innanzitutto, adottare correttamente e seriamente le regole dell’economia di
mercato. Nulla di strano che il
«riformismo» del governo di Monti si sia rivolto a (quasi) tutte le formazioni politiche,
rendendo più visibile che (quasi) tutte,
ormai, si muovono all’interno della logica
capitalistica. Tecnica e politica sono un mezzo di cui il capitalismo si serve per realizzare i propri
scopi. Sennonché nemmeno il capitalismo
è scienza. La scienza economica può
sostenere che esso è la forma più efficace di
produzione della ricchezza, ma all’essenza del capitalismo appartiene il rischio, Yazzardo, mentre la
scienza è essenzialmente la volontà di
evitare che le proprie leggi siano leggi
a rischio, azzardate, e dunque arbitrarie. Joseph Schumpeter, amico del capitalismo, ha
sostenuto che la sua crisi è dovuta alla
progressiva sostituzione del rischio con la
routine delle procedure tecno-scientifiche. D’altra parte, anche per il carattere rischioso del proprio
agire, il capitalismo si sente
autorizzato a porre come scopo primario non già il benessere del popolo ma il continuo aumento
del capitale 61 privato. Anche per il capitalismo si deve
dunque affermare che esso, assumendo
come mezzo la tecno-scienza, fa sì che la
scienza serva a realizzare la non-scienza: che la ragione (ossia ciò che oggi è considerato come «la ragione»
per eccellenza) serva a realizzare la
non-ragione. Tuttavia, la situazione si
complica ulteriormente quando accade che
la dimensione tecnica del potere sia condizionata non soltanto dall’economia capitalistica, ma
anche, e magari fortemente, dalla
dimensione religiosa, per esempio dalla
Chiesa cattolica. In questo caso, l’intento, lo scopo, è di tenere insieme capitalismo, politica e cattolicesimo
(evitando le degenerazioni dell’agire
economico e politico e anche religioso),
servendosi della tecno-scienza. La situazione si complica ulteriormente perché, mentre per il
capitalismo lo scopo primario dell’agire
economico e quindi del governo è
l’incremento del profitto privato, per la Chiesa lo scopo primario di tale agire e di un governo giusto
non deve essere il profitto, ma il «bene
comune» quale è appunto concepito dalla
dottrina sociale della Chiesa. Il capitalismo deve essere cioè un mezzo per realizzare questa forma del
«bene comune». Mezzo, e non scopo. La pretesa della Chiesa (vado ripetendo da
tempo) che il capitalismo abbia come
scopo il «bene comune» e non il profitto
è volerne (inconsapevolmente?) la distruzione. A sua volta il capitalismo, assumendo come scopo
primario il profitto, vuole, a volte non
rendendosene conto, la distruzione della
società cristiana. È un problema, questo, che
non riguarda soltanto l’esperienza governativa Monti, ma tutte le presumibili coalizioni che
governeranno l’Italia. (Quasi vent’anni
fa, in un articolo sul «Corriere» poi incluso
in Declino del capitalismo, Rizzoli 1993, avevo preso in considerazione la proposta di Monti al
convegno di Cernobbio di quell’anno, di
tenere insieme efficienza - 62 capitalistica - e solidarietà - cristiana
- e avevo mostrato le difficoltà a cui
va incontro non solo tale proposta, ma ogni
progetto politico che intenda conciliare democrazia, capitalismo, cristianesimo.) Dico questo per rilevare come anche, ma non
solo, in Italia si renda percepibile
quella gigantesca trasformazione del
mondo che è costituita dalla crisi del capitalismo (e del cristianesimo - e della politica). Un governo
che assuma come scopo primario sia
l’efficienza sia la solidarietà, assume
infatti uno scopo che non può essere né quello del capitalismo né quello della Chiesa, i quali non intendono
avere al loro fianco, in posizione
paritaria, alcun altro scopo (ma dove
l’efficienza subordina a sé la solidarietà, servendosene, e la solidarietà, a sua volta, subordina a sé
l’efficienza, servendosene). Se tale
governo crede di poter mantenere in
posizione paritaria sia l’efficienza capitalistica sia la
solidarietà cristiana si illude, cioè si
propone di realizzare una
contraddizione. Ciò non significa che tale proposito non abbia a realizzarsi, e magari con risultati
soddisfacenti: significa che tali
risultati saranno inevitabilmente provvisori,
instabili, ossia che quel proposito non potrà mai ottenere ciò che crede di poter ottenere. Come di regola
accade lungo il corso storico. Comunque, sia illudendosi di unire efficienza
capitalistica e solidarietà cristiana (e
politica) sia evitando questa
contraddizione, dando quindi vita a un nuovo senso dell’efficienza e della solidarietà e dunque
della loro unione, proporsi come scopo
tale unione servendosi delle competenze
tecno-scientifiche è pur sempre un agire in cui la forma oggi ritenuta la più rigorosa della razionalità
umana (la tecno- scienza, appunto) è
posta al servizio di forme meno rigorose
di tale razionalità. Cioè la potenza di quell’agire è posta al servizio della non potenza. E la potenza, la
capacità di 63 realizzare scopi, è insieme la ricchezza
di un popolo. Proporsi, come accade nei
governi tecnici d’oggigiorno, di
eliminare le degenerazioni della politica e dell’economia è però un passo avanti nella direzione lungo la
quale si finisce col capire che le
società diventano potenti e ricche non
eliminando la «cattiva» politica e la «cattiva» economia, ma mettendo la buona politica e la buona
economia (che anche risanate sono pur
sempre forme meno rigorose dell’agire
razionale) al servizio della tecnica guidata dalla scienza - della tecnica, il cui scopo è precisamente
l’aumento indefinito della potenza. 64
Ili Democrazia e tecnica 1. Europa e America Difficile smentire, nel loro insieme e nel
loro senso più corrente e generale, le
osservazioni proposte nel 2003 dalla
rivista «Liberal» (n. 19) per la discussione intorno agli Stati Uniti d’America. Esempio. «Dall’Europa, dalla
sua cultura politica prevalente, si
guarda sempre più all’America in modo
semplificato. C’è la tendenza a sottovalutare i valori della sua democrazia e a sottolinearne, al contrario, i
limiti.» Se le espressioni «Europa» e
«sua cultura politica prevalente»
indicano soprattutto gli umori dell’opinione
pubblica europea, allora è un «fatto» che mentre alla fine della seconda guerra mondiale gli Americani erano
per gli Europei i «liberatori», oggi
vengono piuttosto sentiti come i cittadini
di uno Stato che ritiene di non dover dar conto a nessuno del proprio operato. Questo è un problema di
«psicologia delle masse», facili a
dimenticare i benefìci ricevuti (anche perché il ricambio generazionale fa sì che i dimentichi
di oggi non siano più i beneficiati di
ieri). Se invece «Liberal» intendesse
affermare che oggi in Europa è in atto
una critica dei valori espressi dalla
Costituzione americana, questa affermazione vorrebbe dire che in Europa cresce la preferenza (o la
nostalgia) per lo Stato autoritario. Ma
questo non è vero (in Europa i partiti di
estrema destra e di estrema sinistra sono piccole minoranze); e non sembra nemmeno che «Liberal» voglia
sostenere questa tesi. Fuori
discussione, invece, che quella americana è la
prima costituzione liberal-democratica apparsa nel mondo moderno - la prima, cioè, dove il principio
della libertà dal potere politico si
unisce al principio dell’eguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge.
65 E fuori discussione,
inoltre, che «gli Stati Uniti sono nati da
una grande decisione collettiva di proteggere gli interessi e il bene comune», definiti soprattutto in
relazione a ciò che essi significano
nella cultura illuministica. Qui va aggiunto che tale decisione è tanto più rilevante quanto
più essa ha inteso arginare (con
maggiore o minore successo) gli interessi e il
bene dell’economia di mercato, dove l’agire capitalistico non ha e non può avere di mira l’interesse e il
bene comune, ma l’interesse e il bene
privato, cioè l’incremento del profitto (sì
che l’interesse e il bene comune, nell’intrapresa capitalistica, non sono lo scopo dell’agire economico, ma
una conseguenza, un sottoprodotto di
quell’incremento). Relativamente allo
sfondo (o al contenimento) liberal-
democratico del capitalismo si può dire, con «Liberal», che «è la natura della democrazia americana a
presentarsi come un fenomeno unico anche
nel contesto più generale
dell’Occidente». La domanda
centrale (e, se non mi inganno, retorica) di
«Liberal» suona comunque: «Non è forse questo» - americano - «l’unico modo di vivere una
democrazia, che altrimenti si
limiterebbe ad essere un insieme di
procedure...?»; e tale domanda è preceduta dalla affermazione della capacità della democrazia
americana di credere in sé stessa e di
assumersi le proprie «responsabilità».
Queste affermazioni riguardano un insieme di questioni eterogenee: da un lato, la tesi che la
condotta storico fattuale degli Stati
Uniti è sostanzialmente fedele al proprio
ordinamento costituzionale; dall’altro lato, la tesi che l’Europa avrebbe il miglior ordinamento costituzionale
se adottasse quello statunitense; e,
anche che gli Europei condurrebbero la
miglior vita politica se sul piano storico-fattuale si adeguassero alla propria rinnovata
costituzione così come gli Americani vi
si adeguano. 66 Tesi, queste ultime, che possono essere
veramente discusse, ma che lasciano
fuori campo la questione preliminare e
decisiva (alla quale abbiamo già accennato), che peraltro è venuta sempre più in luce dopo la risposta
americana, in Afghanistan e in Iraq,
all’attacco terroristico dell’11
settembre: che cosa significa, che cosa implica, quali reazioni produce uno Stato che agisce in base alla
convinzione di essere di fatto rimasto
l’unica Superpotenza alla guida del
mondo e a proposito del quale si teorizza anche il diritto a esserlo?
La risposta americana all’attacco subito era inevitabile (come in altre sedi ho motivato), ed era
inevitabile che la risposta avvenisse
nella forma della «guerra preventiva»
concepita come legittima difesa. Ma, nonostante tutto quel che si è detto in proposito, non sta qui il
problema - il problema preliminare e
decisivo. Esso riguarda il contesto
delle convinzioni con le quali gli Usa stanno vivendo questa fase della loro storia. Altro è infatti
credere che i supremi interessi dello
Stato americano richiedano che esso si difenda
adottando misure come la «guerra preventiva», ma lo si creda sapendo che tali misure, prese in modo così
fortemente autonomo, sollevano il
problema, non meno grave di quello del
terrorismo islamico, del rapporto tra l’autonomia americana e il resto del mondo, e cioè
sapendo che tale problema è, appunto,
problema e non soluzione; altro è che
gli Usa trattino come soluzione questo problema e siano convinti che, poiché sono di fatto venuti a
trovarsi alla guida del mondo, o hanno
il compito di porvisi, allora l’autonomia
esercitata nella loro risposta al terrorismo è la conseguenza naturale della loro primazia planetaria. Due
atteggiamenti profondamente diversi,
questi due, e, soprattutto negli ultimi
tempi, tra loro in contrasto negli stessi Stati Uniti. Il contrasto è alimentato dalla coscienza crescente che
gli Stati Uniti non 67 possono reggere da soli il peso immane di
cui il secondo, e trionfalistico, di
quei due atteggiamenti vorrebbe caricarli.
Affermare che «l’unico modo di vivere una democrazia» è quello americano significa certamente che
l’Europa non può mettersi in rotta di
collisione con gli Usa. Ma significa anche
che l’Europa deve stare a loro soggetta? Il bon ton della riflessione politica auspica che l’Europa non
allenti i legami con gli Usa e che
d’altra parte non ne sia succube. Ma può
l’Europa non essere succube senza essere forte - cioè militarmente forte, o addirittura competitiva
rispetto agli Usa - e continuando ad
affidare aU’America la propria difesa?
68 2. Europa, Russia,
America Sembra che vi sia stata la
tendenza a sottovalutare l’asse
Parigi-Berlino-Mosca (e Madrid), costituitosi in contrapposizione alla guerra Usa contro
l’Iraq. Ma si parla anche
dell’opportunità dell’ingresso della Russia nell’Unione eu-ropea - sia perché la Russia muove i primi
passi verso l’economia di mercato sia
per la rinnovata visibilità della Chiesa
ortodossa. Una ventina d’anni fa avevo scritto (il testo è stato poi incluso ne II declino del
capitalismo, cit., col titolo L’Europa
tra America e Russia ): «Ciò a cui si presta troppo poca attenzione è che la Russia, una volta
aiutata dall’Occidente a uscire dalla
crisi economica in cui si trova
attualmente, è anch’essa in grado di offrire all’Europa quella protezione militare, contro le minacce del
Sud, di cui gli Stati Uniti hanno oggi
il monopolio - e in nome della quale
possono pretendere che l’Europa stia in posizione subordinata, perché non può restituir loro un
vantaggio di egual peso. Scambio che
invece è possibile nel rapporto tra
Europa e Russia, perché l’Europa ha sì bisogno di aumentare sostanzialmente il livello della propria
potenza militare, ma anche la Russia, che
può consentire questo aumento, ha a sua
volta bisogno del sostegno economico che l’Europa occidentale può darle. Un processo che
d’altra parte già allora si presentava
tutt’altro che agevole, soprattutto per quanto
riguarda il controllo dell’arsenale moderno russo, giacché l’Europa potrebbe sostenerne economicamente
l’efficienza solo se la gestione e il
controllo di esso fossero effettuati, oltre
che dalla Russia, anche dagli altri Stati europei. Certo, a distanza di vent’anni, la
situazione è cambiata: la crisi
economica dell’Unione europea rende quest’ultima molto meno forte nella contrattazione con una
Russia che ha superato il trauma dovuta
al tramonto del marxismo e 69 dell’economia pianificata. Da ciò si
spiega l’aumento della diffidenza
dell’Ue (perfino della Germania) nei riguardi della Russia. Sino a che la crisi economica
dell’Europa non verrà superata, il
processo che conduce a una più stretta
collaborazione politica tra Europa e Russia subirà un inevitabile rallentamento. Da satellite degli
Stati Uniti - per i quali diventa
peraltro sempre più pesante il compito di
contenere anche in Europa la pressione del mondo arabo -, l’Europa non intende diventare satellite
della Russia. D’altra parte è nella
natura della storia dei rapporti secolari tra
Europa e Russia, della situazione geopolitica e degli attuali rapporti economici tra le due aree, che esse
vengano a formare un unico sistema
euroasiatico di controllo della
conflittualità internazionale, insieme a Stati Uniti, Cina, India. E se da un lato è nell’interesse della
Russia che la decadenza dell’Europa
venga arginata per non essere coinvolta,
dall’altro lato la Russia non può non capire che gli Stati Uniti non accetterebbero mai che per
tale decadenza la Russia divenga arbitra
delle sorti dell’Europa. Pertanto, se
oggi l’Europa è più debole che in passato nella contrattazione con la Russia, esistono tuttavia le
condizioni perché il rapporto tra queste
due aree tenda a riequilibrarsi. Non si
tratta qui di «auspicare» (o «temere») la simbiosi Europa-Russia, ma di constatare una tendenza
che è nell’ordine delle cose, anche se
contrastata da molte forze, innanzitutto
da quanti, ancora, concepiscono gli Usa come
l’unica Superpotenza che non può rinunciare a questo suo status e che in ultima istanza deve
rispondere soltanto a sé stessa. (Tra
quelle forze va annoverata anche la Chiesa
cattolica, che vedrebbe ridimensionata la sua presenza in Europa ad opera della Chiesa ortodossa russa,
e che tempo fa, per bocca dell’allora
ministro degli Esteri vaticano Tauran ha
manifestato perplessità circa l’entrata della Russia nell’Unione 70
europea, aggiungendo che prima si dovrebbe pensare all’entrata di Stati come l’Ucraina e la
Moldavia.) Per mezzo secolo il
bipolarismo Usa-Urss ha assicurato la
pace nel mondo, nonostante l’insanabile contrasto ideologico delle due superpotenze. Alla guida dei popoli
poveri, l’Urss ha anche contenuto e
controllato la loro aggressività.
Impensabile, in quel tempo, un terrorismo islamico. Per quanto paradossale possa sembrare, l’Urss ha
contribuito in modo decisivo ad
assicurare la pace delle società democratico-capitalitiche.
Da quando si è creduto che il
bipolarismo fosse ormai tramontato, gli Usa si sono trovati sulle spalle un fardello troppo pesante, reso
ancor più pesante dal fatto che la
Russia, avviandosi verso la democrazia e
l’economia di mercato, si è sempre meno presentata come guida delle rivendicazioni dei popoli poveri
e si è sempre più schierata in favore
delle popolazioni slave contro quelle
mussulmane. Il bipolarismo Usa-Urss è stato (come da vent’anni sostengo) la prima incarnazione
dello Stato mondiale - ossia del
«monopolio legittimo della violenza»
esercitato su scala mondiale (cfr. E.S., La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi 1988);
e sin dalla caduta del muro di Berlino
sostengo che la scomparsa del
bipolarismo è un’apparenza che ha illuso e illude molti. Infatti, il bipolarismo ha un carattere
primariamente militare, che non è certo
venuto meno per il fatto che l’arsenale
nucleare russo, tuttora concorrenziale rispetto a quello Usa, non è più gestito da una ideologia
totalitaria (Cfr. E.S., Il declino del
capitalismo, cit.). Se il bipolarismo
gestito da irriducibili avversari ideologici
ha salvaguardato per mezzo secolo la pace (ho spesso rilevato l’ingenuità della convinzione che le due
maggiori potenze della terra
considerassero seriamente la possibilità di
distruggersi a vicenda), si presenta ora la tendenza reale verso 71
un bipolarismo costituito da due dimensioni economico- politiche (Usa e Europa-Russia), che, in
parte già omogenee, per quanto riguarda
l’Europa, vanno sempre più avvicinandosi
e che, insieme, possono costituire quel centro
dello sviluppo storico sulla terra, che non può essere gestito da una sola delle due. È nello stesso
interesse di quest’ultimi che tale nuova
forma di bipolarismo prenda piede. Ed è
prevedibile che alla fine gli Usa prendano coscienza dei loro autentici interessi. Degno di nota, in
proposito - ripetiamo - che in Italia il
presidente del Consiglio del governo di
centrodestra abbia più volte proposto l’entrata della Russia nell’Unione europea. Le considerazioni qui
sopra sviluppate indicano il contesto in
cui tale proposta può avere fondamento.
E forse è interessante anche (e non paradossale, come a prima vista potrebbe sembrare) che
quella proposta sia accompagnata dalla
volontà di mantenere un asse
preferenziale con gli Usa. Se non è una contraddizione, quella proposta può essere infatti condotta a
significare che l’Europa può essere la
vera alleata e dunque non subordinata
ah’America, solo se essa possiede, oltre alla potenza economica, anche quella militare, che oggi
continua ad avere il suo fulcro in un
arsenale atomico invincibile, cioè in un
apparato che sarebbe velleitario per l’Europa costruire (nonostante la chance nucleari di Francia e
Inghilterra), ma che la Russia realmente
possiede, e la cui perpetuazione diventa
tuttavia sempre più onerosa per la Russia - premuta, quest’ultima, da un lato dalla consapevolezza
che in un mondo sempre più pericoloso
l’invincibihtà atomica è un bene
irrinunciabile, e dall’altro dalla tentazione di intaccare il capitale atomico cedendone porzioni in cambio
dei vantaggi economici che i compratori,
più o meno affidabili, potrebbero
assicurarle. L’entrata della
Russia in Europa pone indubbiamente
72 enormi problemi -
soprattutto, si è già detto, per quanto
riguarda la gestione dell’apparato nucleare russo -, che però sono pur sempre inferiori a quelli
dell’alternativa costituita da un mondo
sempre più complesso (anche per l’affacciarsi di nuove grandi potenze come la Cina) ed
esplosivo, dove gli Usa fossero convinti
di poterne da soli determinare le sorti e
dove le difficoltà economiche della Russia potrebbero farle perdere il controllo del proprio apparato
nucleare a vantaggio del terrorismo
islamico. Il problema del rapporto tra popoli
ricchi e poveri si risolve riducendo il loro dislivello economico; ma la tendenza verso l’entrata
della Russia nell’Unione europea e il
conseguente rinnovato bipolarismo
stabilizza l’organizzazione globale dei Paesi ricchi e rende quindi efficace e sicura la loro
indifferibile decisione di ridurre la
loro distanza economica dai Paesi sottosviluppati. 73
3. Le democrazie e la tecnica La
costituzione americana è un grande modello di società liberal-democratica, ma è un’astrazione
proporlo all’Europa senza tener conto
del processo storico reale che spinge
l’Europa a confrontarsi col problema-Russia. È un’astrazione anche perché il sottinteso dei sostenitori
della democrazia e dell’economia di
mercato è che quest’ultime, dopo la fine del
socialismo reale, non abbiano alternative. Ma, anche qui, debbo rinviare a quanto vado sostenendo da
molto tempo. Infatti il Meccanismo
inaggirabile - richiamato anche nelle
pagine precedenti - per il quale le grandi forze che oggi guidano il pianeta (capitalismo, democrazia,
cristianesimo, islamismo, nazionalismo
ecc. - e, ieri, socialismo reale), e che
lo guidano servendosi, come mezzo, della tecnica moderna, sono destinate a diventare mezzi del
potenziamento del proprio mezzo, cioè
della tecnica, la quale dunque è destinata
a diventare il loro scopo. Ma la
tecnica destinata a diventare scopo non è la tecnica scientisticamente intesa, ma è l’apparato
scientifico- tecnologico in quanto esso
va unendosi all’essenza della filosofia
contemporanea, ossia alla struttura concettuale che negli ultimi due secoli ha mostrato
l’impossibilità di ogni limite assoluto
all’agire dell’uomo. La tecnica, così intesa, è
guidata dal risultato essenziale del pensiero filosofico dell’Occidente. In quanto tale pensiero la
guida e le fa scorgere l’impossibilità
di ogni limite assoluto dell’agire, la
tecnica acquista una potenza essenzialmente superiore a quella di ogni tecnica che invece sia assunta
come mezzo e pertanto sia limitata e
frenata dagli scopi delle forze della
tradizione occidentale. E la superiorità della sua potenza la destina - in un mondo che crede sempre di
meno nei valori assoluti della
tradizione - a prevalere su ogni forma di tecnica 74
che funzioni come mezzo per la realizzazione di tali valori. Già da questo ordine di considerazioni si può
capire che lo strumento vincente conduce
a una situazione dove la sua tutela e
Fincremento della sua potenza sono destinati a
diventare lo scopo delle forze che invece vorrebbero trattenerlo nella sua funzione di mezzo. Oggi anche la democrazia si serve della
tecnica, ma il mondo procede verso un
tempo in cui sarà la tecnica (intesa in
quel suo significato complesso) a servirsi della democrazia (e delle altre forze prima menzionate), ossia
a utilizzare l’organizzazione
democratica della società per realizzare
Fincremento della propria potenza - a utilizzare la democrazia, dico, e non quell’assolutismo
politico che appartiene all’insieme dei
limiti assoluti di cui il pensiero
filosofico del nostro tempo mostra l’impossibilità. Ma la democrazia come scopo della tecnica è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla
democrazia che diventa mezzo della
tecnica. Così come la ricchezza al servizio della vita buona, cioè dell’etica, è qualcosa di
essenzialmente diverso della ricchezza
che ha l’etica al proprio servizio; e l’etica che si serve della ricchezza è qualcosa di
essenzialmente diverso dall’etica di cui
la ricchezza si serve. Ho in più modi indicato
perché il Meccanismo che conduce a questo rovesciamento di scopo e mezzo sia qualcosa di inaggirabile -
un rovesciamento, peraltro, che pur non
dicendo affatto l’ultima parola, è
destinato a dominare per lungo tempo la storia del pianeta (cfr., oltre ai miei due scritti
prima citati: E.S., Il destino della
tecnica, Rizzoli 1998; Crisi della tradizione
occidentale, Marinotti 1999; e N. Irti - E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza 2001; E.S.,
Capitalismo senza futuro, cit.). La democrazia europea e americana continuano
a concepire la tecnica come mezzo per
realizzare un mondo 75 democratico. Stando all’interno di questa
convinzione, si può vedere nella
costituzione americana il modello stesso della
vita democratica. Ma se, in forza di quel Meccanismo, la democrazia è destinata a perpetuarsi solo
nella misura in cui diventa mezzo della
tecnica, e se la democrazia come mezzo è
qualcosa di essenzialmente diverso dalla democrazia come scopo, allora il problema dell’adeguazione
della democrazia europea al modello
americano diventa obsoleto, perché a
questo punto viene in primo piano il problema di quale nuova configurazione venga ad assumere -
negli Stati Uniti, in Europa, in Russia
- la democrazia, una volta che essa sia
ridotta, appunto, alla funzione di mezzo. Il Meccanismo di cui stiamo parlando avvolge cioè e coinvolge
lo stesso problema, prima considerato,
relativo al rapporto tra Usa, Europa,
Russia. Il processo che conduce verso
il nuovo bipolarismo democratico è
inscritto cioè nel più ampio e più profondo
processo che conduce al rovesciamento dove l’indefinito potenziamento della tecnica - in quanto unita
alla consapevolezza filosofica che non
esistono limiti assoluti all’agire umano
(«Dio è morto») - diventa lo scopo delle forze
che tuttora si illudono di servirsi della tecnica e dunque diventa lo scopo della stessa democrazia. La
rivista «Liberal» rileva che la
democrazia americana «crede anche nelle
responsabilità che si assume e nella sua capacità di difendere i suoi principi di riferimento». A fondamento
di questa fede si trova la volontà di
non cedere agli avversari; e tale volontà è
concreta solo in quanto potenzia il più possibile l’apparato scientifico-tecnologico che le consente di
non cedere. Ma sino a che tale apparato
è mezzo, strumento, esso è soggetto al
logoramento a cui ogni mezzo è soggetto; sì che la democrazia stessa non può permettere che abbia a
logorarsi lo strumento che le assicura
la sopravvivenza e la primizia. Ma quando e in 76
quanto evita che la tecnica, ossia il proprio strumento, attualmente insostituibile, abbia a
logorarsi, la democrazia è già sulla
strada del Meccanismo a cui abbiamo accennato, la strada dove la democrazia stessa rinuncia a
porsi come lo scopo dell’agire sociale e
assume come scopo del proprio agire la
tutela e rincremento indefinito della potenza del proprio strumento. Lo stesso discorso va fatto a
proposito di tutte le altre forze che,
come la democrazia, intendono servirsi della
tecnica come mezzo per la realizzazione dei loro scopi (reciprocamente escludentisi). D’altra parte la liberal-democrazia
americana è unita all’economia di
mercato e già da tempo quest’ultima non è
più lo scopo dell’azione storica degli Stati Uniti. Essi cioè, in quanto superpotenza planetaria, non intendono
sviluppare la propria potenza, e guidare
il mondo, allo scopo di incrementare il
profitto dei grandi trust del capitalismo
americano, ma, all’opposto, intendono servirsi del profitto che l’economia capitalistica va accumulando,
allo scopo di sviluppare la propria
potenza e dominare il mondo. Infatti,
anche questi due scopi sono tra loro conflittuali; ed essere potenti per essere ricchi indebolisce da
ultimo la potenza e quindi la stessa
ricchezza che dalla potenza è resa possibile e
sostenuta. L’inevitabile
percezione di questa conseguenza spinge
l’America verso un atteggiamento dove essa vuole essere ricca per essere potente, cioè per incrementare la
potenza del proprio apparato
tecnologico, di cui ci si illude ancora, negli
stessi Usa, di servirsi. Peraltro, l’illusione è tanto più giustificata quanto meno viene percepita
l’inevitabilità del tramonto dei valori
della tradizione occidentale - tra i quali,
va sottolineato, vanno annoverati gli stessi valori dell’islamismo. In questa situazione, lo
scopo dell’agire non è più l’incremento
capitalismo del profitto, e quindi non è più
77 la liberal-democrazia in
quanto a esso unita: lo scopo diventa la
tecnica; e la democrazia, cambiando volto, assume tratti che sono ancora tutti da decifrare. 78
4. Sulla coerenza della follia estrema
Ma già qui è opportuno rilevare (e l’osservazione vale per tutto quanto ho scritto sulla tecnica) che il
«rovesciamento» in cui la tecnica, da
mezzo, diventa scopo - il meccanismo
cioè del rovesciamento - è un «movimento» che si costituisce alVinterno della fede che esistano mezzi e
scopi - e questa fede appartiene alla
follia estrema del mortale (cfr. cap. VI). Come
tale follia diventa coerente quando essa nega ogni immutabile e ogni verità che pretendano porsi al di sopra
del divenire, per dominarlo, così la
follia estrema diventa coerente quando la
volontà di far diventar altro le cose esce dalla situazione in cui essa si serve della tecnica come mezzo ed
entra nella situazione in cui il
potenziamento infinito della tecnica
diventa lo scopo dell’uomo. Proprio perché appartiene al contenuto della fede nel divenir altro delle
cose, e pertanto della volontà di farle
diventare altro, il «rovesciamento» di cui
stiamo parlando appartiene alla volontà interpretante, ossia alla non-verità. Nello sguardo del destino,
invece, appare che, commisurato alla
verità autentica ossia al destino della verità,
il contenuto della follia - cioè della fede, della volontà e della volontà interpretante - è il nulla - non
essendo invece un nulla la fede, la
certezza che tale contenuto non solo non sia
un nulla, ma sia l’evidenza suprema. Nello sguardo del destino della verità appare cioè che
l’apparire di quelVeterno, che è la fede
di assumere la tecnica come mezzo, è seguito da
quell’altro eterno che è la fede che la tecnica da mezzo diventa scopo - dove questo rovesciamento, cioè
questo scambio delle parti, ha un
carattere vincolante, ossia è qualcosa di
inevitabile, aU’interno della logica e delle regole secondo cui si costituisce il contenuto della volontà
interpretante, ossia della fede. In
altri termini, è lasciando parlare la fede nel divenir altro, che essa, diventando coerente alla
propria logica, afferma la «necessità»
che quella volontà di far diventar altro
79 le cose, in cui la tecnica
consiste, divenga, da mezzo, scopo. Il
discorso va esteso all’intero contenuto della volontà interpretante: l’intero contenuto di tale
volontà è il nulla, ma tutte le
determinazioni che restano evocate dalla volontà intepretante sono degli eterni che appaiono
con necessità così come appaiono - dove
questa necessità è essenzialmente
diversa da quella che compete alla logica che guida la fede e la volontà interpretante. 80
5. SuU’inevitabilità dello scambio delle parti Si richiami qui uno dei motivi fondamentali
per i quali in queste pagine si afferma
che lo «scambio delle parti» - ossia il
rovesciamento del rapporto mezzo-fine - è, all’interno di tale logica, inevitabile (cfr. E.S., Capitalismo
senza futuro, cit.). Nell’agire, lo
scopo, come «idea» - ossia come primum in
intentione, come «presenza ideale nella mente di chi agisce» - determina il mezzo da cui è realizzato: lo
configura, lo orienta e gli assegna i
limiti oltre i quali esso non sarebbe più idoneo a realizzare tale scopo. Lo scopo, come «fatto
reale» - ossia in quanto è Yultimum in
executione -, è prodotto dal mezzo; ma,
prima e durante questa produzione, la «presenza ideale» dello scopo guida, controlla, regola la produzione
del mezzo. (Ad esempio, la decisione di
far guerra guida, controlla, regola la
produzione delle armi che sono il mezzo con cui tale decisione è realizzata, cioè sono il mezzo di
cui quella decisione si serve per
realizzarsi?) Se uno scopo è in
conflitto con altri scopi e non intende
farsi sopprimere da essi, e anzi intende prevalere e sopprimerli, l’agire che mira a farlo
prevalere non può evitare di potenziare
il più possibile il mezzo di cui tale agire si serve per far prevalere tale scopo. Ma non può
potenziarlo oltre i limiti al di là dei
quali il mezzo non è più guidato, controllato,
regolato dallo scopo. Ad esempio l’agire che ha uno scopo non può concentrare tutte le proprie energie
nella produzione e nel perfezionamento e
potenziamento del mezzo, altrimenti non
resterebbero più energie e tempo per la realizzazione dello scopo dell’agire. Proprio la volontà di
perfezionare e potenziare il più
possibile il mezzo con cui ci si propone di
realizzare uno scopo sottrae il mezzo alla guida, al controllo, alla regola che lo scopo stabilisce per la
produzione del mezzo. 81
Se, nel conflitto tra scopi (e nella storia dell’uomo nessuno scopo si è trovato al di fuori dell’elemento
conflittuale), uno di essi, per
prevalere sugli altri, rinuncia alla propria o a una parte della propria determinazione del mezzo
e potenzia il mezzo oltre il limite che
rende coerente il mezzo allo scopo, gli
scopi antagonisti saranno certamente vinti, ma il vincitore non sarà nemmeno lo scopo che, per vincere,
ha rinunciato a determinare il proprio
mezzo, ossia ha rinunciato a sé stesso.
Sfuggendo alla guida di ciò che dovrebbe essere il suo scopo, il mezzo che ha vinto non ha realizzato il
proprio scopo perché andato oltre i
limiti che determinano il mezzo e che,
insieme, definiscono lo scopo, ha realizzato uno scopo diverso da quello che inizialmente intendeva servirsi
di tale mezzo per realizzarsi.
Propriamente, lo scopo che è stato realizzato è
diventato il potenziamento del mezzo che doveva realizzare un certo scopo, e al nuovo scopo, costituito
da tale potenziamento, il vecchio tenta
di restare aggrappato per poter
mantenere ancora la propria funzione di scopo. Ma invano, perché la fine di un conflitto è solo
una parentesi nella conflittualità che è
ineliminabile perché è dovuta
all’esistenza stessa dell’agire e della volontà; sì che viene alla luce che lo scopo autentico dell’agire è un
potenziamento del mezzo, che non
consente ai vecchi scopi di restargli
aggrappati per sopravvivere come scopi. Anche lo Stato parassitario che dà loro l’apparenza di scopi
è destinato a tramontare. Una situazione, poi, in cui nessun agire
oltrepassi i limiti che determinano i
propri mezzi e definiscono i propri scopi
sarebbe una situazione non conflittuale, cioè una situazione impossibile, perché le cose che la volontà di
una certa forma di agire vuol
trasformare per ottenere un certo scopo sono le
stesse che la volontà di una cert’altra forma di agire vuol trasformare per ottenere uno scopo diverso, e
quindi il 82 conflitto tra le due volontà è
inevitabile. Quando si afferma che il
fine non giustifica i mezzi, si intende
che i mezzi devono essere coerenti al fine voluto. Il fine giustifica i mezzi che sono coerenti a
esso. Ma la giustificazione dei mezzi è
anche la loro limitazione. La
giustificazione dei mezzi da parte del fine è la loro mortificazione, il loro freno. Poiché ogni scopo si trova in una situazione
conflittuale, l’agire, cioè l’assunzione
di mezzi per realizzare scopi, è una
contraddizione, dove, da un lato, lo scopo guida il mezzo da cui è realizzato e, dall’altro, per prevalere
sugli scopi che impediscono tale
realizzazione, lo scopo non guida il mezzo.
Da un lato il mezzo è potenziato fino a un certo punto, dall’altro è potenziato oltre quel
punto. La «libertà» dell’individuo
moderno è la facoltà di realizzare una
serie di scopi, e nella democrazia la libertà di un individuo si estende sin dove arriva la
libertà degli altri individui. Lo Stato
moderno dovrebbe garantire l’equilibrio,
cioè i limiti che definiscono le diverse serie di scopi, cioè la libertà di ogni individuo. Ma anche
all’interno dello Stato moderno queste
diverse serie sono tra loro conflittuali, e
pertanto l’agire individuale è esso stesso una contraddizione. La libertà del cittadino è contraddizione.
All’interno della contraddizione si
trova tuttavia anche la schiavitù e la servitù,
che è totale o parziale a seconda che chi si impone abbia una signoria totale o parziale sul vinto. Nel
conflitto, chi ha vinto un avversario
autentico - cioè che non si limita a subire lo
scopo del potente, ma intende a sua volta prevalere sull’avversario - ha dovuto potenziare i
propri mezzi oltre i limiti che
determinano i mezzi e definiscono lo scopo del
vincitore. Ma lo stesso ha dovuto fare chi ha perso, perché per non perdere ha dovuto a sua volta
oltrepassare il più possibile 83 i limiti che determinano i mezzi di cui
disponeva e che definiscono gli scopi a
cui mirava. L’avversario autentico non
perde (diventando in tal modo «servo» o «schiavo») perché non ha oltrepassato quei limiti, ma perché,
oltrepassandoli non ha ottenuto dai
propri mezzi la potenza che dai propri è
riuscito a ottenere il vincitore. L’agire del vincitore è contraddizione proprio perché è
contraddizione anche l’agire del vinto.
Poiché l’agire dell’uomo è coordinazione di mezzi in vista della realizzazione di scopi, e si
trova essenzialmente all’interno di una
situazione conflittuale, l’agire umano in
quanto tale è contraddizione. È contraddizione dallo stesso punto di vista di chi non vede l’alienazione
dell’agire in quanto volontà che
qualcosa divenga e sia altro da ciò che
essa è. Tutte queste considerazioni sono ora da riferire alla situazione conflittuale di particolare
rilievo storico, dove le grandi forze
dell’Occidente intendono realizzare i loro scopi conflittuali servendosi ognuna di una certa
frazione dell’apparato
scientifico-tecnologico, divenuto ormai il Mezzo supremo per la realizzazione di ogni scopo
dell’uomo. La filosofia del nostro tempo
mostra infatti, nella propria essenza,
che non può esistere alcuna dimensione divina e
immutabile che possa essere raggiunta con un mezzo diverso da quello tecnologico, cioè da ciò che nella
tradizione filosofica era l’adeguazione
dell’uomo e dello Stato alla verità
svelata dal sapere filosofico.
All’inizio, ognuna di quelle grandi forze dell’Occidente intende guidare, controllare, regolare e
quindi limitare il mezzo tecnologico di
cui essa dispone. Ma nella situazione
conflittuale è inevitabile che il limite che determina il mezzo e definisce lo scopo di ognuna di tali forze
sia oltrepassato e che il potenziamento
della tecnica divenga lo scopo supremo di
tutto l’agire umano. Qui si produce la forma più imponente dello «scambio delle parti» e, insieme, la
forma più imponente 84 della contraddizione dell’agire.
Capitalismo, comuniSmo, democrazia,
cristianesimo, islamismo, nazionalismo sono (o
sono stati) costretti da un lato, a potenziare sempre di più il Mezzo tecnologico a loro disposizione, e,
dall’altro, sono (o sono stati)
costretti a indebolirlo, cioè a limitarne il
potenziamento, per evitare di farlo uscire dal loro controllo, dalla loro guida, dalla loro regola. Oggi la
tecnica è il fondamento della salvezza
di ogni scopo e quindi ogni scopo, per
salvare sé stesso, è costretto ad assumere come scopo il potenziamento del proprio Mezzo: per salvare
sé stesso ogni scopo è costretto a
rinunciare a sé stesso. 85 6. Note su identità dell’Europa, frammento,
potenza Nel mio libro La tendenza
fondamentale del nostro tempo (Adelphi
1988), ma anche prima in Téchne (Rusconi 1979), e in seguito in altri scritti ancora, si mostra
in che senso e per quali motivi è
«necessario» affermare, da un lato, che
l’«essenza» - Inanima» - della civiltà occidentale è il pensiero filosofico, e, dall’altro, che il pensiero
filosofico del nostro tempo, quando si
riesca a scendere nel suo sottosuolo
essenziale, mette in luce l’«inevitabilità» del tramonto della grande tradizione dell’Occidente e
l’altrettanto «inevitabile» destinazione
della tecnica al dominio del pianeta. Ma, fino a che non si scorge il significato autentico di
queste affermazioni, esse scadono al
livello della semplice notizia. (Se non
intende essere la semplice opinione di qualcuno, ogni affermazione dev’essere infatti
«argomentata». La parola «argomento»
proviene dal latino arguo e dal greco argòs, che indicano il porre in chiara luce. Poiché la
luminosità può essere maggiore o minore,
per affermare qualcosa in modo adeguato
bisognerebbe dire che cosa propriamente significa «luce» e qual è il grado di luminosità di cui
la risposta si avvale. Da millenni
l’uomo tenta di dirlo.) In che consiste
l’«identità» dell’Europa? È stato indicato in
molti modi. Come prendere posizione? Innanzitutto va messa in luce l’indicazione che è in grado di
includere tutte le altre e che non è
inclusa da nessun altra. È quindi inevitabile che essa sia la più «astratta». In quanto è
comune alla maggiore o minore «concretezza»
di tutte le altre, tale indicazione sta
infatti al di sopra della concretezza - senza tuttavia ignorarla. L’«astratto» non è qualcosa di negativo; è
anzi il segreto in cui è riposta
l’adeguatezza della diagnosi. Si tratta
di portare alla luce ciò che è comune all’immensa varietà di eventi da cui è costituita la
storia europea. Oggi il 86 sapere diffida di ciò che è comune. Si
ritiene, oggi, che la forma più rigorosa
del sapere sia la specializzazione scientifica
- che, appunto, è l’opposto della cura per ciò che è comune. Ma dal comune non ci si può liberare. Ogni
sapere autentico - si dice - dev’essere
specialistico e quindi il senso dell’Europa
si spezza nella molteplicità di sensi che appaiono all’interno delle varie forme della specializzazione e
del frammento. Ma se solo il frammento
ha senso - se cioè il senso è frammentario
-, allora tutti i frammenti hanno questo di
inevitabilmente comune : di essere, appunto, dei frammenti. Inoltre l’Europa è, originariamente ed
essenzialmente, tendenza e vocazione al
frammento e all’isolamento delle cose. A
un certo momento, in Grecia si incomincia a pensare che una «cosa» è «ciò che è» - l’«ente» - ed è
come ciò che non era e non sarà, ossia è
come ciò che era nulla e tornerà a
esserlo. Ma ciò che è stato nulla non può avere alcuna relazione con ciò che già esiste, instaura
relazioni provvisorie e accidentali che
verranno meno quando ciò che è non sarà
più. Questo significa che,
nonostante ogni intenzione in senso
contrario, ogni cosa è un frammento, è isolata da ogni altra. La specializzazione scientifica ha il proprio
fondamento nella filosofia greca, che
stabilisce una volta per tutte il significato
delVesser-cosa, con un gesto che si rende sempre più presente e operante in ogni azione e in ogni
conoscenza: in ognuno degli infiniti
eventi, grandi e piccoli, che formano la storia
dell’Europa, dapprima, e, ormai, dell’intero pianeta. In questo significato consiste Yidentità
dell’Occidente. A esso sono essenzialmente
legate la volontà di potenza e la
violenza estrema. Si può voler annientare qualcosa solo se si crede che le cose (uomini e enti non umani)
siano di per sé stesse figlie del niente
e a esso destinate. E la violenza
87 dell’annientamento
inseparabile dalla violenza della creatività.
Dapprima l’Occidente non si accorge del proprio essere volontà separante e costruisce le grandiose
cattedrali della volontà unificante: il
senso filosofico del Tutto, che raccoglie
in sé le differenze e le opposizioni più marcate, il «Dio» di tutte le cose, l’eguaglianza cristiana tra
gli uomini in quanto figli di Dio, la
volontà di essere comprensibile da tutti, lo
Stato che è il Dio in terra e dunque principio di unità, l’economia di mercato che mette in
comunicazione i popoli, la scienza che,
prima di diventare specializzazione, vuol essere a lungo unificazione delle leggi della
natura, il comuniSmo che si rivolge ai
lavoratori di tutto il mondo perché si
uniscano, la «globalizzazione» del nostro tempo: sono alcuni degli esempi più rilevanti della volontà di
unire ciò che, essendo stato concepito e
vissuto come separato, non può essere
unito. È innanzitutto il sottosuolo del
pensiero filosofico del nostro tempo a
portare al tramonto la volontà unificante della
tradizione. Dio muore e rimane la «terra infranta». Su questa base, non solo ogni «integrazione» e
«interazione» tra i popoli, ma anche tra
gli individui dello stesso popolo, della
stessa città, della stessa famiglia è velleitaria. Rimedi provvisori.
Auctoritas, non veritasfacit legem (si dice da Hobbes a Cari Schmitt). Anche su base linguistica, lex è
l’ordinamento imposto alle cose, che
quindi le costringe a stare insieme. La
«verità» è il mondo in cui nella tradizione occidentale si vuole legare ciò che è vissuto e inteso come
originariamente separato. La verità è
quindi destinata al tramonto. E auctoritas
significa «potenza» (anche qui la linguistica lo conferma). La legge è il risultato dell’ auctoritas, ossia
della costrizione che lega insieme le
cose. 88 La potenza della legge può essere maggiore
o minore. Oggi la potenza maggiore è la
tecnica guidata dalla scienza moderna.
Il sottosuolo della filosofia del nostro tempo ha distrutto la «verità» e quindi autorizza la
tecnica a facere legem. La
specializzazione scientifica, Lisciamento e il
frammento sono legati alla costrizione che con la propria potenza unisce i frammenti del mondo. Qui è
il fondamento di ciò che vien chiamato
«globalizzazione». Ma se ogni volontà di
unire ciò che non può essere unito è una
costrizione destinata, prima o poi, a fallire, si apre il problema della configurazione dell’evento che è
destinato a lasciarsi alle spalle la
stessa civiltà della tecnica. 89 IV
Diritto, filosofia, tecnica 1.
La filo sofia 1 Stiamo parlando a un
pubblico composto soprattutto da
giuristi. Che però sono anche filosofi del diritto e quindi comprendono bene l’opportunità che nel mio
intervento tenga conto anche delle
sollecitazioni che prima mi sono state
rivolte. Innanzitutto è il caso
che ci si chieda che cosa significhi
«filosofia». Se già qui non ci intendiamo, faremo poca strada insieme. Ne facciamo ben poca se concepiamo
la filosofia come un sapere che dipende
dalla scienza, se riteniamo cioè che la
filosofia, per costituirsi, debba incominciare col tener conto di quanto si afferma nell’ambito del
sapere scientifico. Alla filosofia è
nota l’esistenza del mondo, e nel mondo c’è
anche la scienza; ma ciò non significa che la filosofia debba fondarsi sulle sapienze del mondo (oltre alla
scienza ce ne sono anche altre). Se ha bisogno di fondarsi sulla scienza,
meglio lasciarla perdere, la filosofia;
che non potrebbe andare molto oltre una
specie di ricapitolazione del sapere scientifico. Meglio lasciar parlare questo sapere. Prima è venuto fuori
il nome di Searle. Che, anche lui
insieme a moltissimi altri (in ogni campo), dà
appunto per scontato che esista quella forma di storia del mondo dove, in un primo tempo, l’uomo ancora
non esiste, seguita da un tempo nel
quale l’uomo esiste, e infine da un
tempo in cui, con ogni probabilità, l’uomo non ci sarà più e il mondo continuerà a esistere più o meno a
lungo. Certo, la scienza procede adottando
la convinzione che la realtà esista
indipendentemente dalla conoscenza umana di essa, breve parentesi nel corso degli eventi. Spesso (ma
con eccezioni) gli scienziati (per
esempio Max Planck) lo affermano
90 esplicitamente. (Però
Bertrand Russell, senza essere idealista,
ammette la possibilità che il mondo intero sia incominciato a esistere da pochi istanti, corredato di tutte
le esperienze che ne abbiamo, di tutti i
nostri ricordi del suo più lontano
passato e con tutte le aspettative e i progetti riguardanti il futuro.) Per Searle, poi, uno che non lo
creda è un minus habens. Non credo
tuttavia di esserlo, se affermo che la
filosofia non può presupporre alcune delle pur mirabili costruzioni del sapere scientifico, anche
perché si tratta di un sapere che, come
l’amico Giorello sa benissimo, oggi
riconosce il proprio carattere ipotetico. Ora, sarebbe sorprendentemente improprio che
si desse credito (come mi sembra che
Ferraris finisca col fare) al «senso
comune», e lo si sollevasse al rango di verità
incontrovertibile, là dove il sapere scientifico, perfino il sapere logico-matematico, mette in questione la
propria incontrovertibilità, la propria
verità assoluta. La filosofia è critica
radicale, radicale problematizzazione del sapere, e quindi non può procedere dando per scontati i
risultati della scienza (o di qualsiasi
altra sapienza, quella filosofica
compresa). Per questo non è il caso di farsi riguardo ad affermare che la filosofia, autenticamente
intesa, richiede una concettualità
estremamente più radicale di quella scientifica. Altrimenti la filosofìa si limiterebbe a
essere (ripeto) un panorama del sapere
scientifico, o una specie di pattuglia in
avanscoperta dove alcuni audaci, o incoscienti, si inoltrano nel deserto per tentar di vedere di sfuggita
e approssimativamente come stanno le
cose, in attesa che poi arrivino le
truppe regolari, quelle della scienza, che
stabiliscono come le cose effettivamente stanno e rimandano nelle retrovie le avanguardie filosofiche.
No: sin dall’inizio la filosofia ha
inteso essere 1’evocazione dell’innegabile, della verità in quanto innegabilità assoluta. Anche
quando si 91 contrappongono i «fatti» alle
«interpretazioni» si tende a considerare
il «fatto» come l’innegabile, come ciò che non
può essere negato, mentre l’«interpretazione» - lo richiamava il professor Zaccaria - rende sì
particolarmente significativo il
«fatto», ma immergendolo in un alone di controvertibilità, di non-verità, per cui da ultimo, nel confronto,
è il «fatto» che prevale - e prevale in
quanto, appunto, lo si ritiene
innegabile. La filosofia evoca
il senso radicale dell’innegabile unendolo
al suo carattere di visibilità. Non c’è bisogno di leggere Heidegger: basta un vocabolario per sapere
che i Greci chiamano alétheia la verità.
A-létheia significa, alla lettera, «non
nascondimento». Ciò che è vero è il non nascosto. Heidegger però non rileva che, per il
pensiero greco la verità, nel suo senso
radicale, non è solo alétheia, ma epistéme tes
alethéias («scienza della verità» è una delle traduzioni correnti di questa espressione). Ciò che si disvela
neW alétheia è il contenuto
assolutamente stabile (epistémonikón ). Il tema -ste di epi-stéme, dalla radice indoeuropea -sta,
nomina appunto lo stare di ciò che,
disvelato, si impone «su» (epi) tutto ciò che
vorrebbe spingerlo a essere diversamente da come è e sta. Si può dire che epistéme tes alethéias esprime
sia un genitivo oggettivo (il sapere
assolutamente stabile che ha come contenuto
la verità), sia un genitivo soggettivo (la stabilità assoluta che è il contenuto del
disvelamento). Questo senso radicale
della verità - il contenuto manifesto che sta e che, proprio perché sta, è innegabile - è evocato
una volta per tutte dal pensiero greco.
«Una volta per tutte», anche perché
quando oggi, per esempio nel sapere scientifico o filosofico, si dichiara di non voler proporre verità
assolute, incontrovertibili, definitive,
ci si riferisce appunto al senso
radicale della verità che i Greci hanno per la prima volta evocato, e da esso ci si allontana. 92
A questo punto, che l’innegabile sia Yalétheia-epistéme, ciò che si mostra nella sua stabilità, significa
che ciò che oggi è chiamato «coscienza»
è il luogo dell’innegabile. È nella
coscienza che le cose escono dal loro nascondimento e si rendono visibili. I Greci chiamano
phàinesthai la visibilità, l’ apparire
(phàinesthai deriva da phos, «luce», e il visibile, essendo ciò che sta in luce, garantisce la
propria esistenza). Ma come la semplice
affermazione che X è X, o che a X non
possono convenire Y e non-Y, non è sufficiente per poter affermare che il principio di identità e di
non contraddizione sono innegabili, così
la semplice affermazione che qualcosa
appare non è sufficiente per rendere innegabile il principio della fenomenologia - che in effetti non
riesce a essere che un presupposto, un
dogma. Perché ciò che appare non può
essere negato? Con questa osservazione alludo alla necessità di procedere oltre l’immediata elevazione del
visibile al rango dell’innegabilità. Il
senso greco deìYalétheia (da cui discende il
«principio di tutti i principi» della fenomenologia) è ineliminabile, ma non può riuscire a essere
l’assoluta stabilità e innegabilità
richieste dal pensiero filosofico.
Quando, sul «Corriere della Sera», intervenni nella polemica sul cosiddetto «nuovo realismo»
(cfr., nel presente saggio, sezione
seconda, cap. 8) intendevo mostrare quali
siano le possibilità del realismo e dell’idealismo, ossia di forme filosofiche che si presentano
all’interno della storia dell’Occidente.
I miei scritti indicano tuttavia la dimensione
che mostra perché tale storia è il culmine de\Y alienazione della verità. I Greci evocano cioè una volta
per tutte il senso della verità, ma
aprono anche la strada al pensiero in cui si
intende come verità ciò il cui contenuto è, in modo radicale, l’alienazione della verità. In quel mio
intervento sottolineavo la potenza
concettuale di Giovanni Gentile; ma non,
ovviamente, perché il pensiero di Gentile sia libero da 93
quell’alienazione. Ciò a cui quegli scritti si rivolgono è abissalmente lontano dal pensiero di Gentile.
La potenza concettuale del pensiero di
Gentile è massima perché tale pensiero è
massimamente rigoroso nell’errare. Non tenendo
conto di questa potenza dell’errare, il cosiddetto «nuovo realismo» (all’estero e in Italia) non fa
cheriproporre (sembra senza rendersene
conto) quel realismo della tradizione greco-
medioevale che è stato messo in questione, e fuori gioco, dallo sviluppo fondamentale della filosofia moderna
da Cartesio a Kant, all’idealismo fino,
appunto, aH’idealismo gentiliano.
Giacché - qui entriamo nel vivo della questione - più decisivo del problema del rapporto tra realismo e
idealismo o tra realismo e ermeneutica,
ben più decisivo è il problema della
sorte della verità lungo la storia dell’Occidente. Infatti, altro è il contenuto che la verità
(l’incontrovertibile, l’innegabile) ha
assunto nella tradizione dell’Occidente, altro è il contenuto che la verità è venuta in seguito ad assumere
- e inevitabilmente. 94
2. La giustizia Queste
considerazioni coinvolgono anche la dimensione
del pensiero giuridico. Quando si confronta il fatto con l’interpretazione, il fatto si presenta come
ciò a cui per lo più compete il
carattere dell’innegabilità, della verità. Tuttavia in campo giuridico il problema del rapporto fatto- interpretazione riguarda l’esigenza di porre
tale rapporto in relazione con la norma
: l’accertamento del fatto intende
stabilire la compatibilità del fatto con la norma. E l’accertamento della convergenza o divergenza
del fatto rispetto alla norma non è fine
a sé stesso, ma è operato perché sia
fatta giustizia. Il problema del rapporto fatto-norma rinvia al problema della giustizia; e tale problema
riceve oggi (penso ad esempio a Rawls e
a Kelsen) una soluzione essenzialmente
diversa da quella che gli viene data lungo la tradizione filosofico-giuridica. Qual è la definizione tradizionale di
«giustizia»? Nella Summa Theologica
Tommaso d’Aquino scrive: «Iustitia est
constans et perpetua voluntas ius suum unicuique tribuendi», «la perpetua e costante volontà di assegnare
a ciascuno il suo ius». Una definizione
in seguito continuamente ripetuta
(qualche volte con l’infinito del verbo invece del gerundio). Sono note le critiche che sono state rivolte
a questa definizione - non solo
tomistica, ma classica - di «giustizia».
Essa sarebbe un circolo vizioso perché nel definiens si ripresenterebbe il definiendum (iustitia è il
definiendum, ma ius, che compare nel
definiens sarebbe daccapo identico al
definiendum). Eppure questa
definizione non è un circolo vizioso. Si rifa a
Platone, al secondo e quarto libro della Repubblica : «giustizia» è, sì, che «ciascuno non abbia ciò che è di
altri e non sia privato di ciò che è suo
(IV, 433 e), ma quel che è decisivo è
95 che ciò che è «suo» è ciò
che gli spetta in relazione
all’Ordinamento assoluto della realtà che è compito dell’ epistéme della verità mostrare,
indicando pertanto in che luogo di tale
Ordinamento si trova ogni uomo e ogni cosa. La
verità mostra incontrovertibilmente in che cosa consistono gli uomini e i diversi tipi dell’umano, e la
giustizia è il riconoscimento, nel
conoscere e nell’agire, di ciò che, in
verità, ogni uomo è e di ciò che non può essere perché, in verità, è di altri. Lo ius che compare nel
definiens della definizione qui sopra
menzionata non è dunque la semplice
ripetizione della iustitia in quanto definiendum. Poiché Yepistéme tes alethéias crede di poter
mostrare in modo incontrovertibile
l’esistenza di un Ordinamento assoluto e
immutabile in cui ogni cosa prende posto (sì che ogni cosa è quello che essa è solo in quanto ha il posto
che le spetta all’interno di tale
Ordinamento), la giustizia è appunto il
riconoscimento di ciò che incontrovertibilmente spetta a ogni cosa, e pertanto quella definizione della
iustitia non è un circolo vizioso. (Né
ciò significa che lungo la storia del pensiero
filosofico quell’Ordinamento abbia avuto sempre la stessa configurazione.) Questa grandiosa concezione della giustizia
illumina e domina anche la dimensione
giuridica della tra dizione occidentale.
Uno dei temi centrali in sede giuridica è oggi il rapporto tra «diritto naturale» e «diritto
positivo». Il diritto naturale è il modo
in cui l’Ordinamento della realtà, mostrato
dall’epistéme della verità, si riflette nei rapporti tra ciò che nella società accade, i «fatti», e le norme
che la regolano. Tali norme si
inscrivono in quell’ordinamento e stabiliscono ciò che spetta a ciascuno aH’interno di esso,
ossia ciò che a ciascuno spetta «per
natura» - la «natura» non essendo altro
che tale Ordinamento. Si aggiunga che se il diritto naturale afferma che l’uomo ha un posto che gli spetta 96
necessariamente, per natura, nell’Ordinamento complessivo e incontrovertibilmente immutabile della
realtà, allora non le «interpretazioni»,
ma le constatazioni (ossia ciò che è ritenuto
«constatazione»), qui, hanno il compito di accertare se i «fatti» (ciò che accade) siano o no
compatibili con le norme. Al diritto
naturale si contrappone oggi il «diritto positivo». Questa contrapposizione è la conseguenza, in
campo giuridico, di un evento grandioso
e spaesante: il tramonto delle forme
sapienziali e pratiche della tradizione
dell’Occidente, il tramonto cioè al cui fondamento agisce il tramonto dell ’epistéme della verità e
dell’Ordinamento immutabile che essa ha
inteso mostrare. Essenzialmente più
decisiva del rapporto tra idealismo (o
pensiero ermeneutico) e realismo - ognuno dei quali intende valere come il contenuto della verità - è,
dicevo prima, la domanda: «Che ne è
della verità?»; e quindi: «Qual è la storia
della verità?». Infatti il problema della contrapposizione tra realismo e idealismo può essere risolto solo
accertando perché si debba tener ferma
la verità dell’uno piuttosto che la verità
dell’altro. Tutto ciò significa che il problema relativo a quella contrapposizione, e pertanto alla questione
del rapporto tra fatti e
interpretazioni, rinvia da ultimo alla questione di quale sia il contenuto che è necessario porre come
verità, ossia come
incontrovertibilità. Vado
richiamando da tempo che l’autentico e profondo
avversario della tradizione occidentale non è il relativismo (come ad esempio la Chiesa cattolica invece
ritiene). Al di sotto del rifiuto
appariscente ma impotente della tradizione
occidentale, proprio del relativismo, al di sotto di tale rifiuto, ossia nel luogo che vado chiamando
«sottosuolo filosofico del nostro
tempo», agisce un pensiero tendenzialmente nascosto, ma capace di mostrare Vimpossibilità che
l’Ordinamento 97 immutabile e divino della tradizione sia
il contenuto dell’ epistéme della
verità. Fra i pochi abitatori del
«sottosuolo», Giovanni Gentile, Nietzsche, e ancor prima di loro Leopardi. Nell’ epistéme della verità
quell’ordinamento immutabile domina il
mutamento degli enti del mondo, domina
cioè il loro uscire dal nulla e il loro ritornarvi. L 'epistéme è il riconoscimento originario
dell’esistenza del mutamento così
inteso. Ma è appunto sul fondamento di tale
riconoscimento che nel «sottosuolo» essenziale del nostro tempo si mostra (ne accenneremo tra poco)
Vimpossibilità dell’esistenza di ogni
dimensione immutabile. Ogni realtà e
ogni sapienza sono pertanto storiche, temporali, contingenti, finite. Da ciò segue, e inevitabilmente, il
prevalere del diritto positivo sul
diritto naturale, cioè segue la necessità che ciò che spetta a ciascuno e ciò che non deve essergli
sottratto è tale non assolutamente, ma
in relazione a una certa epoca storica
dove le forze sociali che sono riuscite a imporsi sulle altre stabiliscono (con una voluntas che quindi non
è constans et perpetua ) che cosa sia
ciò che in tale epoca spetta a ciascuno
(ius suum unicuique tribuendi) e ciò che non gli può essere tolto. Hanno carattere storico, pertanto, non
solo i fatti, ma anche i criteri in base
ai quali i fatti sono individuati, interpretati
e giudicati. E, questo, sia che i fatti vengano sia che non vengano considerati come indipendenti
dal loro essere interpretati. Il
tramonto di ogni realtà e sapienza
immutabile è quindi l’orizzonte comune al realismo e all’idealismo - la cui contesa si risolve
peraltro in favore dell’idealismo solo
qualora quest’ultimo si sollevi alla
dimensione che l’attualismo gentiliano (come altrove ho mostrato) ha saputo indicare. 98
3. Il «sottosuolo» filosofico del nostro tempo e il positivismo giuridico
Se si vuole richiamare in breve il senso essenziale della potenza concettuale del «sottosuolo»
filosofico del nostro tempo (degli
ultimi due secoli, si potrebbe dire) - se lo si
vuole richiamare in breve e in una forma che possa valere come tratto comune agli abitatori del
«sottosuolo» (che d’altra parte hanno
elaborato in modi specifici e differenziati
tale tratto) -, si deve innanzitutto richiamare la convinzione di fondo che incomincia con la vita stessa
dell’uomo sulla terra, e che lungi
dall’esser qualcosa di nascosto in un
sottosuolo sta invece alla luce del sole, mostrando ciò che non viene in alcun modo messo in questione lungo
l’intera storia dell’uomo: si tratta
della convinzione che la terra si trasforma,
e l’uomo con essa. La trasformazione è il diventar altro da parte delle cose, il loro diventare altro da
ciò che dapprima esse sono. Le
«teogonie» e le «metamorfosi» confermano il
carattere archetipico di questa convinzione. Con l’avvento del pensiero filosofico il diventar
altro da parte delle cose è interpretato
in senso ontologico : il loro diventar
altro si spinge fino al loro diventare
quell’assolutamente altro che è il loro non essere, ossia il loro esser nulla, e le cose, provenendo dal nulla,
diventano quell’assolutamente altro dal
nulla che è il loro essere, ossia il
loro esser enti. La filosofia evoca pertanto, una volta per tutte nella storia dell’Occidente e ormai del
pianeta, non solo il senso della verità
come assoluta incontrovertibilità, come
epistéme tes alethéias, ma anche il senso ontologico del diventar altro delle cose; e una volta per
tutte, lungo quella storia, l ’epistéme
della verità pone tale senso come il proprio
contenuto originario. È a
partire da questo contenuto che, nella tradizione, 99
Yepistéme della verità si porta oltre di esso («oltre», cioè metà, nella lingua greca) e si costituisce come
metafisica, ossia come sapere che mostra
la necessità di affermare, «al di là» delle
trasformazioni del mondo, 1’esistenza dell’Ordinamento immutabile e divino dal quale il mondo è
regolato e per il quale il diritto
naturale si fonda su di un’etica assoluta. Il
senso ontologico del diventar altro diventa in tal modo l’evidenza suprema delVintero Occidente: sia
della tradizione dell’Occidente, sia del
sottosuolo filosofico del nostro tempo,
sia degli amici sia dei nemici di Dio. Ma è questo sottosuolo e il carattere della sua inimicizia verso il
divino a costituire la forma più
radicale e rigorosa della fedeltà a ciò che lungo l’intera storia dell’Occidente e ormai del
pianeta - dunque anche all’interno del
sapere scientifico, religioso, artistico e
ormai dello stesso senso comune - è ritenuta la suprema evidenza del senso ontologico del diventar
altro. (È per questa fedeltà che il
diritto positivo si fonda su una forma storica di etica, su di una Grundnorm, che è tale solo
in relazione a una certa epoca storica e
che quindi - la tesi è resa esplicita da
Kelsen - può avere qualsiasi contenuto.) Ebbene, da un lato, l’Occidente è convinto,
sin dai suoi primi pensatori, che
l’evidenza suprema sia il provenire degli
enti dal nulla e il loro ritornarvi (e si può dire che anche Parmenide lo creda: nel senso che egli
afferma l’esistenza di una regione dove
si crede evidente il provenire e il ritornare
nel nulla da parte degli enti, una regione che tuttavia egli qualifica come illusione, dóxa). All’interno
di questa convinzione il futuro è
«l’ancor nulla», il passato è «formai
nulla». D’altra parte, in ogni sua configurazione, Yepistéme della verità, che lungo la tradizione
dell’Occidente intende affermare
l’esistenza di un Ordinamento (o Legge)
immutabile, non può ritenere che tale Ordinamento domini soltanto il presente, ma deve ritenere che il
suo dominio si 100 estenda anche alla totalità del futuro e
del passato, cioè che futuro e passato
non possano sottrarsi al suo dominio e alla
sua legislazione. Non può cioè ritenere che dall’ancor nulla del futuro possano provenire o che dall’ormai
nulla del passato possano ritornare cose
che si sottraggono a tale Ordinamento e
siano per esso qualcosa di imprevisto.
Nemmeno la libertà dell’uomo e la contingenza delle cose riescono a distruggere realmente la Legge. La
Legge deirimmutabile è universale (e chi
ha creduto di poterla violare si è
ingannato, perché alla fine è raggiunto dalla
Giustizia e dalla Punizione).
Ciò significa che l’Ordinamento immutabile invade l’ancor nulla del futuro e l’ormai nulla del passato
e gli prescrive tutto ciò che da essi
può veramente (e non apparentemente e
provvisoriamente) generarsi e tutto ciò che a essi è destinato ad appartenere. Ma questa invasione del nulla
da parte deH’Immutabile rende essente il
nulla, lo entifica e quindi cancella o
rende apparente il senso ontologico del diventar altro, il senso che sussiste solo in quanto è
un diventare dal nulla e un diventare
nulla. E tale entificazione del nulla non
soltanto nega l’evidenza del diventar altro l’evidenza che Yepistéme stessa dell’Immutabile è essa per
prima a riconoscere -, ma nega e
sopprime anche quella differenza tra il
cominciamento e il risultato del divenire, senza la quale nessun divenire, e tanto meno il divenire
ontologicamente inteso, può esistere.
Così parla il «sottosuolo» essenziale (cioè
filosofico) del nostro tempo. Se
una qualsiasi Realtà o una qualsiasi Verità immutabile esistono, è impossibile che esistano quel
divenire e quella volontà di far divenire
le cose che per l’intera storia
dell’Occidente (dunque anche per la tradizione epistemica) sono l’originaria, suprema e innegabile
evidenza. È appunto nel «sottosuolo»
essenziale del nostro tempo che l’Occidente
101 giunge a scorgere, sul
fondamento di tale evidenza, che
l’autentica realtà e l’autentica verità immutabile sono il divenire di ogni realtà e di ogni verità
immutabile e pertanto sono la volontà
sempre più potente di trasformare il mondo.
Non rendendosi conto del proprio carattere essenzialmente antinomico, la tradizione
epistemico-metafisico-teologico-
ontologica dell’Occidente elabora la pur potente struttura concettuale in cui si intende mostrare che
gli enti divenienti esistono solo se
esiste un Ente immutabile; gli abitatori del
«sottosuolo» essenziale del nostro tempo, scorgendo il carattere antinomico della tradizione, si
rendono conto che gli enti divenienti
possono esistere solo se non esiste alcun
Ente immutabile. E questa è conseguenza necessaria della fede che il divenire sia l’evidenza originaria e
innegabile. Anche se il «sottosuolo» non
ama questa espressione, esso è dunque la
forma più coerente dell’ epistéme tes alethéias, perché esso mostra che il contenuto d éìl y epistéme
incontrovertibile non è il rapporto tra
il divenire e l’Immutabile, ma l’esclusione
necessaria di ogni Immutabile. Appunto in forza di questa necessità tale «sottosuolo» non ha nulla a
che vedere con le ingenuità del
relativismo e dello scetticismo. Dalla
potenza concettuale del «sottosuolo» deriva
l’impossibilità di ogni «diritto naturale»; il prevalere del «diritto positivo» è inevitabile. Il tramonto
della forma tradizionale dell’ epistéme
(che si dispiega dai Greci a Hegel) è
cioè anche il tramonto della configurazione giuridica di tale forma, ossia è il tramonto del «diritto
naturale». Il senso autentico del
conflitto tra diritto naturale e diritto positivo può essere quindi compreso solo se lo si vede
inscritto nella grandiosa vicenda che
conduce al tramonto ormai planetario
degli Immutabili. Tuttavia,
anche per il positivismo giuridico la giustizia è volontà di ius suum unicuique tribuere: nel
senso che ciò che 102 spetta a ciascuno non è quanto viene
mostrato dalYepistéme della verità, ma
ciò che, all’interno di un certo gruppo sociale
e in un determinato periodo storico, per le norme vigenti spetta a ciascuno. Ma poi, sul fondamento
della distruzione dell ’epistéme della
verità, a ciascuno e a ogni cosa di ogni
luogo e di ogni epoca viene riconosciuto il loro essenziale divenire, il loro essenziale esser qualcosa
che esce dal proprio nulla e vi ritorna;
sì che la giustizia consiste nel salvaguardare
e assecondare il divenire delle cose e del mondo umano e il loro diritto di oltrepassare ogni limite
assoluto (e di non costituire un limite
siffatto). In questa situazione, ogni forza si
propone di prevalere sulle altre, ogni individuo sugli altri. Ma le grandi forze che guidano il mondo e gli
individui si servono tutte, per
prevalere, della tecnica moderna; e poiché la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo di tali
forze, essa impedisce che l’anarchia
totale prenda piede e, subordinando a sé
ogni forza, stabilisce una gerarchia, riconosce a ogni forza e a ogni volontà di potenza ciò che loro
spetta alFinterno di tale gerarchia e
pertanto realizza la forma suprema di giustizia
a cui l’Occidente è destinato a pervenire, la suprema volontà di ius suum unicuique tribuere. 103
4. Realismo e idealismo Quanto
alla contrapposizione tra realismo e idealismo
(nella quale è coinvolto il rapporto tra fatti e interpretazioni), ho già rilevato che essa si inscrive nella
vicenda, qui sopra tratteggiata, del
tramonto degli Immutabili. Aggiungo che tale
contrapposizione presenta, lungo la storia del pensiero occidentale, una complessità ben più profonda
del modo in cui il realismo viene oggi
sostenuto in ambito «analitico» e
«continentale» e del modo in cui in tali ambiti Fidea-lismo viene conosciuto. Ad esempio si tende a
ignorare la «necessità» che conduce dal
realismo premoderno alla riflessione
cartesiana sull’ impossibilità che - se la «vera» realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso
(come vogliono il realismo premoderno e
lo stesso Cartesio) - la realtà pensata
(il cogitatum), in quanto pensata (la realtà che peraltro è il mondo in cui l’uomo vive), sia indipendente
dal pensiero. E si tende a ignorare
l’ulteriore «necessità» (mostrata
dall’ideahsmo) che la cosiddetta realtà esterna e indipendente dal pensiero sia pur sempre un pensato e sia
dunque un concetto autocontraddittorio.
(Nella tradizione l’«idea» è «ciò
attraverso cui è conosciuto l’oggetto reale», essa è id quo objectum cognoscitur; Cartesio mostra la
necessità di intendere l’idea come «ciò
che è conosciuto, id quod cognoscitur,
ma che, ancora, lascia al di là di sé la vera realtà l’«essere formale»: Kant vede l’impossibilità
di conoscere la vera realtà, la «cosa in
sé»; l’idealismo, rilevando
l’autocontraddittorietà di ogni concetto di cosa in sé e di realtà al di là del pensiero, mostra la
necessità che Vobjectum del pensiero sia
«idea», ma mostra insieme che l’idea è la
stessa realtà in sé stessa, la stessa cosa in sé. Lo stesso
sviluppo si ripropone nella riflessione
sul linguaggio, che conduce alla
cosiddetta «svolta linguistica»; lo sviluppo dove, dapprima, nella tradizione, la parola è intesa come id
quo objectum 104 dicitur - e Yobjectum sta al di là della
parola poi ci rende conto che, in quanto
detto, è Yid quod dicitur a dover essere
Yobjectum della parola, sì che il linguaggio parla del linguaggio, ma, ancora, lasciando al di fuori
di sé la «cosa»; infine si intrawede che
anche la «cosa» è in qualche modo detta
e pertanto, non la cosa esterna al linguaggio, ma il linguaggio stesso è la «cosa», che peraltro
continua a esser concepita come ciò che
esce dal nulla e vi ritorna). Ma anche
il realismo premoderno è ben più complesso
delle sue attuali configurazioni. Per il realismo greco, ad esempio, è propriamente solo quando Yepistéme
della verità ha dimostrato l’esistenza
della Realtà immutabile, è solo allora
che può essere affermata l’indipendenza della realtà dalla conoscenza umana. Ne\YEtica Nicomachea (se
ricordo bene, in 1139 b), si dice che
«quello che sappiamo epistemicamente non
può essere diversamente da com’è; ciò che può essere diversamente da come è, quando esca
dall’osservazione [ci] rimane nascosto
se esso sia o non sia». La potenza di questa
affermazione è tale da prefigurare e contenere l’essenza stessa del pensiero fenomenologico dei nostri tempi.
Il testo greco dice: ho epistàmetha, che
ho tradotto con «quello che sappiamo
epistemicamente», ossia ne\Yepistéme della «verità». Ciò che sappiamo in modo epistemico
met’endéchesthai àllos échein, «non può
essere diversamente [da come è]». Questo
non poter essere diversamente è l’innegabilità, l’incontrovertibilità, la definitività
deìYepistéme della verità. È in modo
assoluto, non relativamente, che ciò che sappiamo in modo epistemico non possa essere
diversamente; esso non può assolutamente
essere diverso da ciò che l’epistéme è. Il
testo continua riferendosi a tà d’endechòmena àllos, ossia alle «cose che è possibile che stiano
diversamente» (e che quindi non sono
contenuti àe\Yepistéme), e dice che, «quando escono dall’osservazione» ( hótan éxo tou theoreìn
génetai), allora 105 lanthànei, cioè «rimane nascosto», ei
estin e mé, «se esse siano o non siano».
L’«osservazione», theorein, è la nostra visione
delle cose del mondo, è il loro apparire, mostrarsi, il phàinesthai (Cartesio lo chiamerà cogitare).
Ho tradotto theorein con «osservazione»
perché theorein è costruito su theorós,
ossia lo «spettatore», «colui che osserva e vede con i propri occhi». Quando le cose non
epistemicamente note escono
dall’apparire rimangono, appunto, nascoste, e quindi rimane nascosto se continuino a esistere o
no. Ciò che invece continua a esistere
anche quando non appare nella conoscenza
umana è l’Ente immutabile la cui esistenza è
dimostrata, all’interno deWepistéme, sul fondamento del principium firmissimum che nega la
contraddittorietà degli enti. D’altra parte, l’apparire degli enti che
possono essere diversamente è l’apparire
del loro diventar altro; e tale apparire
è ciò che innanzitutto il pensiero greco considera come l’evidenza originaria e supremamente
innegabile e quindi come appartenente
eàYepistéme della verità. Ciò si spiega,
perché se quelli divenienti sono gli enti che possono diventar altro, tuttavia che essi possano
diventar altro ed essere diversamente da
come sono è qualcosa che, appunto perché
appare, ossia è originariamente evidente e innegabile, non può diventar altro e non può essere
diversamente da come è. Appunto per
questo Leibniz potrà considerare come
«verità» (ossia come epistéme della verità) non solo le «verità di ragione» (riguardanti ciò che non può
essere diversamente perché è
contraddittorio che lo sia), ma anche le «verità di fatto» (che appunto riguardano ciò che può
essere diversamente perché non è
contraddittorio che lo sia). Se la
scienza afferma che il mondo esiste prima dell’uomo e continuerà a esistere anche quando l’uomo non
ci sarà più, tuttavia la scienza è una
fede; certo, oggi, la più potente. Ma la
106 potenza non è la verità.
