Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Tuesday, December 17, 2024

 


MICHELE FEDERICO SCIACCA 



Filosofia e Metafisica 



VOLUME II 



MARZORATI - EDITORE - MILANO 









FILOSOFIA 

E METAFISICA 



I due volumi di Filosofia 

e Metafisica raccolgono le 

pagine più impegnate e pro- 

fonde che lo Sciacca ha 

scritto tra il 1945 e il 1950 

e segnano il passaggio dal- 

lo «Spiritualismo cristiano» 

alla «Filosofia dell’integra- 

lità». In essi si possono leg- 

gere saggi di rilevante inte- 

resse teoretico come quelli 

sul concetto di metafisica e 

sull’ateismo, oltre all’altro 

sull’esistenza di Dio, che or- 

mai si allinea tra i testi clas- 

sici della filosofia contem- 

poranea. 


Lo stile avvincente e chia- 

ro, il vigore del pensiero in- 

sieme profondo e cristalli- 

no, l’unità dell’ispirazione, 

il modo proprio dell’ Auto- 

re di rendere attuali e vivi 

problemi di sempre, fanno 

che quest'opera, sistemati- 

ca senza pesantezza, sta una 

lettura appassionante e pro- 

ficua. 



Zursaran - S. Tommaso visita S. Bo- 

naventura. 



OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA 



Volumi pubblicati: 



2. 



3. 



4. 

5. 



L'interiorità oggettiva, III edizione italiana riveduta, pag. 120, 

L. 1000. 

Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta, pag. 224, 

L. 1200. 

Interpretazioni rosminiane, II edizione riveduta e aumentata, 



pag. 272, L. 2000. 

L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag. 292, L. 2000. 

Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400. 



6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata, 



8. 



9. 

10. 



Il. 

12. 



pag. 980, L. 6000. 

La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180, 

L.' 1500. 



Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. 

La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160, 

L. 1300. 


In Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500. 

Dall Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500. 



13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III edizione riveduta e aumen- 



tata, pag. 478, L. 4000. 



15. Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000. 

16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300. 



17. 



Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L. 1000. 



Volumi in preparazione: 



18. 



Sòren Kierkegaard e il « malessere » della cristianità. 



19. La filosofia italiana, II edizione. 



20. 

21. 



Il tempo e la libertà. 

Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia. 



22-23. Platone, II edizione. 



24. 

25. 

26. 



Studi sulla filosofia antica, II edizione. 

Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione. 

Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, II edizione. 



27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico. 

29. Studi sulla filosofia moderna, INI edizione. 



30. 



Le mense di Cristo. 



MICHELE FEDERICO SCIACCA 



FILOSOFIA 

E METAFISICA 



Terza edizione riveduta e aumentata 



Volume II 






Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI 

MILANO — via privata Borromei, 1 B/7 






Proprietà letteraria riservata 



© Copyright 1962 by Marzorati - editore, Milano 



Stampato in Italia - Printed in Italy 

1962 






Tipo-Lito P. Pasquetto - Miiano 






L' illustrazione è opera del pittore fiorentino 

Primo Conti. 



La caravella dalle vele crociate, che attraversa le 


Colonne d’ Ercole, simboleggia l’aspetto essenziale 


della filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli 


per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se 


esso cammina e procede sorretto dalla fede nella 

verità di Cristo. 



PARTE TERZA 



ATEISMO E TEISMO 



SEZIONE PRIMA 



L’ATEISMO 



CaprrroLo Π



PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA 



I. — Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine. 



Una mattina, il re Gerone domandò a Simonide che gli 

dicesse chi fosse Dio; Simonide gli chiese un giorno di tem- 

po per pensarci sopra; l'indomani, a corto di una risposta 

soddisfacente, gliene chiese due, poi quattro e così di se- 

guito. Alle meraviglie del re per il moltiplicarsi continuo 

dei giorni, Simonide rispose che più ci pensava, più il pro- 

blema gli sembrava oscuro. 


Le pagine che seguono si propongono di vagliare le ri- 

sposte di quanti, a differenza di Simonide, affermano in 

vario modo che «Dio non è», cioè vogliono essere un 

breve esame storico-critico delle forme più significative di 

ateismo, un’analisi e valutazione delle dottrine che impli- 

citamente o apertamente si dicono atee ( #Seos= senza Dio). 

Problema difficile e complesso, non solo per le sfumature 

che presenta, ma anche perchè quanti son atei spesso negano 

di esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra cosa (!). 

«Avevo sentito dire molte cose di lui già in passato, e fra 



(I) Per esempio, il Comre (Système de polit. pos., t. I, p. 48) scrive che 

l’ateismo è «una cosa rara »; il Renouvier (Derniers Entrétiens, Paris, p. 102) 

che «il n’y a que très peu d’athées »; lo stesso Le DantEc non si considera 

ateo (L’Athfisme, Paris, 1906, p. 56) e aggiunge che la gran maggioranza degli 

uomini « est imbue de l’idée de Dieu » (p. 19); da parte sua il Blondel afferma 

che l’ateismo è « une thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction 

notionnelle, mais non une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire 

qu'il y a ou des anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il 

n’y a pas d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par l’affir- 



8 Filosofia e Metafisica 






l’altro che era ateo: è un uomo realmente molto istruito, e 

mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre 

a ciò, è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me 

proprio come a persona del tutto uguale a lui per cultura 

e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia una cosa mi colpì: 

che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di tutt'altra 

cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per 

quanti miscredenti avessi incontrato e per quanti libri del 

genere avessi letto, mi era sempre sembrato che parlassero 

e scrivessero cose del tutto diverse, sebbene in apparenza fosse 

il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non in modo 

chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nul- 

la... Senti, Parfén, poco fa tu mi hai fatto una domanda, 

eccoti la mia risposta: l’essenza del sentimento religioso 

sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo; c’è 

in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è 

in esso qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che par- 

leranno eternamente di tutt’altra cosa ». 


Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non 

senza una sottile ironia verso il «vero scienziato » « molto 

istruito » e dall’« educazione rara », il quale crede di negare 

Dio e parla « di tutt’altra cosa »: la sua « cultura » e « intel- 

ligenza » hanno come limite l'ignoranza di ciò che negano; 

conosce tante cose ma non la sola necessaria per essere vera- 

mente sapiente. Nè si tratta dell’ignoranza dell’ateismo vol- 

gare: vi sono atei che filano le prove classiche dell’esistenza 

di Dio meglio di tanti credenti; le ripetono anche a se stessi, 

e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insuf- 



mation au moins implicite, mais inéluctable d’un ’’super-immanent’’» (La querelle 

de l'athéisme, Séance du 24 mars 1928 de la « Société frangaise de Philosophie », nel 

vol. di BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion, Paris, Presses Universitaires de 

France, 1951, pp. 212-213). Anche S. Agostino scrive: « Si tale. hoc hominum genus 

est, non multos parturimus; quantum videtur occurrere cogitationibus nostris, per- 

pauci sunt, et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est 

Deus... » (Enarr. in Psalm. 52, 2). E aggiunge: « Dio è così naturalmente pre- 

sente al cuore dell’uomo che solo i corrotti e i perduti nel vizio possono ne- 

garlo » (Enarr. in Psalm. 13; In Joan. Evang. tr. 106, c. 17, n. 4). 



L'ateismo 9 






ficienza della volontà e al «profitto» o al « piacere» di 

non convincersene, intervengono errori o fuorviamenti intel- 

lettuali, di cui il principale è appunto che, parlando di Dio 

e negandolo, parlano di un’altra cosa. Similmente, come 

abbiamo accennato, altri protestano di non essere atei; tut- 

tavia, lo sono, in quanto Lo concepiscono in maniera inade- 

guata o contrastante la sua essenza. 


« Nessuno, in fondo, è ateo se non a parole »; al con- 

trario, secondo Bayle, è possibile una « società di atei»; ai 

nostri giorni si parla di « ateismo di massa» e non più di 

una élite (ateismo individuale o di setta) e alcuni stati e 

governi si proclamano « ufficialmente » atei e areligiosi; non 

manca chi ha creduto di dimostrare, come il Rensi nella 

sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è «razionale » 

negare l’esistenza di Dio, anche se l’ha fatto con una pas- 

sione da « credente senza Dio », spiegabile solo con un sot- 

terraneo e invincibile sentimento religioso. Problema dun- 

que complesso, soprattutto se considerato nel pensiero mo- 

derno e contemporaneo, che va trattato con un interesse 

pari alla sua importanza, anche se, come vedremo, l’ateismo, 

sotto qualsiasi forma si presenti, non è razionale perchè intrin- 

secamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo alla 

sua stessa natura (?). 



2. — Abuso del termine «ateismo ». 



E’ necessario distinguere ateismo in senso assoluto e in 

senso relativo: nel primo caso si nega Dio in qualsiasi modo 

lo si concepisce; nel secondo si giudicano atee alcune parti- 



(2) Ciò è confermato anche dai cosiddetti « fatti » tanto importanti per gli 

empirici, i materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le forme più primitive di reli- 

gione sono monoteiste e il politeismo, il feticismo, ecc. sono forme derivate 

di corruzione o degenerazione. D'altra parte, l’ateismo in quanto tale non è 

originario: come momento negativo, presuppone quello positivo, l’affermazione 

di Dio, cioè nasce dal fatto che l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo 

perchè c'è il credente, il « positivo », che può stare senza il « negativo », che, 

invece, non è senza l’altro. 



10 Filosofia e Metafisica 






colari maniere di concepire la divinità, o si dissente su par- 

ticolari questioni di culto e di carattere religioso-teologico. 

Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani e per i cri- 

stiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici 

i protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII se- 

colo, s'affanna a provare (*) che tutti gli scolastici sono stati 

assolutamente atei; da parte sua, il gesuita Hardouin, nel 

libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo Descartes, Arnauld, 

Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna reli- 

gione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da 

essa disformi. Per conseguenza, secondo alcuni, la defini- 

zione del termine « ateismo » è puramente verbale, in quanto 

il contenuto del concetto di ateo varia secondo le diverse 

concezioni di Dio e del suo modo di esistere (°). A_ volte 

basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali di una 

determinata epoca, per grossolane ed empie che siano, per 

essere accusati di ateismo e condannati. Celebri, in questo 

senso, nell’antichità, il processo e la condanna di Socrate; 

notissimo il racconto dell’Euzifrone platonico dove l’ateo di 

fronte alla religione ufficiale è Socrate, sostenitore di una 

concezione della divinità più conforme al suo concetto, e 

credente l’indovino Eutifrone, che attribuisce agli dèi ogni 

specie di malefatta e se li rappresenta in maniera empia e 

volgare in conformità con le credenze popolari ufficialmente 

accettate (9). 


Qui vi è un abuso della parola «ateo» dettato quasi 

sempre da conformismo opportunistico o da una politica di 

tornaconto, e un’errata impostazione del problema. L’abu- 



(3) Cfr. Disputationes de Deo et Providentia divina, Londra, 1678, disp. 2, 

cap. 2. 


(4) Opera varia, Amsterdam, 1719. 


(5) Vocabulaire technique et critique de la philos., IV ediz., Paris, 1938, 

vol. I, p. 73. 


(6) In questi casi, l’« ateo » è il vero credente, colui che protesta contro 

le concezioni volgari o superstiziose e le pratiche sconvenienti, si mette « contro 

l'opinione comune » (il « paradossale »), che offende Dio e il suo culto. 



L'’ateismo (3 






so, già molte volte rilevato e criticato da scrittori di varia 

tendenza ("), si può riassumere, per quanto riguarda la pra- 

tica religiosa, in questi termini: è ateo chi non è rigida- 

mente conformista al culto ufficiale di un paese in una de- 

terminata epoca. Ma qui non si tratta più di un problema 

teoretico o speculativo, ma di una questione di prassi, tipica, 

per esempio, della Grecia antica, il cui politeismo, privo di 

dogmi e di una vera e propria teologia, era quasi soltanto 

culto controllato dallo Stato. Roma, cue per mancanza di 

autentico spirito religioso e opportunismo politico era tol- 

lerante con tutti i culti, li reprimeva sotto l’accusa di 

ateismo, quando contrastavano con le direttive politiche e 

l'autorità statale. In questi casi non c’è ateismo teore- 

tico in quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico 

perchè non si vive come se Dio non esistesse; si fa que- 

stione intorno alla prassi religiosa e per motivi ad essa 

estranei. Così i pagani chiamavano atei gli Ebrei (*) ed an- 

che i cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro culto; 

con l’editto imperiale del 380, invece, furono definite atee 

tutte le religioni non cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). 

Altra la questione riguardante il diverso modo di con- 

cepire Dio: se si tratta di controversie dogmatiche si può 

parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si 

possono dire eterodossi, ma non atei); se della concezione 

di Dio in generale, bisogna distinguere: a) non sono atee le 

concezioni primitive e rudimentali in quanto manca la co- 

scienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b) lo 

sono, invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo 

nome un ente che non lo è (la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma 

nei due casi si tratta sempre di « insipienza »; infatti, 1r51- 

piens — pronunzia la parola e pensa ad altro — non è solo 

chi nega Dio, ma anche colui che Lo concepisce in modo so- 



i (7) Cfr., per esempio, Vottatre, Dict. philos., Paris, Flammarion, s. a., 

voce « Athée, Athéisme », pp. 35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. 

(8) Jos. Frav., Contra Apion., II, 16. 



12 Filosofia e Metafisica 






stanzialmente sconveniente alla sua essenza. Anzi quest’ul- 

tima forma di ateismo, non soltanto Lo offende, ma ostacola 

la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’« ateo » ha 

la funzione benefica, anche se negativa, di demolire gli 

« dèi falsi e bugiardi ». 4 


Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti 

concludono che il termine ateo non ha alcun significato teo- 

retico definitivo o definibile, ma solo un eglore storico da 

determinare caso per caso secondo i diversi culti e le parti- 

colari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega ogni 

forma di ateismo — tutto si ridurrebbe a reciproche accuse 

tra sistemi teologici e culti diversi, a chiamare atee forme di 

religione rudimentali o meno progredite — ma che teismo 

ed ateismo, in quanto temi di polemiche religiose, siano pro- 

blemi appartenenti alle discussioni filosofiche; in altri ter- 

mini, si nega che l’esistenza di Dio sia un problema teo- 

retico e lo si relega tra le controversie intorno al culto. Af- 

fermazione insostenibile, storicamente e teoreticamente, la 

quale non distingue il problema del domma e del culto da 

quello filosofico vero e proprio. 


Infatti, dal punto di vista storico è facile constatare che, 

in ogni epoca, tutti i grandi sistemi speculativi hanno affron- 

tato come questione filosofica e da un punto di vista teoretico 

il problema dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi 

non c’è stata e non c’è filosofia che non si sia posto il pro- 

blema, così intrinseco alla stessa ricerca da definirsi, secondo 

la risposta affermativa o negativa, teistica, agnostica, atea, 

ecc. Possibile che una questione la quale ha occupato la mente 

degli uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre in- 

trinseca alla ricerca razionale, non abbia in sè alcun senso 

filosofico, al punto da far dire che il termine « ateismo » non 

ha un significato teoretico definitivo, è privo di un suo con- 

tenuto e appartiene solo alle controversie sul culto o tende 

decisamente a ridurvisi? 



L'ateismo 13 






Dal punto di vista teoretico, come giustamente osserva 

il Lachelier (9), «ce qui varie est moins le contenu philo- 

sophique » dell'idea di ateismo « que l’emploi plus ou moins 

malveillant » che si fa del termine contro una particolare 

dottrina o una determinata persona. Altro è il contenuto 

filosofico pressochè invariabile, altro l’uso pratico del ter- 

mine; dunque, il senso storico o pratico variabile va distinto 

da quello teoretico immutabile. Chi nega che i termini 

«ateismo » e « teismo » abbiano un senso speculativo e pre- 

tende con ciò di negar loro diritto di cittadinanza nelle ri- 

cerche e nelle discussioni filosofiche per affidarli soltanto 

alle controversie religiose, muove da una posizione di pen- 

siero, da un presupposto che ha già concluso per suo conto 

che il tema dell’esistenza di Dio è del tutto estraneo 

alla filosofia o alla ricerca razionale e perciò non costituisce 

un problema speculativo; dunque, da un sistema costruito in 

modo da non far posto all'idea di Dio e, in questo senso, 

da una filosofia atea. Per conseguenza, la sua affermazione 

che il termine ateismo non ha un contenuto teoretico defi- 

nibile ma solo un valore storico e pratico, è presupposta, 

senza essere dimostrata, nella sua iniziale posizione filo- 

sofica che, in partenza e aprioristicamente, esclude dal campo 

dell'indagine razionale il problema teologico, per relegarlo 

in quello delle questioni religiose, solo in quanto il sistema 

non ne «tollera » la presenza: ci troviamo di fronte ad uno 

scoperto e filosoficamente intollerabile :dolum theazri. Chi 

dice in partenza, confondendo l’uso pratico del termine atei- 

smo con il suo contenuto, che quello dell’esistenza o non - 

esistenza di Dio non è un problema filosofico ha già deciso; 

per lui, la ragione, come ragione filosofica, è atea o almeno 

agnostica. Ma questa affermazione è una soluzione del pro- 

blema in questione, non un’argomentazione valida per dimo- 

strare che quello teologico non ha un significato teoretico; 



(9) Vocabulaire ccc., cit., p. 72. 



14 Filosofia e Metafisica 






anzi per il fatto che dà già una soluzione, vera o falsa che 

sia, prova con ciò stesso che il problema appartiene all’in- 

dagine filosofica e non soltanto alle controversie religiose. 

Dunque esso va riportato in sede speculativa come quello che, 

non solo appartiene alla ricerca razionale, ma è il problema 

primo della metafisica e perciò intrinseco ed essenziale alla 

filosofia come tale. 


Ma daccapo: quando l’ateo dice « Dio non esiste », quale 

Dio nega? Pensa veramente a Dio? Ne nega l’esistenza sen- 

z’altro, o nega quella di un Dio immaginato in una deter- 

minata maniera? Si è teisti soltanto se si ammette l’esistenza 

di Dio concepito nell'unica maniera vera e atei quando, pur 

non negandolo senz’altro, se ne concepisce uno in un modo 

diverso dall’unico per cui ci si possa dire teisti, in quanto 

il solo concepirlo diversamente ne implica la negazione? 

Problemi, questi ed altri, da tener presenti in una valuta- 

zione filosofica dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di 

una «ragione atea »; dunque, ai fini della validità dell’atei- 

smo stesso la domanda decisiva è una sola: è razionale una 

ragione atea? 



CapiroLo II 



L’ATEISMO PRATICO 



I. — Di alcune sue forme. 



L'’ateismo pratico non è autonomo e originario ma dipen- 

dente e derivato: ogni sua forma ne presuppone una di atei- 

smo teoretico: la volontà atea, sia pure implicitamente, è 

conseguenza della ragione atea. Perciò la sua validità di- 

pende da quella dell’ateismo teoretico, la cui confutazione 

implica inappellabilmente l’altra dell’ateismo pratico. 


Vi è un ateismo, scrive Bossuet, « caché dans tous les 

coeurs, qui se répand dans toutes les actions: on compte 

Dieu pour rien » ('). È l’attitudine di quanti vivono e orga- 

nizzano la propria vita come se Dio non esistesse; e non se ne 

« preoccupano » (”). Non ne negano in modo esplicito l’esi- 

stenza; vivono e agiscono senza tenerne conto, cioè negano 

che Dio, esista o no, possa avere una qualsiasi efficacia va- 

lida sulla nostra condotta e aiutarci nella soluzione dei pro- 

blemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento 

sottostà una tacita convinzione: niente nel mondo cambie- 


(1) Pensées détachées, II. 


(2) E’ più una questione di indifferenza che d’ignoranza; a volte di pi- 

grizia, d’insensibilità, di ottusità spirituale; infatti, di Dio sentono parlare e 

ne parlano, ma vivono egualmente come se non esistesse. Non si tratta soltanto 

di essere sopraffatti dalle passioni terrene o dall’urgenza della vita — il la- 

sciarsene sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi — 

nè dall’influenza dell'ambiente o dell'educazione: il fatto che se ne lasciano 

assimilare è prova che mancano di una vera esigenza religiosa ed implica una 



accettazione che è sempre, almeno implicitamente, frutto di una sia pure ele- 

mentare riflessione e di un atto volontario sia esso di mera acquiescenza. 



16 Filosofia e Metafisica 






rebbe in bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la 

morte e tutto il corso dell’umana esistenza non muterebbero 

di segno: dunque che vale ammetterlo o preoccuparsi di 

risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi ragio- 

na in questo modo, di quale Dio non si preoccupa sa- 

pere se esista o no ed agisce, in privato ed in pubblico, 

come se non esistesse? Di un Dio la cui esistenza non 

avrebbe alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso 

della vita; che è dire di un Dio che non è tale, anzi che 

è meno dell’uomo, il quale in un certo modo riesce ad in- 

fluire sulle sue azioni e a dare una risposta a certi problemi. 

È evidente che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno 

teoretico, cioè del concepire Dio come non Dio, che è ne- 

garne l’esistenza; dunque, affinchè esso possa giustificarsi 

deve prima provare la validità razionale della negazione teo- 

retica su cui si fonda e da cui deriva. 


Vi è una forma di ateismo pratico più radicale ed oggi 

di moda: la vita non ha senso, è assurda; dunque Dio non 

esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò stesso 

presuppone che Dio non esiste. Infatti, è contraddittorio ne- 

gare ogni senso alla vita e nello stesso tempo ammettere che 

Dio esiste — in tal caso si pensa ancora all'esistenza di un 

Dio che non è tale —; come non si può ammettere l’esistenza 

del vero Dio senza dare alla vita un senso preciso e assoluto. 

La negazione non è una conseguenza del fatto che la vita 

non ha senso, ma la premessa teoretica da cui scaturisce l’atei- 

smo pratico. Chi nega un senso alla vita non deduce da 

questa affermazione l’inesistenza di Dio; al contrario, dice 

che la vita non ha senso proprio perchè in cuor suo Lo ha già 

negato. « Dio non esiste » è la premessa, anche se taciuta od 

omessa, dell’altra proposizione «la vita non ha senso», 

dalla quale non consegue la negazione di Dio; quando la 

si pronuncia si è già negato Dio, anzi la si formula solo in 

quanto si è negato. 



L'ateismo 17 






L’ateismo pratico, anche in questo caso, è conseguenza 

di quello teoretico; dunque non è valido fino a quando non 

si sarà razionalmente dimostrata la validità di quest’ultimo. 

Del resto, è nota la critica di Sartre all’« ateismo assurdi- 

sta » del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si autonega, 

in quanto è sistema ben ordinato del disordine, una specie 

di razionalizzazione dell’assurdo perfettamente sistemato; 

piuttosto che negare l’Assoluto lo implica senza spiegarlo. 

Ma questa critica vale anche contro l’ateismo del Sartre. 



Se il male e i cattivi sono premiati a che giova credere 

nell’esistenza degli dèi e adorarli? Si potrebbe credervi se 

attraverso il trionfo del giusto si manifestasse la loro giu- 

stizia; ma nelle cose del mondo avviene proprio il con- 

trario. Questa forma di ateismo pratico, presente in tutti i 

tempi (*) e presso tutte le società, può così riassumersi: se 

l'ingiustizia fosse punita e il male vinto, non si potrebbe non 

credere nell’esistenza degli dèi o di un Dio; invece, l’ingiu- 

stizia è premiata e il bene sconfitto, dunque non esiste la di- 

vinità, o almeno tutto sta a provare il contrario; ammesso 

che esista, è impotente o malvagia. 


Questa forma di ateismo pratico è la semplificazione em- 

pirica di un problema metafisico di grande portata e preci- 

samente di quello del male e della sua origine: Si Deus 

est, unde malum? La presenza del male nel mondo è una 

delle cause principali dell’ateismo, come ci attesta la dolo- 

rosa esperienza del nostro e di tutti i tempi. La stessa mis- 

sione di Cristo è stata interpretata in questo senso: il Getse- 

mani, la cattura, il processo, il supplizio e la morte sta- 

rebbero a testimoniare come il giusto soccomba e il bene sia 

sempre sconfitto dal male trionfante. 



(3) Se si onorano le azioni cattive ed ingiuste, a che adorare gli dèi — 

tl del pe xopesetv — ? (SorocLe, Edipo re, 895); se l'ingiustizia è più potente 

della giustizia non si può credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra, 583). La stessa tesi è 

sostenuta dai sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto i libri I e IM). 



18 Filosofia e Metafisica 






Ma in che senso si dice che il male vince ed è premiato 

e, dunque, Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in 

questo mondo, su questa terra, il bene non è vittorioso ed 

è perseguitato. In altri termini, si esige che la giustizia di- 

vina si avveri in questa vita, qui si puniscano i cattivi e si 

premiino i buoni, qui si compia il destino dell’uomo; che 

questa vita non sia prova, ma compimento pieno dell’esi- 

stenza nell’episodio mondano, con cui viene in tal modo ad 

identificarsi tutta. Ma ciò implica la negazione di un’altra 

vita, dove si attua la piena giustizia divina, e la identifica- 

zione di tutto l’essere con la realtà mondana; cioè presup- 

pone la negazione teoretica di Dio e di un Regno divino, 

del resto superflui una volta che nel mondo può trionfare 

la perfetta giustizia e l’uomo avere felicità eterna. Infatti, se 

si ammette che Dio esiste come Provvidenza e giustizia as- 

soluta, è contraddittorio affermare che il male trionfa sem- 

pre ed è premiato; bisogna dire invece che, anche quel che 

sembra male è a fin di bene e la giustizia, anche se scon- 

fitta e punita in questa vita, sarà vittoriosa e premiata nel- 

l’altra; cioè, che la vera si attua in un altro mondo. Il fatto 

che il male trionfa sulla terra e il giusto vi è perseguitato e 

punito non autorizza la conclusione negativa dell’esistenza 

di Dio, anzi è uno degli aspetti della vicenda storica del- 

l’uomo che acutizza il problema, fa riflettere sul signi- 

ficato dell’esistenza e stimola al convincimento positivo. 

Pertanto, la vera forma del ragionamento ateo non è: «vi 

è il male vittorioso nel mondo e il bene sconfitto, dunque 

Dio non esiste », ma quest'altra: « Dio non esiste e non vi 

è una giustizia divina ultramondana, dunque il male è de- 

finitivamente vittorioso nel mondo e il bene sconfitto ». L’atei- 

smo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il problema: 

si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha ne- 

gato Dio, si pone in questi termini: « ammesso Dio, come 

si spiega il male?»; per chi Lo ha già negato, in questi al- 



L'ateismo 19 






tri: «se nel mondo c’è il male trionfante, Dio non esiste ». 

La conclusione solo in apparenza è tale; in realtà è la pre- 

messa: « Dio non esiste, dunque nel mondo c’è il male, e 

vi trionfa ». Infatti, se si nega un regno ultramondano ed 

ultraumano, il male è invincibile ed impossibile una giu- 

stizia perfetta; ma proprio perchè già... si è negato Dio! 