Il mondo che esisterebbe
indipendentemente daH’«osservazione» e dallo «sperimentare» non è comunque qualcosa di
osservabile e di sperimentabile. Questo
anche se all’interno delle regole della
fede scientifica si devono trarre (in base a certe altre regole non incontrovertibili) certe conseguenze, che
conducono alla tesi dell’indipendenza
del mondo dall’osservazione umana. Ma,
appunto, si tratta di inferenze compiute all’interno di una fede.
107 5. Uno sguardo al di là
della fede delVOccidente Sul fondamento
della convinzione che le cose del mondo
diventano altro è inevitabile che prevalga la sapienza del «sottosuolo», in cui si mostra
l’impossibilità di ogni Immutabile e
quindi di ogni verità incontrovertibile che, da
un lato, si ponga come Legge assoluta del divenire, e dall’altro differisca dalla verità assoluta che si
mostra nel «sottosuolo». Ma il destino
della verità (così viene chiamato nei miei scritti) sta al di là della fede nel diventar altro
delle cose e degli enti, ossia al di là
deWintera storia del mortale e dell’Occidente,
dunque al di là dello stesso processo che conduce dall ’epistéme metafisica della verità al
sottosuolo essenziale del nostro tempo.
Sta pertanto al di là dell’inevitabile
prevalere, nella storia dell’Occidente, della negazione di ogni verità immutabile. Il destino sta «al di là»,
nel senso che contiene, mostrandola, la
storia del mortale e dell’Occidente. Il
destino è l’apparire del senso autentico della necessità e della necessità che ogni essente sia eterno.
E la testimonianza del destino non è né
realismo né idealismo, perché sia il
realismo sia l’idealismo affermano che alcune dimensioni dell’ente possono esistere anche se altre non
esistono ancora o non esistono più;
laddove, poiché tutto è eterno, né l’uomo
può esistere senza il mondo, né il mondo può esistere senza l’uomo e senza la più «irrilevante»delle sue
parti. Poiché si obbietta - come anche
in questo nostro incontro è accaduto -
che l’affermazione dell’eternità di ogni essente nega ciò che incontrovertibilmente appare,
ossia nega il diventar altro delle cose,
concludo accennando al motivo di fondo
per il quale l’affermazione dell’eternità di ogni essente non è in contrasto con il contenuto che
appare incontrovertibilmente, e che, in
quanto tale, appartiene alla struttura
del destino - il contenuto la cui eco si fa peraltro 108
sentire nei concetti di «esperienza», «osservazione», «dato», «fenomeno» ecc. Quando si crede che gli enti che si
manifestano non siano stati (totalmente
o in parte) e tornino a non essere
(totalmente o in parte), quando cioè si crede che escano dal nulla e vi ritornino, è impossibile
(contraddittorio) che si creda che gli
enti, quando ancora sono nulla, appaiano e si
manifestino già così come appaiono e si manifestano quando incominciano a essere; ed è impossibile che
si creda che essi, annientandosi,
continuino ad apparire e a manifestarsi così
come appaiono e si manifestano prima del loro annientamento. È impossibile, perché
altrimenti, nel diventar altro, il
«prima» non differirebbe dal «poi» e quindi non ci sarebbe qualcosa come un diventar altro. È
quindi necessario che, quando si crede
nell’uscire dal nulla e nel ritornarvi, si
creda che, quando gli enti non sono, non appaiano nel modo in cui appaiono quando incominciano a essere,
pur apparendo ed essendo in qualche
altro modo nel loro esser attesi,
sperati, temuti, supposti, previsti; ed è necessario che, quando vanno nel nulla, non appaiano più nel
modo in cui appaiono quando ancora
esistono, pur apparendo ed essendo in
qualche altro modo nel ricordo, nel rimpianto, nelle varie forme in cui ci si riferisce al passato. Ciò significa che nella misura in cui si
crede nel tempo in cui un ente è nulla
(prima o dopo il suo essere), in questa
misura si crede che tale ente non appare, ossia non appartiene alla totalità degli enti che appaiono - la
quale include anche gli enti che, in
quanto attesi e ricordati, non sono un nulla.
Ma, allora, Yapparire, la totalità degli enti che appaiono in quanto tale non può nemmeno mostrare alcunché
di ciò che non le appartiene ancora
(quando esso è ancora nulla) e non le
appartiene più (quando esso è ormai nulla); e pertanto l’apparire, in quanto tale, non può nemmeno
mostrare che gli 109 enti escono dal nulla e vi ritornano, appunto perché il loro esser nulla non appartiene a ciò che è
mostrato (come non gli appartiene
nemmeno che gli enti sono già e continuano a
essere anche quando non appaiono). Nella misura in cui qualcosa non è (ossia è nulla), in questa
misura esso non appare e pertanto
l’apparire non può mostrare il suo non
essere. (Facendo corrispondere il cielo alla totalità degli enti che appaiono e il sole a uno di questi enti,
allora, quando il sole non è ancora
sorto e quando è ormai tramontato, non si
può chiedere al cielo che ne sia del sole quando non si mostra nel cielo: in questo caso il cielo non può
che tacere sulla sorte del sole.)
Aristotele - si è rilevato - afferma che, quando un ente che «può essere diversamente» (ossia che
diviene) non appare, «rimane nascosto»,
cioè non appare se esso sia o non sia.
Ma anche Aristotele crede, come l’intero Occidente, che certi enti che appaiono possano non essere.
Eppure non può essere l’apparire a
mostrare il non essere degli enti che, non
essendo, non possono nemmeno apparire.
Il non essere di ciò che ancora non è e di ciò che non è più è dunque una interpretazione, non una
constatazione; una interpretazione che
non solo richiede un fondamento, ma che
è negata dal destino della verità, che scorge in tale interpretazione il culmine dell’estrema
follia in cui l’uomo si trova. (Tale
interpretazione non ha un fondamento
incontrovertibile - anche se è sollecitata sia dal modo, spesso terribile, in cui ciò che all’uomo sta a
cuore esce dall’apparire, sia dalla
constatazione che ciò che esce in quel modo
dall’apparire «non ritorna più».)
Ma qui ci si deve arrestare. Il linguaggio, ora, è di fronte al tema decisivo: l’impossibilità che Tessente
in quanto essente non sia. (Sta al
centro di tutti i miei scritti.) Il linguaggio è cioè, insieme, di fronte all’essenza
dell’uomo, ossia alla dimensione, già da
sempre salva, che circonda la follia del
110 mortale e dell’Occidente. Dalla relazione tenuta al convegno «fatti e
interpretazioni» rivolto a un pubblico di filosofi del diritto, tenutosi all’università di Padova,
il 30 novembre 2012, e presieduto dal magnifico rettore prof. Giuseppe Zaccaria, con la partecipazione dei
proff. Maurizio Ferraris e Giulio Giorello, e con interventi, fra gli altri, dei proff. Luca Illetterati,
Vincenzo Milanesi, Carlo Scilironi, Ines Testoni. ili
V Sull’essenza del
nichilismo 1. Alle origini del
deicidio Da centinaia e migliaia di
anni prima della nascita di Cristo, vi
sono dodici giorni, in ogni ciclo delle stagioni, che i popoli arcaici considerano sacri. I giorni
dedicati alla rifondazione del mondo.
Nelle società cristiane sono quelli che
vanno dal Natale all’Epifania. Nel loro mezzo, il Capodanno, festeggiato dovunque. Soprattutto
in quei dodici giorni, già quei popoli
agiscono per ricostituire l’integrità e la
vita del mondo, consumate e perdute durante il tempo che veniva chiamato l’«anno». Ripetono la
creazione originaria compiuta dagli Dèi
o dal Dio supremo. Oggi i popoli
credono sempre meno nel divino; ma la loro
cultura dominante ne ripropone, sia pure in modo profondamente diverso, i tratti essenziali.
Tale cultura è la tecnica
scientificamente orientata e controllata dalla
produzione capitalistica della ricchezza. La produzione di beni e di merci richiede «energia». Il
consumo di «energia» ne richiede il
rinnovo, la reintegrazione. Richiede la
ricostituzione del suo «fondo». La «rifondazione» del ciclo energetico ripropone la ripetizione umana
della creazione divina. Il Capodanno può
essere anche la festa del ciclo
energetico. Noi capiamo subito
che l’«energia» si consuma e dev’esser
rinnovata. Ma perché quegli antichi sentono il bisogno di rifondare periodicamente il mondo? Se non si
risponde, anche l’analogia tra tecnica e
rifondazione mitica del mondo rimane
sospesa nel vuoto. Eppure quel bisogno
è molto meno stravagante di quanto possa
sembrare. Per rispondere alla domanda che ci siamo posti incomincia a venire in aiuto il
concetto di «volontà» (un 112 aiuto di cui non si approfitta
adeguatamente non solo da parte delle
scienze dell’uomo). Poi indicherò come le
implicazioni di questo concetto siano in grado di spiegare il bisogno di cui stiamo parlando - che non è
per noi irrilevante, ma è anche il
nostro, e il più importante di tutti: il bisogno di vivere.
Volere è voler fare diventar altro il mondo (le cose e sé stessi). Se non si vuole e si resta immobili,
si muore. La volontà è la vita. Ma
quando la volontà apre gli occhi non
ottiene subito ciò che vuole. Si trova di fronte a qualcosa che non si lascia smuovere e trasformare:
l’Inflessibile. Per il singolo è
l’ambiente familiare e sociale; per i popoli arcaici è ciò che noi chiamiamo «natura», ma che a essi
si presenta, appunto, come la Barriera
di fronte alla quale l’uomo si sente
impotente e muore; e in cui la sua volontà deve tuttavia aprirsi un varco per riuscire a ottenere il
voluto e dunque per vivere. Un varco
nella Barriera dell’Inflessibile, che si presenta alla volontà come la dimensione della Potenza
suprema, demonica, divina. Nell’atto stesso in cui l’Inflessibile
acquista per l’uomo il volto del divino,
in quello stesso atto l’uomo, per vivere, deve
quindi flettere l’Inflessibile, forzarne e penetrarne la Barriera, spezzarlo, squartarlo. Deve ucciderlo.
Volendo essere «come Dio» Adamo vuole
uccidere Dio. Mangiando il frutto che lo
rende «come Dio» Adamo mangia Dio. Accade così che, avvertendo il proprio essere deicida, l’uomo
si senta colpevole, in debito. Il
bisogno di vivere diventa bisogno di
espiazione. Ogni giorno, ogni
ora, ogni istante facciamo esperienza di
ciò che, per vivere, la volontà richiede. Se il mondo ci stesse davanti come un unico blocco che non si
lascia spezzare, ci spegneremmo subito.
La volontà, per ottenere, ha bisogno di
113 spezzarlo, di agire sui
frammenti, sulle parti del blocco.
L’agire richiede l’isolamento delle parti dal blocco e tra di loro. Oggi si crede che anche la conoscenza
sia «seria» solo se fa conoscere parti
del mondo, non il «Tutto», vanamente
inseguito dalla vecchia sapienza filosofica. La scienza chiama «specializzazione» la propria conoscenza
delle parti. E la tecnica, da essa
guidata, agisce sempre su parti. (Anche l’arte
si chiude nel «frammento».) Adamo che vuol uccidere Dio ha già un’anima tecnica. La tecnica ha un’anima
teologica. E il senso di colpa affiora
anche nell’uomo della civiltà della
tecnica, ben al di là della preoccupazione per la propria incapacità di realizzare uno «sviluppo
sostenibile». Per quanto ci dicono le
scienze storiche si può dire che ogni
forma della religiosità arcaica (e monoteistica) abbia al proprio centro il mito in cui lo smembramento
del Dio è la condizione dell’esistenza
del mondo. Dall’Oceania alla
Mesopotamia, dall’India alle popolazioni germaniche e alle società greco-cristiane i miti raccontano la
creazione del mondo come effetto del
sacrifìcio originario di un Dio, di una
Dea, di un Eroe, di uno sposo o di una sposa del Dio: Hainuwele (Nuova Guinea), Tammuz, Dumuzi,
Tiamat (Mesopotamia), Ymir (presso i
Germani), Purusha e Prajapati (India),
Osiride (Egitto), Dioniso (Grecia), Cristo.
La creazione del mondo è lo squartamento del Dio, che diventa cibo dell’uomo. L’uomo vive solo in
quanto usa, consuma, gode le membra, le
parti del Dio. Anche la morte di Cristo
sulla croce rende possibile la rifondazione, la rinnovata creazione del mondo che era andato
consumandosi e morendo in conseguenza
del peccato. E nel Genesi si dice che
Dio «si riposò nel settimo giorno da tutto il lavoro che aveva fatto» e da cui era stato dunque consumato e
indebolito. Ma il divino rimane pur
sempre la fonte della vita. 114 L’esaurirsi della fonte è la morte
dell’uomo, così come lo era
l’inflessibilità originaria del divino. E la morte è il pericolo estremo da cui ci si deve difendere. Diventa
quindi necessario che si restituisca al
divino quel che gli si è tolto e che tuttavia è
stato consumato e non c’è più. È a questo punto che il genio religioso deve inventare il sacrificio
compiuto dall’uomo (che assume anche la
forma del sacrificio dell uomo) come
ripetizione del sacrificio divino e dunque come rifondazione del mondo. Acquisterà le forme più diverse,
nei tempi e nei popoli, ma l’essenza
della ripetizione del sacrificio divino e
della fondazione divina del mondo è la consapevolezza della necessità che, per continuare a vivere, non
venga spenta la fonte della vita. Quando ci si convince che qualsiasi vittima
offerta dall’uomo al Dio è radicalmente incapace
di assolvere il compito gigantesco che
le si assegna, allora diventa necessario
credere che sia Dio stesso a farsi uomo e vittima con la quale Dio restituisce a sé stesso quello che la
violenza e il peccato dell’uomo gli ha
tolto. E quando la filosofia, volendo «dire e
fare cose vere», si porterà oltre il mito da cui è preceduta (e da cui sarà seguita), le sue prime parole
(quelle di Anassimandro) diranno che il
mondo, separandosi dal divino, dovrà
necessariamente dissolversi in esso, scontando
la pena dell’«ingiustizia» commessa con tale separazione - dove la separazione dal Dio è l’eco dello
smembramento- sacrificio mitico del
divino, e la pena da scontare è l’eco della
ripetizione umana di tale sacrificio. Quando, infine, nel nostro tempo, non si crederà più né negli dèi
del mito né in quelli della «verità», e
la lotta contro la morte sarà affidata
soprattutto alla Potenza suprema della tecnica, allora al consumo di questa Potenza, cioè al suo
Sacrificio, dovrà corrispondere una civiltà
in cui le saggezze e sapienze del
passato, per quanto grandi e nobili, dovranno sacrificare ogni 115
loro aspirazione al dominio del mondo, e cioè non contrastare il potenziamento indefinito della
Tecnica. Sin dagli inizi della storia
deH’uomo il giorno del Capodanno,
rifondando il mondo e aprendo un nuovo ciclo
alla vita, si sbarazza dell’anno vecchio, della «vecchia terra», ricolmi delle colpe degli uomini; e li lascia
cadere nell’oblio. (Accade anche nel
grande Capodanno de\YApocalisse di
Giovanni, dove l’«anno» della vecchia terra viene diviso da quello della nuova.) Oggi il Capodanno
«rievoca» soltanto le vicissitudini
della volontà: non le rivive. Ma a
questo punto la questione decisiva rimane ancora tutta da esplorare. Riguarda appunto il senso
autentico della volontà - alla quale
invece ci si affida come alla cosa più
sicura del mondo. Non si scorge che la storia della volontà si svolge interamente al di fuori di quel
senso. Ora si aggiunga che quando,
all’inizio, si trova di fronte
all’inflessibilità della Barriera, la volontà è insieme avvolta da essa. Infatti non può tornare indietro.
Tornando indietro, riuscirebbe non solo
a far diventare altro il mondo, ma a
ottenere immediatamente tutto ciò che essa vuole, giacché tornare indietro è lasciarsi alle spalle la
Barriera che le impedisce di trasformare
il mondo. Ma la volontà riesce a vivere
solo se fa breccia nella Barriera; e il far breccia implica un tempo in cui la volontà è bloccata e muore
(è originariamente morta). E non può
nemmeno, e per lo stesso motivo,
muoversi di lato, a destra o a sinistra, o verso l’alto o il basso. Appunto per questo diciamo che
all’inizio la volontà si trova di fronte
all’inflessibilità della Barriera, la volontà è
insieme avvolta da essa. Le
metafore spaziali qui sopra sottolineate aiutano a comprendere perché, essendo di fronte e
insieme avvolta dalla Barriera, il far
breccia in essa sia insieme un uscire da essa. 116
Appunto per questo, all’inizio del pensiero filosofico, Anassimandro ripropone il rapporto tra la
volontà e la Barriera, dicendo che le
cose del mondo, «separandosi»
dall’«Uno», «divino», ne escono - escono dal luogo da cui proviene la loro «nascita» ( génesis ). Far
breccia dall’esterno è lo stesso far
breccia dall’interno, uscendo da ciò da cui si è avvolti e commettendo «ingiustizia» (adikia).
La volontà può riparare l’ingiustizia (e
qui la volontà è il mondo stesso che si
è separato dell’«Uno») solo ritornando nel luogo, separandosi dal quale essa ha commesso ingiustizia: solo
morendo le cose che hanno voluto
separarsi dal divino possono «rendergli
giustizia per l’ingiustizia commessa ( didónai dìken tes adikìas). E così si comprende perché le cose
debbano tornare là da dove son venute.
Dove il sottinteso è che la morte subita
dalla volontà fino a che non riesce a far breccia sulla Barriera del «divino» è diversa dalla morte a cui la
volontà (ossia la totalità delle cose
del mondo) va incontro ritornando nel
divino. Tanto diversa da far dire, in seguito, che morire è incominciare a vivere la vera vita. Ma nel pensiero filosofico, e innanzitutto
in Anassimandro, è un sottinteso anche
la ferita del divino prodotta dalla
breccia con cui la volontà riesce a uscire e a staccarsi da esso. L’intenzione esplicita della filosofia, sin
dall’inizio, è di affermare, come dice
Anassimandro, che il divino è «eterno e
non invecchia», è «immortale e incorruttibile»; eppure la Barriera che la volontà umana trova dinanzi e
attorno a sé, a sbarrarle la strada, è
sentita da essa come la Potenza
dominante, sacra e divina come il Tremendum-Fascinans, l’Inflessible che dev’essere flesso, cioè
corrotto, reso vecchio, ucciso in quanto
Inflessibile, perché la volontà possa vivere.
(D’altra parte la Barriera, smembrata, è anche la condizione perché la volontà possa cibarsi delle sue
membra - e per questo, oltre che a
essere il Tremendum, essa è anche il
117 Fascinans .) E che l’uscire
delle cose dall’Uno divino sia inteso da
Anassimandro come ingiustizia è il trapelare, nell’esplicito, del sottinteso che il divino è ferito e
ucciso dall’avvento della volontà. Il
pensiero della tradizione filosofica deve trattenere nell’inespresso il sottinteso, cioè la
contraddizione per la quale il divino,
in quanto trascendente il mondo, Altro dal
mondo, è, insieme l’eterno e il perituro; il mito può permettersi di evitarla sia con la fede
nell’unità del divino e del mondano
(ripresa peraltro, in campo filosofico, dalle varie forme di immanentismo), sia con la fede
nell’esistenza di una molteplicità di
dèi (per la quale la morte riguarda uno o
alcuni di essi ma non gli altri), sia con la fede che il divino non muore definitivamente, ma muore e
risorge. Ma, detto questo, la questione
decisiva rimane ancora tutta da
esplorare. Riguarda il senso autentico della volontà alla quale invece ci si affida come alla cosa più
sicura del mondo. Non si scorge che la
storia della volontà si svolge interamente
al di fuori di quel senso.
118 2. Essenza del nostro
tempo ed essenza del nichilismo Dai
Greci a Hegel la tradizione filosofica è la volontà di indicare come si configura il contenuto del
sapere che ha il carattere dell’assoluta
incontrovertibilità e stabilità: Yepistéme
(alla lettera: il «sovra-stare») della verità. Tale epistéme è per Platone tò anamàrteton (Civitas, 477, 35 -
una parola che è negazione della
negazione di màrtys, «testimone», colui che
essendo in presenza delle cose non può errare nei loro confronti). Dai Greci a Hegel, Yepistéme a
cui compete il carattere
delfincontrovertibilità ha un contenuto che non
solo è «ciò che è», l’«ente» (tò ón ), ma è l’ente che assolutamente (pantelós) e primariamente è,
l’Ente immutabile ed eterno, il divino
che è fondamento (trascendente o
immanente) degli enti che sono ma non sono
assolutamente, cioè divengono, vanno dal loro non essere al loro essere e viceversa. Per la tradizione filosofica Yepistéme è
prevalentemente sapere metafisico. Con
alcune rilevanti eccezioni (ad esempio
lo scetticismo), la più profonda delle quali è l’antimetafisicismo kantiano. Che però
intende mantenere il carattere primario
àe\Y epistéme della verità, cioè
l’incontrovertibilità, e che come immutabile pone la struttura a priori della soggettività finita
(immutabile, quindi, sino a che il
soggetto esiste). Si può dire allora che la tradizione filosofica è la storia
delfincontrovertibilità dell’epistéme e del
modo in cui l’ente diveniente ha il proprio fondamento nell’Ente immutabile - che nell’ epistéme
metafisica è Dio. Vessenza della
filosofia degli ultimi due secoli è invece la
distruzione di questa grandiosa concezione della realtà. Distruzione, dunque, che - nella sua essenza,
appunto - è a sua volta grandiosa.
Purché la si sappia cogliere. Oggi come
ieri, sia l’esistenza sia l’inesistenza di Dio sono 119
per lo più affermate e vissute all’interno di una fede, cioè di una scelta che da ultimo è arbitraria (anche
quando si presenta come «ragionevole»,
rationabile obsequium). Sul piano
filosofico, il modo in cui oggi si contrappongono amici e nemici di Dio non è per lo più consapevole
della grandezza e profondità della lotta
tra il presente e il passato della
filosofia. Tanto più grande e profonda, questa lotta, quanto meno entrambi gli avversari si rendono conto
che l’abbandono del passato non è una
semplice scelta o una semplice
constatazione storica, ma è la fondazione
incontrovertibile delVimpossibilità del Dio metafisico. Nello stesso mondo filosofico la grandezza di
quella lotta rimane cioè sullo sfondo, o
addirittura sepolta. Non mancano certo
forza e competenza, a quel mondo, che si
usa ancora dividere tra «analitici» e «continentali». Ma le due prospettive sono molto meno divise di
quanto possa sembrare. Giacché per
entrambe la fine deH’affermazione
filosofico-metafisica di Dio è per lo più fuori discussione. Tanto che in entrambe è ormai quasi del tutto
assente la discussione sull’autentico
fondamento filosofico che ha condotto
alla negazione di Dio. Una negazione che tende
quindi a regredire, e nell’ambito stesso della filosofia, al
livello che è proprio della fede. Accade
quindi non di rado che oggi sia la
filosofia stessa a dichiarare di non voler essere una fondazione dell’impossibilità di Dio, ma, ad
esempio, di essere la semplice
constatazione che la fede in Dio, almeno in certi luoghi del pianeta, va scomparendo; oppure di
essere una scelta, una prassi - dunque
una fede, che preferisce un universo in
cui Dio non esista. Rinunciando a quella
fondazione, e a ogni fondazione
assoluta, la filosofia contemporanea si presenta come quel «relativismo» o «nichilismo» concettualmente
inconsistente a cui gli epigoni della
tradizione filosofica - tra cui la Chiesa
120 cattolica - trovano comodo
o tendono a ridurre tutto ciò che la
filosofia ha pensato negli ultimi due secoli. Ma in questo modo quegli epigoni non riescono ad avere di
fronte il loro autentico avversario, e
gli avversari della tradizione filosofica
ignorano la forza speculativa della tesi che essi sostengono. Da tempo i miei scritti mostrano la distanza
tra Yessenza profonda e tendenzialmente
nascosta del pensiero filosofico del
nostro tempo e il fenomeno in cui tale essenza si presenta alterata e svigorita, e che è costituito
appunto da quel «relativismo» e «nichilismo»
di cui ci si può sbarazzare molto
facilmente. L’avversario
autentico della tradizione filosofico-metafisica è appunto quell’essenza. Tale essenza - si
diceva - è la fondazione radicale
delfimpossibilità di Dio. «Radicale»
significa «che procede dalla radice stessa della storia dell’Occidente», la radice che fa vivere sia
gli amici sia i nemici di Dio, sia
l’essenza del pensiero filosofico del nostro
tempo sia il fenomeno di tale essenza - non filosofi e filosofi, uomini di azione e di pensiero. Questa radice
è la persuasione che le cose del mondo
siano un divenire in cui esse escono dal
nulla e dopo un provvisorio soggiorno nell’essere ritornano nel nulla. Per la filosofia che è amica di
Dio questa oscillazione delle cose tra
l’essere e il nulla non è un assurdo
solo se esiste un Dio immutabile ed eterno; per Yessenza della filosofia del nostro tempo tale oscillazione
non è un assurdo solo se il Dio
immutabile ed eterno non esiste. È appunto sul
fondamento della persuasione che le cose del mondo vengono dal nulla e vi ritornino che Yessenza del
pensiero filosofico del nostro tempo
mostra che Dio è qualcosa di impossibile - e
che quindi è illusorio ritenere che il divenire del mondo sarebbe un assurdo se Dio non esistesse. Tale
essenza è la fondazione «radicale»
delfimpossibilità di Dio perché si fonda
sulla radice che essa ha comune con la tradizione 121
filosofica da essa distrutta. In questa radice consiste Yessenza autentica del nichilismo la cui forma più
coerente si presenta nell’essenza del
pensiero filosofico del nostro tempo.
Non è questa la sede per approfondire il senso concreto di questi cenni. Qui si può solo indicare il
senso generale del discorso, rinviando,
per quel suo senso concreto, agli scritti
sopra menzionati - che mostrano la Follia estrema dell’essenza autentica del nichilismo e
quindi mostrano che la persuasione che
le cose oscillino fra l’essere e il nulla è
soltanto una fede. Innanzitutto,
ciò che è stato chiamato «essenza della
filosofia del nostro tempo» ha un contenuto storico determinato: è un nucleo, circondato da un
alone che più si distanzia dal nucleo
più ne perde di vista la potenza. Per
quanto è possibile guardare nel sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo, il nucleo ha un
perimetro breve. È costituito dalla
dimensione centrale del pensiero di Nietzsche
e daH’attualismo di Giovanni Gentile. E, prima di entrambi - e conosciuta da entrambi -, la filosofia di
Giacomo Leopardi. All’alone appartengono
invece pensatori che oggi sono ritenuti
tra i più decisivi, come Heidegger e Wittgenstein. Non si tratta di mettere in questione la loro
importanza, bensì di rendersi conto che,
nonostante essa, in modi differenti lasciano
aperta la porta a un Dio che ritorni dall’esilio in cui è fuggito. Una porta che invece non è lasciata
aperta dai pensatori di quel sottosuolo
essenziale (e dunque da Leopardi, la cui
potenza filosofica, soprattutto nella filosofia
anglosassone, è completamente sconosciuta). L’essenza della filosofia del nostro tempo
consiste nel mostrare che se esistesse
il Dio immutabile ed eterno della
tradizione, esso sarebbe la Legge a cui dovrebbe adeguarsi anche il nulla da cui le cose provengono e il
nulla in cui esse ritornano. Pertanto
il nulla diverrebbe un ascoltatore e un
suddito di tale Legge, cioè non sarebbe più un nulla, ma un ente. Ma la persuasione che gli enti
provengono dal nulla e vi ritornano
implica necessariamente che l’ente e il nulla
differiscano - un’implicazione, questa, che sussiste anche se, nell’ambito dell’essenza della filosofia del
nostro tempo, il principio di non
contraddizione è visto come negazione del
divenire e quindi è rifiutato. All’interno di quella persuasione, la negazione dell’esistenza del Dio
immutabile ed eterno della tradizione è
incontrovertibile perché tale esistenza implica
necessariamente che il nulla sia ente - il nulla senza di cui è impossibile quel divenire degli enti che sta
al fondamento non solo del pensiero
metafisico (che procedendo dal divenire
intende condurre al Dio eterno) e del pensiero che invece distrugge la tradizione metafisica, ma anche
delle stesse opere e istituzioni che
costituiscono la civiltà dell’Occidente.
Se si ignora tutto questo - se si ignora cioè la grandezza della lotta tra tradizione e distruzione
radicale di essa - anche il dialogo tra
credenti e non credenti rimane alla superficie,
ossia è un equivoco dove non si riesce a scorgere il dramma autentico del mondo attuale. L’essenza della
filosofia del nostro tempo mostra
l’impossibilità di porre limiti assoluti
all’agire dell’uomo - e dunque a quella forma suprema dell’agire che è la tecnica guidata dalla
scienza moderna e il supremo Limite
assoluto è la Legge in cui consiste il Dio
immutabile ed eterno. Oggi la tecno-scienza non è ancora in grado di ascoltare la voce dell’essenza della
filosofia del nostro tempo. Nessuna
meraviglia, visto che nemmeno la filosofia
contemporanea e il cosiddetto «laicismo» sono in grado di ascoltarla e si riducono a essere una
semplice fede nell’inesistenza di Dio.
Ma quella voce e la tecnica esistono, ed
è inevitabile che si finisca col comprendere che la loro unione consente la maggiore potenza di cui
l’uomo abbia mai 123 potuto disporre. È questa unione
l’autentico avversario del Dio della
tradizione: non l’incredulità dei popoli europei o il consumismo dell’«Occidente». Ma il passo decisivo verso il dialogo
autentico, quello tra le due grandi
forze in lotta tra loro - l’essenza del passato e l’essenza del presente della civiltà
occidentale, ormai planetaria - è il
loro prender coscienza della propria anima
comune: io. fede che le cose del mondo escono dal nulla e vi ritornano. Che non ci sia bisogno di un Dio
perché ciò accada è la fede vincente
rispetto alla fede che invece ritiene che di un
Dio ci sia bisogno. Ma se ciò per cui le due fedi si oppongono è certo grandioso, esso è ciononostante
qualcosa di subordinato rispetto
all’esistenza di quell’anima comune, cioè
rispetto alla fede che le cose hanno nel nulla la loro culla e il loro sepolcro. Abbiamo più volte chiamato fede quell’«anima
comune» che invece, sia per gli amici
sia per i nemici di Dio, è l’evidenza
suprema. Infatti a questo punto si tratterebbe di volgersi verso il culmine del pensiero e di
lasciarsi alle spalle anche quel passo
decisivo, cioè anche il dialogo autentico tra il passato e il presente dell’Occidente.
Volgendosi verso quel culmine si
vedrebbe che in entrambi - cioè sia
nell’affermazione sia nella negazione di Dio - è presente il senso più radicale del nichilismo, ossia la
convinzione che le cose (ossia gli
essenti, che non sono un nulla) sono nulla:
proprio perché, intesi come divenienti, sono originariamente e conclusivamente nulla. E, come sopra si
accennava, la convinzione che ha come
contenuto l’Errore estremo, l’estrema
Follia, non può essere che una fede.
L’anima comune degli amici e dei nemici di Dio è l’essenza del nichilismo, cioè dell’eccidio
dell’essere. E, insieme, è la forma
fondamentale dell’omicidio. La convinzione che 124
l’uomo, di per sé, sia nulla, e come le altre cose sia il prodotto di Dio o del Caso, è infatti il requisito
essenziale perché si decida di rendere
l’uomo un nulla. (Ma ogni decisione non è
forse, ormai, la volontà di far passare le cose dall’essere al nulla e dal nulla all’essere? Non è forse,
ogni decisione, un eccidio? Il
linguaggio stesso non avvicina forse il de-cidere e l’uc-cidere?) 125
3. Il deserto e il profumo
Nonostante il riconoscimento altissimo e crescente della sua grandezza poetica e filosofica, il genio
di Leopardi, insieme al genio di
Eschilo, è forse quello di cui meno si è
visto il carattere decisivo nello sviluppo storico della civiltà - dunque non «soltanto» della cultura -
occidentale. L’accostamento dei due
nomi non è casuale. Eschilo appartiene
al ristretto convegno di sovrani con il quale
incomincia la filosofia. Appunto per questo la sua poesia è tragica. La filosofia, infatti, porta alla
luce il pericolo estremo: che il
divenire delle cose del mondo è il loro venire dal nulla e il loro ritornare nel nulla, da cui non si
ritorna più, sì che anche la morte
dell’uomo assume il volto e l’anima tragici
dell’annientamento. Se non ci si rivolge a questo, che è il passato essenziale dell’Occidente, si perde
di vista il senso autentico di ciò che
Leopardi ha inteso dire nelle sue «prose»
e nelle sue «poesie». Anche quel
portare alla luce è qualcosa di assolutamente
inaudito. La filosofia è la radice del tragico perché intende lo sta -re nella luce (nella quale essa stessa
consiste) come la sta¬ bilità del sapere
che non può essere in alcun modo scosso o
smentito. La filosofia evoca il senso stesso della sta-bilità assoluta del sapere innegabile. La chiama,
appunto, «epi-sté- me» (in cui risuona
lo sta -re e che inadeguatamente
traduciamo con la parola «scienza»). La stabilità dell ’epistéme è l’essenza della verità. Porta oltre i
millenni dell’esistenza guidata dal
mito. Ma proprio perché attribuisce questa
stabilità al sapere che afferma il divenire dove le cose escono e ritornano nel nulla (proprio perché afferma
che Tesser preda del nulla è verità), la
filosofia getta l’uomo nelYangoscia più
profonda, più profonda di quella di cui il mito è il rimedio e che ancora non si è imbattuta nel nulla. Il
mito conferisce al mondo un senso che
non si mostra nella luce, ma è voluto, e
quindi, da ultimo, è una fede, un arbitrio, anche se chi vive nel mito non se ne avvede e crede che esso
mostri la realtà. Tuttavia la filosofia
è, insieme, la radice del senso che la
tradizione dell’Occidente conferisce alla salvezza, perché fa sorgere nell’uomo anche la ricerca del «saldo
rimedio» (secondo l’espressione di
Eschilo) contro il dolore e l’angoscia.
Sin dall’inizio il pensiero filosofico porta alla luce l’esistenza di un «Principio» {arche) divino,
eterno e incorruttibile, sì che la
nascita delle cose è dovuta al loro
«separarsi» da esso e la loro morte è il loro farvi ritorno, lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia
tutto ciò che nelle cose è l’effetto di
quella separazione (Anassimandro). Il
Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che
dà senso al mondo e al dolore è avvolto
dal divino, e tuttavia non si mostra
nella luce, non è «saldo». Eschilo, per
primo in modo esplicito, porta alla luce che
Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio contenuto divino, è il fondamento della
salvezza e della felicità. Questo
pensiero è il fondamento di ogni forma
culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo con un linguaggio che non
può essere quello comune e che solo
impropriamente è riconducibile al
«teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per Eschilo, è la ricerca che culmina nella
contemplazione della «Verità». Il «dialogo»
di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in
genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere nel «teatro» di Eschilo il proprio più
potente predecessore. Leopardi, per
primo, rovescia tutto questo; dice «tutto
l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del quadro grandioso della tradizione
occidentale. Un altrettanto 127 grandioso, terribile e inevitabile gesto,
quello di Leopardi, la cui potenza è
rimasta incompresa anche da quanti (come lo
stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della cultura europea. Ma come è possibile capire
questo gesto - presente in ogni verso,
anzi in ogni parola di Leopardi - se non
si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto, ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente
tentato di indicare? A proposito di un passo di Diogene Laerzio,
in cui si richiama il fondamentale
principio di Socrate, Leopardi afferma:
«Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»: nel senso che «dobbiamo», che «è necessario»,
che è tutto l’opposto a dover esser
portato alla luce dalla filosofia. Che
cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un
solo male [kakón], il non sapere [
amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere» (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni
bene, infatti, è tale solo se è vero, se
appare non nell’opinione, nella fede, nel
mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la
morte, solo se esso è un vero, saldo
rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui data sono portati alla luce
dall’ epistéme della verità. Quest’ultima
è dunque la radice di ogni bene, e, in
questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la
felicità e la salvezza del male,
prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del
mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra
che è «tutto l’opposto», cioè che Yepistéme
è l’unico male e che il non sapere
(amathia ) è l’unico bene. Alla
base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, sta la scoperta angosciante che non può
esistere alcun 128 Principio eterno, incorruttibile, divino,
e che quindi tutte le cose sono nulla,
perché sono circondate dal nulla infinito che
le precede, le segue e le attraversa.
Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e
muoiono - si è qui al cuore
deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e
illusoria apparenza; laddove l’uscire
dal nulla e il ritornarvi sta al centro della
verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è
innegabile, la verità è che l’Eterno,
l’Infinito è impossibile. Questa, la potente
anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte di Dio».
Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per
l’uomo non saperla, la verità, che
saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme.
(Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e
stupenda, cit., che ho pubblicato per
Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e,
per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989). Leopardi può in tal modo portare alla luce
il legame profondo che unisce Yamanthìa,
l’ignoranza della verità, alla poesia e
all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è
illusione, inganno, menzogna, senza di
cui la vita sarebbe però impossibile.
Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno
letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella
dove il canto fa sopportare il dolore e
la morte. Nell’illusione poetica - che
peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di essere in rapporto
all’Infinito e aH’Eterno. 129 In un primo tempo Leopardi crede che, per
illudere, la poesia non debba mostrare
la verità, cioè la nullità di tutto - e
il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo atteggiamento, dove il naufragio nel
«mare» delFInfinito è «dolce». Ma poco
dopo egli sviluppa la grande teoria del
«genio» che unisce nella propria opera la verità terribile dell’esistenza e la potenza
poetica: unione di filosofia e poesia.
Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il contenuto del canto, ma, sia pure
provvisoriamente, convergono nella
potenza del canto, in modo che «l’anima
riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua
propria». Infinita ed eterna è questa
forza: non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre
finita e caduca, con cui egli riesce a
esprimere la morte, cioè la finitezza e
caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma di vita della cui infinità e eternità ci si
può ancora illudere. E sono la suprema
salvezza e «consolazione» concesse a chi non
può salvarsi né essere consolato.
La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e nullità di tutte le cose; il «fiore» è il
genio. Egli è mortale, nasce per morire,
e questa nascita è «natura». Ma «nobile».
«Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il suo «profumo» (la potenza del canto) e
Yepistéme della verità che vede il
«deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un
profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare dell’Infinito
illusoriamente cantato come reale:
l’Infinito è morto («è distrutto Iddio»,
scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e il deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce 130
gli occhi mortali incontra al
comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte. Il pensiero poetante del genio ha l’ardire
di guardare con occhi mortali la morte
(«il comun fato»), non nasconde la
verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia
l’unico bene, ma è la nobile natura che
unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto
poetico e che intende come «vero amore» il porgere agli uomini questa unione. Come vero amore e come
unico rimedio di cui gli uomini, dopo
quello di Dio e della Tecnica, potranno,
sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del «vulcano ardente» abbia a distruggere la
ginestra, il fiore del genio, che cresce
vicinissimo al fuoco annientante, perché ne
vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo «profumo» «consola» il deserto. Il «genio» che consola il deserto non è la
volontà dell’«oltreuomo» che, in
Nietzsche, accetta il deserto e ne vuole
l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica di Nietzsche, da questa «vetta della
contemplazione», come egli la chiama,
che si porta ancora più in alto della vetta
raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui linguaggio sta tuttavia più in alto del
linguaggio di Nietzsche), allora si può
dire che sia come filosofia sia come poesia il
pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se
ciò che viene portato alla luce dall’
epistéme della verità è il vortice che getta
le cose nel nulla dopo averle per un poco sottratte all’abisso del nulla, allora il pensiero di Leopardi
indica la conclusione inevitabile della
storia dell’Occidente e del mortale. Ma
proprio a questo punto si fa innanzi la questione decisiva. Possiamo formularla così: è così
indiscutibile che quel vortice - in cui
crede sia la tradizione dell’Occidente, sia
la distruzione di essa, avviata dal pensiero di Leopardi - 131
appartenga all’evidenza assoluta, cioè all’assolutamente indiscutibile? 132
4. «Morte di Dio» e «anello del ritorno» a) La sequenza essenziale Ogni linguaggio è problematico: non solo
quel che esso dice lo dice all’interno
di un’interpretazione, che non può mai
essere una verità assoluta, ma lo stesso esser linguaggio del linguaggio è il contenuto di una
interpretazione. Noi dialoghiamo perché,
nonostante la problematicità
dell’interpretazione - che non si riferisce soltanto al linguaggio delle parole, ma anche a quello
del comportamento, ma poi a tutte le
cose dalla terra e del cielo -, abbiamo
fede (per lo più inconsapevolmente) che il nostro interlocutore (se esiste) sia a sua volta un
interpretare e ponga a fondamento del
suo interpretare le stesse regole che noi, e,
daccapo, per lo più inconsapevolmente, poniamo a fondamento del nostro. Ma anche «noi» - e
anch’«io» - siamo contenuti di una
interpretazione. Di solito quelle regole non
vengono messe in discussione. Ad esempio che esista un prossimo, una società, che certi eventi
sensibili siano linguaggio, che un certo
oggetto sia un libro e che sia scritto
in una certa lingua. È all’interno di queste regole e del tipo di interpretazione che ne scaturisce in virtù di
certe altre regole - analoghe alle
«regole di trasformazione» di cui parla la
logica - che appare qualcosa come Storia dell’uomo. Storia dell’Occidente, o come Aristotele o Nietzsche
(o un certo Nietzsche). Con queste considerazioni non si intende
affermare che ogni sapere sia
interpretazione. Anzi, solo sul fondamento
dell’apparire della verità autentica si può affermare che un certo ambito delle convinzioni umane è
interpretazione, ossia non-verità. Nietzsche appartiene all’esito inevitabile
della storia del pensiero occidentale -
e della stessa civiltà dell’Occidente (cfr.
133 E.S., L’Anello del
ritorno, Adelphi 1999). L’attenzione
maggiore deve essere dunque rivolta all ’inevitabilità della distruzione del passato, a cui Nietzsche ha
potentemente contribuito. Che Dio sia morto
non è dovuto alla semplice circostanza
che - come lo stesso Nietzsche qualche volta
ritiene - la gente non crede più in Dio. La tendenza dei popoli è indubbiamente questa - nonostante il peso
che le religioni hanno riacquistato
negli ultimi tempi. Ma le tendenze, anche,
si possono invertire. Se domani i popoli si rivolgessero di nuovo a Dio dovremmo forse dire che Dio è
risorto? L’«obbiezione storica
decisiva», che per Nietzsche
consisterebbe appunto nell’attuale incredulità della gente, non ha nulla di decisivo. La potenza del pensiero
di Nietzsche sta altrove. Non la si trova nemmeno quando si riduce il
pensiero di Nietzsche al
«prospettivismo» - che sostanzialmente non
differisce dallo scetticismo. (Che peraltro può presentarsi in forma non ingenua quando - di fronte ad
avversari che si limitano a rilevare la
contraddizione della sua tesi che
sostiene la verità dell’inesistenza di verità - esso può replicare chiedendo per quale motivo non ci si debba
contraddire; e a questa sua domanda ben
pochi sono in grado di rispondere in
modo adeguato.) Nella sua
essenza autentica - tanto più autentica quanto
più nascosta e quanto più rara - il pensiero del nostro tempo non è scetticismo. Non lo è, certamente, il
pensiero di Leopardi e di Giovanni
Gentile. Costoro, insieme a Nietzsche,
seminano l’essenza del nostro tempo. L’essenza del nostro tempo conduce alla sua forma più rigorosa
l’essenza dell’Occidente, cioè la fede
nell’esistenza del divenire, inteso
nella configurazione ontologica che i Greci una volta per sempre gli hanno assegnato: la fede
nell’evidenza originaria e
irrinunciabile di tale configurazione.
134 Appunto sul fondamento
della fede nell’evidenza del divenire -
inteso secondo tale configurazione - Nietzsche
(come Leopardi e Gentile) mostra l’impossibilità di Dio. Si tratta di capire l’incontrovertibilità -
Yinevitabilità, appunto - di questa
fondazione. Che Dio sia morto - cioè che
non sia mai stato vivo se non nella volontà dei popoli - è una necessità. Si tratta di capire il senso di
questa necessità. E, insieme, di capire
che Nietzsche porta al culmine la storia
dell’Occidente anche perché mostra che la forma di potenza che la tecnica è destinata ad assumere per
essere la potenza suprema è la potenza
della volontà che vuole l’eterno ritorno
di tutte le cose. Capire cioè
che, proprio perché è necessario che Dio sia un
morto, proprio per questo è necessario l’eterno ritorno di tutte le cose ed è necessario che tale
ritorno divenga il contenuto essenziale
della volontà che costituisce la tecnica.
Nel Così parlò Zarathustra di Nietzsche il Dio che non può esistere è chiamato da Zarathustra l’«Uno»,
il «Pieno», il «Satollo», l’«Immoto»,
l’«Imperituro». La fede nel divenire,
che accomuna tutti i pensieri e tutte le opere dell’Occidente, implica con necessità l’impossibilità
dell’esistenza di questo Dio.
Zarathustra dice: «Affinché vi apra tutto il mio cuore, amici, se vi fossero degli dèi, come potrei
sopportare di non essere Dio! Dunque non
vi sono dèi» ( Sulle isole beate). Ma
nell’ Anello del ritorno si mostra che la premessa autentica di quel «Dunque» è quanto Zarathustra dice verso
la fine del capitolo: «Che cosa mai
resterebbe da creare se gli dèi
esistessero?». Ma nemmeno questa è un’affermazione che non abbia bisogno di essere compresa. Nietzsche
aveva ragione ad affermare
l’indispensabilità di una cattedra universitaria per la comprensione di Così parlo Zarathustra, da
lui considerato il più importante dei
suoi scritti. 135 Se si vuole richiamare in astratto la
sequenza essenziale che costituisce la
grandezza del suo pensiero, ci si può esprimere
così: la creazione e l’annientamento delle cose sono l’evidenza originaria. Tale evidenza implica con
necessità l’impossibilità di ogni Dio.
La stessa necessità che implica tale impossibilità comporta l’eterno ritorno di tutte le cose,
il ritorno che in quanto voluto dalla
volontà di potenza conferisce alla tecnica
la potenza estrema (dove l’essenziale è la configurazione concreta di tale «necessità»). Questa è una indicazione astratta. Senza la
concretezza corrispondente (a cui
L’anello del ritorno si rivolge) si fa poca
strada. Ma è l’indicazione della sequenza essenziale. Ciò significa che tale sequenza non esprime le
molteplici tematiche che nel discorso di
Nietzsche le sono più o meno
strettamente connesse. Credo che l’interpretazione della sequenza essenziale presente neWAnello del
ritorno esprima qualcosa che appartiene
a Nietzsche: l’essenziale, appunto. Se
ciò non fosse (ma non mi è nota alcuna alternativa che abbia la capacità di modificare questa mia
convinzione), ebbene non avrei troppe difficoltà
ad affermare - modestia invita - che
quella sequenza non cesserebbe di essere essenziale, per la storia dell’Occidente (non cesserebbe di
esserne il culmine), per il fatto di non
appartenere a Nietzsche. b) «Affinché
vi apra tutto il mio cuore» «Che cosa
mai resterebbe da creare se gli dèi esistessero?» Nulla! Questa è la risposta richiesta
dall’interrogativo retorico. Creare e
annientare: sono gli aspetti fondamentali
del divenire, secondo il senso che i Greci hanno assegnato al divenire: andare dal non essere all’essere e
dall’essere al non essere. Creare:
condurre nell’essere ciò che non era, che era
nulla. Annientare: riportare nel nulla ciò che era riuscito a essere. Negare l’esistenza del creare e
dell’annientare è negare 136 1’esistenza del divenire, ossia di ciò che
per l’Occidente è l’evidenza
suprema. Che cosa mai resterebbe da
creare, all’uomo, se gli dèi
esistessero? Nulla! L’esistenza degli dèi rende impensabile la potenza creativa e annientante dell’uomo cioè
la vita dell’uomo - giacché è questa
potenza a formare il centro di ogni
divenire, e dunque il centro dell’evidenza originaria. Ma perché l’esistenza degli dèi rende
impensabile e impossibile il creare e
l’annientare dell’uomo? Incominciamo a
rispondere dicendo il motivo per il quale
Zarathustra attribuisce al dio i caratteri dell’esser «l’Uno e il Pieno e l’Immoto e il Satollo e
l’Imperituro». È ben più profondo di
quanto non sembri a prima vista. Il dio è pieno e sazio. Pieno di tutta la realtà, che sta
raccolta nell’immutabile e imperitura
unità che lo costituisce e lo sazia. Il dio è questa unità anche se lo si pensa separato dal
mondo. Il mondo non aggiunge nulla alla
pienezza del dio, che dunque è sazio anche
se ha lasciato al di fuori di sé il mondo. Pertanto il dio prescrive sé stesso a tutte
le cose. Ne è la Legge. Egli non può non
prescrivere sé stesso; non solo a tutto
ciò che è già, ma anche a tutto ciò che sarà e a tutto ciò che è già stato. Se qualcosa, al di fuori del dio,
avesse una propria legge, un proprio
ordine e senso, una propria vita, diversi da
quelli in cui il dio consiste, il dio non sarebbe ancora sazio, avrebbe ancora qualcosa di cui potersi
saziare. Egli prescrive sé stesso al
presente, al passato, al futuro, al
tutto, prescrive la propria costituzione, cioè la legislazione in cui egli consiste e che egli proietta intorno
a sé, nei secoli dei secoli, catturando
e mantenendo tutto dentro di sé, sazio da
sempre e per sempre. È già sazio di tutto. All’uomo e al divenire dell’uomo e della terra non resta
dunque nulla. Nulla da creare e da
annientare. Il divenire sarebbe impossibile, «se 137
vi fossero degli dèi». Se vi
fossero, «come potrei sopportare di non essere dio!?», dice Zarathustra. Non si tratta di una
esclamazione vana e infine patetica.
L’insopportabile non è tale per un individuo
dalle molte pretese, ma per il pensiero che intende vedere la verità e che non può sopportare che
l’esistenza del dio renda impossibile e
impensabile la verità, cioè l’evidenza originaria e irrefutabile del divenire. Il dio è infatti
la Legge suprema a cui tutto deve
adeguarsi, che non può tollerare che dal nulla
emerga una novità da lui non prevista, la quale sconvolga la sua legislazione e mostri che solo
apparentemente egli era sazio e immoto.
Con la propria pienezza e sazietà egli ha già
raggiunto tutto e non può essere raggiunto e sorpreso da alcunché. È «pieno» perché ha riempito tutto
di sé. Che cosa resterebbe da creare,
che divenire resterebbe, se egli avesse
tutto riempito con la Legge; in cui egli consiste e avesse raggiunto e occupato futuro, passato,
presente, imponendo al futuro di non essere
un futuro, un ancor nulla, ma di esser già
una regione totalmente adeguata alla Legge; e, trattenendo a sé il passato, impedendogli di essere un
ormai nulla e prescrivendogli quindi di
non sottrarsi alla Legge, andandosene in
una regione dove si possa essere liberi da
essa? Che vita resterebbe all’uomo da vivere se tutto questo dovesse esistere? Nessuna. Eppure è evidente
che l’uomo vive. Dunque dio non può
esistere. Il divenire implica che
esista un non essere da cui gli enti
divengono e in cui ritornano. Ma un dio immutabilmente pieno e sazio ha già da sempre riempito tutti
gli spazi vuoti del non essere: da essi
non può provenire alcunché di cui egli
non sia già sazio, e nemmeno nel vuoto in cui le cose si portano possono trovarsi mondi ed eventi di
cui egli non si sia ancora impadronito o
che si sia lasciato sfuggire di mano.
Ciò significa - ecco il tratto decisivo e fondamentale - che 138
1’esistenza del dio, la cui legislazione si estende al tutto e alla totalità del tempo, trasforma il non essere,
che è necessariamente richiesto dal
divenire, in un ascoltatore e in un
suddito dell’essere. Il dio identifica il nulla con l’essere, e quindi cancella il divenire, cioè l’evidenza
originaria e suprema del pensiero e
delle opere dell’Occidente. Molti a
questo punto possono domandarsi se sia così
scandaloso per Nietzsche che il nulla sia essere e l’essere sia nulla. Non è forse ben nota la
spregiudicatezza di Nietzsche nei
confronti dei principi «logici»? Eppure, chi crede nell’esistenza del divenire, quella
spregiudicatezza non può averla - o ha
un senso del tutto diverso da quello che
comunemente le si assegna.
Credere nel divenire significa infatti credere nella differenza tra il prima e il poi, tra ciò che
ancora non è, ed è un nulla, è ciò che
ormai è, tra ciò che è ciò che ormai non è
più e daccapo è nulla. Tutte le forme di negazione del principio di non contraddizione proposte dal
pensiero del nostro tempo negano tale
principio in quanto esso si presenta ai
loro occhi come negazione del divenire, ossia come negazione del senso autentico della non
contraddittorietà, del senso consistente
appunto nella ineliminabile differenza, nella
struttura del divenire, tra il prima e il poi, tra l’essere e il nulla.
Oggi si crede che i problemi dell’uomo possano essere risolti da un ritorno ai valori, alla tradizione
dell’Occidente e soprattutto alla radice
di tutti quei valori, che è Dio. Ma è un
passato che agli occhi di Nietzsche si presenta come una foglia secca, ancora attaccata al ramo - una grande
foresta disseccata che all’uomo della
tradizione appare ancora come una
vegetazione animata dalle linfe della terra e quindi ancora capace di guidare l’umanità. Ma se Dio è
veramente morto 139 come è ancora possibile questa
illusione? c) Eterno ritorno e
tecnica La seconda parte di quella che
sopra abbiamo chiamato la «sequenza
essenziale» del pensiero di Nietzsche afferma che la stessa necessità che implica l’inesistenza di
Dio implica anche l’eterno ritorno di
tutte le cose. Si può esprimere questa tesi
anche dicendo che in Così parlò Zarathustra non si deve perdere di vista la concatenazione essenziale
di tre capitoli che nel testo compaiono
invece separati l’uno dall’altro: Sulle
isole beate, Della redenzione. La visione e l’enigma. La visione e l’enigma racconta l’eterno
ritorno di tutte le cose. Zarathustra
racconta che ci sono due strade, una che
procede in avanti, l’altra all’indietro. Da come si presentano, non si dovrebbero mai incontrare; eppure, assicura Zarathustra, si incontreranno e tutte le cose
che camminano su di esse si
ripresenteranno, e infinite volte, così come una volta si sono presentate - ad esempio questo
ragno e questo chiaro di luna e il
colloquio tra Zarathustra e il nano.
Zarathustra, qui, «racconta».
Eppure a Nietzsche è del tutto estranea la volontà di «raccontar miti». La sua è una «gaia
scienza». Gaia; ma scienza. Non la
scienza come epistéme che afferma resistenza
di Dio, ma come conoscenza che tuttavia intende essere incontrovertibile e innanzitutto
affermazione incontrovertibile
dell’esistenza e dell’evidenza del divenire di
tutte le cose e, su questo fondamento, conoscenza incontrovertibile della morte di Dio, ossia
di ciò che rende impensabile e
impossibile resistenza del divenire. Il
pensiero di Nietzsche appartiene al culmine dell’essenza autentica del nichilismo - all’essenza cioè
cui si rivolgono i miei scritti
mostrando la Follia estrema -; ma, proprio perché è la forma più radicale del nichilismo, esso
è anche la forma 140 più radicale di fedeltà alla fede nel
divenire. Gli amici di Dio, che pure
fondano questa loro amicizia su tale fede, non
posseggono tale fedeltà. Appunto per questo sono destinati al tramonto e a essiccare anche se sono
attaccati ai rami. Il genio di Nietzsche
sta nel rendersi conto che il rapporto fra la
creatività dell’uomo e Dio è del tutto analogo al rapporto fra tale creatività e il passato. Come il Dio immoto, imperituro e sazio è
immodificabile dalla volontà umana, così
il passato si presenta all’uomo come
immodificabile dalla sua volontà. Sul passato non si può più intervenire, non lo si può cambiare. «Così
fu.» Ma questa - agli occhi della fede
nel divenire - è la voce della non-verità;
come è la voce della non-verità quella che afferma che Dio è vivo. Il passato possiede la stessa anima, la
stessa essenza dell’anima e dell’essenza
di Dio. Come l’immutabilità di Dio rende
impossibile il divenire, così il divenire è reso impossibile daH’immutabilità del
passato. Sebbene Zarathustra non usi
queste espressioni, si può dire che
anche il passato - quando sia visto da chi riesce a portarsi oltre l’uomo - è «l’Uno e il Pieno e l’Immoto
e il Satollo e l’Imperituro». La sua
esistenza è infatti la legislazione che
condiziona tutto il futuro. Non in senso deterministico, ma nel senso che anche quando ci si vuole
liberare dal passato e dai suoi
condizionamenti non si può evitare che esso sia stato così come è stato, sicché la liberazione da
ciò che non può essere diverso da come è
stato non può renderlo diverso da sé e
non può non esserne condizionata. Una liberazione apparente. Ci si potrà proporre di evitarne
le conseguenze, ma non si potrà evitare
che la totalità del futuro si mantenga
in relazione a ciò che non potrà mai diventare diverso da sé e a cui ogni futuro si dovrà quindi adeguare in
questo senso più profondo. In nessun
luogo del divenire si potrà evitare di
rimanere in relazione con ciò che non potrà mai non essere 141
più ciò che è stato. La
coscienza umana può «ricercare» il passato - pensa la fede nel divenire -, ma è prigioniera della
convinzione di non poter far sì che ciò
che è stato non sia stato. La legislazione in
cui anche il passato consiste potrà essere dimenticata ma non distrutta, e quindi anch’essa riempie di sé
ogni spazio vuoto del nulla in cui il
futuro consiste. Anche questo nulla diventa
quindi un ascoltatore del passato, un passato esso stesso; così come il nulla implicato dal divenire diventa,
con resistenza di Dio, un ascoltatore e
un suddito di essa, diventa cioè un
essere. Proprio perché non può essere modificato o annientato, il passato è il «macigno» che
anticipa il futuro, e quindi lo annienta.
Se esistesse un Immutabile, nessun
evento, per quanto lontano nel futuro, potrebbe non tenerne conto, ossia potrebbe configurarsi
indipendentemente da esso. Inoltre, da
un lato il passato è ciò che è diventato nulla;
dall’altro lato, tuttavia, ha un contenuto positivo che non rinuncia a sé stesso e al suo imporsi al
futuro, così come non vi rinuncia Dio;
sì che anche in questo senso il «così fu» è
l’identificazione del nulla e dell’essere. Anche il futuro, quindi, sino a che l’uomo
crede che il passato sia immodificabile,
si presenta come qualcosa che non
proviene più dal nulla - secondo quanto è richiesto dall’essenza del divenire -, ma proviene dal
«macigno» del passato, da cui dipende
come si dipende dal «macigno» di Dio.
Come Dio, anche l’immodificabilità del passato implica la negazione del divenire, cioè di quella
novità autentica che è la nullità di ciò
che è ancora un futuro. Come Dio, anche il
passato anticipa tutto, trasformando il nulla, senza di cui non ci può essere divenire, in un essere, in un
ascoltatore del passato. Pertanto, come è necessario affermare che
Dio è morto, 142 così è necessario affermare che è morto
anche il passato, in quanto esso è
pensato e vissuto come l’assoluta
immodificabilità del «così fu». La creatività della volontà implica cioè necessariamente la sua capacità
di trasformare il passato, di volere il
passato come si vuole il futuro. Si tratta
ora di indicare come ciò sia possibile.
d) Volere Veterno ritorno e volere il passato Ancora sulla base di Così parlò Zarathustra -
che nonostante i suoi tentativi di
sviare il lettore contiene tutti gli
elementi che rendono la dottrina dell’eterno ritorno una conseguenza inevitabile della fede nel
divenire - richiamiamo dunque il modo in
cui Zarathustra mostra come la volontà
possa volere il passato (il che essendo già stato fondato da quanto è stato qui sopra rilevato), senza
essere una semplice velleità. La volontà è il tratto essenziale del
divenire. La sua libertà è innanzitutto
il suo liberare da Dio e dal passato, e in generale da ogni forma che gli immutabili possono
assumere. Proprio per questo, è libera
nel senso che non è sottoposta ad alcun
disegno prestabilito. Non solo essa è casuale: è il caso stesso. Se essa si presenta dapprima come volontà che
vuole il futuro, ormai Zarathustra ha
mostrato l’unilateralità di questo
aspetto della volontà, cioè ha mostrato che essa è padrona del passato come del futuro. Essa vuole anche il
passato. Ma essa non può volerlo separatamente
dal proprio volere il futuro, perché
altrimenti il futuro, una volta voluto e ottenuto, diventerebbe un passato su cui la volontà non
ha potenza. È cioè necessario che il
volere «in avanti» - il volere che vuole il
futuro - sia lo stesso volere che vuole «a ritroso», ossia che vuole il passato. Questa identità è possibile
solo se volendo «in avanti» si percorre
un circolo: un percorso in cui si finisce
col ritornare al punto di partenza. Il percorso circolare - 143
l’«anello del ritorno» - rende possibile che, volendo il futuro, si voglia per ciò stesso il passato. Solo se
il divenire del mondo è un circolo, e un
circolo che ritorna su di sé alfinfinito - «un
anello del ritorno» -, la volontà che vuole il futuro vuole per ciò stesso il passato, e lo ottiene come
ottiene il futuro. Ogni punto del
circolo è un punto di partenza. Altrimenti,
se esistesse un punto privilegiato, esso sarebbe il punto immutabile, Yarchè del processo: sarebbe,
daccapo, un Dio immutabile che anticiperebbe
in sé la totalità del divenire,
vanificandola. Il circolo non ha né inizio né fine, nemmeno se inizio e fine sono il nulla (come invece
pensa Leopardi con un rigore che è
massimo all’interno di una prospettiva in cui,
tuttavia, non si vede ancora la necessità dell’eterno ritorno di tutte le cose), perché anche in questo caso
il divenire avrebbe una direzione, cioè
sarebbe sottoposto a una legge che
attribuirebbe al nulla i tratti che sono propri dell’anticipazione divina del tutto. Se il
nulla stesso fosse l’origine unica e
inamovibile da cui tutto proviene e il termine
a cui tutto ritorna (anche la scienza e in particolare la cosmologia si muovono per lo più nei paraggi
di questa tesi), il nulla preordinerebbe
il futuro e riceverebbe il passato in
modo analogo a quello in cui il futuro e il passato sono rispettivamente preordinati e conservati da
Dio. Ciò non significa che il futuro
non sia un uscire dal nulla e il passato
non sia un ritornarvi: significa escludere che i nulla del futuro e del passato si distacchino dai
punti del circolo dell’eterno ritorno e
si configurino come dimensioni
teologiche, immutabili, dominanti ed esterne rispetto alla casualità del divenire. Nemmeno il nulla può
essere lo scopo e il riposo eterno
dell’uomo. L’esistenza non ha senso.
Che il divenire abbia un «senso» è un modo di affermare che il divenire è guidato da un Dio. Appunto
perché è 144 impossibile che un qualsiasi immutabile
esista, è necessario che il divenire - e
cioè il tutto, la totalità di ciò che esiste - sia assolutamente senza senso. Come è impossibile
un inizio assoluto, così è impossibile
uno scopo assoluto. Il pensiero di
Nietzsche mostra dunque non solo che ogni
Dio, cioè ogni Immutabile, rende impotente la volontà, ma che la forma più potente della volontà è
quella in cui la volontà vuole l’eterno
ritorno di tutte le cose. Sino a che la
scienza guiderà la tecnica assumendo la potenza come una volontà che vuole soltanto «in avanti» e che
non sa di avere potenza anche sul
passato, ossia non sa di essere, essa, l’eterno
ritorno di tutte le cose, la tecnica non potrà raggiungere la potenza massima cui è destinata. Il destino
della tecnica è di ascoltare la voce
dell’eterno ritorno di tutte le cose e di
realizzare l’epoca della potenza massima raggiungibile dall’esistenza (e a sua volta destinata a
declinare, a ridursi, per poi
ricomparire infinite volte). La tecnica
è destinata a volere l’eterno ritorno di tutte le cose. Questa è la dottrina di Nietzsche che ancora
è la più lontana dalla coscienza che
scienza e tecnica hanno di sé stesse
(anche se la possibilità di un recupero del passato è sempre più presa in considerazione aH’interno
del sapere scientifico). Più vicina a
quella coscienza è la dottrina che la
morte di Dio toglie ogni limite alla volontà di potenza, anche se la morte di Dio non deve essere trattata
come un dogma simmetrico a quello degli
amici di Dio, ma deve essere vista nella
sua necessità. Tutto ciò che qui è
stato sommariamente tracciato trova il
proprio significato concreto nelYAnello del ritorno. Qui si deve lasciar da parte, di quel mio scritto,
la considerazione dell’aspetto
speculativamente più rilevante del pensiero di
Nietzsche, cioè il senso autentico della tragedia da cui esso è 145
avvolto e che può essere indicato dicendo che se la fede nell’evidenza del divenire implica
necessariamente l’eterno ritorno di
tutte le cose, tale fede implica necessariamente la negazione di sé stessa. Infatti, se l’eterno ritorno non è la
riesumazione di un’antica dottrina
metafisica, esso è tuttavia pur sempre
un’eternità. Il tragico che il pensiero di Nietzsche non ha mai guardato in faccia (e che quindi non ha nulla
a che vedere con le considerazioni di
Nietzsche sulla tragedia attica) e che
tuttavia grava sulle sue spalle è che la negazione del divenire appartiene necessariamente all’essenza del
divenire: che il divenire non è
divenire. Il genio di Nietzsche è
infinitamente maggiore di quello che
egli è disposto ad attribuire a sé stesso. Infinitamente maggiore, perché, senza volerlo - e anzi
volendo l’opposto - mostra l’abisso
senza fondo su cui si libra la fede che regge
l’intera storia del mortale e, al culmine di quest’ultima, la storia dell’Occidente. Non si dovrà dire
allora che il librarsi della fede nel
divenire sull’abisso senza fondo della negazione di questa fede - il legame indissolubile che
lega questa fede alla propria negazione
- è il librarsi stesso della Follia - non
quella che lacera la mente di un individuo che è stato un grande filosofo, ma quella che sta alla
radice del modo in cui l’uomo ha abitato
e tuttora abita la terra? 146 5. Divenire, tecnica, «differenza
ontologica »- Ricordo che due anni fa -
Hans-Georg Gadamer era venuto a Venezia,
e stavamo entrando a Ca’ Foscari parlando
di Heidegger-, mentre ponevo termine alla nostra conversazione, perché la conferenza del
professor Gadamer era imminente, volli
avanzare quello che mi sembrava il punto
decisivo, e gli dissi che tra Heidegger e l’essenza della tecnica c’era una sostanziale solidarietà. Al
che Gadamer rispose con un «no» tanto
perentorio quanto gentile. Ma è proprio
su questo punto che vorrei un po’ soffermarmi;
quindi mi è cara l’occasione per riprendere quel discorso interrompu con Gadamer: l’essenziale
solidarietà del pensiero di Heidegger
con l’essenza della tecnica, con quell’essenza che secondo Heidegger si colloca agli antipodi
della sua posizione. Ieri si è parlato
di «differenza ontologica»: vorrei prendere
le mosse da questo concetto. «Differenza ontologica» significa che esiste una essenziale accidentalità nel
rapporto tra l’essere e l’ente.
Significa che l’ente non è essenzialmente legato all’essere e in questo senso è un evento che
sopraggiunge improvvisamente e
imprevedibilmente. Il concetto che è
opposto a quello di «differenza ontologica» è la «non- differenza ontologica». Questa lega l’essere
all’ente; questo legame, per Heidegger,
o la storia di questo legame, è la storia
della metafìsica. Legare l’essere all’ente vuol dire assicurare le cose al loro essere. Assicurandole, le cose
diventano stabili e arginano, bloccano,
il sopraggiungere delle novità storiche.
Allora, parlare della «non-differenza ontologica» è parlare delfimmutabilità, o dell’eternità delle cose.
Recentemente, è uscita la traduzione di
Was heisst Denken, dove viene sviluppato
il concetto che al culmine di questa assicurazione degli enti all’essere, al culmine della
«non-differenza ontologica» sta il
pensiero di Nietzsche. Heidegger cita il
147 frammento 617 della Volontà
di potenza, dove si parla della «vetta
della contemplazione»: la vetta della contemplazione è il ritorno di tutte le cose. Questa, per
Nietzsche, è l’«estrema approssimazione
del mondo del divenire al mondo
dell’essere». Heidegger vede in Nietzsche, in quanto teorico dell’eterno ritorno, l’anticipatore della
civiltà della tecnica, perché la civiltà
della tecnica consiste nella programmazione
che esclude la differenza ontologica; la programmazione che, stabilendo la routine, la ripetizione
dell’inedito, esclude la possibilità del
sopraggiungere del nuovo, del diverso.
Heidegger si muove certamente verso l’espressione dell’essenza del pensiero occidentale, in
quanto, allontanandosi dalla maggior
parte delle forme del pensiero
contemporaneo, capisce che l’essenza di tale pensiero va vista in termini ontologici. Ma è appunto in questa
raffigurazione heideggeriana
dell’aspetto ontologico della civiltà occidentale che si cela quella sostanziale solidarietà
fra Heidegger e la tecnica, di cui avevo
parlato prima. Perché? Il tema
dell’«eterno ritorno» dice dunque che il nuovo è impossibile, ed «eterno ritorno» vuol dire
«estrema approssimazione del mondo del
divenire al mondo dell’essere». Ecco,
penso che tutti colgano il significato della
parola «approssimazione», che è «estrema», ma è pur sempre approssimazione. Ciò vuol dire che la
distinzione tra il mondo del divenire e
il mondo dell’essere rimane; c’è sì l’estremo
tentativo di identificarli, ma è tentativo che lascia inevitabilmente un margine dove il divenire
non è l’essere. È il massimo che si può
compiere per identificare i due mondi;
ma il tentativo è uno sforzo, non riesce. Ora, il concetto dell’eterno ritorno finisce
col bloccare il divenire, ma il divenire
è bloccato solo in quanto se ne
riconosce l’esistenza. Se teniamo ferma la vicinanza che 148
Heidegger stabilisce tra tema dell’eterno ritorno e civiltà della tecnica, allora l’immutabile, cioè la
non-differenza ontologica in cui
consiste quell’immutabile che è l’eterno ritorno, è possibile soltanto sul fondamento del
riconoscimento dell’esistenza del
divenire. L’immutabile protegge dal pericolo
della novità, precattura il nuovo, ma proprio perché è la difesa rispetto alla novità che il divenire porta
con sé, appunto per questo
l’affermazione dell’immutabile è il riconoscimento del divenire.
Ma questo riconoscimento del divenire - che dunque è evidente in Nietzsche: proprio in quanto egli
si vuole assolutamente cautelare dal
divenire - questo riconoscimento del
divenire non è nulla di diverso, nell’essenza, da ciò che Heidegger chiama «differenza ontologica».
Perché, se «differenza ontologica»
significa accidentalità dell’ente
rispetto all’essere, il non essere legato necessariamente all’essere da parte dell’ente, allora
«differenza ontologica» vuol dire
appunto il movimento di oscillazione delle cose, e la loro eventualità è il loro andare e venire -
un processo in cui le cose sono lasciate
nel loro andare e venire. Voglio dire che
quel divenire, che è necessariamente riconosciuto da Nietzsche quando egli intende rendere
radicale (e insieme difendersene) con
1’evocazione dell’eterno ritorno, quel
divenire è altrettanto radicalmente riconosciuto da Heidegger quando egli lo esprime in termini puramente
ontologici, come, appunto, «differenza
ontologica». D’altra parte è chiaro che
quando Heidegger parla della programmazione
operata dalla civiltà della tecnica, che
impedisce la storia, dissente da questo acme che la metafisica occidentale raggiunge nel pensiero di
Nietzsche e nella civiltà della tecnica.
Voglio dire che quel modo di interpretare
Heidegger per il quale egli verrebbe a equivalere simpliciter a Weber, non è quello che intendo sostenere.
Dal punto di vista 149 filologico è ovvio che Heidegger intende
prendere le distanze dall’epoca in cui
domina la civiltà della tecnica. Egli rivendica
la possibilità del nuovo in contrapposizione all’eliminazione del nuovo.
Allora, una prima domanda: qual è il fondamento dell’esigenza del nuovo? Perché ci deve
essere il nuovo? Perché non ci può
essere un sistema che predetermini la
totalità dell’evento, precatturando appunto ogni novità e rendendo impossibile ogni novità? Che cos’è
ciò che fonda questa esigenza del nuovo,
che è l’esigenza dell’esistenza della
storia? Lo so, è l’esigenza di tutti abitatori dell’Occidente: noi vogliamo che la storia esista. Ma perché deve
esistere il non¬ sistema? Ecco, sostengo
che Heidegger esprime semplicemente
l’esigenza, ma non più che l’esigenza, della
esistenza del nuovo: si limita a un’atteggiamento, che è proprio dell’intera cultura contemporanea,
che non può escludere il sopraggiungere
di un sistema il quale riesca a fare ciò
che Hegel non è riuscito a fare. Per escludere il sistema, per riuscire a escludere la negazione della
storia e della novità è necessario un
approfondimento del senso ontologico del
divenire, che rimane invece nel sottosuolo del pensiero di Heidegger (cfr., del mio saggio Gli abitatori
del tempo, Armando 1978, il capitolo
intitolato Gòtterdàmmerung). Seconda
domanda: quando Heidegger polemizza contro la
civiltà della tecnica, contro il piano, la programmazione, non si dimentica forse della caratteristica
essenziale della scienza moderna, cioè
del carattere ipotetico della scienza?
L’anticipazione del futuro da parte d elYepistéme tradizionale è indubbiamente una cattura che elimina
radicalmente la novità. Se è già aperto
il senso del mondo, se il senso del
mondo è già aperto all’interno di una epistéme, allora il nuovo è certamente impossibile. Ma la scienza
moderna si è costituita proprio
attraverso la distruzione d elYepistéme;
150 quindi la programmazione,
il piano, in cui consiste la civiltà
della tecnica, è una anticipazione ipotetica del futuro: se teniamo presente il concetto di scienza come
«metodo sperimentale», allora,
all’interno di questa prospettiva, la
scienza, come sperimentazione, è una programmazione che però resta aperta alla smentita possibile
operata dalla novità sopraggiungente.