Da ultimo, negare Dio perchè nel mondo il male ha suc- 

cesso e il bene è perseguitato, è dare eccessiva importanza 

al giudizio degli uomini e attribuire valore assoluto a quel 

che il mondo può darci, altrimenti non si potrebbe conclu- 

dere a quella negazione, contraddittoria con la relatività del- 

l'umano giudizio e dei riconoscimenti che crediamo spet- 

tarci; ma sopravvalutare la giustizia e l’ingiustizia terrene e 

i beni che possono dispensare o interdire, è già negare Dio. 

Basta convincersi che, meno le essenzialissime, le cose hanno 

solo l’importanza che attribuiamo loro, per non disperare di 

fronte al male premiato o al bene perseguitato e per rimettere 

ogni giudizio, con l’anima in pace, alla giustizia divina. 


Invece, la forma di ateismo pratico che stiamo discutendo 

importa la negazione radicale del cristiano Regnum Dei, 

della verità delle parole di Cristo: « Il mio Regno non è di 

questo mondo ». Conseguenza pratica di una posizione teo- 

retica immanentistica — non vi è un al di là trascendente, 

l’unica realtà è questo mondo — afferma che v'è solo il 

regnum hominis, dove si attua il cosiddetto Regnum Dei. 

Ma è un umanesimo ateo « disincantato »; non crede nella 

potenza dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di 

felicità e dalla negazione teoretica di Dio conclude all’in- 

vincibilità del male e al suo trionfo tra gli uomini. Ciò 

prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni vali- 

dità anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni con- 

tingenti, e non abbia più senso nemmeno essere onesti per 

sentirsi in pace con la coscienza. 


Su questa radicale negazione della concezione cristiana. 



20 Filosofia Metafisica 






dell’esistenza si fonda l’interpretazione, sopra accennata, del- 

la vita di Cristo come esempio della sconfitta del bene e della 

vittoria del male. Se la si accetta per vera, se Cristo sta a 

provare che il male è assolutamente invincibile e il bene soc- 

combente e crocifisso, non si sfugge a questa conclusione: 

Cristo sta a dirci che Dio non esiste, che non è Suo Figlio, 

nè è venuto a testimoniare del Padre; abbandonato perse- 

guitato crocifisso, è la prova che non vi è alcuna giustizia, 

nè Dio, convalida l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, 

nonostante le cose che ha detto del Padre, è stato un ateo 

tristissimo e sconsolato! 


Tali le conseguenze assurde di questo ateismo pratico 

che possiamo chiamare anche dell’insuccesso: il bene è sem- 

pre in perdita, il male sempre in vincita, dunque Dio non 

esiste. Ma, daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di 

Dio si conclude che il male vince e il bene perde; altrimenti, 

se quella negazione non fosse presupposta, dall’insuccesso 

mondano e contingente del bene si ricaverebbe quest'altra 

conclusione: quando il bene si purifica attraverso la rinun- 

zia, la sofferenza e la sconfitta terrena, quando sfida il mar- 

tirio, si assicura la vittoria, vince con e nel sacrificio di chi 

gli si sacrifica, gli rende testimonianza. Invece, il male, 

apparentemente vittorioso, perde terribilmente nel momen- 

to che uccide il giusto, perchè vince come male, perchè 

costretto a commettere ingiustizia: è sconfitto proprio per 

il suo successo. La punizione della legge ingiusta, come dice 

Gandhi, sta nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, 

nelle sue ingiustizie e nelle sue vittime (*). Bruto che, dopo 

la sconfitta di Filippi, giudica la virtù «un nome vano » 

e si uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e 

ne aveva sempre misurato il valore e il significato dall’even- 

tuale insuccesso o successo, anzi dal suo personale. 



(4) Per un approfondimento di questi temi cfr. il nostro volume Come 

si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz., 1962, Il* delle « Opere com- 

plete ». 



L'ateismo 21 






Vi è in quest’ateismo pratico anche un fondo di superbia 

satanica: la pretesa che l’uomo faccia trionfare il bene e 

la giustizia con la sua opera, come se fosse egli il creatore e 

il garante dei valori. « Noi facciamo sempre come se aves- 

simo il compito di far trionfare la verità, mentre abbiamo 

solamente quello di combattere per essa» (Pascal). Simil- 

mente il nostro dovere è di essere giusti al servizio della 

giustizia: combattere per essa, senza pretendere di farla 

trionfare, perchè non ci spetta. Chi si arroga quest’ultimo 

compito è già ateo: affida a sè il trionfo del bene, non ce 

la fa, e conclude che se il bene perde e il male vince, non 

c'è bene in questo mondo e dunque... Dio non esiste. Un 

« dunque » apparente perchè non è tale, ma la premessa del- 

l’assurda pretesa di far trionfare il bene, di misurarne la 

vittoria o la sconfitta dal suo terreno successo o insuccesso, 

di pretendere che l’ordine divino si attui nel mondo e si iden- 

tifichi con quello umano, anzi sia lo stesso nostro ordine. 


Da ultimo, non vogliamo tacere di una forma molto dif- 

fusa di ateismo pratico, quello di quanti dicono di credere 

in Dio e ne negano l’esistenza in ogni loro azione, cioè agi- 

scono come se non Gli credessero, o non esistesse. Affermano 

di credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il denaro; 

immersi nelle cose, la loro credenza religiosa è solo una 

specie di polizza di assicurazione, pagata con il tributo del 

culto esteriore, sicuri, con questo supplemento di comodità, 

di star bene in questa vita e meglio nell’altra. È l’ateismo 

pratico della Messa della domenica e del segno della Croce, 

magari, per non sciupare quel frammento di tempo, pen- 

sando a qualche « buon affare ». Anche in questo caso, l’atei- 

smo pratico presuppone quello teoretico, in quanto la « fede » 

di questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e 

manca di ogni fondamento razionale; è pura consuetudine 

alimentata dal timore del « non si sa mai ». Vi è l’angoscia 

bruciante e tormentata dei « buoni » atei; vi è l’ateismo so- 

stanziale dei cattivi credenti. 



22 Filosofia e Metafisica 






2. — Inconsistenza dell’ateismo pratico. 



Come abbiamo detto, l’ateismo pratico non prova la nega- 

zione di Dio, ma la presuppone: apparentemente dal mo- 

mento pratico trae la conseguenza teoretica che Dio non esi- 

stes in realtà quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel 

mondo vince il male e perde il bene, dunque Dio non esi- 

ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza e non la 

premessa della negazione dell’esistenza di Dio; il dolore e il 

male sono inspiegabili, dunque non c’è un Dio, ma sono 

inspiegabili appunto perchè Dio si è negato. Leopardi esorta 

gli uomini a prendersi per mano per meglio sopportare il 

peso della vita di cui nessuno si cura; ma gli uomini sen- 

tono la vita come un peso assurdo solo se si presuppone 

che nessuno si cura di loro, cioè se si è già atei. Vana illu- 

sione il conforto della solidarietà nel comune dolore: una 

comunità di disperati non può dare speranza ad un solo 

uomo! È evidente il sofisma dell’ateismo pratico: da una 

valutazione negativa del mondo conclude che Dio non esi- 

ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza della 

seconda. La conclusione (Dio non esiste) dalla premessa (se 

il mondo è fatto così) è in realtà la premessa di cui l’altra 

è la conseguenza. 


D’altra parte, come abbiamo accennato, se il male potesse 

essere sconfitto definitivamente in questo mondo e l’uomo 

realizzarvi la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e una 

superiore giustizia divina: il conflitto tra il male e il bene 

sarebbe risolto in questa vita e l’esito immanente della lotta, 

tutto in potere dell’uomo, renderebbe superfluo quello al di 

là di essa e dipendente da un intervento, che s'inserisce 

nella lotta dell’uomo, ma non gli appartiene. Da questo punto 

di vista, all'opposto di come argomenta l’ateismo pratico, 

proprio gli insuccessi del bene e l’incertezza dell’esito defi- 

nitivo del conflitto, sempre sospeso tra il bene e il male, 

fanno evidente la convenienza razionale di una Giustizia 



L'ateismo 23 






divina trascendente e di una Provvidenza regolatrice della 

vita di ogni singolo e dell’ordine universale. 


L’ateismo pratico, inoltre, arriva a conclusioni opposte, 

ora ottimiste, ora pessimiste: dalla negazione dell’esistenza 

di Dio e di una giustizia superiore conclude, come alcune 

odierne forme di esistenzialismo, che nel mondo vince il 

male e la vita è miseria, assurdo, nulla; d’altro lato, dalle 

stesse negazioni, che, proprio liberandosi da quelle « super- 

stizioni », l’uomo realizza in terra la giustizia e la felicità 

perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo: ab- 

battere il vecchio edificio, demolire le illusorie speranze di 

una esistenza ultraterrena e ricostruire una società nuova, 

fiduciosa nelle sue sole forze razionali, che, immancabil- 

mente, per mezzo dell’onnipotente scienza, conquisterà per 

ogni uomo la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno 

di Dio si attuerà su questa terra in un futuro immancabile, 

di cui artefice è e sarà soltanto l’uomo (5). Il mito illumini- 

stico si è ripresentato, con il marxismo, sotto altra forma e 

la spinta di nuovi problemi, come mito della futura « società 

omogenea », instauratrice del « nuovo » uomo marxista e del 

«nuovo » umanesimo senza Dio. È facile che tale ottimi- 



(5) Il d’HotsacH fa consistere la felicità nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi 

la glorificazione: vi sono atei più virtuosi dei cristiani, capaci di macchiarsi 

dei più turpi vizi; una società di atei, non solo è concepibile, ma sarebbe su- 

periore ad una cristiana; anche l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi mar- 

tiri. L'Ottocento, a sua volta, crea il mito dell’ateo, modello di onestà, sal- 

dezza e coerenza morale, quasi una prova apologetica della verità dell’ateismo. 

Essere atei e onestissimi diventò una specie di srob, una patente, oltre che di 

alte virtù civili — e ciò fino ad un certo punto è vero —, anche di grande 

nobile coraggio morale, quello di sfidare il nulla della morte e di sapersi reg- 

gere, torre che non crolla, sulle sole leggi immanenti della coscienza; e ciò 

non manca del ridicolo che accompagna ogni bravura, oltre che di un buon 

grado di infantile superbia ed ingenuità, quella di chi crede che, negato Dio, 

vi possa essere un'assoluta legge morale. Ottimistico ateismo « borghese » che 

il pessimistico ateismo « antiborghese » del ’900 ha distrutto con spietata coe- 

renza, anche se è riescito a mettere al suo posto soltanto il nulla. 


Ma già nell’antichità Epicuro ritiene indispensabile alla tranquillità e fe- 

licità del saggio il liberarsi dalla credenza nell’immortalità dell’anima, dalle 

preoccupazioni dell’oltretomba e di una Provvidenza divina. Non nega l’esi- 

stenza degli dèi; li relega tra gli intermundi, modelli ideali di quella saggezza 

a cui l’uomo deve tendere. 



24 Filosofia e Metafisica 






smo, una volta affidato all’uomo il compito di realizzare 

quello che non gli compete e di fronte all’impossibilità di 

tradurre in atto le sue « disumane » aspirazioni, ritorni alla 

posizione dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di 

tutte le concezioni edoniste (9), le quali assolutizzano il rela- 

tivo — il piacere o l’utile economico, — che, come tale, può 

essere assoluto solo per un’arbitraria ed ingiustificata estra- 

polazione e per un depauperamento al minimo delle finalità 

dell’uomo. 



(6) Com'è noto, l’edonismo della Scuola cirenaica in alcuni suoi seguaci 

sbocca in un sostanziale pessimismo; così in Egesia, detto il « persuaditor di 

morte » (merarddvatoc). Alla stessa dialettica ubbidiscono alcune teorie del « pia- 

cere » e del « dolore » del secolo XVIII. 



CapitoLo III 



L’ATEISMO TEORETICO 



I. — Schema delle sue principali forme. 



L’ateismo teoretico, presupposto da quello pratico, è un 

giudizio negativo, diretto o indiretto, sull’esistenza di Dio; 

dunque dovrebbe essere la conclusione di un processo raziona- 

le da certe premesse. Possiamo distinguere: a) ateismo dom- 

matico o negazione pura e semplice dell’esistenza di Dio; 

b) ateismo scettico-agnostico, provvisorio o definitivo, il quale 

nega all’uomo la capacità di concepire Dio e di provarne co- 

munque l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema del- 

l’esistenza di Dio, dice Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà 

insolubili, come la realtà del male e del dolore, per cui, 

quando si crede di averlo risolto, non si è risolto niente (!); 

c) ateismo critico o confutazione delle possibili prove razio- 

nali dell’esistenza di Dio — la posizione di Kant nella Cri- 

tica della Ragione pura — che tuttavia non è negata (ateismo 

attenuato), anzi la si ammette per esigenze morali: forma di 

fideismo, non religioso, ma come atto di fede razionale; 

d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il deismo, 

il panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esi- 

stenza, sono considerate atee per il modo come Lo concepi- 

scono. Certo, se come sostengono alcuni non può dirsi ateo 

chi ammette una realtà assoluta comunque concepita, non 



(1) Réponse aux questions d'un provincial, 1706, t. III, cap. LXXIV. 



26 Filosofia e Metafisica 









vi è forse pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il concetto 

di Dio risulta puramente verbale, cioè mancante di un con- 

tenuto proprio e avente quello che ogni filosofia gli attri- 

buisce. D'altra parte, l’« Assoluto» come è concepito da 

alcuni filosofi non sempre è veramente tale, nè basta il ter- 

mine per qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la 

Materia o l'Energia cosmica intese come principio assoluto? 

l’hegeliano Assoluto « che si fa », o un Dio limitato? Inoltre, 

la nozione di Dio, come quella che non appartiene solo al pen- 

siero filosofico ma anche e soprattutto alla coscienza religiosa, 

deve soddisfare le esigenze della ragione e della fede. e) Atei- 

smo come negazione dell’altenazione religiosa o liberazione 

definitiva dall’idea di Dio e riconquista dei diritti e dei poteri 

integrali dell’uomo. 



2. — L'’ateismo assoluto o dommatico. 



L’ateismo assoluto, negazione vera e propria dell’esistenza 

di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teo- 

retico. I filosofi atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi 

l’ateismo, in questa accezione, è combattuto... proprio dagli 

atei, come quello che è una mera credenza: «credo ferma- 



(2) Nella Grecia antica sono considerati atei sotto questo aspetto alcuni so- 

fisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma satiresco Sisyphos, SExT., 

Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker, Il, fr. 25, p. 319 della 

IV ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura invenzione. Atei, oltre a Teodoro, 

Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti per tradizione Diogene di Apollo- 

nia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il quale gli dèi non sono che antichi 

re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei tempi moderni, più che veri e pro- 

pri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici e scettici; oppure dommatici nega- 

tori di Dio che non si son mai posto speculativamente il problema; o ancora so- 

stenitori di dottrine materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio, muovendo 

da un ateismo preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla forma 

dommatica di rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è ritenuta « im- 

pensabile », « impossibile »: non si criticano le prove, si passa oltre, come 

di un problema che non ha senso logico nè interesse. Questo ateismo si può ri- 

portare a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio, di Le Dantec): 

insensibilità per il problema e inconcepibilità dell'idea di Dio. Più che di una 

teoria filosofica si tratta di una situazione psicologica; perciò di un «caso » 

da trattare in altra sede e non di un problema da discutere filosoficamente. 



L'ateismo 27 






mente che Dio non esiste ». Di fronte ad una simile affer- 

mazione dommatica e « fideistica » non c’è che da scrollare 

le spalle fino a quando non venga trasformata in problema, 

in un interrogativo su cui portare la discussione. Le si può 

contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di protestare, 

quella del teista dommatico: «La mia impossibilità di 

provare che non c’è Dio, mi svela la sua esistenza» (La 

Bruyère). 


Per Voltaire questo ateismo è una forma di dommatismo 

«quasi sempre fatale alla virtù » al pari del fanatismo (*). 

In questo senso, ha a suo modo un'anima religiosa, quella 

propria dell’ateo che vive intensamente il suo problema reli- 

gioso, antitesi dell’« indifferente », che appartiene ad altra 

forma di ateismo. Bayle fu prima protestante, poi cattolico, 

di nuovo protestante e difensore dell’ateismo: il problema 

religioso lo interessò sempre profondamente. Come dice il 

Rensi, che dell’ateismo ha scritto l’apologia, c'è « maggiore 

affinità di spirito fra un religioso fervente e un ateo il quale 

viva appassionatamente la sua negazione o rassegnata o di- 

sperata, che non tra il primo e un credente per consuetu- 

dine...» (‘); lo stesso autore si considera ateo «per religione» : 

«...solo l’ateismo è puro e pio, solo l’ateismo è la grande 

vera religione » (*), quella del Nulla, atteggiamento mistico 

che si spinge fino alla negazione di Dio (°). Come tale, a 

parte quanto vi può essere di positivo in un’anima sincera- 

mente tormentata, non è una posizione filosofica da discutere, 

ma uno stato d’animo irrazionale ed angoscioso, il quale, più 

che essere confutato, va « smontato » come ogni « passione », 

dimostrando razionalmente vera la tesi teistica, che è ripor- 

tare l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli non dimo- 



(3) Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., p. 45. 


(4) Rensi, Apologia dell’ateismo, p. 98. 


(5) Ivi, p. 101. 


(6) Anche nell’India moderna (prima metà del sec. XIX) abbiamo un esem- 

pio di ateismo assoluto, quello di BakHravar, autore del Sunisar (« Essenza 

del vuoto »), dove è esposta la « dottrina del vuoto » (sinyavada) o del Nulla. 



28 Filosofia e Metafisica 






stra che Dio non esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo 

A gr: ì 


puro, che è una specie di idolatria par choc en retour. 

Intatti, chi crede nel proprio ateismo finisce sempre per ado- 

rare e temere qualche altra cosa, una forza della natura o 

la materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato, 

lo stesso male (?). Ciò prova indirettamente che nell’uomo 

il sentimento religioso può deviare ma non si può estirpare 

e come, più che sull'esistenza di Dio, vi sia questione sul 

modo di pensare tale esistenza e Dio stesso senza contraddi- 

zione, cioè in maniera idonea e non sconveniente. 


C'è una forma di ateismo assoluto non nuova, ma oggi 

di moda a causa della fortuna di un certo esistenzialismo che 

offende anche il più elementare buon senso; vi abbiamo ac- 

cennato, ma l’aspetto che qui consideriamo si distingue 

sottilmente dall’ateismo assurdista del Camus. Il mondo è 

assurdo; se si potesse provare che Dio esiste, avrebbe un 

senso; ma Dio è indimostrabile; dunque il mondo è assurdo. 

Ateismo dommatico: muove dal presupposto che il mondo 

è assurdo e pretende contraddittoriamente che solo l’esistenza 

di Dio potrebbe dargli un senso; senza badare che quel pre- 

supposto implica, comporta e presuppone la sua negazione. 

Infatti, un mondo assurdo ne esclude l’esistenza, perchè è 

contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a meno di 

non concepirLo come l’Assurdo, che è parlare non di Lui 

ma di un’altra cosa, cioè avere una concezione assurda di 


(7) In questo senso, la superstizione è la vendetta della religione: gli atei, 

i più spregiudicati, sono superstiziosissimi. Ritengono Dio una fantasticheria da 

donnicciuole, la dommatica un prodotto dell’immaginazione « fabulatrice » di 

menti bambine e immature, ma credono fino a torcersi le budella dalla paura 

che il gatto nero che attraversa la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella 

coscienza primitiva la religione si manifesta in forme elementari o popolari e 

perciò anche superstiziose; nell’ateo, invece, che della religione nega il con- 

tenuto, resta la superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addot- 

trinato. Nel primo caso la religione assume forme elementari adeguate alla co- 

scienza primitiva (ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo svi- 

luppo mentale), nel secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dal- 

l’ateismo, trova il surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la 



fede cieca nel suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che 

sono anche le sue. 



L’ateismo 29 






Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è assurdo, come 

si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche 

essa bisogna dirla assurda; la stessa eventuale prova lo sa- 

rebbe. Ma evidentemente chi dice che, se si potesse provare 

l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe assurdo, ammette 

almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda, 

altrimenti non la porrebbe neppure; dunque nega, con ciò 

stesso, che il mondo è assurdo. Ma tant'è, l’esistenzialista 

ateo si fa un idolo del suo mondo senza senso, vi si crogiola 

dentro, felicemente confortato di tanta disperata infelicità; 

si perde nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 



3. — L’'agnosticismo. 



Nel pensiero moderno, specie con il positivismo e attra- 

verso le interpretazioni empiristiche e positiviste di Kant, 

l’agnosticismo, parola usata per la prima volta da Huxley 

nel 1869 e di cui l’inglese Leslie Stephen nel 1876 pubblicò 

l’apologia (An Agnostic’ Apology) (*) è una delle forme 

più diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine in opposi- 

zione a gnosi: « non saper nulla » intorno ad un argomento 

e trovarsi di fronte ad un problema insolubile. Più esplici- 

tamente lo Stephen: la conoscenza umana ha dei limiti e 

quando si occupa di argomenti che sono al di là di essi 

costruisce un sapere fantastico; la teologia è al di là dei 

limiti dell’umana conoscenza; dunque è un tessuto di chi- 

mere. Ma è necessario precisare quali sono questi limiti — 

per un positivista sono diversi da quelli segnati da un idea- 

lista e i limiti di entrambi differenti da quelli di uno scet- 

tico —; se la negazione o l’affermazione dell’esistenza di 

Dio cade dentro o al di fuori di essi; che cosa s'intende con 

la parola « teologia », dato che ve n’è una naturale o razio- 

nale e un’altra rivelata o dommatica. Lo Stephen non sembra 


(8) Ma l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di Protagora: 



« quanto agli dèi, ignoro se sono o se non sono e quale aspetto abbiano » 

(Dros., IX, 51). 



30 Filosofia e Metafisica 






fare queste distinzioni e perciò confonde ordine religioso ed 

ordine filosofico. 


Nessun filosofo teista ha contestato i limiti della cono- 

scenza umana in materia di teologia e quasi tutti concordano 

nell’affermare che l’uomo non ha cognizione diretta della 

essenza di Dio; ma il problema che qui si discute non è 

quello dell’essenza, bensì l’altro della Sua esistenza che non 

è solo di fede ma anche di ragione. L’agnostico esclude 

che tale problema sia razionalmente solubile perchè muove 

da un suo modo di concepire i limiti della conoscenza; 

dunque la sua conclusione agnostica è un idolum theatri ine- 

rente al suo «sistema»: il problema dell’esistenza di Dio 

non è insolubile in se stesso e in qualunque caso, ma lo è 

solo rispetto alla sua teoria della conoscenza, cioè è una 

questione interna della sua filosofia. Perciò è arbitrario dalla 

proposizione, « la conoscenza umana ha dei limiti », dedurre 

la conseguenza, « dunque non sappiamo se Dio esiste », in 

quanto: 1) si limita la conoscenza umana al di qua dei 

suoi stessi limiti, cioè alla pura esperienza dei fatti o dei 

fenomeni sensibili; 2) si fa dell’esistenza di Dio un problema 

di pura fede; 3) si nega la possibilità di una conoscenza 

diversa da quella dei fatti e perciò di un sapere poetico, 

morale, ecc.; della metafisica in quanto tale e, con ciò stesso, 

di un sapere filosofico. L’agnosticismo in questo senso è la 

negazione della stessa filosofia che, depauperata e depoten- 

ziata, è ridotta alla pura conoscenza scientifica o dei fatti 

fisici, o alla pura conoscenza storica o dei fatti umani. 


Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo (Locke, Ha- 

milton, Mansel, ecc., fondatori di quello moderno, non si 

possono dire atei), molti che si dicono agnostici lo sono, 

come Hume, d’Holbach e altri; d’altra parte, è facile da 

esso passare all’ateismo per affinità tra le due attitudini. 

L'affermazione, « al di là dei dati della nostra esperienza 

non sappiamo nulla », può trasformarsi facilmente, anche se 



L’ateismo 3 






si dice cosa molta diversa, nell’altra; « al di là dei fatti della 

nostra esperienza ron esiste nulla » ("). In tal caso l’agno- 

sticismo diventa ateismo dommatico e contraddice se stesso, 

in quanto, negando Dio, oltrepassa quei limiti che segna alla 

conoscenza umana e si spinge ad un’affermazione ripugnante 

alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa impossibilità di 

dimostrare l’esistenza di Dio, non può concludere, senza 

contraddirsi, alla sua negazione esplicita ('°). 


D'altra parte, egli non può, proprio perchè agnostico, 

controbattere le critiche di quanti pretendono dimostrare la 

contraddittorietà dell’esistenza di Dio in se stessa e ?n rap- 

porto con la concezione che se ne ha; per esempio, non 

può opporre nulla a chi sostiene (Strauss) che se Dio è infi- 

nito non può essere personale, perchè infinità e personalità 

si contraddicono; a chi afferma (Stuart Mill) che se fosse 

onnipotente e buono non dovrebbe esistere il male; a chi 

dice (Vacherot) che i due concetti di infinità e perfezione 

escludono l’esistenza, la quale non si addice a Dio, che è solo 



(9) E. Navitce, Philosophies négatives, Paris, 1900, p. 85. 


(10) Di ciò, in verità, l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che hanno 

scritto coloro che credono di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive HuxLFy 

(Essay, London, 1898, t. I, p. 245) sarebbe «il peggio, se non fosse sorpas- 

sato dalle assurdità ancora più grandi dei filosofi che cercano di provafe che 

Dio non esiste ». La filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè 

negare o affermare è oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto 

l’ateo « n'est point un esprit véritablement émancipé; c'est encore, à sa ma- 

nière, un théologien; il a son explication sur l’essence des choses... » (E. Lit- 

tré, Paroles de philosophie positive, pp. 31-32). 


L’agnosticismo ha la sua formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L. 

Mansel, per il quale Dio non è assolutamente concepibile come assoluto e infi- 

nito, in quanto l’« Assoluto non può essere concepito né come cosciente, né 

come incosciente, né come complesso né come semplice; non può essere definito 

né per mezzo di differenze, né per mezzo della loro assenza; non può essere iden- 

tificato con l’universo, né può essere distinto » (The Limits of rel. Thougt, p. 30). 

Ma tutto ciò riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti, il Mansel ag- 

giunge, per influenza del Reid e del Kant, che la costituzione stessa del no- 

stro spirito ci costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere assoluto e che tale 

credenza, oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla rivelazione. Il Mansel dal- 

l’inconoscibilità dell'essenza ricava quella dell'esistenza, confondendo due pro- 

blemi diversi; il suo agnosticismo, spinto a questo punto, è scetticismo della 

ragione e fideismo puro; in definitiva, ateismo. 



32 Filosofia e Metafisica 






un’Idea ("!); tesi quest’ultima sviluppata e approfondita ai 

nostri giorni dal Carabellese, che identifica Dio con l’Og- 

getto puro della coscienza e taccia di ateismo coloro che lo 

considerano esistente. Di fronte a questi sofismi o ad usi 

errati del termine esistenza attribuito a Dio l’agnostico è 

disarmato ed il suo agnosticismo a mal partito. Se egli, pur 

razionalmente agnostico, ha fede nell’esistenza di Dio viene 

a trovarsi nell’insostenibile condizione di credere nell’Essere 

di cui non può dimostrare che l’esistenza non implica con- 

traddizione: come fa a credere ancora stando in questo 

dubbio, quasi contro la ragione, o almeno senza che questa 

porti il più piccolo aiuto alla sua fede? Se non crede, il pro- 

blema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli diventano in- 

differenti e tacitamente opera dentro di sè il « salto» dog- 

matico dal « non so nulla » al « non esiste nulla » al di là 

dei dati dell’esperienza, spingendosi a un tacito ateismo 

teoretico e a un manifesto ateismo pratico. Sono possibili 

anche un agnosticismo teoretico (non so se Dio esiste) e un 

ateismo pratico (mi comporto come se non esistesse); o un 



(11) «Il perfetto non esiste »; questa la tesi del VacHEROT nell’opera La 

métaphysique et la science (Paris, 1858), dove non si trova più il monismo evo- 

lutivo di derivazione hegeliana sostenuto nell’Histoire critique de l'École d’ Alexan- 

drie del 46: l'evoluzione di Dio nel mondo è « progrès. continu de l’étre infime 

dà l'étre par excellence, de la matière è l’esprit pur, à l’intelligence » (t. III, 

p. 328). Ne La métaphysique et la science egli mette la teologia di fronte a 

un aut-aut perentorio: 0 un « Dieu parfait », 0 un «Dieu réel». « Le Dieu 

parfait n’est qu’un idéal; mais c'est encore, comme tel, le plus digne objet de 

la théologie: car, qui dit idéal, dit la plus haute et la plus pure vérité. 

Quant à Dieu réel, il vit, il se développe dans l’immensité de l'espace 

et dans l’éternité du temps; il nous apparaît sous la variété infinie des formes 

qui le manifestent: c'est le Cosmos » (t. II, p. 544). Successivamente (Nouveau 

spiritualisme, Paris, 1884) ammette un solo Dio reale, Essere universale e ne- 

cessario, Causa prima e Fine ultimo del mondo, ma appunto perchè reale, non 

perfetto, in quanto perfezione e realtà implicano contraddizione: l’idea del- 

l’Essere perfetto è solo un'idea, la più alta della mente umana. Ma il Vacherot 

non è mai riescito a dimostrare la contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, 

mentre è facile provare che proprio questa presunta contraddittorietà contraddice 

alla ragione. Infatti, egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di 

esperienza che tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere 

diversamente quando identifica « toute réalité » o tutto ciò che esiste con il 

« phénomène qui passe »? Dà una definizione empirica dell’esistenza in ogni ac- 



<ezione e poi trova che è incompatibile con la perfezione di Dio! 



L'ateismo 33 






agnosticismo teoretico e, diciamo così, un teismo pratico: 

non so se Dio esiste, ma vivo come se esistesse. Quest'ultimo 

è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio e agisce in con- 

seguenza; o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in 

alcuni valori morali, a cui uniforma la sua condotta, affer- 

mati oggettivamente validi (rigorismo morale dogmatico e 

ateo), o rigorosamente rispettati pur nel convincimento che 

la loro validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con 

rigorosa eticità laica) (12). 


Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non solo 

crede nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, 

alla quale però dà soltanto un valore prammatistico o rego- 

lativo, come alcuni modernisti, per esempio il Le Roy. 

L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di Lui; 

d’altra parte legge che Dio « vuole » che si creda che è 

Padre onnipotente, Provvidenza onnisciente ecc., e crede tutto 

ciò. Evidente contraddizione: l’agnostico dice di non sapere 

niente di Dio e nello stesso tempo ammette che è « volontà », 

cioè persona; quando afferma «Dio vuole che...» non è 

più agnostico tranne che non ammetta anche questo per 

pura fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non ad 

altre che magari affermano l’opposto? Se niente la ragione 

può dire di Dio, il contenuto di qualsiasi formula teologica 

gli dovrebbe essere indifferente; se invece crede in una pro- 

posizione piuttosto che in un’altra, significa che una delle 

due la trova più conveniente; ma così oltrepassa l’agnostici- 

smo, in quanto ammette un fondamento razionale della fede. 

Più coerente Kant (La religione dentro i limiti della sola 

ragione) che non accetta la rivelazione e dà delle sue for- 

mule un’interpretazione puramente morale. 


L’agnostico, che afferma di non sapere niente di Dio — 

se esiste, o se non esiste — e nello stesso tempo Gli crede 

per fede, riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo e 



(12) Aporro Levi, Sceptica, Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 



34 Filosofia e Metafisica 









la religione ad un sentimento soggettivo di vaga religiosità. 

Ma non c’è fede senza un contenuto oggettivo; la mera reli- 

giosità può riempirsi indifferentemente di qualsiasi conte- 

nuto, di Giove o di Cristo. L’agnostico, se non vuol con- 

traddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo stesso piano: 

negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere 

ad una piuttosto che a un’altra, non gli resta che il fatto 

soggettivo del credere. D'altra parte, non può tener ferma 

neanche questa posizione ed è costretto a contraddirsi. Infatti, 

implicitamente e contraddittoriamente ammette di sapere chi 

è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque, un'idea 

di Dio; ma se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qual- 

cosa di Lui in contraddizione con il suo agnosticismo. Anzi, 

stranamente, non è più agnostico circa il problema del « che 

cosa è » Dio (quid sit) e continua ad esserlo circa l’altro del 

«se è» (an sit). In altri termini, è costretto a ragionare 

così: « Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei. razional- 

mente che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. », cioè ad am- 

mettere che ha l’idea di Dio e, nello stesso tempo, a dire 

che non sa niente di Lui e della sua esistenza! Il solo pen- 

sarLo è già non essere agnostici; una volta pensato (l’agno- 

stico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, 

nei termini della Rivelazione), la questione non è se sia 

impossibile o contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, 

ma se sia contraddittorio pensarLo senza ammetterLo esi- 

stente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia già prova 

della sua esistenza per necessità razionale. 


A questo punto e prima di proseguire è opportuno pre- 

cisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo: 1) impossibile 

provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la 

conoscenza umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 

2) a fortiori nulla si può dire intorno alla Sua natura intrin- 

seca; 3) dunque i problemi dell’esistenza e natura di Dio, 

dato che Egli non è un fatto fisico nè un personaggio sto- 



L'ateismo 35 






rico, non sono oggetto della scienza e della storia, che si 

occupano solo di questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non 

ha un posto nel sapere umano in generale ed è oggetto della 

pura fede, il cui contenuto ha solo una validità pratica o 

regolativa. 


Ma escludere Dio dalla scienza e dalla storia, da ogni atti- 

vità umana, significa pretendere che l’uomo possa attuare 

se stesso, il suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno 

di Lui, anzi senza mai pensarci e sentire il bisogno di ricor- 

rere a questa «ipotesi », sicuro di realizzare il suo ordine 

fino al compimento perfetto. Ma così l’agnosticismo con- 

traddice se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale 

che la nostra conoscenza in ogni forma e grado ha dei 

limiti. Una delle due: o ha questi limiti e perciò stesso, 

insufficiente ad appagare l’uomo e le esigenze intrinseche 

«al suo ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della 

quale non può fare a meno; o non li ha ed è autosufficiente, 

tanto da estraneare Dio dalla scienza e dalla condotta uma- 

na, e resta contraddetta la posizione dell’agnosticismo. Per- 

tanto, muovendo dalla tesi agnostica, si può arrivare alla 

conclusione opposta: proprio perchè la conoscenza umana 

ha dei limiti, pone il problema della Verità assoluta, di Dio. 

Infatti, se fosse perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei limiti 

impediscono di provare la Sua esistenza, in quanto non so- 

no affatto segnati dall’esperienza sensoriale come l’agnosti- 

cismo pretende. 


D’altra parte, se per Dio non c’è posto nell’umano co- 

noscere e fare, l’agnosticismo è ateismo in partenza, in quan- 

to il tentativo di costruire una scienza senza Dio Lo esclude 

fin dall’inizio: ateismo dommatico anche se mascherato. Più 

coerenti coloro che, come il Croce e il Brunschvicg, escluso 

Dio dalla natura e dalla storia, concludono che il suo è un 

pseudo-problema e la religione frutto dell’« immaginazio- 

ne », anche se il loro ateismo iniziale è solo presupposto e 

non dimostrato. 



3% Filosofia e Metafisica 






In fondo, l’agnostico esclude Dio perchè il principio su 

cui fonda il sapere non gli consente di ammetterLo se non 

come qualcosa di estraneo ad esso, come l’Ente che è solo 

oggetto di fede e di cui è possibile avere soltanto una qual- 

che rappresentazione simbolica. Ma c’è conoscenza solo dei 

fenomeni e delle loro leggi? Può identificarsi con essa tutto 

il sapere, anche quello filosofico? La fisica o altra scienza 

naturale hanno come oggetto i fenomeni e le loro leggi, ma 

ciò non significa che ogni altra forma di conoscenza — mo- 

rale, artistica, filosofica — debba ridursi a questo modello, 

secondo l’affermazione arbitraria del positivismo e dello 

scientismo. L’agnosticismo metafisico e religioso è una con- 

seguenza del metodo e del sistema scientista: la scienza 

positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni naturali e le 

loro leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio 

non è qualcosa di cui si possa avere esperienza positiva; dun- 

que niente si può dire di Lui, nè che è nè che non è, nè 

che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni forma di sapere 

alla conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, al- 

meno fino a quando non si sarà dimostrata la verità del 

sistema. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ido- 

lum theatri: il sistema non consente che si ponga il pro- 

blema di Dio, dunque non si può porre. Sì, in quel sistema 

e relativamente ad esso; no, in un altro che riconosce i di- 

ritti e l’autonomia della ricerca filosofica e si rifiuta di 

identificare l’essere con i fenomeni di esperienza senso- 

riale. L’agnostico, in questo caso positivista — nel dupli- 

ce senso di positivismo scientista o dei fatti fisici e di 

positivismo storicista o dei fatti umani — non riconosce i 

limiti del sistema; vittima del suo amor per esso, che non 

gli consente di dimostrare o negare l’esistenza di Dio ed 

averne una qualsiasi concezione non puramente simbolica 

o immaginaria, conclude che la sua esistenza è indimo- 

strabile e Dio l’assolutamente inconoscibile. Ma chi ha di- 

mostrato l’assoluta verità del sistema? Ammettiamo che qual-. 



L’ateismo 37 






cuno l’abbia fatto; bene: in tal caso, non c’è più agnosticismo! 


Nonostante le sue proteste, l’agnosticismo positivista — 

senza o con il « neo» — è ateismo vero e proprio, almeno 

in pratica. Dall’« ignorare » se Dio esiste ricava la norma: 

« agisci come se non esistesse ». Dio è inconoscibile e inve- 

rificabile « scientificamente »; alla sua idea non corrisponde 

alcuna realtà oggettiva; nei rapporti con l’ambiente natu- 

rale e sociale non ha alcuna importanza porsene il problema, 

perchè il suo «accantonamento » non arreca impedimento 

alcuno all’« organizzazione » della nostra vita nel mondo 

— anzi la facilita — per la quale valgono solo « strumenti » 

e «tecniche », non interessa neppure se vere (altro pro- 

blema questo della verità da mettere da parte), purchè più 

valide rispetto ad altre, più efficacemente « operative » e ido- 

nee ad una vita sempre più tecnicamente organizzata, so- 

cialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola 

la tua vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come 

se Dio non esistesse, senza pensarvi. In breve: «ometti 

l’idea di Dio ». Per Comte, l’idea di « Umanità » col tem- 

po eliminerà « irrevocabilmente » quella di Dio: per altri 

tale eliminazione sarà operata dalla Scienza e dal Progres- 

so, dalla futura « società comunista » ecc.; naturalmente, 

sempre e in ogni caso, con gran vantaggio degli uomini, 

che conseguiranno la vera felicità sulla terra. 


Ma quello teologico non è problema di felicità terrena; 

Dio non è chiamato a soddisfare bisogni materiali, ma ad 

appagare profonde esigenze spirituali; il suo problema si 

pone al di là di ogni possibile soddisfazione di tutti i pos- 

sibili bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffo- 

carlo si è costretti a sostenere che non ha importanza sa- 

pere se vi è una verità che dà senso alla vita dell’uomo e 

merita di essere servita, ma che interessa conoscere soltanto 

strumenti che hanno efficacia pratica per problemi solo mon- 

dani, economici, sociali, politici, ecc.; che la logica vale nella 



38 Filosofia e Metafisica 






misura in cui è una tecnica, tante « tecniche » capaci di or- 

ganizzare fenomeni psicologici, sociali, giuridici, senza preoc- 

cuparsi se vi è un’anima personale, una verità comune acco- 

munante, un diritto perenne, ecc. D'altra parte, si afferma 

che tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della no- 

stra maturità intellettuale, è semplicemente trascrivere in 

termini « antropologici » e «scientifici » i « miti» di Dio 

e di una beatitudine celeste. Dunque, da un lato, più che 

abolire l’idea di Dio, la si sostituisce con altri valori e, dal- 

l’altro, questi ultimi sono intesi in modo da soddisfare la 

umana esigenza religiosa. Ma con ciò si riconosce l’insop- 

primibilità di quest’ultima e si creano «idoli» e «miti», 

si fa della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo, intran- 

sigente verso Dio e apostolo di un totale ateismo pratico, si 

presenta come idolatria e mitologia dell'Umanità, della 

Scienza, del Progresso, della « Società » sempre migliore con 

questa o quella « democrazia »; alla teologia sostituisce un 

deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio 

discuterlo. Persino Bayle, il formulatore del « paradoxe », 

così lo chiama Voltaire ('*), che può esistere una società di 

atei, crede con Plutarco che è meglio non avere alcuna opi- 

nione di Dio che averne una cattiva ed errata (!*); infatti, 

non c’è peggiore « religione » di quella che divinizza valori 

mondani per fini terreni, in quanto si risolve sempre in una 

diabolica e rovinosa divinizzazione dell’umano o dell’infra- 

umano e scatena il fanatismo. 



4. — Il fideismo come forma di agnosticismo. 



Non vi sono prove razionali od oggettive dell’esistenza 

di Dio, ma Gli si crede solo per fede; questo il fideismo, 

forma di agnosticismo non laico ma religioso. Tipico del 


(13) VoLtAIRE, op. cit., p. 39. 


(14) Barie, Pensées diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è l’occasion 



de la cométe qui part au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $ 118 della. 

Continuation. 



L'ateismo 39 






protestantesimo, è anch’esso molto diffuso, conseguenza di 

più di un secolo di agnosticismo filosofico e del convinci- 

mento che non è possibile una metafisica come scienza ra- 

zionale. Il fideista crede nel Dio di cui la ragione non può 

dimostrare l’esistenza, del quale, anzi, può essere anche la 

negazione; in quest’ultimo caso continua a credere contro, 

nonostante la ragione dica il contrario! Fideismo disperato, 

fede a qualunque costo: credo nell’esistenza di Dio, mal- 

grado la ragione sia atea; irrazionale ed assurdo come quello 

di molte pagine di Unamuno e di Chestov: pascalianesimo 

barocco e antipascaliano, razionalmente infondato almeno 

quanto l’ateismo dove rischia di sboccare, perchè è molto 

difficile conservare la fede senza o contro la ragione e, se 

la si perde, dato che la credenza di Dio poggia solo su di 

essa, non soltanto si cessa di essere cristiani, ma si diventa 

senz'altro atei. 


Il fideista confonde due questioni che vanno tenute ben 

distinte: le ragioni o le prove razionali dell’esistenza di Dio 

e la fede propriamente detta, cioè l’adesione intellettuale e 

libera al contenuto della Rivelazione. Egli riduce tutto alla 

fede e nega a tal punto la capacità della ragione (quando 

addirittura non gliela contrappone quale nemica, come per 

esempio il Chestov) da non poter dare alla prima alcun 

fondamento razionale; in questo senso è un ateo credente 

contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è contrario 

alla sua stessa essenza, come non è razionale ridurre tutto 

alla ragione: fideismo assoluto e assoluto razionalismo sono 

antitetici, ma hanno in comune la ragione atea, che è con- 

traddittoria. Religione e filosofia devono temere ugualmente 

l’assolutizzazione della ragione e la sua totale svalutazione, 

l’una e l’altra negazione della natura dell’uomo e dei suoi po- 

teri conoscitivi: l’ordine della fede è assicurato solo se « l’or- 

dine della ragione è conservato » (9). Il fideismo si dibatte in 



(15) L. OLLé LarrunE, Ce qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, p. 30. 



40 Filosofia e Metafisica 






una contraddizione teoretica, e anche vitale: è ateismo teo- 

retico e teismo pratico; come dire, l’uomo diviso in due. 


Vi è ancora un fideismo non propriamente di carattere 

religioso (non fa dell’esistenza di Dio un atto di fede), non 

laico, nè riducibile senz’altro all’agnosticismo. Esso si fonda 

su una specie di «senso interiore» di Dio, tanto forte, 

universale e naturale da costituire una prova della sua esi- 

stenza, superiore, secondo i suoi sostenitori, a quelle razio- 

nali, che sono pressochè superflue esercitazioni logiche; 

per questo « senso » l’uomo è chiamato irresistibilmente a 

Dio. « Io sento che Dio c’è, e non sento affatto che non c’è. 

Tanto mi basta; ogni ragionamento è superfluo. Concludo 

che Dio esiste. Questa conclusione è inscritta nella mia 

natura » (!9). Così lo formula il La Bruyère, secondo il 

quale Dio è una presenza, un’evidenza: « ...l’esistenza di Dio 

l’ho approfondita; non posso essere ateo, e perciò sono ri- 

condotto e trascinato nella mia religione, irrecusabil- 

mente » (!?). Tesi d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma 

non di Agostino e neppure di Pascal, in quanto nel primo 

vi è questo e molto di più, come di più, anche se meno di 

quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo senso inte- 

riore di Dio è estremamente indicativo e attesta una disposi- 

zione ontologica, e non puramente psicologica, dell’uomo 

verso l’Essere supremo; ma da solo non è dimostrativo, nè 

rende superflua la prova razionale, anzi la esige proprio per 

la sua forza. In altri termini, non basta il senso interiore di 

Dio per provarne oggettivamente l’esistenza, in quanto da 

solo resta un dato soggettivo; è necessario approfondire la 

natura dell’uomo per vedere se esso s’inscrive in un elemento 

oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e origine 

di quel sentimento. In tal caso, l’esistenza di Dio è provata 

oggettivamente, non dal senso di Dio stesso, ma da quell’ele- 



(16) Moralisti francesi, Milano, 1943, p. 67. Questa forma di fideismo ha 

avuto le sue espressioni più significative nel pensiero filosofico-religioso francese. 

(17) Ivi, p. 69. 



L’ateismo 4} 






mento oggettivo che lo spiega e giustifica, il quale, a sua 

volta, non è un puro dato nozionale, ma un’Idea, direi, vita- 

lizzata, vissuta nell’interiorità di quel senso interiore, da essa 

illuminato. Perciò, han torto il razionalismo, che, per una 

esagerata nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza 

della ragione, prescinde dall’interiormente vissuto, e l’inte- 

riorismo che, forte del senso interno, vuol fare a meno della 

forza del ragionamento. Invece, è autenticamente agostiniana, 

perfettamente rispondente a quella del Rosmini e, dentro 

certi limiti e con alcune riserve, all’altra di Pascal, la posi- 

zione che esistenzia l’Idea nella concretezza della vita spi- 

rituale e illumina questa nella luce dell’Idea. Ma, anche 

presa da sola, la tesi dell’esistenza di Dio come evidenza 

dal senso interiore non può dirsi atea, tranne che non 

degeneri nell’ontologismo o nel panteismo. 


Invece, pur non potendo essere ridotta all’agnosticismo 

laico 0 ateo per certe sfumature a cui non vogliamo rinun- 

ziare, è più pericolosa l’altra tesi, propria di Kant, che am- 

mette l’esistenza di Dio, razionalmente indimostrabile, per 

pure esigenze della volontà: la ragione teoretica è agnostica;. 

tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se Dio esi- 

stesse; la ragione pratica crede per fede razionale. In altri 

termini: l’esistenza di Dio è un atto «soggettivo» della 

volontà rispondente alle sue esigenze profonde, ma non è 

una verità « oggettivamente » valida. Questa posizione kan- 

tiana, ancora largamente diffusa, è stata estesa anche ai 

valori morali; ma così l’agnosticismo, oltre che la metafisica, 

mette in pericolo anche i valori spirituali (19). 



5. — Il deismo. 



« Un deista è un uomo che non ha avuto ancora il tempo- 

di diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino ad un certo 

(18) Per una più ampia ed approfondita discussione della posizione kantiana, 



come di altre in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza, Sezione II 

di quest'opera. 



42 Filosofia e Metafisica 






punto ha ragione, perchè il deista, in fondo, è un ateo che 

non vuol dirsi tale. 


D'origine italiana, il deismo, dopo essere passato in Fran- 

cia, si trapiantò in Inghilterra, dove trovò il clima che gli 

si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in suolo 

trancese e celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può 

chiamare deista, attraverso le forme molteplici che il deismo 

presenta nella storia del pensiero, la dottrina che nega ogni 

religione positiva e rivelata e fa di Dio un puro ente di 

ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura 

o con la Natura stessa (in questo caso non si distingue dal 

panteismo), con il Principio o la Causa che regge e governa 

il mondo. In tal senso, si possono dire deisti nell’antichità 

Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai nostri 

giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Her- 

bert di Chirbury, Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso 

Kant, ecc. Nel secolo che fu il suo, il deismo è la manife- 

stazione più significativa, anche se non la più audace, dello 

spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onni- 

potente ragione; infatti, polemizza contro ogni religione 

positiva (cattolica, protestante, ebraica), contro ogni forma 

di culto, il dogma e il soprannaturale. E’ chiamato anche 

«religione naturale », ma in più sensi: in quanto 2) am- 

mette solo quelle verità che si possono attingere e dimostrare 

con la sola ragione (esistenza di Dio, immortalità dell'anima, 

ecc.); 5) ha il culto della natura, madre benigna, dove 

tutto è bene ed accade secondo la legge del bene che viene 

ad identificarsi con Dio; c) è una religione spontanea, istin- 

tiva, senza costrizioni e comandamenti. Religione, in un 

certo senso, facile, a cui la ragione aderisce senza sforzo, 

senza un superiore atto di fede, culti speciali, mortifica- 

zioni e digiuni, anzi compiaciuta di vedervi confermata la 



(19) P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, Torino, 1946, pp. 269-70. . 



L'ateismo 43 






propria onnipotenza; rassicurante, in quanto fa che Dio, pur 

così vicino alla natura, intervenga il meno possibile nel 

corso delle cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, 

liberatrice dall’ inquietudine del peccato, dall’ attesa della 

grazia, dall’incertezza della salvezza, da un giudizio divino. 

In breve, la religione deistica è la negazione del Cristiane- 

simo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo, dell’Incarna- 

zione, del riscatto. Religione di un Dio lontano, che inter- 

viene raramente, fa comodo alla ragione, a cui serve per 

meglio assicurare la libertà e la potenza senza esserle mai 

d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione del Dio della 

fede: «attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il 

Bayle; « la differenza tra gli atei e deisti è quasi nulla » (?9). 

Esso s'inserisce in quel processo di autonomia dalla religione 

di ogni forma di attività umana, caratteristico dei secoli XVII 

e XVIII, allo scopo di liberare l’uomo dalla soggezione 

della Verità rivelata e della Chiesa. La scienza con Galilei 

e Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il giu- 

snaturalismo, la filosofia e la morale con il razionalismo, 

l’empirismo e Kant, si costituiscono separate dalla religione, 

tenuta lontana da ogni forma di attività umana, che si pone 

autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si viene a negare 

la religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione, 

soltanto umana, razionale, naturale, che non menoma l’au- 

tonomia dell’uomo, anzi la conferma e completa: liberare 

la religione dalla religione, che comporta o la sua negazione, 

o la sua affermazione... contraddittoria (7). 


(20) P. Hazarp, op. cit., pp. 274; 275. 


(21) Molti elementi, di cui è necessario tener conto, concorsero al nascere 

e al fiorire del deismo, a definirne il contenuto: «) la già detta tendenza di eman- 

cipare l’uomo da ogni religione positiva e dalla Chiesa; 4) la reazione al gianseni- 

smo che assoggettava, fino a negarla, la volontà umana, colpita dal peccato e 

decaduta, alla grazia soprannaturale, imponeva un rigorismo esagerato e la rinun- 

zia al mondo, una concezione cupa della vita: c) il desiderio di far cessare le 

lotte religiose, che avevano insanguinato l’Europa, eliminando quanto (il loro 

contenuto religioso) poteva dividere ed armare l'una contro l’altra le varie con- 

fessioni, donde il farsi strada del nuovo concetto di « tolleranza » e la polemica 



contro il « fanatismo » (il VoLtarrE, op. cit., p. 45, lo considera più funesto 

dell’ateismo); d) motivi politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi- 



44 Filosofia e Metafisica 






Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla 

concezione che della Natura e della Legge universale 

ebbero la scienza e la filosofia dei secoli XVII e XVIII: 

Dio - Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e 

regge, Dio- Ordine della Natura sostituiscono il Dio cri- 

stiano rivelato, Padre, Creatore, Amore. La natura so- 

stituisce anche Cristo; è la « mediatrice » che, con la sua 

bontà, le sue provvidenze e il suo ordine perfetto, rivela 

Dio agli uomini; ma siccome Dio è la Natura eterna, 

questa si autorivela attraverso l’uomo, quello del raziona- 

lismo moderno e dell’Illuminismo, scienziato-filosofo, che 

di essa scopre le leggi, l’ordine e le provvidenze, rapisce i 

segreti affinchè l’umanità sia felice in un regno di felicità, 

tutto costruito esclusivamente dagli uomini. Così il deismo 

si trasforma in panteismo cosmico (divinizzazione della Na- 

tura), che, in ultima analisi, è divinizzazione dell’uomo, 

rivelatore dell’ordine e delle leggi che governano la Natura 

stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola, s’impossessa 

per farla servire al suo fine supremo: la costruzione del 

Regnum hominis, luogo dell’unica sua felicità perfetta. 


Una religione senza misteri per un'esistenza senza enig- 

mi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non è 



nimo l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del Principe. Non 

è, del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività politica della Chiesa. 

come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed anche di ateismo. Vanno 

aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che, facendo conoscere nuovi 

costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità di alcune credenze e 

generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai tempi, ai climi. Si imma- 

ginano terre fantastiche per dimostrare che il Cristianesimo è assurdo; si esaltano: 

repubbliche senza preti e chiese; si tenta persino di provare con il calcolo che 

la resurrezione della carne è impossibile, ecc. Così si dubita di tutto, meno di 

quel che si vede e si può sperimentare; l’empirismo del Locke è il sistema adatto. 

alla bisogna (cfr. P. Hazarp, op. cit., pp. 1} e sgg.; 21 e sgg.). 