Vepistéme, sì, elimina la novità; dice alla
novità: Io so già che cosa tu sei, io sono la tua regola; ma la scienza non fa questo, cioè la scienza
realizza appunto a fondo
quell’atteggiamento di apertura verso la novità storica, che Heidegger si limita a invocare. Questo
sarebbe un primo senso secondo il quale
la civiltà della tecnica è l’autentica
erede dell’atteggiamento che Heidegger intende proporre. Ma vi è un senso più sostanziale. Il senso più originario e più nascosto della
volontà di potenza è la volontà che la
storia (il divenire, la «differenza
ontologica») esista. Solo se si stacca l’ente dall’essere e lo si
fa oscillare tra l’essere e il niente è
possibile il dominio dell’ente. Alla
base della volontà di dominio sta la volontà che esista il campo del dominabile. Questa volontà
originaria è l’essenza dell’Occidente. E
in questa essenza convengono quindi anche
la tecnica e il pensiero di Heidegger. Ma il pensiero di Heidegger, a differenza della tecnica,
contraddice la propria essenza, perché
mentre la tecnica, volendo il dominio
dell’ente, porta a compimento l’originaria volontà di potenza (cioè la volontà che il dominabile esista), e
cioè resta fedele alla propria essenza,
Heidegger contrappone alla volontà di
dominio il «lasciar essere» gli enti: quel «lasciar essere» che è stato originariamente violato (anche) dal
pensiero di Heidegger, proprio perché la
volontà che separa l’ente dall’essere -
e che quindi vuole la nientità dell’ente - non
lascia essere l’ente nel suo essere presso il suo essere, nel suo essere unito al suo essere. In questo senso,
la volontà di 151 potenza, nel pensiero di Heidegger, è
incoerente (tradisce la propria
essenza), mentre la tecnica si libera da questa
incoerenza ed è quindi la coerenza del pensiero di Heidegger (e non solo di esso). In questo senso bisogna
dire che il pensiero di Heidegger è
unterwegs zur Technik, in cammino verso
la tecnica. O anche: il pensiero di Heidegger esce dall’incoerenza solo se si pone come il
lasciar essere le forze che si
contendono il dominio dell’ente, e quindi come il lasciar essere l’organizzazione tecnologica
del mondo, che ormai ha avuto il
predominio su ogni altra forza. * Intervento al convegno su «L’eredità di
Heidegger», tenutosi all’università di Padova nell’inverno 1978 (con la partecipazione, tra gli altri,
di H.G. Gadamer, A. De Waelhens, M. Riedel, G. Vattimo) e poi pubblicato in «Verifiche», anno Vili, IV,
1. 152 VI
Stare autenticamente oltre l’essenza del nichilismo: il destino
1. Il destino Le religioni
soddisfano i desideri più profondi deiruomo. I
miti gli dicono che può accostarsi e unirsi alle potenze supreme: possono salvarlo dal dolore e dalla
morte e renderlo felice in un’altra
vita. Dando ascolto a queste voci, per
millenni e millenni l’uomo riesce ad anticipare qui sulla terra quella felicità, e a sopravvivere. Crede, ha
fede in esse, ne è certo. Ma queste voci
asseriscono, raccontano: non possono
impedire che il dubbio si insinui e si faccia largo nella gran massa delle loro certezze. Il mito soddisfa
il desiderio, ma è inaffidabile. La
salvezza è il contenuto di un sogno. Nemmeno
le religioni più evolute riescono a uscirne. Si fa avanti allora la religione. Intende
mostrare come il dubbio possa esser
vinto. La storia breve della religione: due
millenni e mezzo. In essa, però, i criteri per accorgersi di ciò che è sogno sono andati sempre più
perfezionandosi. E tuttavia il contenuto
del sogno non è stato sostituito da una
veglia altrettanto salvifica e beatificante. L’uomo ha voluto vedere - e, di assolutamente affidabile, ha
visto soltanto l’assoluta precarietà
della propria condizione. Scienza e
tecnica fanno sì prevedere, qui sulla terra,
l’avvento del loro paradiso. Ma fanno anche capire che nemmeno questo paradiso può uscire dal sogno.
Sanno che, per quanto raffinate, le loro
procedure razionali sono ipotetiche,
fallibili. La condizione umana è precaria, perché precaria è ogni rassicurazione razionale
dalla non precarietà dell’umano. Sia
pure in modo diverso, la salvezza dal dolore e
dalla morte continuano a essere qualcosa di sognato. 153
In questa situazione, i miei scritti indicano qualcosa che non può non sembrare esorbitante e
velleitario. Può essere espresso con
l’affermazione di Eraclito: «Sono attesi gli
uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono». Intendo: da cose che sono
infinitamente «di più» di ciò che essi
desiderano, suppongono, sperando di
ottenere; infinitamente di «di più» di ciò verso chi vuole condurre la stessa speranza cristiana, e
dunque «di più» di ogni «immortalità» e
di ogni «resurrezione della carne» che a
speranze di questo genere sono connesse - e infinitamente «di più» di ciò a cui lo stesso Eraclito poteva
riferirsi. Siamo destinati a qualcosa
che è infinitamente «di più» di tutto
quanto il più insaziabile dei desideri può volere. Ma il carattere esorbitante di queste affermazioni
è ancora maggiore, perché quel che esse
indicano non si presenta, nei miei
scritti, come il contenuto di un mito, ma come lo stare, in modo assoluto, al di fuori del sogno in
cui rimane ogni mito e ogni forma della
stessa ragione. In questo stare al di fuori
del sogno non si tratta di «attendere» l’avvento dell’insperato: già ora, da vivi, gli uomini sono avvolti da
una «veglia» assoluta che è
infinitamente «più» radicale di ogni incontrovertibilità
e di ogni procedura critica della ragione -
dunque anche di quella delle scienze logico-matematico- naturali. È all’interno di questa «veglia
assoluta» che si mostra la destinazione
dell’uomo a cose che egli non spera né
suppone. L’uomo non è ciò che il mito e la ragione gli fanno credere di essere, ma è lui stesso, nel
profondo, a esser questa veglia
assoluta. In essa appare l’infinito allargarsi di sé stessa, cioè la sua Gloria; il suo accogliere tratti
sempre più ampi del Tutto, ossia della
Gioia che l’uomo, da ultimo, è. Nei
miei scritti tale «veglia assoluta» è indicata dalla parola «destino», intesa come costruita in modo
analogo a termini quali de-amare,
de-vincere, dove il de esprime
154 l’intensifìcazione
dell’amare e del vincere, sì che il destino è
l’intensificazione estrema dello «stare», cioè dell’inamovibilità in cui consiste la «veglia assoluta». Il destino è l’apparire di ciò che è, ossia
degli essenti. Nel destino appare che
ogni essente è sé stesso e non diventa altro
da sé , e dunque è eterno; e appare che il variare del mondo è il sopraggiungere degli eterni nell’apparire,
ossia è la Gloria dell’inesauribile
sopraggiungere della Gioia; e, insieme, nel
destino appare che la negazione del destino è negazione di sé stessa, una freccia che, volendolo colpire,
colpisce sé stessa. Il destino è il
senso autentico della verità. E,
ancora, nel destino appare che l’uscire dal nulla e il ritornarvi non appaiono, ma appare il
sopraggiungere di quegli eterni che sono
il dolore e il piacere, la nascita, l’agonia.
Il cadavere - gli eterni che sono «oltrepassati» quando tramonta l’isolamento della terra dal
destino. Nell’isolamento della terra, la
fede nel divenir altro porta alla luce la volontà di salvezza e di potenza. Nel suo significato
essenziale la morte è il divenir altro
(ossia è l’impossibile); e da sempre i mortali
hanno tentato di vincere la morte diventando altro da ciò che essi sono: uccidendo il Dio, come Adamo, o
diventandone gli alleati, come Gesù.
Hanno tentato di vincere la morte con la
morte. Certo, tutto questo,
detto in questi termini, può sembrare un
ennesimo mito che ripropone quanto la tradizione filosofico-metafisica dell’Occidente ha
inteso essere: l’unità di quanto
interessa l’uomo e di quanto la ragione può dire (l’unità tuttavia che non può essere
realizzata né dalla coscienza religiosa
né dalla configurazione che la religione è
venuta ad assumere nel nostro tempo). Ma, lungo la storia stessa dell’Occidente, quella tradizione è
tramontata. Sennonché è proprio nei miei
scritti che si mostra 155 l ’inevitabilità di tale tramonto, la
quale va rintracciata in quella
dimensione più profonda del pensiero filosofico del nostro tempo, che questo stesso pensiero per
lo più non riesce a raggiungere. D’altra parte sin dal suo inizio la filosofia
porta alla luce non solo l’istanza
dell’incontrovertibilità, ma anche un senso
radicalmente nuovo della salvezza: si tratta di salvarsi dal nulla da cui le cose del mondo sporgono
improvvisamente. Il mito prefilosofico
non pensa il nulla e dunque non vede
nemmeno che la morte è annientamento. Non vede il pericolo estremo e quindi non salva da esso. Pensando
l’eternità del divino, la tradizione
filosofica crede che la salvezza dal nulla
sia possibile. Ma se si sa scendere nella dimensione profonda della filosofia degli ultimi due secoli si
scorge che qualsiasi Essere eterno è
impossibile. Impossibile, quindi, anche ogni
«verità eterna», incontrovertibile, definitiva. Ciò significa che sia la tradizione filosofica sia la filosofia
del nostro tempo, sia l’intero passato
sia l’intero presente della civiltà occidentale, e dunque, ormai, planetaria, hanno in comune il
grande mito - la grande Follia - in cui
il variare del mondo è inteso come
l’uscire dal nulla e il ritornarvi, da parte degli essenti. (Il
mito che dunque accomuna non solo gli
amici e i nemici di Dio, ma anche, per
quanto riguarda la filosofia del nostro tempo,
la cosiddetta «filosofia analitica» e la cosiddetta «filosofia continentale»). La volontà di salvezza - che
è la stessa volontà di potenza - è la
figlia di questo mito. Ma è inevitabile
che si obbietti: «Come può essere
sostenibile un discorso che ritiene di essere l’unico a non appartenere al mito e alla follia? Il genio
dell’uomo ha sempre fatto perno sul
divenir altro delle cose; e proprio quel
discorso, che pretende di smentire quel che l’uomo ha sempre pensato, e su cui si fonda tutto ciò che egli
ha creato, dovrebbe esser l’unico
detentore della verità?». 156 Possiamo richiamare così la risposta a
questa obbiezione - che peraltro è
sempre stata rivolta ai filosofi e al «campo di
lotte senza fine» (dice Kant) a cui essi hanno dato vita. Che esistano altre coscienze, oltre a quella che
appare nel destino è, originariamente,
un problema, non una verità assoluta.
Originariamente, è un problema che l’uomo sia una società di individui umani. Ed è un problema anche ciò
che i linguaggi dell’uomo intendono
dire. Li si interpreta; ma
l’interpretazione non è una verità assoluta. È dunque un’interpretazione anche Yesistenza del
dissenso rispetto al linguaggio che
indica il destino - del dissenso che si esprime
dunque anche nell’obbiezione che stiamo discutendo. È una interpretazione anche l’esistenza della
storia, di cui prima si è detto, che
conduce dal mito alla ragione. Che il genio degli uomini sia sempre rimasto al di fuori del
destino, e abbia sempre agito secondo
questa sua alienazione, è
interpretazione, cioè qualcosa di problematico. Il linguaggio che indica il destino dovrebbe propriamente
dire: se c’è stato qualcosa come «mito»,
e se c’è stato qualcosa come «ragione»,
allora l’avvento della ragione esprime l’inaffìdabilità del mito, e la esprime nel modo sopra rilevato. Certo, al destino appartiene anche la
necessità del suo essere presente in
infiniti altri cerchi dell’apparire - e in
questo senso gli appartiene l’affermazione che Tesser uomo è Tessere una molteplicità di modi di esser
uomo, ossia è una «società». Ma poiché è
sul fondamento del destino che l’esistenza
di questa molteplicità può essere affermata
incontrovertibilmente, allora, se si scopre che tale molteplicità è tutta o in parte un dissenso rispetto al
contenuto del destino, tale dissenso
morde la mano che lo sorregge, nega ciò
sul cui fondamento è affermata incontrovertibilmente la sua esistenza. Che esista il dissenso che si
scandalizza o irride le esorbitanti
pretese del linguaggio che indica il destino non è 157
un «fatto»: è anch’esso un mito. Quando il destino mostra di essere presente in un’infinità di «coscienze»
e mostra il loro dissentire dal destino,
tale dissenso perde ogni verità. Che tale
dissenso esista viene affermato infatti proprio in base a ciò da cui si dissente. 158
2. La fantasia e la terra La
fantasia è l’insieme delle «immagini originarie», delle «forme di rappresentazione più antiche e più
generali dell’umanità»: gli «archetipi»
(ad esempio il divino). «Diffusa
dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia dello spirito umano». Così scrive Cari Gustav
Jung. Platone vede nelle «idee» le
immagini originarie di tutte le cose, gli
archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non
appartiene ai «misteri» dello spirito
umano, bensì alla «scienza» ( epistéme ) della
«verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l’opposto della «fantasia» intesa
come evocazione misteriosa, e quindi da
ultimo oscura e arbitraria, di mondi.
Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo
la propria storia. Ci si imbatte nella
forma originaria della fantasia, di cui tutti
quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la storia dell’uomo e delle cose che gli si
fanno incontro. Infatti si può pensare
che la più antica origine di questa parola
indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa,
uomini e dèi, il dolore e il piacere:
cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della
loro vita e poi da molti di essi si
allontana. La terra: gli stormi delle cose che
vengono e vanno. Da che cosa è
accolta la terra? Da che luogo si allontana? I
mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo
eterno in cui appare ciò che da sempre
la verità è destinata a essere: il «destino
della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole «destino»
e «verità». Nell’uomo sopraggiunge la
terra. Ma insieme a essa 159 sopraggiunge e si fa dominante la
convinzione che l’uomo sia un mortale, e
con lui tutte le cose; ed egli vive come se in
verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le «anime», come invece pensa
Platone, ma anche i «corpi», e tutti gli
stati delle une e degli altri. Anche la terra è
eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità. Com’è
lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali. Anche e soprattutto in
questo caso la sua inevitabilità non può
essere, qui, neppure lontanamente
indicata. Qui si tratta solo di mostrare, e da lontano, in che senso è necessario risalire molto più
indietro di ogni archetipo evocato dai
mortali. Tanto indietro da poter
scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia» hanno la stessa anima e che quest’anima è la
forma originaria della fantasia. In una delle sue accezioni più comuni, la
fantasia è la capacità di portare alla
luce mondi diversi da quello quotidiano
o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di
andirivieni, entrambi evocati dai
mortali, appartengono alla terra. Essa è il
fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E
la terra si inoltra nel luogo eterno del
destino della verità. Ma non basta. La
maggior parte di coloro che leggono
queste righe sta pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la «realtà» e la «serietà della
vita». Fantasie, appunto. Ma anch’essi
sanno infinitamente di più di quanto credono di
sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la
«realtà» con cui noi abbiamo sicuramente
a che fare sia, appunto, le cose che
vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra ; e ormai 160
si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa
persuasione i mortali vivono nella terra
separata dal destino della verità, nella
terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la
separazione della terra dal proprio
destino. Una metafora può forse aiutare a
comprendere queste affermazioni - purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma
il pensiero più radicale, essenzialmente
più radicale e inevitabile di ogni altra
forma di sapere, scienza compresa.
Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non
lo vedano più. Non si produce in essi
qualcosa come un «oblio» del cielo e del più
alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono
più a vedere gli archetipi che appaiono
nella «pianura della verità». Quei
cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse
loro del cielo direbbero che le sue son
fantasie e che sono gli uccelli le cose
con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro
che a prenderli, gli uccelli; ed
effettivamente li prendono, e gettano loro
addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono. La fantasia originaria è il volo irretito
degli uccelli. L’arte tenta di rievocare
il libero volo, ma, per quanto splendente,
rimane anch’essa aU’interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può
capire che, nella metafora, il volo
degli uccelli corrisponde alla pura terra, il
cielo al destino della verità. La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la
terra dal destino della verità. Tale
isolamento è la forma originaria della
fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e 161
miti, filosofia, arte, scienza, tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali. 162
3. Discutere il destino della verità, concretezza delVerrare, isolamento della terra, linguaggio Anche oggi il tema di fondo del pensiero
filosofico - nonostante i tentativi di
eliminarlo, ma anche in seguito alla
loro presenza - riguarda la «verità» di ciò che è conosciuto e voluto dall’uomo. Con diversi gradi di
potenza e rigore la filosofia del nostro
tempo rifiuta la possibilità di una «verità»
assoluta e definitiva, capace di affermare qualcosa di Immutabile. Un rifiuto, questo, che è cosa
ben diversa dal considerare superfluo il
tema della «verità»; e che là dove è
adeguato al proprio compito è un rifiuto inevitabile. Esso è tuttavia la coerenza estrema del
nichilismo. Da quando abita la terra
l’uomo intende le cose del mondo come un
«diventare altro»; da quando la terra è abitata dalla filosofia la filosofia concepisce la «cosa»
come «ciò che è» («ente») e definisce il
suo diventar altro come «passaggio dal
suo non essere al suo essere» e viceversa. La cosa che incomincia a essere è stata nulla nella
misura in cui essa non era e incomincia,
e la cosa che finisce di essere torna nel nulla
nella misura in cui essa finisce e non è più. Procedendo da questo senso dell’esser cosa è inevitabile
che la filosofia pervenga al rifiuto di
ogni verità assoluta e definitiva e di ogni
Ente immutabile e «divino»; e viceversa, tale rifiuto è inevitabile solo se procede da quel senso -
che domina progressivamente non solo i
pensieri ma anche le opere della civiltà
occidentale e, ormai, dell’intero pianeta. (Ciò non significa che questa dominante inevitabilità
stia davanti agli occhi di tutti i
protagonisti della filosofia contemporanea:
all’opposto, va invece rintracciata nel sottosuolo del nostro tempo.)
Il senso greco dell’esser cosa domina la terra perché è ritenuto indiscutibile. Ma perché non può
essere discusso? In 163 questa domanda traspare la dimensione
ignota alla storia della terra. Tanto
più ignota quanto più tale dimensione si
mostra non come un semplice domandare, ma come negazione di quel senso e quindi come
negazione di ciò sulla cui base è
inevitabile che si pervenga alla negazione di ogni verità incontrovertibile. Tale dimensione è
il destino (inteso secondo il senso
richiamato nelle pagine precedenti). Il
destino è la manifestazione del differire degli essenti tra loro e del loro non essere. Essi sono le
differenze. Proprio per questo il
destino è la manifestazione dell’impossibilità che «ciò che è», in quanto tale, non sia: è
l’apparire della necessità che Tessente
in quanto essente (e pertanto ogni essente) sia
«eterno». Le implicazioni di questa affermazione conducono molto lontano. Ma il destino è tale solo in quanto è la
dimensione in cui appare
incontrovertibilmente il senso dell’incontrovertibile e Tincontrovertibilità di tale dimensione: non
è la fede nella propria
incontrovertibilità. Con una espressione che, qui, non può che rimanere astratta, formale, si può
indicare il senso
delTincontrovertibilità e della necessità del destino dicendo che esso è la dimensione la cui negazione
nega sé stessa. Il destino è la
negazione della fede, cioè dell’errare.
L’«uomo» di cui si parla all’interno della terra isolata dal destino è anch’esso il contenuto di una fede.
Con ciò si intende qualcosa di
essenzialmente più radicale
dell’affermazione che l’uomo erra: si intende che la fede nell’esistenza dell’uomo della terra isolata
è un errare, un sogno. La terra intera,
in quanto appare separata dal destino, è
il contenuto del grande sogno in cui consiste la «vita» e che è il grembo di ogni fede. (Ma in quanto è un
essente, anche il sogno è un eterno.) La
vera essenza dell’uomo è il destino.
Essa non «appartiene» ad alcuno degli abitatori, umani o 164
divini, della terra isolata. È all’opposto la terra isolata ad appartenere al contenuto che appare nel
destino - giacché solo nel destino può
apparire incontrovertibilmente
l’esistenza dell’errare, della fede, del sogno, ossia della negazione del destino della verità. Discutere il destino è un modo di negarlo,
sì che tale discussione nega sé stessa.
Infatti «discutere» significa affermare
una differenza: tra ciò che è discusso e ciò che in vari modi gli si oppone. E il destino - si è
detto - è innanzitutto l’apparire del
senso che compete alla differenza (ossia
alla differenza dei differenti). Discutere e opporsi al destino è quindi un differirne. E proprio per
questo è condividerne, più o meno
inconsapevolmente, il tratto originario:
l’affermazione della differenza. In questo differire - condividendo-ciò-da-cui-si-differisce si
ripresenta l’indicazione, prima
sommariamente richiamata, del senso
dell’incontrovertibile, ossia Tesser la dimensione la cui negazione nega sé stessa. Discutere il
destino è condividerlo; ma è anche
negarlo, e pertanto è negare tale condivisione, sì che discutere il destino è negazione di sé
stesso. È necessario affermare
l’esistenza delle differenze non perché
esse appaiono all’interno della fede e del sogno in cui consiste la terra isolata dal destino - e
dunque, da ultimo, non perché si vuole
che esse siano. È nel destino che appare la
necessità della differenza dei differenti e la necessità della loro eternità e di tutto ciò che essa implica: nel
destino - che già da sempre si apre al
di là del percorso dove gli abitatori della
terra pervengono inevitabilmente, sul fondamento della fede nel diventar altro, alla negazione di ogni
verità e di ogni Ente immutabile. Discutere e opporsi al destino, quindi
condividendolo, è pertanto solo il
tentativo inconsapevole di condividerlo.
165 Giacché altro è la
negazione del destino, che gli appartiene
essenzialmente in quanto esso è la negazione della propria negazione (e questa negazione del destino non
è un semplice tentativo di esser
negazione); altro è la negazione che appare
nella terra isolata dal destino e che se (a differenza dell’altra negazione) si rende visibile agli abitatori
di questa terra, tuttavia, in quanto è
una fede, è solo un tentativo di essere
negazione del destino. Già il
vivere è trovarsi nelle differenze - è, appunto, credere, aver fede di trovarvisi. Forse la
differenza più antica è quella che la
volontà è convinta di esperire tra i propri
desideri e le resistenze da essi incontrate. Oggi la tecnica guidata dalla scienza moderna è il modo più
potente con cui la volontà domina le
differenze. Ma nemmeno la scienza e la
tecnica, nonostante il loro rigore concettuale, riescono a porsi al di là della fede e pertanto della fede
nell’esistenza delle differenze. La filosofia, sin dall’inizio, è la volontà
di liberarsi dalla fede - quindi dal
mito, che è uno dei contenuti più antichi della
fede e che a lungo ha raccolto in sé e dominato ogni altra forma di fede (e ancora permane in molte
parti del mondo). Eppure la filosofìa
conserva il tratto centraledella fede
prefilosofica nelle differenze: conserva, appunto, la fede nel loro diventar altro. Il pensiero filosofico
conserva in sé la fede che le differenze
siano anche un differenziarsi, e nel modo più
radicale. I miti raccontano cosmogonie, teogonie, metamorfosi: le grandi forme del diventar
altro. La filosofìa, però, intende essere
il «vero» racconto. La sua grandezza sta
nell’aver evocato una volta per tutte il senso
radicale della «verità». La «verità» è il mostrarsi dell’assolutamente incontrovertibile. Si è
poi trattato di stabilire il senso
dell’«assolutamente incontrovertibile» e il
166 contenuto di cui è
necessario affermare tale
incontrovertibilità. Ma lungo la storia dell’Occidente la fede è prevalsa sulla stessa filosofia: oltre a
essersi sviluppata come fede nel
differenziarsi delle differenze, la filosofia si è sempre più consolidata come fede
nell’incontrovertibilità della
manifestazione («esperibilità», «osservabilità») di tale differenziarsi. «Verità» si dice in molti sensi anche perché
molti ambiti della vita si presentano
come «verità» - e per questo si parla di
«verità» religiosa e morale, di «verità» degli istinti, degli affetti, dell’arte, di «verità» della
filosofia e della scienza; e,
complessivamente, di «verità» dell’esistenza della vita e della terra (quale appare nel suo essere isolata
dal destino). Ma poiché queste «verità»
non sono il destino della verità, esse
sono tutte «verità» controvertibili - per quanto diversa possa essere la loro «plausibilità» («probabilità»,
«ragionevolezza», «potenza» e «coerenza»
concettuale) e potenza - e raffermarle è
sempre una fede, anche quando esse hanno fede nella propria incontrovertibilità. La «più plausibile»
è lontana dal destino tanto qua nto la
«meno plausibile»: infinitamente.
(Questo, anche se è appunto all’interno di questa infinita lontananza che tuttavia si presenta come
«inevitabile», nel pensiero del nostro
tempo, la distruzione di ogni «verità»
assoluta e di ogni Ente immutabile.)
Si può chiamare «filosofia futura» il linguaggio che, invece, testimonia il destino della verità. Essa è
futura perché se nel presente la sua
voce è soverchiata dalle voci della terra isolata dal destino, tuttavia essa è destinata a
mostrarsi come il linguaggio dei popoli.
D’altra parte, testimoniando il destino,
la filosofia futura si rivolge alla dimensione che, eterna, non è inclusa, ma - più antica del più lontano
passato - include la totalità del tempo
che viene affermato all’interno della terra
isolata. 167 Tuttavia, le stesse voci che si levano
nella terra isolata, e sono quindi
negazioni del destino, vanno rendendo anch’esse
«sempre più concreto» il contenuto del destino. Infatti vanno rendendo sempre più concreta quella negazione
del destino che essenzialmente gli è
unita, e in questo senso gli appartiene,
e quindi senza la quale il destino non potrebbe
essere. Ciò significa che la discussione del destino non è soltanto l’opporglisi che, si è detto,
proprio perché intende differirne condivide
(ossia è il tentativo inconsapevole di
condividere) l’affermazione della differenza che in esso appare: tale discussione è insieme
l’arricchirsi della negazione del
destino, quindi è insieme l’arricchirsi, il concretarsi di esso. In questo senso tutto l’infinito
contenuto della terra isolata dal
destino - il contenuto che è, tutto, negazione del destino - va rendendo sempre più concreta la
negazione del destino e quindi il
destino stesso, in quanto negazione di tale
negazione. D’altra parte, la
terra isolata, in quanto fede originaria, è
interpretazione, ossia un conferir senso a qualcosa. Ma, proprio in quanto esso è un «conferire», non
gli può competere l’incontrovertibile
necessità del destino, ed è quindi
volontà di dar senso. È per tale conferimento di senso che, nella terra isolata che appare nel
destino, certi eventi appaiono come
linguaggi e come linguaggi che negano il
destino. Tutte le negazioni del destino che appaiono nella terra isolata sono cioè contenuti
dell’interpretare (cioè del sogno) che
appare alfinterno del destino (e la cui esistenza è pertanto un tratto del destino). Gli eventi
della terra isolata sono interpretati
come linguaggi che, proprio perché testimoniano
altro dal destino, ne sono la negazione. Che
dunque esista la discussione del destino offerta dalla terra isolata, è qualcosa di voluto
dall’interpretare (che appare nel
destino). 168 Né può essere diversamente, perché se
nella negazione del destino il destino
apparisse, essa apparirebbe come negazione
di sé stessa, e l’apparire di tale autonegazione sarebbe l’apparire stesso del destino. Se il destino
appare è impossibile «esser convinti»
della sua negabilità e controvertibilità. Lo si
può discutere e negare, se ne può affermare la controvertibilità e negabilità solo in quanto
il discuterlo e negarlo è un linguaggio che
nella terra isolata testimonia soltanto
essa - cioè un linguaggio che nel destino appare come qualcosa di evocato
dall’interpretazione. Sono così evocati
anche i linguaggi che, all’interno dell’interpretazione, mostrano di essere affermazione del destino,
o di «condividere» il linguaggio che lo
testimonia - e questo stesso linguaggio
è evocato dall’interpretazione in quanto esso
appartiene al passato, mostrandosi con la proprietà dell’«esser mio». Appunto a questo tipo di linguaggio (e
non al mostrarsi del destino) si rivolge
la discussione del destino nella misura
in cui essa riesce a costituirsi - visto che essa riesce a costituirsi solo in quanto non si rivolge al
destino, non ne contiene l’apparire, non
lo «capisce»: solo in quanto non ha come
contenuto il destino, nel quale la negazione-discussione di esso può apparire soltanto come negata.
Diciamo dunque: nella misura in cui
riesce a costituirsi la discussione del
destino si rivolge al linguaggio che lo testimonia, perché non è non è un tratto del destino che tale
linguaggio possegga tutte le condizioni
richieste per essere «capito» dai linguaggi
«altrui». 169 4. Ripresa L’uomo vive soltanto se crede - nel senso
più ampio di questa parola, rispetto al
quale la fede religiosa è soltanto una
specificazione, per quanto eminente. Vivere è innanzitutto credere di esistere e di agire nel mondo. E
ogni credere, ogni fede, è volontà. La
volontà non vuole soltanto cambiare il
mondo e realizzare il futuro, ma innanzitutto vuole che le cose presenti e passate siano ciò che essa
crede che siano e siano state. La
fede-volontà è interpretazione.
Tuttavia credere-volere-interpretare è stare al di fuori della verità non smentibile. Credere è errare. Ma se l’uomo fosse soltanto un vivere, cioè
un credere, allora sarebbe soltanto un
credere anche l’affermazione che vivere
è credere e volere - affermazione condivisa peraltro da gran parte della cultura non solo filosofica
del nostro tempo. E invece - ma al di
fuori del modo in cui è così condivisa -
questa affermazione non è un credere, ma è una verità non smentibile.
Ciò significa che l’uomo non è soltanto vita, cioè fede, ma è, originariamente, l’apparire della verità
non smentibile. È all’interno della
verità che - in modo non smentibile,
incontrovertibile - appare la vita, cioè la fede, la volontà. La «verità» a cui si è rivolta l’intera
storia dell’Occidente non è riuscita a
essere la verità non smentibile - la verità che
d’altra parte s’illumina nel fondo più nascosto di ogni uomo (e ovunque qualcosa appaia). A volte il
linguaggio la indica; la chiama «destino
della verità» - come appunto nei miei scritti
viene chiamata. Ma, anche qui, che questo linguaggio sia l’agire di «qualcuno» - che qualcuno ne sia
l’«autore», che tale linguaggio abbia il
carattere dell’«esser mio» -, questo è
daccapo uno dei contenuti in cui la vita può giungere a credere (come crede che l’uomo esista e
agisca nel mondo e 170 che sia l’«autore» dei linguaggi che
parlano del mondo). Il nichilismo -
inteso nel senso indicato nei cosiddetti
«miei» scritti - è la forma più potente della vita, cioè della fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce
anche in questi scritti, che sono andati
via via liberandosene. D’altra parte
sono il contenuto di una fede sia Vesistenza del linguaggio che conduce oltre il nichilismo, sia quella forma
di vita che è il voler dire e quindi
anche il voler dire in cui consiste quel
linguaggio. Ciò che sta oltre il nichilismo è il de-stino della verità. Esso mostra anche in che senso non è
contraddittorio che quella duplice forma
di fede (cioè di non-verità) possa
«condurre» al destino della verità, ossia a ciò che, in quanto tale, non è un «punto di arrivo», ma è il
punto di partenza di ogni percorso. In un senso che è fondamentale i miei
scritti hanno quasi subito guardato
nella stessa direzione. Però il loro è stato un
percorso, non un salto oltre il nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni
Cinquanta), ma l’oltrepassamento del
nichilismo è stato progressivo^ Anche
ai miei scritti (sebbene, sembra, in misura
consistentemente inferiore rispetto a molte altre scritture filosofiche) si può quindi muovere
l’obbiezione, considerata nel paragrafo
precedente, di essere uno sviluppo dove il
linguaggio giunge a dire qualcosa che in qualche modo esso dapprima negava. E perché, allora, quel che
ora esso dice non dovrebbe essere a sua
volta negato da un suo ulteriore
sviluppo? Tale obbiezione e la
relativa risposta hanno in questo caso
un peso particolare perché riguardano il rapporto tra il senso radicale della verità e il linguaggio che lo
indica. I molti significati della parola
«verità», comunque, non tolgono di mezzo
la differenza tra la verità, intesa come sapere il cui 171
contenuto è l’assolutamente non smentibile e incontrovertibile - il destino della verità, appunto
- e tutti gli altri sensi, nei quali,
alla luce della verità così intesa, le diverse
forme di «verità» appaiono invece come sapere il cui contenuto non è qualcosa che non possa essere
in qualche modo negato. «Saperi», si è
detto (si pensi ad esempio alle
espressioni «verità morale», «verità dell’arte», «verità della fede», «verità del cuore», ecc.), ma anche
intuizioni, emozioni, certezze, fedi,
impulsi profondi, desideri, costumi,
tradizioni ecc. La gran questione è la determinazione del contenuto dell’«incontrovertibile», ossia del
«non poter essere altrimenti» (secondo
la definizione aristotelica): il contenuto
che lungo la storia dell’Occidente è stato qualificato come «verità» (« epistéme della verità») non è
riuscito a essere l’assolutamente
incontrovertibile. Rispetto
all’incontrovertibile autentico, ogni modo di esperire le cose che differisca da esso è un modo del
«controvertibile», cioè tien stretto un
mondo che d’altra parte può sottrarsi alla
stretta ed essere diversamente da come è - per quanto alto e nobile o per quanto profondo e preteso dalle
viscere e dal cuore. L’incontrovertibile
autentico è il destino-, e la struttura
originaria del destino è il centro da cui si irradia la multiforme pianura infinita del destino. Nella sua
essenza autentica l’uomo - ogni uomo -
ne è l’eterno apparire (e tale
affermazione è una forma a sua volta appartenente a quella multiforme infinità). La risposta all’obbiezione che si sta
considerando in questo e nel precedente
paragrafo, si fonda sul rapporto tra destino e
«terra». Nel destino appare la «terra» - ossia tutto ciò che sopraggiunge nell’eterno apparire del destino
ma appare nel suo esser isolata dal
destino, appare cioè come il luogo
originario del controvertibile - ossia del credere-volere - interpretare. AH’interno della terra isolata
si crede inoltre che 172 il linguaggio non parli d’altro che delle
cose della terra (lo si crede, senza poter
sapere che sono le cose - umane e divine
della terra isolata dal destino).
E tuttavia nello sguardo del destino appare che nella terra isolata anche il linguaggio che testimonia il
destino riesce ad affacciarsi; e appare
che non è impossibile che tale linguaggio
sia presente anche in linguaggi che sembrano essere - nelle interpretazioni del mondo che crescono e
dominano alfinterno dell’isolamento
della terra - le negazioni più
perentorie dei tratti del destino. Quella forma di testimonianza del destino che sono i «miei
scritti» sono eventi della terra
isolata, che nello sguardo del destino appaiono
alfinterno dell’interpretare, ossia della fede che costituisce l’isolamento della terra - appaiono
all’interno dello sconfinato contenuto
dell’isolamento. L’obbiezione che si
sta prendendo in considerazione è una
voce dell’isolamento, cioè del controvertibile. Che la testimonianza del destino sia uno sviluppo
dove il linguaggio giunge a dire
qualcosa che prima negava è un presupposto
controvertibile. Ma nessun controvertibile è qualcosa che - in quanto configurantesi così come attualmente
si configura - potrebbe venire a
mostrarsi come incontrovertibile: quella
configurazione è una negazione dell’incontrovertibile. Tutte le più incrollabili certezze della «vita»
(che appaiono tutte nella terra isolata)
- tutte le forme del controvertibile - sono
alienazioni della verità del destino. La risposta all’obbiezione consiste appunto nel rilevare che tale
obbiezione non solo è un presupposto
controvertibile, ma si costituisce all’interno di quella forma estrema dell’alienazione della
verità che è l’isolamento della
terra. In relazione allo sviluppo del
mio discorso filosofico - quale appare
all’interno della terra isolata - dell’intera storia 173
isolata - sono peraltro complesse le articolazioni che conducono da La struttura originaria (1958) a
La morte e la terra (Adelphi 2011), e
nelle quali, tuttavia, il centro di quello
scritto del 1958 permane lungo tutto il tragitto (e si era fatto innanzi già qualche anno prima). Nel
tragitto, la «svolta» (così è stata
chiamata) consiste nella sopraggiunta consapevolezza, per un verso, che quel centro richiede la
messa in questione dell’intera storia
dell’uomo e, per altro verso, che Yalienazione
dell’uomo e, per altro verso, che Valienazione (del senso autentico della verità ) che domina tale
storia lascia per un certo tempo le sue
tracce anche neìYalone che nei miei scritti
avvolge quel centro.
L’alienazione del senso autentico della verità investe quindi anche il cristianesimo. Ma anche il «cristianesimo»,
come ogni altro evento «storico», appare
all’interno dell’interpretare secondo
cui si costituisce la terra isolata dal
destino della verità. Che il cristianesimo esista e che degli uomini abbiano una «fede cristiana» è cioè il
contenuto di una fede, della fede in cui
consiste l’isolamento della terra. Nello
sguardo del destino non è invece il contenuto di una fede l’esistenza di quella fede e
dell’interpretare che compete
all’isolamento della terra. L’esistenza di tutto ciò che chiamiamo «la nostra vita» è contenuto della
fede interpretante. (Appare aH’interno
di quella fede anche l’intera vicenda
che è stata riassunta dal titolo redazionale di un mio libro: Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli
2001. Questo «scontro», che appare
all’interno della fede della terra isolata,
sussiste, sì, tra la testimonianza del destino della verità e quella grandiosa forma dell’alienazione della
verità che è il cristianesimo e la sua
configurazione storico-istituzionale, ma
tale «scontro» è, innanzitutto e propriamente, la negazione, da parte del destino della verità, della
«verità» di ogni contenuto della terra
isolata - e quindi anche del 174
cristianesimo, in quanto appartenente a tale contenuto.) 175
5. Il destino e l’errare Il
mondo è interpretato. Non nel senso che l’uomo, quando voglia, abbia la facoltà di interpretarlo.
Anche gli uomini e i loro rapporti
appartengono infatti al contenuto
dell’interpretazione. La quale, dunque, pur essendo volontà interpretante, non è a disposizione
dell’uomo, ma dispone l’uomo e le cose
del mondo secondo gli ordinamenti da essa
stabiliti e modificati. È l’interpretazione originaria. Ma l’interpretazione non è verità: è fede,
volontà, ossia errare. Il mondo in cui
l’uomo crede di vivere è errare.
Tuttavia l’interpretazione appare aH’interno della verità. Non delle verità del mondo - che sono a loro
volta form e particolari di interpretazione -, ma di ciò
che nei miei scritti è chiamato «destino
della verità», o semplicemente «destino».
L’interpretazione è errare perché separa il mondo dal destino. La «terra isolata» è ciò che appare in questa
separazione. Anche le teorie
dell’interpretazione, avanzate dalla cultura del nostro tempo, appartengono alla terra
isolata. L’interpretazione, che evoca i
propri contenuti sul fondamento di
regole e di criteri (di cui essa è più o meno
consapevole), può adottare (cioè volere) quell’insieme di regole e di criteri in base ai quali essa può
affermare che l’uomo esiste come
molteplicità di individui umani e che gli
uomini interpretano il mondo in modi diversi e con un diverso grado di coerenza rispetto alle
regole e ai criteri adottati. Ma anche e
innanzitutto il destino della verità vede
la differente coerenza delle interpretazioni evocate dall’interpretazione originaria. Che la
«storia» dell’«uomo» sia storia del
mortale, cioè della fede che, in modi estremamente diversi e complessi, le cose e l’uomo stesso
diventano altro da ciò che essi sono e
quindi muoiono via via ciò che sono stati,
fino alla morte di tutto ciò che essi possono essere, questa è 176
una interpretazione; che però si presenta come la più «coerente», sino ad ora, rispetto a ogni
altra interpretazione di quella «storia»
(la cui stessa esistenza è un contenuto
interpretato). Non è escluso cioè che - ad esempio in seguito a una svolta radicale delle discipline
storiche, linguistiche, antropologiche,
psicologiche ecc., si imponga una nuova
forma di interpretazione, per la quale l’uomo non ha mai creduto che le cose siano un diventar
altro. Sino a che quella svolta non si
manifesta, l’interpretazione «più
coerente» è tuttavia in grado di mostrare quell 'ulteriore coerenza, per la quale i diversi modi di
pensare e di vivere il diventar altro
delle cose è esso stesso un mostrarsi sempre più coerente a sé stesso, lungo il percorso che
conduce dall’esistenza guidata dal mito
all’esistenza guidata dalla «verità» e,
in seguito, dalla distruzione della «verità» (ossia della «verità» che appartiene alla terra isolata)
alla civiltà della tecnica. Il destino della verità mostra che questo è
il percorso dove YErrare estremo
perviene alla propria estrema coerenza; ma è
anche questo stesso percorso, in quanto isolato dal destino e dunque con le proprie forze, a mostrare il
proprio diventar sempre più coerente
alla fede nel diventar altro, dalla quale
tale percorso si sprigiona. Non potendo sapere di essere l’Errare, l’Errare stesso provvede cioè a
rendere sempre più coerente (e, dal suo
punto di vista, sempre più «vera») la
propria fede nel diventar altro, che all’inizio della storia dell’Occidente si presenta in forma
ontologica, ossia come convinzione che
le cose del mondo, corruttibili, escono dal
loro non essere (dal loro esser nulla) e vi ritornano. E poiché questa convinzione - se il linguaggio si libera daH’incantesimo della terra isolata - è
convinzione che l’essente in quanto
essente sia niente, la storia dell’Occidente è
storia del nichilismo - in un senso essenzialmente diverso da 177
quello affermato da Nietzsche e
Heidegger. Innanzitutto, l’intera storia
della filosofia si costituisce il proprio costituirsi come sistema : non in senso hegeliano, come
sistema della «Verità», ma come sistema
dell’Errare. Il compito gigantesco da
cui è atteso il linguaggio che sul
fondamento del destino mostra il nichilismo dell’Occidente è di allargare a tutte le dimensioni attraverso
le quali si dispiega l’Occidente
l’analisi in cui appare il suo carattere di sistema : allargarla alla dimensione religiosa,
artistica, economica,
politico-giuridica, a quella della historia rerum gestarum e delle res gestae, oltre che, appunto, a
quella delle diverse forme della scienza
in quanto sapere della natura e dell’uomo
e in quanto sapere logico-matematico. Anche in queste dimensioni è possibile scorgere il percorso
che rende sempre più coerente e visibile
il nichilismo che in modo specifico le
avvolge e sorregge, e la sua tendenza all’autodistruzione. La dimensione filosofica del nichilismo anima tutti
gli altri luoghi dell’Occidente e ormai
del pianeta - e tanto più quanto più
essa è ignorata sì che innanzitutto all’esplorazione analitica del suo articolarsi dev’esser data
la precedenza. Per indicare l’Errare è
necessario esserne al di fuori: solo in
quanto il destino della verità è già da sempre aperto qualcosa può apparire come l’Errare - che d’altra
parte non è qualcosa di accidentale
rispetto al Non Errare. Lo smascheramento del
nichilismo non è una semplice «confutazione» di un errore che, esercitando una maggior attenzione e
perspicacia, si sarebbe potuto evitare.
La grandezza della verità richiede la
grandezza dell’Errare e dell’errore. E la cura per la potenza delle configurazioni storiche del pensiero
filosofico, per la loro inevitabilità -
cioè per la loro capacità di andar oltre le
forme storiche di volta in volta raggiunte, proprio perché sono queste stesse forme a richiedere di
essere oltrepassate senza peraltro riuscire
a soddisfare questo loro intento più
178 profondo, è un modo di
pensare la filosofia che troppo presto è
stato messo in disparte col pretesto che Hegel ne aveva abusato. Recuperandone la forma (e non il
contenuto, si è già detto), si dovrà
comunque distinguere il senso che
l’inevitabilità del processo storico presenta in quanto considerato alfinterno della logica
dell’Errare e il senso di tale
inevitabilità in quanto appare nello sguardo del destino. Al culmine della propria coerenza - e
dunque nell’incombere della propria
distruzione - il nichilismo si presenta
come civiltà della tecnica. Come ho
richiamato più volte, l’essenza della tecnica non è infatti il suo carattere scientifico-matematico
(che peraltro, oggi, non si scorge come
potrebbe venir sostituito da una
concettualità più potente - anche se questa insostituibilità è una situazione di fatto, un fatto grandioso
che ha alle proprie spalle tutti i
successi della scienza). L’essenza della tecnica è la messa in opera del rapporto mezzo-fine:
l’organizzazione di mezzi in vista della
produzione di scopi, e propriamente di
quello scopo che è l’incremento indefinito della capacità di produrre scopi. Se qualcosa riuscisse a
servirsi della tecnica - se cioè
riuscisse ad assumere la tecnica come mezzo,
costituendosi pertanto come il supremo dominio e come la potenza suprema, tale qualcosa sarebbe la
tecnica autentica, cioè la tecnica più
potente. Infatti già ora la tecnica assume e
usa come mezzo non soltanto le forze che si illudono di servirsi di essa come mezzo, ma si serve
anche di sé stessa o di una dimensione
parziale di sé stessa. Ormai (cioè dopo la fine
di quell’illusione), che qualcosa si serva della tecnica significa che la tecnica, ossia ciò che oggi si
presenta come la forma più potente del
divenire, si serve e usa sé stessa o una sua
dimensione parziale. Poiché la volontà di accrescere all’infinito la propria potenza è lo scopo
della tecnica, questa volontà è la forma
«trascendentale» del divenire, che
179 servendosi di mezzi si
serve anche di sé e delle forme
particolari, «empiriche» del divenire. Detto in modo sommario: si serve di sé, in quanto potenza
massima attualmente realizzata, per
produrre sé in quanto potenza ancora
maggiore - e servendosi di sé e usando sé stessa si serve e usa anche le forme di volontà di
potenza che credono ancora di poter
guidare la tecnica (e lo credono nella misura
in cui la tecnica non riesce ancora a sentire la voce dell’essenza, peraltro tendenzialmente
nascosta, del pensiero filosofico del
nostro tempo, che mostra l’impossibilità di ogni limite assoluto alla volontà di accrescere la
propria capacità di realizzare scopi).
La tecnica - che può essere mezzo solo in
quanto si propone innanzitutto come lo scopo supremo del divenire - è ormai la forma fondamentale del
divenire, rispetto alla quale il divenire
«naturale» si presenta come routine,
staticità che tale volontà va sempre più sciogliendo. La civiltà della tecnica è, così, il culmine
della coerenza del nichilismo (anche se
ancora resta da esplorare, da un lato, il
rapporto tra i contrapposti modi in cui Leopardi e Nietzsche intendono la forma trascendentale della
volontà che si fa avanti alla fine
dell’età della tecnica, e, dall’altro, il rapporto tra questi modi e l’attualismo
gentiliano). 180 6. Il destino e la Gloria L’anima dell’Occidente: la persuasione che
le cose e gli eventi - gli essenti -
escano dal niente e si annientino. Ciò
significa che annientati sono niente, e che prima di uscire dal niente sono niente. Ma questa persuasione
è la Follia essenziale, la più profonda
che possa manifestarsi nel mondo
dell’uomo e nel Tutto. È infatti la persuasione che un essente, un no n-niente, divenendo, sia, in
quanto essente, niente (come passato e
come futuro). In forme diverse, la
Follia domina la storia della terra, ma al di fuori della Follia appare eternamente l’eternità di ogni
essente: di ogni evento, di ogni stato
del mondo, di ogni essente che non sia uno stato del mondo. Il «mantenersi al di fuori della
Follia essenziale» non è una semplice
fede, un mito, un desiderio vano, un dono
divino, una «filosofia», e non è nemmeno un atteggiamento scientifico: non perché non riesca a
raggiungere il rigore delle scienze
della natura e delle scienze logico-matematiche, ma perché, nel suo significato autentico, il
«mantenersi al di fuori della Follia» ha
un «rigore», un’«incontrovertibilità», una
«stabilità», e dunque una «verità» e «necessità» essenzialmente più radicali di quelli che
competono al sapere scientifico, e a ogni
altra forma di «sapere» e di «coscienza».
La negazione di ogni verità assoluta a cui è pervenuta la coscienza critica del nostro tempo è
conseguenza inevitabile della
persuasione che le cose e gli eventi siano divenienti, cioè possano uscire dal nulla e annientarsi. Ma in
quanto appare, nella Non-Follia, la
Follia di tale persuasione, quella
conseguenza non è più inevitabile; cioè non si può impedire, al pensiero che si mantiene nella Non-Follia,
di essere la verità e necessità
essenzialmente più radicale di ogni «verità»
e «necessità» della conoscenza scientifica, e di ogni altra forma di conoscenza. «Destino della
necessità» si può 181 chiamare questo senso estremo della verità
e della necessità, che si mantiene
eternamente presso di sé. Il destino
della necessità è l’essenza autentica dell’uomo: come apparire eterno degli eterni, l’uomo è
infinitamente altro dall’essere un che
di effimero, preda del tempo e del
nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un Salvatore. Nella sua essenza autentica l’uomo
è il luogo eterno che accoglie la terra,
ossia tutto ciò che sopraggiunge - e tutto
ciò che sopraggiunge è il corteo degli eterni al quale appartengono non solo gli «individui umani»,
ma la stessa Follia essenziale, cioè la
stessa fede che gli essenti possano
uscire dal niente e ritornarvi.
Stando aH’interno della Follia, gli uomini chiamano «storia del mondo e dell’universo» il sopraggiungere
degli eterni, ossia la terra. Al di
fuori della Follia, la storia del mondo e
dell’universo non è la produzione e la distruzione degli essenti, ma è il comparire e lo scomparire
degli essenti, cioè degli eterni. La
morte appartiene alla manifestazione degli
eterni, è un evento interno al cerchio eterno dell’apparire degli eterni in cui l’uomo consiste. La morte
non travolge e non disperde l’uomo, ma è
l’uomo a comprenderla in sé stesso come
parte della totalità in cui egli consiste.
Da sempre e per sempre, quel cerchio è l’apparire della verità del destino. La terra sopraggiunge nel
cerchio del destino - che dunque è una
dimensione finita. L’uomo è sì
l’apparire infinito del destino della verità, ossia l’apparire di tutto ciò che è, nella sua
verità assoluta - e dunque è l’apparire
in cui non può sopraggiungere alcunché
(appunto perché esso è l’eterno apparire di tutto) ma l’infinito rimane l’inconscio del finito:
nell’uomo, in quanto luce finita del
cerchio del destino, l’eterna luce infinita è
destinata a rimanere nascosta, pur affacciandosi, con la terra, 182
in quel cerchio. Come eterno
oltrepassamento di tutte le contraddizioni del
finito, l’apparire infinito del destino è la Gioia, l’inconscio dell’uomo, in cui egli è destinato a
inoltrarsi, all’infinito. Ma che ne
sanno, intanto, gli «individui umani» - o i
«popoli» - di tutto questo? Nulla. Vedono in eterno la verità, ma i loro linguaggi tacciono di ciò che si
mostra nella piena luce e parlano
soltanto di ciò che sopraggiunge; e la terra
appare come la dimensione in cui la volontà dell’uomo ha la potenza di trasformare e dominare cose ed
eventi. «Due anime abitano nel nostro
petto»: l’apparire del destino della
verità e la separazione della terra da tale apparire. Il mondo in cui crediamo di vivere - il mondo del dolore
e della morte - è il volto che la terra
viene a mostrare nel suo essere così
separata e isolata. Ma intanto,
prima del tramonto della Follia l’uomo è
rattrappito. Nelle sue certezze, innanzitutto. È infinitamente di più di quel che crede di essere.
Rattrappito, perfino quando crede di
essere Dio o il figlio di Dio, o che la sua anima sia immortale o che anche il suo corpo possa
risorgere. È rattrappito anche nei suoi
desideri: non perché debba desiderare di
più, ma perché l’uomo desidera quando non è
consapevole della propria infinita ricchezza e della necessità che tale ricchezza gli si faccia innanzi
lungo un percorso a sua volta infinito
al quale, dunque, si addice la parola «Gloria». E, tutto questo, non certo perché sia io o tu o
un popolo o un Dio a dirlo, ma perché
appare, non smentibile, nel più profondo
di ognuno di noi. Già da sempre, eterni, siamo oltre qualsiasi Dio e qualsiasi forma dell’esser
uomo. L’isolamento della terra dal
destino della verità è il fondamento, la
radice più profonda della Follia essenziale.
L’isolamento della terra non è una «colpa», una «decisione» 183
dell’individuo, ma è esso stesso destinato all’uomo in quanto cerchio finito del destino. Solo all’interno
della terra isolata può apparire
qualcosa come «individuo umano», «popolo»,
«società». Sul fondamento della terra isolata si fa innanzi, nell’apparire, la Follia essenziale e la
storia dell’Occidente, che è ormai
storia del pianeta, destinata a culminare nella civiltà della tecnica. Quali sentieri la terra è destinata a
percorrere nel cerchio finito
dell’apparire? Il suo isolamento dalla verità è
insuperabile? È destinata ad abbandonare quel cerchio? Quali spettacoli sono dunque destinati a mostrarsi
in quel cerchio durante la «vita» e dopo
la «morte» - che, comunque, non può
essere l’annientamento di ciò che dell’uomo è andato via via apparendo? Nella sua essenza autentica l’uomo non solo
è l’eterno apparire degli eterni e degli
eterni della terra, ma è la luce che si
allarga senza fine sulla distesa degli eterni: nel senso che ogni eterno che sopraggiunge (ossia ogni
configurazione della terra) è destinato
a essere oltrepassato dal sopraggiungere,
nell’apparire, di altri eterni; sì che anche l’isolamento della terra - che tuttora domina i pensieri e le
azioni dei mortali - è destinato al
tramonto; e la Gioia, pur rimanendo inesauribile, è destinata a mostrarsi libera dal contrasto
con la terra isolata. L’essenza
autentica dell’uomo, come luce dell’apparire degli eterni, che si allarga senza fine, è la
Gloria dell’uomo. L’uomo è destinato a
questo rapporto tra la Gioia e la Gloria
- che dunque non è un premio concesso a chi abbia usato «bene» la propria «volontà libera» -. È
necessità che, dopo il tramonto
dell’isolamento della terra - e dunque dopo
il tramonto della «vita» e della «morte», della «volontà» e dell’«abulia» - l’uomo sia l’inesauribile
apparire della libertà della Gloria
dalla terra isolata. 184 Tale libertà non è oblio della terra
isolata: tutto ciò che nel cerchio
dell’apparire è oltrepassato è insieme totalmente conservato in quel cerchio. Se il dolore, che
come ogni essente è anch’esso eterno,
non fosse eternamente e totalmente
conservato nel cerchio delfapparire, il suo oltrepassamento sarebbe una semplice immagine, un’astratta
rappresentazione (cfr. E.S., La Gloria,
Adelphi 2001). Poiché la «Gloria» - il
dispiegamento infinito degli eterni nel
cerchio finito delfapparire - è la Gloria dell’uomo, per un verso essa si dispiega nel cerchio in cui
appare questa «mia» fede di essere una
forza, «individuo» capace di trasformare
consapevolmente le cose; per altro verso la Gloria è il dispiegarsi, in quel cerchio, e in ogni altro
cerchio, degli infiniti altri cerchi
finiti. In ogni uomo è destinata cioè a
sopraggiungere, in carne e ossa, la totalità infinita dell’umano e dunque la totalità infinita dei modi in cui
la terra è stata e sarà isolata. Questo
è il «venerdì» santo che precede la
«pasqua» della terra libera dall’isolamento. Si dice, di Cristo: Nonne oportuit haec pati Christum et ita
intrare in gloriam suam? (Le., 24,
26-27). Ma volendo trasformare la terra per
prendere su di sé il dolore del mondo, egli «vuole» qualcosa che invece è necessità che accada in ogni
cerchio delfapparire, e il cui
accadimento è richiesto con necessità dalla
destinazione di ogni cerchio alla Gloria, oportet haec pati in Gloria - e nella Gioia. *
Cfr. su questo punto, per restare agli studi più recenti, i saggi di
Leonardo Messinese L’apparire del mondo.
Dialogo con Emanuele Severino , Mimesis 2008; Il paradiso della verità.
Incontro con il pensiero di Emanuele
Severino , ETS 2010; Né laico, né cattolico, Dedalo 2013; e i saggi di
Nicoletta Cusano, Emanuele Severino.
Oltre il nichilismo, Morcelliana 2011; Capire Severino. La risoluzione
delVaporetica del nulla, Mimesis 2011.
A Messinese interessa valorizzare soprattutto il mio scritto del 1958 La
struttura originaria (La Scuola) - e in
generale la prima fase del mio discorso filosofico - e gli interessa
valorizzarla anche perché, a suo avviso,
essa sarebbe compatibile con la fede cristiana; alla Cusano interessa invece sottolineare quanto del nichilismo permanga
in quella prima fase di oltrepassamento del nichilismo, e, questo, per valorizzare il modo in cui gli
scritti successivi si liberano da quella permanenza: ma le interessa 185
anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il
nichilismo permane in quella prima fase e
tutte le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo,
compiuto appunto in tale fase, che è
quello decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli
altri. 186 Sezione seconda Storia dell’Occidente e filosofia 187
I Alle origini dell’Occidente.
Due colloqui 1. Eschilo- Eschilo (E): Conosco quel che tu scrivi di
me... che oltre a essere uno dei più
grandi poeti sono anche uno dei più grandi
filosofi che i mortali abbiano mai avuto... e che proprio perché la filosofia è in me così grande può
esser divenuta in me così grande la
poesia... Ma... c’è anche
dell’altro... Interlocutore (I): Se
tutto questo - ed è molto! - non ti può
bastare... e non certo perché tu sia insaziabile... E. Certo! Tu mi metti in testa al grande
Corteo della tradizione dell’Occidente.
Ma poi, questo Corteo lo vede fermarsi
(o muoversi per inerzia)... e credi che sia sorpassato da un più potente Corteo : quello della
civiltà del vostro tempo: la civiltà
della «morte di Dio», come Nietzsche si
esprime, la civiltà della tecnica... Non è così?... I. In qualche modo sì... ma, tu sai bene,
ciò che più conta non è quel che si
dice, ma la verità di quel che si dice... e la
più gran questione, a partire dai Greci, è il senso della «verità»... Quanto al semplice dire, anche i
bambini sono capaci oggi di dire che Dio
è morto... E. ... e tu credi invece che
si possa sapere il vero perché di questa
morte! I. Ma se ti fermi qui non ci
facciamo capire... E. Lo so... Perché
poi, a tuo avviso, tutti e due quei Cortei
di cui ho parlato, e che pure sono in lotta tra loro, sono uniti da una stessa cadenza... o, se preferite,
dalla stessa Anima... Come se la loro
marcia fosse scandita dallo stesso Canto...
(che però richiede orecchie fini, tu dici, per essere udito)... e per te quest’Anima e questo Canto li accomuna
più di quanto 188 la loro inimicizia li divida...: come se
celebrassero un rito comune... che però è
inviso al Cielo... (chiamiamolo così).
I. Sì... purché ci si intenda sulla parola «Cielo»... Non la uso mai... ma forse, in questo nostro veloce
colloquio potrebbe servirci... E. ... Ma vedi allora che non mi può bastare
il riconoscimento che tu dai della mia
grandezza poetica e filosofica! Ti
sembra che mi ci trovi bene alla testa di un
Corteo che, per quanto potente, non solo è superato da un altro ancora più potente, ma che insieme a
quest’altro non ottiene il favore del
Cielo? L Dipende da questo «Cielo» che
le cose vadano così. Cioè né da me né da
te... Ma, intanto, su questo possiamo esser
d’accordo: che il Cielo di cui stiamo parlando non può essere il cielo di Dio (non si dice che Dio sta
«nell’alto dei cieli»?)... ma nemmeno
essere quello degli atei, che riabbassano il Cielo al soffitto delle loro case... Non credo che avremo tempo di parlare del
significato del «Cielo» inaudito al
quale ci si deve riferire. Ma ora lasciamo
dire questo... E. Certo! E ... che se non ottenere il favore del
«Cielo» significa essere nell’Errore,
l’Errore è però prezioso come la verità...
Soprattutto quando è grande come quello dei due Cortei di cui si parlava... Lo dico, un po’ nel senso
in cui quell’altro grande che è Emanuele
Kant osservava che senza la resistenza
dell’aria le colombe non potrebbero volare... E. ... Intanto siamo al mio «Cielo»: il «Cielo»
di Dio... che d’altronde non è nemmeno
il cielo di Cristo... e non solo perché,
quando io scrivevo, Cristo non era ancora nato... L Sì, tu ti rivolgi a Dio - ecco le tue
parole - «con un sapere che sta e non si
lascia smentire»; e questo sapere non può
189 essere la fede cristiana
né alcun’altra fede. Avvolto nello
splendore della tua poesia, è tuttavia il «Dio dei filosofi» e tu sei stato uno dei primi re del pensiero ad
affermarlo. La grandezza di ciò che tu
hai visto non poteva essere espressa che
da un linguaggio potentemente nuovo, che ha attratto gli amanti della poesia ma ha fatto perdere di
vista che lì stava nascendo la
filosofìa, la più grande delle avventure del
mortale... E. Di solito, quando
si dice «Dio dei filosofi» si pronuncia
questa espressione con un accento di più o meno larvato rimprovero, mentre il volto e la voce si
rischiarano, quando a codesto Dio si
contrappone il «Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe» e, soprattutto, il Dio di Gesù... I. Ma il rischiararsi di quei volti e di
quelle voci è poca cosa rispetto al
chiarore di cui parli tu quando ti riferisci al «sapere che sta e non si lascia smentire»! E. È il chiarore della filosofia. Quando
pronuncio l’espressione phrenòn tò pàn
intendo parlare del «culmine della
sapienza»... (come tu traduci) ossia di ciò che noi Greci eravamo in procinto di chiamare «filosofia».
E il «culmine della sapienza» è il
«sapere che non si lascia smentire»...
Stando su quel culmine e in quel sapere, si abita en phàei, «nella luce», nel vero chiarore... I. Sì, nella tua lingua «luce» si dice phàos
e la parola «filosofia» contiene le
parola sophia... che è costruita sulla
parola phàos, e dunque suona come se dicesse: grande luce... E. ... Certo: quel «so» di so-phia è un
prefisso che rafforza, intensifica e,
appunto rende grande il significato della parola da cui è seguito, cioè, in questo caso, il
significato della parola phàos. I. ... e quindi si deve dire che
philo-sophia significa «aver cura per
ciò che sta nella grande luce, al culmine della luce»... 190
La cura per qualcosa che è essenzialmente più radicale del rigore del sapere scientifico e della
dedizione di ogni fede. E. ... e che
per questo, ma solo per questo, può essere detto «sapienza»... Forse ora si potrebbe incominciare a capire
ciò che tu affermi del modo in cui io
intendo la «sapienza»: quel che sta al
culmine della luce è «il sapere che sta e non si lascia smentire»...
L Ho dovuto usare quest’ultima lunga espressione per tradurre quel che tu esprimi rapidamente
quando affermi di rivolgerti a
Dio... E. Sì, io dico: rivolgersi a Dio
pant’epistathmómenos ... che tradotto
alla lettera nella vostra lingua significa «ponderando bene tutte le cose»... Ma tradotto così alla
lettera dice ben poco... Se si è capaci
di scendere nel senso profondo di queste
mie parole greche, bisogna intenderle nella direzione in cui tu ti sei messo... In esse risuona una grande
parola: la parola epistéme che alla
lettera vien tradotta con la parola «scienza»,
ma che nel suo significato originario significa «lo stare» (- stéme), dove lo stante non si lascia scuotere
dalle forze che vorrebbero scuoterlo,
abbatterlo e smentirlo. I. Ti ringrazio
per quanto hai detto di me... A questo punto
sarebbe forse il caso che tu richiamassi e facessi sentire quel tuo «Inno a Zeus» - l’«Inno a Dio» - che,
parlando del culmine della sapienza, sta
esso al culmine della sapienza che guida
la tradizione dell’Occidente... QuellTnno è il contesto in cui compare la rapida e potente
espressione che ho tradotto con «il
sapere che sta e non si lascia smentire»...
E. Ne ricorderò solo una parte... e non nella mia lingua, ma nella traduzione che tu nei hai dato, e
con qualche ritocco... «Se il dolore, che getta nella follia,
dev’essere cacciato 191 dall’animo con verità, allora, soppesando
tutte le cose con un sapere che sta e
non si lascia smentire, non posso pensare che
a Zeus [...] che ha vinto tre volte».
Chi ha la mente protesa verso Zeus e annuncia la sua vittoria perviene al culmine della
sapienza. Guidando il pensiero dei
mortali Zeus ha stabilito che il sapere
acquisti potenza sul dolore. Quando, invece del sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda
il dolore, allora, anche senza che lo
vogliano, sopraggiunge nei mortali un
sapere che salva. Questo è un dono dei dèmoni che siedono potenti sul sacro seggio di Zeus. I. Quanto tempo occorrerebbe per portare alla
luce la grandezza di queste parole!...
Bisognerebbe mostrare, innanzitutto, che
Zeus è per te ciò che la filosofia, nascendo,
chiama «Dio»... e che tu sei tra i pochi che la fanno nascere... E. Zeus «ha vinto tre volte»: ha vinto per
sempre la propria mente... quindi è il
«totalmente essente», come tu hai
tradotto l’espressione pantelés, che compare nella mia tragedia Le supplici ... I. ... e, ancora, bisognerebbe mostrare che
tu incominci a intendere la morte come
l’andare nel nulla e dunque a pensare
quel significato radicale del nulla che prima di Parmenide, di te e di pochi altri era rimasto
nell’ombra... e portandolo alla luce
avete fatto sì che gli uomini
incominciassero a nascere e a morire in modo diverso da prima: nel modo estremo e più
terribile... E. Morire sapendo di
andare nel nulla dal quale «non c’è ritorno»
è infatti qualcosa di essenzialmente diverso dalla morte di chi, la morte, non la può vedere
legata al nulla perché ancora non sa
nulla del nulla... I. All’estremo
opposto di Zeus che «ha vinto per sempre» la
propria morte e per questo è «totalmente essente», c’è il 192
panóles, la parola con la quale tu indichi Tesser totalmente distrutto» di chi è spinto nel nulla dalla
morte... E. Eppure... eppure nel mio
«Inno a Zeus» dico che «il dolore che
getta nella follia deve essere cacciato dalVanimo con verità»...! e il dolore getta nella follia
quando lo si patisce come messaggero
della morte!... Nel mio Inno io indico
anche il «Rimedio»!... il Rimedio contro la follia in cui getta l’angoscia della morte!... il «Sommo
Rimedio»! I. Sì, tu hai indicato il
«Rimedio»... Di più: alTinterno della
storia dell’ epistéme tu sei stato il primo a indicarlo a chiare lettere... Di più ancora! Il tuo «Rimedio» è
il Riparo sotto il quale si sono
rifugiati quasi due millenni e mezzo di storia
dell’Occidente... e si semplificano troppo le cose dicendo che il tuo Rimedio è Dio!... E. Certo, si semplificano troppo, perché
anche nel mio Inno dico che... «con
verità» è necessario cacciare la follia del
dolore... «con verità»!... cioè con un «sapere che sta e non si lascia smentire»... e questo sapere non può
essere nessuna sapienza che il mito ha
prodotto, e nessuna fede, nemmeno quella
che per chi è venuto dopo di me è stata la fede cristiana o la fede nella tecnica del vostro tempo!
Inchiodato dalle arti, cioè dalla
tecnica del falso Zeus del mito e della fede, non è forse il mio Prometeo, a urlare: «La tecnica
è troppo più debole della Necessità»?
Sono io a pronunciarle, queste parole,
perché la Necessità è proprio ciò che si manifesta alTinterno del «sapere che sta e non si
lascia smentire», e che nel mio Inno
chiamo sophronéin, cioè «sapere che salva»,
come tu hai tradotto... L Siamo
al centro del tuo pensiero e del pensiero della
tradizione occidentale: la verità salva - voi dite. Nel tuo Inno lo metti in piena luce. E. «Guidando il pensiero dei mortali Zeus ha
stabilito che il 193 sapere acquisti potenza sul dolore» e
questo è il sapere che sta e non si
lascia smentire. I. Ha in mente te e
gli altri grandi filosofi greci, Gesù,
quando dice: «La verità vi farà liberi»! Liberi da che cosa se non dalla incapacità di sopportare il dolore
e la morte...? E. ... solo che in lui
la verità è ormai diventata la verità
della fede, la volontà che un sapere sia verità perché è lui a rivelarlo...
I. ... mentre la filosofia ha cura per il sapere che mostri da sé stesso di non poter essere
smentito... E. Su questo pensiero la
filosofia si è curvata per millenni...
L ... si tratta di aver cura per la luce che non inganni e della potenza che può essere suprema, divina,
supremamente liberatrice solo in quanto
essa appaia in questa luce... E. «Saldi
rimedi»; saldi, cioè veri, invocano le Erinni alla fine della mia Orestea... Su questo pensiero
la filosofia si è curvata per
millenni... L ... e si è spezzata... e
questo è insieme lo spezzarsi
dell’intera civiltà occidentale, e ormai è la spezzatura del mondo...
E. Tu vuoi dire che si è spezzata nei due Cortei di cui parlavamo all’inizio?... il Corteo della
tradizione, della verità liberatrice,
del divino... L Sì, e il Corteo del
tempo presente, dove invece si scorge
l’inesistenza di ogni «Rimedio», di ogni «Riparo» dalla nullità dell’uomo.
E. Sì, il mio Corteo ha pensato (e per primo) che le cose e i mortali sporgono provvisoriamente dal nulla,
ma ha anche pensato che dall’angoscia in
cui spinge il pensiero della nostra
nullità, ci si può liberare solo con la verità che sta, non smentibile, e mostra il divino che ha vinto
per sempre la 194 morte e in cui in qualche modo restano
salvate dal nulla tutte le cose
mortali... I. ... ma una volta che il
tuo Corteo ha evocato il canto terribile
della nullità delle cose era inevitabile che il
controcanto del Rimedio e della Salvezza dal dolore e dal nulla si rivelasse senza forza e si
spegnesse, e si facesse innanzi l’altro
Corteo, che in mille modi e anche contrastanti canta lo stesso Inno, diverso al tuo, ma figlio
legittimo del tuo: l’Inno del nulla,
della incapacità dell’uomo di salvarsi dal nulla... è inevitabile che il tuo Corteo sia seguito da
quest’altro... E. ... ma tu dici anche
questa inevitabilità non è a portata di
mano e che molti cantori del mio Corteo credono che il mondo debba essere guidato da loro... I. Sì, lo «credono»... si illudono... perché
sotto la cenere di Dio c’è il fuoco del
nulla. Leopardi canta così: ... a noi
presso la culla immoto siede, e su la
tomba, il nulla e questo canto finisci
col sentirlo anche al di sotto delle voci
delle «magnifiche sorti e progressive» della tecnica... E. ... che tenta di allontanare il più
possibile il dolore e la morte. L La tua sentenza che «la tecnica è troppo
più debole della Necessità» deve essere
rovesciata: oggi appare che la Necessità
è troppo più debole della tecnica : considera allora quanto essa (cioè il canto del tuo Corteo) sia debole, se
la tecnica stessa che è molto più forte
è poi del tutto impotente rispetto al
nulla che attende ogni cosa! E.
Ma, poi, tu sostieni che l’anima più profonda di quei due Cortei è la stessa (l’abbiamo accennato
all’inizio!). Mi sembra che tu voglia
dire che essi intonano entrambi l’Inno del nulla, e che il mio Corteo si illuda, dopo averlo
cantato di poter 195 cantare anche quello a Zeus... I. Sì, ma ora è tempo che il nostro
colloquio si concluda... E. ... e
sostieni anche che tutti e due i Cortei e tutti e due gli Inni non riescano a ottenere il favore di
quel Cielo di cui parli tu e che sarebbe
abissalmente diverso sia da quello degli
amici sia da quello dei nemici di Dio... L ... sì, ma ora dobbiamo salutarci... E. ... e in quel Cielo appare la Necessità
autentica, non quella che si fa vincere
dalla tecnica, ma la Necessità che tutto
sia eterno - tutto: ogni gesto, ogni stato, ogni cosa, ogni vicenda, anche i due Cortei, e anche i due
Inni... I. ... questo Cielo non è una
dottrina che passi dalla testa di uno a
quella degli altri. E. ... risplende in
ognuno di noi anche quando non ce ne
accorgiamo... I. Ti ringrazio di
aver accennato a queste cose.. E. ...
arrivederci, allora! I.
Arrivederci! 196 2. Parmenide 1 Interlocutore (I): Anche tu, gli uomini, li
chiami «mortali». Della loro mente dici
che è plaktón. Dovrebbero riflettere a
lungo su questa parola. Di solito la si traduce con «errante». Non è sbagliato - purché si sappia che cosa
spinge la loro mente a errare. Parmenide (P): Infatti. Sono spinti a errare
perché credono che 1’esistenza della
nascita e della morte, cioè l’uscire dal
nulla e il ritornarvi, sia verità. Lo dico continuamente nel mio Poema. Ad esempio nei versi 39-40 di quello
che voi chiamate «frammento 8». I. Ma quando dici che la mente dei mortali è
plaktón rendi ancora più profondo il
senso dell’errare che viene espresso da
questa parola. Infatti plaktón, che tu riferisci alla mente dei mortali (fr. 6), prima ancora che «errante»,
significa «colpita». E chi è colpito
patisce. Il colpo fa soffrire. Spinge nel dolore e nell’impotenza. Si è impotenti quando non si
riesce a ottenere ciò che si vuole.
Quando ciò accade si è preda del dolore, e
allora si vacilla, si va di qua e di là, si va errando, appunto. La mente dei mortali è «errante» perché è
«colpita». È colpita dalla convinzione
non vera che nascita e morte esistano. E,
preda di questa convinzione, patisce.
P. Sì, con la parola amechame ho indicato appunto questa impotenza, angustia, mancanza, questo essere
avvolti dal dolore quando non si segue -
così lo chiamo - il «sentiero della
Verità». Amechame indica l’assenza di mechané , ossia della «macchina» (nel senso originario di
questa parola), ossia del «mezzo» che
consente di liberarsi dall’impotenza
angosciata. La frase completa dove parlo della mente errante dei mortali dice infatti: «Nei loro petti
un’impotenza angosciata governa la mente
colpita ed errante». I. Dunque tu dici
che credendo nell’esistenza della nascita e
197 della morte, nell’essere e
non essere di ciò che è, la mente dei
mortali è colpita e va errando nell’oscurità dell’angoscia... ! P. ... e che da questa «Notte» si esce
andando «verso la luce» della
Verità. I. Nietzsche ha scritto che
tutto il pensiero filosofico, prima di
lui, è stato al tuo seguito. Non sono d’accordo, anche se tu stai indubbiamente al centro della storia
dell’Occidente. Un celebre filosofo
della scienza ha sostenuto non molto tempo fa
che tu sei il padre di quella roccaforte della scienza moderna che è la fisica e che tutti i grandi fisici
del nostro tempo sono stati parmenidei.
Di nessun altro Platone ha detto quel che ha
detto di te: «Venerando e terribile», l’espressione che Omero riferiva agli dèi. Sono d’accordo con
Platone. Ma tu sei un grande dio
bifronte... ne parleremo più avanti, se lo vorrai... P. Sentirò che cosa intendi dire. I. Ritorniamo, se ti va bene, a quanto
stavamo dicendo prima della mia
digressione. Quando parli dei mortali dalla
mente errante, mostri le configurazioni della loro angosciata e dolorosa impotenza ( amechame ): essi, tu
dici, sono «ottusi», «accecati», «storditi».
E sostieni che è necessario cacciare via
dalla mente, con verità, tale impotenza, che li rende folli. P. Anch’io ho compiuto il gran viaggio verso
la Verità, accompagnato dalle «Figlie
del Sole», e mi sono lasciato alle
spalle le «case della Notte», le case di quell’impotenza. I. Non è un caso che Eschilo dica lo stesso.
Nell’Inno a Zeus, dell’ Agamennone, il
coro canta: «È necessario cacciar via
dalla mente, con verità, il dolore che rende folli». P. Sì, son proprio le sue parole... I. ... e anche le tue; anche se tu, la
mente, la chiami nóos e lui phrontìs; e
il dolore che rende folli tu lo chiami amechame, mentre lui lo chiama àchthos. Ma
quell’affermazione di Eschilo, e la tua,
indicano la nascita stessa della filosofia -
198 anzi, sono questa
nascita. P. Sì, la filosofia è il
«sentiero della Verità». Se lo si percorre
si è capaci di cacciar via dalla mente l’angosciata e dolorosa impotenza che la rende folle. I. Anche prima della filosofia ciò che i
mortali vogliono sopra ogni altra cosa è
riuscire a vincere il dolore e la morte.
Ed è, quello, il tempo del mito, cioè il tempo in cui essi credono nell’esistenza delle potenze
demoniche e divine della terra e del
cielo; e credono di salvarsi facendosele alleate. Ma, appunto, credono, hanno opinioni, si illudono
e nutrono «cieche speranze» (anche
queste sono parole di Eschilo), la loro
è una salvezza sognata. P. Sì, per
uscire dalla salvezza sognata è necessaria la vera salvezza, è necessario che la Verità venga
incontro e si mostri all’uomo, e mostri
in che consista la vera Potenza. Ma l’uomo
può scorgerla solo se riesce a capire in che consista la Verità. Questo è il culmine della sapienza. I. Non deviamo dal nostro discorso se a
questo punto ricordiamo che per
Aristotele la filosofia nasce dalla
«meraviglia». Con questa parola si traduce solitamente il termine greco thàuma. Ma è una traduzione che
porta fuori strada. Basta tener presente,
per giustificare questa mia
affermazione, che per Aristotele anche l’uomo del mito (l’«amante del mito», philómythos) «è in
certo qual modo filosofo», perché
anch’egli è preso dalle reti di thàuma. Ora, è
ingenuo pensare che, nell’esistenza dominata dal mito, sia l’esangue sentimento della «meraviglia» a
esser capace di far rivolgere l’uomo e
di farlo alleare, per salvarsi, alle potenze
che egli crede supreme. L’uomo del mito è il primo a lottare contro l’immane sorpresa del dolore e della
morte. Thàuma è l’angosciato stupore,
l’angosciata e dolorosa impotenza. P.