Gli empiristi e i materialisti francesi, non solo rigettano il teismo cristiano, 

ma anche la religione naturale del deismo inglese: i sensi bastano all’umano. 

sapere; non è conoscibile nè importa conoscere tutto ciò che oltrepassa i dati 

dell'esperienza sensoriale (« affinchè io creda nell’esistenza di Dio, lasciatemi toc- 

carlo!» dice Diderot); l'elemento primario del reale è la materia e la coscienza uno. 

secondario da essa derivato; materia e senso; dunque, solo la scienza ci può. 

far conoscere la natura e i suoi fenomeni. 



L'ateismo 45 






tale, ma è filosofia atea al servizio di una vita facile, arbi- 

tra di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non porsi 

problemi tormentosi e metafisici, di non avere eccessive 

preoccupazioni religiose, di essere felice in questo mondo. 

Il deismo, in fondo, è più ateo dell’ateismo dichiarato: lo 

ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette per 

identificarLo con l’ordine della natura e in definitiva con il 

sapere umano; l’ateo Lo nega e vede ovunque oscurità, 

mistero, dolore e male inspiegabili, il deista per ogni dove 

vede chiarezza ed evidenza razionali, felicità e bene; l’ateo 

è infelice e, nonostante tutto, religioso, il deista è un con- 

tento diabolico, che si crede in possesso di Dio e della sa- 

pienza divina: quel che può sembrare un mistero, per lui, 

è soltanto una difficoltà provvisoria, che il progresso irre- 

sistibile della scienza supererà. Deisti ante litteram furono i 

« libertini », sempre pronti ad assimilare posizioni filosofiche 

anticristiane, e a divulgarle: spiriti superficiali, ribelli, epi- 

curei, fatti per diluire le filosofie, per gettarsi a capofitto 

nelle novità, tranquillamente scettici e calcolatamente edo- 

nisti, privi di senso metafisico, pronti a non prendere in 

considerazione i problemi difficili, ostici per la loro cultura 

da raffinati. Diventati deisti, «si chiamano per eccellenza 

gli esprits forts » (?), ma non cessano di essere superficiali, 

anche se alimentati ed incoraggiati dall’« ateismo », di ben 

altra tempra, dello Spinoza (*). 


Il Settecento deista e « razionale » è ingenuamente con- 

vinto che il passato sia un cumulo di assurdità e compito 

del nuovo secolo dei lumi quello di « scoprirne gli errori »; 


(22) Bavyce Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX. 



(23) Esempio vistoso della fatuità di pensiero di alcuni tra i più rinomati 

deisti è John Toland, sul quale cfr. le belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp 

nell’op. cit., pp. 154-159; la superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata 

egregiamente dimostrata da M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: 

La vita, le opere e i tempi di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. 

Ci sembrano opportune e da meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca 

al vecchio Karamàzov: « sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo per frivolezza 

che non crediamo, perchè ce ne manca il tempo... » (I fratelli Karamdzov, 

Milano, Corticelli, 1944, p. 147). 



46 Filosofia e Metafisica 









errore principe da denunziare e abolire la religione cristiana 

e il suo Dio, sostegno della tirannide e strumento di op- 

pressione dei popoli, « superstizione » che ha impedito allo 

uomo di conoscere e mettere in opera le sue immense possi- 

bilità per il progresso individuale e sociale. Deisti e « liberi 

pensatori » non si domandano mai perchè per secoli e se- 

coli gli uomini abbiano creduto e la filosofia si sia sforzata 

di attingere una verità razionale non disforme da quella 

religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione. 

Orgogliosi, i « razionali » disprezzano i «religionari» (i 

due termini sono del Bayle), come il sapiente l’ignorante 

testardo ed incorreggibile (**). Loro sanno tutto: che non 

vi è rivelazione e non ve n’è bisogno; che nessuna fede 

religiosa è veritiera e necessaria; che Dio è lo stesso ordine 

della natura conoscibile pienamente dalla ragione, che in 

certo qual modo lo fa essere. In una parola, hanno scoperto 

la verità totale, costruito la scienza perfetta, dispensatrice 

agli uomini di felicità e liberatrice da ogni oscurità ed er- 

rore, dalle imposture dei frati. Così negano Dio senza nem- 

meno porsene seriamente il problema, e divinizzano l’uomo: 

« seguendo la ragione » — scrive uno dei «razionali» — 

«noi dipendiamo soltanto da noi stessi e diventiamo così 

in qualche modo degli dèi» (?); con la ragione e l’espe- 

rienza si scopre il « meccanismo » della natura e ci s’impos- 

sessa d’ogni segreto e mistero, dell’essenza stessa di Dio (?). 

Questi «liberi pensatori », incapaci di essere uomini che 

pensano in altezza e in profondità, si credono dèi. 



(24) Il Votare (0p. cit., p. 45), che pur riconosce alla religione positiva un 

valore sociale, la considera adatta per i bambini: «un catéchiste annonce Dieu 

aux enfants, et Newton le démonstre aux sages ». 


(25) Giusert, Histoire de Caléjava ... (1700), p 57 (cit. da P. Hazarp, 

op. cit., p. 161). 


(26) Una pagina del Maritain (I/ significato dell’ateismo contemporanco, 

Brescia, Morcelliana, 1950, pp. 26-27) ben chiarisce il concetto di Dio del deismo, 

molto affine al panteismo: « Supponete ora una nozione puramente naturale di 

Dio, che conoscendo l’esistenza dell'Essere supremo, misconoscesse al tempo 

stesso ciò che S. Paolo chiamava la sua gloria, negasse l'abisso di libertà signi- . 



L’ateismo 47 






Il deismo, frutto di un atteggiamento mentale spietata- 

mente spregiudicato e scettico tanto da mettere in dubbio 

tutta la tradizione e qualsiasi autorità, è il trionfo del più acri- 

tico dommatismo razionale, della superficialità sistematica, 

della più ingenua fiducia nei poteri della conoscenza umana 

e nelle possibilità assolute della scienza. « Età barbara della 

filosofia », l’ Illuminismo non ebbe in generale sensibilità 

per i problemi religiosi e per la filosofia intesa come inda- 

gine profonda della vita spirituale. Contro ragione, afferma 

l’assolutezza della ragione, molto facile a difendere una 

volta che tutto il sapere è limitato a quello scientifico e i 

problemi essenziali messi da parte; formula un concetto 

mitico della « libertà » e si crea la superstizione della scien- 

za (?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in un’epoca di Nec-illu- 



ficato dalla sua trascendenza e incatenasse Lui stesso al mondo da Lui creato; 

supponete una nozione puramente razionale — e buffa — di Dio, che sia chiusa 

al soprannaturale e che renda impossibili i misteri nascosti nell'amore di Dio, 

nella sua libertà e nella sua vita incomunicabile. Avremmo allora il falso Dio 

dei filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato al- 

ordine della natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione 

di questo ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redi- 

merlo, e la cui inflessibile volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si 

compiaccia e dia la sua cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del 

mondo, a tutte le furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano 

nella natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacri- 

fichi l'uomo al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli 

innocenti faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei 

cieli eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma cam- 

biato in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo, il 

grande Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro gloria ter- 

restre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della nostra filo- 

sofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza, sicuramente il 

Dio di Hegel ». 


(27) Il deismo, strettamente legato alla massoneria per il suo atteggiamento 

anticlericale, antichiesastico e individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili 

il principio del libero pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della 

tradizione e da ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della 

vita (ateismo pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, 

d'altra parte, le « ragioni » individuali sono spesso discordi, la verità di un punto 

di vista va stabilita ed accettata secondo il parere della maggioranza. Democrazia 

e « sacra » libertà della coscienza governata dall’intelligenza, che è « sacrilegio » 

anche limitare, « culto della ragione umana » che s’inchina solo a se stessa, questa 



48 Filosofia e Metafisica 









minismo pretenzioso e dilagante, superficiale e saccente, 

più grossolano di quello settecentesco; neo-positivismo di 

diverse tendenze, marxismo ortodosso e eretico, neo-empi- 

rismo e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti 

si rifanno ai temi e soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, 

ne rinnovano la barbarie filosofica in un mondo che va verso 

la « civilizzazione » assoluta dell’uomo senza « umanità » e, 

dunque, senza « cultura ». 



6. — Monismo e panteismo. 



a) Il monismo. - La forma di ateismo più dotta, filoso- 

fica e fino ad un certo punto più critica è il panteismo, 

dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e lo 



la nuova religione capace di rigenerare l’umanità per il « razionalismo » del 

Settecento e poi per il laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione 

è Dio, la libertà dell’uomo un assioma; è « obbligatoria » (l’uomo ha il dovere di 

essere libero), com'è obbligatorio il culto della ragione che non s’inchina a dogmi 

o a principî 4 priori, religiosi o filosofici, anche se essa stessa ne riconosce la 

convenienza o la verità: salvare il postulato dell’assoluta libertà dell’assoluta 

ragione (e dire che i positivisti erano quasi tutti deterministi!) anche contro la 

ragione e l'evidenza. Per il laicismo massonico-positivista, di origini deiste e illu- 

ministe, « le bien inestimable » da custodire, conquistato dall'uomo contro i pre- 

giudizi e attraverso sofferenze e lotte, « c'est cette idée qu'il n'y a pas de 

vérité sacrée, c'est à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est 

que ce qu'il a de plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de l'esprit... 

c'est que toute vérité que nous vient pas de nous est un mensonge... ». Anche 

se si facesse visibile, « si Dieu lui méme se dressait devant les multitudes sous une 

forme palpable, le premier devoir de l'homme serait de refuser l’obéissance et 

de le considérer comme l’égal avec qui l’on discute, non comme le maître que 

l'on subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des Députés, 11 févr. 1895, cit. in 

Diction. Apologétique de la foi Cathol., Paris, 1924, IV ediz., vol. II, coll. 

1781-1782). La letteratura e i discorsi del tempo sul culto della libertà e sulla 

religione della ragione abbondano di simili sciocche doutades di una ingenuità 

acritica e afilosofica veramente scoraggiante. 


Il laicismo dimostra spesso rispetto per Dio, ma non per l’ Essere assoluto 

trascendente creatore, bensì per l’idea che l’uomo se ne fa: essa merita rispetto 

come tutto quanto appartiene all'uomo, il quale, ospitando Dio nel santuario 

della coscienza, ne rende rispettabile il nome. La nuova «religione laica » è la 

« religione dell’irreligione », secondo una felice espressione del Guyau. 


Forme di laicismo positivista sono il cosiddetto « monismo umanitario », a 

cui abbiamo accennato a proposito della « religion de l’humanité » del Comte 

(e anche del Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon, ecc.), che dovrebbe sosti- 

tuire l'adorazione del Dio personale; e il « monismo sociologico » del Durkheim. 



L'’ateismo 49 






uso del termine siano relativamente recenti (28). Non è facile 

distinguere il panteismo dal monismo; tuttavia, nei limiti 

del nostro argomento, li trattiamo distintamente. 


Il panteismo filosofico ha due aspetti fondamentali: @) 

riduzione di Dio al mondo, il solo reale: Dio è l’unità di 

ciò che esiste, la somma delle parti; £) del mondo a Dio, 

del quale il primo è un insieme di manifestazioni o di ema- 

nazioni senza realtà permanente, mancanti di una loro so- 

stanza distinta da quella divina. Nel primo caso, si nega 

Dio nel mondo, nel secondo il mondo in Dio. Il primo 

possiamo chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre materia- 

lismo; il secondo acosmismo, che può essere intellettualista 

(Spinoza), dialettico (Hegel), ecc.; il primo può identifi- 

carsi con il monismo, il secondo con il panteismo vero e pro- 

prio, che, sostanzialmente, tende sempre al monismo. L’uno 

e l’altro rispondono ad un'esigenza fondamentale: ridurre 

tutti gli esseri all'identità assoluta non solo logica ma anche 

ontologica; oppure: riportare la molteplicità degli enti alla 

unità ontologica, per cui Dio e il mondo non sono due 

realtà di diversa natura, ma una sola: l’essere del mondo 

è identico all’essere di Dio. Così l’esigenza legittima di uni- 

ficare il molteplice riportandolo a un unico principio, spinta 

oltre il limite della constatazione dell’ordine delle cose, per 

cui la molteplicità forma un «cosmo», conclude all’unità 

sostanziale delle cose stesse e del loro principio, senza più 

distinguere tra identità e analogia. 


Per il panteismo che riconduce Dio alla natura, la realtà 

è l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica; anche 

se è detto spirito, lo è come spirito del mondo, energia 

vitale o animata e perciò sempre di natura materiale. Tale 

panteismo, che nega Dio come essere spirituale e. chiama 



(28) Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo (1705) la parola 

Panteist; il Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti che i termini «pan- 

teismo », « monismo » (coniato dal Wolff), « agnosticismo » appartengono tutti 

al vocabolario filosofico moderno. 



50 Filosofia e Metafisica 






Dio lo stesso universo, s’identifica con il monismo natura- 

lista o materialista ed è senz’altro ateismo; infatti, dire che 

Dio è l’universo materiale è negare che esista e continuare 

ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chia- 

mare una realtà con un nome che ne significa un’altra. 

Nell’antichità è monismo materialista il panteismo stoico (?°) 

e nei tempi moderni, sotto l’influsso della teoria dell’evolu- 

zione, quello biologico del Moleschott, Huxley, Biichner e, 

più fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si 

può chiamare quello di alcuni positivisti, quali Du Bois Rey- 

mond, Spencer, Ardigò ecc. 


Per il panteismo cosmico, che identifica Dio con il mon- 

do ed è il vero monismo assolutamente ateo, l’unica realtà è 

la natura o universo, per se stesso esistente e avente in sè la 

ragione ultima di tutto, di ogni suo grado come di ogni ente 

particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il 

mondo, ma vi è il Mondo, l’Essere unico che si pone, si 

svolge e si spiega da, in e per se stesso; si fa Dio, è esso 

stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui non significa 

nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la 

materia o qualcosa di materiale, originario e dotato di ener- 

gia vitale, che evolve da se stesso e per leggi proprie. Atei- 

smo puro che ha la pretesa di essere scientifico e, in realtà, 

non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno filosofico. 

Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui 

per evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una 

certa distinzione tra le cose e il loro principio unico, ma 

solo fenomenica e non di sostanza; 5) la sostanza o natura 

delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima del- 



(29) Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla Ragione, 

di natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che tiene unite le 

parti e la loro somma. Per Zenone, « l’universo ha due principi: uno passivo, 

la sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo pe- 

netra nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le cose » 

(1 frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone, Bari, 

Laterza, 1932, p. 80). i 



L'ateismo 51 






l’esistenza, del significato del processo e della diversità delle 

cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio e nelle leggi 

che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è po- 

sto e non vi è traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontolo- 

gicamente uno e si svolge per evoluzione progressiva. Ma che 

cos'è quest’Essere uno originario necessario? Un embrione 

informe del mondo, una specie di materia-madre che i 

monisti chiamano in vari modi: «omogeneo» (Spencer), 

«indistinto » (Ardigò), «sostanza primitiva» (Haeckel); 

ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non accerta- 

bili, di parole che vorrebbero sostituire Dio. Il monismo 

materialista, come quello dello Haeckel, è una contamina- 

zione grossolana di materialismo evoluzionista e di spino- 

zismo. 


Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista: la nostra 

coscienza ci attesta direttamente che almeno le sostanze in- 

telligenti sono fondamentalmente irriducibili; dunque, il plu- 

ralismo degli enti non è solo fenomenico, ma sostanziale. 

Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi dell’unità ontologica 

dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi 

è una realtà primitiva materiale da cui tutto procede per evo- 

luzione; 5) che, rivelatasi inesistente tale realtà primitiva, re- 

sta aperta la possibilità di provare razionalmente che il mon- 

do è stato creato da un Essere assoluto, il cui essere è di altra 

natura da quello delle cose da Lui create; c) che, per con- 

seguenza, non c'è un’unica realtà, ma due di diversa na- 

tura, la creata dipendente dalla creante: l’essere di Dio e 

quello del mondo. Ma l’esistenza di Dio e la creazione, a 

differenza dell’ipotesi monista, si possono provare razional- 

mente; dunque, giacchè è vera la dottrina contraria, il mo- 

nismo risulta un'ipotesi falsa, nata da un passaggio erroneo: 

dall’esigenza legittima di ridurre la molteplicità delle cose 

all'unità concettuale dell’idea, passa illegittimamente all’unità 



52 Filosofia e Metafisica 






ontologica dell’essere reale (*°). D'altra parte, il materialismo o 

il naturalismo evoluzionista non possono e non potranno mai 

spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini come si 

voglia, nasca lo spirito ed entri nel mondo il pensiero: mi- 

stero inspiegabile. Dire che derivano per evoluzione dalla 

materia o che sono suoi epifenomeni (Marx) è non dir nien- 

te, è presentare la difficoltà insoluta... come soluzione! Non 

per nulla il panteismo vero e proprio si presenta meno gros- 

solanamente acritico del monismo materialista, ateo per af- 

fermazione dommatica e, nello stesso tempo, incapace di dare 

al suo ateismo un fondamento scientifico e una spiegazione 

razionale. Dopo il tanto rumore della seconda metà del se- 

colo XIX e dei primi anni del nostro e la diffusione at- 

traverso la stampa divulgativa e pseudoscientifica, è consi- 

derato definitivamente morto anche da scienziati e filosofi 

che non hanno preoccupazioni religiose. Morto come istanza 

filosofica, è diffuso in forma rinnovata e aggiornata tra le 

masse attraverso il comunismo, non perchè abbia una ben- 

chè minima forza speculativa, ma in quanto son vivi i pro- 

blemi di ordine economico-sociale ai quali viene agganciato. 

In altri termini, è soltanto l’aspetto sociale del marxismo che 

conferisce forza ed attualità alle sue grossolane teorie « filo- 

sofiche ». 


Da ultimo, l’espressione « tutto è Dio » non ha più senso 

quando si ammette, come nel caso del monismo materialista 

e naturalista, soltanto l’esistenza di esseri fisici o di un es- 

sere materiale embrionale, indistinto, omogeneo che sia. Il 

panteismo, per il significato essenziale del termine, importa 

sì l’Essere uno, ma lo concepisce come Spirito o Ragione, an- 

che se privo di coscienza ed impersonale, tanto è vero che 

fa del pensiero e della coscienza la rivelazione dell’ Essere 

a se stesso. D'altra parte, l’Assoluto di cui parla il panteista, 

pur non essendo il vero Dio, suscita ammirazione ed amo- 



(30) Cfr. Dict. apol. de la foi cathol. cit., vol. IMI, pp. 918-922. 



L'ateismo 53 






re, sia anche solo «intellettuale »; dà l’ebrezza del divino 

immanente (Spinoza). Tutto ciò manca nel monismo ma- 

terialista o naturalista, dove Dio è una pura espressione ver- 

bale: « tutto è Dio » viene ad identificarsi, perdendo il suo 

sostanziale significato, con l’espressione « tutto è materia » (5). 


b) Il panteismo e le sue forme. Vi è una forma anti- 

chissima di panteismo ricorrente e presente in tutte le epo- 

che e presso tutte le genti. Alludiamo a quel panteismo pre- 

filosofico, primitivo, proprio di popoli agli inizi della spe- 

culazione, o di nature poetiche e mistiche abbandonate al 

fascino dell’immediato, alla suggestione delle forze della 

natura senza mediazione razionale, riflessione concettuale ed 

elaborazione critica. La Grecia prefilosofica è in questo senso 

panteista: le forze cosmiche sono divinizzate, fatte oggetto 

di culto; nel politeismo già evoluto di Eschilo, Sofocle, Pin- 



(31) Si noti che nel materialismo dialettico (incontro dell’evoluzionismo e del 

dialettismo hegeliano) i concetti di monismo e panteismo subiscono una trasfor- 

mazione profonda al punto che non vi sono reperibili. Infatti, il materialismo 

dialettico nega che vi sia comunque un'essenza di uomo o di altro, un ordine 

immutabile, una « materia » nel senso tradizionale: tutto è il risultato di situa- 

zioni storiche, rispondenti ad un grado del divenire; tutto nel futuro potrà essere 

diverso, perchè non vi sono sostanze. Ora è esigenza del panteismo l'unificazione 

del molteplice, suoi presupposti l’ordine cosmico e, in comune con il monismo, 

l’unità sostanziale degli enti. Pertanto, rigettato il concetto di ente e quelli di 

sostanzialità ed ordine, l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè 

monista nè panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in 

questo senso, è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. 


Per meglio far risaltare come nel monismo materialista, negati Dio e ogni 

realtà spirituale, la vita perda ogni significato che non sia quello biologico o 

economico, tutti i valori umani siano negati e l’esistenza diventi assurda, ripor- 

tiamo l’efficace descrizione che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa 

dei funerali del « filosofo » Spencer. « Ecco: io dico quel che ho letto. Morto 

lui, il suo corpo è portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al set- 

tentrione di Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un mattino 

di dicembre, e tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro non erano 

fiori, ma neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone ch’erano lì 

ad aspettarlo non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna avevano in 

mano. Venuto il carro, quelle si levano su in piedi riverenti e silenziose; e la 

cassa è deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E uno fra loro leva 

la mano in segno di voler parlare; e parlò, e disse della vita di lui, delle opere 

di lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui nè affermò nè negò nulla. 

Finito ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile porta, giù per un’aperta di 

muro, entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di lui si chiuse ». 



54 Filosofia e Metafisica 






daro, ecc., la distinzione tra le varie divinità, identificate con 

le forze naturali, si affievolisce; la molteplicità è gerarchizza- 

ta e unificata in un Dio supremo (Zeus « testa del mondo »). 

L’orfismo, con i suoi culti, le sue credenze nell’oltretomba e 

nella metempsicosi, è anch’esso una forma di panteismo pri- 

mitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la 

individualità sostanziale della persona umana; l’invasato dal- 

la divinità, attraverso l’ispirazione ed il rito, si sente così 

posseduto dal Dio da immedesimarsi con lui. Le forze vi- 

tali e le loro manifestazioni, gli elementi della natura di- 

ventano, per l'immaginazione robusta e per la ragione an- 

cora debole e fanciulla, potenti divinità, buone o cattive, da 

propiziarsi con riti, culti, preghiere, sacrifici. L'unità onto- 

logica del tutto, vissuta immediatamente e con sentimento 

spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione poetica o del- 

l'abbandono mistico; il senso profondo della natura e della 

immedesimazione con le sue forze è ebrezza del divino, sen- 

timento vitale di comunione dell’uomo con la divinità e del- 

la divinità con l’uomo. Questa forma di panteismo, che 

non è pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le 

sue espressioni più spontanee e turgide nel primitivismo di 

popoli non ancora intellettualmente evoluti, o in quello di 

forti temperamenti mistici e poetici, che hanno esuberante 

il senso della natura e il culto della vita. I mistici tedeschi 

non cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanti- 

cismo germanico, alcuni scrittori contemporanei, soprattutto 

modernissimi, vibrano di potenti accenti panteistici, si sen- 

tono come immersi nella natura divinizzata. È quello che 

possiamo chiamare panteismo estetico: culto della « gran ma- 

dre Natura », che è «bella» anche quando è «orrida », 

Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze attive, ora 

paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora 

maestosamente rasserenatore in una pace solenne, infinita, 

immobile (il cielo stellato, l'orizzonte immenso e limpido . 



L'ateismo 55 






da una vetta alpina ecc.). Ma questo panteismo, appunto 

perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o solamente poe- 

tico, non può essere oggetto del nostro discorso. 



Il panteismo che riconduce la natura a Dio non parte dal 

mondo, ma dall’Essere uno e necessario, che chiama Dio, 

Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo concepisce come 

Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazio- 

ne (Plotino), per deduzione necessaria e razionale (Spinoza), 

per posizione (Fichte), per movimento dialettico (Hegel), 

ecc. In tutte queste teorie, il mondo è identificato con Dio, 

per cui realmente esiste solo Dio, di cui il mondo stesso è 

una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; 

meglio, dovrebbe esserlo, se il panteista non avvertisse tale 

difficoltà e le contraddizioni insite nel sistema. 


Questa ed altre forme di panteismo hanno in comune due 

tesi che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità 

degli esseri all’unità ontologica di un unico ed identico Es- 

sere, per cui l’essere del mondo, emanante o procedente da 

Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è dunque « incate- 

nato » al mondo, il solo possibile, che da lui emana eterna- 

mente e necessariamente e a lui torna per identificarvisi, co- 

me le gocce d’acqua che, lasciate temporaneamente sulla 

spiaggia dal flusso dell’onda, vengono riassorbite nella suc- 

cessiva (3°). 


Il mondo s’identifica con Dio, da cui emana o procede; 

dunque l’essere del mondo è lo stesso di quello divino; d’al- 



(32) Nota ed espressiva l’immagine dell’albero: fusto, rami, foglie tutto trae 

vita dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che si rinnova identica a se stessa 

nell’unità della sostanza dal seme ai frutti. Essa è frequente nelle Enneadi ed ha 

avuto fortuna nella poesia romantica di Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.: « S'im- 

magini la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso, rimanendo il suo 

principio, immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè risiede nelle radici » 

(Ern., I ,8, 10). 



56 Filosofia e Metafisica 






tra parte, il panteismo non nega che il mondo è anche ma- 

teria o qualcosa che, non essendo spirito, non è della stessa 

natura spirituale di Dio; consegue che, se si mantiene il prin- 

cipio della identità del mondo con Dio, bisogna affermare 

l’identità dei contrari, che logicamente è non affermare nul- 

la. È la difficoltà in cui sembra incorrere il panteismo dello 

Spinoza: l’estensione (materia) e il pensiero (spirito) sono 

due degli attributi dell’ «rica Sostanza o Dio o Natura; se 

la dualità è anche in Dio non c’è l’unica realtà eterna (la 

Sostanza), ma due, irriducibili all’unità della Sostanza stes- 

sa; se questa è una, materia e spirito vi s'identificano e si 

afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la realtà del- 

l’uno e dell’altro. 


Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte, Hegel, ecc.; 

Plotino identifica la materia con il « non-essere », cioè con 

la zona oscura dove si spenge l’emanazione dell’Uno), con- 

sapevoli della difficoltà, distinguono tra natura emanata o 

posta (razura naturata) e la Sostanza o Io o Spirito ema- 

nante o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o Dio e 

il mondo sono realmente distinti, due realtà, due nature, e 

non c’è panteismo; 2) o il mondo non si distingue real- 

mente da Dio e, in tal caso, c’è panteismo, ma la difficoltà 

sopra notata ne fa una dottrina contraddittoria. In altri ter- 

mini, o la distinzione Dio-mondo è reale (analogia dell’es- 

sere) e bisogna abbandonare la dottrina dell'Essere unico in 

cui esiste tutto ciò che esiste; o la distinzione non è reale 

(univocità dell’essere) e allora: o si conclude che il mondo 

è pura apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo 

grado di realtà — concessione necessaria in ogni sistema 

panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o Dio —, dato 

che esso non è solo spirito, bisogna identificare il suo ca- 

rattere materiale con quello spirituale di Dio, cioè due con- 

trari, identificazione che, oltre al resto, riesce ugualmente 



L’ateismo 57 









alla negazione della realtà del mondo (*). Ma cerchiamo 

di approfondire meglio l’argomento (#). 


Posta la tesi fondamentale: l’urità dell’idea dell’essere im- 


rta la unicità dell’Essere stesso, consegue che il molte- 

plice (gli enti particolari e finiti) o è l’Essere, o non è; dun- 

que, solo apparentemente, nella sua fenomenicità, si distin- 

gue dall’Essere; in realtà è lo stesso Essere e non è come di- 

stinto da esso. Parmenide per primo dà una soluzione netta 

ed estrema del problema: «l’Essere è, il Non-essere [il 

molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide, mette in evi- 

denza le insolubili aporie cui va incontro una dottrina del- 

l’Uno che nega i Molti, come quelle della tesi opposta dei 

Molti che negano l’Uno; da parte sua, contro la tesi pan- 

teista, ammette la realtà degli enti finiti che hanno dell’Es- 

sere senza essere l’Essere. Negare la realtà del finito è af- 

fermare senza dimostrarla l’unicità ontologica dell’essere; 

al contrario si dimostra, contro il panteismo, che tra l’Es- 

sere e il Non-essere è possibile la realtà di enti molteplici 

particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti 

non sono l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza 



(33) Tipico il panteismo dello Spinoza. L'unica sostanza — Dio-Natura — 

consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime la sua essenza eterna ed 

infinita. Come la Sostanza non esiste che nei suoi attributi, così questi (pensiero 

ed estensione sono i due che noi conosciamo) non esistono che nei loro modi in- 

finiti; perciò Dio esiste solo nelle cose come loro essenza universale e le cose 

sono in lui come modi della sua essenza. Dio è natura maturans in quanto essenza 

universale del mondo; natura naturata in quanto totalità delle cose, in cui la sua 

essenza si realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste solo in essi. 

Questo il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del mondo, ma 

sua derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del mondo da Dio 

non è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di conseguenza; il mondo 

segue da Dio allo stesso modo che dalla definizione del triangolo segue che la 

somma degli angoli è uguale a due reti. In breve, il rapporto causale è con- 

cepito dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di principio e di conse- 

guenza. Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è posto per il caso 

nè per la libertà. Conoscere questa universale necessità è la beatitudine suprema 

dell'anima (amor Dei intellectualis). 


(34) Questa e altre tesi panteiste sono esaminate con fine acutezza da A. Va- 

LENSIN nel Dict. apol. de la foi cathol., vol. III, pp. 1332 c ss., che in qualche 

punto teniamo presente. 



55 Filosofia e Metafisica 









che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea 

dell’essere. 


Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora 

i panteisti, in quanto sarebbe incosciente: coscienza, infatti, 

è alterità, il distinguersi da qualcosa che è e le si oppone; 

dunque il mondo è necessario a Dio, il quale si fa, diviene, 

si rivela a se stesso, prende coscienza di sè attraverso di 

esso. Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tede- 

sco, trasforma il panteismo in ateismo. Un Dio che si fa 

(il Got im Werden dello Hegel) non è Dio, non è Spi- 

rito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si chiama 

col suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista af- 

ferma che Dio senza il mondo sarebbe incosciente perchè 

la coscienza per cogliersi ha bisogno dell’altro da sè, non 

parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza finita 

dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, co- 

me tale, è sempre Coscienza in atto e perciò non neces- 

sita dell’altro. Similmente Egli è spirito perfetto senza bi- 

sogno di diventarlo, di farsi: se si facesse, sarebbe sempre 

spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non 

è mai Dio in nessun momento del suo divenire e dunque 

non esisterà come Dio; perciò è come dire che non è. È 

la conclusione a cui arriva Nietzsche nel notissimo passo 

della Gaia Scienza: « Dov'è Dio? Voglio dirvelo! L’abbia- 

mo ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto! E 

noi l’abbiamo ucciso... ». 


Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando si 

argomenta che, se è infinito, non può essere che imperso- 

nale: chi dice persona dice limite e finitezza, ma Dio è 

infinito e senza limiti; dunque Dio è impersonale. Osser- 

viamo che la conclusione non dimostra la sua impersonalità; 

semplicemente Lo nega, in quanto un Dio impersonale è 

un’astrazione (la Natura, l’Umanità ecc.). D'altra parte, la 

premessa è esatta se s'intende la persona finita, ma il con- 



L'’ateismo 59 






cetto di persona umana non è l’unico possibile : Dio è per- 

sona in maniera diversa da come lo siamo noi, ma lo è in 

modo analogo al nostro (#). Si noti che in quest’ultima sua 

tesi il panteismo considera l’infinità di Dio in un senso che 

Gli si addice veramente; infatti, concependo la persona 

solo secondo quella umana limitata, esclude che Egli possa 

esserlo. Ma qui nasce un dilemma: o Dio è infinito senza 

alcuna limitazione, e cadono le due prime tesi panteiste del 

Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per acquistare 

coscienza di sè, in quanto un simile Dio non è perfetto e 

infinito in atto ma limitato nel divenire altro e nell’autori- 

velarsi a se stesso; o Dio non è infinito e perfetto in atto e 

allora, se tale, anche secondo l’uso ristretto che il pantei- 

smo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi pan- 

teista della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo 

non in contraddizione con se stesso e dunque sostenibile 

razionalmente, è necessario mantenere e giustificare tutte 

e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito in atto e non 

Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e 

con ciò vien meno l’essenza metafisica del panteismo (il 

mondo è Dio e Gli è necessario); o non è l’Infinito in atto 

e allora, anche nell’accezione panteista, si può concepirLo 

esistente come persona, e vien meno l’altra tesi essenziale 

al panteismo della sua impersonalità. In qualunque forma, 

il panteismo presenta invincibili contraddizioni interne; co- 

me tale, è razionalmente insostenibile (*). 



(35) Invece, così ragionano quanti negano a Dio la personalità: voi chia- 

mate personalità e coscienza ciò che avete imparato a conoscere in voi stessi 

con questi nomi; ma sapete anche che non vi è personalità e coscienza senza 

limitazione e finitudine; perciò attribuendo a Dio quei predicati, fate di lui un 

essere finito, uguale a voi e non avete pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi 

nel pensiero. Questo ragionamento del Fichte, il quale riduce il teismo ad antro- 

pomorfismo, critica un modo di chiamare Dio personale diverso da quello del 

testa; perciò non interessa il vero teismo e non ha alcuna validità contro di 

esso. 


(36) Osserviamo ancora che, anche ad accettarla per un momento, la tesi 

panteista che il mondo è necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. 

Se il mondo è necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 



60 Filosofia e Metafisica 






7. — L’umanesimo ateo. 



Con l’umanesimo assoluto o ateo, proprio di quelle filo- 

sofie che si dicono atee perchè umaniste, entriamo nel vivo 

dell’ateismo contemporaneo nelle sue molteplici forme di de- 

rivazione materialista, illuminista e idealista, soprattutto hege- 

liana. Secondo i suoi teorici, la religione (e perciò l’idea di 

Dio) aliena l’uomo in un Essere assoluto e trascendente, gli 

ta perdere il possesso di ciò che gli appartiene, gli impone 

un Altro; un maestro che gli insegna, o un rivale che gli 

contende. Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio è la ne- 

gazione dei diritti dell’uomo, che, adorando un Ente Supremo, 

frutto della sua immaginazione condizionata da situazioni 

storiche, aliena in lui quel che invece gli appartiene. Pertanto 

un umanesimo integrale ed autentico è possibile solo se l'uomo 

cessa dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi diritti e 

poteri, cioè se attraverso l’evoluzione storica elimina il mo- 

mento religioso della rinunzia a ciò che gli spetta e attri- 

buisce a Dio. 


Questa forma di ateismo non è una novità del marxismo; 



apparenza, è assurdo dire che Dio esiste per un’apparenza, anzi dire che esiste; 

infatti, se il mondo è apparenza, siccome Gli è necessario per esistere, anche Dio 

è apparenza! Dunque, il panteista deve concedere al mondo una sua realtà, non 

diversa però da quella di Dio, altrimenti vien meno il principio dell’unicità 

dell'essere e con esso l'essenza del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csi- 

stere la realtà del mondo e questa è della sua stessa natura, consegue che per 

esistere Gli è necessario... Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è neces- 

saria la sua realtà non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare 

coscienza di sè. Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è 

coscienza, non è soggetto; se non è soggetto, è oggetto, « materia ». Come nasce 

la coscienza? Si riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del 

monismo materialista. 


Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo, emana- 

zionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia nè scienza, 

per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più noti, infatti, 

sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono quelle già da 

noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è antropomorfico); in 

realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente, ecc. (The Key to Theo- 

sophy, London, 1893, p. 44), ma solo Dio sa, se è tale, come può dirsi im- 

personale; 5) « Dio è tutto e tutto è Dio », scrive la Besant (WAy I became a 

theosophist, London, 1891, p. 18) confondendo le due forme di panteismo, che 

noi, meno frettolosi, abbiamo distinto e discusso separatamente, i 



L'ateismo 61 






già matura nell’Illuminismo, rappresenta solo una fase di quel 

processo di divinizzazione dell’umano, proprio del pensiero 

moderno: l’uomo può fare da sè quello che, attraverso l’alie- 

nazione religiosa, crede possa fare solo Dio. Il progresso e 

l’evoluzione storica dell'umanità risiedono precisamente nella 

graduale liberazione dalla « superstizione » religiosa, infanzia 

della ragione, nella sempre più matura consapevolezza che 

noi acquistiamo dei nostri poteri. Per l’idealismo trascen- 

dentale, da Fichte a Gentile, l’uomo realizza la sua umanità 

piena nel pensiero che, attraverso il dialettistmo che gli è 

immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del mo- 

mento religioso in quello filosofico e all’attuazione di quella 

assolutezza dalla religione attribuita a Dio e che, invece, è 

il pensiero stesso nel suo perenne divenire, nella conquistata 

consapevolezza di sè. Con il positivismo del Comte, il mate- 

rialismo del Feuerbach e l’economismo del Marx, la religione 

dell’« umanità » sostituisce quella di Dio. Così l’umanesimo 

ateo assume uno spiccato carattere sociale: l’uomo acquista 

coscienza di sè nella società, nel lavoro inteso come vincolo di 

« fraternità », strumento di dominio della natura, potenziato 

dal progresso scientifico e tecnico. Nella storia l’uomo rea- 

lizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella perfezione 

assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. 

Al contrario, secondo un’altra forma di umanesimo ateo 

antisociale anarchico individualista, ma di un individuali- 

smo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua ma- 

turità con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe 

e tiranno, crudele e despota, di cui unica legge è l’arbitrio 

e tutto è sua « proprietà ». L’umanità esprime la sua po- 

tenza intera nell’« unico » (Stirner) o nel «superuomo » 

(Nietzsche), cioè quando oltrepassa se stessa, si pone al di 

là della « mediocrità » delle leggi, dello Stato, della morale 

ecc.; la pienezza dell’uomo è nella negazione dell’umano 

nel superumano del superuomo, usurpatore di tutto, con- 



62 Filosofia e Metafisica 






quistatore dei suoi supremi diritti contro Dio, di cui de- 

creta la morte cancellando al tempo stesso l’alienazione re- 

ligiosa, vergogna del « gregge » dei deboli. Queste forme di 

ateismo, imperniate sul concetto di alienazione, nonostante 

le differenze a volte rilevanti, hanno in comune alcuni pre- 

supposti dogmaticamente assunti: 4) la religione è un gra- 

do, inferiore rispetto ai successivi, dell’evoluzione dell’uma- 

nità, corrispondente al momento in cui l’uomo non ha an- 

cora piena coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello 

che gli appartiene e attuerà in una fase più progredita del- 

la sua evoluzione; è) essa, per conseguenza, grado transi- 

torio del divenire storico, è destinata a scomparire quando 

tutti gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno ac- 

quistato consapevolezza di sè, cioè quando vi sarà un’uma- 

nità o una società nella piena maturità della sua evoluzione; 

c) pertanto, quel che si adora come Dio non è che l’ideale 

umanità futura, che l’uomo per il momento proietta fuori 

di sè ed entifica in un Ente supremo e domani invece vedrà 

realizzato in se stesso con e nella sua opera; 4) fino a quando 

egli adora un Dio e si aliena in lui, è indizio che l’evolu- 

zione storica non ha raggiunto la sua completa attuazione 

e ancora vi è nella società un residuo d’infantilismo. 


Sul fondo comune della divinizzazione dell’umano — 

l’uomo al posto di Dio, l’« usurpatore » temporaneo desti- 

nato ad essere spodestato — l’umanesimo ateo si differenzia 

in forme diverse quando si tratta di stabilire in quale del- 

le sue attività l’uomo realizza il suo compimento: il Pro- 

gresso, la Scienza, la Filosofia, l’Umanità, la Società omo- 

genea, ecc. a volta a volta sono state additate come le 

nuove divinità della nuova «religione umanistica », la cui 

realizzazione farà sparire, relitto del passato, la « religione 

teologica ». La forma più vistosa, anche se teoreticamente me- 

no consistente, è quella marxista, sulla quale insistiamo in 

modo particolare per la sua diffusione e perchè espressione 



L’ateismo 63 






di ateismo integrale che pretende di oltrepassare anche se 

stesso, sforzo poderoso di costruire l’umanità intera contro 

Dio e di rivoluzionare dalle fondamenta la scala dei valori. 

Mai ateismo è stato più negativo ed assoluto, apocalittico e 

messianico; mai, come ora col marxismo, è stato forma 

di vita. 



La cosidetta « sinistra hegeliana », pur accettando il dia- 

lettismo, opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non 

sono un’estrinsecazione dell’Idea, ma la sola e vera realtà, 

di cui l’Idea è solo un'immagine; perciò reale è l’uomo non 

come puro pensante, ma come istinto, senso, corpo: l’uomo 

è un «corpo cosciente », dice Feuerbach; ed è bisogno, in- 

sieme di bisogni, che vuol soddisfare per realizzare la pro- 

pria felicità. Nel rapporto sociale egli acquista coscienza 

della sua umanità ed è tanto più se stesso quanto più attua 

questa coscienza. Come nasce nell’uomo così concepito l’esi- 

genza religiosa? Questa la domanda alla quale Feuerbach 

risponde ne L'essenza del Cristianesimo (1841). 


Hegel identifica Dio con il processo storico, con l’uo- 

mo infinitizzato; dunque, quando parla di Dio, parla del- 

l’uomo; basta scrivere «uomo» dove scrive « Dio» per 

restituire all'uomo stesso il suo autentico essere; pertanto, 

« il problema di Dio è il problema dell’uomo »; «il segreto 

della teologia è l’antropologia ». Così Feuerbach opera la 

« trasformazione del sacro » già implicita nel pensiero illu- 

minista e quasi esplicita nel Fichte e nello Hegel. 


La religione è un prodotto puramente umano: non po- 

tendo l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal 

bisogno, postula o pone un Essere illusorio, proiezione di se 

stesso come vorrebbe essere. La teologia non è che antro- 

pologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione del- 

l'immaginazione, è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 



64 Filosofia e Metafisica 






Così nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad 

un altro la realizzazione dei valori, di scaricarsi di un com- 

pito. Se l’uomo acquista coscienza che quando pensa l’Infi- 

nito pensa e attesta l’infinito del suo pensiero, e quando lo 

sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se si 

fa consapevole che « nell’essere e nella coscienza della reli- 

gione non vi è niente di diverso da quel che c’è nel suo 

essere e nella sua coscienza »; in breve, se si convince che 

«egli inconsapevolmente e involontariamente crea Dio se- 

condo la propria immagine », si riprende quel che ha alienato 

e acquista coscienza che tutto il discorso su Dio non è che 

discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e so- 

miglianza. In altri termini: se il fatto religioso dipende 

da una particolare situazione umana e dura fino a quando 

essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo cessa di 

pensare a Dio e di essere religioso. 


Feuerbach, nonostante tutto, resta legato al vecchio ma- 

terialismo; il reale per lui è ancora l’« oggetto » sensibile, 

come gli obietta Marx, che pur riconosce quanto deve al 

suo predecessore. In breve, conserva residui intellettualistici, 

che Marx elimina con la riduzione del reale all’« attività 

sensibile umana » intesa come prassi: il rapporto uomo-na- 

tura è dialettico e non vi è altra dialettica che quella uomo 

sensibile-realtà sensibile in funzione del lavoro umano; per- 

tanto, la dialettica deve scendere dal piano teoretico-idei- 

stico (Hegel) a quello pratico o « economico », anzi l’« eco- 

nomico », il « materiale », è l’unica « struttura » del processo, 

di cui le altre (morale, religione, arte, ecc.) sono solo « so- 

prastrutture ». La proprietà privata, autoalienazione dell’uo- 

mo, è una usurpazione o appropriazione della sua essenza 

da parte di un altro; la sua soppressione positiva coincide, 

da un lato, con la soppressione positiva della vita umana 

alienata e di ogni altra alienazione conseguenza della pri- 

ma come la religione, la morale, la famiglia, lo Stato, il di- 



L'’ateismo 65 






ritto, ecc.j dall’altro, con il ritorno all’uomo come «essere 

sociale », con la riconquista del suo vero essere originario: 

l’essere dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha es- 

senza umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto 

nella società diventa legame che unisce gli uomini tra loro. 

In quest’ultima si compie l’integrale naturalismo dell’uomo 

e l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica hege- 

liana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società. La 

storia non è il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quel- 

lo della natura attraverso il lavoro dell’uomo; non la dia- 

lettica di compimento dello Spirito assoluto nella Filosofia, 

ma quella di compimento dell’uomo-natura nella Società so- 

cialista. 


Ciò posto, se non ci sono che l’uomo e la natura in rap- 

porto dialettico e la religione appartiene al momento del- 

l’alienazione o della proprietà privata, realizzata l’unità del- 

l’uomo con la natura nella società ed eliminata l’alienazione, 

la religione scompare da sola: l’ateismo è una constatazione, 

è o sarà un « fatto » della nuova società socialista. Amano 

a mano che l’uomo andrà costruendola e conquistando la sua 

libertà, sua opera esclusiva perchè la storia è soltanto opera 

dell’uomo che in essa ha tutto il suo senso, andrà sparendo, 

anche senza combatterla, la credenza nell’esistenza di Dio, 

soprastruttura dell’alienazione. « Dal momento che la es- 

senzialità dell’uomo e della natura diventa praticamente sen- 

sibile » nel rapporto dialettico uomo-natura, diventa prati- 

camente impossibile anche il problema di un'essenza estra- 

nea superiore alla natura e all’uomo implicante l’ammissione 

della loro inessenzialità. « L’ateismo come negazione di que- 

sta inessenzialità non ha alcun senso, poichè esso è una ne- 

gazione di Dio e pone con essa l’esistenza dell’uomo ». Dun- 

que, non c’è più bisogno della negazione di Dio e della reli- 

gione, l’ateismo diventa superfluo: l’autocoscienza positiva 

acquistata dall’uomo nella società socialista è la negazione 



66 Filosofia e Metafisica 









della negazione, cioè dell’ateismo: non si tratta di soppri- 

mere la religione, perchè è già sparita, come non si tratta di 

sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri ter- 

mini, la negazione di Dio e della proprietà privata rappre- 

sentano solo un momento necessario del processo di emanci- 

pazione dell’uomo alienato, della conquista della sua libertà, 

ma non il fine della società umana, che è l’attuazione della 

libertà dell’umanità. 


Questi e altri discorsi poggiano sul presupposto domma- 

tico di Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a 

cui Marx applica il metodo dialettico che lo Hegel riserva 

allo spirito. Così Marx riforma contemporaneamente la dia- 

lettica hegeliana e il concetto feuerbachiano di materia, ma 

la duplice operazione lascia intatto il presupposto materia- 

listico, anche se egli identifica la materia con la realtà eco- 

nomica, cioè la sostituisce così intesa, ma senza giustifica 

zione alcuna, allo spirito. Certo, l’economia, come ogni altra 

attività umana è dialettica, ma è tale in quanto attività 

spirituale che, pur interessando il corpo, risponde sem- 

pre ad un bisogno dello spirito unito al suo corpo; dun- 

que interessa la persona nella sua integralità spirituale e cor- 

porea. Ma, a parte ciò, da un lato resta da dimostrare che 

la materia o l’economico sia il primum o il principio as- 

soluto fondante tutta la realtà umana e non essa fondata 

da un altro principio, altrimenti si fa un’affermazione dom- 

matica, come tale gratuita e filosoficamente ingiustificata; 

dall’altro, è da vedere come il marxismo intende lo spirito, il 

pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per Marx e i neomar- 

xisti russi o di loro ispirazione, « materia » non è soltanto 

la realtà economica, lo è l’universo tutto nella sua essenza; 

di essa, dato oggettivo indipendente dalla coscienza, que- 

st'ultima è solo «un elemento secondario derivato »; il pen- 

siero è un prodotto del cervello, che a sua volta lo è dell’evo- 

luzione della materia, per cui la dualità materia-spirito è 

una mera astrazione metafisica. Se è così, l’attività econo- 



L'ateismo 67 






mica, primum assoluto, è soltanto ed esclusivamente mate- 

riale, dato che la cosidetta coscienza o spirito è un elemento 

secondario derivato dalla materia oggettiva, madre di essa e 

di tutta la realtà naturale; dunque, monismo materialista in 

edizione aggiornata, ma più scorretta di quella del vecchio 

materialismo, in quanto il neo-materialismo pretende di es- 

sere « dialettico », ragione di quello «storico », come se 

si potesse parlare di « dialettica» dove tutto è materia e 

niente spirito. L'espressione « materialismo dialettico » è una 

contraddizione nei termini e non è ragione di alcun « ma- 

terialismo storico », per il motivo inconfutabile che non c’è 

dialettica dove non c’è spirito e dove esso è concepito come 

un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo que- 

st’ultima che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, 

l’ateismo in una concezione monistica diventa una consta- 

tazione di fatto, ma non per le ragioni che adduce Marx, 

bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è nient'altro, 

nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non 

c'è l’uomo nè Dio, non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa 

un dato inspiegato ed inspiegabile, gratuito; non resta che 

riporsi tutti i problemi senza tener conto dell’assurdo ini- 

ziale monismo materialistico. 


D'altra parte, che senso ha parlare di uguaglianza e fra- 

ternità tra gli uomini in una concezione in cui la persona 

è un puro prodotto naturale della materia, la risultante del- 

l'evoluzione materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, 

senza diritti extrasociali o anteriori alla società stessa? Marx 

ammazza la persona tre volte: nella materia, nella realtà 

economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta che 

non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha 

« alienato » la persona nella materia, negato lo spirito nella 

realtà economica e nella società e dice di aver riscattato l’uo- 

mo dall’alienazione religiosa. A parte ciò, come si fa a dire 

che l’idea di Dio e la religione sono la conseguenza della 



68 Filosofia e Metafisica 






proprietà privata e dell’alienazione del lavoro, pronte a scom- 

parire, incubo plurimillenario, con la cessazione della causa 

«materiale » che le ha prodotte? Ma che aveva in testa 

l'insiptens Marx e che vi hanno gli insipientes che l’han 

perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? 

Superfluo insistere nel criticare una dottrina che, sotto 

l’aspetto filosofico — a parte la questione sociale — è così 

puerile e grossolana da non potersi chiamare nemmeno as- 

surda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il 

uale dice che il manico di scopa che cavalca è uno dei 

cavalli del Re d’Inghilterra. È quel che capita al marxismo 

quando sostiene che gli uomini pensano a Dio perchè defrau- 

dati da una parte di quanto producono con il loro lavoro e 

che cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la 

proprietà privata e la defraudazione del lavoro altrui, si sarà 

pienamente realizzata la libertà dal bisogno, l’ideale perse- 

guito dall’inizio dei tempi e proiettato in un immaginario 

Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto 

marxista, come quello che si fonda sull’autosufficienza uma- 

na, rientra nel quadro più vasto del pensiero moderno lai- 

cista; non per nulla è figlio dello Hegel. Variano i modi di 

divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il 

Pensiero ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del 

marxismo non sfigura gran che al confronto di quella di 

altre dottrine. Solo che esso, invece di affidare il compito 

di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività nobili o dotte, 

lo ha affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi 

questo gran male, perchè l’esito è sempre lo stesso. Gli altri 

ateismi o laicismi non hanno da protestare contro il mar- 

xismo e da darsi una superiorità che è solo sciocca arro- 

ganza. 

Non è il caso d’insistere, perchè già incluse nella nostra 

esposizione critica, su altre teorie di alienazione religiosa, 

su quelle che dicono in generale: l’uomo che crede in Dio 



L'ateismo 69 






aliena se stesso, abdica; dunque un vero umanesimo non 

può non essere ateo. Nietzsche vien subito alla mente, ma 

le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per esempio, 

il Brunschvicg; il quale non nega il valore trascendentale 

del pensiero, ma lo intende in senso idealistico: non Pen- 

siero in atto (Dio), bensì quello che è infinito progresso 

creativo; Dio s’identifica con la Ragione immanente. Se, in- 

vece, l’uomo ammette con la pura « immaginazione » un Dio 

trascendente aliena in Lui i poteri del pensiero, che è l’As- 

soluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè è assurdo: l’idea 

di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno 

dell’uomo, un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico 

di fare coincidere la riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’en- 

Soi); è precisamente l’impossibile tentativo o di annullare 

l'oggetto nel puro soggetto o il soggetto nella pura oggetti- 

vità. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai esserlo per- 

chè Dio è assurdo; l’uomo è « una passione inutile ». 


Queste teorie concepiscono Dio come negazione dell’uo- 

mo; ma Dio non nega, eleva la natura umana ad un destino 

soprannaturale; dunque, da questo punto di vista, la sua 

idea non è alienazione, ma inglienazione. I filosofi dell’alie- 

nazione religiosa « s’immaginano » un Dio alienante e poi 

concludono che l’uomo, pensandovi, si aliena in Lui. Ma, 

in definitiva, cosa aliena? Quello che compete alla sua na- 

tura, o quel che non gli appartiene? Secondo i teorici del- 

l'alienazione, proprio quello che non gli appartiene, essere 

Dio. In altri termini, se si attribuisce all’uomo quello che 

spetta a Dio, chiaro, se vi pensa e lo ammette, si aliena.... 

ma come Dio, non come uomo. Non vi è, dunque, aliena- 

zione religiosa nè l’esistenza di Dio la comporta, se l’uo- 

mo si attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e 

non quello che non gli spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, 

lo aliena, lo fa escire fuori di sè, lo rende ridicolo, cari- 

catura di se stesso. 



CapitoLo V 



CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 



La breve indagine storico-critica sull’ateismo e le sue 

forme fondamentali, condotta con animo aperto e dal punto 

di vista più favorevole, ci porta a concludere che, sia quello 

vero e proprio come l’altro che non si dice esplicitamente 

tale o non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni 

dommatiche o razionalmente contraddittorie. 