Sì, thàuma è Yamechame. Infatti Aristotele afferma che 199
la filosofia conduce «nello stato contrario» a quello da cui essa procede. Il viaggio che descrivo all’inizio
del mio Poema conduce anch’esso allo
stato contrario: dalla «Notte»
delYamechame al «Giorno» della Verità, «dove il mio animo vuol pervenire» (fr. 1, v. 19). Lo stato
contrario a thàuma, a cui la filosofia
conduce, è per Aristotele la felicità, per quel
tanto che essa è concessa agli uomini, è la loro salvezza. I. Ma, come tu avevi incominciato a dire, il
pensiero che stabilisce il senso di ogni
sapienza e di ogni agire - e dunque
della salvezza e della felicità - è il senso della Verità. Che importa una salvezza se non è vera? E una
virtù, una sapienza, una potenza che non
siano vere? È un amore per il divino se
l’amore e il divino non hanno verità? A te e a coloro che per primi con te filosofarono spetta questa
gloria ineguagliabile: aver capito che
l’avventura più alta dell’uomo consiste nel
portare alla luce il senso della Verità. P. I più pensano ad altro. Lo dice anche
Eraclito: «I molti vivono come avendo
una loro propria saggezza» (fr. 2), che è
del tutto estranea alla Verità di tutte le cose. I. «Tutte le cose»! Il Tutto! Tu e quel coro
di dèi che voi siete - voi, i primi
pensatori greci per la prima volta sulla
terra avete incominciato a parlare del Tutto. È un evento infinitamente più decisivo di quello in cui,
come si racconta, l’uomo si è rizzato
sulle gambe e ha incominciato a guardare
il cielo e le sue luci. Infinitamente più ampio e profondo è il Tutto rispetto al cielo stellato. P. Sì; e lo sguardo verso il Tutto è
necessariamente richiesto dal senso
della Verità. Infatti il «cuore» della Verità «non trema» (è atremés). Trema il cuore
delYamechame; trema il cuore di tutto ciò
che può essere negato da uomini o da dèi. Il
cuore non tremante della Verità non può esser negato né da uomini né da dèi. 200
I. Proprio per questo la Verità non può essere la verità di una parte del Tutto: se lo fosse, rimarrebbe
esposta al pericolo che dalle altre
parti si faccia innanzi qualcosa capace di
smentire la «verità» di quella parte - la verità, cioè di dimensione particolare dell’essere -, e il
cuore della verità non cesserebbe mai di
tremare. P. Questo è uno dei motivi per
i quali affermo che il Tutto non è
«divisibile», ossia non ha parti. I.
Certo, ma su questa tua tesi, vorrei, ritornare tra poco. Ora vorrei aggiungere che la Verità non può
essere negata né da uomini né da dèi,
non perché per ora essi non siano capaci
di negarla, ma domani o in un futuro più o meno lontano potrebbero diventarne capaci... P. ... ma perché è impossibile che lo
diventino. I. Solo che è questo
«impossibile» a dover render conto, ora,
del proprio significato. Da questa «impossibilità» dipende infatti 1’esistenza di un cuore non tremante
della Verità. P. Infatti, il Tutto è
«ciò che è», «l’essente» (tò eón). E al
centro del mio Poema sta questa affermazione: «È impossibile dire o pensare che Tessente non sia».
L’impossibile è appunto questo: che
Tessente (ciò che è) non sia. I. E qui
tu ti sollevi sopra tutti gli altri. D’altra parte, mi sembra che tu voglia anche affermare che
l’«impossibile» non ha un significato
per proprio conto, indipendentemente dal
significato dell’espressione «Tessente non è»; ma che «impossibile» significa proprio questo: «il
non essere dell’essente». O almeno mi
sembra che nel tuo Poema le cose vadano
così. La tua voce si leva su tutte le altre per quel suo dire che è impossibile che Tessente (il
Tutto) non sia. Tu hai l’audacia di
affermare che ciò che è, è «ingenerato»,
«imperituro», eterno dunque. E non è un’audacia avventata, ma dà da pensare ai millenni e a tutte le
sapienze che son 201 venute dopo di te - a tutte, dico, anche
quando esse non se ne sono rese conto e
ancora per molto continueranno a non
rendersene conto. P. Ma non ci
sono quelle due affermazioni che tu hai
lasciato in sospeso e che ora dovresti chiarire? La prima, che io sarei un grande dio bifronte; e, la
seconda, la tua riserva - almeno così mi
è sembrata - a proposito della mia tesi che il
Tutto - Tessente - non è «divisibile», cioè non ha parti. I. Andando avanti per questa strada - tu lo
sai bene - ci avviamo verso una regione
impervia e insieme grandiosa, che in
questo nostro dialogo dovremo accontentarci di guardare da lontano. Si tratta, ancora una volta, di
capire che cosa significa
«essente». P. Sì. Platone, nel Sofista,
mostra con potenza mirabile perché io
escluda che Tessente abbia parti. E affermo questa sua potenza pur sapendo che egli ha inteso
compiere un «parricidio», come lui dice,
nei confronti del mio pensiero, cioè ha
mostrato che Tessente è necessariamente molteplice, ossia ha parti. I. Diciamolo, intanto, che cosa significa
che Tessente non ha parti. P. Significa che il mondo, in apparenza
ricchissimo di parti nello spazio, nel
tempo, nelle nostre anime e nei nostri affetti,
non può essere Verità. Nel mondo, «Tocchio non vede», «l’orecchio è stordito», «la lingua
straparla». Le cose del mondo sono
soltanto «opinioni dei mortali, a cui non
compete alcuna vera convinzione». Sono illusioni. Sono soltanto «nomi». Dicevo all’inizio che i
mortali sono spinti a errare anche
perché credono che nascita e morte siano verità. Ma come è illusione la falsa ricchezza delle
molte cose, così è illusione la nascita
e la morte. I. E Platone mostra perché
tu neghi che Tessente abbia parti
202 (terra, cielo, piante,
animali): perché, se le avesse, ognuna
dovrebbe differire dall’essente. Infatti «cielo» (o «casa» o altro) non significa «essente», cioè non è
essente, e il non essente non può
essere. Quindi le molte cose del mondo non
sono, e l’opinione che esse siano è illusoria. Se le cose del mondo fossero, il nulla sarebbe; ma, tu dici,
come è necessario che Tessente sia, così
è necessario che il nulla non sia. P.
«Questo non potrà mai venir imposto, che le cose che non sono siano.» So che, secondo alcuni, io
non avrei negato la molteplicità delle
cose. Ma se fosse così dovremmo dire che
pensatori come Platone, Aristotele, Hegel non abbiano letteralmente capito quello che ho detto. I. Sono d’accordo con te. Io sostengo da
tempo che non è stata capita la potenza
del tuo pensiero. Ma altro è affermare
che tale potenza non è stata capita, altro è affermare che non si è capito quel che il tuo Poema ha
esplicitamente affermato. P. Tu hai
scritto anche più volte che il mio pensiero può
sembrare il punto in cui l’astro dell’Occidente viene a trovarsi più vicino all’astro dell’Oriente. Come
l’induismo e il buddhismo, dico anch’io
che il mondo è illusione - maya, dice
l’Oriente. Ma quale differenza! I.
Infatti: sono simili le tesi. L’Oriente possiede tesi analoghe a quelle che si leggono nel tuo
Poema, ma, separate dalla cura per la
Verità, separate dal perché le si afferma, esse
non sono filosofia, ma miti. P.
Prima di noi l’Oriente è philómythos, non philosóphos. Poi rileggerà i propri pensieri - il cui
splendore è indiscutibile - alla luce
dei nostri. I. D’altra parte, proprio
perché il tuo discorso sulTimpossibilità
che Tessente abbia parti è ben
comprensibile, non può evitare di confrontarsi con Platone, che mostra, all’opposto, la necessità che
Tessente sia 203 molteplice; e lo mostra portando alla luce
un principio che resterà alla base
dell’intero sviluppo dell’Occidente -
dell’Occidente, dico, non della sola cultura occidentale. P. Lo so: Platone mostra che l’affermazione
che Tessente è una molteplicità di
essenti... I. ... l’affermazione che il
mondo esiste... P. ... non implica,
come invece io sostengo, che le cose che
non sono siano... I. ... cioè
non implica che il nulla sia. P. Di
questo gran passo di Platone parleremo un’altra
volta... I. D’accordo, qui
vorrei allora restare alTinterno del tuo
discorso, ed esprimerti quella che tu prima hai chiamato la mia «riserva», invitandomi a non
dimenticarla. I mortali, tu dici, vivono
nell’«opinione» ( dóxa ), che è illusoria: credono che esista la molteplicità delle cose e la
loro generazione e corruzione. P. Nascita, dolore e morte, infatti, non
possono esistere se non esistono le
molte cose del mondo. Questa illusione, che li
fa errare lontani dalla Verità, li «colpisce» e li fa sprofondare nell’ amechanie. I. Ma tutto questo significa che, per te,
l’opinione illusoria e Vamechanie e,
infine, i mortali stessi sono , esistono, non sono un nulla. E allora, non è soltanto Tessente a
essere, ma anche il mondo illusorio dei
mortali - giacché, ripeto, quando dici
che questo mondo non ha verità, nemmeno tu intendi dire che, dunque, è nulla... P. ... e allora tu mi stai obbiettando che
dunque, ciò che è, Tessente, è
costituito da almeno due parti: lui, Tessente, (che vorrebbe esser solo lui a essere) e il mondo
dell’illusione, che poi è a sua volta
costituito dalle molte cose illusorie che sono 204
soltanto «nomi» - e, anche qui, tu diresti che per me i molti nomi non sono un nulla, ma a loro volta sono.
Cosicché io stesso verrei ad affermare
quella molteplicità delle cose che
invece dichiaro impossibile. E potresti aggiungere che, oltre ai «nomi» che per i mortali sono cose, ci sono
le parole che nel mio Poema indicano la
Verità e si distinguono le une dalle
altre e che io non sarei certo disposto a considerare inesistenti per il fatto che sono molte... ... Ma a questo punto puoi andare avanti e
dirmi perché, prima, mi hai chiamato un
grande dio bifronte - e, mi pare di aver
capito, bifronte in un senso diverso da quello per cui sarei bifronte già per il fatto di affermare
implicitamente quella molteplicità delle
cose che invece esplicitamente nego. I.
Ma innanzitutto un dio. In questo nostro dialogo non abbiamo il tempo per mostrarlo. Ciò che più
conta dovremo quindi lasciarlo da parte
- e ciò che più conta non è soltanto il
senso del tuo essere un dio. Ebbene, ti dico bifronte rispetto all’essenza autentica del nichilismo, ossia
dell’anima e del fondamento dell’intera
storia dell’Occidente e, ormai, dell’intero
pianeta. P. Se questo è il tema, allora
so quel che sostieni. Tu dici che io
sono colui che indica il «Sentiero del Giorno» e, contemporaneamente, spinge verso il «Sentiero
della Notte»: colui che indica che cosa
sia veramente il nichilismo e quale sia
il senso autentico della sua negazione, ma che, insieme, apre la strada che conduce nel baratro del
nichilismo. I. L’essenza del nichilismo
è infatti affermare che ciò che è non
sia. Non si pensa mai che ogni annientamento degli uomini e ogni devastazione della terra sono
possibili perché, innanzitutto, si crede
che ciò che è possa non essere. L’errore
estremo è insieme l’estremo orrore. Ma poi anche tu - anche tu! -, anche la tua mente è colpita come
quella dei mortali 205 «dalla doppia testa», dikranoi, come tu
dici: anche tu affermi che ciò che è non
è, ossia che le molte cose del mondo sono
nulla - esse che invece non sono un nulla nemmeno per te, nella misura in cui sono il contenuto
dell’opinione illusoria. P. E questo lo
dici perché Platone ha mostrato che se una
qualsiasi cosa del mondo, ad esempio «la luna», non ha lo stesso significato di «ciò che è», o di
«essente» - se dunque la luna non è
Tessente -, d’altra parte «la luna» non ha
nemmeno lo stesso significato di «nulla», «luna» non significa «nulla», e pertanto non è un nulla... I. ... con la conseguenza che, affermando
che la luna è, non si è costretti ad
affermare; come invece tu sostieni, «che le
cose che non sono siano», ossia che il nulla è; ed è dunque necessario affermare che le molte cose
sono. P. Ma so anche che, per te,
Platone, salvando il mondo da me, si
porta dietro, credendo di avermi ucciso, il veleno col quale io uccido (o almeno penso di uccidere)
il mondo. Tu dici appunto che, col
parricidio compiuto nei miei riguardi,
Platone è il salvatore apparente del mondo, perché in realtà ne è il cattivo pastore, e che è alTinterno
di questa cattiva cura del gregge che
poi si farà innanzi, lungo la storia
dell’Occidente, ogni «buon pastore». I. Ma quando parlo del nichilismo che anima
quella storia, non intendo dire che gli
uomini avrebbero potuto pensare meglio
di come hanno pensato - e qui mi riferisco
innanzitutto a te: gli uomini hanno pensato e agito come era necessità che pensassero e agissero; e anche
il cielo e la terra procedono nel modo
in cui è necessario che procedano. In
proposito non dico altro. Vorrei invece ritornare un momento su quel discorso che facevo a
proposito della luna, cioè del suo non
esser né Tessente né un nulla. Questo non
significa che tra ciò che è e il nulla vi sia qualcosa di 206
intermedio (la molteplicità delle cose, appunto). Significa invece che quel «ciò che è», separato dalla
molteplicità delle cose che sono, è esso
un nulla. Certo, «luna» non significa
«essente», «ciò che è»; ma Tessente non è il non composto, il «semplice», ma è ciò che ognuna delle molte
cose è, ossia è ciò che è presente in
ogni cosa. P. Vedo dove il tuo discorso
sta andando. Tu dici che, essente, è
ogni cosa. Quindi Tessente è, propriamente, gli
essenti. Ma, insieme, tieni fermo che è impossibile che Tessente non sia - e appunto per l’accecante
splendore di questo pensiero mi chiami
un dio; ma, tu aggiungi, Tessente è ogni
cosa e quindi di ogni cosa è necessario affermare che è impossibile che non sia, è cioè necessario
affermare che è eterna. I. Hai detto bene anche questo: che quello
splendore è accecante. Ha accecato tutti,
tutte le menti più alte dell’umanità.
Era necessario che ciò avvenisse. Se Terrore non si dispiegasse totalmente e in tutta la sua
forza e in tutte le sue luci, la Verità
non potrebbe esistere; così come il Giorno non
potrebbe esistere senza la Notte. Occorre quindi che il linguaggio parli e del Giorno e della Notte,
ma che dica «sì» al Giorno, non alla
Notte. P. Della Notte parlano i
mortali, la cui mente, colpita dal
dolore e dalla morte, è avvolta àd\Yamechame. Parlano della Notte credendo che sia il Giorno. I. Eppure, ai mortali dalla doppia testa,
per i quali «Tessente non è ed è
necessario che non sia» (fr. 2), il linguaggio della Notte gliel’hai messo in bocca proprio
tu! P. Cioè? I. Voglio dire che, per quanto ne sappiamo,
quei mortali sei stato tu a evocarli per
la prima volta. P. Perché? 207
I. Perché, per quanto ne sappiamo, tu sei stato il primo a pensare e a parlare dell’essente come di ciò
che è assolutamente opposto al nulla.
L’Oriente ignora la radicalità di questa
opposizione. E se così stanno le cose, prima di te non potevano esserci quei supermortali per i
quali Tessente non è ed è necessario che
non sia. Esistevano i comuni mortali del
mito, che ancora non potevano sapere che la
morte è annientamento e la nascita è uscire dal niente. P. E quindi tu affermi che io non solo ho
evocato per primo la Verità dell’essente,
ma per primo ho anche evocato i suoi
nemici, quelli che tu hai chiamato i supermortali. I. Che sono per davvero tali, perché, a
partire dall’atmosfera aperta dalle tue
parole, essi hanno incominciato a
credere di morire dinanzi al nulla che li
attende, sì che la loro morte ha incominciato a essere infinitamente più angosciante di quella del
mito. Proprio per questo tu hai guardato
alla Verità come sommo rimedio contro
l’angoscia estrema. P. ... Abbiamo
parlato di cose grandi, anche se abbiamo
dovuto soltanto sfiorarle. Di molte altre, e grandi, che a gran voce chiedevano di essere dette, abbiamo
dovuto tacere. Ora dobbiamo salutarci.
A presto! * - Dal testo richiestomi da Giorgio
Pressburger per le «Interviste impossibili», tenutesi nel 2007 al Teatro Stabile di Trieste. * -
Dialogo richiestomi dal «Corriere della Sera», pubblicato nel novembre
2010. 208 II
Relativismo, evoluzionismo, realismo e altre discussioni sulla storia filosofica dell’Occidente e sul
senso dell’eternità 1. Ancora sul senso del discutere Di tutti i miei possibili critici, (dunque,
oltre che di quelli passati e presenti
anche, di quelli futuri) va detto che tutti,
con maggiore o minore potenza sviluppano il Contenuto a cui si rivolgono i miei scritti. Questa
affermazione non suona paradossale se si
tiene presente quanto si è detto nel capitolo
6, della sezione prima. Non suona paradossale nemmeno se si aggiunge, e lo si deve, che tutte le
possibili critiche al Contenuto dei miei
scritti sono, tutte, sviluppi, più o meno
rilevanti, di quel Contenuto (una parola, questa, che va con la maiuscola, «miei scritti» andando invece con
le minuscole). Quel Contenuto è infatti
la verità, il destino della verità. Immodesto
non sono «io»: immodesta è la verità che ne ha il diritto perché non è cosa modesta e attira a
sé il linguaggio imponendogli di
testimoniarla. Ritorniamo brevemente su
questi temi. La verità è sola in
quanto nega l’errore. Senza errore non
c’è verità. L’errore con-ferma, la verità la rende ferma, nel senso che essa ha il «cuore che non trema» -
per usare un’espressione di Parmenide -
solo in quanto mostra che essa è e
significa «errore» e la necessità di negarlo. Essa vive, eterna (e l’uomo ne è l’eterno apparire),
solo in quanto l’errore vive; ed è tanto
più concreta quanto più l’errore è
concreto e fiorisce ed è robusto, coerente, razionale, suggestivo, cioè quanto più sviluppa la
ricchezza che gli compete. La verità ha cioè bisogno degli scavatori
che portino alla luce questa ricchezza
con la convinzione di portare alla luce la
209 verità (una convinzione
che è presente anche quando scrivono
libri e libri per mostrare che la verità non esiste). È, il loro, un lavoro che invece chi scava per
portare alla luce la verità non riesce a
fare così bene, o non gli dedica il tempo e
la convinzione dovuti. In questo senso va detto che tutti i critici e tutte le possibili critiche al
Contenuto a cui si rivolgono i miei
scritti, sono, di questi scritti, sviluppi, e
spesso originali. Anche tutte le critiche che possono essere mosse a proposito del discorso che qui si è
appena fatto intorno al rapporto tra
verità e errore, agli scavatori
dell’errore e della verità, e alla loro indispensabilità. La magnificenza dell’Occidente, che ormai
conquista la terra, è il tempo
dell’errore, della sua fioritura e del suo trionfo. Ma la verità non abbandona a sé stesso l’errore:
esso cresce secondo le leggi della
verità. L’errore cresce secondo le
leggi della verità anche perché ogni
obbiezione che si possa fare a quel Contenuto (e l’ignorarlo è la forma preminente della
negazione di esso) è convinta di affermare
qualcosa che differisce da tale
Contenuto. Non solo, ma crede anche che il fatto di differire non sia cosa di poco conto. E infatti è di
tantissimo conto. Il Contenuto di cui si
sta parlando è infatti la manifestazione del
senso autentico e della necessità del differire dei differenti. È
il punto infinitamente più stabile di
quello che ad Archimede sarebbe bastato
per sollevare la terra. Ben vengano dunque,
daccapo, le obbiezioni, purché intendano essere per davvero obbiezioni; ossia intendano differire da ciò
contro cui obbiettano e tengano quindi
in gran conto la differenza dei
differenti e l’impossibilità di negarla. E, una volta che avranno fatto tutto questo, capiranno di tenere in
gran conto proprio quel Contenuto contro
il quale esse vorrebbero andare. Gli
scavatori dell’errore sono gli erranti - e come individui tutti sono erranti, anche quelli che scavano
la verità. Nel 210 tempo dell’errore - un tempo che coincide
con il tempo deH’«uomo», cioè con l’uomo
quale è inteso all’interno della terra
isolata dal destino della verità -, l’errore crede di conoscere ciò che ai propri occhi appare come
errore; e si crede capace di distinguere
questo, che gli appare come l’errore,
dall’errante. Ma là dove domina l’errore che è tale agli occhi della verità, ed esso dice di
voler combattere e distruggere ciò che
ai suoi occhi è errore, ma non l’errante, là
è inevitabile che ci si convinca che il fiorire degli erranti finisce con l’essere il fiorire dell’errore
ai danni di ciò che è ritenuto verità, e
si finisca col condannare, e punire e
distruggere anche gli erranti. Questa confusione tra l’errore e l’errante attraversa tutta la storia del
mortale. Eppure anch’essa contribuisce
alla costituzione della concretezza
dell’errore. Tutta la storia della sofferenza umana è richiesta da tale concretezza. Il destino della verità
è destinato a oltrepassarla (cfr. E.S.,
La Gloria, 2001, cit., Oltrepassare,
Adelphi 2007, La morte e la terra, 2011, cit.). 211
2. Verità e relativismo Il
relativismo, si dice, nega che l’uomo riesca a conoscere una verità assoluta e irrefutabile. Se ci si
ferma a questa definizione, tutta la
cultura del nostro tempo, innanzitutto
quella filosofica, è relativista. Ma allora va anche detto che quella negazione della verità era già
sostenuta 2500 anni fa, e in grande
stile, dalla sofistica. Dopo tutto questo tempo
saremmo ritornati al punto di partenza per quanto grande fosse il suo stile? No; perché a quella
definizione non ci si può fermare. Anche
perché già il pensiero greco sapeva che chi
afferma che non esiste alcuna verità assoluta afferma egli stesso che nemmeno questa sua affermazione è
una verità assoluta. (Le cose non sono
però così pacifiche, perché un negatore
della verità potrebbe replicare che egli intende proprio negare e insieme affermare la verità,
perché no?, visto che se gli si
obbiettasse che in questo modo egli nega il
«principio di non contraddizione» egli potrebbe daccapo rispondere che quel principio, così
semplicemente affermato, è un dogma; e
bisognerebbe allora darsi da fare per mostrargli che non lo è). Il relativismo degli ultimi due secoli è
tutt’altra cosa. Nega tutto
l’antirelativismo che c’è stato nel frattempo. Qualcuno crede che il relativismo possa appoggiarsi
anche a Pascal, per il quale la verità
assoluta non potrà mai esser trovata perché
«tutto muta col tempo». Ma Pascal non giunge a dire che, proprio perché tutto muta col tempo, non può
esistere nemmeno un Dio eterno e
assoluto. Lo dirà Nietzsche (per il
quale Pascal era un genio rovinato dal cristianesimo). Pascal non giunge a tanto, perché per lui quel
«tutto che muta» è, propriamente, il
mondo. Nietzsche arriva a tanto perché,
fondandosi sulla persuasione che nel mondo tutto muta, mostra Vimpossibilità dell’esistenza di un
qualsiasi Essere 212 eterno e assoluto, al di là (o
all’interno) del mondo. Ma tale
persuasione non è solo di Pascal e di Nietzsche: è di tutta la cultura e la civiltà dell’Occidente
- e, ormai, del pianeta. Sin dall’inizio
l’avanguardia dell’Occidente - la
filosofia greca - è persuasa che il mutamento del mondo sia una verità incontrovertibile (e che il
mutamento sia un passare delle cose dal
non essere all’essere e viceversa, cioè abbia un carattere essenzialmente più radicale del
modo in cui esso era stato
precedentemente inteso dall’uomo). O gli odierni relativisti ritengono forse, contro i Pascal
sui quali essi si appoggiano, che il
mutamento del mondo sia il contenuto di
una «conoscenza fallibile, congetturale» (per usare una nota espressione di Popper)? E la «ricerca della
verità», che i relativisti preferiscono
al suo «possesso», tale ricerca, dico,
non è forse una forma rilevante di mutamento del mondo? E l’esistenza di tale ricerca è forse, per i
relativisti, il contenuto di una
conoscenza fallibile e congetturale? No di certo. (O vedano loro che cosa intendono sostenere.) Solo che è Nietzsche, insieme a pochi altri,
a saper mostrare perché, dal fatto che
nel mondo tutto muta, è necessario
concludere che non esiste alcuna verità assoluta e irrefutabile oltre a quella che consiste nell’affermazione
di quel fatto, e che non esiste alcun
Essere eterno e assoluto oltre agli esseri
che mutano nel tempo (cfr. sezione prima, cap. V). Nietzsche e pochi altri - abitando quello che chiamo il
sottosuolo essenziale del pensiero del
nostro tempo - sanno fare cioè quel che
i relativisti d’oggigiorno non sanno fare; e non lo sanno anche perché, per lo più e più o
meno consapevolmente, evitano di
riconoscere che anche per loro è una
verità irrefutabile e assoluta che nel mondo tutte le cose mutano col tempo. Antirelativisti sono invece coloro che lungo
la tradizione 213 dell’Occidente condividono sì la
persuasione che il mutamento delle cose
del mondo è una verità irrefutabile; ma,
a differenza dei relativisti, ritengono che verità irrefutabile sia anche l’esistenza di un Essere eterno e
assoluto al di là o aH’interno del
mondo. Sono gli amici della «metafisica». Nel
sottosuolo essenziale del nostro tempo appare appunto l’impossibilità della metafisica. D’altra
parte, ai relativisti che stanno fuori
del sottosuolo, alla superficie, gli antirelativisti e i metafisici obbiettano quel che già abbiamo
sentito, cioè che se tutta la nostra
conoscenza è fallibile e congetturale, allora lo è anche Taffermazione che tutta la nostra
conoscenza è fallibile e congetturale.
Ed è quindi inevitabile che i relativisti di
superficie non abbiano argomenti incontrovertibili contro la metafisica e la verità assoluta e
incontrovertibile. Per trarsi
d’impaccio, i relativisti più spregiudicati di
superficie hanno finito col riconoscere che anche il loro relativismo è fallibile e congetturale.
(Sembrerebbe il culmine
dell’atteggiamento critico - ma allora non si vede perché si dovrebbe dar loro ascolto.) Il filosofo
liberale americano Richard Rorty lo ha
riconosciuto. In Italia lo aveva
riconosciuto, e anche molto meglio, il filosofo Ugo Spirito, che però aveva il difetto di non essere
americano e di essere fascista, come il
suo maestro Giovanni Gentile - che invece,
insieme a Nietzsche, è uno dei pochi abitatori di quel sottosuolo e ha quindi molto da insegnare a
tutti i Popper. Comunque, se il relativista
riconosce che tutto quel ch’egli
sostiene è esso stesso una conoscenza fallibile e congetturale, pronta ad «abbandonare i propri valori»
teorici e morali «se altri si rivelano
più credibili», lo ascolto con interesse
(condividendo anche i suoi buoni sentimenti). Ma aggiungo che anche questa autocritica del
relativista è apparente. Domando: chi si
dichiara pronto ad abbandonare i propri
valori se altri si rivelano più credibili è uno che dubita 214
di esser così pronto? È uno che dice: «Forse son pronto ad abbandonarli se ne vedo di più credibili?». È
uno che dice: «Forse son pronto, perché
non escludo che anche se ne vedessi di
più credibili non abbandonerei mai i miei?». Se si son capite le domande, la risposta non può
che essere negativa. Anche questo
relativista, cioè, non mette in dubbio,
è sicuro del fatto suo: più o meno consapevolmente, considera come irrefutabile, indiscutibile e dunque
assolutamente vero il proprio trovarsi
nello stato in cui egli è disposto ad
abbandonare le proprie convinzioni se ne vede di migliori. Infatti l’uomo non apre bocca se dubita di
quel che dice. E se dice: «Dubito di
quel che dico», egli non dubita di dubitare.
(Che è cosa del tutto diversa dal cogito cartesiano, perché se l’uomo apre bocca solo se non dubita, la
maggior parte delle volte che l’apre
dice però cose false; mentre le considerazioni
di Cartesio sul cogito intendono pervenire alla suprema verità incontrovertibile.) A Popper che afferma il carattere fallibile
e congetturale di tutta la nostra
conoscenza va dunque replicato che, d’altra
parte, l’uomo - dunque anche Popper e tutti i relativisti di questo mondo - è sempre convinto, più o meno consapevolmente, di conoscere verità assolute
e incontrovertibili (anche se sbaglia
quasi sempre). Come ne sono convinti
anche quei logici che secondo certi relativisti
avrebbero mostrato (e anzi dimostrato !) «che non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente
vera, nessuna teoria». Come ne sono
convinti anche i relativisti alla Popper
e alla Hans Kelsen, che sostengono un’implicazione necessaria, cioè assolutamente vera, tra
relativismo, libertà, democrazia. E
allora? Allora, nella folla sterminata
di coloro che - senza saperlo e anzi
spesso negandolo - sono convinti di conoscere verità assolute, si trovano anche gli uomini
dell’Occidente, per i 215 quali la verità assoluta e
incontrovertibile dominante è che le
cose del mondo mutano col tempo; e son giunti a mostrare (nel sottosuolo del nostro tempo) la
necessità che tutte le cose mutino,
nascano e muoiano, quindi a mostrare che non esiste alcuna verità immutabile se non quella che
afferma il divenire e il travolgimento
di ogni cosa e di ogni verità. Restano
travolte anche la politica e la morale che, lungo la tradizione antirelativistica dell’Occidente,
consistevano nell’adeguare la vita dello
Stato e dei singoli individui alla
verità immutabile ed eterna. Quelle erano la politica e la morale convinte di parlare «con verità». Se
oggi qualcuno auspica una politica
capace di parlare «con verità», deve tener
presente che quella della verità è, si è intravisto, una faccenda parecchio complessa. Per questo in un mio
articolo sul «Corriere» avevo domandato
a Ernesto Galli della Loggia, che cosa
intendesse con la parola «verità», avendo egli appunto auspicato una politica capace di parlare «con
verità». Glielo avevo chiesto anche
perché, quando oggi i cattolici e la Chiesa
ad esempio usano questa espressione, intendono un politica e una morale che, contro il relativismo, siano
legate alla verità incontrovertibile e
assoluta della metafisica tradizionale
(aperta alla rivelazione di Gesù). E dunque intendono una democrazia che non sia, come invece lo è la
democrazia procedurale, una «libertà
senza verità». La risposta di Galli
della Loggia è stata fuori luogo, perché mi ha detto - c’era ancora il governo di centrodestra - che una
politica che parla con verità è quella
che non nasconde ma dice in che stato
miserando si trova il nostro Paese. Un problema che certo ci tocca da vicino, ma che (a parte il fatto che
non riguarda la verità, ma la
«sincerità», giacché se non c’è verità senza
sincerità, si possono invece dire con sincerità cose false) è pur sempre subordinato alla gran questione del
rapporto tra relativismo e
antirelativismo - visto che l’accentuata
216 corruzione della politica
e della morale è una conseguenza dello
stato di transizione in cui il mondo si trova: tra la tradizione, dove anche i corrotti si
riconoscevano pur sempre sottoposti al
giudizio della verità, e il tempo futuro: il tempo in cui - con l’inevitabile tramonto di ogni
verità metafisica e di ogni eterno
Signore del mondo - quella forma suprema
dell’agire umano che è la tecnica viene autorizzata, a prendere in mano, essa, le sorti del mondo. La tecnica
che sa ascoltare il sottosuolo, dico,
non la «vera» «buona» politica. (Un processo,
questo, in cui consiste il senso autentico dell’«antipohtica».) 217
3. Equivoci Con la lettera del
pontefice a Eugenio Scalfari il dialogo tra
«credenti» e «non credenti» è giunto a una svolta di grande importanza e interesse. Che va accuratamente tutelata.
Anche da parte di chi è soltanto uno
spettatore - che però, come me, sia
interessato al problema. Il pontefice ha un modo ammirevole di mettersi in relazione al
prossimo. Ammirevole, anche, il
desiderio dei due interlocutori, di confrontarsi con ciò in cui non credono. Proprio per
fimportanza di questa inedita forma di
dialogo è però altrettanto importante che
non sorgano equivoci. Mi limito a due esempi. Il pontefice scrive a Scalfari: «Mi chiede
se il pensiero secondo il quale non
esiste alcun assoluto e quindi neppure
una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato». Il
pontefice risponde: «Io non parlerei,
nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”,
nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la
fede cristiana, è l’amore di Dio per noi
in Gesù Cristo». Ma aggiunge: «Ciò non
significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro». Si riferisce anche alla verità della fede.
Ora, Scalfari aveva sì parlato di
«verità assoluta», ma intendendo non «ciò che è
slegato, ciò che è privo di relazioni», ma proprio la verità che non è «variabile e soggettiva». E il papa gli
risponde che no, non è variabile e
soggettiva: «tutt’altro». In questo modo, la
domanda è elusa, e viene ribadita la posizione ufficiale della Chiesa (Cfr. la recente enciclica Lumen
fidei, Editrica La Scuola 2013). A sua volta Scalfari, nella recente
intervista a Otto e mezzo , ha lodato
l’innovazione di papa Francesco rispetto alla
costante critica rivolta al relativismo da papa Ratzinger, e fa addirittura passare per relativista papa
Francesco (appunto 218 per il suo rifiuto del concetto di verità
«assoluta»). Ma lo loda per qualcosa che
papa Francesco si è ben guardato dal
sostenere. Chiedeva Scalfari: la verità è variabile e soggettiva? No, risponde il pontefice: «Tutf altro»! Una seconda possibilità di equivoco, tra i
due interlocutori, vorrei segnalare, e
ben più importante. Dopo aver scritto che
la specificità di Gesù «è per la comunicazione, non per l’esclusione», il pontefice aggiunge che «da
ciò consegue anche - e non è una piccola
cosa - quella distinzione tra la sfera
religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di
Cesare”, affermata con nettezza da Gesù
e su cui, faticosamente, si è costruita la
storia dell’Occidente». Non mi consta che finora Scalfari abbia chiesto chiarimenti in proposito. Mi
permetto di dirgli che invece, proprio
lui, dovrebbe chiederli. In questo caso
sarebbe il silenzio a favorire l’equivoco. Da quasi cinquantanni (che rispetto alla
storia dell’Occidente sono certamente
nulla) vado mostrando che quel detto
evangelico, lungi dal sancire la «distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica», nega
tale distinzione. Non ho mai ricevuto
una risposta adeguata - e mi sembra grave
mi sembra di averne parlato anche con Scalfari in quello che forse è stato il nostro unico dibattito
pubblico, a Roma. Ne ho parlato anche
sulle colonne del “Corriere della Sera”. Se qui
debbo pur giustificare in qualche modo la mia tesi, che indubbiamente suona troppo perentoria, come
d’altra parte non vergognarmi di doverlo
fare ancora una volta? Domandiamo a
Gesù se a Cesare - cioè allo Stato - si possa
dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di noi Assolutamente no! Ciò significa che le leggi
dello Stato non potranno essere contro
le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della
cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria. 219
Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini
sia di agire contro Dio, sia di non
essergli contrari. Ancora una volta Gesù
risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si
lascerebbe ai cittadini la libertà di
vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato
cristiano (anzi cattolico); con la
seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro
Dio. Quindi per Gesù le leggi dello
Stato debbono essere cristiane (e
cattoliche). Ma esistono leggi dello
Stato la violazione delle quali non
implichi una sanzione statale, terrena? Assolutamente no. Quindi - come spesso si dice, ma senza
accorgersi della connessione tra questo
dire e il detto di Gesù - è necessario
che il peccato (l’agire contro Dio) sia anche delitto (l’agire contro lo Stato), una colpa che è punita in
terra prima che nell’al di là. Ma in
questo modo la «distinzione tra la sfera
religiosa e la sfera politica», che, anche secondo questo pontefice, dovrebbe essere conseguenza di
quel detto, è invece radicalmente negata
da questo detto. Certo, Yintenzione di
Gesù, si può ritenere, è di separare quelle due sfere; ma il contenuto oggettivo di quello che egli
afferma è inevitabilmente la riduzione
della sfera politica a quella religiosa.
O anche: Gesù vuole conciliare l’inconciliabile, vuol conciliare la distinzione tra politica e
religione con la loro reciproca
opposizione (giacché anche la politica che non
crede in Dio non vuole che a Dio sia dato quel che è contro Cesare).
Con quanto ho osservato non ho affatto inteso sostenere che, quindi, abbia senz’altro ragione il
pensiero laico, che vuol tener separate
quelle due sfere. Ho inteso mostrare che il
comando di Gesù non conduce là dove comunemente si 220
crede. Nel dialogo tra Scalfari
e il pontefice i problemi che ho
indicato non sono gli unici, i più importanti stanno più in fondo. Qui si voleva dare soltanto un
contributo alla tutela della chiarezza
del dialogo. 221 4. L’origine Davanti alla filosofia molti scienziati
alzano le spalle. Dato il modo in cui essa,
per lo più, è loro presente, hanno ragione.
Soprattutto se non sa essere altro che una riflessione sui risultati della scienza, o ha la pretesa di
insegnarle che cosa debba fare. Ma i
concetti fondamentali della scienza sono
inevitabilmente filosofici: in un senso ben più radicale di quello a cui si allude quando ad esempio, per
la profondità delle categorie
filosofiche coinvolte, si paragona il dibattito tra Einstein e Niels Bohr a quello tra Leibniz e
Newton (M. Jammer, The Philosophy of
Quantum Mechanics, Wiley 1974). E se il
fisico Léonard Susskind, nel suo libro La guerra dei buchi neri (2008, Adelphi 2009), scrive di
non essere «molto interessato a quel che
dicono i filosofi su come funziona la
scienza», tuttavia la sua «guerra», combattuta contro il collega Stephen Hawking, riguarda il tema a cui la
filosofìa si è rivolta sin dagli inizi e
che sta al fondamento di tutti gli altri. Per
Hawking i «buchi neri» presenti nell’universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le
cose che vi precipitano. Susskind vede
in questa tesi la violazione del primo
principio della termodinamica, per il quale la quantità totale di energia dell’universo rimane
costante nella trasformazione delle sue
forme. Ora la «costanza» dell’energia è
il suo continuare a «essere»; e l’«incostanza» delle sue forme è il loro venire a «essere» e il loro
ridiventare «non essere», «nulla».
Certo, il fisico si disinteressa del senso dell’«essere» e del «nulla», ma il primo principio della
termodinamica non può disinteressarsene:
lo ha dentro di sé, ne è animato, ed è
aH’interno di quest’anima che cresce la scienza anche quando i suoi cultori alzano le spalle davanti alla
filosofia, che a quest’anima si rivolge
sin dall’inizio. Si ritiene tuttora che
la teoria generale della relatività di
222 Einstein e la fisica
quantistica di Heisenberg siano
incompatibili. Ma Einstein e Heisenberg si contrappongono mantenendosi entrambi all’interno del senso
greco¬ occidentale dell’«essere» e del
«nulla»: per il «determinismo» di
Einstein le forme di energia escono dal proprio esser nulla e vi ritornano seguendo un percorso
inevitabile («determinato») e quindi
prevedibile; per Heisenberg tale
percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel
proprio nulla. Non è un caso che egli
abbia ricondotto il concetto di «onde di
probabilità» al concetto aristotelico di dynamis, «potenza», cioè alla possibilità reale (non alla
necessità) che uno stato del mondo sia
seguito da un cert’altro stato). Freud ebbe a
scrivere, di Einstein, col quale ebbe peraltro rapporti cordiali: «Capisce di psicologia quanto io capisco di
fisica». Eppure si capiscono benissimo
sul fondamento ultimo, cioè sulla
caducità delle cose del mondo, che oggi è data comunque per scontata.
La filosofìa sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della scienza. La discussione
è tuttora aperta. Anche al tema
deH’incontrovertibihtà la filosofia si rivolge da sempre. Per il grande matematico David
Hilbert «il rigore nelle dimostrazioni,
condizione oggigiorno d’una importanza
proverbiale in matematica, corrisponde a un bisogno filosofico generale della nostra ragione». E
II più grande spettacolo della terra di
Richard Dawkins (Mondadori 2010),
eminente biologo evolutivo inglese, incomincia così: «Le prove a favore dell’evoluzione aumentano di
giorno in giorno e non sono mai state
più solide». Esse «dimostrano come la
“teoria” dell’evoluzione sia un fatto scientifico e in quanto tale incontrovertibile». Ma quel che rimane
oscillante e alla fine oscuro in queste
pagine è proprio il concetto di «prova», di
«fatto scientifico», di «incontrovertibilità», cioè la loro 223
filosofia. Sono un buon paradigma di quanto tende ad accadere in molti scritti scientifici del
nostro tempo. D’altra parte,
l’evoluzione è un processo in cui le specie escono dal proprio non essere e vi ritornano così come
accade per le forme incostanti della
costante quantità totale dell’energia.
«L’evoluzione è un fatto», «oltre ogni ragionevole dubbio», «è la pura verità» «confermata da una valanga
di prove», con la «certezza assoluta che
non ci sarà smentita». Come la certezza,
intende Dawkins, che il sole è molto più grande della terra e che l’antica Roma è esistita; come la
teoria eliocentrica e quella della
deriva dei continenti. Si può certo convenire.
Ma il punto sul quale va richiamata l’attenzione è il senso dell’«inoppugnabilità» e
«incontrovertibilità» di tutte le teorie
di questo tipo. Che in loro favore esista una valanga di prove nessuno lo nega. La questione è se tali prove
e la loro abbondanza consentano di dire
che le teorie così provate godano della
«certezza assoluta» che di esse «non ci sarà
smentita». A meno che Dawkins - e allora il discorso potrebbe finire qui - non si proponga altro
che allineare la teoria dell’evoluzione
alle altre teorie dello stesso tipo, e per
dare risalto al suo discorso si serva di un linguaggio enfatico e improprio, che però, tirate le somme, risulta
inoffensivo. (D’altra parte egli
sottoscrive il vecchio principio che «a rigor
di logica solo i matematici sono in grado di dimostrare davvero qualcosa». Parole che però debbono
fare i conti con quest’altra sua
dichiarazione: «Nel resto del libro dimostrerò
che l’evoluzione è un fatto inconfutabile». Infatti se «solo i matematici sono in grado di dimostrare
davvero qualcosa», allora il suo libro
non matematico non dimostra «davvero»
che l’evoluzione sia un fatto inconfutabile. Capisco che queste possano sembrare all’illustre collega
considerazioni da «pedanti» e da
«sofisti», però è diffìcile sostenere che non
siano «a rigor di logica».)
224 Ma che cosa intende
Dawkins affermando che il suo libro
«dimostra» che l’evoluzione darwiniana è un fatto? Egli sa bene che essa, come la deriva dei continenti,
non può essere oggetto di osservazione
diretta, la quale, come egli sottolinea,
è inaffidabile. La sua «dimostrazione» vuol essere quindi un’«inferenza» che dalle «tracce» lasciate
dal processo evolutivo risale
all’esistenza di tale processo, al suo essere,
appunto, un «fatto». Egli sa bene che anche «l’inferenza si deve basare, in ultima analisi,
sull’osservazione». Sostiene però che
l’osservazione diretta di un evento come un
omicidio è meno affidabile dell’osservazione indiretta delle «conseguenze» di esso: «È più facile che
incorra in un errore di identificazione
un testimone oculare piuttosto che un
sistema di inferenza indiretta come il test del Dna» . Sì, posto che sia «più facile», non è però impossibile
che in certi casi l’osservazione diretta
sia più affidabile. Anche per Dawkins.
Esser «più facile» non significa essere incontrovertibile, ossia è un’ipotesi (plausibile, se si vuole).
Sennonché da questa ipotesi dipende, nel
suo libro, la validità dell’«inferenza» con
cui egli intende dimostrare che l’evoluzione è un «fatto» incontrovertibile. Ciò significa che anche
questa «inferenza», e pertanto
l’esistenza dell’evoluzione, sono soltanto «ipotesi». (Egli rileva inoltre che i cambiamenti
evolutivi sono «troppo lenti» per poter
essere osservati da un individuo nell’arco
della sua vita. Ma chi si propone di dimostrare che l’evoluzione è un fatto non può presupporre
l’esistenza di tale fatto e delle sue
caratteristiche. E invece Dawkins fa proprio
questo: invece di dimostrare che l’evoluzione è un processo lentissimo, afferma arbitrariamente che essa
non può essere direttamente osservabile
perché è un processo lentissimo.)
Deludente anche il modo in cui egli si sbarazza di una nota ipotesi di Bertrand Russell, la quale, sino a
quando non si mostri che nemmeno come
ipotesi è accettabile, lascia aperta
225 la possibilità che
l’evoluzione, almeno come viene intesa dai
biologi, sia qualcosa di inesistente. Dice dunque Russell: «Può anche darsi che abbiamo cominciato tutti a
esistere cinque minuti fa, completi di
ricordi preconfezionati, calzini bucati e
capelli incolti». A parte lo stile di molti filosofi anglosassoni, che preferiscono parlare di calzini bucati
piuttosto che della Passione secondo san
Matteo di Bach, e, questo, per far sapere
che l’esistenza non è da prendere troppo sul serio - a parte cioè il senso che all’esistenza viene
conferito dall’intero pensiero
occidentale, che la ritiene caduca, effimera, storica, temporale, provvisoria abitatrice dell’essere
e preda del nulla (dunque degna di esser
cominciata cinque minuti fa) anche
quando e appunto perché la si pensa nelle mani di Dio o della poesia o di altra nobile e austera dimensione
- a parte tutto questo, come risponde
Dawkins a Russell? Risponde scrivendo
che sì, «è possibile, a voler esser pedanti,
che gli strumenti di misurazione e gli organi di senso che li interpretano siano rimasti vittime di
un colossale inganno», cosicché, «se
l’evoluzione non fosse un fatto, sarebbe
un colossale inganno del creatore, ipotesi a cui pochissimi teisti sarebbero disposti a dare
credito». Risposta deludente. Innanzitutto
perché la verità incontrovertibile
dell’evoluzione sussisterebbe solo se non si fosse pedanti, ma nemmeno per Dawkins la pedanteria è qualcosa
di scientificamente inaccettabile. In
secondo luogo perché dal fatto che i
teisti non darebbero alcun credito al «colossale inganno» non segue che tale inganno non possa
esser perpetrato e che quindi l’ipotesi
di Russell sia da respingere. Queste
osservazioni non hanno il benché minimo intento
di affermare che, dunque, i negatori dell’evoluzione «abbiano ragione». Entrambi gli avversari si muovono
nel campo delle ipotesi. Oggi, ciò che
decide dove stia la «verità» non è il
costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro 226
incontrovertibilità, ma la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai
progetti che l’apparato
scientifico-tecnologico planetario si propone. Una scienza che si affanni a dimostrare la
«verità incontrovertibile» dei propri
contenuti combatte una battaglia di
retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle
logico-matematiche. L’esistenza delle
geometrie non euclidee, ad esempio, implica
che nel migliore dei casi la geometria euclidea sia una verità incontrovertibile solo in relazione ai
postulati e agli assiomi su cui essa si
fonda, e dunque non sia assolutamente ma
relativamente incontrovertibile. Da quando nasce la filosofia pensa la verità come in-contro-vertibilità,
ossia come ciò contro cui non ci si può
rivoltare (vertere), ma che non intende
essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la verità e l’inviolabile
«principio di non contraddizione»
attraversa tutta la storia della cultura. Per
Hilbert la questione «più importante» è dimostrare che basandosi sugli assiomi della matematica «non
si potrà mai arrivare a dei risultati
contraddittori». Ma Kurt Godei
dimostrerà che questa dimostrazione è impossibile. Cioè la matematica si sviluppa ammettendo la
possibilità di essere un sistema concettuale
contraddittorio e quindi controvertibile.
Se lo dimentica Dawkins quando afferma che «solo i matematici sono in grado di dimostrare
davvero qualcosa». Infatti, «dimostrare
davvero», cioè incontrovertibilmente,
significa essere in grado di escludere quella possibilità. Il primo grande libro di Darwin è intitolato
L’origine della specie (The Origin of
Species). Già dal punto di vista
linguistico «origine», che rinvia al latino orior («provengo da...», «sorgo») corrisponde all’antico greco
arché, la parola con cui, all’inizio
della filosofia, Anassimandro indica il
«principio» da cui tutte le cose provengono e in cui tutte 227
ritornano. La filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all’affermazione
dell’esistenza del «principio», ma
insieme ha reso estrema la fede che è radicata
nell’uomo più antico: la fede che le cose, per stare dinanzi a lui - e quindi l’uomo stesso -, abbiano
bisogno di qualcosa d 'Altro da esse,
che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d ’Altro che è il mondo degli
antenati e dei fondatori della stirpe,
il demonico, il divino, e poi, quando la filosofia appare, Yarché, appunto. L’immenso e tremendo
sottinteso di questa fede è la
convinzione (a cui prima si è accennato) che
le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra - e poi, quando la filosofia incomincia a parlare,
sono di per sé incapaci di «essere», e
sono preda del «nulla». Cose morte. La
morte e il nulla sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un’origine. Anche
la scienza si muove all’interno della
fede nell’origine (ormai divenuta fede
filosofica). Dell’antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni
mondane che di quell’origine conservano
l’essenziale. Così accade per Yarché e
l’«origine della specie», per il big bang come origine dell’universo, per l’inconscio freudiano come
origine della coscienza. E ancora: per
il lavoro, la società, la storia, il
linguaggio, il cervello, il corpo, la materia come origini della mente e della cultura. In generale, per le
«cause» prossime e remote degli eventi.
E perfino il nulla è un succedaneo dei
vecchi e nuovi dèi - il nulla da cui i più oggi pensano, più, o meno inconsapevolmente, che l’esistenza abbia
l’origine ultima. Sì, in queste forme dell’origine è presente
l’intera sapienza dell’uomo. Ma proprio
perché la fede nell’origine porta sulle
spalle un fardello così gravoso, si è proprio sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di
reggerlo? 228 5. «La fine del tempo» In Italia alcuni fisici e qualche filosofo
hanno notato l’affinità tra la «tesi»
centrale del mio discorso filosofico -
l’eternità di ogni ente e pertanto di ogni stato del mondo - e la «tesi» di Einstein che «per noi fisici, la
distinzione tra passato, presente e
futuro non è che una testarda illusione».
Ho messo tra virgolette la parola «tesi», per sottolineare che quando le «logiche» che conducono «alla
stessa» tesi son diverse, son diverse
anche le tesi che suonano apparentemente
identiche. E la logica della fìsica einsteniana è essenzialmente diversa da quella secondo cui
si manifesta la necessità dell’eternità
di ogni essente a cui si rivolgono i miei
scritti. Ciò non vuol dire che
ci si debba disinteressare del rapporto
tra le due «tesi», soprattutto ora che molti fisici mettono in questione il concetto di «tempo»,
che sta in piedi solo se il presente
differisce dal passato, ossia dall’«ormai
nulla», e dal futuro, ossia dall’«ancor nulla». L’esempio più recente e tra i più rilevanti di questa crisi
del tempo nel mondo della fisica è il
libro del fisico Julian Barbour, La fine
del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura (Einaudi 2003).
Che la filosofia abbia da imparare dalla fisica è un luogo comune. E sacrosanto. Perché se la filosofia
intende comprendere il senso della
scienza e della tecnica, scienza e
tecnica deve in qualche modo conoscerle. Ma è vero anche l’inverso. In una fase in cui, ad esempio, un
fisico come Steven Hawking prevede
(1979) che la fìsica debba lasciare il
posto a una «Teoria del Tutto», si toccherebbe il fondo della povertà di pensiero se non ci si rivolgesse
alla filosofia che, da sempre, è stata
la «Teoria del Tutto». Ma poi la filosofia
giunge a indicare in concreto - nei miei scritti il linguaggio 229
mira appunto a questa indicazione - in che senso essa non è un sapere ipotetico, esigenziale, metaforico,
falsificabile ecc., ma è il sapere
assolutamente incontrovertibile - in un senso
essenzialmente diverso da quello che la tradizione filosofica attribuisce all’incontrovertibile e di cui la
filosofia del nostro tempo ha mostrato
l’impossibilità. Barbour scrive: «Da
una quindicina d’anni un numero esiguo
ma crescente di fisici, me compreso, comincia a
considerare l’idea che il tempo non esista veramente. E lo stesso vale per il movimento». Posso
invitarlo a tener presente che la
riflessione sull’eternità di ogni essente e di ogni evento è presente nei miei scritti sin dalla metà
degli anni Cinquanta e che a metà degli
anni Sessanta la discussione su questo tema
è stato un non trascurabile evento della filosofia italiana, che continua tuttora a essere vivo? Egli non è
uno di quegli sprovveduti che non vedono
relazioni tra fisica e filosofia: nella
prima pagina del suo libro (di grande interesse e avvincente) scrive che «ben pochi pensatori,
nelle epoche successive, hanno preso sul
serio le idee di Parmenide; io invece
sosterrò che l’eterno fluire eracliteo... non è che una radicata illusione». Dirò allora al professor Barbour che qui in
Italia, da mezzo secolo, quelle idee
sono state prese molto sul serio non solo da
me, ma anche da chi ha creduto di dover dissentire. E son certo che al professore non interessa
favorire quella sorta di incompetenza
che c’è all’estero intorno alla filosofìa italiana. 230
6. Erba e lastre, scienza e teatro
Letteratura, scienza e religione, confrontandosi con la filosofia, si danno spesso la mano. La Bellezza regna su queste pagine di
Roberto Calasso, tra le sue più importanti
e ricche della loro disincantata sobrietà:
La letteratura e gli dei (Adelphi 2001). Indicano la Bellezza che presenta sé stessa nella sua assoluta
autonomia dalla Verità e dalla Bontà. E
indicano insieme gli dèi pagani,
soprattutto quelli greci, che si eclissano in oscurità variamente profonde, ma per ritornare in Europa, secondo
diverse forme di «evidenza». Ad esempio
nella pittura fra il Quattrocento e il
Settecento. Soprattutto tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento: «l’età eroica della
letteratura assoluta» che incomincia con
la comparsa della rivista «Athenaeum»
(Schlegel, Novalis...) e si chiude con la morte di Mallarmé. Letteratura «assoluta» perché indipendente da
ogni legislazione esterna, soprattutto
quella della «comunità» è «alla ricerca
di un assoluto» e perciò non può che
«coinvolgere» «il tutto». Un anello - Calasso ne intende decifrare la lega - unisce letteratura,
linguaggio, mitologia, poesia, arte e
gli dèi che appaiono in queste grandi luci. Il
sottinteso è che il cristianesimo non appartiene alla «letteratura assoluta». Ma non è proprio all’assoluto e al tutto che
la filosofia si è sempre rivolta con
l’intento di preservare il proprio sguardo
da ogni dipendenza da altro, innanzitutto dalla «comunità» e dal «sociale»? E, se è così, la discordia tra
«letteratura assoluta» e «filosofìa» non
è la discordia tra due forme della
filosofia, sia pure lontane tra loro? Per indicare questa lontananza Calasso scrive ad esempio: «La
letteratura cresce come l’erba tra
grigie, possenti lastre del pensiero». Ma è un
«accertamento poliziesco di identità» (come dice Calasso dei 231
tentativi concettuali di irretire la letteratura) chiedere se quelle parole di Calasso sono erba o lastra?
Certo, l’esperienza degli dèi, in cui
consiste la «letteratura assoluta», «intender
non la può chi non la pruova». Ma o quest’ultima espressione non ha assolutamente senso, o, se lo ha, ed è
innegabile tale senso, è la mano che
incorona la testa di quell’esperienza, e
pertanto la sovrasta. Calasso intende sfuggire a questo nodo che stringe il collo della proclamazione
romantica della superiorità assoluta
dell’arte. Ma se non è una possente lastra
del pensiero a conferire assolutezza alla «letteratura assoluta», allora, a conferirla, è erba che appassisce,
semplice aspirazione all’assoluto. Oltre l’«età eroica della letteratura
assoluta», ma nel suo clima, si ricorda
nel libro, Gottfried Benn scrive che al di
sopra del linguaggio che «raffigura» vi è «il linguaggio», cioè Nietzsche: «E allora viene Nietzsche e
incomincia il linguaggio, che non vuole
(e non può) altro che fosforeggiare,
luciferare, rapire, stordire». Calasso commenta: «Nietzsche era stato il primo tentativo di evadere dalla
gabbia delle categorie di origine
platonica e aristotelica. Che cosa si
estenda al di fuori di quella gabbia non è stato ancora accertato». Nemmeno da Nietzsche, dunque. Da
parte mia, chiedo a Calasso se non gli
sembra che su questo punto il suo
discorso possa procedere soltanto perché ha messo tra parentesi il mio. E ancora: quel linguaggio,
che come dice Benn, non vuole altro
che...» non è forse un «volere»? E non
si dovrà allora tentare di comprendere, innanzitutto, che cosa il significhi, appunto, «volere»? (E, certo,
l’affermazione che al di sopra del
linguaggio che «raffigura», vi è il linguaggio che stordisce vuole raffigurare o stordire?) Il rapporto teatro-scienza, e in generale
arte-scienza è stato teorizzato da
Brecht in Scritti teatrali (Einaudi 1962). Una
prospettiva, questa, che per un verso, è decisamente 232
antiplatonica - il che non meraviglia in un marxista come l’autore delle tre versioni di Vita di
Galileo -, per altro verso va incontro a
una delle esigenze più profonde espresse da
Platone: quella di parlare di cose di cui si è competenti. Platone, infatti, invita a diffidare dei
poeti tragici e dell’arte in genere
proprio perché l’artista può avere soltanto opinioni e non scienza intorno ai grandi temi della
vita e della morte, dello Stato, della
pace, della guerra, dell’amore e dell’odio, ai
quali costantemente si riferisce in modo più o meno esplicito. Certo, Brecht riconosce che «il piano della
scienza e quello dell’arte sono
diversissimi». Tuttavia non solo si rifiuta di
considerare semplici «hobby» gli interessi scientifici di Goe¬ the e di Schiller, ma, con gli stessi esempi
offerti da Platone nel libro X della
Repubblica («grandi passioni», «storia dei
popoli», «impulso del potere»), sostiene che anche nell’arte «i grandi e complicati avvenimenti non possono
essere sufficientemente riconosciuti in
un mondo di uomini che non si provvedano
di tutti gli strumenti utili ad intenderli».
Un dramma sulla vita di Galileo può essere quindi scritto solo da chi conosce da vicino la nascita
della scienza moderna. E Brecht, che per
la Vita di Galileo ebbe a ricorrere
anche all’aiuto di alcuni assistenti di Niels Bohr, non esita a riconoscere che «una quantità di letteratura
è a uno stadio fortemente
primitivo». Platone respinge l’arte
perché non ha competenza di ciò a cui
essa si rivolge; Brecht si fa banditore di un’arte che invece questa competenza ce l’abbia, lasciando al
suo destino la sterminata quantità di
«letteratura» che invece si trova, per la
sua incompetenza, «a uno stadio fortemente primitivo». Rimane il problema di come «il contenuto
scientifico che può essere racchiuso in
un’opera poetica» debba essere
«completamente risolto in poesia».
233 Rimane anche ovviamente
incolmabile l’opposizione tra Platone,
che vede l’anima dell’uomo destinata a una vita
immortale, e un Brecht, che in sintonia con il pensiero filosofico del nostro tempo, scrive: Lo confesso: io non ho nessuna speranza. I ciechi parlano di una via d’uscita.
Io ci vedo. Quando gli errori sono esauriti siede come ultimo compagno di fronte a noi il nulla ( Poesie , Einaudi
1962). Non è allora del senso del nulla
che (anche) l’artista deve avere la
massima competenza? 234 7. «Istoria e filosofia dell’umanità» Oggi si tende a considerare la scienza
moderna come la forma più alta di
sapere. Ma la scienza stessa riconosce ormai
il proprio carattere ipotetico. Anche le scienze storiche lo riconoscono. Anzi, a questa consapevolezza
sono giunte prima delle scienze della
natura e logico-matematiche. In modo
indiretto Giambattista Vico, nel XVIII secolo, ha aperto la strada in questa direzione. «Ci è
mancata sinora» scrive «una scienza la
quale fosse, insieme, istoria e filosofia
dell’umanità.» Passa la vita a tracciare la configurazione di questa nuova scienza. Al di fuori di essa, esiste una «istoria»
senza filosofia, cioè, per lui, senza «verità»:
una conoscenza storica che mostra sì un
immenso cumulo di notizie, ma senza indicare alcuna Legge immutabile, «eterna» che dia loro un
senso unitario, e quindi lasciandole
allo stato di ipotesi. La «Scienza nuova»
deve procedere pertanto «senza veruna ipotesi»: senza le «incertezze» e «dubbiezze» che competono alle
scienze storiche sino a che rimangono separate
dalla filosofia. Ma il nostro tempo - e
innanzitutto l’essenza (tendenzialmente
nascosta) della filosofia del nostro tempo -
esclude l’esistenza di una qualsiasi Legge immutabile ed eterna, sì che le scienze storiche si trovano
oggi a conservare proprio quel carattere
di «incertezza», «dubbiezza», ipoteticità
che Vico aveva consapevolmente colto in esse in quanto separate dalla filosofìa. La Scienza Nuova è
stata ripubblicata da Bompiani nelle tre
edizioni del 1725, 1730, 1744, a cura di
Manuele Sanna e Vincenzo Vitiello, con un importante saggio introduttivo di quest’ultimo. Il testo è
riproposto secondo l’edizione fattane
dallo stesso Sanna, da Fulvio Tessitore e
Fausto Nicolini, con alcuni restauri per le edizioni del 1730 e del 1744. Un’imponente operazione
culturale. 235 Molto opportunamente, Vitiello mette in
luce il carattere problematico della
conoscenza storica e in generale della
nostra memoria. Vico e tutte le
successive riflessioni sulla conoscenza storica
non mettono però in questione Yesistenza della storia. E nemmeno le scienze naturali mettono in
questione Yesistenza della natura.
Storia e natura sono cioè trattate come
indubitabilmente esistenti: la loro esistenza è considerata una verità incontrovertibile. Ma a chi va
affidato il compito di mostrare la
verità non ipotetica dell’esistenza del mondo? Che esista il mondo è una conoscenza scientifica
- quindi problematica -, oppure è una
conoscenza innegabilmente vera, e quindi
non scientifica? Né il senso comune può farsi
avanti con la pretesa di saper lui rispondere, infatti non può avere la pretesa di possedere una conoscenza
superiore a quella della scienza. Affermare che l’esistenza del mondo è una
verità innegabile significa affidare
alla filosofìa il compito di mostrarlo. È
sempre stato il suo compito metter tutto in questione e spingersi in vari modi fino al luogo che «non
può» esser messo in questione. Da questo
punto di vista, non mettendo in
questione l’esistenza della storia, lasciandola cioè implicitamente valere come verità innegabile,
Vico rimane indietro rispetto al compito
essenziale della filosofia. Ma per altro
verso egli coglie nel segno intuendo che la filosofia non può, a sua volta, chiudere gli occhi di
fronte alla storia, alla natura, al
mondo. Proviamo a chiarire quest’ultima
affermazione. Il «senso comune»,
in cui si trova ognuno di noi da quando
nasce, non ha dubbi sull’esistenza del mondo e della ricchezza dei suoi contenuti: vi crede con tutte le sue
forze. (Vi crede anche la scienza, anche
quando essa si discosta dal senso
236 comune.) Ma, appunto, lo
crede, ha fede nella sua esistenza, e
non può fare a meno di crederlo - così come non può fare a meno di credere che il sole si muova da
oriente a occidente anche se la scienza
gli dice che è la terra a muoversi attorno al
sole, che sta fermo rispetto a essa.
Ma la fede non è la verità innegabile. La fede mette in manicomio o distrugge chi mostra di
dissentire da essa; sebbene faccia
questo quando il dissenziente ha meno forza
del credente. Sennonché la verità non è una forza o violenza vincente. Quando la filosofia del nostro
tempo lo sostiene, lo può sostenere sul
fondamento di ciò che per essa è la verità
innegabile: 1’esistenza del divenire del mondo, cioè del divenire le cui forze sono capaci di
travolgere e vincere ogni «verità» che
pretenda imporsi su di esse e regolarle.
Affermando che la verità innegabile è il divenire del mondo (implicante l’inesistenza di ogni eterno e di
ogni immutabile al di sopra di sé),
nemmeno la filosofia del nostro tempo lo
afferma perché è riuscita a mettere in manicomio o a distruggere chi la pensa diversamente da
essa. In verità, il mondo non è il
mondo (storia, natura, lo stesso altro
dal mondo) quale appare all’interno della fede nella sua esistenza e nei suoi molteplici contenuti -
ossia all’interno della non-verità.
Tuttavia è necessario che nella verità appaia
la non-verità: innanzitutto perché la verità è negazione della non-verità e per esserne la negazione è
necessario che la veda. È necessario
cioè che nella verità appaia la fede nel mondo, al cui interno si costituisce ogni altra fede
(ad esempio la fede nella storia e nella
natura, la fede religiosa), ossia ogni altra
non-verità, ogni altro errare. Ciò significa che, in verità, il mondo è la fede nel mondo e che la non-verità
della fede nel mondo appartiene
necessariamente, come negata, al
contenuto della verità. 237 Quando Vico pensa una «scienza la quale
sia insieme istoria e filosofìa
dell’umanità», non scorge che l’esistenza
della storia (e del mondo) è il contenuto di una fede, ma crede che nell’unione di storia e filosofia la
storia sia illuminata dalla verità della
filosofia e divenga essa stessa verità; e
tuttavia egli intuisce che la verità è inseparabile dal proprio opposto, cioè dalla fede, dall’errore. Quale volto deve avere la verità che si
mette autenticamente in rapporto col
proprio opposto? Nel capitolo conclusivo
della sua introduzione, intitolato «Prospezioni
vichiane » Vincenzo Vitiello scrive: «Al presente spetta la cura della “possibilità” del futuro, che non solo,
in quanto futuro, non è, ma neppure è
necessario che sia». Sono d’accordo che
questa sia una «prospezione vichiana», un proseguire cioè lungo il sentiero percorso da Vico. Ma
aggiungo che questo sentiero è solo un
tratto del grande Sentiero aperto dalla
filosofia greca e in cui consiste la storia dell’Occidente: il Sentiero per il quale il divenire delle cose
(di cui sopra si parlava) è il loro
uscire dal nulla del futuro e ritornare nel
nulla del passato. E Vitiello sa bene che, servendomi di un’espressione dell’antico Parmenide, lo
chiamo «Sentiero della Notte» - dove la
«Notte» è l’errare estremo. Quella
«prospezione vichiana» raggiunge il proprio culmine e la propria estrema coerenza in ciò che prima ho
chiamato essenza (tendenzialmente
nascosta) della filosofìa del nostro
tempo, ossia nella distruzione di ogni Legge e di ogni Essere immutabile ed eterno. Da gran tempo vado
mostrando la malattia mortale -
l’essenziale non-verità del mondo - che sta
al fondamento di quel Sentiero e che impedisce alla verità di essere l’autentica negazione dell’errore,
cioè della malattia mortale che,
appunto, fa dire a tutti gli abitatori del pianeta che il futuro e il passato non sono e non è
necessario che siano. 238
Ho detto che tutto questo vado mostrandolo «da gran tempo»? Mi son lasciato andare. Rispetto alla
grandezza della posta in gioco quel
tempo è minimo. 239 8.
«Suicidio dell’Europa» «Lasciar da
parte la brocca riempita di vino e porre al suo
posto una cavità dove si trova del liquido.» È quel che fa la scienza, secondo Heidegger, rendendo «un che
di nullo» la brocca e tutte le cose. Ma
già per Goethe la scienza lascia da parte
gli aspetti più concreti e intimi delle cose; e questa astrazione è chiamata da Hegel «intelletto».
Non è nemmeno un discorso perentorio,
perché si potrebbe replicare che anche
la poesia «annulla» tutto ciò a cui invece si rivolge la scienza.
E quella cosa che è l’«Europa»? Pietro Barcellona non si confronta con il passo di Heidegger, ma anche
nel suo ultimo libro l’Europa è proprio
come la brocca piena di vino che è stata
annientata dalla scienza e dalla tecnica moderne: è stata sostituita con una cavità in cui si trova del
liquido. E poiché la scienza è un
fenomeno europeo l’annientamento dell’Europa
è un autoannientamento. Il libro di Barcellona è infatti intitolato II suicidio dell’Europa (Edizioni
Dedalo 2005). Da molto tempo Barcellona
si dichiara d’accordo con vari aspetti
del mio discorso filosofico. A modo suo, con
sensibilità e acutezza. Del mio pensiero dice: «Bisogna fare a pugni oppure aprire le braccia». Non mi
sembra che le apra alla mia tesi che la
dominazione della tecnica e della scienza è
inevitabile (per un certo tratto - dunque finito - della storia dell’Occidente. Però lo invito a mostrare dove non lo
soddisfano le pagine che ho scritto a
proposito di tale inevitabilità. In esse si
mostra che, lasciando il dominio alla tecnica, l’Europa non si suicida ma è un albero dove i rami più alti
(tecnica e essenza profonda della
filosofìa del nostro tempo), per respirare e
vivere, fanno appassire quelli più bassi (tradizione teologico- metafisica-religiosa dell’Occidente),
sebbene, come 240 quest’ultimi, traggano la loro linfa dalle
stesse radici e dallo stesso tronco.
Certo, scienza e tecnica non hanno l’ultima
parola. E quello dell’Europa è l’albero della Follia. Anche Lucifero è folle, ma è il signore del
mondo. Barcellona mi concede che gli
eventi del mondo siano l’apparire e lo
scomparire degli Eterni, i quali sono pace,
guerra, amore, odio, albero, brocca, nubi e anche tutto ciò che non si lascia vedere e che culmina nella
gioia e nella gloria a cui l’uomo è
destinato. Ma Barcellona parla anche degli
«intervalli in cui l’Eterno della gioia, l’Eterno della gloria non si è ancora presentato. Nel bel mezzo di uno
di questi intervalli, mi ci ritrovo io -
scrive - che, non avendo (ancora) visto
la gioia o la gloria, ma avendo visto la tecnica, sto male». Dice infatti che la tecnica distrugge
«avvenire», «speranza», «promessa»,
«profezia», rende tutto presente, calcolabile,
manipolabile. Riprende la tesi di Heidegger e Bloch. Che vale però per il pensiero filosofico tradizionale
(i rami bassi dell’albero di cui sopra
parlavo). Volendo essere tale pensiero
incontrovertibile, ha infatti la pretesa di dire già tutto sull’essenza del futuro, ossia di ciò che
ancora, per l’intero Occidente, è un
nulla. Scienza e tecnica (i rami alti) sono
invece un sapere ipotetico, che non adatta a sé l’esperienza, ma le si adatta, lasciandola vivere e
aprendosi all’«awenire». Inoltre la
filosofìa del nostro tempo mostra l’impossibilità di ogni Eterno che stia al di sopra delle cose
create e annientate, ma che non ha nulla
a che vedere con gli Eterni, di cui
parlano i miei scritti, che non sono i padroni che dominano e regolano quella creazione e annientano, ma
sono le cose stesse. Questa sintesi di tecnica e filosofia del
nostro tempo, alla quale ben pochi
guardano, è animata da quella volontà di
«avvenire», la cui mancanza fa star male Barcellona e anche 241
altri. Mi sembra che egli oscilli tra l’inconsapevole adesione allo spirito del nostro tempo - che, proprio
in quanto tecnologico, e contro quel che
di solito si pensa, intensamente vuole e
promuove l’«awenire» - e l’adesione al mio discorso filosofico, dove anche la totalità del futuro
è già, eterna, e attende di venire alla
luce, oltrepassando quell’Eterno che è la
Follia da cui è dominata la terra.
A volte Barcellona mi dice che la sua è una fede. Troppo modesto. Alla base del suo discorso c’è
invece una filosofia per la quale la
verità non può essere che «visione». È il
principio della fenomenologia. «Ma si può dare davvero un rapporto necessario con la verità» scrive
«che non sia la visione?» Rispondo: sì,
perché la semplice visione non potrà mai
essere «necessità». Limitarsi, in un paradiso, a «vedere» Dio, significa esporsi al dubbio di essere
vittime di una illusione. La semplice
«visione» non mostra la necessità di
quel che si vede. Nemmeno chi toccava Gesù toccava la «necessità» che egli fosse il Figlio di
Dio. Tempo fa, in un editoriale di
«Liberal» (n. 19, 1998) il direttore
Ferdinando Adornato richiamava il problema delle nuove «regole di un equilibrio mondiale» e
affermava la necessità che l’Europa
abbia «una propria autonomia politica di
difesa e di sicurezza. Aggiungeva di non trovare «saggio» «pensare che tale autonomia debba servire a
riproporre un ordine mondiale basato su
un “bipolarismo antagonista” nei
confronti degli Usa». Poiché in un mio articolo pubblicato su quello stesso numero sostenevo una tesi che a
prima vista sarebbe potuta sembrare
affine a quella che l’editoriale non
considerava «saggia», nel numero successivo aggiunsi, in risposta, quanto segue. Siamo d’accordo che l’Europa si trova
all’interno di un processo storico che
la vede e continuerà a vederla alleata
242 degli Usa. D’accordo,
anche, che un alleato non è un suddito.
Lo diventa se non ha potenza - se non ha l’«autonomia» di cui Lei parla. A meno che l’alleato debole
abbia grande autorità su quello forte.
Ma non è il caso dell’Europa rispetto
agli Usa (che hanno tirato diritto anche di fronte alle esortazioni del Papa). Nel mio articolo rilevavo che il processo
storico in cui si trova l’Europa la vede
anche avvicinarsi alla Russia, nel senso
che si profila la tendenza verso la collaborazione tra la potenza economica europea e la potenza
nucleare russa. L’unione di questi due
fattori fa nascere appunto quell’alleato
degli Usa, che è tale solo se non è un suddito. Non si profila dunque un semplice «antagonismo» rispetto
agli Usa. Perfino il bipolarismo
Usa-Urss era chiamato dal sottoscritto, sin
dagli anni Settanta, «Duumvirato» (l’espressione era piaciuta anche a Giulio Andreotti). Rispetto alla
concordia discors del Duumvirato di
allora, il Duumvirato che si sta profilando (e
che il mio discorso si limita a constatare) vede considerevolmente ridotta la discordia.
D’altra parte gli alleati sono veri,
solo se ognuno dei due ha la forza di resistere alle possibili prevaricazioni dell’altro. Solo
questa forma di alleanza tra
Europa-Russia e Stati Uniti può consentire
all ’Occidente di tutelare affìcacemente i propri valori rispetto al resto del mondo. Lei rileva invece che la logica della
deterrenza nucleare è obsoleta. Il
terrorismo è evanescente e asimmetrico.
(D’accordo). Per Lei, mi sembra, sarebbe obsoleto anche un ombrello nucleare russo che sostituisse
quello che gli Usa hanno tenuto e
tengono aperto sull’Europa. Ora,
contrapporre al terrorismo l’armamento nucleare è ovviamente insufficiente. Oggi esistono le
armi chimiche e le cosiddette
«nano-tecnologie» di basso costo e di altissimo
potenziale distruttivo dalle quali è estremamente difficile 243
difendersi. Ma perché i terroristi non le hanno usate, per esempio per difendere l’Afghanistan e l’Iraq?
Se l’armamento nucleare è insufficiente,
è però anche necessario. Alla fine, sono
soprattutto degli Stati ad alimentare il terrorismo. Gli Usa non parlano forse di «Stati canaglia»?