Infatti, l’ateismo assoluto, che nega senz'altro l’esistenza 

di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando pretende 

ad un qualche significato filosofico, esprime la fiducia che 

la ragione umana abbia la capacità di provare la sua affer- 

mazione; ma nessun ateo, che si sappia, ha dato una simile 

prova razionale inconfutabile. Gli agnostici giustamente gli 

rimproverano questo suo dommatismo, di non porsi il pro- 

blema pregiudiziale se la ragione abbia il potere di dimo- 

strare vero il suo ateismo. Non solo, ma l’ateo non si chiede 

neppure se alla ragione, schietta e naturale, non ripugni una 

simile negazione proprio in quanto è naturalmente indiriz- 

zata all’Essere, origine e fondamento di ogni verità e dello 

stesso lume razionale; l’ateismo dommatico, in questo senso, 

è contro la natura dell’uomo, contro la ragione. Per con- 

seguenza, l’affermazione atea è irrazionale, dettata dalla 

« passione »; è lo stato dell’insipiens, di colui che non sa 



L'ateismo ZI 






quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in cattività (1); 

condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e 

dunque filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non 

trova aiuti o sostegni nella scienza che non oltrepassa arbi- 

trariamente i suoi limiti — ma in tal caso gli aiuti sono ap- 

parenti perchè forniti da una scienza « apparente» — in 

quanto a nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche 

quella del Dio personale. Nessuna psicologia scientifica può 

distruggere la superiorità della coscienza e del pensiero e 

la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di Dio-Vo- 

lontà non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi pro- 

prio la scienza, se non «premeditata » e consapevole del 

suo oggetto e dei suoi limiti, può riconoscere la convenienza 

razionale del Dio-Persona. In conclusione, una ragione atea 

non è razionale nè ragionevole. 


Ma proprio quella convenienza nega l’agnostico, il quale 

dà torto all’ateo che pretende di « sapere » che Dio non esi- 

ste, ma lo dà anche al teista che presume di provarne l’esi- 

stenza; egli così non incorre nè nel possibile errore del 

primo, nè in quello pure possibile del credente che, dal 

fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente. Lo 

agnostico non nega e non afferma l’esistenza di Dio; /a 

ignora, perchè i mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone non 

hanno la capacità di spingersi fino all’affermazione o alla 

negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva solo se 

applicati a ciò di cui l’uomo può avere esperienza; ma dello 

Essere in sè non c’è esperienza e v'è solo « pensabilità »; 

dunque non c’è possibilità di pronunziarsi con un certo 

fondamento razionale sulla sua esistenza. 


Come abbiamo osservato, la verità della conclusione è 

legata a quella del sistema, il quale non comporta che si 

affermi o si neghi l’esistenza di Dio; ma è vero il sistema? 



(I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la sottomette al suo ateismo, 

meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non lo convincono ma l’ateismo 

gli è comodo: « vuole » essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega. 



72 Filosofia e Metafisica 






E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza umana 

è limitata solo al mondo fenomenico (7)? Lo si afferma per- 

chè, in partenza, si assegna alla filosofia come suo oggetto 

proprio il fenomeno o il fatto e non il valore e l’atto; si 

riduce tutta l’esperienza valida a quella sensoriale igno- 

rando che ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, 

quando non s’identifica superficialmente con i fenomeni psi- 

chici, attinge profondità metafisiche che danno evidenza 

razionale al problema di Dio e della sua esistenza. Ma asse- 

gnare alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e umano, 

è negare che ne abbia uno proprio, ridurla alla scienza o 

alla storia, di cui diventa una metodologia; dunque, si nega 

che l’esistenza di Dio è problema filosofico, perchè si nega 

che vi sono filosofia e problemi propriamente filosofici! In 

altri termini, il sistema che limita la conoscibilità al fatto e 

al fenomeno è una «filosofia » che si ferma «al di qua» 

della filosofia vera e propria, al punto in cui si arresta la 

scienza; cioè è una filosofia che deve ancora cominciare a 

filosofare sull’esistenza di Dio e gli altri problemi! 


«Non nego e non affermo; ignoro se Dio esiste ». Lo 

agnostico che dice di « ignorare » Dio è ateo — di fatto lo è 

chi lo ignora — ma dice d’ignorarlo perchè il sistema esige 

di fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si 

ferma ad un certo punto. L’agnosticismo ateo è la rinunzia 

a pensare fino in fondo, il fermarsi alle cause penultime 

(scienza) senza spingersi fino al Principio primo (metafisica). 

Può essere timidezza, ma anche timore (*); teoreticamente 



(2) Per citare un esempio recente, anche se di scarsa consistenza speculativa, 

il Rensi, nella citata Apologia dell’ateismo, poggia tutta la sua argomentazione 

su una concezione materialistica dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpre- 

tazione materialistica di Kant: « è soltanto ciò che può essere visto, toccato, per- 

cepito » (p. 15); Dio non può essere visto, toccato, percepito; Dio non è e pen- 

sare diversamente è « alienazione mentale » (p. 35). 


(3) In chi nega Dio o dice di ignorare se esiste, non di rado ha una in- 

fluenza decisiva un motivo psicologico di ordine pratico: giustificare la propria 

condotta di vita. Gli « spiriti forti » sono spesso di una estrema debolezza: « fan- 

no i bravi con Dio », secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libe- 



L'ateismo 73 









è il non osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinun- 

zia alla bellezza del « rischio » metafisico; è un « fermarsi », 

in contraddizione con la «spinta » della ragione e perciò 

non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal 

al non pensare fino in fondo — « Athéisme. marque de force 

d’esprit, mais jusqu’à un certain degré seulement » (*) — 

a metà: «Les athées doivent dire des choses parfaitement 

claires » (*). Ma proprio di chiarezza mancano: presentano 

come chiara una conclusione che non lo è, per esaurito e 

definitivo un discorso che è infinito, e, quasi timorosi di 

convincersi dell’esistenza di Dio, cercano sempre qualche 

difficoltà per persuadersi del contrario ("). La ragione può 

rifiutarsi di andare fino in fondo solo facendo violenza a 

se stessa, facendosi schiava di interessi non razionali, misti- 

ficandosi, autocontraddicendosi (°). 


Tuttavia, a parte queste obiezioni, resta valida la pre- 

giudiziale « critica » sulla capacità della ragione di fondare 



rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto l’apparenza di crisi spirituali, 

della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà intellettuale, si nasconde l’attacca- 

mento ad una passione: pur di non rinunziarvi si mette la ragione a servizio 

di essa, la si costringe a sottolizzare, a trovar pretesti e scuse fino a quando 

non l’abbia giustificata. In tal caso, l’ateismo e l’agnosticismo ateo (« si vuole » 

ignorare Dio perchè fa comodo) scaturiscono da un fondo di immoralità. Certo 

non sono mancati e non mancano atei onesti e modelli di virtù morali; ma 

non di rado l’onestà di questi « galantuomini » dai costumi impeccabili è sata- 

nica: virtuosi per la superbia di esserlo, identificano i valori con la loro stessa 

persona, ne fanno una « posizione dell’io » da mantenere e rispettare anche fino 

al sacrificio di sè... a se stessi. 


(4) F. Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $ 5; « Certissimum est, 

atque experientia comprobatum, leves gustus in philosophia movére fortasse in 

atheismum, sed pleniores haustus ad religionem reducere ». 


(5) Pensées, Sect. III, 225, ed. Brunschvicg. 


(6) Ivi, Sect. HI, 221. 


(7) Come è stato osservato (Piar, in « Revue pratique d’apologétique », 15 

gennaio 1907, p. 451), se a cercare Dio si fosse impiegato un decimo dell’energia 

spesa per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già posseduto la più ampia, 

precisa e solida delle teodicee. 


(8) VoLtaire (op. cit., p. 43), non certo sospetto di eccessiva pietà religiosa, 

scrive: « les athées sont pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e 

gli « ambiziosi », i « voluptueux », aggiunge argutamente, « n’ont guére le temps 

de raisonner... ». 



74 Filosofia e Metafisica 









una teodicea e di risolvere il problema teologico; ma farla 

valere non significa affatto giustificare innanzi tutto se ha 

il diritto di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare 

che questa esperienza, alla quale la si vuol costringere e 

limitare, è inspiegabile senza oltrepassarla. Tale istanza non 

può essere ignorata dall’agnosticismo e dal criticismo, ap- 

punto perchè spinge la «critica » al limite del suo sviluppo 

più esigente. 


Ma ammettere razionalmente l’esistenza di Dio non im- 

plica di necessità concepirlo come l’Essere trascendente e 

personale, obiettano deisti e panteisti. Abbiamo già di- 

scusso e confutato le dottrine che concepiscono Dio come 

Ente impersonale e dimostrato la loro contraddittorietà : 

hanno il torto di chiamare Dio quel che non lo è, ma è 

« Forza », « Causa », « Legge naturale », « Natura » : in que- 

sti casi Dio è una parola senza contenuto, o con uno diverso. 

Ma ciò è lo stesso che negarLo e perciò il deismo e il pan- 

teismo sono atei: teismo verbale (uso della parola Dio) e 

ateismo sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In breve, 

o si nega Dio e si abbia la franchezza di dirlo accettando 

l’assurdità dell’affermazione; o non Lo si nega e allora si 

parli di Lui e non di altro: Natura, Legge, Divenire, Idea, 

Inconscio, ecc. Un Dio impersonale non è Dio, « ma solo 

una parola mal adoperata, un non-concetto, una contradictio 

in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si riconosce la ne- 

cessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo 

Essere intelligente e volente, Persona, con cui gli enti 

creati sono in rapporto di analogia e non di univocità o iden- 

tità. Questo indica il termine; qualsiasi altro uso è spurio 

e fa che il teismo diventi puramente verbale. 


Da ultimo, notiamo che Dio, oltre che una verità razio- 

nale, è innanzi tutto una verità religiosa, rispondente a una 

esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la ragione è 

chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto 



L'ateismo 75 






o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e 

personale. Dire che Dio è verità razionale non deve signi- 

ficare depauperazione della Sua idea al punto di farne una 

pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità o 

dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, 

in quanto la ragione è chiamata a dare fondamento razio- 

nale al Dio della religione, non a dimostrare l’esistenza di 

un ente, che soddisfa solo pure esigenze intellettuali della 

ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle reli- 

giose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, 

dallo stato ingenuo o d’immaginazione, vengono elevate a 

quello critico o di scientificità. Visto così il problema, quanti 

dicono che Dio è il Divenire o la Natura, l’impulso morale 

o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, 

adorano, amano. D'altra parte, se diamo a quello che chia- 

mano Dio il senso vero che ha la parola, con tutto il ri- 

spetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a pensare 

che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si 

dialettizza, l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, 

ecc.; scoppia perchè si fa rappresentare a questi concetti 

una parte che non si addice loro, e al tempo stesso si rifiuta 

la religione per accettare l’idolatria. Non è stato forse ridi- 

colo il Comte con la sua «religione dell'Umanità »; chi si 

è fatto sacerdote della «religione della libertà »; quel tale 

adoratore della Dea-Ragione che, al tempo della Rivoluzione 

dell’ 89 dichiarò di essere «l’ennemi personnel de Jesus 

Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che «la verità è 

il Partito» e basti realizzare una società socialmente ed 

economicamente perfetta perchè si estingua nel cuore dello 

uomo l’esigenza religiosa nella riconquistata coscienza che 

Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo aperto o 

mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 



76 Filosofia e Metafisica 






grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non 

hanno il senso di angosciosa sofferenza e di disperazione 

sincera, che meritano comprensione e rispetto (7). 



(9) Nota bibliografica: 


P. Bayle, Pensées diverses écrites è un docteur de Sorbonne è l’occa- 

sion de la comète qui part au moins de décembre 1680, Rotterdam, 1721, 

voll. 4; VoLtarre, Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., pp. 

35-45; L. SrerHen, An Agnostic’s Apology, London, 1876; Huxrey, Essays, 

London, 1898; F. Le Dantec, L’Athéisme, Paris, 1907; F. MANTHNER, Der 

Atheismus und seine Geschichte in Abendlande, Stoccarda e Berlino, 1922-23, 

voll. 4; G. Richarp, L’athéisme dogmatique, Paris, 1923; R. Fuint, Antitheistic 

Theories, Edimburgo, 1917, IX ediz.; A. B. DrocHmann, Atheism in Pagan 

Antiquity, London, 1922; G. Rensi, Apologia dell’ateismo, Roma, Formiggini, 

1925; P. CaraseLLEsE, I/ problema teologico come filosofia, Roma, Bardi, 1931; 

P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, traduz. ital., Torino, Einaudi, 1946; 

J. P. SARTRE, L’Etre et le Néant, Paris, 1943; H. DE Lusac, I/ dramma dell’uma- 

nesimo ateo, trad. ital., Brescia, Morcelliana, 1949; M. F. Sciacca, Il problema 

di Dio e della religione nella filosofia attuale, Brescia, Morcelliana, 3* ediz., 

1953; Interiorità oggettiva, Milano, Marzorati, 2* ediz., 1961; Atto e essere, 

ivi, 3* ediz., 1961; L. BrunscHvice, De /a vraie et de la fausse conversion, 

suivi de la querelle de l’athéisme, Paris, Presses Univer. de France, 1951; 

J. MARITAIN, /l significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia, Morcelliana,, 

1950; H. Dumfry, De /’athéisme contemporain, «Nouvelle Revue théolo- 

gique », n. 4, 1949, pp. 367-374; E. Ripeau, Paganisme ou christianisme? 

Etude sur l’athéisme moderne, Paris-Tournai, 1953; F. LomsarpIi, L. Fewerbach, 

Firenze, La Nuova Italia, 1935; H. Arvon, L. Feuerbach ou la transformation 

du sacré, Paris, Presses Univ. de France, 1957; F. N. OLESscHISscHUK, Atheismus, 

Berlino, 1955; J. Y. Carvez, La pensée de K. Marx, Paris, Éditions du Seuil, 

1956; L’athéisme contemporain, Genève, Éditions Labor et Fides, 1956; M. Buser,. 

L'eclissi di Dio, Milano, Edizioni di Comunità, 1961; E. Borne, Diew n'est pas 

mort. Essas sur l’athéisme contemporain, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1956. 

Inoltre: Athdism di vari Autori; Hastincs, Encyclopaedia of Religion and Ethics, 

vol. I; Athéisme, « Vocabulaire technique et critique de la philosophie » a cura di 

A. Latanpe, Paris, Alcan, 1938, 4* ediz., vol. I; Francx, Dictionnaire des scien- 

ces philosophiques, Paris, 1875; Ateismo, « Enciclopedia italiana », vol. II; Agnosti- 

cisme, Athéisme, Panthéisme, « Dictionnaire apologétique de la foi catholique »,. 

Paris, Beauchesne, 1925, vol. I e vol. II. 



Parte TERZA 



ATEISMO E TEISMO 



SEZIONE SECONDA 



L’ESISTENZA DI DIO 



CaritoLo I 



POSIZIONE DEL PROBLEMA 

E I «DATI REALI» DELL'IPOTESI «DIO » 



I. — Definizione nominale di Dio e fondamento razionale 

dell’ipotesi. 


Assumiamo l’esistenza di Dio come un'ipotesi, ma, anche 

a partire da questo minimum, due questioni pregiudiziali 

simpongono: 4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razio- 

nalmente fondata l’ipotesi (1). 


Quale la definizione nominale di Dio? Ogni parola, per- 

chè tale, esprime qualcosa, è usata con un senso; dunque, 

quando gli uomini pensano pronunziano scrivono il termine 

«Dio» gli danno un certo significato, anche se con sfu- 

mature diverse e con un senso ammettiamo pure non sem- 

pre univoco. Tuttavia, quale che sia il grado di equivocità 



(1) Tale enunciazione rigidamente scientifica del problema sconcerterà quan- 

ti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede, contestano che si possa persino 

parlare di « problema » dell’esistenza di Dio, tanto per loro tale verità è fuori 

discussione. Osservo: 4) non tutti gli uomini si trovano in questa condizione; 

5) l’esistenza di Dio per noi non è, di primo acchito, un’evidenza; c) la fede non 

è «del tutto » oggettivabile, vale per chi la possiede, ma da sola non è un 

argomento per convincere chi ne è privo che Dio esiste; pertanto, a chi non 

crede nella Sua esistenza è necessario, anche se non sufficiente, provare che 

l'affermazione « Dio esiste » è una verità, cioè una proposizione valida per ogni 

essere razionale. 


D'altra parte, come ho accennato sopra, la fede ha un grado non trascurabile 

di oggettivabilità; infatti, chi ha fede in Dio, una fede serie, un’interiore ed 

intensa vita religiosa, è portatore — agito ed agente ad un tempo — di questa 

verità; in tal senso, con il suo pensiero e la sua azione, con la « parola » e le 

opere, ne è la « testimonianza ». La potenza penetrante del suo « esempio », che 

incarna una verità e la esprime, ha una indubbia forza indicativa e comunica- 



80 Filosofia e Metafisica 






nell’uso del termine, chi afferma o chi nega che esiste Dio, 

come chi dice di non saperlo, in un certo modo, sa di che 

cosa afferma, nega, ignora l’esistenza; d’altra parte, la for- 

mulazione di un'ipotesi è possibile sulla base di alcuni dati 

reali che si cerca di spiegare, ma che non lo sono ancora: 

appunto si pone l’ipotesi come possibile spiegazione; se pro- 

vata, si assume come verità oggettivamente valida. 


Quali sono i dati reali che autorizzano l’essere razionale 

a porre l’ipotesi « Dio »? L’uomo e il mondo, la realtà esi- 

stente, in cui gli uomini vivono, pensano, operano. Se porto 

la riflessione sull’ente esistente che sono, mi avverto inserito 

in un universo di altri enti materiali, di organismi fisici; di 

altri enti che, come me, oltre alla vita organica, ne hanno 

una morale, cioè la libertà di orientare con responsabilità 

la propria condotta; dunque, sul piano fisico e su quello 

morale, mi avverto in relazione con tutti gli enti dell’uni- 

verso, da essi influenzato e su di essi influente. 


Queste prime riflessioni mi pongono di fronte ad un gro- 

viglio di problemi essenziali. So di non essere sempre esi- 

stito, almeno nel modo in cui esisto e posso esistere nel mon- 

do; di avere pertanto un principio al pari di ogni cosa in 

esso esistente; dunque, tutte le cose che sono non sono sem- 

pre state, nè saranno sempre: domani non sarò, tutti gli es- 



tiva, un potere indiscusso di stimolare la riflessione, suscitare il problema, sbloc- 

care il pensiero, mettere in moto la volontà e attizzarne lo slancio, spingere la 

ragione a realizzare tutta la sua forza normale, cioè a porsi all’« altezza » di 

dimostrare. Non dà convincimento razionale, ma genera una condizione psico- 

logica, che è più di una semplice « situazione »: stimola a chiamare a raccolta 

tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella « forza » che « dà forza » 

alla ragione, o meglio la mette nella condizione di sviluppare la sua forza 

totale. Pertanto, l'impostazione scientifica data al problema non significa che esso 

sia puramente di tale natura, ma soltanto che vogliamo concedere il massimo 

all’istanza critica; anche lo stesso termine « problema » è da noi inteso in un 

senso particolare. Per cvitare equivoci diciamo fin d’ora che non c'è ragione al 

livello normale, totale o integrale, senza fede e non c'è fede senza ragione; 

dunque, escludiamo il puro razionalismo, che è una ragione ancora al di sotto 

delle sue capacità e della sua profondità, comc il puro fideismo, in quanto senza 

la ragione non si salva la fede, che, come fede di un essere razionale, non può 

essere dalla ragione disgiunta, nè la ragione negare. 



L'esistenza di Dio 81 






seri, che oggi sono, domani non saranno; ho, ciascuna cosa 

ha, un principio; ho, ciascuna cosa ha, una fine. La con- 

tingenza e la temporalità della mia esistenza e di ogni esi- 

stente in questo mondo è un fatto di esperienza; inizio e 

limite nel tempo: entro e passo, ogni essere passa. E allora, 

donde vengo? qual’è il principio del mio esistere? Passo; 

dove vado? Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? 

o «passo» soltanto, transito, per una destinazione che è 

la finalità suprema della mia esistenza? Sono contingenza 

e limite e morte, miseria e dolore, ma la coscienza di esserlo 

mi fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia, anche 

se mi eleva, non fa che sia esente da miseria e dolore. 

D'altra parte, proprio l’essere un ente cosciente, pen- 

sante e volente, mi pone altri problemi: se sono coscienza, 

donde la coscienza e il pensiero? Non la materia può essere 

principio di quel che materia non è e di cui essa è priva, 

nè ha alcun fondamento l’ipotesi della sua evoluzione, per- 

chè non può mai spiegare il nascere dell’attività pensante e 

riflessiva. Donde la sua presenza in me, e dunque nel mon- 

do? Se penso, penso pure qualcosa, oggetto del mio pen- 

siero; dunque penso qualcosa che è vero, in quanto pen- 

siero non sarei se verità non fosse. Donde la verità? Son 

io, contingente e finito, la fonte creatrice di essa, che era 

prima che entrassi nel mondo e lo sarà anche quando ne 

sarò escito? Nella natura vi è un ordine intrinseco cui ubbi- 

disce l’evoluzione o il divenire naturale, ma che non riesco 

mai a penetrare fino in fondo, a cogliere nella sua totalità; 

vi è come un segreto nelle cose che mi meraviglia e stupisce. 

Nè la mia volontà è arbitrio cieco: mi conduco nella vita 

secondo norme, a cui riconosco, anche quando ad esse mi 

sottraggo, validità, forza obbligante. Donde queste norme? 

Della mia condotta mi sento responsabile, anche quando sem- 

bra che l’ambiente mi domini fino al punto da fare appa- 

rire la mia azione la risultante necessaria della sua influenza 



82 Filosofia e Metafisica 






determinante; responsabile appunto di non avere saputo rea- 

gire ad esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ? 


In breve, l’esistente contingente limitato finito è consa- 

pevole, in quanto essere razionale, che vi è nel mondo natu- 

rale un ordine che lo governa e in lui un ordine di pen- 

siero o di verità e uno morale o di bene non contingenti e 

non precari, indipendenti dall’inizio e dalla fine della sua 

esistenza; dunque, io contingente e finito — ed ogni cosa — 

«esisto » in quanto partecipo dell’« essere », perchè « sono » 

in questa partecipazione, altrimenti non sarei affatto. A_ que- 

sto punto: 4) ogni esistente contingente e finito non è il 

« principio » di se stesso, quantunque sia la « causa » di ogni 

atto della sua vita; 5) non è principio di quanto è di non-con- 

tingente in lui contingente, quantunque sia la causa di quanto 

pensi ed operi in conformità di esso. 


Tali riflessioni sono sufficienti per formulare la seguente 

ipotesi: esiste un Essere o un Principio intelligente — altri- 

menti non potrebbe essere principio di me « persona », sog- 

getto intelligente e volente e di quante persone sono state, 

sono e saranno —; trascendente — se no sarebbe natura o 

cosmo —; esistente da sè — altrimenti sarebbe un ente con- 

tingente, 46 aglio —, cioè ipsum esse subsistens, e perciò per- 

fettissimo, Principio assoluto di tutte le cose, dell’ordine del 

pensiero e della volontà come di quello della natura, sor- 

gente di ogni esistenza e Provvidenza governante quanto fa 

esistere? È l'ipotesi Dio. 


Vi è dunque una reale condizione umana, e del mondo su 

cui l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi dell’esistenza del- 

l’Essere intelligente, trascendente, esistente da sè e provvi- 

dente, a cui si dà il nome di Dio; eliminabile solo nel caso 

che fosse possibile dimostrare la non-contingenza di ogni 

singolo ente esistente e del mondo nella sua totalità, dare 

una spiegazione completa ed esaustiva della realtà umana e 

fisica da renderla « superflua »; in altri termini, solo se si 



L'esistenza di Dio 83 









dimostra razionalmente che il nostro mondo basta a se stesso, 

è autosufficiente, metafisicamente autonomo ed indipenden- 

te, fondamento assoluto di sè a se stesso. Ma se così fosse 

— il fatto che dei filosofi lo abbiano «immaginato » non 

è una soluzione razionalmente valida — l’ipotesi « Dio» 

non sarebbe mai nata (?). Si può anche « sospendere » 0 met- 

terla da parte assieme ai problemi che sempre la fanno e la 

faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia alla suprema 

conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei pro- 

blemi radicali non solo della filosofia, ma anche della più 

ingenua coscienza umana e direi del più elementare senso 

comune, dove pure quei problemi sono presenti. Posizione, 

dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilo- 

sofica, quale è quella di un sapere puramente empirico ed 

anche scientifico nel senso delle scienze naturali; positivismo, 

quali che siano le sue sfumature o camuffamenti, anche 

quando si chiama « filosofia dello spirito » 0 « storicismo », 

pretesa risoluzione o dissoluzione della filosofia nelle scien- 

ze, del «valore» nei « fatti» o nelle «opere », del « per- 

chè » nel «come ». Ma la ricerca speculativa comincia pre- 

cisamente dall’insufficienza di fronte ai massimi problemi 

del sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto, 

sono ben lungi dal poter risolvere in sè la filosofia, che li 

oltrepassa e nella quale, da ultimo, trova fondamento la 



(2) Risulta senza fondamento l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa 

esistente è contingente e temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità 

è necessario ed eterno, non svente un principio e una fine: è sempre stato € 

sempre sarà così com'è, pur divenendo — nascono, crescono e muoiono — gli 

esseri particolari. Chi così pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una 

metafisica puramente naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il 

problema « primo » della « filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce le « cause 

del divenire », ma non si pone la questione del suo « principio » e delle sue stesse 

cause immanenti; oppure confonde la « sufficienza » del mondo — ha in se stesso 

le cause che lo governano — con la sua « autosufficienza »: ha in sè il principio 

da cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi « Dio » diventa super- 

flua; ma tale « irreale » assolutizzazione è un'estrapolazione arbitraria del concetto 

di sufficienza del mondo, o una limitazione del problema al naturalistico e scien- 

tifico «come », che non è ancora il problema metafisico e filosofico del 

« perchè ». 



84 Filosofia e Metafisica 






loro stessa validità conosativa (*). Per conseguenza, anche 

la più embrionale posizione filosofica non può evitare l’ipo- 

tesi « Dio », che pertanto risulta ineliminabile e razional- 

mente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che ra- 

zionalmente provata. 


Se l’ipotesi « Dio » non è eliminabile, in quanto ogni 

ente e il mondo nella sua totalità non risultano metafisica- 

mente autosufficienti, consegue che ha origine dalla coscien- 

za dei nostri limiti e della nostra insufficienza. Non che 

nasca dalla « mancanza », da ciò che « non siamo », quasi 

dal nostro « non-essere », in quanto ciò che non è non è e 

non pone problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro 

« essere », cioè dalla nostra realtà relativa e contingente, 

ma sempre « realtà »; dalla nostra condizione di esseri reali, 

sufficienti nei limiti del nostro essere umano, ma non auto- 

sufficienti; dunque dal senso radicale (metafisico) di dipen- 

denza di una realtà — noi e il mondo — da un'altra Realtà 

« possibile » fino a quando siamo ancora nell’ipotesi; in bre- 

ve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di 

partecipare dell’essere. Una « filosofia dell’esistenza », nel- 

la quale quest’ultima è una « possibilità » fuori dell’essere, 

è semplicemente una filosofia del nulla e il nulla della filo- 

sofia. 



2. — Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando 

si pone l'ipotesi « Dio ». 



Non di un essere « qualunque », in quanto i dati reali 

da cui sorge l’ipotesi esigono la dimostrazione dell’esistenza 

di un essere adeguato alla soluzione dei problemi posti: 



(3) Sospendere l’ipotesi « Dio », come vedremo a suo luogo, è proiettare 

ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori dell'essere, gettarli nella pura 

empiricità, privarli della loro onticità; è fermarsi al mero fenomenico, alla esi- 

stenzialità priva di essere, che è il nulla; ma l’esistenza, appunto perchè tale, im- 

plica l’essere, senza di cui non è. Pertanto, il problema di Dio è interno, non 

esterno, all’ente pensante; anche quando lo si pone come ipotesi, è già molto, 

di più. 



L'esistenza di Dio 85 






a) origine del mondo e del suo ordine; è) dello spirito, es- 

senza dell’uomo, e dunque dell’ordine di verità e di bene 

che è in lui e lo rende capace di conoscere e volere, di pen- 

sare il vero e di agire secondo una legge morale, di libertà 

e responsabilità; c) finalità dell’universo, dell’azione di ogni 

singolo essere spirituale e del significato dell’umana istoria. 

Meraviglia e stupore l’ordine dell’universo, che non riescia- 

mo interamente a « comprendere » nell’orizzonte della no- 

stra mente; stupore una mente che pensa, la complessità del- 

la più semplice sensazione, la capacità di scoprire una ve- 

rità, di agire liberamente secondo una legge; meraviglia e 

stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il « mostro » 

uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere che poniamo come 

ipotesi, esplicativo di tutta la realtà, non possiamo pensarlo 

se non incondizionatamente ed immensurabilmente superiore 

a quanto è chiamato a spiegare, altrimenti apparterrebbe al- 

l’ordine umano e naturale, sarebbe una realtà da spiegare 

come le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci oltre- 

passano per la loro enigmaticità il mondo umano e quello 

naturale, che pur non bastano a se stessi e dunque mancano 

di realtà piena, a maggior ragione ci oltrepassa infinitamente 

l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di tutto 

e che non può non essere di ordine diverso. Di un ordine 

appunto trascendente e soprannaturale e perciò impossibile, 

per la nostra mente, nell’ordine naturale, a penetrarsi nella 

sua essenza: ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mez- 

zo di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa cono- 

scere rivelandosi. L’enigma del mondo naturale ed umano 

rimanda al Mistero Divino. D'altra parte, la definizione no- 

minale di Dio come Essere intelligente, trascendente, esi- 

stente da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa acqui- 

stare una più netta coscienza della finitezza nostra e di ogni 

cosa, dei nostri limiti e della nostra insufficienza; in breve, 

della nostra dipendenza essenziale dall’Essere per ora ipote- 



86 Filosofia e Metafisica 






ticamente posto. Di fronte a Dio, infatti, la creatura si sente 

« niente »; l’immensurabilità con l’Essere la spinge ad anni- 

chilirsi, senza che tuttavia perda la consapevolezza inequi- 

vocabile che anch’essa è essere che vive, sente, pensa e vuole 

nell’essere. Così l’ente finito, imbevuto dell’Essere, secondo 

un'espressione di Giovanni di S. Tommaso, avverte centu- 

plicate le sue forze ed irresistibile il bisogno di espandersi 

nell'azione operosa e molteplice. 


Appare evidente che il « problema umano » di una pos- 

sibile esistenza di Dio e la sua trascrizione in termini di « pro- 

blema filosofico » nascente dalla riflessione sulla condizione 

dell’uomo e del mondo, non discordano da quelli in cui si 

esprime la « coscienza religiosa » quando onora, prega, ado- 

ra Dio. Vi è una convergenza di sensi, solo apparentemente 

diversi, nell’unico dato alla parola « Dio », che univocamente 

esprime la posizione umana del problema, la riflessione filo- 

sofica su di esso e l’esperienza o la vita religiosa. Pertanto la. 

dimostrazione razionale, se possibile, dell’ipotesi « Dio », de- 

ve tener conto della realtà umano-naturale, dei suoi pro- 

blemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e dell’esperienza religiosa 

di cui Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà tale, cioè, 

che dimostri realmente quello che s'intende con la parola 

Dio. In breve: la riflessione filosofica, chiamata a preci- 

sare le formule e a dare possibilmente la giustificazione ra- 

zionale dell’ipotesi dimostrandola verità universalmente e ne- 

cessariamente valida, deve rispondere a suzta la domanda da 

cui l’ipotesi nasce, cioè alla condizione umana nella sua to- 

talità e, per conseguenza, anche alla coscienza religiosa, a 

cui appartiene in proprio il termine Dio. Oltre a ciò, la forza 

normale della dimostrazione si misura sull’uso del termine 

Dio in maniera rispondente a come esso è presentato dalla 

condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti, alla fine 

del discorso, pur dicendo di avere o no provato la verità del- 

l'ipotesi, si è in effetti provata o non provata altra cosa. 



L'esistenza di Dio 87 






La risposta filosofica, chiamata ad adeguare la integralità 

della realtà da cui sorge l’ipotesi « Dio », deve essere soluzio- 

ne integrale della filosofia integrale. L’ipotesi va posta in di- 

scussione, così come essa è, affinchè la filosofia indaghi se sia 

possibile dimostrarla razionalmente così come essa è, se « ra- 

zionale » e « ragionevole »; in caso affermativo, la realtà ha 

la sua spiegazione integrale e la religione la garanzia del 

fondamento razionale (“). L’ipotesi « Dio» nasce da una 

reale problematica umana; la ricerca razionale è impegnata a 

confermarla o a smentirla, a dire se e fino a che punto l’esi- 

stenza dell’Essere intelligente e trascendente, creatore e prov- 

vidente, sia verità razionalmente provata e perciò oggettiva- 

mente valida, o una pura verità di fede, o un mero flatus 

vocis. 



3. — L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos ». 



Come abbiamo detto, l’ipotesi « Dio » nasce dall’esistenza 

degli enti contingenti e finiti, come tali non principio di 

se stessi; per conseguenza la prova della verità, o non, del- 

l'ipotesi non può avere altro punto di partenza che il mon- 

do :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia un’intuizione o 

conoscenza immediata dell’essere di Dio, che, secondo la 

religione cristiana, è di ordine soprannaturale e non possi- 

bile per sua natura ad un'intelligenza finita quale quella uma- 

na, i cui oggetti devono essere ad essa proporzionati. Dun- 

que, la mente — supposta la dimostrazione della ipotesi — 

non può conoscere Dio direttamente e in ciò che lo costi- 



(4) La definizione nominale del termine Dio, necessaria per sapere di che 

cosa si vuol dimostrare l’esistenza e se l'ipotesi sia razionalmente fondata, non 

pregiudica in alcun modo la soluzione del problema. Si tratta di una semplice 

ipotesi di lavoro: la risposta può essere totalmente o parzialmente negativa o 

positiva, come potrà anche arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o 

respingere alcuni di quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema 

dell’esistenza di Dio e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in qualche 

punto lo studio di F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de l’existen- 

ce de Dieu, « Revue philosophique de Louvain », nn. 5, 6, 7, 8, 1947. 



88 Filosofia e Metafisica 






tuisce (quidditative), ma solo indirettamente per cognizione 

mediata ed analogica (°). Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota 

quoad nos (6) non vi sarebbe problema nè bisogno di dimo- 

strazione razionale, ma solo una verità evidente per se stes- 

sa. Invece vi è proprio problema, anche se quanti hanno fede 

non sentono necessità di alcuna dimostrazione tanta è la 

forza del loro credo, anche se il problema si chiarisse, poi, 

come esplicitazione di un implicito originario e la dimostra- 

zione come consapevolezza di una presenza. Ma evidente- 

mente, altro è l’esperienza vissuta, altro la dimostrazione 

razionale, anche se quest’ultima non può e non deve elimi- 

nare o abolire la prima, dalla quale pur restando (come de- 

ve) distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque necessità 

della dimostrazione, dato che Dio non è per sè noto rispetto 

a noi; ma necessità anche di far convergere ed operare in 

essa quanti elementi legittimi in noi e nelle cose possano 

concorrere a renderla più efficace e completa. In altri ter- 

mini, non dobbiamo privarci di nulla di quanto è a no- 

stra disposizione e il cui uso è razionalmente consentito. 



4. — Da quale dato reale è conveniente partire per pro- 

vare la verità dell'ipotesi « Dio ». 



È vero che di Dio non vi è intuizione immediata e vi 

è problema della sua esistenza, e possibile dimostrazione il 

cui punto di partenza sono le cose dell’ordine naturale, og- 

getto proporzionato alla nostra mente; ma l’espressione 

« realtà naturale » non comporta, anzi esclude, un significato 

restrittivo quale quello di cose materiali od oggetti del mondo 

esterno. Tra gli enti dell’ordine naturale vi è anche l’uomo, 

realtà spirituale, che è intelligenza e volontà, avente un or- 

dine di verità e di bene secondo cui ha l’obbligo di rego- 

lare il pensiero e l’azione. La mente umana, nella sua condi- 



(5) S. Tommaso, S. TA., Ia, q. 12, a. 4. 

(6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest. disput. de veritate, 10, 12 



L'esistenza di Dio 89 






zione finita e mutevole, conosce solo cose dell’ordine na- 

turale, ma, da un lato, ha una naturale aspirazione all’in- 

finito e all’immutabile che non potrebbe avere se, in qual- 

che modo, non avesse di esso una certa nozione, sia pure 

oscurissima e confusa; dall’altro, per quanto è capace di 

verità intellettuale e morale, manifesta qualcosa dî neces- 

sario ed immutabile, dato che son questi gli attributi con- 

venienti all’essenza della verità; che, se è, non può essere 

contingente e mutevole. Conveniamo che la verità di cui 

l’uomo è capace e la sua mente scopre non è la Verità in 

sè, bensì quella confacente alla natura dell’uomo, ma essa: 

a) non è contingente e mutevole; 5) è fecondatrice della 

mente; c) per la sua validità universale, nel suo grado è 

assoluta. Lo spirito e il suo contenuto di verità, se vi è ve- 

rità, sono dunque dati reali diversi dagli altri; se sono su- 

periori ad ogni altro dell’ordine naturale, sono le massime 

condizioni reali che danno origine all’ipotesi « Dio ». In- 

fatti, se l’uomo desse a se stesso le verità fondamentali se- 

condo cui giudica e i princìpi morali secondo cui libera- 

mente agisce, non sarebbe più finito e contingente, nè la 

sua mente mutevole e limitata; dunque, è contradditto- 

rio che un essere siffatto sia autore di principî neces- 

sari e universali quali appunto quelli del pensiero e del- 

l’azione. Se si dimostrasse che l’uomo (la mente umana in 

generale) è autore dell'ordine della verità e della legislazione 

morale, sarebbe egli l’essere infinito, necessario e assoluto; 

l'ipotesi « Dio » non si affaccerebbe alla nostra mente, venute 

meno le condizioni che la fanno nascere. Dunque l’uomo sa 

che: 4) non è il principio che fa esistere le cose naturali e 

le governa secondo un ordine; 5) non è principio di se stesso, 

della vita organica e spirituale, della sua intelligenza e vo- 

lontà come dell’ordine che le informa. Sa, in breve, che egli 

e le cose sono dati reali, e che quanto di universale e neces- 

sario è capace di scoprire e conoscere è anch’esso un dato 



90 Filosofia e Metafisica 






reale; son proprio questi dati che pongono il problema del 

loro principio, cioè fanno nascere l’ipotesi « Dio » nel senso 

sopra definito. Dunque, se il punto di partenza è dai dati 

reali, si può partire da uno quale che sia, ma ci sembra 

opportuno: 4) muovere da quello più idoneo per la prova 

dell’ipotesi, che, presentando maggiore ricchezza e comples- 

sità, accrescerà la forza della dimostrazione; £) senza esclu- 

dere gli altri possibili punti di partenza, in modo che le 

eventuali prove si potenzino reciprocamente e conferiscano 

alla dimostrazione tutta la sua forza normale. D'altra parte, 

se dei dati reali scelgo come punto di partenza le cose ma- 

teriali è evidente che, perchè nasca il problema della loro 

contingenza ed origine e da esso l’ipotesi « Dio », è neces- 

sario che «rifletta » su di esse, mi ponga il problema della 

loro ragion d’essere e significato, cioè che trascriva il mondo 

esterno in termini mentali o di pensiero; ma porselo come 

problema è già trascriverlo in questi termini. Pertanto non 

sono le cose come tali che pongono il problema della loro 

origine e spiegazione e con esso l’ipotesi « Dio », ma il mondo 

esterno fatto oggetto di riflessione; anche in questo caso, la 

prova non può non passare dal pensiero, come meglio sarà 

chiarito in seguito. Posto ciò, possiamo anche accettare la 

nota tesi tomista che l’esistenza di Dio probari debet a poste- 

riori, ma a patto che ci si intenda sul significato dei termini. 

Se 4 posteriori significa che non vi è intuizione diretta ed 

immediata di Dio, concordiamo perfettamente che la Sua esi- 

stenza va provata 4 posteriori e che di Dio c’è solo cono- 

scenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che bi- 

sogna partire dalla natura fisica per scoprire la causa non 

causata del suo esistere e che non vi è nessun dato nell’uomo, 

nella vita dello spirito e la stessa vita dello spirito, da cui 

è possibile partire, anche prescindendo dal mondo esterno, 

respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente 

restrittivo in quanto per il suo esclusivismo, già come punto 



L'esistenza di Dio 9I 






di partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ra- 

gione umana lo possa, la verità dell’ipotesi, contenente una 

ricchezza di elementi da esso inadeguabili. Non si tratta solo 

di dimostrare se il mondo abbia un Architetto, una Causa 

prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad 

esprimere quanto è incluso nella definizione nominale di 

Dio. Inadeguati anche i concetti di « Essere supremo » e di 

« Ente realissimo », che, pur entrando nella definizione e 

nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene 

intesi, indicano solo un Ente che può essere l’« Atto puro 

e immutabile » di Aristotele, la « Sostanza unica e infinita » 

di Spinoza, il « Legislatore dell’universo » degli Illuministi 

ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere il contenuto -di 

quel che s'intende quando si dice « Dio », la cui esistenza 

qui si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo in- 

dica come l’Essere personale creatore e provvidente, cioè con- 

tiene quegli attributi che la coscienza religiosa od anche la 

semplice condizione umana gli attribuiscono. Ora, come so- 

pra abbiamo chiarito, l’ipotesi « Dio » nasce proprio dalla 

condizione umana, che Dio definisce in termini non dissi- 

mili da quelli della coscienza religiosa, ed è proposta alla 

ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo contenuto. 

Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi 

tutta la problematica della realtà umana — della vita spi- 

rituale e la stessa vita spirituale, come la sua esperienza reli- 

giosa — oltre a quella della realtà fisica. Non si può mo- 

nopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è necessario 

che la dimostrazione sia tentata con la presenza operante di 

tutti gli elementi e di tutti gli strumenti possibili, affinchè 

abbia tutta la sua forza e, nello stesso tempo, soddisfi tutti i 

problemi e i dati reali che l’hanno sollecitata. Si tratta di un 

problema che interessa il fondamento assoluto della realtà: 

come totale è la sua portata, così totale devono essere l’im- 

pegno e la possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo- 



92 Filosofia e Metafisica 






gica; ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia 

presente e tutti i sensi del problema vi si trovino concorrenti 

e solidali nella loro concretezza, è la logica dell’« integra- 

zione », di cui quella dell’« esclusione » è solo un momento 

nella prima contenuto. 



5. — Importanza dei « dati » psicologici nella dimostrazione 

dell’ipotesi « Dio ». 



Pertanto a noi sembra che non siano da trascurare tutti 

quei dati psicologici che, senza essere la prova, ne sono i 

preliminari: le « disposizioni » dello spirito nel loro insieme 

fanno parte dei « prolegomeni » di una dimostrazione con- 

creta dell’ipotesi « Dio». Evidentemente non si tratta di 

« metterle al posto » dell’argomentazione razionale, ma di 

giovarsi delle migliori o più favorevoli condizioni perchè la 

stessa forza della ragione possa esplicare tutta la sua capa- 

cità. Per esempio, liberarsi da alcuni pregiudizi — e il pre- 

giudizio è di natura psicologica — è una specie di purifi- 

cazione che agevola l’intrapresa della ragione; riconoscere 

che alcuni impedimenti sono apparenti o illogici — quali 

la pretesa che di Dio si abbia percezione immediata in modo 

da coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e mistero, o 

che la metafisica possa sottostare al metodo sperimentale, 

ecc. — è già un buon avvio. Così pure acquistar coscienza 

dell’estrema importanza del problema, rendersi conto che 

dalla risposta positiva o negativa dipendono l’orientamento, 

il valore e il significato della nostra come di ogni altra esi- 

stenza, è una disposizione non accessoria, in quanto rende 

cautissimi nell’argomentare e concludere, estremamente vi- 

gili e tesi sì da potenziare al massimo del loro rendimento 

tutte le risorse spirituali ed intellettuali: l’attenzione si fa 

attentissima, intensa, concentrata. Queste disposizioni hanno 

un valore più che psicologico: comportano la rettitudine 

della coscienza. Nè è da trascurare — anche se non deve so- 



L'esistenza di Dio 93 






stituire la dimostrazione — l’esperienza religiosa sia comu- 

ne che privilegiata, quella delle grandi umili anime misti- 

che e dei grandi spiriti religiosi, esempio dell’alta tensione 

operante esigita da una questione della portata di quella 

che qui si discute. Son tutte forze concorrenti, anche se non 

determinanti in sede filosofica, alla realizzazione di quel 

«clima spirituale », intellettuale e morale insieme, confa- 

cente ad un problema quale è quello dell’esistenza di Dio. 

In breve, crediamo che, per scoprire e penetrare tutta la 

verità della prova e poterle aderire, sia necessario conquistare 

la pienezza del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò non 

significa che l’adesione alla prova dipenda senz’altro dalla 

nostra accettazione volontaria o dal rifiuto, come se essa 

fosse priva di verità « attraente », ma che tale condizione è 

elemento essenziale per cogliere tutta la sua forza razionale. 

Chi più ama, più conosce; non che l’amore faccia essere 

la verità di ciò che è vero, ma dà maggior penetrazione alla 

mente e contribuisce a farle scoprire ed intendere la verità. 


Sempre dal punto di vista dei dati psicologici, l’odierno 

«clima esistenzialista », quando non è deteriore retorica o 

decadentismo e maniera, come presa di coscienza della « con- 

dizione » umana, senso dell’indigenza, del peccato, della 

morte ecc. ha la sua importanza in sede di preparazione 

alla prova (7), anche se da solo insufficientissimo, in quan- 

to l’aspetto essenziale di tale preparazione è proprio il sen- 

so della positività del nostro essere, senza della quale «la 



(7) L'esistenzialismo, infatti, ha riportato sul tappeto della discussione, anche 

se spesso con travisamenti notevoli, la metafisica e i suoi problemi e ha contri- 

buito a richiamare l’attenzione sull'esperienza e i valori religiosi. In qualche 

modo, anche se entro certi limiti e in maniera molto discutibile, ha come « smon- 

«danizzato », esso mondano, Ja filosofia riconferendole un certo carattere teolo- 

gico. Ciò spiega, perchè i cosidetti sostenitori del « nuovo razionalismo » marxista 

e di tanti « nuovi umanesimi assoluti » combattono anche le forme atee di esi- 

stenzialismo, preoccupati che questo « stato d’animo », per sua natura, alimenti 

sotto le ceneri del « finito » un’esigenza religiosa e trascendentistica. Spiega ancora 

perchè qualche inguaribile cultore di « scienze mondane » abbia sprezzantemente 

qualificato la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di « praefatio ad 

missam ». 



94 Filosofia e Metafisica 






condizione » umana sarebbe pura possibilità, illusione, nien- 

te: non vi sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, 

nè di Dio (*). Ma anche nella sua pienezza, la preparazione 

psicologica non è la soluzione del problema, non data esclu- 

sivamente da un'esperienza di tal natura nè solo da quella 

religiosa, come sostiene il Bergson; è come dire che non 

vi è prova razionale oggettivamente valida dell’esistenza di 

Dio. D'altra parte, come ancora dice il Bergson, con un 

significato che non è precisamente il nostro, la soluzione va 

posta ed affrontata « sperimentalmente », cioè tenendo conto 

di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in quanto 

la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data 

alla nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici 

non debbono escludere od ostacolare metodi e dati razionali, 

allo stesso modo questi ultimi non debbono fare a meno dei 

primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse una 

questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geo- 

metrica razionalità e fosse possibile operare un’astrazione 

dell’uomo concreto, quando, come abbiamo visto, dalla sua 

vita integrale nasce l’ipotesi « Dio ». Non comprendiamo 

perchè nessuno pretende di « liberare » il poeta, l’artista, lo 

scienziato da quelle condizioni preliminari che favoriscono 

la risposta al bello o al vero e perchè invece si vuol pretendere 



(8) L'esistenza come pura « possibilità » non è, è la non esistenza, cioè un 

non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè angoscia, in quanto fin dall’inizio 

ci si colloca nel nulla; si ha la certezza che la partita è perduta in partenza, 

dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè l’esistenzialista s’inebria del nulla e del- 

l’assurdo dell’esistenza: non c’è più rischio, la catastrofe è scontata in anticipo; 

la tragedia, nel suo stesso porsi, si tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del 

dialettismo dello Hegel; l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa 

del reale e del pensiero, « divora » l'essere dall'interno e divorandolo lo ali- 

menta. Per conseguenza la tragedia del Reale, che è quella della Ragione, s’iden- 

tifica col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio eterno. Tutto il senso tragico 

dell’antinomismo svanisce una volta che il male e l'errore, le cadute e le colpe 

sono necessarie alla vita della Ragione assoluta e al suo perenne conquistarsi: 

tutto è perfettamente ordinato, pacifico. Una volta che il nulla e la contraddi- 

zione si assumono al posto dell’essere, si accetta la negatività pura: non c’è più 

problema nè dell’esistenza nè del reale e perciò non c’è problema di Dio: c’'è_ 

l'assurdo all'inizio e alla fine. 



L'esistenza di Dio 95 






che il filosofo, il quale si accinge a provare, con le armi del- 

la ragione la più rigorosa ed intransigente, l’ipotesi « Dio » 

nascente dalla totalità del reale che da questa soluzione aspet- 

ta intelligibilità profonda, abbia a prescindere da tutti quei 

dati psicologici che fanno parte della concreta vita spirituale, 

la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti, la questione 

che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere 

se i dati reali della nostra esperienza siano o no metafisica- 

mente intelligibili, in quanto tale intelligibilità dipende ap- 

punto dall’esistenza, o non, dell'Essere personale e trascen- 

dente, creatore e provvidente, principio esplicativo di ogni 

fatto 4/ di là di tutta la serie dei fatti. 



6. — La pregiudiziale critica da cui muove il problema del- 

l’esistenza di Dio. 



Notiamo a questo punto che il problema dell’esistenza di 

Dio e della metafisica in generale muove da una pregiudi- 

ziale critica, non da quella, propria di Kant, di saggiare, 

prima di affrontare il problema, le capacità della ragione — 

farla giudice di se stessa: imputata e giudice insieme — 

per accertare se abbia o no il diritto di oltrepassare l’esperien- 

za, bensì dall’altra che l’esperienza stessa e quanto in essa 

è dato, approfonditi criticamente, restano metafisicamente 

inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve. 

Per conseguenza il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce 

alla radice stessa del problema critico. Ma ciò non deve in- 

durci, senza sufficienti prove razionali, ad ammettere ugual- 

mente che Dio esiste (conclusione « edificante », ma non fi- 

losofica) per il timore che altrimenti tutto sarebbe inintelligi- 

bile. D'altra parte, proprio l’esperienza della nostra finitezza 

e di ogni cosa esistente, tutta l’esperienza non bastante a sè 

stessa e perciò incapace di autospiegarsi, pone il problema 

della sua intelligibilità e con esso fa nascere l’ipotesi « Dio » 

come possibile soluzione: il finito come tale esige il che 



% Filosofia e Metafisica 






cosa lo spieghi e giustifichi. Che non può essere pure un 

finito, in quanto ancora problema e non soluzione; dunque, 

se è, dev'essere « qualcosa che esiste da sè », che, principio 

di se stesso, può rendere conto definitivo ed ultimo di quan- 

te cose esistono « non da sè ». Non è neppure un qualcosa 

ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere il Prin- 

cipio delle cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza 

suprema. È precisamente l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 



7. — La realtà spirituale punto di partenza della dimostra- 

zione dell'ipotesi Dio”. 



Prima di procedere fissiamo qualche conclusione utile a 

precisare i termini della questione: 4) il problema dell’esi- 

stenza di Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale 

finito del mondo umano e naturale; 5) questo, come finito, 

non può avere in se stesso il suo principio e pone il pro- 

blema della sua origine e della sua suprema intelligibilità; 

c) per conseguenza, la dimostrazione della verità o no della 

ipotesi « Dio », non può non partire dalla realtà finita che 

la fa nascere e la presenta alla riflessione: dall’esistenza di 

esseri limitati, dal fatto che degli enti sono, senza essere il 

principio di se stessi. Mettiamo da parte inizialmente, salvo a 

saggiarne in seguito la validità e a recuperare il recupera- 

bile, la prova che muovendo dall’Idea di Dio, 4 priori, at- 

traverso l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce 

l’esistenza. 


Accettato come punto di partenza il reale contingente fi- 

nito, ci sembra quanto mai conveniente ed anche necessario 

muovere da quell’ente che presenta una maggiore comples- 

sità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più alto, tanto 

da non essere una parte tra le altre dell’universo, ma come 

il centro e la sintesi; e più ancora, in quanto il compimento 

della vita spirituale di un solo uomo trascende l’universo 

intero. L’uomo non è soltanto un reale finito, ma è il solo 



L'esistenza di Dio 97 






dotato di pensiero, capace di volere e conoscere razionalmen- 

te, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli enti finiti di cui ab- 

biamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità me- 

tafisica della sua esistenza e con esso l’ipotesi « Dio ». D'altra 

parte, anche se scegliamo come punto di partenza quel reale 

finito che è il mondo detto materiale, o un suo particolare 

aspetto, siamo sempre costretti, come già accennato, a porlo 

come oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha 

di intelligibile: perciò l’oggetto del nostro pensiero non è 

il mondo materiale come tale, ma i suoi elementi concettuali. 