Rispetto a quest’ultimi la minaccia
atomica (esplicitamente richiamata dagli
Usa prima dell’attacco all’Iraq) non è obsoleta. E allora non si dovrà dire che il terrorismo si
astiene dall’uso delle armi
chimico-batteriologiche proprio perché certi Stati temono la ritorsione atomica su di essi da
parte degli Usa (e della Russia)? Ma poi, la concreta risposta americana al
terrorismo dell’11 settembre non è stata
forse l’attacco a due Stati? E un articolo
di questo numero di «Liberal», scritto da un americano, non è forse significativamente intitolato E adesso
l’Iran^ È proprio così obsoleto il
possesso di un arsenale invincibile (e
invincibile lo è tuttora e nonostante tutto anche quello russo), in un mondo dove la rincorsa all’armamento
nucleare sta diventando sempre più
pressante - come proprio in queste
settimane stiamo constatando? A
parte il riferimento alla «potenza economica europea», che come già si è accennato nelle pagine
precedenti si è nel frattempo
notevolmente ridotto, le considerazioni presenti in quella mia risposta vanno tuttora tenute
ferme. 244 9. «Non credo alla sopravvivenza» Molte le pagine di Maurizio Ferraris da cui
la comprensibilità del discorso di
Jacques Derrida ha tratto, un notevole,
giovamento. Anche quelle pubblicate da Bollati
Boringhieri e affettuosamente intitolate Jackie Derrida. Ritratto a memoria (2006), dove egli scrive
che per Derrida, «cercare di far sì che
non tutto scompaia è stato al centro delle
sue preoccupazioni senza trasfomarsi in una meditatio mortis narcisistica» (p. 20). A dar ragione a Ferraris, è lo stesso
Derrida che dichiara: «Non penso che
alla morte, ci penso sempre, non passano
dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. Analizzo continuamente il fenomeno della
sopravvivenza, è veramente la sola cosa
che mi interessi, ma proprio nella
misura in cui non credo alla sopravvivenza post mortem. In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò
che faccio, sono, scrivo, dico» (J.
Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto,
Laterza 1997). «Nella cenere tutto viene annientato» dice da qualche parte. Ma di quel continuo analizzare «il fenomeno
della sopravvivenza» non trovo traccia
nelle pagine di Ferraris. E lo si
spiega; perché per quanto ne sappia, non la trovo nemmeno nelle pagine di Derrida. Egli dice, sì, che
continua a pensarci, ma è difficile
venire a sapere che cosa egli abbia pensato in
proposito; o si viene a sapere ben poco più del fatto che egli «non crede alla sopravvivenza post mortem».
In questo senso, non solo Ferraris ha
ragione a sostenere che in Derrida non
c’è «una meditatio mortis narcisistica», ma verrebbe da dire che non c’è affatto una meditatio
mortis. Certo, a dirlo così nudo e
crudo si sbaglierebbe, perché Derrida
conosceva bene la meditazione di Heidegger sulla morte. E tuttavia doveva anche saper bene che
è una 245 meditazione «fenomenologica», che cioè non
si pronuncia sui problemi «metafisici»
come 1’esistenza di Dio, la
sopravvivenza dopo la morte ecc. Rimane dunque l’impressione che Derrida abbia distolto lo
sguardo da ciò che maggiormente lo
assillava. Che è certamente quel che
più conta. Sono d’accordo. Ma sono
d’accordo perché al tema della «cenere» in cui «tutto viene annientato» ho invece dedicato tutto
quello che ho scritto. Tutto quel che ho
scritto si riferisce alla necessità che
ogni cosa (evento, stato ecc.) sia, eterna, cioè che nessuna cosa si annienti nel cosidetto suo diventar
cenere. Vi si riferisce argomentandola e
mostrando il senso della «necessità» e
dell’«argomentare». Peccato che in proposito Derrida non abbia voluto prendere posizione. Ma limitarsi
a dichiarare la propria incredulità
intorno a qualcosa non è il momento più
alto della filosofìa. All’amico
Ferraris vorrei pertanto proporre di non seguire, in questo, Derrida. Che, per quanto ne sappia,
non si è mai interessato di Leopardi. Ma
la meditatio mortis di Leopardi è
grandiosa, straordinariamente potente, unica. E non è soltanto «fenomenologia». Leopardi crede di
poter mostrare che nessuna cosa è
eterna. Ma come è alto e ricco, e
argomentante il suo errare! Con questa meditazione devono fare i conti i credenti. Derrida li disturba
ben poco. Se non si guarda da vicino il
senso del pericolo, cioè
dell’annientamento e dello scomparire, che stanno alla radice dell’angoscia, quale consistenza può avere la
ricerca di un rimedio contro la morte
ossia di quel «far sì che nontutto
scompaia»? Per Derrida il rimedio era la «scrittura», che trattiene ancora per un po’ le cose
nell’esistenza. Proust questa tesi
l’aveva già analizzata a fondo. Ma, anche qui,
com’era ben più radicale Leopardi, che pensava alla scrittura 246
nel senso più ampio, cioè, come «opera» del «genio», ossia di chi sa dire con potenza la nullità di tutte
le cose. 247 10. Follia giudiziosa Per le scienze del linguaggio il «sacro» è
il «separato»: tiene lontano l’uomo;
anche se insieme lo attira. Freud ha visto
neH’inconscio la follia da cui la coscienza dell’uomo si è distaccata. All’inizio del suo bel libro Orme
del sacro Umberto Galimberti scrive
tuttavia che «a conoscere questa follia non
sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la religione».
Ma la religione - osservo - è solo un «credere»; e se un sapere riuscisse a mostrare che l’occhio
della religione vede più lontano degli
altri e riesce a scorgere la profonda verità
della follia del sacro, non sarebbe allora questo sapere (lo si è chiamato «filosofia») ad avere l’occhio più
acuto? Più in alto di una testa
incoronata sta la mano che la incorona.
Per Nietzsche al di là della ragione c’è il «caos». Per Dostoewskij c’è Cristo. Per Freud l’inconscio
è il luogo in cui non vige più il
principio di identità e di non contraddizione.
La contraddizione è il caos, è Cristo, la follia. La follia è la verità ultima dell’esistenza. In ognuno di
questi casi, si apre alle spalle della
ragione il mondo dell’«indifferenziato», dove,
scrive Galimberti, una cosa è «questo e anche altro». La ragione, tuttavia, non trova scandaloso
pensare che un vino possa essere forte e
anche nero. I problemi incominciano
quando si pensa che lo stesso vino sia forte e non forte, nero e non nero: «indifferenziato», appunto. Platone
e soprattutto Aristotele sostengono che
il contenuto di questo pensiero non può
esistere: cioè che il mondo della follia non può esistere. Qui mi limito a riproporre una domanda che
può sembrare oziosa. Quella follia che, separata, sta al di là
della ragione, è forse non separata? Se
ne stata forse al di là, ma anche al di qua,
dentro la ragione? No! - risponderanno gli amici della follia, 248
del caos, dell’inconscio, di Cristo, dell’indifferenziato. Ma la follia non, è forse, anche, non follia? A
questo punto quegli amici perderanno la
pazienza e diranno di aver già detto che
la follia è follia - punto e basta.
Ma, allora, non è forse molto, ma molto giudiziosa questa follia che se ne sta ben attaccata a sé
stessa (e dunque al principio di non
contraddizione), e non vuol essere «anche
altro», cioè non vuol essere ragione - e, dunque, tirate le somme, non si permette di essere folle? 249
IL Paradosso e monocromia
«Secondo un principio consolidato della metafisica classica, il divenire richiede una condizione che lo
trascende» scrive Biagio de Giovanni nel
suo studio, importante e suggestivo,
dedicato a Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno (Guida 2011, p. 121) - e tale principio regola anche il
pensiero di questi due grandi
protagonisti del «moderno». La complessità del saggio di de Giovanni, implicante notevoli
conseguenze sul piano politico, richiede
che qui si accenni solo ad alcuni punti. Quel
principio della metafisica classica domina effettivamente sia l’«antico», sia il «moderno»; non però il
pensiero del nostro tempo, per il quale
il divenire non richiede altro che sé stesso.
Il mondo non ha bisogno di Dio.
Che il divenire richieda una condizione trascendente, indiveniente, infinita, significa che essa
salva il finito - il divenire (nascita e
morte) essendo appunto il regno della
finitezza. La tesi di de Giovanni, che l’intento di fondo di Spinoza e di Hegel è di salvare il finito, è
quindi del tutto consequenziale. Ed
egli, questo intento, lo fa proprio, ma
dandogli un timbro nuovo, che insieme, a suo avviso, rende esplicito quanto nei due pensatori rimane
invece velato. Semplificando molto il
suo discorso, si può dire che il mondo è
salvato solo da Dio, ma che il rapporto tra Dio e Mondo produce inevitabilmente un radicale
spaesamento del pensiero, che non riesce
e non può riuscire a sciogliere i
problemi prodotti dalla coabitazione di quei due termini. Ciò significa che le difficoltà e le
contraddizioni a cui va incontro il
rapporto finito-infinito in Hegel e Spinoza non sono imputabili alla limitatezza del loro
pensiero, ma sono strutturali. In una delle pagine decisive del suo libro
de Giovanni scrive: «I grandi testi
della filosofia non sono grandi
250 precisamente perché
gravidi di altissimi contrasti, che sono il
vero sale del pensiero?», e questo sale non è forse «la profonda istituzione di una dualità che non aspetta
vera conciliazione e che però ambisce a
vincere la scissione senza poterla
abolire?», sì che «proprio questo paradosso è la stessa vita umana»? Ritengo che i punti interrogativi non
siano retorici. De Giovanni non
presuppone arbitrariamente 1’esistenza
delfinfinito, non ne progetta nemmeno la fondazione, né la richiede a Spinoza e a Hegel, dove, a suo
avviso, Dio, cioè l’infinito e
indiveniente Invisibile, è, non meno e anzi ancor più del finito, il luogo dove i problemi e le
contraddizioni maggiormente si
addensano. L’infinito-invisibile è infatti per
lui il contenuto di una «fede».
Ma questa fede, mi sembra, appartiene a suo avviso all’essenza dell’uomo, ossia a quel
«paradosso» che avvolge non questo o
quel gruppo umano; non questa o quell’epoca,
ma «la stessa vita umana» in quanto tale. E qui il paradosso indicato da de Giovanni è scavalcato, nel
senso che diventa ancora più complesso,
la fede nell’invisibile essendo appunto
ciò che, come richiamavo all’inizio, è spinto al tramonto dell’essenza o «sottosuolo della filosofia
del nostro tempo», dove il Tutto resta
identificato alla totalità del visibile-finito - diveniente. Egli vede sì l’unita sottostante
all’«antico» e al «moderno» (e si tratta
di millenni), ma non intende allargarla,
e anzi prende le distanze dalla fede, indicata nei miei scritti, che unisce l’intera storia dell’uomo e che
quindi sostiene sia la fede
nell’Invisibile sia la fede dei nemici dell’Invisibile, amici della Terra.
De Giovanni contrappone cioè il suo modo di considerare la «storia dell’Occidente» a quello dei miei
scritti, che «considera il pensiero
dell’Occidente come preso in un unico
solenne errore, che è un estremo, iperlogico (e a suo modo, certo, geniale) invito a escludere il
significato delle 251 differenze», ossia di ciò a cui non si può
rinunciare (p. 117). Credo che qui de
Giovanni si riferisca alle differenze intese
come differenti modi di errare , non come differenze tout court - giacché l’affermazione dell’esistenza e
anzi dell’eternità delle differenze
(ossia delle molte cose e dei molti aspetti del
mondo, innanzitutto) è una tesi costante del mio discorso filosofico.
Ma è una sua tesi costante anche l’affermazione dell’esistenza di differenti, infiniti modi
di errare; che però hanno questo di
identico, di essere errori, cioè negazioni della verità. E l’avere in comune il loro esser
errori non cancella i differenti modi
dell’errare - così come, per i colori, l’avere in comune Tesser colori non è una monocromia,
ossia non cancella il loro differire
l’uno dall’altro. Nei miei scritti si
mostra che la vita umana è il luogo in cui si manifesta ciò che vi è di identico in ogni errore, ossia il suo
essersi separato dalla verità. De Giovanni mi gratifica di un
riconoscimento che mi piacerebbe
meritare («Sono convinto che la profondità
speculativa di Severino sia assai alta e pressoché unica oggi in Europa»), ma aggiunge che «la pedagogia che
nasce da questa profondità è muta,
perché riduce la dialettica interna alla
storia della metafìsica [...] alla monocroma ripetizione dell’errore». Nei miei scritti si mostra che
l’Errore è la fede nella trasformazione
delle cose, il loro diventar altro da sé.
Chiedo a de Giovanni di indicarmi, per uscire dalla supposta monocromia, un solo punto, nella storia
dell’uomo, dove non si creda
nell’esistenza della trasformazione delle cose, ma si creda in una forma di errore diversa da
questa fede. Poi, se vorrà, potremo
discutere il punto decisivo, ossia i motivi per i quali affermo che questa fede, nonostante la
sua apparente plausibilità ed evidenza,
è l’Errore più profondo a cui l’uomo è
stato destinato - ma dal quale l’Inconscio autentico 252
dell’uomo è già da sempre libero.
253 12. Il realismo e il mito
del realismo Cresce il rifiuto
dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in
genere male intesa) che «non esistono fatti ma solo interpretazioni». Nietzsche non è un
«realista». Ma implicitamente il
bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a
Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi
pensatori, a partire appunto da
Nietzsche. È ora - sostiene Maurizio Ferraris - di far rivivere su scala mondiale i «fatti», la
«verità», il «realismo». Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più
di mezzo secolo va dicendo che il senso
autentico della verità non è investito
dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la «verità» quale è intesa lungo la storia dell’Occidente, e
quindi anche dal «realismo». Ma Ferraris vuol far rivivere «fatti»,
«verità» e «realismo» dando come cosa
per sé evidente (almeno così sembra) che la
realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con verità,
scorgendo appunto i «fatti», ed essendo
quindi una certezza che ha come
contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel
chiamava appunto «identità di certezza e
verità». Non dubito che Ferraris (e Eco)
l’abbiano presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma filosofica del senso
comune. Anche per le scienze della
natura la realtà esiste indipendentemente
dall’uomo. Da qualche millennio questo è
anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro «senso comune». Ma ben prima della scienza è la
filosofia, sin dai suoi inizi, a
riflettere sul rapporto tra l’essere umano e la
realtà - e sul significato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande filosofia classica (Platone,
Aristotele), la 254 conferma del senso comune. E più tardi
tale conferma sarà chiamata «realismo».
La prospettiva espressa dal principio di
Protagora che «l’uomo è la misura di tutte le cose» (e che quindi la realtà dipende dal modo in cui
l’individuo pensa e vuole) resta a lungo
emarginata. Ma, proprio perché conforma
il senso comune, il «realismo» filosofico
non è il senso comune. La filosofia,
infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto della parola «verità» - il senso che domina
l’intera tradizione dell’Occidente dai
Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità
come «scienza» (epistéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti e
il realismo filosofico ritiene che il senso
comune abbia verità. Ma è la filosofia a
conoscere la verità del senso comune, non il senso comune.
Per avere un esempio della potenza e complessità concettuale del realismo filosofico si tenga
ancora sott’occhio (cfr. sezione prima,
cap. Ili) questo passo deW Etica Nicomachea
di Aristotele: «Ciò di cui abbiamo scienza non
può essere diversamente da come; delle cose che possono essere diversamente, invece, quando siano
fuori dalla nostra osservazione, rimane
nascosto se esistano o no». (La parola
«osservazione» traduce la parola theoréin : l’osservazione appunto, la manifestazione del mondo, che
accade con l’esistenza dell’uomo.) Si
può dire che in questo passo sia
addirittura anticipato quell’importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la
«fenomenologia» fondata da Edmund
Husserl, per la quale è verità tutto ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente
presente, sperimentabile); e quindi non
è possibile che, con verità, venga
affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la fenomenologia non è
una conferma 255 del nostro senso comune. Aristotele non
riconoscerebbe ciò che pure si è
sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del senso comune in quanto
sussistente al di fuori della conferma
che Yepistéme gli dà: tutto ciò che esso
dice non è «scienza» (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste
indipendentemente dall’uomo è più ampia
della realtà di cui, secondo la
«fenomenologia» c’è scienza (e anche Husserl intende la filosofia come «scienza rigorosa»). La
scienza è infatti, per Aristotele (come
per l’intera tradizione occidentale) anche
scienza di Dio, «metafìsica». Il
«realismo» filosofico greco si è sviluppato nella filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso
tee.) e quindi nella dottrina della
Chiesa cattolica e delle altre Chiese
cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa filosofia moderna prekantiana, che però procede a una
forma più elaborata di conferma del
senso comune. E il realismo è stato
messo in questione da Kant e daH’idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della
filosofia degli ultimi due secoli, Marx
e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma
quanti conoscono l’idealismo da cui ci
si deve liberare? Per l’idealismo (e il
neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste
indipendentemente dalle singole
coscienze degli individui umani. È dalla coscienza «trascendentale» (liquidata con troppa
disinvoltura) che la natura non è
indipendente. La scienza, si diceva
sopra, è realista. E la «filosofia
analitica» sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla scienza moderna
(che non è più epistéme). Sennonché, se
il «realismo» della scienza moderna non
vuol essere semplice, ingenuo «senso comune», allora è una tesi filosofica è cioè quel realismo
filosofico la cui potenza 256 e complessità concettuale e i cui rapporti
con le concezioni non realistiche
sfuggono completamente al moderno sapere
scientifico - e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al «nuovo realismo», stando al modo in cui esso
è stato presentato. Si aggiunga che la scienza intende
fondarsi suh’«osservazione». Ma la gran
questione è che la realtà - che per la
scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse (l’uomo è dice la scienza, compare
soltanto a un certo punto dello sviluppo
dell’universo) -, in quanto esistente
senza l’uomo è per definizione ciò che non è
osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non può esserci esperienza umana di ciò che
esiste quando l’umano non esiste. Quindi
l’affermazione che la realtà è
indipendente dall’uomo finisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è
considerata come «altamente
probabile». Comune al «nuovo realismo»
e al «pensiero debole» di Vattimo e
Rovatti è comunque l’istanza politico-morale,
messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalitarismo. Ora, la filosofia - come il
mito e poi la scienza moderna - è nata,
sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla
morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la filosofìa (come il mito e la
scienza), nascendo dalla paura, è mossa
da un’istanza politico-morale. Ma la filosofia
si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del mito, ma deve avere «verità», e la «verità»
non può fondarsi sulla dimensione
politico-morale. Per la sua assoluta
spregiudicatezza la «verità» deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve
saper rispondere. Altrimenti essa è
semplice edificazione. Un’ultima
osservazione a proposito di Nietzsche. La sua
257 tesi che non esistono
fatti ma solo interpretazioni non va
intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo
esista non è per Nietzsche
un’interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti deU’uomo: che il
divenire (la storia il tempo) esistano è
per Nietzsche - anche per Nietzsche -
l’incontrovertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna
immutabile, «divina» che sovrasti il
divenire e lo domini e guidi. Questa «verità» è la Grande Fede al cui interno cresce l’intera
storia dell’Occidente e, ormai, del
pianeta. La fede che da tempo i miei scritti
invitano a dar conto del suo incontrastato potere. 258
13. Intorno a Nietzsche, Gentile, Heidegger Persiste il silenzio su uno dei tratti più
importanti della cultura contemporanea.
Da parte mia continuo a richiamare
quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare
inverosimile, tale nucleo è infatti ciò
che fa diventar reale la dominazione del
mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio
quella capitalistica, politica, religiosa,
e anche se la tecno-scienza (ma non solo
essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in
luce che ogni Limite assoluto all’agire
delfuomo, ci oè ogni Essere e ogni
Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica
a oltrepassare ogni Limite, ma con tale
autorizzazione le conferisce la reale
capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla
tecnica che essa ne è capace. Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale
c’è sicuramente il pensiero di
Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile,
la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia
continuamente si parla. Invece su
Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante
(sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di
lingua inglese, sia in quella
«continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in
relazione al tema filosofia-tecnica a
cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi
comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un
elemento frenante, «reazionario»,
rispetto alla progressiva emancipazione
planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria 259
importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi
- come ho incominciato a dire - al tema,
molto più modesto, riguardante alcune
conferme di tale silenzio e alcune
implicazioni. Per Gianni
Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.), l’«antirealista»,
cioè la critica alla «concezione
metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p.
100). Si tratta della critica alla
definizione di «verità» come «corrispondenza» tra intellectus e res, tra «l’intelletto» e «la
cosa». In tutto il libro Gentile non è
mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con
maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano)
l’insostenibilità di quella definizione.
In sostanza egli argomentava - per sapere se
l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è
necessario che il pensiero confronti la
rappresentazione dell’intelletto con la
cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene a essere conosciuta, non è «esterna» al
pensiero, ma gli è «interna». Ciò
significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna
cosa «esterna». Solo che Vattimo si fa
guidare, prendendolo alla lettera, da
quell’appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che «non ci sono
fatti, ma solo interpretazioni» e che
«anche questa è un’interpretazione»,
ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo
intende tener ferma questa «sentenza» di
Nietzsche dovrà dire allora che anche la
critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di
revocabile. Capisco quindi che egli
consideri anche la propria filosofìa soltanto
come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una 260
«volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico- politiche (p. 53): «Come Heidegger, noi
vogliamo uscire dalla metafisica
oggettivistica perché la sentiamo come una
minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell’esistenza» (p. 122, corsivo mio). In
sostanza, come tanti altri, esclude ogni
verità incontrovertibile perché altrimenti
libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità
incontrovertibile la difesa della
libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure -
chiedo a lui e a tanti altri - anche
l’affermazione che la libertà è «costitutiva»
dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile? En passant, egli è stranamente fuori strada
quando mi attribuisce l’intento di
oltrepassare la metafisica «attraverso la
restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pp. 164- 165) e rifacendomi a Heidegger. Il quale però
sostiene che l’Essere è «evento»
(contingenza e storicità assoluta, assoluto
divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni
cosa è un essere eterno. E infatti essi
indicano qualcosa di abissalmente
lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene
Gentile differisca da Heidegger perché,
platonicamente, intende il Pensiero come
indiveniente). Comunque, già
l’idealismo classico tedesco, soprattutto
quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione
dell’intelletto a una realtà esterna, e
tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toghe di
mezzo solo un certo tipo di metafisica.
Per mostrare l’impossibilità di ogni
Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che,
ripeto, è sì presente in Nietzsche e in
Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma
261 non in Heidegger. Né qui
intendo indicare ciò che occorre e che
sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del nostro tempo. Se Vattimo, che condivide la critica
heideggeriana alla verità come
corrispondenza, su questo punto è
inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel,sostiene ora un
«nuovo realismo» (che peraltro condivide
con molti altri) al quale forse
rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è
d’accordo con Maurizio Ferraris (non più
allievo di Vattimo), che presenta in
Italia il libro di Gabriel II senso dell’esistenza (Carocci editore 2012). Vi si sostiene subito un
«argomento» che conduce alla tesi
seguente: «C’è qualcosa che noi non
abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità» (p. 21). L’«argomento» è che, una
volta ammesso che «noi» produciamo
qualcosa, noi però non produciamo il
«fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il «fatto» che dunque è indipendente da «noi».
Gabriel lascia indeterminato il
significato di quel «noi» (sebbene egli
interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco). Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che
è Gentile risponderebbero che, certo,
questo o quell’individuo non producono
il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato
(anche da Gabriel, sembra) e, in quanto
pensato, non può essere, come invece
questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto
pensiero. «Io propongo di definire
l’esistenza come l’apparizione-in-
un-mondo», scrive Gabriel (p. 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho
trovato alcun chiarimento sul
significato del termine chiave «apparizione».
Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. 262
L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende
che c’è apparizione di un mondo anche
senza che appaia questo o queU’individuo
empirico, allora, su questo punto, sono
d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un
caso di esistenza è l’apparire in cui
tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto,
come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l’«apparizione»? Per lui ciò che esiste esiste
necessariamente «all’interno di un campo
di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che
qualcosa esiste solo in quanto
differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono
d’accordo (ma esortando Gabriel a
rendersi conto che egli, contrariamente ai
suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio «altro» - al
rango di assoluto principio
incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover
concludere che qualcosa come «il Tutto»,
la «totalità degli enti», non può esistere
perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere sé stesso, giacché è
necessario che il Tutto, in quanto
contenente differisca dal Tutto in quanto
contenuto (pp. 52 ss.). Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’«apparizione» del Tutto (anche per
Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa
apparizione contiene sé stessa proprio
perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il
contenuto è insieme il contenente. Da
gran tempo i miei scritti si sono soffermati su
questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il «nulla» è il contesto
del Tutto. (A proposito del tema del
«nulla» è curioso che Vattimo, per il
quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - 263
tutto è contingente, neghi a un certo punto - p. 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico,
perché senza il loro annullamento e
nullità iniziale non si vede in che possa
consistere la loro contingenza e storicità.) L’idealismo assoluto di Gentile è poi un a
ssoluto realismo, perché il contenuto
del pensiero non è una rappresentazione
fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in sé stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare
Gabriel e i vari neorealisti a studiare
Gentile. Certo, la difficoltà maggiore è
capire il carattere «trascendentale» del
pensiero, che si è presentato in modo
sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni
pensiero, l’«assolutamente Altro»,
l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui
l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo
è pensato. Per questo Gentile afferma
che il pensiero non può essere trasceso
e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso.
Questo trascendimento è la verità. L’idealistica trascendentalità del pensiero
è stata sostituita oggi dal consenso,
cioè dall’accordo sociale su un insieme di
convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la
comunità più ampia possibile è
d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo
concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità»,
giacché «siamo esseri storici e la
massima evidenza disponibile qui e ora si
costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (p. 109). Ma,
daccapo, questa sua affermazione è una
verità incontrovertibile? Oppure che gli
uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o 264
discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar
d’accordo nel far rivivere la metafisica
e altre cose non desiderate dalla
filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo
intento è di prendere le distanze da
ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche»
dell’Essere) finisca col valere, nel suo
discorso, come un’evidenza oggettiva e
indiscutibile. 265 14. Realismo e idealismo in relazione
all’ostacolo La tecnica può riuscire a
porsi alla guida del mondo solo se si è
in grado dimostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della
tradizione (quali il capitalismo, le
religioni, la politica e la concezione del mondo che sta al loro fondamento). Ma chi può
mostrarlo? Non certo la tecnica e la
scienza. È invece l’essenza
tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra
che non possono esistere quei Limiti
assoluti, indicati dalle forze delle
tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un
carattere decisivo. Di qui l’importanza
di saper cogliere ciò che chiamo «essenza
della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a
questo contesto si riferiva anche il mio
articolo («Corriere della Sera», la
Lettura, 16 settembre 2011), intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. D’altra parte, continuo a ripetere, quell
’essenza è la forma più coerente della
Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza
dell’uomo - la Follia del nichilismo).
Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo
esista indipendentemente dalla coscienza
che egli ne ha. Questa, la base di ogni
forma di «realismo». Se l’«uomo» è il singolo
individuo umano, anche l’«idealismo» è una forma di realismo. D’altra parte, il mito, e il
pensiero filosofico della tradizione (sia
pure in modo profondamente diverso) vedono
in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina», di Volontà, capace di dominare la materia di
cui le cose son fatte o addirittura
capace di produrre ogni aspetto del mondo,
come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel, 266
che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli
è unita. Come Cristo, l’uomo autentico è
Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non
dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neohegeliano Giovanni Gentile questa tematica
è fondata nel modo più rigoroso. Giacomo Marramao («Il Secolo d’Italia» 18
settembre 2011) è limpidamente d’accordo
con me circa questo rigore - osservando
giustamente, tra l’altro, che uno dei motivi del disinteresse per Gentile sta nel suo stile
«pesante» e «ottocentesco». Che però,
aggiungo, vanta un nitore concettuale
estremamente superiore a quello del neohegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo.
Contrariamente alle loro intenzioni (e
nonostante i loro indubbi meriti), essi
hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una reazione «realistica» non
immune da consistenti ingenuità, che
sarebbe stata di più alto livello se nel
mondo anglosassone la presenza di quella forma di neohegelismo non avesse impedito la presenza
di Gentile. Ma soprattutto - per quanto
riguarda il predominio del realismo
rispetto aH’idealismo - la tecno-scienza si presenta quasi sempre come «realismo» (assunto come
ipotesi di lavoro o come tesi filosofica
acriticamente accettata). Da parte sua
il «realismo» filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere
indipendentemente dalla scienza. In
questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il
predominio del realismo rispetto a ogni
altra forma filosofica. Nell’intervento
di Maurizio Ferraris («la Repubblica» 18
settembre 2011) si afferma che nella prospettiva che va da Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che
fare con cose in sé, ma sempre e
soltanto con fenomeni, con cose che
267 appaiono a noi». No:
questo lo si può dire di Kant (e
propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per
Aristotele, il contenuto della ragione
sono proprio le cose in sé. E a sua
volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone (arbitrariamente) che esistano cose in sé al
di là del pensiero, si può affermare che
i contenuti del pensiero siano soltanto
fenomeni. Per confutare l’idealismo Ferraris richiama l’esistenza delle infinite cose che
esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli
incontrati dall’uomo, l’imprevedibilità degli
eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non
fossero pensate e che quindi esse non
stanno al di là del pensiero, indipendenti
da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono, subiscono quelle
avversità e muoiono. I miei scritti
stanno tuttavia al di là dell’opposizione
realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente («Corriere» 27 settembre 2011)
i loro temi centrali, che nel mio
articolo avevo messo tra parentesi per
non complicare troppo il discorso.
Invece Gianni Vattimo («Corriere» 21 settembre 2011) mi trova troppo affezionato «al vecchio
argomento antiscettico» (se uno dice che
non c’è verità sostiene peraltro che quel che
lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un «giochetto logico-metafisico».
Un giochetto che però (per richiamare
solo due tra molti) Platone ( Teeteto,
171 a) e Aristotele ( Metafisica, IV, Vili) prendono molto sul serio. Platone scrive addirittura che
quell’argomento è «raffinatissimo»
(kompsótaton). Ma poi Vattimo dimentica
che quel che qui egli chiama «giochetto», nel suo libro (Della realtà, cit., p. 25) lo chiama invece «giusta
accusa di autocontraddizione». (Comunque
nel mio articolo prendevo atto delle sue
frequenti dichiarazioni di non voler dire cose 268
vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo. Ma poi, non è proprio per non esser vinto
dall’argomento contro lo scettico che
Vattimo, per sostenere la propria
negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi
desideri - sì che quell’argomento ha
un’importanza decisiva nel suo discorso?)
Da parte mia ho scritto invece più volte che quell’argomento non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo,
giacché a chi gli obbietta che si
contraddice egli può ancora replicare
chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il discorso prosegue in un territorio che
Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene
anche che dialogare con qualcuno significa
andare «a braccetto» con lui. Ora, vado sì dialogando con Gentile, con l’«essenza del pensiero del
nostro tempo», con la storia del
nichilismo, con i realisti, ma non vado «a braccetto» con loro. Dialogo anche con Vattimo...) Per Markus Gabriel («Corriere» 29 ottobre
2011) il contenuto dei miei scritti è
«realismo» e quindi, da realista, scrive
che «apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona». Infatti, a suo
avviso, Parmenide afferma «un essere
indipendente dall’ambiente umano».
Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò che Parmenide dice
dell’«essere» va detto invece degli enti
: di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è impossibile - è contraddittorio - che non sia),
e quindi è eterno anche ogni «ambiente»
e pertanto anche Cambiente umano».
Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l’ente e il niente. Nessun
ente può essere stato o può diventare un
niente. Se «realismo» significa che certi enti
potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una
tesi autocontraddittoria) - come
l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe
esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente.) 269
Gabriel aggiunge che «la realtà è parzialmente contraddittoria» (e cioè che il principio di
non contraddizione non regola tutta la
realtà) perché gli uomini continuano a
contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo
secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che invece è l’impossibile, il necessariamente inesistente
(Cfr. sezione terza). Con una metafora:
i pazzi esistono - e sono pazzi e non
sani, cioè sono enti in contraddittorio -, ma (secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di
cui i pazzi son convinti non esiste.
L’esistenza del contraddirsi non rende
dunque parziale il dominio del principio di non contraddizione - che peraltro, in relazione
al modo in cui è stato storicamente
inteso, è ben lontano dal presentarsi come
un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del nichilismo. 270
15. Stelle e formiche Qualche
chiarimento a proposito delle considerazioni
(«Giornale di Brescia» 4 settembre 2012) che Massimo Borghesi ha dedicato al mio libretto-intervista
Educare al pensiero, gentilmente
propostomi da La Scuola editrice. Provo
a indicare, con un po’ di esagerazione, il senso complessivo di quanto intendo dire. Supponiamo che si voglia
dare un’idea della Divina Commedia
affermando che essa è una illustrazione
dell’Inferno (punto), e quindi, se non proprio
evitando di citare l’ultimo verso della Cantica - E quindi uscimmo a riveder le stelle -, mormorandolo
appena. (Per me la vita sarebbe cioè
infeliceì ) Chiedo scusa per il
paragone inverecondo, ma vorrei sfatare
l’impressione complessiva che si può avere leggendo l’articolo di Borghesi. Sembra cioè, dal
tasto su cui egli batte soprattutto, che
il mio discorso consista nel sostenere che noi
tutti siamo eternamente dannati e con noi tutte le nostre convinzioni (punto). E invece, se mi è
concesso sfruttare la metafora dantesca,
nei miei scritti si mostra che ognuno di noi
è infinitamente di più di quel che crede solitamente di essere: è lo sguardo eterno in cui eternamente appare
lo splendore delle «stelle», l’eterno
apparire del firmamento. Sennonché (lo
mostro nei miei scritti), nella luce del
firmamento che noi siamo si fa innanzi questa nostra terra, la quale, sì, corrisponde aH’Inferno del poeta.
Infatti, abitandola, noi ci chiudiamo in
quel che per lo più crediamo di essere e
non vediamo il firmamento che noi siamo (al di sopra del quale sta un Firmamento ancora più
infinito). Per quanto riguarda la parte
dei miei temi considerata dal Borghesi
troverei invece molto più adatte queste parole di Angelus Silesius: «Uomo, smetti di esser uomo
se vuoi raggiungere il Paradiso: Dio
riceve solo altri dèi». Oppure,
271 «Uomo, se non hai dentro
di te il Paradiso, non vi entrerai mai».
Certo anche queste sono metafore: ogni loro parola indica e nasconde. Ad esempio è sommamente
occultante Yimperativo («smetti di esser
uomo»), perché ogni uomo ha già smesso
da sempre di essere quell’uomo che per lo più
crediamo di essere, e già da sempre, necessariamente, ha dentro di sé il «Paradiso» che peraltro è
destinato a raggiungere. Ma poi sono le
parole «uomo» «Dio», «dèi», «Paradiso» a
dover deporre il loro timbro mitico-metaforico - anche perché sapere che cosa significhi
«uomo» non è per nulla più facile che
sapere che cosa significhi «Dio».
Ancora un chiarimento. Borghesi scrive che il mio è «un sistema di pensiero che rifiuta l’idea che
l’uomo possa cambiare». Detta così,
questa sua affermazione altera il senso
del mio discorso, e, anche qui, perché ne mostra soltanto un lato. Proprio nella prima risposta
dell’intervista dico: «Invece gli eterni
che costituiscono gli essenti [quindi anche gli
uomini] hanno una essenziale mobilità; tanto che ho scritto da qualche parte che “solo l’eterno può
divenire”. Nel senso che lo spettacolo
che sta davanti, costituito dall’apparire degli
eterni, è continuamente variante», «è il variare che dapprima si mantiene all’interno di ciò che chiamo
“terra isolata dal destino” [cioè
l’Inferno di cui parlavo] e poi continua al di là della terra isolata dal destino della verità
[dove il “destino” è l’apparire, che noi
siamo, dello splendore delle “stelle”].
Questo proseguire della variazione degli spettacoli eterni è un proseguire aU’infinito in un percorso che
chiamo “Gloria”. La Gloria è l’infinita
adeguazione del finito all’infinito» (p. 18).
Ogni uomo è destinato a compiere questo percorso. Nel suo secondo intervento ( Ibid ., 16
maggio 2012). Massimo Borghesi dà, dei
miei scritti, un’immagine certamente più
adeguata di quella da lui proposta in prima
battuta. In risposta avevo aggiunto qualche osservazione. Ma 272
qualche altra è forse opportuno che ne aggiunga a proposito di questo suo nuovo articolo. Mi sembra che egli non condivida la tesi che
Inesistenza» dell’uomo sia tenebra,
sogno, non-verità, errore. Però a lui,
che è cattolico, posso ricordare che all’inizio del Vangelo di Giovanni si legge: «E la luce splende nelle
tenebre e le tenebre non l’hanno
accolta». La «luce» è innanzitutto la verità; le «tenebre» sono l’esistenza dell’uomo nel
«mondo», e sono «tenebre» perché sono
sogno, non-verità; errore, negazione
della verità. Dicendo questo, «delegittimiamo» forse le tenebre, come Borghesi in sostanza sostiene,
criticandomi? Si delegittima ferrare
dicendo che è errare (con tutto ciò che
ferrare implica)? Certo, il
pensiero filosofico non può accontentarsi del
senso che le religioni danno alla verità e alla non-verità; ma è anche chiaro che il cristianesimo non intende
render luce le tenebre, ma condurre
l’uomo fuori di esse. Si tratta allora di
capire perché, nei miei scritti, si afferma che ogni uomo è già da sempre nella luce, al di fuori delle
tenebre, e che ognuno lo è nel modo che
gli è proprio e che lo distingue da ogni altro
uomo. Ogni uomo è già da sempre Oltreuomo - anche se questo suo esserlo è contrastato dalla
convinzione ottenebrante in cui tutti ci
troviamo per lo più a vivere. E,
ancora, si tratta di capire perché in quegli scritti si afferma che le tenebre sono essenzialmente
più profonde ed estese di quelle a cui
si riferisce Giovanni, e perché da quel
contrasto siamo tuttavia destinati a uscire, e perché la luce lasci sotto di sé le tenebre. Borghesi dice
che il mio discorso è un «dualismo». E
allora? Questo suo dire è solo una
descrizione, non una confutazione.
Ma la sua descrizione è ancora alterante - cioè mi fa dire cose che non ho mai detto -, soprattutto
quando afferma che 273 per me la vita dell’uomo nelle tenebre è
l’«inutile affaccendarsi» di un
«formicaio». Ancora una volta, vorrei
chiedere a Borghesi: ma la vita degli uomini che pensano soltanto al «mondo» (alle «tenebre» di
Giovanni), e non a Dio, non è appunto,
secondo il cristianesimo, l’inutile
affaccendarsi di un formicaio?
Tuttavia preferisco ricordare che il sogno nel quale consistono le tenebre di cui parlano i miei
scritti non è quel vagare delle formiche
che per chi non sa che cosa sia un
formicaio è senza senso, un «inutile affaccendarsi». Il grande sogno si svolge anch’esso secondo la
necessità del destino (come peraltro lo
stesso mio critico riconosce); e con un
ritmo e secondo una struttura che in molti ma molti miei libri sono andato indicando, chiamandola «storia
del mortale» (ossia dell’abitatore del
sogno). La follia che produce il grande
sogno è la persuasione che le cose si strappino da sé e divengano altro, invadendolo, dividendolo,
spezzandolo. Quindi la follia sta al
fondamento di ogni volontà di far
diventar altro le cose. E anche qui si tratta di capire perché è necessario che la follia si presenti dapprima
nei miti, poi nella storia della
razionalità teorico-pratica dell’Occidente, e infine nella distruzione di questa razionalità e
nella progressiva dominazione planetaria
della tecnica. È necessità che nelle
tenebre si proceda illuminati dalla luce di Lucifero. L’autentica «educazione» è il linguaggio che
mostra tutto questo, e non invita a
incrociare le braccia (anche il
rinunciare a volere, sappiamo, è un volere), ma mostra che cosa, in quanto abitatori delle tenebre, i
popoli sono destinati a volere. Altre volte Borghesi si è occupato dei miei
scritti. Anni fa, su «30 Giorni», ebbe a
scrivere che «Severino su un punto ha
ragione: la tecnica è l’orizzonte assoluto del nostro tempo». 274
Ringraziandolo, con molto ritardo, per aver salvato uno dei miei punti, osservo che non per caso la
tecnica è l’orizzonte assoluto del
nostro tempo, ma lo è per la necessità che regola lo sviluppo delle tenebre, ossia lo sviluppo
della struttura qui sopra indicata. Se
la si studia, si può constatare che,
nelFInferno dantesco, non aveva torto il Diavolo a dire al suo interlocutore: «Tu non pensavi ch’io loico
fossi». 275 16. Esser sé La vita dell’uomo incomincia con un Rifiuto.
La vita cosciente, dico, cioè quella in
cui il mondo si manifesta. Tale Rifiuto
nega che il giorno sia notte, l’acqua aria, gli alberi stelle, il freddo caldo, la vita morte: nega
che qualcosa sia altro da ciò che esso
è. Già Platone avverte che questa negazione è
presente anche nel sogno e perfino nella pazzia. Nei primi decenni del Novecento il sociologo-etnologo
Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la
tesi che nella «mentalità primitiva»
quel Rifiuto è assente o quasi. Bergson, Durkheim, Mauss mostrano in molti modi l’insostenibilità di
questa tesi. E infatti come sarebbe
possibile, per l’uomo, compiere il gesto
più semplice, ad esempio bere dell’acqua, se la «mentalità primitiva» credesse che l’acqua sia pietra (o
fuoco, aria)? Anche il primitivo può
vivere perché si rifiuta di crederlo.
Tale Rifiuto sta all’«origine» e alle «fondamenta» della vita umana, la «domina» e la «comanda»: tutte
parole, queste, che corrispondono
all’antica parola greca arché, che viene
tradotta anche con «principio». Già per la filosofia greca il Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è Yarché
di tutta la conoscenza. Ma la filosofìa
intende il Rifiuto originario in un modo
radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua
pietra, e così via. La filosofia
sostiene che questa negazioni non sono
semplicemente un «volere», ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento
di ogni altro sapere e di ogni agire e
che quindi è la verità originaria. Aristotele
dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un’unica arché, che è «la più salda» di tutte
le conoscenze. Più tardi questa arché
sarà chiamata «principio di non
contraddizione». Più tardi
ancora, tuttavia, varie forme del pensiero
276 filosofico riterranno che
il tentativo di separare questo
principio dalla volontà, facendone la suprema «verità» incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad
esempio lo ritengono Nietzsche e
Dostoevskij, e prima di loro Leopardi e
(secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia contemporanea; e qualcosa di simile accade
(sia pure con vistose eccezioni) nelle
scienze, nell’arte, nella coscienza
religiosa. Popper rileva sì che senza il principio di non contraddizione crollerebbe l’intero edificio
della scienza: tale principio è il
fondamento dell’atteggiamento «razionale»;
sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una «fede irrazionale», e quindi è
innanzitutto il principio di non
contraddizione a esser dominato e guidato da una volontà («fede») senza verità. 1 Al di sotto
della propria maschera tale principio è
in effetti, nelle sue diverse
configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel
modo da esso prescritto. (Anche la
filosofia ha sostanzialmente trascurato
l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele di sottrarre quel principio all’arbitrio della volontà.)
Tale principio serve certamente a
vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera. Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui
sommariamente richiamata - la storia
cioè del Rifiuto originario - copre e
nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo. Da un lato copre e nasconde il Rifiuto
autentico, ossia l’autentica negazione
che le cose siano altro da ciò che esse
sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto
dalla volontà. Dall’altro lato quella
vicenda copre e nasconde il sapere più
alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni
cosa è sé stessa), 277 proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni
cosa - dunque ogni stato di cose, ogni
stato del mondo e dell’anima, ogni
situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo. La teoria della relatività afferma sì che
ogni stato del mondo (ossia del
cronotopo quadridimensionale) è eterno,
ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica
scientifica, che è ipotetica, e quindi
controvertibile, falsificabile. Anche la
teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia
YEternità (anch’essa da intendere
autenticamente, cioè in senso essenzialmente
diverso da quello che le compete lungo tale vicenda). Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da
prospettive diverse, ai miei scritti,
che indicano il senso autentico del
Rifiuto e delfEternità come un dito indica la luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una
risposta adeguata alle loro
osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e
ricchissime le indagini contenute nel
sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro
Sasso (Bibliopola 2012). Che termina il suo libro con uno struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei
invitare Sasso a rimuoverlo, quel
congedo, a non restargli fedele, innanzitutto
perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio - che
generosamente, anche in queste sue
pagine, considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo
quando parlo del senso autentico del
Rifiuto e delfEternità. Lo sa bene, e
sostanzialmente lo condivide, anche Leo¬
nardo Messinese, che dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze
della metafisica. Heidegger, Lowith,
Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana
2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia 278
(Dedalo 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre
la luna, indicata dal mio dito, alla
base di ogni sapienza. Un tentativo
compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo
accadere per noi (Vita e Pensiero 2013).
Molto interessante e ricco di spunti
anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il
postmoderno (Mimesis 2012) si rivolge
alla luna e al mio dito. Carlo Sini
scrive invece che, sì, io lo costringo ad
«arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e
allora?!» (La verità è un’avventura,
GruppoAbele 2013). Allora, rispondo, se
non gli importa contraddirsi non gli importa che la verità non sia un’avventura e nemmeno che ogni
affermazione contenuta in questo e negli
altri suoi libri sia la negazione di ciò
che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi «siamo quel che abbiamo e che per il
fatto stesso di averlo siamo destinati a
perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a
riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha
presente (come mi sembra che accada a
Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il «principio di non contraddizione» è la
semplice volontà che il mondo non sia
contraddittorio, allora - se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti - ci si può
certo disinteressare del proprio
contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose
appunto: «Sì, compagno, mi contraddico,
e allora?!». Raffinato e penetrante
come gli altri scritti di Alessandro
Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli
2010). Scrive Carrera che questo suo
saggio fa parte di un trilogia incominciata con
La consistenza del passato: Heidegger, Nietzsche, Severino 279
(Medusa 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche, «la radicale confutazione, da parte di
Severino, di ogni ipotesi heideggeriana,
nietzscheana o altrui, in base alla quale il
passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e
per i fini del presente» (p. 181). Sì,
la consistenza del passato è implicata
dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni
tempo, ma nel senso che il fluire del
tempo non porta via con sé, nel nulla, questa
luce, che invece è, eterna - e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è
destinata a ritornare. 280 17. Continuando un dialogo su tecnica e
diritto «Perché - mi domando, e domando
a Severino - la tecnica come capacità
indefinita di realizzare scopi (capacità velata di astratto e generico) sarebbe destinata a
soverchiare la tecnica della forza, che
è immanente al diritto e che accompagna ogni
norma con la protezione di atti coercitivi? Perché quella volontà di potenza è più potente di questa?»
È la domanda che Natalino Irti mi
rivolge anche nel suo libro più recente
L’uso giuridico della natura (Laterza 2013) che, egli ricorda, prolunga la pluridecennale discussione tra
noi due sul tema della tecnica. E la
prolunga in modo quanto mai felice,
innanzitutto per l’importanza di queste pagine. Dedicate a me «nella concordia discors del pensiero». Lo
ringrazio di cuore. Con altrettanta
generosità l’eminente giurista rileva di quanto
si sia ridotto il suo sentirsi «discorde». Rimane però quella domanda. Da lui rivoltami altre volte e a cui
altre volte ho risposto. Dev’esserci
quindi qualcosa che inceppa l’intesa, e
che provo a snidare. Accennerò poi alla direzione delle motivazioni che costituiscono l’organismo
della risposta (attendendo che Irti le
consideri). Il mio discorso sulla
tecnica non indica uno stato di cose già
in atto, ma una tendenza (non priva di resistenze): all’interno delle diverse forme di tecnica è
oggi in via di formazione il progetto
che ha lo scopo di aumentare senza
limiti la capacità umana di realizzare scopi, di dominare il mondo. Anche ma non solo per questo vado
scrivendo che la tecnica, in quanto è
tale progetto, è «destinata» a prevalere
sulle forme di tecnica che a esso si oppongono. (La «destinazione» si riferisce al futuro.)
Questa capacità è «velata di astratto e
di generico» (come scrive Irti), ma solo nel senso che oggi l’uomo non può conoscere
concretamente e specificamente le proprie
capacità future. La sua volontà vuol
281 diventare «sempre più»
potente. Soprattutto oggi, nel tempo in cui i Limiti filosofico-religiosi posti
dalla Tradizione all’agire umano vanno
mostrando, soprattutto all’interno del
pensiero filosofico, la loro impotenza pratica e concettuale. «Volontà di potenza» e «tecnica» sono
sinonimi; ma la Tecnica che progetta
Fincremento senza Limiti inviolabili
della propria potenza differisce essenzialmente da tutte le forme di tecnica in quanto sottoposte a quei
Limiti e che pertanto le si oppongono.
Differisce da esse, spingendole altrove,
ma agendo al loro interno. Si chiamano economia, politica, morale, diritto, arte, le stesse
discipline scientifiche (fisica, biologia,
astronomia ecc.) e le «tecniche» da esse
guidate (apparati industriali, militari, burocratici, sanitari, scolastici ecc.). Anche il capitalismo è
ancora, prevalentemente, una forma della
Tradizione: pone come Limiti inviolabili
(e pertanto come «verità» indiscutibili e
«naturali») l’uomo in quanto individuo isolato e libero, la proprietà privata di beni e mezzi di
produzione, il mercato come dimensione
che rende possibile il profitto e la sua
crescita, la concorrenza e, anche, il sistema di leggi che garantiscono la perpetuazione di questi
Limiti, il sistema cioè che nelle
società capitalistiche viene chiamato «diritto» tout court.
Invece, Irti è ancora convinto che, nel mio discorso, quella tra la Tecnica e le altre forme di volontà di
potenza sia la contrapposizione tra una
certa particolare forma di tecnica,
quella fisico-matematico-biologica, e le altre forme, tra cui il diritto (la volontà capace di regolare altre
volontà). E, appunto, si domanda perché
debba prevalere Luna piuttosto che
l’altra. Sennonché, dico destinata a prevalere non quella forma particolare (sebbene oggi emergente),
ma la Tecnica in quanto progetto di
incrementare all’infinito la potenza
presente nelle tecniche esistenti e che mira a porre tale 282
incremento come la norma suprema - la norma che è il più radicale superamento delle Norme e Limiti
imposti dalla Tradizione. Un progetto
dunque che non sta sopra la testa di
quelle forme («astratto e generico»), e non è nemmeno la loro semplice somma, ma tende a esser sempre più
presente e dominante in ognuna (e,
certo, in modo più avanzato, nella forma
fisico-matematico-biologica) e a distoglierle dalla loro soggezione ai Limiti inviolabili che via via
sono stati loro imposti. Nel diritto quei Limiti si incarnano nel
cosiddetto «diritto naturale». Che però
tende a essere sempre più emarginato
dalla convinzione che il diritto sia «positivo», posto storicamente dalle volontà vincenti; non,
quindi, espressione di una volontà che
rispecchia una immodificabile «Legge
Naturale». Nel mondo occidentale (ma ormai sull’intero Pianeta, sia pure in modi molto differenziati
e spuri) vincente è ancora, e nonostante
le sue crisi, la volontà capitalistica, ed
essa si impone come «la Legge», lasciando sullo sfondo, quasi dimenticato, quel carattere «positivo» della
legge che sta soppiantando la pretesa
del diritto capitalistico, di essere
«naturale». La «forza» e la capacità «coercitiva» sottolineate da Irti non competono cioè a una pura volontà
giuridica separata dalla volontà vincente, ma alla capacità
di quest’ultima di rendere operante la
forza e il carattere coercitivo della
volontà giuridica. (La contrapposizione tra
potere politico e potere giudiziario - o quella dove un gruppo economico è sottoposto al giudizio della
magistratura - si svolge completamente
all’interno dell’orizzonte giuridico che
tutela i valori dell’economia di mercato). La volontà che progetta l’incremento
indefinito della potenza non è quindi,
come invece Irti mi obbietta, «astratta
disponibilità, generica forza di raggiungere risultati», «indistinta e indefinita varietà degli
scopi», «nome con 283 funzione riassuntiva» - mentre il diritto
avrebbe il vantaggio di essere
«decisione» che impone certi scopi escludendone
altri (pp. 53-54). Le cose non stanno così. Le decisioni del diritto sono le decisioni
del capitale, o dell’economia
pianificata, cioè delle forme di volontà di volta in volta vincenti. Le volontà di potenza che
hanno come scopo la potenza di certuni e
non di altri, di certe concezioni del
mondo e non di altre, di certe forme di ricerca e non di altre, non possono avere come scopo la
crescita senza limiti ed esclusioni
della potenza, ma la ostacolano. (Il socialismo
reale ha ostacolato lo sviluppo tecnologico dell’Urss; il capitalismo evita la produzione dei beni che,
pur vantaggiosi per l’uomo o l’ambiente,
non avrebbero mercato, e alimenta forse
quella relativa scarsità delle merci senza la quale, cioè con la loro abbondanza e la caduta della
domanda, non avrebbe nulla da vendere. E
in ognuno di questi casi vengono
ostacolate forme di potenza, quali, appunto, la tecno-scienza, il benessere dell’uomo e dell’ambiente, il
superamento della scarsità.) Perché, dunque - riformulo così la domanda
di Irti - la Tecnica è destinata a
prevalere sulle forme particolari di essa
nella misura in cui la ostacolano e che le si oppongono sia per il loro chiudersi nella loro particolarità,
sia per Tesser ancora soggette ai Limiti
della Tradizione? E quindi: perché la
Tecnica è destinata a prevalere anche sul diritto in quanto le si oppone nel senso ora indicato (visto che,
nella misura in cui sono invece il
terreno in cui prende piede la Tecnica in
quanto progetto di potenziare alTinfinito potenza, la Tecnica non prevale su di esse, emarginandole, ma se
ne serve - o prevale nel senso che quel
progetto è lo scopo che regola i loro
scopi particolari)? Rispondo così. 1)
Oggi la tecnica (tecno-scienza e apparati)
284 si presenta ancora come un
mezzo, anzi come il mezzo più potente di
cui si servono le volontà di potenza dominanti e tra di loro in conflitto: stati, concezioni
politiche e religiose e, soprattutto la
volontà oggi più potente, il capitalismo. 2) Ma
nella tecnica si sta facendo largo, ravvivandola, la Tecnica in quanto progetto di incrementare ah’infinito
la potenza, oltre ogni Limite
«assoluto». 3) Il fondamento di questa negazione è l’essenza - il «sottosuolo» essenziale -
del pensiero filosofico del nostro
tempo. 4) Nel conflitto, ogni volontà può prevalere sulle altre solo se rafforza sempre di più il
mezzo tecnico di cui dispone. 5) Tale
rafforzamento è ulteriormente rafforzato
dal progressivo prender piede, nella tecnica, del progetto della Tecnica di aumentare all’infinito la potenza
- e tale progetto è a sua volta
rafforzato dalla volontà, quella capitalistica in testa, di potenziare il mezzo di cui essa
dispone. 6) Pertanto lo scopo delle
volontà dominanti si trasforma. Infatti,
riferendoci ora al capitalismo, esso - e quindi il diritto che lo esprime e sancisce - tende a non aver più
come scopo primario l’incremento del
profitto, ma la sintesi tra tale
incremento e il rafforzamento del mezzo: il rafforzamento che nella sintesi tende a occupare sempre più
spazio rispetto a queU’incremento. 7) In
tal modo la tecnica, da mezzo, tende a
diventare lo scopo di quelle volontà - che quindi si trasformano e la cui configurazione
originaria tramonta. La tecnica tende
dunque a diventare lo scopo del capitalismo e
del diritto capitalistico. E in questa tendenza consiste la destinazione della tecnica al suo prevalere
su di essi e al dominio del mondo. 8) A
questo punto si tratterebbe di
richiamare il senso autentico di tale «destinazione» (cfr. ad es. E.S., La tendenza fondamentale del nostro
tempo, Adelphi 1988, o Capitalismo senza
futuro, Rizzoli 2012). Ma, dicevo
all’inizio, questo è solo un cenno alla direzione della risposta. 285
18. Discutendo con amici 1 Pieno
di debiti nei Loro confronti, non mi è concesso
nemmeno di esordire in modo originale. Perché anch’io, come tutti coloro che mi hanno preceduto,
debbo incominciare con i ringraziamenti.
Soprattutto io devo farlo - e, certo, mi
è caro farlo. Mi rivolgo innanzitutto
al dipartimento di Filosofia, all’università
di Venezia e a chi ha preso questa iniziativa: i professori Mario Ruggenini e Davide Spanio; e
poi c’è l’appoggio finanziario dato a
questa iniziativa dal professor Luigi
Ruggiu in qualità di presidente del progetto Prin. Mi ha fatto piacere anche quella sorta di
preconvegno, organizzato dal professor
Luigi Tarca, costituito da una serie di seminari dedicati ai miei scritti. Il professor Ruggiu ha anche opportunamente
sottolinea-to il senso centrale di
quanto è venuto fuori questa mattina, e
cioè l’implicazione tra quello che a qualcuno del pubblico può essere sembrato un discorso.... «algebrico»,
«astratto», «filosofico» (nel senso del
formalismo filosofico), e le
implicazioni che invece tale discorso ha con la dimensione politica. Qui davanti ho appunto l’amico
professor Pietro Barcellona e l’amico
Natalino Irti, nei cui interventi questa
dimensione è emersa in modo più visibile. Mi è capitato altre volte di essere oggetto
di incontri come questo, e mi sono
sempre sentito inferiore a coloro che li organizzavano e vi partecipavano. Vivo
la qualità etica di chi festeggia come
decisamente superiore alla mia condizione di
festeggiato. E questo rende particolarmente ammirevoli i festeggianti. D’altra parte considero questo
nostro incontro come manifestazione
dell’amore per la filosofia. Perché è
chiaro che, attraverso quanto si è detto intorno al mio discorso filosofico, emerge soprattutto
l’interesse profondo 286 per la filosofia da parte di coloro che di
questa università costituiscono un
vanto. Il dipartimento di filosofia
dell’università di Venezia anche oggi spicca nel panorama culturale italiano, dato che (mi pare di aver
dichiarato da qualche parte) anche per
merito del dipartimento di filosofia di
Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare alla filosofia straniera. L’Italia ha oggi pensatori di
altissimo livello. Anche per questo il
fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è
data dalla presenza di pensatori che,
venendo da altre università, contribuiscono
ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo
però un abbraccio al professor Spanio,
in particolare, per l’amicizia con la quale
si è impegnato per la realizzazione di questo
nostro convegno, e in modo a mio avviso splendido: abbiamo sentito voci quanto mai rilevanti e
variegate. Come quelle ben note, oltre a
quelle dei professori Barcellona e Irti, dei
professori Vitiello, Messinese, Berti, Visentin, Perissinotto e di tutti quelli che hanno parlato. Scusino se
non li nomino tutti. Mi ricordo che
qualche giorno fa mi hanno fatto
un’intervista dove o si elencavano i partecipanti a questo convegno, e allora andava via tutto lo spazio
per l’intervista, oppure bisognava
rassegnarsi a non nominare nessuno,
fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che è stato ricordato dal professor Perissinotto, al quale rinnovo
anche per questo i miei ringraziamenti
in quanto egli è direttore del
dipartimento di filosofia.
Vorrei riprendere almeno uno spunto tra quelli che mi sono stati suggeriti; quello relativo
all’implicazione indicata dal professor
Ruggiu, alla quale ho già accennato. E vorrei
rivolgermi soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo
incominciato a dire - di una discrasia
tra il tecnicismo filosofico e i problemi pratico- 287
politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere.
Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e
dell’uomo, e cioè con una struttura
sociale nella quale esistono forze politiche,
economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente
sviluppandosi -, ecco che noi si viva
nel mondo è la grande fede alla quale
nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a
credere che ad esempio ci troviamo a Ca’
Dolfin e che stiamo parlando di
filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc.
Ecco, questa fede (come ogni fede) è un
attribuire un valore di verità (usiamo
così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui,
però, noi non sappiamo rinunciare; non
sappiamo saltare al di fuori della
nostra fede. Allora, una parte
degli interventi - che qui ho sentito con
estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico
- si riferisce al contenuto di questa
fede, al centro del quale sta la nostra
civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente
coerente. Coloro che vedono la storia
del mondo come un susseguirsi di frammenti
caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie
fasi dello sviluppo. Allora, una prima
parte degli interventi è consistita (penso
soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il
calcolo, presente nei miei scritti,
della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che
spingono dalla forma iniziale della
civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è 288
quella della civiltà della tecnica.
Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato,
ripetere così insistentemente
l’affermazione dell’eternità dell’essente e,
dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia
simpatia per le forme più radicali della
coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’ immodesto - ma
visto che siamo in un clima in cui la
mia modestia è stata messa duramente alla
prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più
immodesto. Allora posso dire che un lato
del discorso filosofico del sottoscritto
(ma è anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo
di cui parlavamo prima) ha dato una mano
a ciò che ho chiamato coerentizzazione
della storia dell’Occidente. Che, come è
venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per
accertare le capacità distruttive di un
virus ne favoriscono lo sviluppo
massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico -
qualcuno di loro prima richiamava i miei
scritti su Eschilo, su Leopardi, su
Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia
grande indipendentemente dalla grandezza
della negazione della verità. La verità
non è qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è
tale (è un po’ il tema di cui parlava
l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare 289
forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue
ultime conseguenze (consistenti nella
dominazione definitivamente vittoriosa
della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora
la stessa energia negativa della verità
risulta astratta. Da questo punto di vista
potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello,
Visentin (chiedo scusa se in questo
momento non mi ricordo altri nomi, ma ci
sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato di
quanto abbiamo sentito in queste due
giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi
l’immodestia - credo di aver dato una
mano. Qualche amico mi dice: guarda che
il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel
cosiddetto «mio Nietzsche» sia in grado
di eliminare la forza teoretica della
grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col
Nietzsche quale appare nei miei scritti,
allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia
interpretazione, oltre che di Nietzsche,
di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero
qualcosa di diverso (ma non lo credo)
peggio per loro: il loro discorso non
riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a
mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre 290
questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho
dato (e che finora non mi sembra che
debba cedere il passo a un’altra). E qui
siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli eterni a cui si
rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al
secondo dei due lati del mio discorso
filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che
esso sia. È probabile che una parte di
Loro dirà: questo è il mondo, quello in
cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che
sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la
fede, in quanto tale, non giustifica
l’affermazione dell’esistenza del proprio
contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo.
Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato
dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con
verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del
mondo isolato dalla verità. Discuto questo
tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di
valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben
di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo
il secondo lato del mio discorso
filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo
secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due
291 cerchi concentrici. Il
cerchio inscritto è la nostra fede nel
mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè
alla non-fede, a quell’essere nella
verità a cui accennavo prima, è stata
dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor
Visentin. Mi rendo conto che rispetto
alle accurate articolazioni concettuali
che abbiamo sentito, queste mie considerazioni
sono molto generiche. Qualche
osservazione, quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere
problematico come quelle, mi sembra, del
professor Vitiello: mostrano delle
difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per considerare il modo
corretto di impostare l’obbiezione a ciò
che chiamo «struttura originaria del
destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo
scientifico si produce quando si vuole
assiomatizzare un certo tipo di
discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta «aritmetizzazione» della matematica, l’intera
complessità del sapere matematico è
ricondotta all’aritmetica. È
un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che
partendo da un certo gruppo di postulati,
o di ipotesi - che vengono assunti senza
giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i
postulati dell’aritmetica -, non si può
escludere che lo sviluppo di tali
postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il
contenuto semantico dei propri postulati,
venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle
obbiezioni alla «struttura originaria
del destino», allora ci si muove impropriamente, 292
perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si rivolge appunto a quella «struttura») intende
appunto escludere una situazione
concettuale in cui si parta da
postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti semplicemente
in base alla loro congruenza, ossia al
loro non presentarsi come immediatamente
tra loro contraddittori, è possibile che si
deducano conclusioni o teoremi in sé stessi contraddittori. Sennonché, in relazione alla struttura
originaria del sapere, cioè del destino
della verità, è impossibile che si pervenga a
mostrarne la contraddittorietà. Qui la situazione è del tutto diversa da quella «gòdeliana», perché il
fondamento è l’ incontrovertibile e
partendo dall’incontrovertibile è
impossibile dedurre qualcosa che sia una negazione di tale fondamento. Non ci si può appoggiare a questa
base in modo da sviluppare conseguenze
che ne siano la negazione. E allora
l’obbiezione alla struttura originaria del destino deve partire dalla negazione di uno o più tratti di tale
struttura, cioè dal chiedersi perché una
certa dimensione concettuale ha l’ardire
di proclamarsi come originaria e incontrovertibile. Altrimenti partire da mezza strada e mostrare le aporie
che scaturiscono da questa base è un mostrare
solo ipoteticamente (mi pare che con
l’amico Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di questa base.
Come giustificazione di quanto ho appena detto, chiedo: chi obbietta contro la struttura originaria
della verità (mi rivolgo dunque non solo
a Vitiello, ma anche a prospettive come
quelle di Tarca sulla «differenza») intende dire la stessa cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso
che tutti noi si risponda di no:
altrimenti la sua non sarebbe un ob-iezione
(«ob» vuol dire «contro»). Anche quando si proclama assolutamente problematica e ipotetica,
l’obbiezione assume come indiscutibile -
incontrovertibile! - la differenza tra
293 quello che essa dice e ciò
contro cui essa dice. Alla base di ogni
obbiettare - ma ora interessa riferirsi alla struttura originaria - c’è la differenza dei
differenti, cioè il riconoscimento che i
differenti sono differenti - quella
differenza che è appunto il contenuto primario della struttura originaria. Quindi l’obbiettare contro la
struttura originaria è un incominciare a
essere d’accordo con la struttura originaria
(e pertanto l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si
dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi
auguro che prosegua - chiarendo questo
punto. Ma ora è tempo che io
ringrazi nuovamente tutti Loro, con
ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro
hanno avuto nei miei riguardi.
Grazie! Debbo tener presente, oltre
alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua
relazione), che hanno parlato dopo il
mio primo intervento. Era solo per
ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo
insieme, con Berti, e parlavamo della
sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione», rispetto all’affermazione
di Aristotele, che il semantema (il
significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato
equivoco. L’osservazione che facevo
all’amico Berti era questa: il tuo
avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di
significato della parola «essere». Anche
se l’obiezione può sembrare formale (mi pare
che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione
formale), però non 294 possiamo prendere sottogamba la
circostanza che le differenze (il
lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze.
(Tra parentesi: perché le obbiezioni
formali devono essere respinte?) È
questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele: che ci sia
qualche cosa di identico nelle
differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere,
non è il risultato di una argomentazione,
ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si
parlava della mia distinzione tra essere e apparire. «Apparire» è appunto la parola italiana con la quale
traduciamo phàinesthai. A questo senso
dell’analogia non si sfugge, perché
altrimenti (negando cioè l’identità dell’esser differenze delle differenze) il senso dell’«essere»
diventa equivoco: non si sfugge a
quell’elemento identico che c’è nel pelo della barba e, se c’è, in Dio. Qualcosa di identico. Invitavo a tener presente l’inizio del libro
IV della Metafisica, dove quando
Aristotele parla dell’essente in quanto
essente (on hei on) dice che essente in quanto essente è qualsiasi determinazione, sia sostanza, sia
accidente, e poi arriva persino a dire
che anche il non-essere è un essente.
Ecco, se noi dovessimo ancora - ma me lo auguro - continuare a discutere, penso che il rischio
che corri tu, Berti, è quello di
arrivare all’equivocità, per cui c’è una molteplicità di differenze del significato essere, che
vorrebbero ma non riescono a essere pure
differenze, nient’altro che differenze,
appunto perché sono anche identiche nell’ esser differenze. Poi mi ha molto interessato quello che ha
detto il caro Giorgio Brianese. Molto
intelligente. E anche con te spero che
si continui a parlare di questo. Loro ricorderanno che Brianese accennava alla vicinanza tra il
discorso di Spinoza e 295 quello del sottoscritto. Ma vogliamo
prescindere dal il concetto di causa
(ben presente in Spinoza)? Adottando il
concetto di causa sui - neWEtica Spinoza esordisce pressappoco con questa espressione «causa
sui» - egli mostra di intendere le cose
come effetto di un’azione che nel caso del
Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le cose non hanno bisogno di causa. Quando ci si chiede la
causa delle cose, è perché le si considera
appunto come enti che possono esser
nulla. Allora si tratterebbe di controllare questa espressione spinoziana. E poi anche il concetto di
conatus essendi. Anche qui: le cose non
hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è
interessante che qualche volta Spinoza torni a riveder le stelle o vada a riveder le stelle, però la semplice
tesi filosofica non è la fondazione di
essa. Perché allora - hai citato mi pare
qualche poeta - a me vengono in mente quelle bellissime pagine di Borges sull’eternità.
Straordinarie. Viene fuori la tesi che
tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la
fondazione a dare significato alla tesi.
Si tratterebbe dunque di vedere se in
Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A
proposito del mio più volte citato
Ritornare a Parmenide, io ho continuato a dire
che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che
Parmenide è il primo nichilista (immenso
anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo intendere
l’essere monachos, che anche se oggi,
come ha ricordato il professor Ruggiu,
si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però
bisognerebbe inventarlo quel Parmenide
tradizionale che la storiografia
contemporanea toghe di mezzo per dire che no, che egli 296
prende positivamente in considerazione la dóxa, che non si limita a qualificarla come illusione,
non-verità ecc. Bisognerebbe inventario
quell’altro Parmenide che oggi viene
emarginato, ma che è il Parmenide che sta dinanzi agli occhi di Platone, di Aristotele, di Hegel (ma direi
anche di Heidegger). Non si capisce come
mai questi pensatori - grandi pensatori
(chi più di loro?) - abbiano reagito rispetto a
Parmenide nel modo in cui hanno reagito se Parmenide fosse quello oggi configurato dalla riflessione
storico-filologica. Mi fermo qui. *
Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare
solo ciò che è fondato sulla
discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è
«incoerente» la pretesa di fondare
l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in
base a sé stesso. Ma, osserviamo, il
rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione
razionale, e quindi, stando a Popper,
anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che
l’atteggiamento razionale è fondato su una
«fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia
non è una verità incontrovertibile.
* - Due interventi alla tavola
rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino
dell’essere. Dialogo con (e intorno al
pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli Studi di
Venezia. 297 Sezione terza Postille alla sezione prima 298
Al capitolo I 1. La bellezza e
il male Gli uomini chiamano «male»
tutto ciò che essi non vogliono -
innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i
battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo
Yimmagine della vita. L’immagine si
libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più
antica delle immagini è la festa.
Nell’antica lingua greca la festa è
chiamata theorìa, che significa «contemplazione», «immagine», appunto. Nella festa sono fuse
insieme le forze che poi, separandosi,
si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,
«tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico
rimedio festivo. Anche nelle arti
figurative, dunque. Ma l’immagine
festiva e salvifica non può dimenticarsi del
male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della
scultura greca, delle «Madonne col
Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e
profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che
sembrano le uniche protagoniste della
scultura e del dipinto. Non ne vedremmo
la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella
forma sembra dominare occupando l’intero
spazio dell’immagine pittorica, c’è
sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua
assenza. Non «vedere» questo Assente è
non vedere la bellezza del bene. Una
mostra della rappresentazione visiva del male
dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva,
dunque, fare diversamente - una
selezione relativamente al modo in cui il
299 male si rende visibile
nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute
eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più
inquietante perché è lasciato
dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità
dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale
rispetto a quella suscitata dalla parte
visibile dell’opera figurativa. Se non vado
errato. Credo che in quella
mostra non fosse presente alcuna
«Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da
una perentoria assenza del sorriso - lo
sguardo mostra di aver dinanzi ciò che
per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e
tuttavia ben presenti a coloro a cui il
dipinto si rivolgeva. La mostra di
Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il
criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato
secondo la selezione di cui dicevo.
Lasciando da parte la questione di come
è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo
storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era
dal Beato Angelico ai grandi pittori del
Novecento: dal tempo in cui il
cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia.
Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione
mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La
serietà delle Madonne e le Deposizioni
nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che
si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il
tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano.
Colori, figure, prospettive hanno come
scopo la celebrazione della salvezza
cristiana dal male. Ma un poco
alla volta si fa innanzi un atteggiamento
nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta,
non dipinge più per celebrare Cristo, ma
celebra Cristo per dipingere, per
celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel
progressivo rovesciamento dove il mezzo,
cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del
rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana,
diventa mezzo, pretesto. In questo
processo, rimane pur sempre incombente il male
- di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo
dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto,
va perdendo la propria potenza ed
efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate
sempre più dalla potenza della forma
pittorica e sempre meno dal contenuto
cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il
dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando
anche la pittura del nostro tempo
eredita il distacco dal divino - prodotto
soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano
nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La
quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle
spalle di quel Racconto. Il dipinto,
ormai, mostra il difforme, il male, il
dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male
è mostrato 301 dall’immagine. La forma è tolta via dal
contenuto dell’opera d’arte figurativa
(e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come
contenuto la dissoluzione della forma,
il difforme, giacché la forma che prima
apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del
mondo, evocato dalla tradizione
filosofica e religiosa dell’Occidente, che è
inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal
divino, non può più avere la potenza del
divino. Diventa un rimedio caduco,
sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore artistico» - altre forme della
rappresentazione visiva, come la
fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso
l’immagine, a un male che si presenta in
carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi
da esso. 302 2. Arte e tecnica Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme
di tecnica - e nel Medioevo le stesse
arti figurative non venivano considerate
arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti
meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche,
tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla
scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche
modo la musica) richiedono tecniche
guidate dalla matematica, dalla geometria
e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il
rovesciamento di mezzo e fine ha già
preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica
produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di
una realtà nuova. Con la tecnica del
nostro tempo l’immagine festiva si
solleva al di sopra del proprio carattere di imma organizzavano e vi
partecipavano. Vivo la qualità etica di chi
festeggia come decisamente superiore alla mia condizione di festeggiato. E questo rende particolarmente
ammirevoli i festeggianti. D’altra parte
considero questo nostro incontro come
manifestazione dell’amore per la filosofia. Perché è chiaro che, attraverso quanto si è detto
intorno al mio discorso filosofico,
emerge soprattutto l’interesse profondo
286 per la filosofia da parte
di coloro che di questa università
costituiscono un vanto. Il dipartimento di filosofia dell’università di Venezia anche oggi spicca
nel panorama culturale italiano, dato
che (mi pare di aver dichiarato da qualche
parte) anche per merito del dipartimento di filosofia di Venezia oggi l’Italia ha poco da invidiare
alla filosofia straniera. L’Italia ha
oggi pensatori di altissimo livello. Anche
per questo il fatto di trovarmi qui festeggiato da una parte di loro mi riempie di gioia. La stessa che mi è
data dalla presenza di pensatori che,
venendo da altre università, contribuiscono
ad alimentare la ricchezza filosofica del nostro Paese. Penso di non avere dimenticato nulla. Devo
però un abbraccio al professor Spanio,
in particolare, per l’amicizia con la
quale si è impegnato per la realizzazione di questo nostro convegno, e in modo a mio avviso
splendido: abbiamo sentito voci quanto
mai rilevanti e variegate. Come quelle ben
note, oltre a quelle dei professori Barcellona e Irti, dei professori Vitiello, Messinese, Berti,
Visentin, Perissinotto e di tutti quelli
che hanno parlato. Scusino se non li nomino
tutti. Mi ricordo che qualche giorno fa mi hanno fatto un’intervista dove o si elencavano i
partecipanti a questo convegno, e allora
andava via tutto lo spazio per l’intervista,
oppure bisognava rassegnarsi a non nominare nessuno, fuorché Italo Valent, che ci è mancato e che
è stato ricordato dal professor
Perissinotto, al quale rinnovo anche per questo i miei ringraziamenti in quanto egli è
direttore del dipartimento di
filosofia. Vorrei riprendere almeno uno
spunto tra quelli che mi sono stati
suggeriti; quello relativo all’implicazione indicata dal professor Ruggiu, alla quale ho già
accennato. E vorrei rivolgermi
soprattutto ai non addetti ai lavori, perché si può avere avuto l’impressione - avevo
incominciato a dire - di una discrasia tra
il tecnicismo filosofico e i problemi pratico- 287
politici. Come eliminare questa impressione? Tento di rispondere.
Che noi si viva nel mondo, e che il mondo sia fatto così come crediamo - mondo della natura e
dell’uomo, e cioè con una struttura
sociale nella quale esistono forze politiche,
economiche, religiose, e industrie, fabbriche, Europa, Russia, America e via dicendo, che vanno storicamente
sviluppandosi -, ecco che noi si viva
nel mondo è la grande fede alla quale
nessuno di noi vuole rinunciare. Noi ci troviamo ad avere questa fede. E non possiamo rinunciare a
credere che ad esempio ci troviamo a Ca’
Dolfin e che stiamo parlando di
filosofia, e che Ca’ Dolfin è a Venezia, e Venezia è in Italia, alfinterno di un sistema internazionale ecc.
Ecco, questa fede (come ogni fede) è un
attribuire un valore di verità (usiamo
così «alla buona» la parola verità) a ciò che in quanto contenuto di fede non ha verità. E a cui,
però, noi non sappiamo rinunciare; non
sappiamo saltare al di fuori della
nostra fede. Allora, una parte
degli interventi - che qui ho sentito con
estremo piacere e dai quali ho imparato moltissimo e che terrò presenti anche nel loro aspetto critico
- si riferisce al contenuto di questa
fede, al centro del quale sta la nostra
civiltà occidentale, la quale, nell’interpretazione, ha uno sviluppo e un suo farsi progressivamente
coerente. Coloro che vedono la storia
del mondo come un susseguirsi di frammenti
caoticamente giustapposti non vedono invece l’unitarietà dello sviluppo, l’implicazione tra le varie
fasi dello sviluppo. Allora, una prima
parte degli interventi è consistita (penso
soprattutto a quello di Barcellona e di Irti, ma poi anche a quello di Goggi) nel mettere in luce il
calcolo, presente nei miei scritti,
della coerentizzazione delVOccidente. L’intento qui è di stabilire quali siano i motivi che
spingono dalla forma iniziale della
civiltà occidentale fino alla forma attuale, che è 288
quella della civiltà della tecnica.
Vorrei evitare che qualcuno dei non addetti ai lavori non si fosse raccapezzato sentendo, da un lato,
ripetere così insistentemente
l’affermazione dell’eternità dell’essente e,
dall’altro lato (anche ieri il professor Spanio accennava a questa tematica), ad aver sentito la mia
simpatia per le forme più radicali della
coerentizzazione della storia dell’Occidente.
Per quanto riguarda questo secondo tema, chiederei il permesso di essere un po’ immodesto - ma
visto che siamo in un clima in cui la
mia modestia è stata messa duramente alla
prova, mi rendo conto di chiedere di incrementare questa prova, mostrandomi quindi ancora un po’ più
immodesto. Allora posso dire che un lato
del discorso filosofico del sottoscritto
(ma è anche questa una fede: che io abbia scritto dei libri fa parte di quella fede nel mondo
di cui parlavamo prima) ha dato una mano
a ciò che ho chiamato coerentizzazione
della storia dell’Occidente. Che, come è
venuto in chiaro da parte degli amici che hanno parlato, è la coerentizzazione della Follia estrema. Nei laboratori ci sono scienziati che per
accertare le capacità distruttive di un
virus ne favoriscono lo sviluppo
massimo, fino a che il virus mostra tutte le sue potenzialità. Una parte del mio discorso filosofico -
qualcuno di loro prima richiamava i miei
scritti su Eschilo, su Leopardi, su
Gentile - tratta di quelli che sono i grandi nemici della verità. Ma la verità non è un qualche cosa che sia
grande indipendentemente dalla grandezza
della negazione della verità. La verità
non è qualcosa di grande indipendentemente
dalla grandezza dell’errore. Senza la grandezza dell’errore non c’è grandezza della verità. Se la verità è
tale (è un po’ il tema di cui parlava
l’amico Vitiello questa mattina) in quanto è
negazione dell’errore, allora è la verità stessa a guadagnare 289
forza dalla concretezza dell’errare. E se la storia dell’Occidente non è portata fino alle sue
ultime conseguenze (consistenti nella
dominazione definitivamente vittoriosa
della civiltà della tecnica), se ci si ferma a metà strada rispetto a questo processo di coerentizzazione, allora
la stessa energia negativa della verità
risulta astratta. Da questo punto di vista
potrei dire che tutte le osservazioni critiche che mi sono state rivolte così amabilmente da Berti, Vitiello,
Visentin (chiedo scusa se in questo
momento non mi ricordo altri nomi, ma ci
sono), queste osservazioni critiche sono contributi alla verità. Nel senso, appunto - mi ripeto -, che la
negazione dell’errore esige la
concretezza dell’errore. Un primo lato
di quanto abbiamo sentito in queste due
giornate riguarda quello che sto chiamando coerentizzazione dell’errore, alla quale - ecco ripresentarsi
l’immodestia - credo di aver dato una
mano. Qualche amico mi dice: guarda che
il tuo Nietzsche (adesso l’immodestia cresce ancora) è una tua invenzione. Ma siccome penso che quel
cosiddetto «mio Nietzsche» sia in grado
di eliminare la forza teoretica della
grande tradizione dell’Occidente, se il Nietzsche storico non fosse stato o non fosse congruente col
Nietzsche quale appare nei miei scritti,
allora sarebbe il Nietzsche che appare nei miei
scritti ad avere quella capacità di eliminare la tradizione dell’Occidente. Se fosse falsa la mia
interpretazione, oltre che di Nietzsche,
di Leopardi e di Gentile, be’ amen; vorrebbe dire che non son stati loro a essere vincenti
rispetto al passato dell’Occidente, ma
sono quel Leopardi, quel Nietzsche, quel
Gentile che emergono nell’interpretazione che il sottoscritto ne ha dato. Si dovrebbe dire che se fossero
qualcosa di diverso (ma non lo credo)
peggio per loro: il loro discorso non
riuscirebbe ad aver partita vinta sulla tradizione dell’Occidente, cioè non riuscirebbe a
mostrare l’impossibilità degli eterni e
dei divini che tale tradizione ha evocato, mentre 290
questa capacità l’hanno il Leopardi, il Nietzsche, il Gentile che si manifestano nell’interpretazione che ne ho
dato (e che finora non mi sembra che
debba cedere il passo a un’altra). E qui
siamo al centro della nostra riflessione, perché gli eterni dell’Occidente non sono gli eterni a cui si
rivolgono i miei scritti. Siamo cioè al
secondo dei due lati del mio discorso
filosofico. Dicevo all’inizio: noi tutti abbiamo fede nell’essere al mondo, nel mondo così come crediamo che
esso sia. È probabile che una parte di
Loro dirà: questo è il mondo, quello in
cui crediamo noi è il mondo vero; e quelle che
sentiamo dai filosofi sono favole, fantasie. Ma a chi si ferma alla e nella fede nel mondo, va detto che la
fede, in quanto tale, non giustifica
l’affermazione dell’esistenza del proprio
contenuto. Se lo facesse non sarebbe più fede. Se chi ha fede lo capisce, allora la sua fede tende a
coincidere con lo scetticismo ingenuo.
Egli pensa: non c’è altro che questo
mondo in cui credo e da cui non mi so staccare, ma di cui non so dare ragione. E invece il mondo della fede è circondato
dalla non-fede, cioè dalla verità. E
solo per questo può esser qualificato (con
verità) come mondo della fede. La fede non sa di esser fede. È nella verità che, in modo incontrovertibile,
appare l’esistenza della fede, ossia del
mondo isolato dalla verità. Discuto questo
tema anche con gli amici cattolici (tanto interessante, la proposta del professor Messinese, di
valorizzare la prima fase, la chiamava
così, del mio lavoro filosofico). Ma l’uomo non è semplicemente e innanzitutto una fede (sia
pure altissima), ma è innanzitutto ben
di più, ossia è la manifestazione della
verità. Ci stiamo movendo lungo
il secondo lato del mio discorso
filosofico. Gli interventi dei professori Vitiello, Visentin, Berti, e altri, riguardavano appunto questo
secondo lato. Con un’altra metafora
geometrica, i due lati corrispondono a due
291 cerchi concentrici. Il
cerchio inscritto è la nostra fede nel
mondo. E a questo cerchio è stata dedicata una parte del convegno. Al cerchio circoscrivente, cioè
alla non-fede, a quell’essere nella
verità a cui accennavo prima, è stata
dedicata l’altra parte. E abbiamo incominciato con quest’altra parte, con la relazione del professor
Visentin. Mi rendo conto che rispetto
alle accurate articolazioni concettuali
che abbiamo sentito, queste mie considerazioni
sono molto generiche. Qualche
osservazione, quindi, va fatta a proposito delle obbiezioni. Possono avere un carattere
problematico come quelle, mi sembra, del
professor Vitiello: mostrano delle
difficoltà, presenti nelle mie tesi, senza pretendere di essere, esse, inconfutabili. Per considerare il modo
corretto di impostare l’obbiezione a ciò
che chiamo «struttura originaria del
destino della verità», direi che rispetto a questa struttura la situazione è diversa da quella che in campo
scientifico si produce quando si vuole
assiomatizzare un certo tipo di
discorso, per esempio quello matematico. Nella cosiddetta «aritmetizzazione» della matematica, l’intera
complessità del sapere matematico è
ricondotta all’aritmetica. È
un’operazione problematica, perché esiste quell’impresa straordinaria di Godei, dove si mostra che
partendo da un certo gruppo di
postulati, o di ipotesi - che vengono assunti
senza giustificazione, e che quindi non hanno un fondamento incontrovertibile, come appunto accade per i
postulati dell’aritmetica -, non si può
escludere che lo sviluppo di tali
postulati conduca a una contraddizione. Cioè non si può escludere che la matematica, approfondendo il
contenuto semantico dei propri
postulati, venga ad accorgersi della
contraddittorietà dei propri contenuti. Ecco, se si imposta in questo modo il discorso intorno alle
obbiezioni alla «struttura originaria
del destino», allora ci si muove impropriamente, 292
perché la mia più volte citata Struttura originaria (che si rivolge appunto a quella «struttura») intende
appunto escludere una situazione
concettuale in cui si parta da
postulati, che sono ipotetici, probabili, problematici ecc... È chiaro che partendo da postulati assunti
semplicemente in base alla loro
congruenza, ossia al loro non presentarsi come
immediatamente tra loro contraddittori, è possibile che si deducano conclusioni o teoremi in sé stessi
contraddittori. Sennonché, in relazione
alla struttura originaria del sapere,
cioè del destino della verità, è impossibile che si pervenga a mostrarne la contraddittorietà. Qui la
situazione è del tutto diversa da quella
«gòdeliana», perché il fondamento è l’
incontrovertibile e partendo dall’incontrovertibile è impossibile dedurre qualcosa che sia una
negazione di tale fondamento. Non ci si
può appoggiare a questa base in modo da
sviluppare conseguenze che ne siano la negazione. E allora l’obbiezione alla struttura originaria del
destino deve partire dalla negazione di
uno o più tratti di tale struttura, cioè dal
chiedersi perché una certa dimensione concettuale ha l’ardire di proclamarsi come originaria e
incontrovertibile. Altrimenti partire da
mezza strada e mostrare le aporie che scaturiscono da questa base è un mostrare solo
ipoteticamente (mi pare che con l’amico
Vitiello fossimo d’accordo) l’insufficienza di
questa base. Come giustificazione
di quanto ho appena detto, chiedo: chi
obbietta contro la struttura originaria della verità (mi rivolgo dunque non solo a Vitiello, ma anche
a prospettive come quelle di Tarca sulla
«differenza») intende dire la stessa
cosa di ciò contro cui egli obietta? Penso che tutti noi si risponda di no: altrimenti la sua non sarebbe
un ob-iezione («ob» vuol dire «contro»).
Anche quando si proclama assolutamente
problematica e ipotetica, l’obbiezione assume
come indiscutibile - incontrovertibile! - la differenza tra 293
quello che essa dice e ciò contro cui essa dice. Alla base di ogni obbiettare - ma ora interessa riferirsi
alla struttura originaria - c’è la
differenza dei differenti, cioè il
riconoscimento che i differenti sono differenti - quella differenza che è appunto il contenuto
primario della struttura originaria.
Quindi l’obbiettare contro la struttura originaria è un incominciare a essere d’accordo con la
struttura originaria (e pertanto
l’obbiezione si rivolge contro sé stessa). Quindi, se la discussione dovesse proseguire, si
dovrebbe proseguire - penso, o almeno mi
auguro che prosegua - chiarendo questo
punto. Ma ora è tempo che io
ringrazi nuovamente tutti Loro, con
ammirazione per il livello intellettuale degli interventi e direi quasi con invidia per la generosità che Loro
hanno avuto nei miei riguardi.
Grazie! Debbo tener presente, oltre
alle considerazioni estremamente
interessanti di Enrico Berti, quelle di Brianese, e del professor Pagani ieri (ottima la sua
relazione), che hanno parlato dopo il
mio primo intervento. Era solo per
ricordare come sia rimasto interessato di questi tre interventi. A mezzogiorno, anzi, all’una, eravamo
insieme, con Berti, e parlavamo della
sua evoluzione verso la filosofia analitica. Gli chiedevo che differenza può produrre, tale
evoluzione», rispetto all’affermazione
di Aristotele, che il semantema (il
significato) «essere» non solo non è detto monachos, ossia univocamente, ma non è nemmeno un significato
equivoco. L’osservazione che facevo
all’amico Berti era questa: il tuo
avvicinamento alla filosofìa analitica è una ulteriore sottolineatura delle differenze di
significato della parola «essere». Anche
se l’obiezione può sembrare formale (mi pare
che la reazione dell’amico Vincenzo Vitiello volesse dire questo, cioè che facevo un’obiezione
formale), però non 294 possiamo prendere sottogamba la
circostanza che le differenze (il
lampadario, Ca’ Dolfin, il tavolo, io, le galassie ecc.) hanno di identico Tesser differenze.
(Tra parentesi: perché le obbiezioni
formali devono essere respinte?) È
questa Yanalogia, alla quale ho sempre pensato parlando dell’on hei on di Aristotele: che ci sia
qualche cosa di identico nelle
differenze, che d’altra parte sono originariamente manifeste (ossia non c’è bisogno di dedurle).
L’analogia dei molti sensi dell’essere,
non è il risultato di una
argomentazione, ma è il contenuto del phàinesthai. Ieri si parlava della mia distinzione tra essere e
apparire. «Apparire» è appunto la parola
italiana con la quale traduciamo phàinesthai. A questo senso dell’analogia non
si sfugge, perché altrimenti (negando
cioè l’identità dell’esser differenze
delle differenze) il senso dell’«essere» diventa equivoco: non si sfugge a quell’elemento identico che c’è nel
pelo della barba e, se c’è, in Dio.
Qualcosa di identico. Invitavo a tener
presente l’inizio del libro IV della
Metafisica, dove quando Aristotele parla dell’essente in quanto essente (on hei on) dice che essente
in quanto essente è qualsiasi
determinazione, sia sostanza, sia accidente, e poi arriva persino a dire che anche il non-essere
è un essente. Ecco, se noi dovessimo
ancora - ma me lo auguro - continuare a
discutere, penso che il rischio che corri tu, Berti, è quello di arrivare all’equivocità, per cui
c’è una molteplicità di differenze del
significato essere, che vorrebbero ma non
riescono a essere pure differenze, nient’altro che differenze, appunto perché sono anche identiche nell’
esser differenze. Poi mi ha molto
interessato quello che ha detto il caro
Giorgio Brianese. Molto intelligente. E anche con te spero che si continui a parlare di questo. Loro
ricorderanno che Brianese accennava alla
vicinanza tra il discorso di Spinoza e
295 quello del sottoscritto.
Ma vogliamo prescindere dal il concetto
di causa (ben presente in Spinoza)? Adottando il concetto di causa sui - neWEtica Spinoza
esordisce pressappoco con questa
espressione «causa sui» - egli mostra di
intendere le cose come effetto di un’azione che nel caso del Dio è un’azione del Dio su sé stesso. Ma le
cose non hanno bisogno di causa. Quando
ci si chiede la causa delle cose, è
perché le si considera appunto come enti che possono esser nulla. Allora si tratterebbe di controllare
questa espressione spinoziana. E poi
anche il concetto di conatus essendi. Anche
qui: le cose non hanno bisogno di essere un conatus. Cioè, è interessante che qualche volta Spinoza torni
a riveder le stelle o vada a riveder le
stelle, però la semplice tesi filosofica non è
la fondazione di essa. Perché allora - hai citato mi pare qualche poeta - a me vengono in mente quelle
bellissime pagine di Borges
sull’eternità. Straordinarie. Viene fuori la
tesi che tutto è eterno. Sì. Ma la semplice enunciazione di una tesi non ne è la fondazione - ed è la
fondazione a dare significato alla tesi.
Si tratterebbe dunque di vedere se in
Spinoza ci sia quel tipo di fondazione che a noi due interessa, ma che a me non sembra che ci sia. Ancora un’osservazione, se posso. A
proposito del mio più volte citato Ritornare
a Parmenide, io ho continuato a dire
che: primo, non ho mai usato per indicare quello che scrivo la parola «neoparmenidismo» - mai. Mai; anzi, è
scritto sin da Ritornare a Parmenide che
Parmenide è il primo nichilista (immenso
anche nell’errore). È il primo nichilista, però è così essenziale e profondo, in questo suo
intendere l’essere monachos, che anche
se oggi, come ha ricordato il professor
Ruggiu, si pensa che in Parmenide non ci sia la brutale e perentoria negazione della dóxa, però bisognerebbe inventarlo quel Parmenide tradizionale che la
storiografia contemporanea toghe di
mezzo per dire che no, che egli 296 prende positivamente in considerazione la
dóxa, che non si limita a qualificarla
come illusione, non-verità ecc.
Bisognerebbe inventario quell’altro Parmenide che oggi viene emarginato, ma che è il Parmenide che sta
dinanzi agli occhi di Platone, di
Aristotele, di Hegel (ma direi anche di
Heidegger). Non si capisce come mai questi pensatori - grandi pensatori (chi più di loro?) - abbiano
reagito rispetto a Parmenide nel modo in
cui hanno reagito se Parmenide fosse
quello oggi configurato dalla riflessione storico-filologica. Mi fermo qui. *
Poiché l’atteggiamento razionale è per Popper la decisione di accettare
solo ciò che è fondato sulla
discussione, l’argomentazione, l’esperienza, ne segue, per lui, che è
«incoerente» la pretesa di fondare
l’atteggiamento razionale sulla base di una procedura razionale, cioè in
base a sé stesso. Ma, osserviamo, il
rilevamento di questa «incoerenza» è a sua volta una argomentazione
razionale, e quindi, stando a Popper,
anche questa argomentazione, che conduce ad affermare che
l’atteggiamento razionale è fondato su una
«fede irrazionale», è a sua volta fondata su una fede irrazionale, ossia
non è una verità incontrovertibile.
* - Due interventi alla tavola
rotonda tenutasi a conclusione del convegno di studi «Il destino
dell’essere. Dialogo con (e intorno al
pensiero di) Emanuele Severino» tenutosi il 29-30 maggio 2012 nell’aula
magna Ca’ Dolfìn dell’Università degli
Studi di Venezia. 297 Sezione terza Postille alla sezione prima 298
Al capitolo I 1. La bellezza e
il male Gli uomini chiamano «male»
tutto ciò che essi non vogliono -
innanzitutto la morte e i dolori che ne sono i
battistrada. La vita è inseparabile dal male. Sin dall’inizio hanno tentato di difendersi costruendo
Yimmagine della vita. L’immagine si
libra al di sopra del dolore. In qualche modo se ne libera, rendendolo sopportabile. La più
antica delle immagini è la festa.
Nell’antica lingua greca la festa è
chiamata theorìa, che significa «contemplazione», «immagine», appunto. Nella festa sono fuse
insieme le forze che poi, separandosi,
si chiameranno «mito», «arte», ekklesìa,
«tecnica», «sapienza». In ognuna di queste forze separate si prolunga, sebbene affievolito, l’antico
rimedio festivo. Anche nelle arti
figurative, dunque. Ma l’immagine
festiva e salvifica non può dimenticarsi del
male. Nemmeno quando, più tardi, l’opera d’arte non mostra altro che lo splendore delle forme della
scultura greca, delle «Madonne col
Bambino» di Raffaello, dell’«Amor sacro e
profano» di Tiziano. Se il male fosse dimenticato non si vedrebbe nemmeno la bellezza e la bontà che
sembrano le uniche protagoniste della
scultura e del dipinto. Non ne vedremmo
la potenza, la capacità di tener lontano da sé il male, il brutto, il dolore. Dove la bella
forma sembra dominare occupando l’intero
spazio dell’immagine pittorica, c’è
sempre l’altro protagonista della scena, il male, altrettanto intensamente visibile proprio per la sua
assenza. Non «vedere» questo Assente è
non vedere la bellezza del bene. Una
mostra della rappresentazione visiva del male
dovrebbe raccogliere tutte le immagini visive. Nel 2005, una mostra a Torino ha operato - né poteva,
dunque, fare diversamente - una
selezione relativamente al modo in cui il
299 male si rende visibile
nell’immagine. Ma tendeva (con le dovute
eccezioni) a lasciare da parte il male in agguato dietro la scena, che provoca un’angoscia ancora più
inquietante perché è lasciato
dall’artista a sé stesso e aU’imprevedibilità
dei suoi effetti nella coscienza dello spettatore - intendo riferirmi all’imprevedibilità addizionale
rispetto a quella suscitata dalla parte
visibile dell’opera figurativa. Se non vado
errato. Credo che in quella
mostra non fosse presente alcuna
«Madonna col bambino» di Raffaello. Ma in queste figure - avvolte da una compiuta e ferma serietà, da
una perentoria assenza del sorriso - lo
sguardo mostra di aver dinanzi ciò che
per Raffaello è il male assoluto, la passione e la morte del Figlio di Dio, che stanno fuori scena, e
tuttavia ben presenti a coloro a cui il
dipinto si rivolgeva. La mostra di
Torino conteneva pitture, fotografie, film. Il
criterio della raccolta non era il valore artistico, ma il contenuto deU’immagine: il male - presentato
secondo la selezione di cui dicevo.
Lasciando da parte la questione di come
è possibile, oggi, parlare di «valore artistico», è possibile indicare il senso autentico dello sviluppo
storico dell’immagine? In quella mostra, il tragitto temporale era
dal Beato Angelico ai grandi pittori del
Novecento: dal tempo in cui il
cristianesimo è vita reale dei popoli, al tempo del tramonto del cristianesimo. La pittura lo rispecchia.
Come ogni altra opera dell’uomo
occidentale. Dapprima la rappresentazione
mostra la vittoria sul male compiuta da Cristo. Ha come scopo esplicito questa celebrazione. La
serietà delle Madonne e le Deposizioni
nel sepolcro rinviano alla luce invisibile che
si dispiega, al di là del dipinto, nell’anima di chi lo guardava: la luce della Resurrezione e della Gloria. Il
tratto salvifico 300 dell’immagine è il Racconto cristiano.
Colori, figure, prospettive hanno come
scopo la celebrazione della salvezza
cristiana dal male. Ma un poco
alla volta si fa innanzi un atteggiamento
nuovo. Lo si è mostrato anche contro le proprie intenzioni, anche l’artista figurativo, come il poeta,
non dipinge più per celebrare Cristo, ma
celebra Cristo per dipingere, per
celebrare la potenza dell’arte. Il dramma dell’arte e dunque della pittura cristiane sta qui: nel
progressivo rovesciamento dove il mezzo,
cioè l’arte, diventa scopo di sé stessa e del
rapporto a essa da parte dell’uomo, e lo scopo iniziale, cioè la celebrazione della salvezza cristiana,
diventa mezzo, pretesto. In questo
processo, rimane pur sempre incombente il male
- di cui il contenuto cristiano dell’arte vuol essere il rimedio ma tale contenuto non essendo più lo scopo
dell’arte, ridotto a mezzo e pretesto,
va perdendo la propria potenza ed
efficacia salvifica. E accade che le moltitudini, accostandosi all’opera d’arte cristiana si sentano salvate
sempre più dalla potenza della forma
pittorica e sempre meno dal contenuto
cristiano di quelle forme. È il dominio della luce sull’ombra - o della forma sul difforme - a impersonare il
dominio del bene sul male. Questo processo giunge al culmine quando
anche la pittura del nostro tempo
eredita il distacco dal divino - prodotto
soprattutto dal pensiero filosofico degli ultimi due secoli - e non può assumere il Racconto cristiano
nemmeno come mezzo e pretesto per
1’evocazione della forma artistica. La
quale si addossa tutto il compito salvifico che nella tradizione figurativa dell’Occidente gravava sulle
spalle di quel Racconto. Il dipinto,
ormai, mostra il difforme, il male, il
dolore, la morte, il nulla senza il Salvatore; e la salvezza può esser data solo dalla potenza con cui il male
è mostrato 301 dall’immagine. La forma è tolta via dal
contenuto dell’opera d’arte figurativa
(e di ogni opera d’arte) e si riduce a essere la potenza dell’immagine che, ormai, ha come
contenuto la dissoluzione della forma,
il difforme, giacché la forma che prima
apparteneva (anche) al contenuto rispecchia sul piano figurativo quell’ordinamento immutabile del
mondo, evocato dalla tradizione filosofica
e religiosa dell’Occidente, che è
inevitabilmente condotta al tramonto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo. Ma la salvezza dal male, separata dal
divino, non può più avere la potenza del
divino. Diventa un rimedio caduco,
sempre più incapace di impedire che - al di là di ogni «valore artistico» - altre forme della
rappresentazione visiva, come la
fotografia e il cinematografo - attraggano a sé le moltitudini. Che quanto più si accostano, attraverso
l’immagine, a un male che si presenta in
carne e ossa, tanto più si illudono di salvarsi
da esso. 302 2. Arte e tecnica Tutte le arti hanno bisogno di diverse forme
di tecnica - e nel Medioevo le stesse
arti figurative non venivano considerate
arti vere e proprie («arti liberali») ma «arti
meccaniche». Anche la semplice voce e la semplice scrittura della poesia richiedono mnemotecniche,
tecniche della dizione, tecniche per la
produzione del materiale richiesto dalla
scrittura. E, già nel Rinascimento, soprattutto le arti figurative e architettoniche (e in qualche
modo la musica) richiedono tecniche
guidate dalla matematica, dalla geometria
e dalle incipienti scienze della natura. La fotografia e il cinematografo si fanno innanzi quando il
rovesciamento di mezzo e fine ha già
preso piede. Ma qui, ancora, la tecnica
produce immagini della realtà. Oggi la tecnica procede sempre più decisamente verso la produzione di
una realtà nuova. Con la tecnica del
nostro tempo l’immagine festiva si
solleva al di sopra del proprio carattere di imma e e tende a diventare la realtà nuova che sostituisce la
realtà angosciante originaria, al di
sopra della quale già si era sollevata
l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più significativi - la tecnica guidata dalla
scienza moderna pensa già alla
costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la morte siano allontanate il più possibile. La
tecnica stabilisce la nuova aura
festiva, più potente di ogni immagine festiva
perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la produzione che anticipa l’Apocalisse
cristiana, dove la terra nuova e il
nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il
vecchio cielo. Ma la logica
della scienza, che sta al fondamento della
tecnica, non è una logica della verità assoluta e incontrovertibile. È una logica ipotetica. La
scienza stessa è un sapere ipotetico-deduttivo.
La liberazione tecnologica dalla
303 sofferenza e dalla morte,
per quanto stupefacenti possano essere i
suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla
possibilità che l’intera legislazione
scientifica si mostri incapace di dominare
le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita semianimale o addirittura nella propria
completa estinzione. La tecnica non
salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è
ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a farsi udire dalla tecnica, a farle sentire
che nessuna potenza può salvare
necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, e che dunque la minaccia del nulla rimane
sospesa su ogni avanzamento tecnologico
della liberazione dell’uomo dal dolore e
dalla morte. La nuova realtà e la nuova
vita, che la tecnica produce sostituendo
l’antica immagine festiva della realtà e della vita, si presenta così a sua volta esposta al
dolore e alla morte, tanto più
insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura festiva che la tecnica sia riuscita a
produrre. È a questo punto che l’arte
può riproporsi come l’ultimo barlume
dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di sopra della realtà - al di sopra cioè di
quella nuova realtà che con la tecnica
sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e salvifica della realtà originaria. È, questo,
il pensiero di Leopardi: quando - dopo
il tramonto della verità definitiva e
assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a cui appartiene quel che Nietzsche chiama
«morte di Dio») - appare che nemmeno la
tecnica ha la potenza di salvare con
necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora la potenza dell’immagine poetica che canta
l’impossibilità di ogni salvezza non
ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume
di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - quella forma di festa dove è la potenza del
canto, e non il suo contenuto, a salvare
ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il
304 nulla e la poesia. Alla
fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit.).
305 3. Arte e tendenza
fondamentale del nostro tempo A volte,
certi essenti che chiamiamo «opere d’arte» stanno in una relazione specifica con l’«infìnito».
Se non nel senso che essi «rappresentano
senz’altro l’«infinito», nel senso che
qualcuno crede che lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la tradizione filosofica intende per «infinito»
non può essere sempre presente, nel suo
autentico e concreto significato, a chi
crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede. D’altra parte, anche se in tale fede
l’«infinito» può apparire in modo
indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa
di ultimo, non oltrepassabile,
intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo
comune è disposto a parlare della «bellezza» di ciò che gli sta dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune
nomina come può l’«infinito». Beati gli
umili (gli uomini comuni), perché di
costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei Cieli è il regno della bellezza che appare
aH’interno della fede (ingenua, umile)
che qualcosa sia il senso ultimo delle cose,
inoltrepassabile, intoccabile.
Schelling, come Hegel, non parla di «fede», ma di una «rappresentazione» che, sia pure «per
riflesso», è verità che essa abbia come contenuto
l’«infinito», cioè Dio. Si tratta della
«verità» dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo culmine ma anche al suo compimento. Si può parlare di «arte contemporanea»
prescindendo dalla tendenza fondamentale
del nostro tempo? Si può parlare di un
uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga e dove vada - prescindendo dallo stormo che
sta migrando? Oggi il grande stormo del
nostro tempo sta migrando verso
l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non può che andare nella stesa direzione.
Schelling è ancora un grande amico di
Dio, ossia dell’«archetipo» per eccellenza.
306 L’arte contemporanea sta
invece vivendo anch’essa ciò che
Nietzsche chiama «morte di Dio». Ci si accorge che la «materia» è senza «luce», il «reale» senza
«ideale». Il contenuto della «bellezza»
si trasforma radicalmente. La bellezza,
ora, è innanzitutto, ma non unicamente, la capacità, da parte dell’«opera d’arte», di suscitare in
qualcuno la convinzione che in essa sia
presente quel senso ultimo del mondo che
è il trovarsi privi di Dio e la disperazione che ne consegue. Anche qui, ci si può rivolgere a
questa terribile bellezza da uomini
«umili», «poveri di spirito», che però
questa volta non possono essere «beati» (o la cui beatitudine può consistere, come dice Leopardi, solo
nella forza con cui vedono la propria
infelicità, debolezza, nullità). Il
«tragico», la «frantumazione» dell’«ordine» e del «sacro», il «frammento» sono aspetti della «morte di
Dio». Questa è la «vertigine del
moderno». Ma pensatori come Benjamin e
molti altri del tempo presente hanno molto da imparare da Nietzsche - e innanzitutto da Leopardi non
hanno qualcosa di essenziale da
insegnargli o un’obiezione decisiva da
muovergli. Proprio per questo il nostro tempo è «tragico». Se la negazione nietzschiana di Dio fosse
oscillante, la speranza nei vecchi
valori non sarebbe spenta - mentre in verità è
spenta, anche se molti sono ancora quelli che sperano. In quanto tendenza fondamentale del nostro
tempo, lo stormo di uccelli di cui qui
si è detto è l’ultimo degli stormi di
cui prima si è parlato - o il penultimo, se si tiene presente che anche la civiltà della tecnica è destinata al
tramonto (cfr. E.S., Oltrepassare, cit.,
cap. X). Del tragico le élites si sono
accorte da tempo; le masse stanno
accorgendosene. Infatti, come oltre ai modi adeguati di rivolgersi a Dio ci sono quelli
inedeguati, così c’è adeguatezza e
inadeguatezza nel rivolgersi al cadavere di Dio, 307
cioè nel pensare che Dio è morto. Nel tempo della morte di Dio, la «bellezza» è la fede di qualcuno - ma
è una fede in espansione - per il quale
il «tragico» è, appunto, il senso ultimo
del mondo e che crede che in certi essenti, detti «opere d’arte», questo senso si manifesti. Si parlava prima dello stormo di uccelli che
migrano. Migrano verso un tempo dove la
Tecnica sostituisce Dio. I due si
assomigliano molto più di quanto di solito si creda. Ma la questione decisiva è che cosa sia l’Aria
in cui lo stormo si muove. Lo stormo non
può saperlo. Vola verso la morte di Dio
- come lo stormo della tradizione volava verso la vita di Dio. Sono accomunati (amici e nemici di Dio)
dalla volontà di dominare gli
spazi. Ma poi resta la questione di ciò
che qui ci limitiamo a chiamare «Aria» -
che è libera da ogni volo e sta al di sopra
della vita e della morte di Dio. Qui, di essa, si può dire che non ha nulla a
che vedere con i modi in cui,
all’interno dei voli, si è voluto andare oltre Dio e gli dèi e si è pensato alla creazione come
suicidio di Dio e alla terra come al suo
cadavere. È tecnica il Dio demiurgo, ma
è tecnica anche il Dio suicida. Li
accomuna la volontà di manomettere l’essere.
Nella nostra cultura, chi si vuole portare al di sopra dell’azione e della dimensione demiurgica
crede pur sempre nella loro esistenza.
L’arte lo ha sempre creduto. Oggi lo crede
ancora di più. Svela la propria anima tecnico-demiurgica. L’Aria, di cui parlavo, è invece l’apparire
dell’eternità di ogni essere. Appare
allora, in questo apparire, che l’azione -
anche l’opera d’arte, dunque - è soltanto un contenuto della fede. Cioè non soltanto la «bellezza», ma
anche Inesistenza» dell’opera d’arte -
ossia dell’opera che «fa essere le cose che
non sono» (J.J. Bodmer) - è il contenuto di una fede. 308
4. Immagini festive Dice
Leopardi che, nelle «opere di genio», «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa
forza con cui sente la morte perpetua
della cose e sua propria» ( Zibaldone , 261).
Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza dell’uomo. Un tema centrale,
questo, del pensatore-poeta che ha
aperto la strada all’intera cultura del
nostro tempo. La prima «opera di
genio» è quella dei popoli più antichi: la
festa, che è l’immagine della vita e dunque della morte. L’immagine si libra al di sopra del mondo:
gli uomini festivi si identificano in
essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più
tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte. Oggi la
festa si celebra soprattutto in quelle
sue deformanti e impallidite derivazioni
che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor
misura, del cinema. Si dice che nei
precedenti film di Terrence Malick emerga
l’indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità.
Ancora più crudele la natura, nei film
di questo regista, quando il massacro è
circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si
uccidono dinanzi a una natura che mostra
a sua volta il proprio volto terribile, gli
uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende
sopportabili. Ma questa interpretazione
va nella direzione sbagliata. Per lo
meno è unilaterale. Certo, il timore è l’inseparabile compagno dell’uomo. Il dolore e la morte ne
sono la radice. Ma, per quanto vissuta
nei suoi derivati, la festa non ha
cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura
non è l’indifferenza, 309 incapace di rendere sopportabile il
dolore, ma è la forza con cui l’immagine
festiva, facendo sentire la morte, dà vita
air«anima». Se non si guarda in
questa seconda direzione, l’ultimo film
di Malick, L’albero della vita, delude. Sembra battere, sorprendentemente, una strada del tutto
diversa da quelli precedenti. La strada
biblica (nominata quasi all’inizio del
film). Per la quale chi segue la «via della Grazia» non avrà timore. Che poi è la strada di tutte le
religioni. Infatti il timore è vinto,
cioè reso sopportabile, solo quando ci si convince di riuscire a stabilire un’alleanza con quella
che si ritiene la Potenza suprema - e il
«Divino» è appunto questa Potenza. Perché
ciò accada è necessario che essa accolga il desiderio dell’uomo; e poiché nulla può costringerla
1’accoglierlo è una Grazia, un dono. Si
può dire che Inalbero della vita» sia
questa alleanza. L’«anima» riceverebbe vita da questa alleanza. L’intera tradizione dell’Occidente lo
pensa. Se l’«uomo» è l’essere che
crediamo di conoscere, la fede nella
possibilità di questa alleanza è inestirpabile. Per questo la religione si riaffaccia continuamente
nella coscienza umana. La cultura
europea ha messo in discussione Dio, ma
non il bisogno di allearsi con la potenza che si ritiene suprema. Oggi, nonostante tutto, si tende a
ritrovarla nella tecnica guidata dalla
scienza moderna. In Europa le masse
avvertono più che altrove il disagio di un’esistenza che va sempre più allontanandosi da Dio e che
d’altra parte non si vede ancora
sufficientemente garantita da una tecnica ancora troppo confusa con la gestione capitalistica
della tecnica. Continuando a seguire
questa linea interpretativa, che conduce
il film di Malick nella direzione sbagliata, esso può allora risultare sorprendente perché,
prendendo le distanze dai contenuti
dalla cultura europea del nostro tempo, dà voce, 310
sia pure con un linguaggio elitario e con uno scarto che viene indicato qui avanti, ai contenuti
tradizionali della religiosità
americana. Non si tratta forse di un regista provvisto di una rispettabile preparazione filosofica? Tale
cioè da averlo messo in grado di
pubblicare la traduzione di una difficile opera di Martin Heidegger? Il che - si potrebbe osservare tra parentesi
- metterebbe in luce qualcosa di più
importante, cioè la porta che Heidegger
ha lasciato aperta al divino; e che in qualche modo ha tentato di tener aperta anche per Nietzsche, che
invece si rifiuta di venir sospinto
lungo questa strada. Heidegger guarda infatti
al passato della cultura europea come a qualcosa da cui non si può prendere un definitivo congedo. «Solo un
Dio ci può salvare», egli scrive - a
differenza di pensatori radicali come
Nietzsche, appunto, o Giovanni Gentile, o, innanzitutto, proprio Giacomo Leopardi, al quale Malick, si
verrebbe a trovare vicino se lo sfondo
del suo quadro poetico fosse
l’indifferenza della natura per il dolore e la felicità dell’uomo. Il protagonista del film è un ragazzo che
ama, anche morbosamente, la madre,
dolcissima, e patisce l’esteriorità
della fede religiosa e il carattere soffocante e a volte brutale
del padre, e perde il fratello e non
vede la ragione di esser buono quando Dio
è cattivo; ma infine, fattosi adulto, varca la porta del dubbio e tra sogno e veglia si riconcilia
con un mondo dove la madre offre a Dio
il proprio figlio, i morti risorgono e
tutti si amano. Ma allora - vien
fatto di dire - che la fede sia una lotta
continua col dubbio, la disperazione, il cedimento al peccato, il cristianesimo lo sa da duemila anni. La
tradizione religiosa americana
preferisce chiudere presto i conti con il dramma della fede: predilige la compostezza, dove
però, il dramma, più che risolto è
tenuto via dallo sguardo. In tal modo, lo
311 scarto del film di Malick
rispetto a quella tradizione si
ridurrebbe a ben poco, cioè alla coscienza che quel dramma esiste. Sarebbe dunque un film edificante.
Che però parlerebbe un linguaggio che
per un verso è d’avanguardia ed
enigmatico, per l’altro lascerebbe ampi e ben decifrabili spazi ai tratti più toccanti dell’amore e a una
natura splendida e sovrana. La forma
lussureggiante e innovativa dell’immagine
non farebbe allora che mascherare il contenuto edificante, cioè l’aspetto scontato del film. Però l’interpretazione che abbiamo sin qui
prospettato non rende giustizia a
quell’immagine. La quale non esprime
l’indifferenza della natura per l’uomo, ma ha il carattere festivo di cui si parlava all’inizio. Che il
contenuto «americano» del film di Malick
sia edificante e scontato non ha più
importanza del fatto che i contenuti dell’antica tragedia greca sono una serie di miti che
tutti gli spettatori conoscevano
dall’infanzia, ben prima di recarsi al teatro dove se li vedevano riproposti. Sono i miti che
parlano della vita, dunque della morte.
Prometeo, Edipo, la guerra di Troia. Ma
come li riproponeva il teatro greco? Riproducendo l’immagine festiva che solleva gli spettatori
sopra la morte: l’immagine che è sentita
più reale e più rassicurante dello
stesso carattere salvifico del mito che in essa viene riproposto. E come il mito greco continua a salvare
l’uomo evoluto della polis solamente
quando esso si trasfigura nell’immagine
festiva del teatro, così il mito cristiano continua a salvare il credente dell’Europa moderna soltanto quando
anch’esso si esprime nell’immagine
festiva della Divina Commedia, nella
Cappella Sistina, nella Passione secondo san Matteo : soltanto nella fusione di rito e arte. Nella minore
dimensione del cinema avviene qualcosa
di analogo. In questo diverso senso,
L’albero della vita è davvero un’opera «edificante» ( aedes facere ): «costruisce la casa» dell’immagine
festiva e salvifica. 312 Al capitolo II 5. L’imperatore Giuliano e Hegel L’imperatore Giuliano, «l’apostata», si
adopera perché tra il popolo vengano
diffusi e difesi i miti e i riti pagani. E tuttavia non è altrettanto noto che, ai suoi occhi,
essi appaiono non meno assurdi delle
«finzioni mostruose» del cristianesimo.
Che senso ha, allora, questa sua difesa del paganesimo? Scritto nel 1964, uno dei saggi che compongono II
silenzio della tirannide di Alexandre
Kojève (Adelphi 2004) aiuta a
rispondere. Giuliano è filosofo
autentico e grande imperatore. Spesso
danneggiato dagli estimatori. Vince nelle Gallie e in Persia. Muore a trentadue anni in battaglia. Se è
vero che il cristianesimo è uno dei
maggiori fattori della crisi dell’impero
romano, la volontà di Giuliano di riportare al paganesimo i popoli dell’impero è lungimirante. Ed è una
volontà politica; non l’espressione di
una fede religiosa. Per lui, sia il
cristianesimo sia il paganesimo sono «miti», cioè «storie false in forma credibile». Però il mito pagano può
ancora salvare l’impero. In ogni mito -
egli scrive - il «senso» è
«contraddittorio» (falso, «indegno»), mentre l’«espressione» o è capace di mascherare la contraddizione del
senso - e in questo caso il mito ha come
contenuto il divino, oppure, come nella
«poesia», l’espressione non si preoccupa di
nascondere l’assurdo, ma si rivolge a chi, ancora «bambino» nel fisico o nella mente, può credere in
esso. In entrambi i casi, la
contraddizione è mobilitata per conseguire «un fine utile» o per «divertire» (Pascal parlerà di
divertissement), per allontanare cioè lo
spettro della morte. Affinché l’impero viva,
al popolo bisogna nascondere la «verità»: che con la morte è tutto finito. Kojève qualifica giustamente
come «straordinario» questo passo di
Giuliano. 313 Kojève: uno dei maggiori interpreti di
Hegel. Anzi, per lui Hegel è «il»
Filosofo oltre il quale non si può andare. E di
Giuliano egli mostra più volte perché lo si debba considerare un «“hegeliano” ante litteram». Proprio così.
(Per esempio legge in Giuliano
l’anticipazione del celebre tema hegeliano
del riconoscimento del signore da parte del servo.) Ora, è notevole che lo «straordinario»
discorso di Giuliano, intorno alla
contraddittorietà del contenuto del mito, per
Kojève non faccia una piega. Giuliano dice che, proprio perché il contenuto (il «senso») del mito,
cristiano o pagano che sia, è
contraddittorio, proprio per questo esso è
inesistente. Un discorso aristotelico. Ma è anche noto che il problema fondamentale dell’interpretazione di
Hegel è stato ed è tuttora il rapporto
tra questo pensatore e il «principio di
non contraddizione». Sono molti a ritenere incautamente (Popper in prima fila) che Hegel sia
pervenuto alla negazione di questo
principio, e cioè che per lui la realtà sia, alla lettera, contraddittoria. Quale occasione migliore
dello «straordinario» discorso di
Giuliano avrebbe avuto allora Kojève per
allinearsi a quei cattivi interpreti, e dire con forza (lui, che invece vede nel pensiero di Hegel
la Verità) che il discorso di Giuliano
non sta in piedi, appunto perché
identifica Yirrealtà con la contraddittorietà? E invece niente. Anche per questo silenzio Kojève è un grande
interprete di Hegel. 314
6. Impero romano e «Germania totalitaria» «I Romani hanno conquistato il mondo con la
serietà, la disciplina,
l’organizzazione, la continuità delle idee e del metodo; con la convinzione di essere una
razza superiore e nata per comandare;
con l’impiego meditato, calcolato della
più spietata crudeltà, della fredda perfidia, della propaganda più ipocrita, messe in atto simultaneamente o
di volta in volta; con una risolutezza
incrollabile nel sacrificare sempre
tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo, né alla pietà, né ad alcun rispetto umano; con
l’arte di alterare nel terrore l’anima
stessa dei loro avversari, o di
addormentarli con la speranza, prima di asservirli con le armi; infine con una manipolazione così abile
della menzogna più grossolana da
ingannare persino la posterità e da
continuare a ingannarci. Chi non
riconoscerebbe questi tratti?» Una
pagina vigorosa di Germania totalitaria (Adelphi 1990) che Simone Weil ha pubblicato nel 1940.
Alla domanda finale la Weil risponde che
in quei tratti tutti possono riconoscere
la Germania di Hitler: il nazionalsocialismo non è una creazione specifica del popolo tedesco -
come la propaganda nazionalsocialista
sosteneva -, ma qualcosa di più
profondo, cioè l’imitazione di un modello che va rintracciato molto più indietro nella storia
europea, nell’Impero romano,
appunto. In Simone Weil questo giudizio
sull’antica Roma - che si estende al
rapporto tra Hitler e il regime interno dell’Impero romano - è anche più pesante di quanto non
appaia dal passo riportato, ma non è
arbitrario (si pensi ad esempio alla
condanna dei metodi di conquista romani da parte di uno storico come Jéròme Carcopino), o è
arbitrario nella misura in cui non
spinge sino in fondo il proprio significato. Ma 315 intanto va completato l’intreccio proposto
dalla Weil: rendendo esplicita una
conseguenza - forse non adeguatamente
sottolineata dalfautrice - che discende, da un
lato, dal suo giudizio su Roma e, dall’altro, dalla sua tesi sullo stato attuale del capitalismo. Con molte ragioni, la Weil vede già
presente, in Marx, la tesi che i
lavoratori sono oggi sfruttati non tanto dal capitale privato, ma dal capitalismo di Stato,
divenuto ormai, secondo l’espressione di
Marx, una «macchina burocratica e militare»,
che è presente sia nello Stato nazionalsocialista, sia nello Stato sovietico, sia nella democrazia americana di
un Roosevelt influenzato dai nuovi
tecnocrati. Il comun denominatore di
queste tre forze è infatti la tecnica - la disumanità della tecnica che riduce a «funzione» della
macchina statale l’individuo umano. La
conseguenza è che l’impero romano è il
modello non solo per la Germania di Hitler, ma per l’intera direzione fondamentale della storia. Non solo della storia contemporanea, ma di
tutta la storia dell’Occidente. Il Sacro
Romano Impero, gli Stati nazionali
moderni, Richelieu, Luigi XIV, Napoleone, procedono sulla stessa strada. «Per ulteriore disgrazia»,
scrive la Weil, a Roma si afferma il
cristianesimo, che eredita il Vecchio Testamento, dove la disumanità verso i nemici vinti e il
culto della forza «si accordano
straordinariamente bene con lo spirito di Roma»
soffocando ^ispirazione divina del cristianesimo». Il giudizio su Roma di Simone Weil,
dicevamo, non rende esplicito il proprio
significato più profondo. Ma avrebbe
potuto trovare in Hegel un aspetto più profondo. Hegel non mette tra parentesi la «virtù romana», ma
mostra perché si trovi unita, come egli
dice, alla «durezza» e all’«atteggiamento
compostamente risoluto» dello spirito romano. Si tratta dello spirito che assume lo Stato come scopo
supremo e ultimo. 316 Tutto il resto è subordinato, a
incominciare dalla stessa vita familiare
e dai sentimenti dell’uomo romano. Se si pensa per davvero questa affermazione, si comprende
l’inevitabilità di tutti gli aspetti
negativi, denunciati da Simone Weil,
attraverso i quali i Romani sono diventati i padroni del mondo. La Weil, più debolmente, scrive che i
Romani sacrificano con «risolutezza»
tutto al «prestigio». Ma se si va più a
fondo, il «prestigio» è l’aspetto assunto dallo Stato presso le genti quando vale come scopo ultimo
dell’esistenza. Ciò non significa che
questo spirito - la volontà di porre lo
Stato al di sopra di tutto - non sia stato attraversato da forze opposte e potenti: significa che, nonostante
le traversie a cui Roma è andata
incontro, quello spirito è rimasto sullo sfondo
anche quando sembrava svanito, e ha avuto la forza di imporsi perfino su quei barbari che stavano
prevalendo ma che a lungo, nella maggior
parte dei casi, non hanno pensato di
distruggere l’Impero - che anche ai loro occhi era il vero Imperituro, l’orizzonte ultimo accessibile ai
mortali -, ma hanno inteso diventarne
essi la forza portante, e i loro capi
hanno inteso porsi alla guida dei processi che continuavano ad assumerel’Impero come scopo ultimo
dell’esistenza. Come si spiegherebbero
altrimenti i dodici secoli di vita di Roma
(giungendo a Giustiniano), se lo spirito romano non avesse esercitato un’attrazione così potente? Appunto alla volontà di potenza, da ultimo,
ci si deve dunque rivolgere per
comprendere perché quello spirito abbia
avuto una tale forza di attrazione - pur non essendo certamente stato la prima forma di volontà di
potenza nella storia dell’uomo. L’uomo
sperimenta sin dall’inizio la potenza
sprigionata dall’aggregazione dei singoli e che appare subito superiore alla somma delle loro forze. Lo
Stato (l’aggregazione), deve apparire
quindi qualcosa di «divino». Inevitabile
dunque che sin dall’inizio l’uomo assuma questa 317
potenza come lo scopo ultimo a cui tutto debba essere subordinato. Sin dall’inizio la dimensione
religiosa e quella politica si fondono,
sia pure con intensità diversa e con
diversa coerenza rispetto alla potenza che si vuole ottenere. Se lo Stato si mostra ben presto come lo
strumento più efficace per avere
potenza, tuttavia, proprio perché la potenza
sia grande e crescente, lo Stato non può rimanere soltanto uno strumento nelle mani dei singoli e
pertanto qualcosa che non può non risentire
negativamente della loro impotenza. È
cioè inevitabile che lo Stato divenga il loro scopo supremo, a cui qualsiasi interesse e scopo particolare
deve essere sacrificato. Lo spirito delle monarchie assolute
dell’Oriente riesce a sopportare a lungo
la contraddizione per la quale il monarca è
un individuo e, insieme, è lo Stato, ossia qualcosa di non individuale. Poi la contraddizione esplode, e
la democrazia greca tenta di superarla.
Senza riuscirvi, perché in Grecia la
democrazia non può non sentire la voce della filosofia, cioè della coscienza che non solo non può
identificare l’individuo a ciò che non è
individuale, ma che, anche a proposito del
non individuale in cui consiste lo Stato, denuncia l’impossibilità che uno scopo finito, quale è
lo Stato, possa essere assunto come lo
scopo supremo, e in questo senso
infinito. La sapienza (il cui aumento, dice la Bibbia, aumenta il dolore) indebolisce lo Stato. La potenza
di esso è maggiore quando cresce lontana
dalla radicalità della sapienza
filosofica. Proprio per la sua intenzione di dare la felicità, la filosofia indebolisce la fede dell’uomo negli
strumenti di cui egli si serve per
sopportare il dolore. È la filosofìa a voler porsi come scopo ultimo. (Poi sarà la fede
cristiana.) «I Romani» dice Hegel nelle
Lezioni sulla filosofia della storia
«sono solidamente orientati all’attività pratica», «ma 318
non riflettono teoricamente» su questo loro orientamento. Hegel non dice che appunto questa riflessione
indebolisce il proprio oggetto, cioè
Inattività pratica», come appunto accade
alla polis greca. E non la sapienza radicale della filosofia, ma la sapienza del «diritto»
rafforza la fede nello Stato, appunto
perché a Roma il diritto si sviluppa
esplicitamente, a differenza della filosofia, all’interno della convinzione che lo Stato sia lo scopo ultimo
dell’esistenza, e contribuisce alla
realizzazione di tale scopo. Per i
Greci la tragedia è uno dei punti più alti della loro grandezza. Per i Romani l’anfiteatro è uno
dei più bassi. In entrambi i casi si
tratta però di porsi in rapporto al dolore e
alla morte, per sollevarsi al di sopra di essi. E lo Stato appare ai Romani come la salvezza. Ma nella
tragedia, che è grande filosofia, i
Greci rappresentano il dolore mostrandone il senso e indicando il senso che il rimedio può
avere. L’anfiteatro romano, invece, si
limita a produrre realmente il dolore, e la
riflessione tende a coincidere con quella povertà dello spirito che è il godimento suscitato dalla sofferenza
altrui. Qui, la «risolutezza» romana
raggiunge, insieme, il proprio apice
imprevisto (muore ne ll’anfiteatro chi è stato vinto da Roma) e, insieme, la propria distruzione, che
l’originaria e sobria lontananza romana
dalla radicalità della sapienza filosofica
aveva saputo evitare. 319 7. Mein Kampf Gli Ebrei hanno qualità positive di coesione
e di solidarietà che mancano ai
Tedeschi. Affetti da «eccessivo
individualismo», i Tedeschi sono Ariani degenerati. Si trovano in uno stato di debolezza, di
divisione, di estremo pericolo. Giudizi, questi, insieme a molti altri
affini, che non sono espressi da un
severo critico della Germania del XX secolo,
ma da Hitler in persona, nel suo scritto Mein Kampf. Funestamente celebre; scritto tra il 1924 e
il ’25; il libro più diffuso in Germania
sino alla fine della seconda guerra mondiale.
Per Hitler i Tedeschi di quel tempo erano un
«armento». Che non solo si era allontanato dalla creatività, volontà di dominio e genialità del vero
Ariano (un giudizio, questo, ripetuto da
Hitler poco prima di uccidersi), ma che
aveva anche il torto di essere «oggettivo», insensibile alla prospettiva nazionalistica (che appunto si
pone al di sopra dell’«oggettività»), e
dunque inferiore allo spirito «dialettico»
degli Ebrei. Aveva anche il torto, Sarmento», di sottovalutare gli Inglesi e soprattutto di tollerare gli
Ebrei. Chi ha letto Mein Kampf («La mia
battaglia») non sta sentendo nulla di
nuovo, ma è nuovo e interessante il modo
in cui il libro di Hitler viene interpretato da Dora Capozza e da Chiara Volpato (cfr. Le intuizioni
psicosociali di Hitler. Un’analisi del
Mein Kampf, (Patron 2004). All’enorme
quantità di ricerche che da ogni punto di vista e con risultati di grande rilievo sono state
condotte sul nazismo questo saggio
aggiunge una dissezione del linguaggio di Mein
Kampf operata con i metodi più recenti della psicologia sociale. In primo piano, l’analisi delle
«corrispondenze» tra le espressioni più
ricorrenti e significative usate da Hitler. I cui giudizi riportati all’inizio non risultano
irresponsabili, ma 320 appartengono a un piano ben preciso, che
giustifica il successo di un uomo come
Hitler in uno dei Paesi più civili del
mondo. Stando ai risultati di questo
saggio di Capozza e Volpato è già
notevole che al centro delle pagine di Hitler non stia «come ci si potrebbe attendere, la razza
Ariana, ma quella Ebraica», considerata
come il prototipo della razza «aliena»
che ha di mira, alleandosi con i «bolscevichi», la distruzione della civiltà ariana. Tutti gli insulti più
odiosi e minacciosi sono usati da Hitler
contro gli Ebrei, che tuttavia hanno ai
suoi occhi alcune qualità positive che costituiscono per i Tedeschi il pericolo maggiore. Egli addita
cioè ai Tedeschi il pericolo mortale in
cui son venuti a trovarsi per colpa degli
Ebrei; ma non li deprime, perché presenta loro quel Partito nazionalsocialista che sarebbe l’unica forza
capace di salvar-li e farli diventare
quel che essi sono nella loro essenza ariana. Il suo partito è unito, ha fede e pur lottando
contro il marxismo capisce i problemi
della classe operaia. Cioè «Hitler»
scrivono le autrici «suscitava antisemitismo
non solo tramite la spiegazione dei fallimenti» dei Tedeschi, «ma anche presentando gli Ebrei superiori ai
Tedeschi in una importante dimensione di
confronto: coesione, solidarietà,
omogeneità»: «una dimensione in cui non si vuole essere inferiori». Tanto che le autrici possono
concludere che Hitler, «capace di raffinate
intuizioni sull’uomo sociale, per
diffondere il suo programma ha operato sulle motivazioni e i processi previsti dalle teorie psicosociali». A loro avviso il testo «è basato su tre
idee»: «darwinismo sociale» («lotta
eterna tra forti e deboli», «selezione naturale», «spazio vitale» ecc.), «principio
etnocentrico» (al centro dell’esistenza
c’è una certa razza, un certo popolo) e principio «della personalità» (l’individuo superiore
guida «la massa 321 stupida e incapace»). Qui vorrei rilevare
che quei tre principi appartengono (in
modo filosoficamente ingenuo) a una
grande dimensione comune, che più o meno corrisponde ai due ultimi secoli della storia
dell’Occidente. Quelli della «morte di
Dio». Tutto a posto, allora, ritornando a Dio? No; la «morte di Dio» è la figlia legittima,
inevitabile, della «vita di Dio». E
invincibile sino a che non ci si sappia rivolgere al senso essenziale e non si sappia mettere in
questione la «creatività» e la «volontà
di potenza» dell’uomo ariano e non
ariano che sia. 322 Al capitolo III 8. Piazza della Loggia Trentanni fa c’era molta incomprensione per
quanto stava accadendo in Italia con gli
attentati terroristici. Pochi giorni
dopo la strage di Piazza della Loggia osservavo quanto fossero inadeguate le interpretazioni fornite delle
massime autorità della politica e della
cultura. Il presidente della repubblica
Giovanni Leone dichiarò che il fascismo, ritenuto responsabile dell’eccidio, era «morto per
sempre il 25 aprile 1945» e che di esso
non sopravvivevano che «squallide
minoranze». Per eliminare le quali, aggiungevano altri, si trattava soltanto di rendere più efficienti
polizia e magistratura. C’era anche,
però, chi sosteneva la necessità di
adeguare la legislazione al dilagare del terrorismo - il cui senso veniva peraltro lasciato nel buio -,
ripristinando magari la pena di morte.
Il giorno dopo la strage di Piazza della
Loggia Alberto Moravia scriveva sul «Corriere della Sera» che gli esponenti del fascismo erano soltanto dei
«razionalizzatori per lo più inconsci e
quasi sempre imbecilli delle proprie
private tare». Nel suo insieme,
questo modo di prendere posizione
rispetto al terrorismo sottovalutava il fenomeno. C’era ben altro dietro le «squallide minoranze» o gli
«imbecilli» che razionalizzavano «le
proprie tare private». C’era il problema
dell’avanzata del Partito comunista italiano, che con i consensi elettorali ottenuti stava andando
verso la conquista democratica del
governo - e, questo, all’interno di una
situazione internazionale dove la sfera di influenza degli Stati Uniti, alla quale l’Italia apparteneva, non
avrebbe mai consentito che al governo,
in Italia, ci andassero i comunisti.
Nel 1974, al tempo del viaggio di Leone in America, Kissinger non solo minacciò il ritiro delle
truppe americane 323 dal nostro continente qualora gli alleati
europei non si fossero allineati agli
Stati Uniti nei confronti dei Paesi produttori di petrolio; ma a chi gli parlava di una troppo
pesante ingerenza degli Usa nella nostra
penisola Kissinger (è importante
ricordarlo oggi) rispose che se l’Italia fosse passata sotto la sfera di influenza dell’Urss, il mondo
democratico avrebbe poi rimproverato gli
Stati Uniti di non aver «salvato» l’Itaha
dal comuniSmo - dal che si capisce quanto fosse un bluff la minaccia di ritirare le truppe americane
dall’Europa, che a sua volta, e a
maggior ragione, doveva essere «salvata» dal
comuniSmo. Negli anni Settanta
ho dedicato una considerevole attenzione
alle connessioni tra terrorismo e situazione politica internazionale. Il mio libro Téchne (Rusconi
1979, Rizzoli 2002) ne è la
testimonianza. Ma solo un poco alla volta è
maturata in Italia la consapevolezza che i fatti storici esecrandi, che a prima vista sembravano solo
esplosioni di una ottusa brutalità,
erano invece espressioni di quella dura
vicenda in cui popoli si scontrano per assicurarsi la sopravvivenza e i privilegi in un mondo
sempre più pericoloso. Il terrorismo che
ha portato a episodi come quello di
Piazza della Loggia non appartiene alla banalità o alla semplice dimensione defl’immoralità, per
uscire dalla quale basta qualche pia
intenzione delle anime belle. Un discorso
analogo vale anche oggi. Rispetto al Partito comunista italiano il
fascismo italiano degli anni Settanta è
un nano. Che però ha alle spalle una
forza enormemente più gigantesca di quella del Pei: il sistema democratico-capitalistico, con gli Usa al
proprio centro. Di fronte alla
possibilità di una conquista democratica del potere da parte del comuniSmo, tale forza agisce in
modo che il Pei risponda agli attentati
terroristici con azioni illegali, che
avrebbero consentito il ripristino autoritario della legalità e, 324 con la messa al bando del Pei,
l’eliminazione del pericolo comunista.
Di qui il rifiuto violento del Pei alla proposta di reintrodurre la pena capitale. Se il Pei non
ha reagito illegalmente alla
«provocazione fascista» non è stato per
amore della legalità e della democrazia, ma perché, da un lato, ha capito che alla legalità e al carattere
democratico del proprio operato era
legata la propria sopravvivenza; e
dall’altro perché il Pei era consapevole di non potere e dunque di non dovere prendere il potere in Italia. A
quel tempo, scrivevo che al governo il
Pei sarebbe andato quando non fosse più
stato un partito comunista. 325 9. Tasse e amnistia L’aumento della criminalità in Italia è,
come si suol dire, un «fatto». Dunque
non solo in città come Brescia - dove il tasso
di immigrazione, superiore alla media nazionale, è uno dei fattori di tale aumento. Non l’unico. Come
l’atteggiamento caritativo della Chiesa
nei confronti degli immigrati non è
l’unico dei fattori da tener presenti nella discussione di questo problema. Non l’unico; e tuttavia molto
importante. Dico questo, per
l’analogia, apparentemente paradossale,
che sussiste tra il problema delle tasse degli Italiani e il problema dell’amnistia nei confronti di
migliaia di detenuti delle nostre
carceri - un’amnistia voluta dal centro-sinistra del secondo governo Prodi e, direi,
soprattutto e fortemente dalle forze
cattoliche. Le quali hanno agito, guidate dalle
decise sollecitazioni della Chiesa cattolica in quella direzione. Ed ecco quanto intendo rilevare. È molto probabile che, come a suo tempo
aveva rilevato l’onorevole Visco, il
clima determinato dal precedente governo
di centro-destra in tema di tassazione avesse favorito e incrementato la propensione degli Italiani
all’evasione fiscale. Quando
l’«autorità» sembra andare incontro alle
nostre inclinazioni individuali, quest’ultime tendono infatti a rafforzarsi e a espandersi. La televisione è
ormai considerata un’«autorità», e
accade appunto che comportamenti
televisivamente tollerati, o lasciati scorrere con indulgenza sul piccolo schermo, aumentino la propensione
della gente a imitarli. Ma è anche difficile, a questo punto,
evitare l’analogia tra il problema
fiscale e l’amnistia carceraria che ha rimesso in strada anche persone il cui primo pensiero è
stato di riprendere l’attività
interrotta dalla reclusione. L’amnistia non
aveva riguardato soltanto Italiani, ma anche immigrati 326
extracomunitari. Difficile, allora, evitare il seguente ragionamento. Come è molto probabile che il clima prodotto
dalla politica fiscale dei governi di
centro-destra abbia favorito
l’incremento dell’evasione fiscale, così è molto probabile che il clima determinato dall’amnistia carceraria
abbia prodotto un clima che ha portato
la gente a credere che l’«autorità»
guardasse con una certa indulgenza l’evasione dal diritto civile e penale, un clima che quindi ha in
qualche modo favorito ed esteso la propensione
per quella diversa forma di delinquenza
che consiste negli omicidi e nelle rapine.
Inevitabile che chi ha subito questa forma di suggestione, determinata dall’amnistia, siano stati
soprattutto gli immigrati e in
particolare gli extracomunitari che, proprio
perché tali, entrano nel Paese da cui sono accolti senza avvertire - come invece possono farlo coloro
che in quel Paese son nati - la presenza
e il carattere bene o male vincolante
delle leggi in esso in vigore. Nel caso
dell’amnistia la suggestione è stata ancora
maggiore, perché il provvedimento era stato proposto non solo dalle forze politiche al governo, ma
anche da quell’«autorità» della Chiesa,
che nel mondo può certo vantare
un’autorità maggiore delle forze politiche italiane. L’amnistia ha creato un’immagine pubblica
del legame tra legalità e carità, che ha
allentato il timore di trasgredire la
legge. Pensando a questo e ad
altri ordini di problemi avevo detto
alla svelta, in un’intervista rilasciata al «Corriere», che mi risultavano «incomprensibili» certi
atteggiamenti caritativi della Chiesa
bresciana. Si parlava dei delitti commessi a
Brescia. Ma il mio discorso era rivolto primariamente alla Chiesa in generale, che tenta di seguire come
può l’invito, 327 rivolto da Gesù al giovane ricco, di dare
ai poveri tutte le proprie ricchezze. Per seguire Gesù la Chiesa dovrebbe dire ai
popoli ricchi di dare tutte le loro
ricchezze a quelli poveri. La Chiesa non può
seguire la sublime follia di Gesù. Non può permettersi di sembrare sublimemente folle. Tenta come può di
seguire Gesù: con le forme tradizionali
della carità. Le quali, per un verso,
lasciano che i ricchi rimangano ricchi, e per l’altro si riversano, quando possono, alfinterno dei
rapporti civili presenti nei singoli
Stati e diventano opere assistenziali di
vario tipo, su su fino a opere di grande portata come lo è stata appunto l’amnistia in Italia. Che certamente
non è l’unica responsabile dell’aumento
della criminalità nel nostro Paese, ma
che, altrettanto certamente, responsabile è.
328 10. Visibilità Lo sport è importante. Perché - forse
soprattutto - non è innocente. Tanto più
importante quanto più simula le forme
della lotta e del combattimento. La gente trova in esso quello sfogo delle proprie frustrazioni, che
altrimenti indirizzato le procurerebbe
gravi sanzioni civili e penali. Ma bisogna che la squadra in cui ci si identifica vinca e che
la vittoria non sia ostacolata.
Altrimenti lo sfogo straripa, diventa
incontrollabile. Nelle società
povere Finsoddifazione finisce col trasformarsi in massacro. Ma oggi anche quelle
ricche hanno motivi per essere
insoddisfatte. Si percepisce che il mondo dei
valori tradizionali va franando. È la notizia che fa da sfondo a ogni altra. Ed è ormai un luogo comune
rilevare che i mass media, diffondendola
e moltiplicandola, la trasformano nel
modello da imitare. Poiché la frana della tradizione è violenza, che acquista mille volti,
l’imitazione del modello violento
diventa a sua volta notizia, a sua volta diffusa e moltiplicata. I violenti si sentono pertanto
ripagati di molte delle loro
frustrazioni. Non è poi così banale l’affermazione che si esiste solo se si è in televisione.
C’è sempre stato qualcosa di analogo. La
violenza è una forma di potenza (o
addirittura coincide con essa); e la potenza esiste solo se è pubblicamente riconosciuta. Non esiste un
sovrano o un dio la cui potenza non sia
stata o non sia pubblicamente
riconosciuta. Non ci si sfoga delle proprie frustrazioni se non ci si sente in qualche modo potenti o violenti
e se quindi non ci si rende il più
possibile visibili. I mezzi di comunicazione di
massa del nostro tempo sono la forma più potente di riconoscimento pubblico e quindi di
produzione della potenza e della
violenza. Alla messa in scena del progressivo
disfacimento dei valori morali, civili, religiosi, estetici delle 329
società avanzate si unisce la messa in scena del disfacimento di ogni regola di convivenza tra gli Stati.
Hobbes rilevava che 10 Stato nasce per
uscire dal belluino stato di natura (homo
homini lupus), ma gli Stati hanno continuato a essere lupi gli uni per gli altri. Questo è l’esempio che gli
Stati danno agli individui! Gli Stati,
che pure dovrebbero rappresentare la
ragione e la civiltà contro l’istinto e l’egoismo individuale! E anche di questa belluinità degli Stati i mezzi
di comunicazione di massa danno continua
notizia alla gente, dando la maggiore
visibilità e quindi il maggior respiro alla violenza. In Italia è tempo di pensare alla riforma del
diritto. Ripeto che come la politica
finanziaria della destra incrementa l’evasione
fiscale, così gli indulti e le amnistie della sinistra incrementano la violenza del crimine. Ma la
gran ventura, che riguarda l’intero
pianeta, e che (all’interno del dispiegarsi
della civiltà dell’Occidente) non è necessariamente negativa, è 11 guado che dai valori del passato conduce
al futuro. 330 11. Tecnica e «grande politica» 1 Ravaioli (R.) La crescita produttiva
continua a essere l’obbiettivo più
tenacemente auspicato e perseguito da
economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel
discorrere più feriale, che so, al bar,
in treno, al mercato; dato come una
indiscutibile ovvietà, o addirittura come una verità di fede... A lei certo la cosa non è sfuggita, e vorrei
chiederle che ne pensa: è d’altronde un
avvio perfettamente calzante col
discorso che ci proponiamo...
Severino (S.) Questo continuo parlare della crescita come di cosa ovvia è in buona parte dovuto
all’ignoranza. Sono decenni che si va
intravedendo l’equazione tra crescita
economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro checondivisibile l’auspicio di una crescita
indefinita. R. Professore, sta dicendo
che l’economia è una scienza consapevole
delle conseguenze negative della crescita?
S. Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi.
Anche nel mondo dell’intrapresa
capitalistica - la forma ormai
pressocché planetaria di produzione della ricchezza - ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita
illimitata (anche se poi si fa ben poco
per controllarla). R. Non si direbbe
proprio... S. Sì invece. Vent’anni fa,
quando Lei scrisse quel suo bel libro
che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell’ambiente, la maggior parte
degli intervistati affermava che quello
del rapporto tra produzione economica ed
ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti... e anche le
dichiarazioni dei politici sono diverse
da venti o trent’anni. 331 R. In pratica però non fanno che invocare
crescita, senza nemmeno nominarne i
rischi... S. Be’, in periodo di crisi
economica, di fronte al pericolo
immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla necessità della crescita... Purtroppo però lo
si fa riducendo il problema alle sue
dimensioni tattiche, ignorandone la dimensione
strategica ... R. E intanto si
verificano sempre più tremendi disastri, che
inconfondibilmente denunciano la pericolosità della crescita... Dal Golfo del Messico a
Fukushima... per citarne solo un paio
dei più gravi e che hanno avuto massima
risonanza... S. Certo. Ma,
facendo un passo avanti, vorrei precisare che
prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica
in quanto tale, ma alla gestione
economico-politica della tecnica... Non sono
disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica della scienza e della tecnica... Sono
disfatte, cioè, del capitalismo (fermo
restando che l’economia pianificata di
tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente). R. La mia impressione però è che quanti
insistono a invocare crescita continuino
a ignorare che tutto quanto vediamo,
tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che
dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. Questa realtà in
sostanza viene «rimossa». I grandi
industriali che si confrontano a Davos,
Cernobbio ecc., spesso neanche citano il problema... Automobili, barche, indumenti, mobili,
computer... tutto quanto esce dalle loro
fabbriche... di che cosa credono che
siano «fatti»? S. Ma è un
atteggiamento normale dell’uomo quello di
preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando 332
sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso sono quelli decisivi. Quando la barca fa
acqua la prima preoccupazione è tappare
la falla... Poi si pensa al luogo dove
approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel
complesso diventa inutile tappare le
falle... Si verificano allora tutti i
comportamenti che lei giustamente rileva. R. Scusi, non vorrei aver capito male... La
sua è una giustificazione di questi
comportamenti da parte di chi, poco o
tanto, è responsabile dell’economia mondiale?
S. No. Dicevo che è, purtroppo, costume umano non aver occhi che per i problemi immediati, ignorando
quelli fondamentali - che magari gli stanno
sotto il naso... È però una mancanza di
consapevolezza che ha incominciato a
incrinarsi anche prima di cataclismi come Fukushima. Sebbene ancora non se ne vedano conseguenze
nelle scelte politiche... R. Ma il problema esiste da decenni... Il
deperimento dell’equilibrio ecologico è
stato clamorosamente denunciato dagli
anni Cinquanta, ma nelle scelte politiche è stato completamente ignorato. S. Ecco, forse su quel «completamente» si
può non essere d’accordo... Penso ad
esempio a Clinton, consigliato da Al
Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli Americani della necessità e convenienza di
una crescita economica sostenibile...
Una dichiarazione di intenti che in
qualche modo anche Obama ha fatto propria... R. Però nessuno di quelli «che contano»
sembra rendersi conto che la crescita
produttiva attualmente perseguita - che
è continua aggressione agli equilibri ecologici - si identifica di fatto col sistema capitalistico. Anche
celebri economisti (vedi Stiglitz,
Krugman, Fitoussi... per citarne qualcuno)
333 riconoscono la gravità
della situazione ambientale, ma non
accennano nemmeno a soluzioni che mettano in discussione il capitalismo. S. Sono pienamente d’accordo con lei: è
proprio questa la situazione... Ma
occorre anche dire che oggi, in un mondo
conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno «produttivistica»
significherebbe mettersi dalla parte dei
perdenti, indebolirsi anche sul piano
militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina... Nella situazione attuale, rinunciare alla
crescita, cioè alla potenza economica,
significa essere sopraffatti... E sembra
difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a
differenza di quanto spesso si continua
a credere, la potenza nucleare appare
decisiva anche nella lotta contro il terrorismo... È un problema enorme, che si tende a non
affrontare nemmeno là dove si è
consapevoli che la crescita incontrollata... distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato
per la soluzione di tale problema
dovranno accadere disastri giganteschi...
con qualche milione di morti... Ma prima si tirerà la corda finché sarà possibile. R. Certo. Tutto questo che lei dice
corrisponde a una lettura intelligente e
del tutto esatta della realtà. Mi domando
però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata - in misura già oggi forse
irrecuperabile - da un agire economico
fondato su una crescita produttiva che
non prevede limiti. S. È da
guardare con diffidenza - ma non voglio sembrare cinico - l’intellettuale che dice alle grandi
potenze mondiali: «Dovreste mettervi in
discussione». Le grandi potenze non
cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi... Ce la vede
lei una Cina che 334 rinuncia a una politica economica
vincente, e al proprio tète- à-tète
attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? Le pare verosimile? E ormai
anche in Europa la vita va avanti
alimentata dalle centrali nucleari. E
continueranno ad andare avanti così, inevitabilmente... Non basta quello che sta succedendo: solo un
disastro di proporzioni senza
precedenti, dicevo, potrebbe convincere
l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo radicale...
R. Inevitabilmente... In base alla natura umana? Alla storia?
S. In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità,
ancora più perentoria: quella del
tramonto del capitalismo. Diciamolo in
quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal
suo scopo, cioè dall’incremento
indefinito del profitto privato. Quando il
capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più
l’incremento del profitto ma la
salvaguardia della terra, allora non sarà più
capitalismo... Inevitabilmente: o il capitalistimo, andando avanti così, cioè volendo avere come scopo il
profitto, distrugge la terra, la propria
«base naturale», e quindi sé stesso,
oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge
egualmente sé stesso. In questo senso
appunto parlo da decenni di inevitabilità del
tramonto del capitalismo. R. Lei
è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre - quel poco che ne rimane
- sembrano aver definitivamente
rinunciato all’idea di superare il capitalismo.
Che è l’idea per cui sono nate... Oggi in fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli
spetterebbe, 335 perché in fondo a pagare le conseguenze
dello sconquasso ecologico sono
soprattutto le classi più povere... Ma no,
anche le sinistre sono allineate sull’invocazione della crescita, di fatto preoccupate esclusivamente di
occupazione e salari: ciò che certo è
comprensibile, anzi necessario, ma che forse
potrebbe non limitarsi (come per lo più sostanzialmente accade) a occuparsi di singole situazioni di
crisi e magari tentare di spingere lo
sguardo un po’ più lontano: dopotutto la
globalizzazione è un fatto, che riguarda tutti e - anche se non ce ne accorgiamo - tutti per mille modi
ci determina... S. Quando parlo di
declino del capitalismo, parlo infatti di
qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo, delfumanesimo marxista, dell’umanesimo di
sinistra. Non è che la sinistra sia in
una posizione avvantaggiata rispetto al
capitalismo... Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo sia il marxismo e le sinistre mondiali - ma
anche i totalitarismi e le teocrazie, e
la democrazia, e anche le religioni e
ogni «visione del mondo» e «ideologia»... - si sono illusi e si illudono tutt’ora di servirsi
della tecnica. Ma che cosa vuol dire
questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte
quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure
l’incremento del profitto privato,
oppure l’eguaglianza democratica ecc.)... Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del
capitalismo per quanto riguarda il
rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simone Weil diceva che
il socialismo è quel reggimento politico
in cui gli individui sono in grado di
controllare la macchina tecnologico-statale-militare- burocratico-finanziaria ecc.. L’«individuo» -
come il «capitalista» - si illude di
poter controllare l’apparato
tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione... R. Una prospettiva che dovrebbe poter
contenere tutti i possibili... 336
S. Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della
sopravvivenza dell’uomo - ed essendo la
condizione perché la terra possa esser
salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione - è destinato a diventare la
dimensione che va sommamente e
primariamente tutelata; e tutelata nei
confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare
i diversi scopi «ideologici», per quanto
grandi e importanti siano per chi li
persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene,
capitalismo, sinistra mondiale,
democrazia, religione, e ogni «ideologia» e «visione del mondo», ogni movimento e processo sociale
diventano qualcosa di subordinato,
diventano essi un mezzo per realizzare
quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale
potenza... Perciò spesso dico che la
politica vincente, la «grande politica», sarà
delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica... La grande politica è la crisi
della politica che vuole servirsi della
tecnica. Andiamo in una direzione dove,
dunque, anche le sinistre - e il capitalismo, e tutte quelle forze in campo che ho menzionato - saranno
costrette a rinunciare ai propri scopi e
diventeranno esse i mezzi di cui la tecnica si
serve. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o «alienazione», come invece spesso si ripete,
dove l’uomo diventerebbe uno «schiavo»
della tecnica; perché in tutta la
cultura - anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo - l’uomo è sempre stato inteso come
essere tecnico. Le sto descrivendo il
futuro: non prossimo, ma neanche remoto.
Certo, un futuro in cui anche la tecnica sarà
destinata a rendere conto della sua primazia, ma non dovrà renderlo alle forze che ancora si servono di
essa ma che sono forme deboli di
tecnica. In questo senso appunto parlo da
337 decenni di inevitabilità
del tramonto del capitalismo. R.
Professore, mi permetta un’obbiezione. Già oggi la tecnica, da mezzo, sempre più sembra imporsi
come scopo... E - ne abbiamo parlato
poco fa - mi pare che in questa funzione
stia dando prove quanto meno discutibili...
S. No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica
- è il modo, ad esempio, in cui in
Giappone sono state organizzate le centrali
nucleari: e lì non c’entra la tecno-scienza, ma la gestione capitalistica di essa, che per il profitto ha
sottovalutato la pericolosità di quel
tipo di centrali. (Debbo però aggiungere -
ma anche qui chiudiamo subito il discorso - che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica
tecnicisticamente o scientisticamente intesa,
ma quella che riesce a sentire la forza
della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono esistere limiti assoluti
all’agire dell’uomo.) R. Rimane il fatto che le tecniche, anche le
più avanzate e intelligenti, le più
utili persino, finiscono per essere nei
confronti dell’equilibrio ecologico «naturale» delle continue aggressioni, o quanto meno delle
minacce... S. Di nuovo rispondo di no,
e che è la volontà di profitto a
rischiare oltre il livello di rischio denunciato nelle previsioni tecno-scientifiche. R. Ma non è la volontà di profitto a
generare, o almeno a favorire, la
creazione di tecniche? S. Sì, le ha
favorite (e in qualche caso generate), ma allo
scopo di favorire sé stessa. Ora sto dicendo che questo scopo è destinato al tramonto. R. Resta però il fatto che molti istituti scientifici,
anche di largo prestigio, vivono in
quanto finanziati da grandi potentati
economici... E questo in qualche misura significa 338
condizionarli... S. Certo,
questa è la situazione attuale. Ma la tendenza
globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi inevitabile che, a un certo momento, chi
condiziona si renda conto di non poter
più continuare a farlo, perché, alla fine,
condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la tecnica per promuovere sé stessi è indebolire
sé stessi... R. Si diceva che le
sinistre - a parte l’impegno per la difesa
del lavoro - non dicono, né propongono cose gran che diverse dalla destra. Il marxismo un tempo
aveva uno sguardo ben più ampio di
quello che hanno le sinistre oggi...
Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era l’ Internazionale... Tentare di guardare un
po’ più lontano... Cercare di allargare
lo stesso discorso sul lavoro, non
potrebbe portare a una proposta alternativa? S. Questo allargamento va imponendosi da
solo. Infatti non si può separare il
lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì,
come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi si sente dire a proposito dei problemi più
importanti: «Non è questione né di
destra né di sinistra, è una questione tecnica». È un piccolo indizio del processo dove le
soluzioni tecniche prevalgono su quelle
politiche e «ideologiche». R. Mi riesce
difficile seguirla... la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal
capitalismo... S. Questo è lo stato
attuale che il mondo capitalistico
vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che
i servi si liberassero dei padroni. La
liberazione decisiva, rispetto alla
quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale.
R. In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica...
339 S. Sì. O meglio: è la
logica del discorso a vederla. R. Una
tecnica che - insisto - porta alla devastazione della terra...
S. Se la tecnica continua a essere gestita dal capitalismo, sì. Ma - insisto anch’io - sarà il capitalismo
stesso ad accorgersi che devastando la
terra devasta sé stesso (e cambiando rotta,
cioè scopo, si distruggerà egualmente).
R. È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce contro la salvezza dell’umanità... Non crede
che in tutto ciò esista qualche
responsabilità anche da parte delle sinistre?
Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no? S. Ma il discorso che vado facendo da molto
tempo indica qualcosa che sta al di
sopra delle esortazioni, delle
mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un movimento che procede per conto proprio,
guidando e animando la volontà così
come, si sa, la struttura del capitale
domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva appunto che i singoli capitalisti sono le
prime vittime del capitale. Ecco, si
tratta di capire il modo in cui la tecnica
prende il posto del capitale. R.
Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in qualche modo, come dire... operante e
avvertibile? Oppure si tratta per ora
soltanto di un’ipotesi filosofica? S. È
una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non «soltanto»
ipotetico) di fare filosofia. Per essenza
la filosofìa si riferisce all’autenticamente
operante e avvertibile. R. Cambiando
discorso. Lei ha dedicato un suo recente
articolo, apparso sul «Corriere della Sera», al modo in cui il Nordafrica va cambiando. Non crede che forse
proprio dal Sud del mondo, non ancora
interamente assimilato alle logiche e ai
«valori» del capitalismo, possa muovere una
340 critica, e magari una
messa in crisi della cultura dominante? È
qualcosa su cui più volte m’è capitato di riflettere. Ad esempio quando un anno fa, in Bolivia, durante il
Social Forum di Cochabamba, un gruppo di
«campesinos» lanciò uno slogan che
diceva: «Non si tratta di cambiare il clima, bisogna cambiare il sistema»; aprendo un orizzonte
enormemente più ampio di tutte le altre
«parole d’ordine» correnti, che
insistevano soprattutto sui mutamenti climatici, e di fatto denunciando un rapporto Nord-Sud che per
mille aspetti ampiamente si attiene alle
logiche del capitalismo, e le impone. È
solo un episodio, ma non crede che proprio da
questi mondi potrebbero partire spinte decisive alla messa in crisi delle logiche politiche dominanti? S. Be’, il fatto che questi popoli vadano
riproducendo il modello occidentale
dimostra che l’Occidente ha raggiunto la
prospettiva più radicale: la destinazione della tecnica al dominio. Questi popoli stanno ripercorrendo
l’itinerario compiuto dall’Occidente...
L’autentico «cambiamento di sistema» è
quella destinazione. R. Professore,
certo è incapacità mia di seguirla fino in
fondo... Ma più volte m’è capitato di riflettere, e anche di scrivere, in libri dedicati appunto alle
questioni ambientali, su questo
crescente prevalere della tecnica sui modi e i ritmi della natura... Spesso citando quello
straordinario libro, firmato dal grande
biologo americano Stephen J. Gould, che
si intitola Gli alberi non crescono fino al cielo : una critica dell’intera vicenda umana, tutta centrata su
una impossibile sfida alla natura. Nella
quale peraltro sempre è evidente il
senso di colpa... E infatti Icaro, Prometeo, i Giganti, Ulisse... tutti sempre vengono puniti... La tecnica,
nella mitologia, è colpa... E lo è la
scienza in assoluto, si direbbe, se si pensa ad
Adamo ed Èva, cacciati dal paradiso terrestre per aver gustato il frutto dell’albero del sapere... 341
S. Onorevole, non solo Lei segue benissimo, ma continua a proporre spunti estremamente
interessanti. Quando parlo in termini
«positivi» della tecnica, ne parlo nel
senso che essa va ritenuta la forma più rigorosa della più radicale follia in cui l’uomo è caduto. Non
intendo affatto fare l’apologià della
tecnica ma intendo dire che l’errore, la follia, vanno progressivamente facendosi più rigorosi
e coerenti... Pensi al discorso di
Freud, che la religione è quella follia -
grande, rigorosa follia - che assorbe e rende coerenti tutte le forme di follia dell’individuo... Nella
tecnica l’errore è destinato a diventare
massimamente rigoroso. L’errore nasce
con l’uomo, è la volontà di potenza. Ma bisogna saper dire perché lo sia... Non lo sanno dire né i miti
né le altre forme della sapienza umana.
È vano combattere e incolpare Prometeo,
«che ha dato tutte le tecniche ai mortali», con
strumenti che sono forme deboli di tecnica. Anche il capitalismo, il marxismo, il cristianesimo,
l’islam, il totalitarismo, la democrazia
ecc. sono forme deboli di tecnica. Ma
con ciò non intendo dire che la tecnica sia la verità. No. È la forma più radicale dell’errore. Che però
sembra la forza più potente... R. Una volta ancora non posso non apprezzare
il suo pensiero... Non riesco però a non
domandarmi se non ci sia nulla da fare,
o per accelerare questo processo portandolo a
una soluzione, o in qualche misura per mitigarne la distruttività. Sono tante ormai le persone
che si preoccupano per il futuro di un
mondo per mille versi sempre più
problematico e rischioso... Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati... A tutti costoro
che cosa si sentirebbe di
consigliare? S. La ringrazio. Per ora
siamo gettati nell’errore; ma proprio
per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il 342
processo che porta l’errore a maturazione. Ecco perché parlavo prima della «grande politica». Per
praticarla è necessario incominciare a
guardare in faccia il senso essenziale
della storia dell’Occidente, il senso cioè della volontà di potenza: il senso del fare. * -
Intervista fattami da Carla Ravaioli e pubblicata sul «manifesto» nel luglio
2011. 343 Al capitolo V 12. Non veritas, sed auctoritas facit
legem- Per considerare il rapporto tra
«processo» e «tecnica» si può certo
rimanere alFinterno della specializzazione
giuridica. Ma - chiediamoci - è ancora specializzazione Patteggiamento che non riflette sul senso
della specializzazione? Si vive in una
nave - la si vive come nave - quando non
si sa che cosa sia una nave? Certamente no. E
d’altra parte, riflettendo sul senso della specializzazione si è ancora alFinterno di essa? (Si profila così
un’antinomia, che può essere il sintomo
del carattere contraddittorio della
specializzazione.) Ma, qui, non svilupperemo questo aspetto, peraltro fondamentale, del discorso. La tecnica riguarda il «processo» in
relazione, innanzitutto, ai limiti entro
i quali le competenze tecnico-scientifiche
devono mantenersi nel determinare l’evoluzione e il compimento delle procedure giudiziarie. In
questo caso, le competenze tecniche
(mediche, psicologico-psichiatriche,
chimico-fisiche, urbanistiche ecc.) servono da strumento - da mezzo - per quello scopo che è la conduzione
e il compimento del «processo». A sua volta, il «processo» stesso, come
fatto giuridico, è scomponibile in un
momento tecnico-strumentale e in un
momento che è lo scopo di tale strumentazione. Momento tecnico-strumentale è, ad esempio, la
formazione dei magistrati, e in genere,
dell’organico, e il modo in cui sono
formalizzate le regole in base a cui il processo si svolge; lo scopo è la verifica dell’applicazione della
legge in rapporto ai casi intorno a cui
verte il processo. Ma, daccapo, lo
scopo di una società non è quello di
verificare se la legge sia applicata: lo scopo è che la legge «viga». Affinché viga è necessario verificare
se ciò avvenga. E 344 questo significa che la verifica giuridica
si dispone a sua volta come strumento,
come mezzo per la realizzazione di quello
scopo che è il «regno della legge» nella società. Questo rinvio, il triplice rinvio qui sopra
sommariamente indicato, dove lo scopo si
dispone come strumento di uno scopo
superiore, ha un prolungamento decisivo, che riguarda il concetto stesso di «legge», sottoposto a
una profonda trasformazione, dove
l’atteggiamento giusnaturalistico,
proprio della tradizione occidentale, viene spinto al tramonto dall’atteggiamento giuridico che è proprio
del diritto positivo. E, anche qui, si
tratterà di comprendere l’ultima sezione di
questo capitolo che in tale tramonto il regno del diritto è a sua volta destinato a diventare, da scopo della
verifica giudiziaria, mezzo, cioè
strumento di uno scopo - la tecnica - verso il cui dominio il pianeta sta procedendo. A partire dal pensiero greco, e lungo la
tradizione occidentale, in cui il
giusnaturalismo si inscrive, non
auctoritas, sed veritasfacit legem. La «verità» è il fondamento, il principio ispiratore della legge. Lo ius è
dato dalla natura delle cose; e la
verità è il luogo in cui tale natura mostra il
proprio volto autentico. Il popolo greco porta alla luce, dopo i millenni del mito, un senso inaudito della
Verità: la Verità come sapere
incontrovertibile che mostra, manifesta (e
pertanto è alétheia) un contenuto che non si lascia smuovere, un contenuto che sta e appunto per questo è
chiamato epistéme ( epi-stéme ). La
Verità mostra l’ordine immutabile al
quale lo Stato (e il singolo) deve adeguarsi. Lo Stato si adegua alle leggi che si fondano sulla Verità che il
sapere filosofico ha portato alla luce e
alla quale si commisura la stessa rivelazione
cristiana. Anche nell’Europa medioevale e moderna lo Stato (e l’individuo) è misurato dalla sua
adeguazione alla verità, in quanto
principio ispiratore della legge. Il valore della legge non è dato dalla pura forza, ossia da un
auctoritas che sia pura 345 forza, ma dalla sua dipendenza dalla
verità. Ma dopo questa grande epoca
della civiltà occidentale, dove verità e
legge formano una unità indissolubile, si fa
innanzi con sempre maggior forza il principio opposto, per la prima volta enunciato da Hobbes: non veritas,
sed auctoritas facit legem. È il
principio del diritto positivo, che acquista il
proprio compiuto significato quando prenderà le distanze dal contesto in cui viene formulato nella
filosofìa di Hobbes - in una filosofia
cioè dove, nonostante tutto, resta ancora fermo il senso di fondo che il pensiero greco ha
conferito alla «verità». La transizione
dal giusnaturalismo al prevalere del diritto
positivo, ossia al positivismo giuridico, è un episodio emergente del grandioso processo
storico-critico, in cui la tradizione
dell’Occidente viene abbandonata dal pensiero, e pertanto dall’agire umano, e soprattutto e
fondamentalmente dal pensiero filosofico
degli ultimi due secoli. Poiché il diritto
positivo non si fonda su alcuna «Verità» assoluta, ed è positivo perché «pone» ciò che la volontà
sociale dominante (del sovrano,
dell’eletto rato, di una oligarchia economico-
politica) vuole di volta in volta come legge, il processo giudiziario che si sviluppa alfinterno di
questa forma di legge è compatibile con
qualsiasi tipo di contenuto giuridico, di
natura democratica o no. D’altra
parte, la transizione al positivismo giuridico è analoga a quella che conduce dalle varie
forme di totalitarismo alla democrazia
del nostro tempo, che definisce sé
stessa come semplice «procedura», che di per sé non propone o impone alcuna «Verità» assoluta ai
cittadini ed è pertanto compatibile con
qualsiasi contenuto sollevato al rango
di legge dalla maggioranza dell’elettorato. Ora diventa radicalmente fondata - e inevitabile,
all’interno della storia dell’Occidente
- l’affermazione che non veritas, sed auctoritas 346
facit legem. Il fenomeno, grandioso,
di cui la transizione al positivismo
giuridico e alla democrazia sono aspetti particolari - e molti altri potrebbero essere menzionati - conduce
al di là delle forme essenziali della
tradizione occidentale. È il fenomeno
che Nietzsche ha chiamato «morte di Dio» - sì che il passaggio dal giusnaturalismo al positivismo
giuridico è la morte di Dio in ambito
giuridico -, è la morte della forma
assunta da Dio nella dimensione del diritto. Diciamo che quel fenomeno è grandioso, non solo per le sue proporzioni,
cioè per il suo aver investito ogni
aspetto del pensiero e dell’agire
tradizionali, ma anche perché si presenta secondo una inevitabilità (cfr. sezione prima, cap. V),
per la quale tale fenomeno non è
semplicemente un cambiamento di opinioni
da parte della società e dei suoi membri. Solo cogliendo il senso di questa inevitabilità si può
comprendere che oggi l’uomo non può più
cercare la propria salvezza volgendosi
verso la grande tradizione dell’Occidente - e dunque verso il modo in cui all’interno di essa viene
realizzato e praticato il diritto.
Certo, l’inevitabilità di cui stiamo parlando è
l’inevitabilità del tragico; ma non le si possono voltare le spalle per il semplice fatto che non va
incontro a certe nostre
aspirazioni. 347 13. Guerra fredda e corruzione L’espressione «dietrologia» è screditata. Ma
può essere un sinonimo del concetto
scientifico di «ipotesi»: l’«ipo-tesi»
esplora ciò che «sta al di sotto» di quanto si manifesta comunemente o immediatamente. Al di là del
senso screditato della dietrologia,
l’ipotesi scientifica ha cioè un
carattere essenzialmente «dietrologico». Nemmeno quel tipo di disciplina scientifica che è il diritto
può evitare di formulare ipotesi, ossia
di andare al di là di ciò che
comunemente appare e che viene chiamato «il fatto». Gli estimatori del «fatto» - anche tra i non
giuristi - collocano spesso l’attività
giuridica in un ambito improprio; cioè
la considerano come la dimensione all’interno della quale «il fatto» riceverebbe uno dei più validi e
autentici riconoscimenti della sua
importanza e del suo carattere decisivo.
Tuttavia è nota la tesi di Karl Popper, per la quale la struttura del processo giudiziario è il
modello dell’attività scientifica.
Certo, egli non fa che trarre un corollario dalla tesi di Nietzsche, che non esistono «fatti», ma
solo «interpretazioni». Ma tale
corollario significa che alla base della
scienza non esistono fatti, ma interpretazioni, e che tale circostanza rispecchia la struttura del processo
giudiziario, sì che quest’ultimo - lungi
dal presentarsi come il luogo in cui i
«fatti» sono posti al di sopra di tutto, come fondamenti indiscutibili - è inteso invece come il luogo
che si fonda su «interpretazioni»
rivedibili e falsificabili. Gli
estimatori dei «fatti», che vedono nell’attività giuridica la più autentica valorizzazione dell
’infallibilità dei «fatti», non si
rendono conto che la scienza riconosce ormai senza complessi la propria fallibilità e che quando
intende chiarirne il senso si riferisce
proprio e precisamente all’analogia che
sussiste tra procedura scientifica e procedura giudiziaria. 348
L’analogia può essere così espressa: il sistema delle leggi scientifiche viene commisurato a un insieme
di elementi che non sono «fatti», ma
«interpretazioni» di fatti; cioè risultati di
decisioni che un gruppo qualificato di individui stabilisce di assumere come base (o come fatti) del sapere
scientifico, in modo analogo alla
commisurazione per la quale nel processo
giuridico il sistema delle leggi viene applicato non a «fatti» incontrovertibilmente accertati veri, ma alla
decisione di un gruppo qualificato di
assumere un insieme di eventi come
qualcosa di effettivamente accaduto. Il «veramente» accaduto è inesistente. Esiste veramente la decisione
di assumere qualcosa come il veramente
accaduto. Anche per questo motivo la
storia di un popolo non può essere ricostruita in sede giudiziaria, appurando i «fatti». Comunque, anche questa crisi della verità
del «fatto» appartiene al processo, a
cui prima ci si è rivolti, che conduce
al tramonto inevitabile della tradizione e della tradizione giuridico-politica dell’Occidente, la
tradizione dove il «giudice» è colui che
«mostra con autorità» la Verità -
«giudice» essendo parola composta da ius e dalla forma congetturale dix, riconducibile alla radice
indoeuropea deic, che indica appunto il
«mostrare»; sì che l’autorità del giudice
gli deriva dal suo rapporto con la verità. È aH’interno della transizione inevitabile
di cui stiamo parlando - cioè dalla vita
alla morte della Verità e di Dio - che
assume un significato particolarmente rilevante anche il tema della «corruzione» della società
italiana e del conseguente conflitto tra
magistratura e potere politico. In base
a una logica diversa da quella che intende «appurare i fatti», cioè in base alla logica
dell’interpretazione, è possibile
affermare che nella seconda metà del xx secolo è stata combattuta una lotta mortale tra capitalismo
e socialismo reale, una lotta senza
esclusione di colpi. Una situazione,
349 questa, che, ovviamente,
ha costretto ognuno dei due antagonisti
a tenere nascosto all’altro l’organizzazione delle proprie forme di offesa e di difesa. Anche le
società democratiche, dunque, sono state
costrette, per evitare il suicidio, ad
adottare questa strategia. Le democrazie
parlamentari sono state cioè costrette ad agire in modo non democratico, giacché «democrazia» e
«trasparenza» (e dunque quella
trasparenza che avrebbe messo la democrazia
nelle mani dell’avversario) sono inseparabili. La trasparenza democratica è il carattere pubblico delle
decisioni essenziali di una società; e
la democrazia, per sopravvivere, non poteva
rendere trasparenti i propri piani di difesa e di offesa contro il socialismo reale. Ma questo clima di non trasparenza, di
occultamento e di privatizzazione delle
decisioni essenziali delle società
democratiche era il terreno in cui non poteva non attecchire la corruzione. L’illegalità di alto profilo politico,
cioè la necessità che per sopravvivere
la democrazia agisse in modo non
democratico, ha prodotto l’illegalità di basso profilo, cioè la corruzione per ottenere vantaggi privati,
che ha accompagnato gli anni della
guerra fredda (che si è prolungata sino
ai nostri giorni e anche in futuro alimenterà il conflitto tra politica e magistratura)
soprattutto in Paesi come l’Italia, più
esposti al pericolo comunista sia per la loro
posizione geografica sia per la consistenza dei movimenti politici che in tali Paesi erano guidati
dall’Unione Sovietica. La fine di quel
gigantesco fenomeno che è stato il
socialismo reale - una fine che a sua volta appartiene al tramonto della tradizione occidentale - non
ha lasciato il vuoto: sul terreno ha
lasciato un gigantesco cadavere, con il
quale ancora a lungo si dovranno fare i conti. Lo dicevo già, più di una quindicina d’anni fa, ben prima
cioè che esplodessero i disordini nelle
ex repubbliche dell’Urss. 350 (Infinitamente più complessi di quelli,
pur consistenti, che si devono fare
quando un capofamiglia autoritario se ne va
all’altro mondo.) Durante e dopo
la «guerra fredda» c’è stato qualcuno che,
pur di combattere il comuniSmo, ha agito illegalmente; e qualcuno che invece, pur di trarre vantaggio
personale da azioni illegali, ha
combattuto il comuniSmo. È stata cioè di
alto profilo politico l’illegalità che la democrazia è stata costretta a praticare per combattere il
comuniSmo e per la quale la democrazia
si è avvantaggiata, ad esempio, dell’aiuto
di forze illegali ma sicuramente anticomuniste. (Molto più sicuro, dal punto di vista anticomunista, il
sistema mafioso che non i partiti della
sinistra italiana.) Anche la «corruzione»
italiana (ma il discorso può essere esteso ad altri Paesi dell’Occidente democratico) è dunque una
conseguenza della morte inevitabile
della verità, del diritto naturale, di Dio. Da
un lato il sistema democratico, per sopravvivere, si è posto consapevolmente in contraddizione con sé
stesso; dall’altro lato, ha sopportato
l’immoralità privata come tributo da
pagare alla sicurezza dello Stato democratico. Ed entrambi questi due lati si costituiscono perché, a
differenza degli Stati totalitari, o
«etici», del fascismo, del nazionalsocialismo, del socialismo reale (che sono una versione
secolarizzata e distorta del divino), la
democrazia non crede più nell’esistenza
di una «Verità» che regoli la vita sociale e
individuale e che non possa essere in alcun modo violata. Come il giusnaturalismo sta al positivismo
giuridico, così lo Stato totalitario,
persuaso di possedere la Verità e di dover
adeguare a essa la società, sta alla democrazia che si lascia la Verità alle spalle e si propone come
procedura di per sé indifferente alla
verità o falsità dei contenuti. Lo
stato di cose che ho or ora indicato - e che a sua volta si presenta con i tratti dell’inevitabilità - dà
luogo a un 351 dilemma.
Da un lato il sistema vincente è stato la democrazia, o, meglio, il capitalismo, in quanto unito alla
democrazia parlamentare. Esso ha vinto
il nemico mortale. È una forza che non
può quindi rassegnarsi a essere sottoposta al
controllo giuridico dei suoi atti - cioè a un controllo che non può tener conto, in quanto giuridico, della
situazione storica eccezionale in cui il
capitalismo democratico è venuto a
trovarsi. È presumibile che, se questo controllo fosse condotto fino in fondo, il capitalismo italiano (e non
solo) vedrebbe minacciata la propria
sopravvivenza. Quando, dopo la seconda
guerra mondiale, il fascismo è caduto, Togliatti ha evitato che la burocrazia fascista - che in
quanto funzionale allo Stato fascista
aveva agito in condizioni di illegalità - fosse
incriminata e giuridicamente perseguita. E si trattava di incriminare chi aveva perso; non, come invece
è il caso della democrazia capitalistica,
chi ha vinto lo scontro mortale e
ritiene un’ingiustizia essere punito per un’illegalità funzionale alla vittoria. Come incriminare certi nodi
cruciali dell’assetto capitalistico vincente,
operando con criteri giuridici che si
fondano sul principio fiat iustitia et pereat mundusì Ma, dall’altro lato, non può essere
dimenticata la situazione drammatica del
giudice consapevole della propria funzione,
perché a sua volta egli è e si sente obbligato a procedere contro tutto ciò che gli appare come
illegale. Sembra che sino a che in
Italia non si farà luce su questo dilemma e non si prenderanno le decisioni richieste per
operare una chiara distinzione tra
illegalità di alto profilo politico e illegalità di basso profilo, si perderà anche di vista che
lo scontro attuale tra politica e
magistratura è l’epifenomeno di una frattura ben più profonda - che tuttavia non è qualcosa di
statico, ma è in evoluzione, come ora
proverò a precisare, ossia si trova
anch’esso su un piano inclinato che porta al tramonto tutto 352
quanto si muove lungo di esso.
353 14. Conflitti di
retroguardia Ho iniziato queste
riflessioni mostrando una sequenza dove
ciò che dapprima si pone come scopo, diventa in seguito mezzo e strumento. Si era detto che nella
tradizione occidentale (ma ormai ogni
altra sapienza appartiene alla
preistoria dell’Occidente) il regno della legge, fondato sulla Verità, è lo scopo della vita sociale e
individuale. Ma la Verità tramonta.
Restano, tra l’altro, una politica e un diritto che sono entrambi «positivi». Ogni sapere e ogni
azione ormai sono «positivi» - o è in
quanto «positivi» che essi guidano la
storia del mondo che gli epigoni del sapere e dell’agire tradizionale tentano ancora di adeguare alla
verità. Ogni grande forza oggi ancora
in vita (sia essa una forza della
tradizione o una forza che alla tradizione ha ormai detto addio) ha questo tratto comune: di servirsi
della tecnica. Ognuna intende servirsi
della tecnica, che è lo strumento più
potente oggi esistente. Anche la dimensione politica e la dimensione giuridica intendono servirsi della
tecnica. Ma la tecnica guidata dalla
scienza moderna è destinata a diventare,
essa, lo scopo di tutte queste forze.
Ciò significa che tende a diventare obsoleta anche la conflittualità che contrappone le une alle
altre: dopo il socialismo reale, il
capitalismo, la democrazia, il
cristianesimo, l’islam, il nazionalismo, le diverse forme di umanesimo laico, e la stessa ideologia
scientistico-tecnicistica (che non è più
capace delle altre forze di cogliere l’essenza
autentica della tecnica). Ma intanto va richiamato un principio di cui spesso ci si dimentica, e
cioè che lo scopo di un’azione determina
e stabilisce il senso e la configurazione di
essa; sì che essa diventa qualcosa di diverso da ciò che essa era, se viene ad assumere uno scopo diverso
da quello che inizialmente la definiva e
stabiliva. Un diritto, o una 354 democrazia, che si pongono come scopo
della tecnica sono qualcosa di
essenzialmente diverso da un diritto, o da una
democrazia, che hanno come scopo la tecnica e che si costituiscono come mezzi per la realizzazione
di tale scopo. Una situazione
conflittuale, come quella che sussiste tra le
forze di cui stiamo parlando, richiede che ognuna di esse miri non solo al potenziamento crescente dello
strumento - la tecnica - di cui si serve
per imporre i propri scopi su quelli
antagonisti, ma anche a non intralciare il funzionamento ottimale di tale strumento. Altrimenti
soccombe. Ma quando ha di mira i due
tratti che abbiamo indicato, essa è già sulla
strada in cui, invece di assumere come scopo i propri valori, ha assunto come scopo la potenza dello
strumento che dovrebbe realizzarli.
Anche senza avvedersene, tende a uno
scopo diverso. Anche senza avvedersene, sta diventando qualcosa di diverso da ciò che essa crede di
essere. Andiamo verso un tempo in cui
non saranno più la democrazia e il
diritto a servirsi della tecnica, ma sarà la tecnica, nella sua configurazione autentica, a servirsi, se ciò
varrà ad accrescere la sua potenza,
della democrazia e del dir itto. I due
avversari che oggi si combattono - dimensione
politica e dimensione giuridica -, e la cui lotta dà luogo al dilemma che sopra abbiamo considerato, sono
pertanto destinati a riconfigurare il
loro conflitto in relazione alla circostanza
che tale conflitto tende a essere di retroguardia, cioè a non essere più una lotta tra scopi, ma
tra mezzi che hanno lo stesso scopo: il
potenziamento crescente della tecnica -
di una tecnica che non è la tecnica che intesa in senso tecnicistico, scientistico,
riduttivistico, merita di essere soltanto
un mezzo, ma la tecnica riduttivistica che tende a dare sempre più ascolto alla voce essenziale
del pensiero che porta al tramonto la
tradizione dell’Occidente. Mostrando la
morte di Dio e della «verità» tale pensiero mostra l’assenza di 355
ogni limite all’agire dell’uomo e soprattutto a quella forma suprema dell’agire in cui consiste l’apparato
scientifico- tecnologico: la forma di
volontà di potenza a cui va già
sottomettendosi ogni altra forma di volontà di potenza apparsa lungo la storia della terra. (Dopo di che sarà la volontà di potenza a
dover dar conto di sé - giacché le
considerazioni che ho sviluppato non
intendono certo sostenere che la tecnica abbia l’ultima parola.)
356 15. Tecnica e pluralità
delle tecniche 1 La gente si accorge
che le leggi difendono spesso gli
interessi dei più forti. Leggi cattive, dunque - anche se vogliono sembrare «giuste». Però la gente
crede ancora che ne sono fatte e se ne
potrebbero fare di buone. Nelle scienze
giuridiche tradizionali, «buone» e «giuste» sono innanzitutto quelle che rispecchiano la «natura»
dell’uomo: leggi, appunto, del «diritto
naturale», per il quale la «natura» dell’uomo
rispecchia a sua volta l’Ordinamento vero e divino del mondo, immutabile e inviolabile, portato alla
luce dal pensiero filosofico sin
dall’inizio della nostra civiltà e poi
interpretato dal cristianesimo.
Da uno-due secoli questa concezione giuridica è profondamente in crisi (sebbene non sia
ancora morta). Si pensa cioè che non
esista alcun diritto «naturale» e che ogni
legge esprima un «diritto positivo», «posto», «imposto» dalla libera volontà dell’uomo. Anche alla radice
di questa crisi si trova la filosofia,
quella che mostra l’inevitabilità della «morte
di Dio» e la conseguente morte di ogni «natura» che, in qualsiasi campo, intenda rispecchiare
l’Ordinamento vero e divino della
realtà. Anche il diritto (come la democrazia)
diventa pertanto semplice «procedura» in cui può essere immesso qualsiasi contenuto - quello delle
democrazie parlamentari, del
capitalismo, del nazionalsocialismo, del
socialismo reale, del cristianesimo, della grande e piccola criminalità. (La procedura correttamente
praticata può anche sopprimere sé
stessa.) Che una forza si imponga sulle altre
non dipende dalla sua «verità», ma, appunto, dalla sua forza. Con Natalino Irti, eminente giurista di
grande e rara apertura filosofica,
discuto da tempo questi problemi. Un
nostro Dialogo su diritto e tecnica è stato ad esempio pubblicato nel 2001 da Laterza. Irti ha
pubblicato in seguito il 357 volume Nichilismo giuridico (Laterza 2004),
sul quale tra i temi centrali figura una
consistente ripresa della discussione
avviatasi tra noi due. Gli sono grato della grande attenzione e stima che anche in queste pagine mostra nei
miei riguardi - anche se mi sembrava di
aver già risposto a quanto egli mi
obbietta. D’accordo con me,
sostiene che il diritto, ridotto a
procedura, è una tecnica. Tuttavia sembra che per lui «l’essenza tecnica del diritto» abbia già, di
fatto, del tutto eliminato ogni «diritto
naturale» e ogni Ordinamento vero e
divino. E invece la situazione è diversa: di fatto, il passato sopravvive. Anche se è una foglia secca
attaccata al ramo il punto è che può
persino credere di stare alla guida del mondo
- si pensi alle foghe secche che hanno determinato la vittoria di Bush alle elezioni americane del 2004. Per
questo, da parte mia, si parla di una
«tendenza» che, certo inevitabilmente,
conduce dalla tradizione alla sua distruzione - e pertanto conduce alla civiltà della tecnica -, ma che
ancora deve fare i conti con la
sopravvivenza di fatto del passato. Per
Irti, invece, il diritto è già tecnica e sono già tecnica «almeno» il capitalismo e le «discipline
fisiche e naturali». Non allunga
l’elenco perché, credo, vede che, ad esempio,
delle religioni, di certe forme dell’arte e della cultura, del comuniSmo, del nazionalismo, di larghi strati
del comportamento umano non si può
ancora dire che siano già tecnica.
Nemmeno del capitalismo lo si può dire, che, proprio perché intende servirsi anch’esso, in quanto
si serve, della tecnica, ne differisce.
Non sono già tecnica: stanno
diventandolo. Le forze del passato, che intendono servirsi della tecnica come mezzo, sono infatti sempre
più costrette ad assumere come scopo non
più i valori che esse perseguono, ma
l’efficacia del mezzo di cui si servono per realizzarli, la quale è pertanto destinata a diventare il
loro scopo. 358 Ma Irti, ritenendo che tutto sia ormai
tecnica, mi dice che «la tecnica si
scompone nella pluralità delle tecniche», in
modo che la tecnica a cui io penserei si svuoterebbe di ogni contenuto. Egli non tiene ancora presente che
quando dico che la tecnica non mira «a
uno scopo specifico e escludente», ma
all’incremento indefinito della potenza, intendo che la tecnica (a differenza delle forze che mirano
a servirsi di essa) tende a far sì che
gli scopi da essa realizzati non impediscano
la realizzazione di altri scopi che aumentano la potenza disponibile. Ad esempio tende a far sì che la
produzione di farmaci che arricchiscono
certe industrie non impedisca la
produzione di farmaci non remunerativi ma indispensabili alla sopravvivenza di intere popolazioni; o
che le istanze ecologiche siano
soddisfatte evitando la catastrofe economica;
o che le condizioni della libertà e quelle dell’eguaglianza non si limitino a vicenda. Irti vede solo lo
scontro (il cui esito sarebbe
imprevedibile) tra le forze che ormai sono già
tecniche e mi obbietta che la tecnica non se ne sta al di fuori e di contro alle tecniche specifiche, come
«astratta» capacità di produzione. Io
gli rispondo che non ho mai pensato a una
tecnica siffatta e che lo scontro fondamentale è tra le forme meno potenti della tecnica e la tecnica
moderna, cioè tra le forze del passato -
fra cui il «diritto naturale» - che ancora
tentano di trattenere i loro apparati tecnici al rango di mezzi (illudendosi di dominarli), e l’inarrestabile
tendenza di questi apparati a farsi
strada e a diventare essi gli scopi di quelle
forze detronizzandole. La tecnica moderna è il nostro destino perché è la forza oggi più potente, ed è la
più potente perché avverte sempre più la
voce della filosofia. Tale voce dice che
davanti alla tecnica non esiste più alcun limite, alcuna «natura» da rispettare. Con ciò non si intende negare la presenza di
qualsiasi forma di limite. Infatti, la
tecnica si dà limiti che, pur non
359 essendo espressione del
diritto naturale, sono espressione del
diritto positivo. E se in un primo tempo anche il diritto positivo può illudersi di assumere come mezzo
la tecnica, nell’età della dominazione
del senso autentico della tecnica
nemmeno il diritto positivo può essere lo scopo che si serve della tecnica come mezzo, limitandone
pertanto la potenza. Anche il diritto
positivo è cioè destinato a diventare un mezzo
che rende possibile il maggior incremento possibile della potenza tecnica. Il diritto positivo,
peraltro, sa di non essere una «verità» necessaria,
incontrovertibile; e quindi ancor meno
della «Verità» della tradizione può avere la pretesa di porsi come scopo del potenziamento
dell’apparato scientifico-
tecnologico. 360 16. Mactare In latino «uccidere» si dice anche mactare.
Noi diciamo «mattanza». In spagnolo
«uccidere» si dice appunto matar. Ma la
parola latina mactus significa «ingrandito»,
«rafforzato», «innalzato», «glorificato». Ha la stessa radice di magnus («grande»): la radice indoeuropea
magh, che è presente anche nel greco
mechané («strumento»). Una sorta di
etimologia popolare latina sente in mactus qualcosa come magis auctus, cioè «reso ancora più grande e
più ricco». Su mactus si forma il verbo
mactare, che significa appunto
«ingrandire», «aumentare», «glorificare», «innalzare», e anche «onorare», «placare»; ed è parola specifica
del linguaggio dei riti, soprattutto di
quello del sacrificio. Mactare sposta allora
la propria mira dal dio, a cui si sacrifica ( mactare deus extis, «rafforzare» il dio con le viscere delle
vittime del sacrifìcio), allo strumento
del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora anche «uccidere», «ammazzare»: accanto a
mactare deum, compare mactare victimam.
In qualche modo il linguaggio nasconde
la violenza di cui parla; tenta di rovesciarla nel proprio opposto. Ma dai recessi dove il
linguaggio costruisce le apparenze da
cui sono guidati i mortali si deve risalire ben
più indietro. Le trasformazioni del mondo gettano nel terrore i mortali. Essi sono appunto coloro che
«vedono» le trasformazioni, cioè la
morte delle forme. Fame e sazietà,
freddo e caldo, dolore e piacere, tenebra e luce, comparire e svanire nelle costellazioni celesti, allegria
e angoscia, vita e morte; e le
metamorfosi dell’uomo in animale, insetto, pianta, roccia. Non appena il mortale si afferra a
qualcosa, fuori o dentro di sé, le cose
gli diventano altro da quello che sono.
L’altro in cui si trasformano è l’imprevisto, dunque l’angosciante. Ci si difende dall’angoscia
evocando come rimedio la forza più
potente e rendendosela amica: la forza
del dio. Agli occhi del popolo greco questo processo 361
incomincia a mostrarsi nella sua intensità estrema: cose, eventi, stati incominciano a trasformarsi
in quell’assolutamente altro che è il
nulla. Al culmine della storia
dell’Occidente, con la morte del vecchio Dio, si crede che la tecnica sia la forza più potente, cioè il
dio, il rimedio efficace contro
l’angoscia del divenir altro. La storia della fede nel divenir altro è la storia della Follia più
profonda. Quella in cui si ha fede che
una cosa sia il proprio altro, ossia ciò che essa non è, e infine si ha fede che le cose - gli
essenti le cose che non sono un nulla -
siano nulla. Affinché Dio ci salvi,
bisogna che abbia forza. Bisogna che
l’uomo la custodisca e l’accresca. All’inizio del rafforzamento umano del Dio domina il sacrificio: l’uomo offre
al Dio sé stesso e quanto possiede. Poi
il Dio è rafforzato vedendo in lui, con
la filosofia, la forza che non si lascia strappare da sé, ed è quindi immutabile, eterna, e custode di
tutte le cose che nella vicenda terrena
son divenute cose morte. Anche in questo
secondo caso - e proprio con l’intento di salvarsi dall’angoscia del divenir altro - l’uomo cede
al Dio la propria eternità e
immutabilità, il proprio essere.Un Dio che uccide, dunque - sia come Dio religioso sia come quel
Dio tecnologico - che permane al di
sopra del tempo degli individui, ma
rifiutando l’eternità dal vecchio Dio. Per
sopravvivere, l’uomo si fa divorare da lui. Da quando Feuerbach mette in tensione la sentenza di
Moleschott: der Mensch ist, was er isst
(«l’uomo è ciò che egli mangia») con
Laffermazione che Gott ist was er isst (cioè che anche «Dio è ciò che egli mangia») il nesso tra ontologia
e nutrimento - e tra nutrimento,
sacrificio e annientamento - non ha più nulla
di implicito. (Cfr. in proposito il saggio di Ines Testoni II Dio cannibale, Utet 2001, uno dei contributi più
importanti in questa direzione e che
insieme si porta al di là dell’ontologia
da cui è dominata la storia dell’Occidente.) Il «diventare Dio» 362
esprime in forma positiva il diventare nulla dell’uomo. Tale divenire è infatti un «sacrificarsi» al Dio.
Hegel pensa che nella religione lo
«Spirito assoluto» veda sé come Altro, ceda
sé stesso all’Altro - al Dio, appunto. Feuerbach traduce questa tesi hegeliana pensando che è l’«Uomo» a
cedere sé stesso al Dio. In entrambi i
casi il Dio consuma l’essere dello «Spirito
assoluto» e dell’«Uomo». E anche Hegel e Feuerbach fondano l’alienazione dello «Spirito» e dell’«Uomo»
sulla fede nel divenir altro. Tuttavia, in gran parte delle immagini del
divino lo svuotamento dell’uomo che si
aliena in Dio rispecchia lo svuotamento
del Dio che crea e salva l’uomo e il mondo.
Nonostante ogni intenzione contraria anche il Dio è un divenir altro. Lo svuotamento del Dio per la
salvezza dell’uomo, che sta al centro
del messaggio cristiano, sta al centro
dei miti precristiani: la morte del Dio è creatrice del mondo. Il sacrificio del mactare victimam è
preceduto dal sacrificio dove la vittima
è il Dio (Prajapati, Dioniso, Cristo)
che deve morire per creare o salvare il mondo. E ancor prima, all’inizio del tempo umano, c’è la lotta tra
il Dio e l’uomo, dove il Dio è il
Tremendum la cui inflessibilità non lascia
vivere l’uomo, cioè lo uccide e dove l’uomo, per vivere, deve farsi largo e abbattere la divina barriera
inflessibile, ossia deve uccidere il Dio
- giacché abbattendo la barriera e facendo
sempre più arretrare il confine dell’imbattibile (e collocando Dio nell’«al di là» e infine negandone
l’esistenza) l’uomo uccide il Dio
originariamente omicida (Cfr., ad esempio, E.S., L’intima mano, Adelphi 2010, IV, 1-2). 363
17. Ancora su «L’anello del ritorno»
Particolarmente interessanti i rilievi critici rivolti a L’anello del ritorno da Vincenzo Vitiello e Francesco
Totaro. Qui rispondo brevemente solo ad
alcune delle obbiezioni sollevate (Cfr.
gli atti del convegno su Nietzsche tenutosi nel 2004 all’università di Macerata). Riprendendo un problema già sollevato in
quel libro, Vitiello osserva (pp.
131-132) che la volontà, che nella
dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale rivuole il già voluto, «non vuole al modo del precedente volere», e
quindi ciò che ritorna non è l’uguale,
ma un che di diverso. L’interpretazione
dell’eterno ritorno data in quel libro non riuscirebbe quindi a mostrare l’inevitabilità di tale dottrina. Ne
L’anello del ritorno si rispondeva
anticipatamente a questa obbiezione (p. 258)
dicendo che il ritorno dell’uguale non può essere il ritorno dell’assolutamente identico, appunto perché
un qualcosa differisce dal ritorno di
tale qualcosa. D’altra parte, Nietzsche
fonda la necessità che tutto ritorni; e Vitiello non prende posizione rispetto a questa fondazione, ma si
limita a indicare l’assurdo che
scaturirebbe qualora la si accettasse. Tuttavia, per Nietzsche tale necessità sussiste nel
senso che è necessario che ciò che
nell’eterno ritorno ritorna assolutamente identico sia la totalità del contenuto voluto (la
totalità che dunque è «finita»), ma non
la forma del contenuto, cioè il ritornare di
esso, il suo ripetersi. (Pertanto è necessario che tale forma, ossia Inattività» del volere cresca
all’infinito. E poiché nemmeno ogni
nuova ripetizione può costituirsi come un
«così fu», cioè come un passato immutabile e indipendente dalla volontà, è necessario che ogni nuova
ripetizione sia essa stessa eternamente
ritornante e ripetuta, eternamente
rivoluta: «l’attività è eterna», scrive Nietzsche. Il contenuto ritorna eternamente, assolutamente identico;
la forma cresce 364 all’infinito e ogni sua nuova
configurazione incomincia a ritornare,
aH’infinito, e in questo senso «eternamente» essa stessa.)
La critica di fondo sviluppata da Totaro nel suo confronto con L’anello del ritorno riguarda la tesi,
fondamentale anche in questo libro, che
anche per Nietzsche l’esistenza del
divenire - inteso come venire dal non essere e ritornarvi, da parte degli enti - è l’evidenza suprema, la
suprema verità. Nella sua forma più generale
questa tesi dice che, nel proprio
sottosuolo essenziale, il pensiero filosofico degli ultimi due secoli (e Nietzsche è tra i pochi abitatori
di tale sottosuolo) non intende essere
un semplice scetticismo, relativismo,
prospettivismo, ma intende essere anch’esso verità assolutamente incontrovertibile, ossia
intende anch’esso come verità
assolutamente incontrovertibile ciò che per
l’intera cultura e anzi per l’intera civiltà dell’Occidente è la verità assolutamente e originariamente
incontrovertibile: l’esistenza, appunto,
del divenire, inteso nel modo indicato (e
una qualsiasi forma di sapere che non intenda essere una verità assolutamente incontrovertibile è una
forma di scetticismo). Anche per
Nietzsche la «rappresentazione» del
divenire è indubitabile. Totaro invece lo nega, sostenendo che anche per Nietzsche ogni rappresentazione,
quindi anche la rappresentazione del
divenire, è «la posizione di un
permanente» cioè «una inevitabile fissazione del divenire», una negazione di esso, «un andare
controcorrente rispetto al flusso del
divenire». Sennonché - rispondo -, se per
Nietzsche tutte le rappresentazioni metafisico-teologico- morali hanno questo carattere, non tutte le
rappresentazioni lo hanno: per lo meno
non l’ha quella rappresentazione che è
la teoria delle rappresentazioni di quel primo tipo, giacché se qualsiasi conoscere avesse quel carattere,
questa teoria non potrebbe nemmeno
rappresentarsi il divenire come tale, cioè
365 come quel «flusso» che
viene «fissato», negato da quel primo
tipo di rappresentazioni «controcorrente». È indubbio che in quella teoria il divenire è e appare come
divenire, ossia è identico a sé e quindi
permanente; ma se questa identità e
permanenza non ci fossero, non ci sarebbe nemmeno divenire e, questa volta sì, il divenire
sarebbe negato e fissato nel suo non
esser divenire. Come ho già detto altre
volte, a partire da L’anello del
ritorno, il Nietzsche che si mostra nella interpretazione offerta da questo libro ha la straordinaria potenza
(insieme a pochi altri abitatori del
sottosuolo essenziale del pensiero filosofico
degli ultimi due secoli) di mostrare fimpossibilità del Senso dell’essere che guida la tradizione
metafisico-morale dell’Occidente.
Ammesso e non concesso che questa
interpretazione di Nietzsche sia insostenibile perché violerebbe le proprie regole, bisognerebbe
dire che allora (modestia invita, ma
inevitabilmente, quella straordinaria
potenza compete al Nietzsche arbitrario che appare ne L’anello del ritorno. Ho detto anche altre
volte che il «mio» discorso filosofico
dà anche una o due mani affinché il
pensiero del nostro tempo mostri tutta la potenza che gli compete - lasciandolo poi al suo destino, che
è quello di essere la forma più coerente
della follia estrema del divenir altro.
Le altre interpretazioni di Nietzsche (e dei pochi che stanno al suo passo) non mostrano questa
coerenza e potenza. Restando ad esempio
nell’ambito del convegno a cui ci stiamo
riferendo, un altro mio critico, Umberto Regina, scrive che per Nietzsche «Dio è impensabile perché
non consente all’uomo di poter “sperare”
di far suo tutto il mondo». Ma - osservo
- questo discorso non intimorisce Dio, che,
rimanendo al suo posto, può rispondere invitando l’uomo a fare a meno di queste sue speranze, come
appunto incomincia ad accadere col Dio
veterotestamentario, che a W’erimus sicut
366 dii - in cui si esprime la
«speranza» del primo uomo di far tutto
suo il mondo -, risponde deludendolo, cioè cacciandolo dal paradiso terrestre. Un Nietzsche che si
fonda su tale speranza - o sulle varie
forme di «prospettivismo» - per far
morire Dio è ben debole. Il Nietzsche de L’anello del ritorno ha invece la potenza di farlo morire per
davvero. (Per mostrare, poi, che la
filosofìa di Nietzsche non ha nulla a
che vedere con le critiche ingenue che vengono rivolte al principio di non contraddizione, ma, come
in Hegel, è una critica del modo
inadeguato di intendere tale principio, è
sufficiente pensare l’espressione «l’eterno ritorno dell’uguale» - die ewige Wiederkunft des Gleichen. Come
prima si è richiamato, ritorna
eternamente l’ identico contenuto - ritorna
«ogni cosa... e tutte nella stessa sequenza e successione», scrive Nietzsche nella Gaia scienza - e una
cosa può essere identica, la stessa,
solo in quanto non è le altre cose, ossia non
è contraddittoria: ritorna eternamente l’incontraddittorietà di tutte le cose.) 367
18. La tecnica e il sottosuolo 1
Si parla di «governi tecnici» e di «tecnocrazia». Ma il senso conferito oggi a questi termini è
essenzialmente diverso dalla più
profonda dimensione tecnica sulla quale (ancora una volta) inviterei a riflettere. I «governi
tecnici» - ad esempio quello
sperimentato in Italia oppure, a livello europeo, il governo costituitosi con l’asse
Sarkozy-Merkel - sono soltanto
epifenomeni di quella dimensione: così come
l’immoralità e l’indifferenza religiosa delle masse sono soltanto un epifenomeno della «morte di Dio»
a cui si rivolge il pensiero filosofico
del nostro tempo. Dal punto di vista
etimologico, «tecnocrazia» significa,
certamente, «il kratos (il potere) alla tecnica». Ma per lo più questo termine ha il senso di un ottativo, di
un’aspirazione o di una deprecazione: di
un esortare verso la realizzazione o di
rifiutare o far rifiutare qualcosa che si ritiene più o meno realizzabile, più o meno incombente. Si può
andare più indietro di Veblen o
Spengler: si può arrivare agli inizi
dell’Ottocento, a Saint-Simon, il quale comincia a parlare di necessità, di doverosità, di opportunità di
dare il potere alla tecnica. Invece quella più profonda dimensione
tecnica a cui mi riferisco non è in
alcun modo qualcosa a cui si invita, un
progetto, una ricetta, un’esortazione o un rifiuto, ma ha il carattere di una descrizione, di una
constatazione - che peraltro si trova su
di un piano ulteriore, e se si vuole
«astratto» rispetto a quello su cui di solito la riflessione «fenomenologica» si mantiene
(un’affermazione, questa, che
sottintende quell’elogio dell’«astratto» che Hegel invita a condividere). Nonostante abbia l’apparenza di un tema
specialistico, il discorso sulla «tecnocrazia
negli anni Trenta» coinvolge 368 qualcosa di profondamente essenziale, che
travalica i confini geografico-temporali
indicati da quel discorso, fino a
presentare, addirittura, un carattere planetario e a costituire una svolta in cui ne va delfintera tradizione
dell’Occidente e dei suoi valori. Quel
discorso coinvolge la «dimensione
tecnica», di cui abbiamo incominciato a parlare: in essa la tecnica appare come destinata al dominio del
pianeta. La descrizione e constatazione
di cui prima si è detto è descrizione di
una destinazione, cioè di una necessità. Si tratta di capire in che senso queste affermazioni
non siano un’esagerazione arbitraria e
incomprensibile, e in che senso la
tecnocrazia negli anni Trenta possa coinvolgere una destinazione di questa portata. Natalino Irti ha parlato dell’importanza di
Ugo Spirito in relazione alla situazione
italiana di quel tempo. Ma prima e alle
spalle di Ugo Spirito c’è la figura decisiva di Giovanni Gentile. Questo apprezzamento può stupire,
perché (a parte le riserve che si
possono avanzare sul piano politico) non solo si riferisce a una forma culturale che spesso
vien guardata con sospetto - cioè la
filosofia -, ma anche perché si può dire che
la filosofia contemporanea ignori quasi completamente il pensiero di Gentile (e in generale la
filosofia italiana). Ignora, però, ciò
che essa ha di più decisivo ed essenziale.
Non solo: può sembrare anche molto strano che, a proposito di tecnica e tecnocrazia, si parli
di Giovanni Gentile, visto che in Italia
il pensiero di Gentile (ma anche quello
di Croce) è stato considerato radicalmente avverso alla scienza e alla tecnica e quindi estraneo al
nuovo clima culturale postbellico. Si
tratta di capire perché questa
prospettiva è completamente fuori strada. Si incominci a rilevare che, sebbene
ignorato, il pensiero di Gentile afferma
ciò che nel nostro tempo è affermato, si può
369 dire, ovunque (sia pure
con tonalità e reazioni diverse): che
non esiste alcuna realtà immutabile e alcuna verità definitiva al di là del mondo umano. Solo che, quasi
sempre, questa affermazione non è altro
che un dogma, un presupposto che vien
dato per scontato, un’intuizione, un impulso, una fede, qualcosa che sta diventando senso comune;
laddove il pensiero gentiliano (insieme
a pochissime altre posizioni
filosofiche) è la fondazione rigorosa di tale affermazione. «Rigorosa», nel senso che è la più coerente
al fondamento che è comune all 'intero
pensiero dell’Occidente (quindi non solo
alle prospettive della tradizione filosofica, artistica, religiosa che invece affermano l’esistenza di una
Realtà immutabile e «divina», ma anche
alla prospettiva tecnico-scientifica). Tale
fondamento è la convinzione che il divenire del mondo, il trascorrere delle cose dal non essere
all’essere e daccapo al non essere, sia
l’evidenza più indiscutibile e originaria.
Gentile mostra che tale evidenza implica il divenire del Tutto. A questo punto, ciò che passa inosservato -
per chi non sa scendere nel sottosuolo
abitato dal pensiero di Gentile - è che
la negazione fondata di ogni Immutabile è la negazione di ogni Limite assoluto e inviolabile che si
innalzi di fronte all’azione dell’uomo e
quindi a quella forma dell’agire umano,
che oggi è la più potente, nella quale consiste l’agire della tecnica.
Ciò significa che, di per sé, la tecnica non può sviluppare tutta la potenza di cui è capace, ma può
svilupparla solo alla condizione che
sappia ascoltare e capire la potenza
concettuale di quel sottosuolo. È questo sottosuolo filosofico a dare potenza reale alla volontà di potenza
della scienza e della tecnica. Appunto
per questo vado ripetendo che solo
apparentemente Gentile è stato fascista e che se c’è una forma di filosofia radicalmente opposta al fascismo
essa è proprio la filosofia di Gentile.
Il fascismo infatti, come ogni regime
370 politico totalitario è uno
degli Immutabili di cui il pensiero
gentiliano ha mostrato l’essenziale impossibilità. L’impossibile è un sogno che per qualche
tempo riesce a prevalere sulla veglia,
ma dal quale è inevitabile che prima o
poi ci si risvegli. Della
fondazione gentiliana di questa impossibilità si può dare qui solo qualche cenno, formulandola in
modo che possa venire alla luce la
configurazione che è comune a tale
fondazione e a quella operata dai pochi altri abitatori del sottosuolo filosofico del nostro tempo (quali
Nietzsche e Leopardi). Gentile mostra che se esistesse una realtà
immutabile - che quindi sarebbe una
realtà esistente in sé stessa, al di fuori e al
di là della nostra esperienza, cioè del nostro pensiero, indipendente da essa (e questo è il volto che
il divino ha mostrato lungo la storia
dell’uomo) -, il divenire delle cose, il
loro uscire dal nulla e ritornarvi, non avrebbe quella «serietà» che invece gli compete per il suo essere
l’evidenza originaria e suprema.
Innanzitutto, se esistesse un Dio in cui ogni cosa è già contenuta prima ancora di essere prodotta
o creata, allora l’uscire dal nulla e il
ritornarvi, da parte delle cose del mondo,
sarebbe una semplice apparenza, non avrebbe «serietà». Ma l’uscire dal nulla e il ritornarvi è
l’evidenza e verità fondamentale (è,
questa, la suprema certezza dell’Occidente,
quindi anche di Gentile). Dunque non può esistere alcuna realtà e quindi alcuna verità immutabile e
divina, esistente al di là
dell’esperienza umana. Si può
riproporre così questo tratto decisivo della coscienza contemporanea: sulla base della convinzione
originaria che, evocata dal pensiero
filosofico, sta al fondamento non solo
delle forme religiose, della scienza moderna e di tutta la cultura occidentale, ma anche delle stesse
opere e istituzioni 371 dell’Occidente, sulla base dunque della
convinzione che le cose del mondo umano
oscillano tra l’essere e il nulla, è
impossibile che esista qualcosa di assoluto, immutabile, divino, perché esso, precontenendo tutte le
cose, avrebbe già riempito tutti gli
«spazi vuoti» che sono richiesti dal divenire,
ossia avrebbe già riempito quel non essere che (come gli antichi atomisti avevano compreso) è
necessario che competa alle cose quando
ancora non sono e quando non sono più. Un
Dio immutabile («pieno», «satollo», dice Nietzsche) e quindi una verità assoluta in cui questo Dio sia
eretto sono la Legge alla quale sia il
futuro sia il passato più lontani devono
adeguarsi, sì che l’ormai nulla e l’ancor nulla non possono più rimanere un nulla ma diventano degli
ascoltatori della Legge, cioè diventano
qualche cosa di positivo, un essere.
Questo, sommariamente richiamato, il tratto decisivo della coscienza moderna. Come già si è detto, esso
è anche la distruzione di ogni Limite
(Legge) all’agire dell’uomo e quindi
all’agire della tecnica. La legittima a oltrepassare ogni limite. La legittima quindi - essendo essa l’agire
che di fatto è il più potente nel mondo
contemporaneo - a subordinare al proprio
scopo gli scopi di tutte le forze (politiche, religiose, economiche, giuridiche ecc.) che invece
intendono servirsi della tecnica per
realizzarli. Col compiersi di tale
subordinazione quelle forze cambiano volto, tramontano. Richiamiamo ora, anche qui, e sommariamente,
la giustificazione di queste affermazioni
(rinviando ai miei scritti per il suo
senso concreto). Ci si rivolga
innanzitutto a un concetto che pur essendo
ampiamente presente anche nelle discipline scientifiche va però esplorato al di là delle prestazioni da
esso offerte in quei campi. Mi riferisco
al concetto di mezzo e di scopo. Lo
scopo di un’azione determina il modo in cui essa si 372
costituisce: ne determina il senso e l’essenza. Se si decide di uscire di casa (o di fondare un impero), il
contenuto di questa decisione fa sì che
si compiano certe azioni e non altre,
diverse cioè da quelle che si compirebbero se si decidesse di rimanere in casa. Lo scopo determina la
struttura dell’azione. Pertanto, se lo
scopo di un’azione cambia, l’azione cambia, è
un’altra azione anche se in certi casi si può credere che sia rimasta la stessa. La tecnica guidata dalla scienza moderna è
il mezzo di cui si servono o si sono
servite tutte le forze dominanti
(capitalismo, democrazia, cristianesimo, islam, comuniSmo e altri regimi totalitari ecc.). Intendono
servirsi della tecnica per realizzare i
loro scopi, cioè per realizzare, ognuna prevalendo sugli scopi delle altre, un mondo
capitalistico, democratico, comunista, islamico,
cristiano ecc. E la tecnica è il loro mezzo:
non esiste oggi uno strumento più potente della tecnica. Il teorema sul quale va richiamata
l’attenzione è che le forme di azione
che perseguono gli scopi rispetto ai quali la
tecnica moderna è il mezzo insostituibile, sono costrette ad assumere come scopo lo scopo che è proprio
della tecnica, mentre i loro scopi
iniziali sono costretti a diventare mezzi
del loro nuovo scopo. Le forze
che si servono della tecnica sono infatti tra loro conflittuali. Il capitalismo è in conflitto
con la democrazia (sia di tipo classico
sia procedurale), la democrazia procedurale
con il cristianesimo, il cristianesimo col capitalismo e col comuniSmo ecc. La democrazia intende porre
dei limiti alla volontà di profitto
privato; questa volontà non vuol farsi
limitare dal principio democratico e innanzitutto cristiano del «bene comune»; il cristianesimo e la Chiesa
cattolica in particolare riconoscono al
capitalismo il suo essere un mezzo di
produzione della ricchezza più efficace dell’economia 373
pianificata, e tuttavia gli ingiunge di assumere come scopo ultimo non il profitto privato, ma, appunto,
il «bene comune». In tale conflitto ogni forza mira quindi a
che le forze antagoniste assumano come
scopo uno scopo diverso da quello che le
definisce e per il quale esse sono ciò che sono, e cioè mira a distruggerle. Quando la Chiesa
dice al capitalismo di non assumere come
scopo ultimo l’incremento indefinito del
profitto privato, che invece deve essere soltanto un mezzo per realizzare il «bene comune», essa
sollecita il capitalismo a non esser più
capitalismo. (E questo va detto anche
riconoscendo che la Chiesa, spingendo oggettivamente il capitalismo al tramonto, non ha l’intenzione
di distruggerlo e intende differenziare
il proprio all’agire marxista-comunista,
senza peraltro riuscirvi.) Nella
conflittualità tra le forze dominanti, il mezzo di cui tutte si servono per prevalere sulle altre è
oggi la tecnica: la tecnica, intesa in
senso, per così dire, «trascendentale», cioè
come sistema dei sottosistemi (giuridico, sanitario, militare, burocratico, economico, scolastico ecc.) che
coordinano razionalmente mezzi in vista
della produzione di scopi tra loro non
conflittuali. Ma, dato il rapporto
conflittuale tra le forze dominanti,
ognuna di esse, per prevalere sulle altre e non soccombere, è costretta a rafforzare sempre di più il mezzo
di cui essa si serve, ossia la frazione
dell’apparato scientifico-tecnologico da
essa gestito. Questa volontà di rafforzamento del mezzo è crescente perché è continuamente alimentata
dalla situazione conflittuale. Questa crescita toglie spazio, dunque, allo
scopo iniziale di ognuna di tali forze;
lo scopo di ognuna di esse viene cioè
sempre più occupato dal potenziamento del mezzo. Fino a 374
essere completamente occupato, in modo che lo scopo iniziale resta subordinato al nuovo e diventa un mezzo
per la realizzazione del nuovo scopo. Ad
esempio, se lo scopo è un mondo
capitalista, allora, per realizzarlo vincendo le resistenze opposte dalle altre forze, è
necessario che il capitalismo potenzi le
possibilità tecnologiche di cui esso
dispone; ma incrementando questo potenziamento è necessario che il capitalismo assuma come
scopo non più soltanto l’incremento del
profitto, ma l’incremento del
potenziamento del mezzo tecno-scientifico. E come prima si diceva che quando la Chiesa esorta il
capitalismo ad assumere come scopo il
«bene comune» essa distrugge il capitalismo,
così ora va detto che, quando l’area dello scopo del capitalismo a un certo punto viene
completamente invasa dal potenziamento
(promosso dal capitalismo stesso)
dell’apparato della tecnica, la tecnica distrugge il capitalismo - appunto perché, assumendo uno scopo diverso
da quello da cui è definito, il
capitalismo non è più capitalismo (anche se si
continua a chiamare con questo nome ciò in cui esso si è trasformato). E non più capitalismo anche
quando l’area dello scopo capitalistico
è anche solo parzialmente invasa.
Quanto si è detto del rapporto tra capitalismo e tecnica va ripetuto anche in relazione a ogni altra
forza oggi dominante. Le forze che non
potenziano il proprio mezzo tecno-
scientifico soccombono; ma soccombono anche le forze che prevalgono perché tale potenziamento l’hanno
operato. Tuttavia il rovesciamento del
rapporto tra tecnica e forze che se ne
servono per realizzare i loro scopi dipende da una condizione decisiva. Sino a che gli scopi di queste forze sono da
esse vissuti come imposti da una
«Verità» immutabile e assoluta, esse
eviteranno di alterarli e si opporranno al loro spodestamento 375
da parte della tecnica. Ognuna di esse si farà spezzare piuttosto che piegarsi e la forza vincente
della tecnica sarà giudicata
illegittima, ingiusta, malvagia, prevaricante,
tirannica, disumana, dissennata - priva di verità, appunto. E comunque, anche se non giungeranno a farsi
spezzare, quelle forze renderanno il più
possibile difficile il prevalere della
tecnica e le imporranno, come Limiti che essa non deve oltrepassare, i valori della «Verità» in cui
esse credono. (Limiti che non sono
soltanto etico-religiosi, ma anche di
carattere diverso, come quello economico. Ad esempio il capitalismo, oltre a porre come «Verità»
assoluta e come Limiti inviolabili la proprietà
privata e la libertà di intrapresa,
proibisce alla tecnica di produrre beni che non possono essere venduti, o la cui vendita non produce un
profitto ritenuto conveniente, anche se
sono indispensabili alla sopravvivenza
degli insolventi - e tale proibizione è inevitabile se il capitalismo vuol sopravvivere.) Ma oggi la fiducia nell’esistenza della
«Verità» va tramontando. Questo è il
clima che, procedendo dall’Occidente,
sta diventando planetario - destinato com’è a
travolgere fenomeni di crescente presenza del cristianesimo nei continenti extraeuropei. (Nell’Unione
Sovietica i sacrifici richiesti ai
cittadini potevano essere sopportati quando era
più diffusa la convinzione che il marxismo fosse una «Verità» assoluta e che quindi la produzione
tecnico-economica della ricchezza
dovesse innanzitutto servire alla promozione e
difesa di tale «Verità» e non alla riduzione di quei sacrifici. Ma, quando questa convinzione è venuta meno,
è venuta meno, oltre alla disponibilità
dei cittadini al sacrificio richiesto
per realizzare la «società giusta» e senza classi, anche la disponibilità dell’apparato
tecno-scientifico a essere il mezzo per
tale realizzazione.) Ora, il fuoco
sotto la cenere del progressivo
376 allontanamento delle masse
dalla «Verità», divina o terrena, è il
sottosuolo filosofico del nostro tempo (il sottosuolo abitato da pensieri decisivi come quelli di Gentile o
di Nietzsche), dove - si è richiamato -
si mostra Yimpossibilità di ogni
Immutabile, quindi di ogni «Verità» immutabile, di ogni inviolabile Limite all’agire delfuomo e
pertanto all’agire tecnico. E tale
impossibilità è l’impossibilità che gli scopi delle forze ancora convinte di potersi servire
della tecnica siano l’adeguazione
dell’agire alla «Verità» immutabile, che ora (ma ancora, per lo più, sotto la cenere) si
palesa come un sogno. La coscienza che
l’Apparato scientifico-tecnologico ha ancora
di sé stesso è ancora cenere, la cenere che copre il fuoco del sottosuolo, e quindi tende a essere ancora
una fede nell ’inesistenza degli
Immutabili e nella «morte di Dio»; ma,
nella misura in cui quel fuoco si libera dalla cenere di tale fede, in questa misura la subordinazione
della tradizione dell’Occidente (e del
pianeta) alla tecnica è inevitabile. Si
può richiamare un ulteriore aspetto del rovesciamento per il quale il potenziamento della tecnica
diventa lo scopo delle forze che
intendono servirsi di essa. Riguarda il rapporto tra capitalismo e tecnica - il capitalismo
essendo ancora, nonostante la sua crisi
profonda, la più potente delle forze che
dominano il mondo, visto che è da essa che viene organizzata la produzione dei beni di consumo e della
ricchezza. A un aspetto soltanto di tale
rapporto qui si farà cenno. Non può
esistere capitalismo senza perpetuazione della
scarsità delle merci prodotte. Un bene di consumo totalmente disponibile non è merce, non è vendibile,
nessuno è interessato a produrlo o ad
acquistarlo. E il capitalismo,
essenzialmente legato alla perpetuazione della scarsità, si serve della tecnica per produrre merce. D’altra parte la tecnica, proprio in quanto
mezzo, ha un 377 proprio scopo fondamentale e supremo:
l’aumento indefinito della capacità di
realizzare scopi. Questo scopo non è
escludente - a differenza degli scopi delle forze che si servono della tecnica. Non è escludente anche perché
esso è un mezzo capace di realizzare gli
scopi tra loro conflittuali perseguiti da
tali forze. (Lo scopo del capitalismo è invece un mondo capitalistico e non comunista, e viceversa;
lo scopo del cristianesimo è un mondo
cristiano e non ateo ecc.) Ora, se per
sopravvivere il capitalismo deve perpetuare la
scarsità delle merci e si serve della tecnica - la quale ha peraltro come scopo fondamentale l’incremento
indefinito della potenza, ossia della
capacità di realizzare scopi -, va ora
rilevato che l’incremento indefinito della potenza implica Veliminazione progressiva della scarsità. La
situazione è cioè quella di un padrone
che si serve di un servo il cui scopo è
l’ehminazione del padrone. Il capitalismo si serve di un servo (la tecnica) che lavora per lo spodestamento
del padrone. Nella dialettica di servo e
padrone, Hegel mostra appunto che la
storia è fatta dai servi: per servire il padrone essi devono acquistare competenze, sollevandosi quindi al
di sopra di quelle del padrone;
elaborano tecniche e conoscenze
scientifiche, gestiscono e quindi si impadroniscono di quella potenza scientifico-tecnologica che finisce
per rovesciare, il rapporto feudale
servo-padrone. Ma, anche qui, il servo
può rovesciare il padrone solo se non
crede più che egli sia il portatore della «Verità» - solo se la tecnica non crede più che il capitalismo,
quindi la perpetuazione della scarsità
delle merci, sia la «vera» e
insuperabile condizione umana. La contraddizione in cui consiste il rapporto fra forze che si servono
della tecnica e tecnica si acuisce e
diventa estrema quando cioè viene in luce
che gli scopi delle forze che si servono della tecnica non hanno una «Verità» assoluta. E a portare alla
luce la morte 378 della «Verità» e di Dio non può essere la
scienza o la tecnica (che quando tentano
di farlo sono soltanto cattiva filosofia)
ma, si è visto, è il sottosuolo filosofico del nostro tempo. (Così come, d’altra parte, non può essere una fede
a rifiutare quella morte e il principio
che tutto ciò che si può fare sia lecito
farlo.) Non ci si può dunque
limitare alfawertimento che la tecnica
non ha limiti. Il sapere che dà questo avvertimento è innegabile - è il sottosuolo di cui stiamo
parlando -, solo in quanto mostra che è
sul fondamento di ciò in cui da ultimo
credono sia gli stessi difensori dei Limiti sia la tecnica stessa,
è su tale fondamento che viene affermata
l’assenza di Limiti. Da ultimo sia la
tecnica sia i difensori dei Limiti all’agire
dell’uomo credono, appunto, nell’esistenza dell’agire. Lo si crede lungo l’intera storia dell’uomo.
Si crede che le cose possono essere
smosse, controllate, prodotte, create e
distrutte. Per la prima volta il pensiero greco intende la creazione (produzione) come l’uscire dal non
essere e la distruzione come
annientamento. Pensando per la prima
volta l’«essere» e il «niente» conferisce un senso «ontologico» al creare e al distruggere. In modo sempre
più diffuso lungo la storia
dell’Occidente si crede che l’agire sia creare e distruggere in senso ontologico. Se non
credesse in questo senso della
creabilità e annientabilità delle cose, l’Occidente non esisterebbe: non esisterebbe, in esso,
azione (umana o divina o della natura),
quindi non esisterebbe nemmeno azione
tecnico-scientifica. La scienza e la tecnica credono nel senso ontologico dell’agire anche quando sono
convinte di non aver nulla a che vedere
con l’«essere» e il «niente». Nel suo
senso più alto e autentico, la tecnocrazia è l’ascolto, da parte della tecnica, della voce del
sottosuolo filosofico del nostro tempo -
della voce che, sul fondamento della
379 convinzione che l’agire
esiste secondo il senso ontologico
evocato dall’Occidente, fa sentire l’impossibilità dell’esistenza di un Limite assoluto all’agire così inteso,
che peraltro è la forma radicale
dell’agire. Nella misura in cui la tecnica dà
ascolto a quella voce (e tale ascolto è un processo in corso, che ancora fatica ad affermarsi), lo scopo della
tecnica, ossia l’incremento indefinito
della potenza, è destinato al dominio
del mondo, cioè a presentarsi come lo scopo delle forze che ancora vogliono servirsi della tecnica,
trattenendola al ruolo di semplice mezzo.
Poiché Gentile è uno dei pochi abitatori di
quel sottosuolo il tema della tecnocrazia negli anni Trenta non solo non ha carattere specialistico, ma
coinvolge, come si è già rilevato, il problema
centrale del nostro tempo: dove sta
andando il mondo? Ma, ora, si
aggiungeranno soltanto alcune sottolineature e
alcune precisazioni - rinviando al modo in cui nei miei scritti si configura l’affermazione che il mondo sta
andando verso la dominazione della
tecnica. (E comunque, si ripeta, non si
tratta di consigliare al mondo dove debba andare, ma di osservare dove è destinato ad andare. È
patetico voler dire ai popoli quello che
devono fare: si tratta invece di capire che
cosa sono destinati a valere e a fare.)
Nel suo significato più profondo la tecnica non ha nulla a che vedere con la concezione
scientifico-tecnicistica della tecnica
(e tanto meno con i «governi tecnici di cui oggi si parla). Mostrando l’inesistenza di ogni
Limite inviolabile, il sottosuolo
filosofico del nostro tempo non solo legittima la volontà di potenza della tecnica e il suo
oltrepassamento di ogni limite, ma li
rende possibili. Se non si sa di avere in
mano una spada invincibile non ce se ne serve e non si vince. Di qui (anche di qui) il carattere
radicalmente «pratico» del pensiero
filosofico, ossia di ciò che è il più «astratto». L’ascolto della voce del sottosuolo, da parte
della tecnica, è un 380 processo in atto che ancora è ostacolato
dalle voci della superficie. La voce
autentica dice che il vero tramonto degli
Immutabili è dovuto alla necessità che la loro esistenza renda impossibile quel nulla del futuro e del
passato, quel senso ontologico del
divenire che ormai ovunque è considerato
come l’evidenza suprema. La potenza della tecnica è dovuta al carattere «pratico» del sottosuolo
filosofico, non alla «praticità» del sapere
matematico (o fisico-matematico) che sta
al cuore della tecnica. Il che va detto anche se oggi questo secondo carattere è il fattore per il quale
la tecnica ha più potenza di altre
forze. Tale maggior potenza è però una
situazione storica contingente, perché se accadesse nuovamente che pregando si muovano le
montagne e le si muovano più di quanto
la tecno-scienza riesca a muoverle,
allora la tecnica non sarebbe più quella fisico-matematica ma quella pregante, destinata dunque essa al
dominio del mondo (e, certamente,
diversa da quella che si rivolge alfimmutabile
«Verità» di un Dio). Se la
dimensione economica - la più potente delle forze che si servono della tecno-scienza - domina ormai
la politica e le strutture statuali (si
pensi al peso che grava su di esse in forza
della globalizzazione capitalistica), ora è la stessa economia che sta per essere oltrepassata dalla
tecnica. Non nel senso che non esisterà
più economia, ma nel senso che, mentre per il
capitalismo la tecnica serve per incrementare il capitale, si sta andando verso un tempo in cui il capitale
servirà per incrementare la potenza
tecnica. E l’uomo? Molte, le voci che
accusano la tecnica di essere
disumanizzante. Ma che cos’è l’«uomo» nella cultura occidentale, ormai planetaria? Al di sotto
delle molteplici definizioni dell’esser
uomo agisce un tratto a esse comune - e
decisivo -, per il quale l’uomo è un centro di forze cosciente, capace di organizzare mezzi, in vista della
produzione di 381 scopi. (Anche l’uomo mistico è e intende
essere questo centro. Il mistico è
infatti il supertecnico: apre le braccia alla
suprema e infinita potenza di Dio e crede, lasciandosi invadere da essa, di poter essere
estremamente più potente deWhomofaber
spesso dimentico di Dio.) Ma la
definizione dell’uomo come centro cosciente di
forze, capace di organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, è la definizione stessa della tecnica.
E allora non si dovrà forse dire che la
tecnica è Yinveramento massimo dell’uomo,
ossia che l’uomo trova nella tecnica la propria
essenza più profonda, così come, nel tempo che precede la morte di Dio, è nella potenza, ossia nella
tecnica divina che l’uomo trova e vive
il più profondo esser sé stesso? Anche
Dio è stato l’inveramento massimo dell’uomo,
perché l’uomo, che da principio chiede a Dio di salvarlo, poi si rende conto che per essere salvo deve
essere innanzitutto salvaguardata la
potenza del Salvatore, perché se Dio diventa
un mezzo nelle deboli mani dell’uomo, bisognoso di salvezza, allora anche Dio in quelle mani diventa un
debole strumento di salvezza. Nello
stesso modo, quando l’uomo si rivolge alla
tecnica per essere salvato, e dopo averla assunta come mezzo nelle proprie mani si rende conto di poter
esser da essa salvato solo se egli non
assume come scopo la propria salvezza ma
il potenziamento dello strumento salvifico, allora egli trova e vive nella Tecnica il più
profondo esser sé stesso. E lo trova e
lo vive solo se la tecnica si è posta in ascolto del sottosuolo essenziale del nostro tempo. La discrasia tra tecnica e uomo - la
disumanizzazione dell’esistenza da parte
della tecnica - riguarda quindi le
diverse concezioni «ideologiche» dell’esser uomo, cioè l’uomo cristiano, l’uomo capitalista, comunista
ecc.; non riguarda il tratto essenziale
che è a esse sotteso. Tale tratto dice che
382 l’uomo è azione, prassi,
volontà cosciente e convinta di avere la
capacità di trasformare le cose fino a farle diventare, da nulla, essenti e, da essenti, nulla. L’uomo «ideologico» viene certamente «messo
da parte» dalla tecnica autentica, che
ascolta il sottosuolo. La tecnica non ha
come scopo il benessere o la felicità dell’uomo, ma quel potenziamento indefinito di sé stessa
che peraltro dà all’uomo più benessere e
felicità di quelli che egli otterrebbe
se essi fossero lo scopo del suo agire. Sì che egli è «messo da parte» non come tratto comune ai diversi modi
«ideologici» di intendere l’uomo, ma,
appunto, come uomo «ideologico» che, da
scopo, diventa mezzo per l’aumento indefinito della potenza tecnica. Anche la scienza e la
tecnica sono «ideologie», cioè non sono
verità incontrovertibili, ma sono le
ideologie più potenti - sebbene il sottosuolo filosofico che conferisce loro l’effettiva potenza sia,
ormai per l’intero pianeta, e più o meno
esplicitamente, la suprema e unica
verità incontrovertibile. A
questo punto è possibile intrawedere Yinizio del sentiero che conduce a un Sottosuolo essenzialmente
più profondo di quello di cui si è
parlato sin qui. Si può esprimere così tale
inizio. In quanto unita al sottosuolo filosofico del nostro tempo, la tecno-scienza non è scetticismo
ingenuo, appunto perché in questa unione
si nega l’esistenza non di ogni verità,
ma di ogni «Verità» immutabile che stia al di là di ciò che nel sottosuolo appare come l’unica verità
incontrovertibile: l’agire del divino,
dell’uomo, della natura, cioè l’oscillazione delle cose tra il loro non essere e il loro essere,
per la prima volta evocata dal pensiero
filosofico greco. Del carattere
«pratico» della filosofia che abita il sottosuolo del nostro tempo, si è già detto. Ma quella
evocazione ha un carattere «pratico»
ancora più decisivo, perché solo se si crede
383 nella disponibilità delle
cose al loro oscillare tra il non essere e
l’essere è possibile l’agire e quella forma estrema dell’agire che è l’agire in senso «ontologico». L’evocazione
greca di tale senso è il luogo nel quale
soltanto è potuta e potrà crescere
l’intera storia dell’Occidente.
Tuttavia, se ovunque si è convinti della verità incontrovertibile di quel luogo, perché tale
convinzione è verità incontrovertibile? Questa domanda suona assolutamente strana.
Non è forse ovvio, e sin dagli inizi
dell’uomo, che l’agire esiste e che le
cose vanno dal non essere all’essere e viceversa? Non si perde tempo a prenderla in considerazione? È inevitabile che sembri strana. La si
ascolta infatti stando all’interno del
luogo che da tale domanda è messo in
discussione. Ma perché è necessario rimanere all’interno di quel luogo?
384 19. Innocenza del divenire
e valore dell’uguaglianza Se spesso gli
storici del pensiero filosofico vedono gli alberi - come si suol dire - ma non la foresta, non
è certo questa una critica che si possa
muovere all’imponente e poderosa ricerca
di Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle
aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri 2002). Egli mostra come il
pensiero di Nietzsche sia potentemente
unitario e come in esso le variazioni non
siano casuali. Anche per Leopardi si è dovuto attendere molto tempo prima che lo si capisse - e non è che
oggi tutti l’abbiano capito. Sono
d’accordo con Losurdo anche
nell’individuazione del tratto o «elemento» che determina il carattere unitario del pensiero di
Nietzsche. Egli considera Nietzsche
«filosofo totus politicus», ma questa
espressione non riduce il suo pensiero alla dimensione specialistica della «politica»: all’opposto,
intende «“salvare” il filosofo nella sua
interezza», cioè nella sua volontà di
«abbracciare e comprendere la realtà nella sua totalità» e nel suo «assillo di intervenire attivamente su di
essa» (p. 900). «Solo non rimuovendo
l’elemento che l’attraversa in
profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia militante della rivoluzione e della
modernità, è possibile cogliere l’unità
del pensiero di Nietzsche e la sua interna
coerenza» ( Ibid .). Losurdo scorge che per Nietzsche la «modernità» e la «rivoluzione» hanno un
inizio lontanissimo nella storia
dell’Occidente: incominciano con Socrate; e, da
ultimo, il loro avversario autentico, al di sotto delle sue molteplici forme, è l’«innocenza del
divenire» - quella in cui forse vive il
più antico uomo greco, l’uomo dionisiaco, e nella quale intende consapevolmente abitare il
superuomo annunciato da Nietzsche. Il
divenire è innocente quando, liberato da
ogni Verità assoluta e da ogni Dio immutabile che 385
intendono assoggettarlo, è liberato anche da ogni «colpa» che gli deriverebbe dal suo non adeguarsi alle
Leggi vere e divine. Il quadro
presentato da Losurdo è tra i più fedeli e
pregevoli. Ma quando si mostra il corpo di un lottatore, la rappresentazione è concreta - ossia non è un
semplice dipinto -, quando riesce a
mostrare la forza del lottatore, cioè la sua
effettiva capacità di vincere gli avversari. Nietzsche appartiene al ristretto gruppo dei grandi lottatori che
riescono a distruggere i nemici del
divenire, i nemici che formano l’intera
tradizione dell’Occidente. La ricerca di Losurdo è quanto mai pregevole, ma ancora non dà a Nietzsche quel
che è di Nietzsche, cioè la sua
straordinaria potenza speculativa, che
esige di essere riconosciuta anche aH’interno della riflessione storica.
Per cogliere tale potenza bisogna fare i conti con coloro che a essa si sono esplicitamente rivolti. Per
esempio Heidegger. Ma qui sarebbe
modestia fuori luogo se non mi riferissi anche
a L’anello del ritorno. Sul quale inviterei Losurdo a riflettere - anche perché la scansione meno convincente
del suo libro è proprio data dal modo in
cui egli fa rientrare il tema deH’eterno
ritorno nel «Nietzsche totus politicus» che lotta per la salvaguardia dell’innocenza del
divenire. Losurdo, giustamente, dà
valore al modo in cui Nietzsche intende
sé stesso. Ma a un certo momento Nietzsche stesso ha posto al di sopra di tutte le proprie
dottrine quella dell’eterno ritorno.
Sembra che a questo fatto Losurdo non dia il peso dovuto e che, anche lui, si ritragga dal
problema. Che certo, è gigantesco: il
divenire, cioè la negazione deH’eterno, è un
ritorno eterno! Ancora non si comprende che tale dottrina non è una stranezza, ma, come Nietzsche
stesso asserisce, è quella «nuova
conoscenza» che è «necessità» suprema,
innegabile e incontrovertibile. Ma, daccapo, non basta 386
asserirlo: bisogna mostrarlo in concreto. Nietzsche l’ha potentemente mostrato, mostrando
l’implicazione «necessaria» tra divenire
e eterno ritorno. Anche lo storico ha il
compito di non nascondere tale potenza.
Soprattutto la filosofia è equivocabile. Rivolge lo sguardo verso temi che tutti credono di conoscere.
Grandi filosofi sono anche straordinari
scrittori e, tra chi li legge, si crede che
accostandosi al linguaggio letterario si abbia in mano il suo senso filosofico. Quasi sempre i mass media
comunicano «tesi», dominati dalla
convinzione che ogni tentativo di
discuterle le sbiadisca, le tolga di scena, le indebolisca. E invece c’è filosofia solo quando le «tesi»
sono radicalmente discusse, fondate,
argomentate. Si potrebbe continuare a
lungo. Bene ha fatto dunque
Luciano Canfora a riconsiderare
(«Corsera», 11/1) gli equivoci che possono nascere intorno alla filosofia di Nietzsche. Sostiene che i
grandi pensieri «hanno a che fare» con
le loro «conseguenze»; ad esempio il
Vangelo con la storia della Chiesa; Marx con l’Unione Sovietica, Nietzsche con il
nazionalsocialismo e il razzismo. Ma
quasi a parare l’obbiezione che la luce del sole ha a che fare sia con l’azzurro del cielo sia con la
putrefazione dei cadaveri, Canfora
richiama il «fatto» che in Nietzsche i valori
dell’uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo) sono rifiutati. E il «fatto» c’è
indubbiamente. Tuttavia questi valori -
che in parte sono anche cristiani -
hanno a loro volta a che fare con le loro conseguenze, tra le quali le crociate, il periodo del «terrore»
durante la rivoluzione francese, la
stessa rivoluzione sovietica e il
comuniSmo, la soppressione fisica di chi, di volta in volta, è stato ritenuto immorale. Nessuno è innocente,
nemmeno i nemici del «superuomo» di
Nietzsche. 387 È però necessario che si capisca perché
Nietzsche abbia questi nemici. Non si
può affermare che egli è un «ribelle
aristocratico» (Canfora riprende l’espressione dal libro di Domenico Losurdo) nello stesso modo in cui si
dice che il nostro calzolaio vota per
questo o quell’uomo politico (con tutto
il rispetto per i calzolai). Si deve invece capire quale fondamento filosofico abbia condotto
Nietzsche a quell’atteggiamento. Egli si
ribella all’intera tradizione
occidentale, perché ne mostra l’insostenibilità. Non vedo, ripeto da tempo, che si facciano o si siano
fatti sforzi consistenti in tale
direzione. Heidegger ha sostenuto che
Nietzsche è rigoroso come Aristotele. Sono
d’accordo. Ma si tratta di capire perché lo sia. In Nietzsche, si crede, «c’è tutto e il suo
contrario». Un eminente illogico. (Anche
Leopardi è stato trattato come un
dilettante che andava compitando la filosofìa. Il «fatto» è che quelli che lo leggevano, non capivano.) Se il
nostro calzolaio si contraddicesse come
spesso si crede che Nietzsche si sia
contraddetto, non gli faremmo più aggiustare le scarpe. Nel suo Saggio sullo Hegel, Croce, (che
giustamente è assunto da Canfora come
affidabile punto di riferimento nel problema-
Nietzsche) scrive, della Nascita della tragedia di Nietzsche: «Per quel che concerne la logica, quale
migliore propedeutica si potrebbe
consigliare di questo immaginario antihegeliano
per intendere la soluzione che lo Hegel propose del problema degli opposti?». La nietzschiana «morte di Dio» che sta alla
base del «superuomo» appartiene al
significato essenziale dello stesso
pensiero crociano, anzi di tutta la filosofia (e quindi la cultura) contemporanea. (A tale significato
appartiene anche quel Gramsci che
incautamente «sardonico» riconduceva il
«superuomo» di Nietzsche al conte di Montecristo e ai «romanzi di appendice».) Nietzsche rifiuta i
valori 388 dell’uguaglianza perché essi sono legati
al Dio che muore. Ma, soprattutto qui,
si tratta di capire perché egli annuncia la
«morte di Dio». 389 20. Rawls, Hegel, Kant John Rawls è molto conosciuto in Italia per
iniziativa meritoria di alcuni studiosi
come Salvatore Veca, Sebastiano
Maffettone e altri. Nel 1982 Feltrinelli aveva pubblicato Una teoria della giustizia, l’opera maggiore di
Rawls, e nel 2004 le sue Lezioni di
storia della filosofia morale, apparse negli Stati Uniti nel 2000. Sono una gradita sorpresa soprattutto per
l’ampia e approfondita attenzione che
dedicano a grandi figure della filosofia
moderna come Leibniz, Hume, Hegel e soprattutto
Kant. Un riconoscimento dell’importanza della filosofia, osserva giustamente Veca nella «Nota
all’edizione italiana», «non abituale
nella tradizione che per mera convenzione
possiamo chiamare analitica, entro cui la ricerca e l’insegnamento di Rawls si situano». Lo stesso Rawls riconosce «le radici
kantiane di Una teoria della giustizia»,
ma queste Lezioni si spingono sino ad
affermare che lo stesso Hegel è «un liberale riformista moderatamente progressista», che si muove
lungo quella linea del «liberalismo
della libertà» che da Kant (senza escludere
J.S. Mill) giunge a Una teoria della giustizia. Rawls può sostenerlo, perché è convinto che
«buona parte della filosofìa morale e
politica di Hegel possa reggersi da
sola», cioè indipendentemente dal suo fondamento metafisico-speculativo. E, certo, qui c’è
molto da discutere, anche perché è poi
lo stesso Rawls a coinvolgere quel
fondamento in momenti cruciali della sua interpretazione di Hegel.
È chiaro che le cose vanno invece del tutto lisce nella parte più ampia e centrale di queste Lezioni,
dedicata a Kant. Il gesto essenziale di
Kant consiste infatti nel porre la filosofia
morale e politica come, appunto, una dimensione 390
indipendente dalla metafisica. Primato della ragion pratica. Non a caso, un saggio di Rawls tradotto
recentemente in italiano da Edizioni di
Comunità è intitolato Vindipendenza
della teoria morale. Non sembra
tuttavia che Rawls risolva il problema relativo
alla genesi del teorema del primato della ragion pratica. In Kant questo teorema presuppone la critica del
sapere metafisico. Se questa critica
cade, cade anche quel teorema. Ad
esempio non si potrà più dire che 1’esistenza di Dio, f immortalità delfanima, la libertà sono
«postulati della ragion pratica» e non
verità metafìsiche. Ma Fidealismo
classico - Schelling, e Hegel in particolare -
ritiene di aver messo in luce i presupposti arbitrari e da ultimo contraddittori che stanno alla base
del rifiuto kantiano del pensiero
metafìsico. Questa convinzione delfidealismo
non è cosa da poco - e soprattutto non può esser messa da parte perché sembra trovarsi in contrasto col
sapere scientifico. Purtroppo Rawls non entra in questo tipo di
problemi. E questo può essere il limite
(del tutto comprensibile) di questo suo
magistrale interesse - per molti imprevedibile - per le grandi forme del pensiero filosofico. 391
21. Bergson e la realtà del tempo
«Possiamo riassumere la filosofìa di Bergson in una singola idea: il tempo è reale.» Lo afferma Leszek
Kolakowski alfinizio del suo studio del
1985: Bergson (Palomar dialoghi 2005,
che ricostruisce il pensiero di Kolakowski, dedicato soprattutto alla storia critica del
cristianesimo e del marxismo).
Kolakowski aggiunge subito che se l’affermazione «il tempo è reale» «non suona particolarmente
illuminante, originale o stimolante»,
essa è invece il «nucleo» di «una
visione del mondo del tutto nuova», perché «dire che il tempo è reale equivale a dire che il futuro
assolutamente non esiste» - e questa
tesi è invece stata in vari modi negata nelle forme di pensiero che credono in una qualche forma
di anticipazione del futuro. In questa
pagina Kolakowski si riferisce al
determinismo e alla fisica, ma sa bene che per
Bergson anche la concezione tradizionale del Dio onnisciente e immutabile è un modo di affermare
l’anticipabilità del futuro. L’implicazione tra realtà del tempo e
assoluta inesistenza del futuro è
indubbiamente decisiva, come appunto ritiene
Kolakowski, e conduce al rifiuto più radicale della tradizione dell’Occidente. Ma questo rifiuto che si basa
sull’esigenza di prendere sul serio il
senso del tempo, non è solo di Bergson,
bensì è il tratto fondamentale del pensiero del nostro tempo. Non a caso Gentile parla di «serietà della
storia»: la storia è «seria», e va presa
sul serio, precisamente nel senso che essa
non può esistere insieme ad alcunché che (come il Dio della tradizione) la anticipi. Si vuole andare alla
radice di questa volontà di «serietà»?
Si incontra Nietzsche, e, ancor prima, la
straordinaria critica che Leopardi rivolge alla concezione platonica dell’«idea», la quale è il
prototipo di ogni volontà di anticipare
il futuro, negando la «serietà» del divenire e del 392
tempo. Nel suo testamento (1937)
Bergson, ebreo, scrive che si sarebbe
convertito al cattolicesimo se non avesse visto
«l’ondata formidabile di antisemitismo che sta irrompendo sul mondo». Un gesto di grande nobiltà. Ma
nel 1914 il Sant’Uffizio aveva messo le
opere di Bergson all’indice dei libri
proibiti e Kolakowski ricorda che «tutti i principali filosofi tomisti francesi», con Maritain in
testa, «pensavano fosse Loro dovere
combattere la dottrina bergsoniana». E
Sant’Uffizio e filosofi tomisti coglievano nel segno per quanto riguarda il rapporto tra filosofia di Bergson
e dottrina ufficiale della Chiesa. Alla
fine della sua vita Bergson si è sentito
cattolico. Ma non ha rinunciato alla propria filosofia, che in sostanza identifica Dio al tempo, ossia alla
libera creatività di un agire,
soprattutto per il quale il futuro è del tutto
inanticipabile. Un agire senza scopo (come pensa Nietzsche), che solo dopo aver agito può scoprire dove è
arrivato e che cosa ha prodotto: una
negazione radicale, questa, del Dio
della tradizione cristiana.
Tuttavia, anche se ancora si stenta a capirlo, il cristianesimo del futuro dovrà dare sempre
più ascolto al pensiero che tien ferma
la «serietà» del tempo. In questo
processo (dove tramonta la forma tradizionale del cristianesimo), dopo la consonanza tra il
movimento cattolico del «modernismo» e
la filosofia di Bergson, quest’ultima,
insieme alla maggior parte della filosofia del nostro tempo, sembra destinata - ma non certo nel futuro
prossimo - ad attrarre nuovamente su di
sé l’attenzione della cultura
cristiana. 393 22. Heidegger. La domanda e la
risposta «Non vi sono tesi somme»,
ossia «principi», «verità eterne» che
sovrastino la storia, il tempo, il divenire. A esprimere questo rifiuto, ormai, non sono soltanto le
forme filosofiche del nostro tempo, ma
anche la scienza: non soltanto la
filosofia - che riferisce tale rifiuto a ogni pensiero e azione dell’uomo, dunque anche a sé stessa -, ma
anche, e da tempo, la scienza, nella
misura in cui essa si libera dalla illusione di
essere, oltre che potente, assolutamente vera. La frase riportata all’inizio è contenuta
nei Contributi alla filosofia (Beitrdge
zur Philosophie), composti da Heidegger tra
il 1936 e il 1938, pubblicata postuma nel 1989 (Adelphi). Nonostante le profonde e suggestive
innovazioni rispetto a Essere e tempo,
anche nei Contributi la struttura di fondo del
pensiero di Heidegger rimane immutata. A cominciare, appunto, da quel rifiuto di ogni «tesi somma
» e di ogni verità eterna e
soprastorica. In Essere e tempo si dice: «Che ci siano delle “verità eterne” potrà essere concesso
come dimostrato solo se sarà stata
fornita la prova che l’Esserci era, è e sarà per tutta l’eternità. Finché questa prova non
sarà stata fornita, continueremo a
muoverci nel campo delle fantasticherie».
Heidegger sta dicendo che, fino a quando non si proverà che l’uomo (l’«Esserci») è eterno - eterno non
semplicemente immortale -, sarà solo una
fantasticheria parlare di «verità
eterne». Ma per Heidegger è del
tutto ovvio che l’uomo (come ogni cosa
del mondo) non è eterno e che quindi quella prova non potrà mai esser data - per Heidegger, dico,
come per tutti coloro che in qualsiasi
campo hanno pensato e agito da quando,
all’inizio della storia dell’Occidente, è apparso il senso del tempo e dell’eterno. Che nessuna
cosa con cui l’uomo abbia a che fare sia
eterna è diventata ormai la 394 convinzione più profonda e scontata anche
presso la gente comune, tanto che starvi
a riflettere sembra una pura perdita di
tempo. Il tempo perduto - che
fortunatamente ha forme diverse - i miei
scritti l’hanno aumentato di molto, mostrando invece che lo splendore delle cose (anche di quelle
terribili) è infinitamente più luminoso
di quanto si sia disposti ad ammettere.
Hanno cioè indicato, quegli scritti, la necessità che non solo l’uomo, ma tutte le cose siano
eterne. Tutte le cose: situazioni,
configurazioni, modi di essere, relazioni, attimi, ombre, universi, pensieri, affetti,
decisioni, stati visibili e invisibili,
nessuna esclusa. Il tempo, la storia, è il comparire e lo scomparire degli eterni. E la «necessità»
che ogni cosa sia eterna è qualcosa di
essenzialmente più radicale di quella
«prova» dell’eternità dell’uomo che per Heidegger non potrà mai esser data. Dall’inizio alla fine il tema di questo
pensatore è stato «la domanda
dell’Essere» ( Seinsfrage ). La domanda - che
continua ad attendere la risposta, ma che in questa attesa mostra, per Heidegger, tutta la propria
grandezza. L’«Essere» non è l’«ente»,
non è alcuno degli «enti» (case, fiumi, stelle,
pensieri, azioni, uomini, dèi), di ognuno dei quali si dice tuttavia che «è» e che «è» questo e
quest’altro. Qual è il senso di questo
«è» - ecco la «domanda dell’Essere» -, da cui tutto in qualche modo dipende? Dai Greci a
Nietzsche la filosofìa è stata, per
Heidegger, riflessione sul senso dell’«ente», ossia è stata «pensiero metafisico», e ha quindi
velato la «domanda dell’Essere», pur
dando vita alla storia dell’Occidente.
Quella domanda sta, per Heidegger, al di sopra di ogni asserire. Si trova alla sommità del pensare,
ma non per questo è una «tesi somma»,
una «verità assoluta». Essa è «storica».
Anzi, come Nietzsche non ritiene di esser già lui il 395
«superuomo», ma di esserne il profeta, così Heidegger, nei Contributi, non attribuisce al proprio
discorso nemmeno la capacità di costituirsi
come l’autentica «domanda dell’Essere»,
ma solo il carattere di «pensiero transitorio», che «ai fini della comunicazione deve spesso procedere ancora
lungo il tracciato del pensiero
metafìsico», e i cui «sforzi» «saranno un
giorno superflui e ricadranno nell’accidentale» (p. 419). In una conferenza pubblicata nel 1964, e
intitolata La fine della filosofia e il
compito del pensiero, Heidegger aggiungerà
che al proprio pensiero «non può esser riconosciuta alcuna azione immediata o mediata sulla dimensione
pubblica dell’epoca industriale,
improntata dalla scienza-tecnica», e che
«il suo compito ha solo un carattere preparatorio e nient’affatto fondante», giacché «gli basta
risvegliare una disponibilità dell’uomo
per una possibilità, i cui tratti restano
oscuri e il cui avvenire incerto».
Va tuttavia anche detto che queste affermazioni non sono affatto, come Heidegger esplicitamente
dichiara, espressione di una «falsa
modestia», giacché quell’oscurità e incertezza,
quella incapacità di influire sul mondo della tecnica, quel carattere preparatorio e non fondante non
sono per lui semplici caratteri della
scrittura dell’individuo Heidegger, ma
sono insieme, e addirittura, il modo in cui l’«Essere» stesso si vela e si ritrae dall’epoca presente. E lo
stesso si può dire di quella
«superfluità» e «accidentalità» che nei Contributi Heidegger attribuisce al proprio pensiero. I Contributi
sono pertanto grandi prove di una
filosofìa che vorrebbe allontanarsi
dalla tradizione metafisica, pur riconoscendo
tutte le difficoltà a cui questo tentativo va incontro, ma insieme essendo convinta che tali difficoltà
non sono dovute alle carenze di un certo
individuo, ma sono le difficoltà in cui
le cose stesse si trovano. Ma queste non sono «tesi somme»? 396
Destano sorpresa anche molte delle tesi, peraltro suggestive, che si incontrano nei Contributi.
Sembrano andare troppo più in là di
quanto secondo lo stesso Heidegger sia
lecito. Ad esempio le tesi dei «venturi», dell’«ultimo Dio» («Quello del tutto diverso rispetto agli dèi
già stati, specie rispetto al Dio
cristiano»), del modo in cui l’«Essere» -
«vibrando», «oscillando» - si appropria del mondo. Heidegger intende «rovesciare» la metafisica
senza abolirla (e il timbro della sua
filosofia è fortemente neoplatonico), senza
cioè abolire la fede di cui parlavo e che guida l’Occidente e ormai il pianeta: la fede che l’uomo e le
cose non sono eterni. Tra i temi più in
vista e operanti, nei Contributi, quello del
«creare», è essenzialmente «metafìsico». («Quanto è lontano da noi il Dio, quello che ci nomina fondatori
e crea-tori, perché di costoro ha
bisogno la sua essenza?») Ma - dico -
nessuna cosa creata è eterna. È creata proprio perché non è eterna. Nessun creatore crea l’eterno. E
dell’«Essere stesso» Heidegger esclude
che sia eterno. L’«Essere» stesso è
«storico». Ma questa fede nella
non eternità di ciò che è non esprime
forse la follia estrema? Non pensa forse che ciò che è, non è (appunto perché non è eterno)? Che il non
niente è niente? Che gli esseri sono
nulla? Certo, questa non è come la domanda
di Heidegger. Qui la Risposta - positiva - è già da sempre data e non da uno di noi, ma dalla
Necessità, e rende possibile ogni
domanda. 397 23. Fenomenologia e libertà La «distruzione» della tradizione filosofica
occidentale, compiuta da Heidegger, non
ha un significato semplicemente
negativo. Soprattutto quando egli si rivolge a Platone e ad Aristotele. Piuttosto egli intende portare
alla luce la dimensione implicita che
rende possibile il loro esplicito dire.
In questa direzione interpretativa si muoveva il mio libro, ahimè così antico da essere stato la mia tesi
di laurea, composta negli ultimi anni
Quaranta, discussa nel 1950 e in
quell’anno pubblicata (e ripubblicata poi da Adelphi nel 1994, insieme ad altri miei scritti di quel tempo,
col titolo Heidegger e la metafisica). Ricordo queste cose per un certo e spero
scusabile compiacimento da me provato
leggendo l’imponente lavoro del filosofo
tedesco Gunter Figai, ( Martin Heidegger.
Fenomenologia della libertà, il melangolo 2007), che si muove sostanzialmente nella direzione di quel mio
libro, vecchio, ma che ritengo tuttora
valido nelle sue linee essenziali. Non
intendo ovviamente confrontare l’esperienza filosofica di un ragazzo con il lavoro maturo di uno
studioso di grande serietà (e tanto meno
vantare priorità). Ma in filosofia hanno
la preminenza i concetti, in nome dei quali vorrei dire a Figai, tra l’altro, che il suo modo di intendere la
«distruzione» dell’ontologia
tradizionale da parte di Heidegger si sarebbe
ulteriormente rafforzata se anch’egli avesse richiamato quegli avvertimenti quanto mai sintomatici e
abbastanza frequenti di Heidegger, nei
quali, già a partire da Essere e tempo, egli
dichiara che la propria indagine «fenomenologica» non pregiudica in alcun modo la soluzione dei
grandi problemi della metaphysica
specialis; quali l’esistenza o meno di una
vita dell’uomo dopo la morte o l’esistenza o meno di Dio - i problemi, appunto, che ricevono le prime
grandi risposte 398 positive dalla metafisica di Platone e di
Aristotele. E in effetti un’indagine che
si propone come «fenomenologia» non può
dir nulla intorno a questioni che per definizione stanno oltre la dimensione fenomenologica, ossia alla
dimensione che, con qualche
approssimazione, si può identificare
nell’«esperienza». È invece più
difficile convincersi della tesi che Figai intende rendere più visibile e che è indicata dal
sottotitolo del suo libro: «Fenomenologia
della libertà». Sono d’accordo
sull’implicazione tra riflessione sul senso dell’«essere» («ontologia») e sul senso della «libertà» in
Heidegger. Ma Figai si dice convinto che
«la filosofia di Heidegger dia modo di
ripensare l’idea della libertà in modo radicalmente nuovo». Cosa che a me non sembra, perché se il senso
ontologico della libertà significa da
ultimo la finitezza e contingenza delle cose
e quindi delle decisioni (cioè il loro essere qualcosa che sarebbe potuto non essere), allora tale
contingenza dei contenuti mondani è
pienamente affermata già da Platone e
Aristotele. Anche per Figai la libertà si riferisce, nel discorso di Heidegger, a qualcosa che, come dice
Figai, «la si sarebbe potuta compiere in
modo diverso» (p. 411). Ma allora, come
Kant sapeva (ma Figai, mi sembra, non tiene presente), l’idea trascendentale della libertà - dice Kant -
«non contiene nulla di derivato
dall’esperienza» ossia non è un contenuto
«fenomenologico»), e pertanto rimane aperto il problema, che né Heidegger né il suo interprete hanno
affrontato: quello di mostrare quale sia
il fondamento deU’affermazione che è il
contenuto di tale idea è anche qualcosa di «realmente» esistente.
399 24. La «mente» come
parte Nella «biolinguistica» di Noam
Chomsky il linguaggio è considerato come
un aspetto particolarmente significativo
della mente e dunque del rapporto mente/cervello. Pertanto «si inquadra ragionevolmente nella psicologia
e, più in generale, nella biologia
umana». Esplorazioni in questo campo, da
lui peraltro già da tempo dissodato, sono Nuovi
orizzonti nello studio del linguaggio e della mente (il Saggiatore 2005). Anche qui Chomsky dichiara di voler usare le
parole «mente» e «linguaggio» «senza una
valenza metafisica». Così attento al
significato delle parole, egli non dice nulla sul significato della parola «metafisica»; ma è
chiaro che il suo intento è di
considerare la «mente» e il «linguaggio» «come
oggetti naturali» - senza però addossarsi l’onere di escludere ricerche filosofico-metafìsiche sulla mente,
il corpo, il linguaggio. E, a prima vista, il proposito sembra del
tutto legittimo. Analogamente, come può
essere illegittimo l’intento di
considerare la nona sinfonia di Beethoven semplicemente dal punto di vista delle scienze fisiche, quando
la ricerca non intenda escludere la
comprensione estetico-musicologica e
nemmeno quella filosofico-metafisica di quest’opera? È lo stesso Chomsky a riconoscere che l’arte può
ammaestrarci, intorno alla mente, molto
di più di tutte le informazioni che
intorno a essa possono esserci fornite dalla biolinguistica. Eppure, come era prevedibile, anche in
questo caso la filosofia e la metafisica
si insinuano nella dimensione
scientifica che vorrebbe tenerle fuori dalla porta. Come il corpo, anche la mente e il linguaggio sono,
per Chomsky, «uno dei domini empirici»
analizzati dalla scienza. Anche la mente
è una parte della totalità dei «domini empirici», ossia 400
della totalità dell’esperienza. Ma, come la parola «metafisica», così l’espressione «totalità dell’esperienza»
- o dei «domini empirici» - non riceve
alcun chiarimento esplicito da parte di
Chomsky. O, meglio, riceve un chiarimento implicito che rende esplicita la presenza di quella
metafisica da cui egli vorrebbe tenersi
lontano. Intendo dire che una certa
metafisica (ben lontana dal mostrarsi
come inoppugnabile) è presente proprio nel
concepire la mente e il linguaggio come parti dell’esperienza. Infatti, anche per Chomsky la scienza non ha
«basi assolutamente certe» (pur essendo
affidabile e applicabile alla «realtà»),
perché «i segreti della natura, delle cose-in-sé, ci saranno per sempre celati». Il che significa
che l’indagine scientifica si chiude
prudentemente in sé - lasciando fuori di
sé la metafisica - perché essa non accetta imprudentemente la metafisica della cosa in sé: quella «cosa in
sé» kantiana, rispetto alla quale non
solo la dimensione della mente non può
essere altro che una parte, ma la stessa totalità dell’esperienza (che potrebbe essere la
definizione più ampia del «mentale» in
campo scientifico) si riduce a essere una
parte della totalità degli enti. Chomsky si dichiara, per altri motivi, cartesiano, ma questo indicato, dove
la res cogitans ha altro al di fuori di
sé, è il motivo più profondo. Come tanti
altri che ignorano l’insegnamento idealistico, non vede il carattere profondamente metafisico
dell’affermazione dell’esistenza della
«cosa in sé». 401 25. V«anima» come totalità e come parte di
ciò che appare «L’anima è in certo modo
gli enti»: He psyché ta ónta pós estin.
Questo, afferma Aristotele nel De anima, Vili, 231 b, 21. «Gli enti» (ta ónta ) non significa «una
certa parte degli enti, ma non le altre
parti». Significa: «tutti gli enti»: pànta ta
ónta. L’anima è «in certo modo» (pós) la totalità degli enti. «In certo modo» dalla tradizione
aristotelico-scolastica a Brentano e
alla fenomenologia questa espressione è intesa
come già Aristotele sostanzialmente la intende: l’anima «è» gli enti, ma non nel senso che essa sia
simpliciter («fisicamente» dicono gli
scolastici) gli animali, le piante, le case, la terra, il cielo e la totalità degli enti, bensì nel
senso che essa è la loro
rappresentazione, ossia il loro presentarsi, manifestarsi, apparire. Si interpreta: l’anima è
«intenzionalmente» tutti gli enti; è il
riferirsi a essi. Ma riferimento e intenzionalità sono innanzitutto l’apparire, il manifestarsi
degli enti. E il pensiero greco chiama
phàinesthai tale apparire. D’altra parte, la
totalità degli enti non appare tutta insieme, compitamente, e quindi Aristotele non intende affermare che
l’anima sia onnisciente, ma che essa è
tutti gli enti che vanno via via
manifestandosi, cioè di cui essa è la manifestazione; e insieme: che essa è sì la manifestazione della
totalità degli enti, ma la totalità si
manifesta come processo, sviluppo, «generazione» degli enti del mondo. E tuttavia, in quanto apparire della
totalità degli enti (via via
manifestantisi) l’anima non è un ente particolare appartenente a tale totalità. Ciò non
significa che l’anima non possa
apparire. In Aristotele questo aspetto del discorso sull’anima rimane implicito; ma la stessa
affermazione che l’anima è in certo modo
gli enti è proprio l’apparire di questa
forma di identità dell’anima e della totalità degli enti, sì che tale affermazione è insieme l’apparire in cui
l’anima ha come 402 contenuto sé stessa. Ma, si sta dicendo,
ha come contenuto sé stessa non come uno
tra gli enti particolari che appaiono, ma
come l’apparire della loro totalità.
L’apparire degli enti è il fondamento di ogni ricerca, problema, conoscenza, scienza, opinione,
fede, e di ogni progetto, deliberazione,
decisione, azione: è il fondamento di
ogni aspetto della vita dell’uomo: anche di quelle convinzioni e indagini che si rivolgono aU’«anima»
(«coscienza», «mente», «spirito»),
intesa questa volta come parte della totalità degli enti. Filosofia (e lo stesso pensiero
aristotelico), religione, scienza, arte
hanno imboccato questa strada, dove l’anima è
uno degli enti particolari che appaiono. Per esempio, per millenni - e, dopo la parentesi idealistica,
tuttora - quelle forme culturali
(guidate da un sapere filosofico, che a sua
volta si fa guidare dal senso comune) credono che, al di là del loro apparire, gli enti esistano in sé
stessi, cioè indipendentemente dal loro
apparire e dunque dall’anima in quanto
sia intesa come il loro apparire. Solo sul fondamento di questa credenza possono farsi innanzi
teorie come quella evoluzionistica, che
concepisce i fatti mentali come risultato
di un lunghissimo sviluppo delle specie viventi; o come quella in cui consiste la «psichiatria», dove la
psiche, intesa come oggetto di una
iatréia, è circondata dalla «cura» come ogni
altro ente particolare curabile, e dove la cura è a sua volta inscritta in un contesto sociale rinviante al
mondo intero. In questo modo, si perde
però di vista che queste e ogni altra
teoria che considerano l’anima come parte - e
innanzitutto quella credenza nell’indipendenza degli enti dal loro apparire, sulla quale esse si fondano -
debbono peraltro da ultimo fondare ogni
loro pretesa di verità proprio
sull’apparire degli enti, cioè su quell’«anima» che lungo la storia del pensiero occidentale è
sopravvissuta ed è stata pensata come
phàinestai, cogito, «Io penso», «Spirito come
403 atto puro», «esperienza»
(in quanto esperienza della totalità
degli enti che vanno via via mostrandosi). Per quanto riguarda il concetto di
esperienza, si osservi che il «metodo
sperimentale» è, per la scienza stessa, l’indagine che pone a proprio fondamento l’esperienza;
sennonché dell’esperienza in quanto tale
la scienza non si interessa: volta le
spalle al senso fondamentale dell’«anima» per dedicare ogni sua attenzione all’«anima» come ente
particolare. E se oggi si rivendica il
carattere linguistico dell’esperienza, va detto che anche con questo carattere l’esperienza è il
fondamento di ogni attività teorica e
pratica dell’uomo. Ma anche Aristotele,
oltre a intendere l’anima come apparire
della totalità degli enti, la intende come parte della totalità. Tale apparire è infatti per
Aristotele l’identità del conoscente in
atto e del conosciuto in atto, ma questa identità è un risultato. Il cominciamento del processo
che conduce a questo risultato è, da un
lato, la «capacità» dell’anima di
conoscere (ossia il suo esser conoscente «in potenza»), dall’altro lato è la «capacità» degli enti di
essere conosciuti (ossia il loro esser
conosciuti «in potenza»). Queste due
capacità non sono lo stesso, non sono identiche. L’identità di conoscente e conosciuto si produce quando i
due sono in atto ed essa è appunto il
risultato del processo che conduce dalla
potenza all’atto. Ma quando l’anima è conoscente in potenza (Aristotele parla in proposito di «intelletto
passivo») e differisce dal conosciuto in
potenza - ossia dagli enti che hanno la
capacità di apparire -, l’anima è una parte della totalità degli enti. L’anima diventa parte anche quando
l’apparire della totalità degli enti è
inteso come atto di un «io» («persona»,
«soggetto»), e si afferma, appunto, che «io penso» - dove il «pensare» è innanzitutto quell’apparire.
Anche qui, e 404 nonostante tutti i dubbi che si nutrono in
proposito, è la filosofia greca, e
dunque lo stesso Aristotele, ad aprire questa
prospettiva. Si ritiene che esista un produttore del pensare e che tale produttore sia un «io», una
«persona», un «soggetto». (Variante di
questa convinzione è la tesi, oggi centrale
soprattutto in campo biologico, che a pensare sia il corpo, il cervello, la materia.) «È manifesto che è quest’uomo singolo a
pensare» - manifestum est quod hic homo
singularis intelligit, si afferma nel De
unitate intellectus contro averroistas di san Tommaso. Quest’uomo singolo è l’io. Che quest’uomo
singolo sia il pensante (Tommaso) e che
il cogitare sia il cogitare di un ego
(Cartesio) appartengono alla stessa prospettiva. Alla quale appartiene gran parte della cultura non solo
filosofica - peraltro con notevoli
eccezioni (ad esempio Nietzsche,
Lichtenberg, Russell, Wittgenstein, Mach, Avenarius). In tale prospettiva, l’io, la persona, il soggetto
(ma anche il corpo, la materia, il
cervello) sono parti della totalità che appare.
Vintelligere di «quest’uomo singolo» è il campo di ciò che è manifestum e «quest’uomo singolo» è una parte
di questo campo - ossia dell’apparire
della totalità degli enti. A questo
punto, si tratterebbe di mettere in luce la contraddizione di questa prospettiva. Ci si limiterà qui a
un’indicazione sommaria. Se in quella prospettiva «io penso»
significa «io sono produttore del
pensiero», il pensiero non è d’altra parte inteso come qualcosa che sia ignoto all’io. L’io ha
notizia del pensiero da lui prodotto. Ma
l’aver notizia è l’apparire. E a sua
volta il «pensiero» è innanzitutto l’apparire degli enti. L’«io penso» viene infatti quasi sempre unito (in
modo più o meno esplicito) a «gli enti
appaiono a me»: io, che penso, sono
appunto l’io a cui appaiono gli enti. L’«a cui» è la notizia che l’io ha di essi. 405
Dire quindi che gli enti appaiono a me significa dire che l’apparire degli enti appare a me - appunto
perché «a me» non può non significare,
in questa prospettiva, «apparire a me»;
sì che dire che l’apparire degli enti appare a me significa dire che l’apparire degli enti appare
all’apparire a me... et sic in
indefinitum. In altri termini, che gli
enti appaiano «a me» non significa, in quella
prospettiva, che essi appaiono a un sasso o a un albero, ma che appaiono a una coscienza, cioè
a un apparire; e se si intende tener
fermo che l’apparire è sempre un apparire
«a un io», «a una coscienza», allora l’apparire «a me» è l’apparire all’apparire a me, dove l’«a me»
determina un progressus in
indefinitum. Con la conseguenza che, se
ciò a cui appaiono gli enti viene
indefinitamente spostato e allontanato, gli enti non appaiono più a qualcuno, e chi crede che l’apparire
possa essere solo un apparire a qualcuno
è costretto a concludere che non appare
alcun ente. E questa è la contraddizione della prospettiva per la quale «io penso» e «gli enti appaiono a
me». Nella variante riduzionistica di
tale prospettiva, «il cervello pensa» (o
«il corpo pensa»). Ma in questa variante non si
intende sostenere che il pensiero - cioè gli enti che appaiono - è il loro apparire «al cervello», e quindi
in tale variante non è presente la
contraddizione che invece compete alla
prospettiva di cui il riduzionismo è, appunto, una variante. Al riduzionismo compete un’altra
contraddizione, che ho considerato in
altre occasioni e che è cioè Yanàlogon del
riduzionismo teologico. La riduzione della mente al cervello è cioè Yanàlogon mondano della riduzione
teologica del mondo a Dio. Infatti, se
il mondo è totalmente riducibile a Dio, non
c’è mondo; e se la mente è totalmente riducibile al cervello, non c’è mente. In entrambi i casi, se la
riduzione non è totale 406 c’è un residuo irriducibile. Ma se la
riduzione è totale, essa nega ciò che
essa stessa afferma: nega quella mente e quel
mondo che essa riconosce esistenti proprio per la sua volontà di ridurli, rispettivamente, al cervello e a
Dio. *
Testo, con alcune modifiche, dell’intervento alla tavola rotonda sul
tema «Tecnica e processo»; tenutosi a
Venezia il 27 febbraio 2004, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2004. * ”
Articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 27 gennaio 2005. L’ultimo
capoverso è aggiunto. * - Rielaborazione dell’intervento alla tavola
rotonda «La tecnocrazia negli anni Trenta» con Giuseppe Morbidelli, Natalino Irti, Guido Rossi.
Firenze, Palazzo Strozzi, 21 gennaio 2013.
407 Al capitolo VI 26. Essere e nulla Già nel capitolo IV de La struttura
originaria - dunque più di cinquantanni
fa - avevo indicato quanto occorre per
rispondere alle obbiezioni che in seguito mi sarebbero state rivolte intorno al modo in cui, in quel
capitolo, viene risolta «l’aporetica del
nulla». Questa aporetica, sin da Platone,
consiste nel rilevare che il nulla è pensato, e che quindi è qualcosa che appare e di cui il linguaggio
parla continuamente, sì che il nulla non
è il nulla. La radice di quelle
obbiezioni è il pensiero che, sin dall’inizio
della storia dell’Occidente, isola la terra dal destino e su questa base isola le cose della terra
(le molteplici determinazioni del mondo)
dal loro essere, ossia isola (in ciò che
è, cioè nell’ essente) il ciò che dal suo è. Tale atteggiamento isolante si riflette, appunto, nel modo in
cui l’Occidente pensa il nulla.
L’isolamento delle cose dal loro essere incomincia con Parmenide - col Parmenide quale è
interpretato nella tradizione
platonico-aristotelico-hegeliana. E
alcuni miei critici - Gennaro Sasso innanzitutto, e Mauro Visentin - sono giunti, attraverso
l’esperienza del mio discorso
filosofico, a riproporre in Italia la prospettiva originaria di Parmenide - del Parmenide,
appunto, che è presente in quella
tradizione e per il quale, al di fuori della
«verità dell’essere» che oppone l’essere al nulla, il mondo intero e l’intera storia dell’uomo sono
soltanto dóxa, opinione, illusione,
«nomi», cioè sono, in quanto tali, non¬
essere, nulla. Per quei miei critici, e innanzitutto per Sasso, «essere» significa, come per Parmenide,
soltanto «essere», senza alcuna
proprietà oltre a quella di non essere il nulla. In questa prospettiva, la totalità delle
determinazioni, ossia delle differenze
che costituiscono il mondo naturale e umano, sono 408
appunto il contenuto dell’opinione.
Ne viene, allora, che anche tutte le considerazioni sviluppate da questi miei critici per
sostenere le loro tesi e per criticare
il contenuto dei miei scritti - considerazioni che formano a loro volta un sottoinsieme della
totalità delle differenze del mondo -
sono opinioni, non sono verità (assolute
e incontrovertibili). E vedo che essi stessi, sia pure in modi diversi, riconoscono il carattere
opinabile (Visentin) o addirittura
contraddittorio (Sasso) delle loro proprie e pur interessanti e articolate riflessioni (cfr.
G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopola
2010, pp. 202, 224-226; M. Visentin, Il
neoparmenidismo italiano, Bibliopolis 2011, p. 402, nota). La struttura originaria della verità è
l’apparire dell’impossibilità che ciò
che è non sia ciò che esso è.
L’isolamento delle differenze del mondo dal loro essere implica infatti che qualcosa non sia ciò che
esso è: implica (con Parmenide) che le
differenze siano esplicitamente poste
come nulla; e implica (con Platone e poi con l’intera storia dell’Occidente) che, essendo intese come ciò
che esce dal nulla e vi ritorna, siano
implicitamente poste - esse, che non
sono un nulla - come nulla. Questa implicitezza custodisce il segreto dell’Occidente, cioè l’essenza del
nichilismo. Tale essenza non può
riuscire a scorgere che le differenze si
distinguono sì dal proprio essere, ma non per questo sono nulla. La distinzione, infatti, non è
separazione, isolamento. Anche quando
intende essere la negazione più radicale della
separazione - per esempio e soprattutto con Hegel -, l’essenza del nichilismo rimane prigioniera
di ciò che essa nega, perché intende
unire ciò che peraltro essa intende come
originariamente separato; sì che ogni volontà di sintesi è destinata al fallimento. Ogni differenza del
mondo - cioè ogni essente, o significato
- è cioè destinata a esser pensata e vissuta
409 come un nulla - anche
quando si ritiene che un Dio eterno
possa salvare il mondo dal nulla.
Il modo in cui il nichilismo pensa e vive la nientità degli essenti determina il modo in cui esso pensa e
vive la presenza del nulla. Nella
Struttura originaria si mostra che il nulla è un significato contraddicentesi. Data la
distinzione, indicata in quelle pagine,
tra il «contraddittorio», o
r«autocontraddittorio» - ossia l’impossibile, il nullo - e la «contraddizione», che invece non è un nulla,
in queste pagine si precisa - IV, 6 -
che «il significato “nulla” è un significato
autocontraddittorio, ossia è una contraddizione» - un «significato contraddicentesi», appunto.
Affermando l’esistenza di quel «significato
autocontraddittorio» (cioè
contraddicentesi), in tale scritto non si dice quindi che l’impossibile, il contraddittorio in sé
stesso, sia, ma che la contraddizione è
(e che la contraddizione sia non è
impossibile - fermo restando che questo suo essere ha un «fondamento», cfr. ad esempio Fondamento
della contraddizione, Adelphi 2005, sul
quale nei miei scritti si è sempre
richiamata l’attenzione). I due momenti
contraddicentisi del significato nulla sono, da un lato, il «positivo significare» del nulla, ossia il
suo essere nulla e l’ apparire di questo
essere, e, dall’altro, l’assoluta nientità e
assenza di significato del nulla che è positivamente significante. Da un lato, il positivo
significare di ciò che, dall’altro lato,
è l’assoluta negazione di ogni positività e
significato. (Recentemente ho ripreso e approfondito queste tematiche nello scritto Intorno al senso del
nulla, Adelphi 2013). Questi due lati o momenti sono
originariamente e necessariamente uniti
perché la loro separazione, cioè
Yisolamento dell’uno rispetto all’altro, implica l’essere dell’impossibile, ossia che il nulla sia un
essente. Infatti, se i 410 due momenti sono (più o meno
esplicitamente) intesi come separati,
l’assoluta nientità del nulla appare, e appare come significante, ossia è: il nulla appare
inevitabilmente come un essente. Se i
due momenti vengono separati, è inevitabile che
il positivo significare del nulla (il primo momento) si ripresenti nel nulla - ossia nel secondo
momento, cioè nel significato che è il
contenuto di quel positivo significare -, sì
che Y esito inevitabile di quella separazione è la constatazione che il nulla è un essente. Questo esito differisce essenzialmente dal
significato autentico del nulla, ossia
dal nulla come significato
contraddicentesi. Infatti questo contraddirsi sussiste perché, in esso, nulla (il significato nulla) non
significa essente, ossia non è un
essente (e appunto per questo il significato nulla contraddice quell’essente che è la positività
del proprio significare). Nell’esito
della separazione dei due momenti del
significato contraddicentesi, si è costretti invece ad affermare che il nulla, essendo significante, è, è un
essente, sì che l’impossibile, il
contraddittorio in sé stesso, ossia l’identità di nulla e di essere, è. In seguito alla
separazione, l’aporia del nulla si
presenta pertanto come insolubile. Il pensiero è definitivamente legato all’assurdo. L’isolamento-separazione conduce all’essenza
del nichilismo, costringendola ad
affermare che gli essenti sono nulla (in
quanto escono e ritornano nel nulla); ed è ancora l’atteggiamento isolante a costringere
l’essenza del nichilismo ad affermare,
in relazione al nulla, che il nulla è un essente. Con la differenza (rilevata da Nicoletta
Cusano in Capire Severino. La risoluzione
delVaporetica del nulla, cit.) che nel
primo caso il nichilismo non può vedere il proprio essere identificazione dell’essente e del niente,
mentre nel secondo caso - in relazione
cioè al modo in cui il senso del nulla si
inscrive nella struttura originaria della verità (alla quale si 411
rivolge il mio discorso filosofico) - il nichilismo, e propriamente quella sua forma che si è posta
in relazione a quel mio discorso (la
forma presente ad esempio negli scritti
di Sasso, Visentin, Massimo Donà), porta esplicitamente alla luce il proprio identificare il nulla a un
essente e intende questa identificazione
come inevitabile (ossia come
inevitabilità della negazione della struttura originaria della verità).
D’altra parte il nichilismo può affermare l’inevitabilità di tale identificazione - ossia dell’assurdo e
dell’impossibile, in cui appunto
consiste Tessere del nulla - solo in quanto,
dlYinterno stesso del nichilismo, appare che nulla non significa essere (essente). Se questo assoluto
differire non apparisse non si potrebbe
nemmeno affermare che l’identificazione di nulla e di essere è una contraddizione che secondo
alcuni miei critici inficerebbe la
struttura originaria del destino. Il
nichilismo non si avvede che l’aporetica del nulla sorge non perché il nulla sia inevitabilmente un
essente, ma per la logica isolante messa
in atto dal nichilismo stesso, ossia
perché quella inevitabilità è, ancora una volta, la conseguenza della separazione che, in questo caso, crede
di poter prescindere dalla sintesi
originaria del significato nulla e del
suo positivo significare - sì che, presentandosi isolato, tale significato, proprio perché si presenta, non
può che apparire come Tesser un essente
da parte del nulla. Pertanto, che il
nulla sia «significante» non significa che il
nulla esplichi una certa forma di attività, quale appunto sarebbe il significare. Il significare del
nulla non appartiene al nulla, perché il
nulla non è un essente a cui questo significare
o qualsiasi altra proprietà o attività possano appartenere. In quanto il significare è positività (e anzi è
la positività stessa, lo stesso esser
essente), il significare del nulla appartiene cioè 412
all’essente, e propriamente alla totalità dell’essente in quanto essa appare nella struttura originaria della
verità. E che il nulla sia un
«significato» non significa che il nulla sia
qualcosa di «passivo» rispetto all’attività significante dell’essere, giacché anche questo essere un
che di «significato» appartiene a quella
totalità. Si aggiunga la seguente
annotazione in rapporto al modo in cui
Heidegger intende il problema del «Niente» (soprattutto in alcune pagine de II nichilismo europeo,
1940, intitolate Nichilismo, nihil e
Niente). L’intento di Heidegger è di
mostrare che il Niente non è un ente, ma non è «nemmeno mai ciò che è soltanto nullo»: il «soltanto
nullo» relativamente al quale il
pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser contrapposto all’ente sia l’assenza di ogni
altra forma di contrapposizione alla
totalità dell’ente. In apparenza
Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di quella in cui si dà per scontata la
contrapposizione tra «ciò che è soltanto
nullo» - il nihil -, e l’ente; ma dicendo che il «Niente» (che poi è per lui l’«Essere»
stesso) non è «nemmeno mai ciò che è
soltanto nullo» attribuisce una funzione decisiva al «soltanto nullo»: la funzione di
determinare la dimensione che include
sia l’ente, sia il «Niente» (l’«Essere»).
In tal modo, tutte le connotazioni del «soltanto nullo» da cui Heidegger in quelle pagine intende
prendere le distanze, e tutte le aporie
che il «soltanto nullo» solleva, ma che
Heidegger qualifica come conseguenze dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del «Niente»,
ritornano in circolazione, e vi
ritornano nel loro non esser state chiarite e
risolte - innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per la quale ogni
considerazione intorno al nulla fa del
nulla un «qualcosa», ossia un ente;
l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni «apparentemente acute». 413
È probabile, stando all’andamento del testo, che per Heidegger sia solo «apparentemente acuta»
anche l’osservazione, da lui richiamata
che «se il Niente è niente [e qui il
Niente è il «soltanto nullo»], se il Niente non c’è, allora non può nemmeno darsi che l’ente sprofondi
mai nel Niente e che tutto si dissolva
nel Niente, allora non ci può essere
nemmeno il processo del diventare-niente». Ma anche questa osservazione, che Heidegger sembra trattare
con sufficienza e lasciare infine da
parte, ritorna in circolazione nello stesso
discorso di Heidegger, quando egli, come si è rilevato, di fatto assume il Niente, inteso come il «soltanto
nullo», come essenziale per poter
affermare che il Niente, autenticamente
inteso (ossia il Niente che è l’«Essere» stesso) non è il nihil «soltanto nullo», come d’altronde Heidegger
ha sempre affermato nei suoi
scritti. 414 27. Un libro Nella «successione» dei miei scritti,
Destino della Necessità (cit.) sta al
centro. Rende radicale il tema di fondo che si era presentato un quarto di secolo prima; apre i
problemi che il filone primario degli
scritti successivi intende risolvere.
Il tema di fondo è, appunto, la Necessità : di ogni cosa, di ogni aspetto o stato del Tutto. Ma di
«necessità» gli uomini parlano da
millenni. Al di là di ciò che ne dicono, in Destino della Necessità «si fa innanzi» il senso
innegabile della Necessità. Esso sta :
nessuna forza può scuoterlo. La parola
«de-stino» indica questo stare. Appunto per questo è nel linguaggio che quel senso «si fa innanzi»,
venendo a mostrarsi nel destino, cioè in
sé stesso in quanto luogo che accoglie
anche il linguaggio: nella già da sempre manifesta innegabilità dell’esser sé di ogni essente. L’esser sé: il non esser altro e tanto meno
quelfaltro che è il nulla:
l’impossibilità dell’essente di essere stato e di tornare a esser altro e quell’assolutamente altro che è
il nulla: la necessità-eternità
dell’essente in quanto essente. Tempo,
storia, divenire del mondo umano e della natura non sono il venire dal nulla e il ritornarvi, ma
l’incominciare ad apparire e il non
apparir più, all’interno del cerchio eterno del destino, da parte degli eterni (quindi anche di
quell’eterno che è il linguaggio - e
anche il linguaggio che testimonia il destino). Da sempre e per sempre il destino è
l’essenza dell’uomo. Ma non
testimoniando il destino l’intera storia dell’uomo è alienazione della verità. Nel suo stato
attuale, ossia nella forma finita del
destino, l’uomo è pertanto il contrasto tra il
destino e tale alienazione - la quale, nella sua configurazione più ampia, è l’isolamento della terra dal
destino. Destino della Necessità rende
radicale tutto questo, perché Essenza
del nichilismo (1971, 2 a ed., Adelphi 1981) lascia 415
ancora aperto il problema relativo alla Necessità o non- Necessità del sopraggiungere e del modo in
cui sopraggiungono gli eterni nel
cerchio eterno, in cui il destino
consiste, nelVapparire degli essenti: ogni essente è eterno; ma gli eterni sarebbero potuti non
sopraggiungere in quel cerchio, o
sopraggiungervi in modo diverso da quello che
appare? Destino della Necessità mostra che la Necessità autentica implica anche la Necessità del
sopraggiungere e del modo in cui gli eterni
sopraggiungono nelVapparire del
destino. La contingenza degli
eventi e la libertà della volontà
appartengono cioè all’essenza del nichilismo ossia alla persuasione che Tessente in quanto essente
sia un esser stato e un tornare a esser
nulla. La volontà ha quindi un significato
essenzialmente diverso da quello che le è stato via via assegnato. Non è una potenza che determini
liberamente l’oscillazione degli essenti
tra il loro essere e il nulla, ma è la
fede di avere tale potenza, la fede che quindi vuole l’impossibile, non sapendolo, ma essendo
anche fede di ottenere, a volte, e a
volte di non ottenere ciò che essa vuole.
La volontà di potenza, che culmina nella tecnica moderna, si manifesta anche nel modo in cui le lingue
indoeuropee, cioè il terreno in cui
cresce il linguaggio del nichilismo, parlano del mondo) ( Destino della Necessità, capp. Vili,
IX, X). Al di fuori dell’alienazione
della terra isolata, la «volontà» autentica
e il destino, in quanto apparire della Necessità e libertà dall’errore (Verrare essendo peraltro
anch’esso un eterno). Nella sua forma
infinita il destino è l’eterno oltrepassamento
di ogni contraddizione, ossia è la gioia. Nel suo «inconscio» più profondo, l’uomo è la Gioia - il finito è
l’infinito. Ma Destino della Necessità
apre, insieme, i problemi fondamentali
degli scritti successivi Nell’ultimo capoverso del libro ci si chiede innanzitutto: «Ma quale
sentiero la terra, 416 inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del
destino, è destinata a percorrere? È
destinata alla solitudine [all’isolamento dal
destino] o all’oltrepassamento della solitudine?». Gli scritti successivi (soprattutto La Gloria,
Oltrepassare, La morte e la terra,
citt.) mostrano la destinazione della terra a questo oltrepassamento e le sue decisive
implicazioni. 417 28. La mano dell’Occidente Nietzsche e Freud insegnano a Hemingway
quanto siano terribili gli impulsi più
profondi dell’uomo. Ma già Sofocle,
millenni prima, dice che l’uomo è deinótaton, cioè «il più temibile» degli esseri. E si può ancora
retrocedere. Hemingway concepiva la
sincerità come il supremo comandamento
morale. Anche e innanzitutto nella scrittura,
che non deve nascondere quello che l’uomo prova veramente. Quindi il suo non era soltanto cinismo,
esibizione della propria malvagità. Spesso si confonde la bontà con la
conformità degli istinti alle consuetudini
sociali. Li si nasconde perché è difficile che
siano confessabili. La bontà non è la cosiddetta «innocenza» dei bambini o la mansuetudine delle pecore -
anche della quale si può peraltro
dubitare come si dubita di
quell’innocenza. Hemingway aveva
imparato che il piacere della vita è
inseparabile dal dolore: la vita è lotta - è «guerra», diceva l’antichissimo Eraclito. Ora, intendo dire
che non c’è bontà che non sia lotta
contro il male esistente fuori e dentro di noi.
E da ultimo il male è il dolore, l’angoscia, la morte che l’impulso distruttivo dell’uomo produce negli
altri e in lui stesso. L’uomo buono - soprattutto il santo - non è
chi sia privo di inconfessabili impulsi,
ma chi ne abbonda. Se ne fosse privo,
sarebbe appunto l’innocente o il mansueto
quadrupede. Forse per questo i veramente buoni e i santi sono spesso insopportabili. La loro indole è
terribile. Sono buoni e santi perché,
lottando contro di essa, la vincono.
Tanto più buoni e santi quanto più la malvagità invade la loro natura. Se i cristiani sono convinti che Gesù
sia il più santo, devono credere che
natura, indole, impulsi siano in lui i più
418 malvagi e che egli sia il
più santo proprio perché, solo lui,
riesce a vincerli. La crudezza di certe espressioni di Gesù può essere un sintomo. Il primo passo per vincere quanto di
«terribile-temibile» è presente in
ognuno di noi è guardarlo in faccia. Con sincerità. Hemingway la possedeva. Poiché credeva che i
«valori supremi» della tradizione occidentale
siano morti - e che uccidere gli uomini
non violi dunque alcuna legge inviolabile
-, gli restava come unico valore l’aspirazione alla sincerità, il desiderio di dire la verità (forse
esagerando) intorno a quanto di malvagio
c’era anche in lui e di cui egli godeva. Ci si può spiegare come alla fine non sia più riuscito
a sopportare la vista di sé stesso e,
forse per questo, si sia ucciso.
Nietzsche scrive: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Che i valori
si svalutino significa che essi restano
distrutti, annientati. Lo stesso
Nietzsche alimenta la convinzione che il vero senso del nichilismo sia la volontà di annientare - e
gli uomini pensano che l’annientamento
più nefando sia quello di cui son vittime
essi stessi. Eppure, per quanto
potente sia la riflessione di Nietzsche -
e poi di Heidegger - sul nichilismo, essa non ne raggiunge il fondo. Le «guerre di annientamento» del XX
secolo sono la conseguenza più vistosa
di una persuasione che risale alle
origini della nostra civiltà, cioè al pensiero filosofico dei Greci. Si tratta della persuasione che gli
esseri possano esser stati e possano
ridiventare niente; ossia che gli esseri possano esser non essere, cioè nulla. Il culmine
dell’errore, qui, si unisce al culmine
dell’orrore - anche se questa persuasione
domina ormai l’intero pianeta.
Se qualcuno dicesse che c’era un tempo in cui il cerchio era quadrato e ci sarà un tempo in cui il cerchio
tornerà a essere 419 un quadrato, tutti, o i più,
protesterebbero e direbbero che un tempo
siffatto non può esistere; ma nessuno protesta di fronte al pensiero che c’è un tempo in cui l’essere
(che ora è) era ancora nulla e un tempo
in cui tornerà a esserlo. Qui la sordità
è totale. Troppo profonda perché sia imputabile alla semplice debolezza della mente umana. Ma intanto, come potrebbero, un uomo o un
Dio, proporsi di annientare un qualsiasi
essere, se non fossero convinti che
l’essere da annientare possa diventare nulla e, una volta diventatolo, sia vero affermare che tale
essere è il nulla? Il culmine della
follia non è forse pensare che l’essere è il nulla? E «nichilismo» non è forse, innanzitutto,
pensare che l’essere è nulla? E non è
forse per questo antico pensiero che possono
esser maturate tutte le radicali distruzioni che scandiscono la storia dell’Occidente? Nietzsche afferma che «Fannichilimento
mediante la mano asseconda
Fannichilimento mediante il pensiero». E invece è Fannichilimento dell’essere mediante il pensiero
dei Greci che non solo asseconda ma è il
fondamento essenziale di tutte le
distruzioni estreme compiute dalla mano dell’Occidente - la più civile delle civiltà -, che ormai è la
mano del pianeta. 420 Indice
Per richiamare e introdurre
Sezione prima Scambio delle
parti e alienazione della verità L II
«fiore»: cristianesimo , arte , tecnica
1. Poesia e festa 2. Gli
«odori» 3. Volontà di sapienza 4. Potenza della «bella menzogna» 5. Poesia e sapienza
filosofico-cristiana 6. «L’anima riceve
vita» 7. Il «profumo» e il
«deserto» 8. Poesia, tecnica e
meccanismo dello scambio delle parti
II. Preghiera e «macchina» politico-economica 1. Credere e pregare 2. Nota su cristianesimo, islam,
modernità 3. La Barriera e Prometeo 4. Macchine razionali e grande politica 5. Efficienza e solidarietà 6. Governi tecnici III. Democrazia e tecnica 1. Europa e America 2. Europa, Russia, America 3. Le democrazie e la tecnica 4. Sulla coerenza della follia estrema 5. Suirinevitabilità dello scambio delle
parti 6. Note su identità dell’Europa,
frammento, potenza IV. Diritto,
filosofia, tecnica 421 1. La
filosofìa 2. La giustizia 3. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo
e il positivismo giuridico 4. Realismo e idealismo 5. Uno sguardo al di là della fede
deirOccidente V. Sull'essenza del
nichilismo 1. Alle origini del
deicidio 2. Essenza del nostro tempo ed
essenza del nichilismo 3. Il deserto e
il profumo 4. «Morte di dio» e «anello
del ritorno» a) La sequenza
essenziale b) «Affinché vi apra tutto
il mio cuore» c) Eterno ritorno e
tecnica d) Volere Teterno ritorno e
volere il passato 5. Divenire, tecnica,
«differenza ontologica» VI. Stare
autenticamente oltre l’essenza del nichilismo: il destino
1. Il destino 2. La fantasia e
la terra 3. Discutere il. destino della
verità, concretezza dell’errare,
isolamento della terra, linguaggio 4.
Ripresa 5. Il destino e Ferrare 6. Il destino e la Gloria Sezione seconda Storia delVOccidente e filosofia I. Alle origini dellPeci dente. Due
colloqui 1. Eschilo 422 2.
Parmenide II. Relativismo,
evoluzionismo, realismo e altre
discussioni sulla storia filosofica dell’Occidente e sul senso dell’eternità 1. Ancora sul senso del discutere 2. Verità e relativismo 3. Equivoci
4. L’origine 5. «La fine del
tempo» 6. Erba e lastre, scienza e
teatro 7. «Istoria e filosofia
delFumanità» 8. «Suicidio dell’Europa» 9. «Non credo alla sopravvivenza» 10. Follia giudiziosa 11. Paradosso e monocromia 12. Il realismo e il mito del realismo 13. Intorno a Nietzsche, Gentile,
Heidegger 14. Realismo e idealismo in
relazione all'ostacolo 15. Stelle e
formiche 16. Esser sé 17. Continuando un dialogo su tecnica e
diritto 18. Discutendo con amici SfZTONF. TF.R7.A Postille alla sezione prima Al capitolo I 1. La bellezza e il male 2. Arte e tecnica 3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo 4. Immagini festive 423 Al capitolo
II 5. L’imperatore Giuliano e
Hegel 6. Impero romano e «Germania
totalitaria» 7. Mein Kampf Al capitolo III 8. Piazza della Loggia 9. Tasse e amnistia 10. Visibilità 11. Tecnica e «grande politica» Al capitolo V 12. Non veritas, sed auctoritas facit
legem 13. Guerra fredda e
corruzione 14. Conflitti di
retroguardia 15. Tecnica e pluralità
delle tecniche 16. Mactare 17. Ancora su «L’anello del ritorno» 18. La tecnica e il sottosuolo 19. Innocenza del divenire e valore
dell’uguaglianza 20. Rawls, Hegel Kant 21. Bergson e la realtà del tempo 22. Heidegger. La domanda e la risposta 23. Fenomenologia e libertà 24. La «mente» come parte 25. L’«anima» come totalità e come parte di
ciò che appare Al capitolo VI 26. Essere e nulla 27. Un libro 28. La mano deirOccidente 424 Indice Per richiamare e introdurre 7 S EZIONE PRIMA 12 Scambio delle parti e alienazione della
verità 12 I. Il «fiore»: cristianesimo,
arte, tecnica 13 1. Poesia e festa
13 2. Gli «odori» 15 3. Volontà di sapienza 18 4. Potenza della «bella menzogna» 20 5. Poesia e sapienza filosofico-cristiana 24 6. «L’anima riceve vita» 28 7. Il «profumo» e il «deserto» 32 8. Poesia, tecnica e meccanismo dello
scambio delle parti IL Preghiera e «macchina» politico- ^ economica
1. Credere e pregare 38 2. Nota
su cristianesimo, islam, modernità 46
3. La Barriera e Prometeo 48 4.
Macchine razionali e grande politica 52
5. Efficienza e solidarietà 55
6. Governi tecnici 60 III.
Democrazia e tecnica 65 1. Europa e
America 65 2. Europa, Russia, America
69 425 3. Le democrazie e la tecnica 74 4. Sulla coerenza della follia estrema
79 5. Sull’inevitabilità dello scambio
delle parti 81 6. Note su identità
dell’Europa, frammento, potenza 86 IV.
Diritto, filosofia, tecnica 90 1. La
filosofìa 90 2. La giustizia 95 3. Il sottosuolo filosofico del nostro tempo
e il ^ positivismo giuridico 4. Realismo e idealismo 104 5. Uno sguardo al di là della fede
dell’Occidente 108 V. Sulfessenza del
nichilismo 112 1. Alle origini del
deicidio 112 2. Essenza del nostro
tempo ed essenza del nichilismo 119 3.
Il deserto e il profumo 126 4. «Morte
di dio» e «anello del ritorno» 133 a)
La sequenza essenziale 133 b) «Affinché
vi apra tutto il mio cuore» 136 c)
Eterno ritorno e tecnica 140 d) Volere
l’eterno ritorno e volere il passato 143
5. Divenire, tecnica, «differenza ontologica» 147 VI. Stare autenticamente oltre l’essenza
del 153 nichilismo: il destino 1. Il destino 153 2. La fantasia e la terra 159 3. Discutere il destino della verità,
concretezza dell’errare, isolamento
della terra, linguaggio 4. Ripresa
170 426 5. Il destino e Ferrare 176 6. Il destino e la Gloria 181 S EZIONE SECONDA 187 Storia deirOccidente e filosofia 187 I. Alle origini dell’Occidente. Due colloqui
188 1. Eschilo 188 2. Parmenide 197 IL Relativismo, evoluzionismo, realismo
e altre discussioni sulla storia
filosofica 209 dell’Occidente e sul
senso dell’eternità 1. Ancora sul senso
del discutere 209 2. Verità e
relativismo 212 3. Equivoci 218 4. L’origine 222 5. «La fine del tempo» 229 6. Erba e lastre, scienza e teatro 231 7. «Istoria e filosofìa dell’umanità» 235 8. «Suicidio dell’Europa» 240 9. «Non credo alla sopravvivenza» 245 10. Follia giudiziosa 248 11. Paradosso e monocromia 250 12. Il realismo e il mito del realismo
254 13. Intorno a Nietzsche, Gentile,
Heidegger 259 14. Realismo e idealismo
in relazione all’ostacolo 266 15. Stelle
e formiche 271 16. Esser sé 276 17. Continuando un dialogo su tecnica e
diritto 281 427 18. Discutendo con amici 286 S EZIONE TERZA 298 Postille alla sezione prima 298 Al capitolo I 299 1. La bellezza e il male 299 2. Arte e tecnica 303 3. Arte e tendenza fondamentale del nostro
tempo 306 4. Immagini festive 309 Al capitolo II 313 5. L’imperatore Giuliano e Hegel 313 6. Impero romano e «Germania totalitaria»
315 7. Mein Kampf 320 Al capitolo III 323 8. Piazza della Loggia 323 9. Tasse e amnistia 326 10. Visibilità 329 11. Tecnica e «grande politica» 331 Al capitolo V 344 12. Non veritas, sed auctoritas facit legem
344 13. Guerra fredda e corruzione 348 14. Conflitti di retroguardia 354 15. Tecnica e pluralità delle tecniche
357 16. Mactare 361 17. Ancora su «L’anello del ritorno»
364 18. La tecnica e il sottosuolo
368 19. Innocenza del divenire e valore
dell’uguaglianza 385 20. Rawls, Hegel,
Kant 390 428 21. Bergson e la realtà del tempo 392 22. Heidegger. La domanda e la risposta
394 23. Fenomenologia e libertà
398 24. La «mente» come parte 400 25. L’«anima» come totalità e come parte di
ciò che F 402 appare
Al capitolo VI 408 26. Essere e
nulla 408 27. Un libro 415 28. La mano dell’Occidente 418 429 Emanuele Severino. Severino. Keywords:
velino, velia, parmenide, zenone, scuola di velia. Zenone il velino, Parmenide
il velino, divenire, GENTILE -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Severino” – The
Swimming-Pool Library. Severino.
No comments:
Post a Comment