Il punto di partenza, anche in questo caso, è sempre l’uomo 

soggetto pensante e capace di conoscenza razionale, cioè sono 

i dati mentali che non sono le cose materiali, ma il risultato 

della riflessione su di esse. 


D'altra parte, l’uomo non potrebbe pensare se non fosse 

e non vivesse, se non fosse un essere vivente, ma l’essere e 

il vivere non implicano necessariamente il pensare. Infatti, si 

può essere senza vivere e pensare (una pietra), ma non si può 

vivere senza essere (il vivere importa necessariamente l’es- 

sere); però si può vivere senza pensare (una pianta, un cane), 

mentre non si può pensare senza essere e vivere, almeno 

nella condizione terrena degli esseri pensanti: dunque il pen- 

sare implica l’essere e il vivere (*). Di qui: 4) il pensare è 

superiore all’essere e al vivere: non si può pensare senza es- 

sere e vivere, ma il pensare non è attributo essenziale di ogni 

essere e di ogni vivente, bensì di una specie di esseri viventi 

e dunque è è più del puro essere e del puro vivere in quanto 

coscienza di essere e di vivere e, posto, implica gli altri due; 

5) il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine na- 

turale l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua in- 

terezza di organismo e pensiero, di materia e spirito, è ciò 

che sono le altre cose non pensanti, essere e vita, più quello 

che non sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza, pos- 



(9) S. Agostino, De libero arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 



98 Filosofia e Metafisica 






siede, in questo senso, tutti gli elementi essenziali della real- 

tà finita. Dovendo partire per la dimostrazione dell’ipotesi 

«Dio » dai reali finiti, mi pare estremamente conveniente 

scegliere come punto di partenza quello che è (come sono tut- 

ti gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e 

pensa (come solo a lui è concesso); che dunque assomma in 

sè tutte le categorie essenziali del reale. Ma è solo conve- 

niente, o anche necessario? 


Abbiamo detto che, tra tutti gli enti finiti, l’ipotesi «Dio» 

nasce nell’uomo, sia dalla riflessione sul mondo fisico come 

indica la semplice domanda: «chi ha mai fatto tutte que- 

ste cose? », sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che 

dobbiamo portare la nostra attenzione al fine di ricavarne 

quanti elementi preliminari ci è consentito dal rigore della 

ricerca e dall'obbligo di non pregiudicare la dimostrazione. 


Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza della sua 

finitezza e contingenza, che è però anche e innanzi tutto con- 

sapevolezza di essere, della miseria del dolore e della morte, 

di quanto lo fa consapevole che non basta a se stesso, 20 è 

da sè. La consapevolezza di tale condizione è propria del- 

l’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia non 

del gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, 

l’ipotesi « Dio » è posta e la sua dimostrazione richiesta dal- 

l’uomo per l’uomo, quasi appello della sua condizione af- 

finchè tenti di capire veramente qualcosa di essenziale e de- 

finitivo della propria esistenza e del suo significato. In altri 

termini, l'ipotesi « Dio » non nasce dal dato contingente co- 

me tale, pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consape- 

volezza della sua contingenza, cioè da un elemento spiritua- 

le; non dal puro fatto — a cui si ferma la mentalità positi- 

vista, che perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora il pro- 

blema dell’intelligibilità metafisica del reale — ma dalla co- 

scienza del fatto, che importa già una valutazione di esso e 

un passaggio dal piano empirico a quello ontico o dell’essere. 



L'esistenza di Dio 99 









del dato stesso. Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi « Dio » 

e da cui bisogna partire. 


Abbiamo anche accennato all’aspetto religioso del proble- 

ma: alla essenzialità di Dio per l’esperienza religiosa, all’im- 

portanza che essa ha per una possibile dimostrazione raziona- 

le (!9). Non si dimentichi che il problema filosofico dell’esi- 

stenza di Dio si pone quale indagine razionale intorno al 

termine così come è definito sulla base della condizione uma- 

na e creduto dalla fede religiosa; alla ragione si chiede di 

dimostrare la verità di quel che si crede affinchè l’uomo 

« sappia » che è vero quello che «crede ». Chi rinunzia a 

partire dall’uomo, si priva in partenza dell’esperienza umana 

e religiosa, a cui il problema appartiene e che lo presenta al- 

l’esame della ragione, lo depaupera, quasi lo appiattisce. Dal 

filo d’erba non ci sembra si possa arrivare al Dio dell’espe- 

rienza umana in tutta la sua pienezza e della coscienza reli- 

giosa; d’altra parte, niente autorizza od obbliga la ricerca a 

prescindere dall’uomo, che quel problema vede nascere dal- 

la sua condizione. 


Ammettiamo che ogni ente di natura abbia una finalità, 

cioè che la sua vita si esplichi attraverso mezzi necessari di- 

sposti e combinati in modo da raggiungere il fine che le è 

proprio e precede e domina la disposizione e la combinazione 

dei mezzi stessi (!!). E’ evidente che esso: 2) non ha la cono- 

scenza del fine; 3) non si da sè la capacità di disporre e com- 

binare i mezzi per il suo raggiungimento; dunque, con- 

clude, la finalità naturale presuppone un’Intelligenza che 

non è nelle stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò im- 



(10) Giustamente è stato notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu, 

Éditions du Temoignage chretien, 1941, p. 54) che la nostra epoca ha perduto, 

almeno temporaneamente, « il gusto di Dio »; se questo gusto tornasse, le prove 

riapparirebbero « plus claires que le jour ». 


(11) Com'è noto, la biologia ammette con fondatezza una finalità degli orga- 

nismi viventi, una specie di loro « pensiero » embrionale o di orientamento delle 

forme della loro attività vitale verso una unità di realizzazione quasi che tale 

attività sia dotata di una specie di « potere sintetico ». 



100 Filosofia e Metafisica 






porta: ) dell’intelligenza che il mondo fisico presuppone c'è 

conoscenza mediata, mentre l’uomo ha esperienza immediata 

di essa in quanto ne è dotato, egli stesso « fatto » sperimentale 

della presenza dell’intelligenza; 4) le cose non hanno consa- 

pevolezza del fine a cui sono ordinate, nè sanno che il loro 

ordine presuppone un'intelligenza, mentre l’uomo ha consa- 

pevolezza del suo fine, esperimenta direttamente in sè l’in- 

telligenza, sa che non si è autoposto come essere intelligente; 

dunque sa che il suo essere ente intelligente pone il problema 

della sua origine come tale. In breve, il problema del riman- 

do dalla finalità delle cose all’Intelligenza da cui sono state 

ordinate non nasce direttamente e direi spontaneamente co- 

me quello del rimando dall’uomo-ente intelligente all’Intelli- 

genza da cui è intelligente; l’esperienza immediata che l’uomo 

ha di se stesso come ente intelligente fa che sia più diretta 

efficace sicura la via dall'uomo a Dio, mentre l’altra dalle 

cose (in questo caso dalla loro finalità) è indiretta e si conside- 

ra in un secondo tempo. Senza dire che la vita dell’ente in- 

telligente comporta tale ricchezza di esperienza e di valori co- 

‘ noscitivi, morali, estetici, religiosi da far sembrare ben povera 

cosa la finalità inconsapevole del mondo fisico. 


Un'altra considerazione ci sembra decisiva per accettare 

il reale-uomo come punto di partenza della dimostrazione 

dell’esistenza di Dio. Più di ogni altra cosa e della sua stessa 

esistenza all’uomo interessa sapere che cosa sia vero di quan- 

to conosce e bene di quanto vuole, cioè se è capace di cono- 

scere la verità a cui è obbligato ad uniformare la propria 

condotta. D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di giu- 

dizi veri, non potrebbe niente dimostrare e non penserebbe 

neppure; se ragiona, discorre, dimostra lo fa in base a norme 

che considera vere, cioè oggettivamente valide e tali da ga- 

rantire la veridicità dei suoi giudizi e delle sue dimostrazioni. 

Per conseguenza, quando, stimolato dalla sua condizione, con- 

sidera l’ipotesi « Dio » e ne tenta la dimostrazione, si consi- 



L'esistenza di Dio 101 






dera già in possesso di alcune verità che rendono validi i suoi 

giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del fondamento 

metafisico della conoscenza: le verità fondamentali e prima- 

li, senza cui non vi sarebbe discorso e dimostrazione, sono il 

prodotto della mente, «poste » da essa, o sono alla mente 

« presenti » e da essa soltanto « scoperte »? Nel primo caso 

la loro validità si presenta notevolmente sospetta, in quanto 

il prodotto della mente mutevole, capace di errore, di un esse- 

re finito e contingente non dà alcuna garanzia di universali- 

tà, immutabilità e necessità, cioè di possedere gli attributi 

essenziali alla verità. D'altra parte, la nostra stessa contingen- 

za e finitezza ci lascia perplessi nè ci convince di essere noi 

i « creatori » della verità; se non altro lascia in dubbio e in- 

duce a pensare che se mai siamo « portatori » attivi di essa, 

che in questo caso è «oggetto » della nostra mente e, co- 

me tale, da essa conosciuta ma non creata. Ma se è così, 

la presenza oggettiva della verità alla mente, da essa cono- 

sciuta o scoperta, pone il problema della sua origine e del 

come ne siamo in possesso, cioè del da dove sia entrata in noi. 

Problema che l’uomo non può lasciare sospeso o trascurare, 

in quanto si tratta di sapere qual’è la provenienza di quel- 

l’ordine di verità intellettuali e morali in base a cui pensa ed 

agisce, attua la sua vita spirituale; è il problema della intelli- 

gibilità profonda del reale non solo umano ma anche naturale, 

in quanto le cose sono intelligibili per il loro ordine, da cui, 

come sappiamo, nasce, quale eventuale soluzione, l’ipotesi 

« Dio ». 


Ammettiamo pure provvisoriamente che sia conveniente e 

necessario partire dalle cose del mondo esterno invece che 

dalla realtà-uomo, disposti anche a sacrificare l'apporto della 

vita spirituale mobilitata in tutta la sua pienezza. Evidente- 

mente la dimostrazione o la catena dei ragionamenti si ser- 

ve di norme o principî che considera veri, cioè oggettiva- 

mente validi (per esempio, il principio di causalità), tali da 



102 Filosofia e Metafisica 






garantire la veridicità del discorso. Ma il servirsi di essi im- 


rta già avere risolto il problema, da noi posto sopra, del- 

l'origine della verità di cui la mente umana è capace, se suo 

prodotto o suo oggetto e, in quest’ultimo caso, del come ne 

sia in possesso. Dunque il punto di partenza dalle cose ma- 

teriali presuppone quello da noi scelto, dall’ente razionale, 

il solo capace di un ordine di verità, ed in esso resta incluso. 

Se si dice che nell’uomo non vi è nulla di necessario e immu- 

tabile, in tal caso: @) si nega che egli possieda verità e con 

ciò stesso che possa provare l’ipotesi « Dio »; 5) non si 

spiega come avverta la sua contingenza e finitezza nè quella 

delle altre cose, avvertibili solo se ha una certa nozione di 

ciò che è necessario e infinito, cioè se sa cosa significhi la 

parola « verità ». Ma il solo sapere che è verità è già una 

verità e, come tale, qualcosa di immutabile e necessario, che 

appunto consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le 

cose finite sono contingenti e mutevoli. Ed ecco che questa 

condizione di un contingente in cui è in certo modo presente 

un che di immutabile, infinito e necessario pone il problema 

della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi « Dio ». Da 

qualunque punto di vista si consideri la questione, il pro- 

blema dell’esistenza di Dio si presenta come essenzialmente 

antropologico e solo subordinatamente cosmologico. Non pro- 

blema posto da qualcosa di astrattamente concettuale nè dalle 

cose materiali, ma che interessa la realtà umana integrale, 

considerata nella sintesi dinamica e nella compresenzialità 

di tutti gli elementi che la costituiscono, desiderosa d’intelli- 

gibilità totale e perciò nello stazo reale di aspirazione al pos- 

sesso della suprema verità metafisica, fondamento e prin- 

cipio dell’intelligibilità della vita spirituale. L'ipotesi « Dio » 

è suscitata dal bisogno di una conoscenza radicale del reale 

finito, dall’urgenza di sapere se gli esseri contingenti abbia- 

no o no un senso assoluto. 


Si tratta di un'esigenza, e dalla sola esigenza non si può. 



L'esistenza di Dio 103 









concludere all’affermazione; tuttavia, non si può negare che 

essa, non dimostrativa per se stessa, è almeno indicativa. Nel 

nostro caso, indica una condizione reale della vita dello spi- 

rito e precisamente quella di conoscere la verità della sua 

verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo 

la verità che vuol conoscere, anche la più elementare e po- 

vera, ha sempre come scopo ultimo, anche senza esplicita con- 

sapevolezza, di acquistare una maggiore conoscenza della 

verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo 

senso, sia pure oscuramente, anche inconsapevolmente, cer- 

care è cercare il senso assoluto dell’esistenza, la sua intelligi- 

bilità metafisica; ma è questo il problema donde nasce l’ipo- 

tesi « Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche indiret- 

tamente, il problema dell’esistenza di Dio, dell'Essere perso- 

nale e trascendente. Vi è nello spirito, per il fatto che si av- 

verte finito, un senso immanente dell’Essere che l’oltrepas- 

sa (!); c'è una nozione oscura, implicito originario, di 

quella che poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa co- 

me Idea di Dio. Il problema dell’uomo, quello detto psico- 

logico-antropologico, è intimamente legato al problema del- 

l’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi anche l’altro. Le realtà 

psicologiche pongono l’ipotesi « Dio » (psicologismo che non 

è affatto soggettivismo) la cui dimostrazione investe il loro 

significato totale ‘e assoluto, la loro intelligibilità (teocentri- 

smo). Reali, dunque, i dati da spiegare, realista il metodo 

della ricerca; la finitezza dell’ente contingente e aspirante a 

sapersi fino in fondo è un fatto, come è un fatto la sua aspi- 

razione all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe quest’ulti- 

ma se nello spirito finito non fosse presente una certa nozio- 

ne dell’assoluto infinito, oscura e confusa quanto si voglia. 



(12) Non si fraintenda: non immanenza della trascendenza nell’ente finito 

come quella che è « posta » dallo stesso ente finito, per cui la trascendenza si 

risolve nell’immanenza dell'atto che la pone o in una condizione dell’esistente — 

pseudo-trascendenza di alcune forme di idealismo immanentista e di esistenzia- 

lismo — ma presenza della trascendenza all’ente finito come presenza dell’Essere 

che l’uomo non pone e dal quale è posto e oltrepassato. 



104 Filosofia e Metafisica 






Il dato uomo è costituito da un insieme di dati, di cui deve 

tener conto, proprio per rigore e scientificità d’indagine, qua- 

lunque tentativo di dimostrazione dell’ipotesi « Dio» per 

saggiarne l’importanza, la portata e quel che significa o in- 

dica la loro presenza. 


Cogito, ergo sum; ma nè il cogitare, nè il mio esse si spie- 

gano da se stessi non essendo assoluti ed infiniti. La celebre 

formula cartesiana, che qui non discutiamo, non dà dun- 

que la soluzione del problema di me ente finito, bensì indica 

solo la mia condizione di essere pensante. Ma proprio questa 

condizione pone il problema di se stessa o se stessa come pro- 

blema; pensiero ed essere sì, ma finiti; dunque il mio essere 

come il mio pensiero sono dati; ma donde sono essere e pen- 

siero o n essere che pensa? È evidente che il cogito, ergo 

sum suscita il problema del da chi sono stato pensato e sono 

pensato per esistere come essere finito pensante. Fino a quan- 

do non l’avrò risolto non possiederò l’intelligibilità piena del 

mio essere e ignorerò le radici del mio pensare e conoscere. 

Qual’è il principio che fa essere me cogitante? Pongo l’ipo- 

tesi « Dio ». Nel caso che riescirò a provarla, concluderò che 

l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere 

un ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, 

ma in maniera completa e più vera: Cogitatus sum et cogitor, 

ergo sum ens cogitans. Questa formula non esprime più sol- 

tanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia real- 

tà, la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in pri- 

mo'luogo, la intelligibilità radicale e profonda di me. Per 

la soluzione del problema metafisico che comporta, essa fa 

che io contingente e finito mi avverta ormai bastevole a me 

stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere, 

del mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giu- 

stificazione del senso assoluto della mia esistenza e della 

mia vita, del mio conoscere e volere. 


Non è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazio- 



L'esistenza di Dio 105 






ni errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: 

in sè assurdo, il quale acquista senso intelligibile solo se si 

ammette l’esistenza di Dio. Infatti l'affermazione, « l’univer- 

so è in sè assurdo », non comporta neppure la formulazione 

dell’ipotesi, che non ha senso quando si è già concluso che 

l’universo è assurdo; anzi si può pensare assurdo solo per- 

chè in partenza è escluso che Dio esiste. Quell’affermazione 

è conclusiva; perciò non ha senso dire che solo ammettendo. 

l’esistenza di Dio l’universo acquista un senso. Pertanto, per 

il fatto stesso che l’ente pensante si pone il problema del- 

l’esistenza di Dio, almeno non si può escludere a priori che 

l’universo abbia un senso; ma, se è così, risulta senza senso 

la tesi di un fideismo aberrante: l’universo in sè è assurdo, 

ma «ciononostante » ammetto l’esistenza di Dio e dunque 

tutto mi diventa comprensibile. Tutto, tranne che esista Dio, 

se l’universo è assurdo. « Non è Dio che non accetto, com- 

prendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov, « ma il mondo da 

lui creato; è il mondo di Dio che non accetto e non posso ri- 

solvermi ad accettare ». Già, perchè assurdo o tutto negativo; 

dunque non può accettare neppure Dio. Qui si annida an- 

che un sofisma: se tutto nell’universo è assurdo, è anche 

assurda l’affermazione che tutto è assurdo, ma chi con- 

clude che tutto nell’universo è assurdo, ritiene vera, non 

assurda, questa conclusione: dunque non tutto è assurdo in 

quanto ammettere che una cosa è vera è ammettere un pen- 

siero capace di verità. Qui appunto nasce il problema: per- 

chè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io che penso? 

donde sono? Ciò pone l’ipotesi « Dio » e fa che sia « ragio- 

nevole », conveniente senza limitazioni alla ragione, e sia 

« assurdo » il non porla o rigettarla senza previa discussione 

impegnatissima. 


Da ciò consegue che il senso assoluto del reale che cer- 

chiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà 

finita. Se così fosse, non penserei all’ipotesi « Dio » in quanto. 

l'oggetto della mia ricerca continuerebbe ad essere la realtà 



106 Filosofia e Metafisica 



mondana; dunque, il solo porre l’ipotesi già orienta in altra 

direzione, in quella dell’esistenza dell'Essere « trascendente ». 

Per conseguenza la posizione razionale del problema sem- 

bra essere la seguente: 4) esiste la realtà finita e contingente; 

5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi dell’esistenza dell'Essere 

da sè esistente e di essa principio; c) dunque, l’Essere esi- 

stente da sè non posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno 

dei quali è assoluto ed incondizionato, e neppure nell’unità 

o totalità (nel « mondo ») degli enti finiti — Dio come unità 

impersonale è la più povera ed inerte delle finzioni —; d) i 

quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza comune. 

Provare la verità dell’ipotesi « Dio» significa scoprire se 

esiste l’Essere incondizionato autosufficiente da cui tutto di- 

pende e a cui tutto tende, consapevolmente o inconsapevol- 

mente. 



Carrroro II 



LA DIMOSTRAZIONE 

DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: 



A) DALLA VERITA’ 



1. — Impostazione dei termini del problema. 



Da quanto abbiamo detto risulta che la nostra integra- 

zione del Cogito cartesiano è di fondamentale importanza. 

Essa porta implicita questa affermazione: io sono coscienza 

pensante perchè l’Essere che è il Pensiero mi ha fatto e mi 

fa essere, mi ha pensato, mi pensa e mi penserà. Ciò signi- 

fica che il mio pensiero — come quello di ogni ente pen- 

sante e di tutti, il pensiero umano o dell’ordine naturale in 

generale -— non è principio di se stesso, non il Primo meta- 

fisico, anche se causa di ciò che pensa; rimanda al suo Prin- 

cipio, è pensiero dal e per il Pensiero: è ed è pensante per- 

chè è stato pensato. Qui la differenza radicale (metafisica) tra 

l’idealismo trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo 

trascendentale-mondano-antropocentrico, che è egocentrismo 

ed egotismo anche quando è etica del dovere; scettici 

smo, anche quando è panlogismo o sistema della scienza 

assoluta. Il primo è idealismo del pensiero che rimanda al 

Pensiero, dell’essere che si abbevera, si innova, si arricchisce 

e si compie nell’Essere; l’altro è idealismo del pensiero uma- 

no o naturale — tutto immanente al « mondo » con cui si 

identifica e perciò cosmico o cosmologico e non vera vita 

spirituale — assolutizzato con un atto irrazionale, che, fa- 

cendone il Primo metafisico, lo chiude in se stesso, lo re- 



108 Filosofia e Metafisica 






cide, appassisce, essicca, in quanto lo strappa al Pensiero, fon- 

te di ogni pensiero, all’Essere da cui deriva il suo essere, per 

farne il Tutto, la cui condanna è il suo nulla, il Nulla. Il 

dilemma dei due idealismi è il dilemma dell’uomo, della 

realtà, della verità: o l’uomo, il reale, il vero sono da Dio 

e l’uomo è uomo, il reale è reale e il vero è vero; o l’uomo, 

la ragione naturale, il mondo e le verità umane sono essi 

stessi l'Assoluto, il Primo, e questo tutto, fatto irragionevol- 

mente i/ Tutto, precipita nel Nulla. O l’idealismo del Pen- 

siero e degli enti pensanti, quello del cogitazus sum et cogitor, 

o l’idealismo del pensiero immanente che si autopone (e 

perciò si autonega) come Pensiero assoluto, quello che, da 

Cartesio, gradualmente, ha penetrato il pensiero moderno e 

si è sviluppato fino a culminare nello Hegel; dopo lo He- 

gel, precipitosamente, è sboccato, con rigorosa consequenzia- 

lità, nelle odierne filosofie del « Nulla », del « problema », 

delle « convenzioni », della pura « metodologia ». Era neces- 

sario, affinchè fosse chiara la posizione dei due idealismi, 

anticipare queste affermazioni, che il seguito del nostro di- 

scorso cercherà di approfondire. 


Il problema che poniamo è quello della verità della mia 

esistenza e di quella di ogni ente finito. In altri termini: io 

sono l’assoluta verità di me stesso, o sono dalla e per la 

Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della veri- 

tà o dell’essere di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del 

reale o del senso assoluto dell’ente finito. Indagare se Dio 

esiste è sondare se vi è la verità della verità di ogni ente crea- 

to e della verità che è in ciascun ente pensante. Se il pro- 

blema è quello della verità degli enti, ancora una volta ri- 

sulta necessario muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, 

che concepisce il suo esistere in termini di verità o d'’intelli- 

gibilità. Infatti, non la pura sensazione immediata fa sor- 

gere in noi il problema dell’esistenza di Dio, ma la riflessione 

sulle cose. E riflessione significa mediazione, giudizio; ma 



L'esistenza di Dio 109 






non c’è giudizio senza l’applicazione o l’uso di principi in 

base a cui si giudica. D'altra parte, se dall’ordine delle cose 

materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono do- 

tate di movimento, si argomenta intorno all’esistenza di Dio, 

si fa uso di alcuni principi, per esempio di quello di cau- 

salità. 


In tal caso, l’argomentazione a favore dell’esistenza di 

Dio dal mondo esterno si fonda sulla validità oggettiva di 

quel principio, cioè su una verità; pertanto il problema pri- 

mo è di sapere se la mente umana sia capace di verità, come 

si trovino in essa o in qual modo le acquisti. Senza verità 

universalmente valida nessun giudizio e nessuna argomen- 

tazione oggettiva sono possibili; similmente non nascerebbe il 

problema dell’esistenza di Dio, se mancassimo completamen- 

te della nozione di una realtà non contingente e assoluta, 

se non fosse in noi una presenza oscura ed operante di quel 

che cerchiamo; se non fossimo in qualche modo nell’essere, 

cioè se non ne partecipassimo analogicamente; dalla totale 

contingenza e relatività non nasce il problema del necessa- 

rio e dell’assoluto. La dimostrazione dell’esistenza di Dio 

non può partire che dalla verità; ma essa è per sua natura 

intelligibile, oggetto di un pensiero; dunque la prova non 

può partire, tra tutti gli enti finiti e contingenti, che dal- 

l’ente che è mente, pensiero, spirito: dall'uomo o dalla vita 

spirituale. 


La posizione del problema si va sempre più precisando: 

a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli di essi che 

sono menti o spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla 

verità non contingente e non finita di cui sono capaci, dato 

che la verità non può essere che oggetto o contenuto di una 

mente. Se si prova che la mente finita è capace di verità e 

dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio, l’argo- 

mentazione può muovere anche partendo dalle cose mate- 

riali, in quanto sappiamo che c’è verità e siamo capaci di 



110 Filosofia e Metafisica 






conoscerla, che la validità dei nostri giudizi è garantita dal- 

la oggettività di alcuni principi; non è una nuova dimostra- 

zione, bensì un’applicazione di quella dalla vita dello spi- 

rito, giacchè la verità della seconda prova è condizionata, 

dipendente, da quella della prima, che la include, come in- 

clude le altre; di qui la sua superiorità, tanto da essere l’uni- 

ca prova dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. 


Così impostata, la questione si presenta sotto forma di 

dilemma: o vi è verità e la mente umana ne partecipa, e vi 

è problema e dimostrazione dell’esistenza di Dio; o verità non 

è, o, se è, la mente umana non ne partecipa affatto, e non 

vi è problema nè dimostrazione. Il nihilismo, lo scetticismo, 

l’agnosticismo, il relativismo assoluti, negando che vi è o 

si possa conoscere una verità necessaria universale immutabile, 

negano con ciò stesso il problema e l’esistenza di Dio: per 

loro essenza, come pensiero sono atei. Resta da dimostrare 

però che non vi è verità e, se vi è, la mente umana non 

ne partecipa; cioè se tali affermazioni sono razionali, abbiano 

un senso comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì, ma 

tutta umana, del solo ordine naturale o della sola universale 

ragione e ad essa immanente, perchè se la ragione si fa crea- 

trice di verità assoluta, si divinizza contro ragione: mute- 

vole e finita, è capace di « scoprire » verità assolute e non 

di «crearle ». Se si nega la trascendenza della Verità, non 

si può ammettere nè dimostrare — ragionevolmente ammet- 

tere e razionalmente dimostrare — che la ragione conosca 

verità assolute, per il semplice fatto che si è negata la ve- 

rità nel momento stesso che la si fa figlia della ragione na- 

turale finita e mutevole: o verità non è, ma se è, la ragione 

oltrepassa in quanto è alla ragione data e non da essa posta. 

In altri termini: o non è verità e si arriva alla conclusione 

assurda e contraddittoria che « è vero che niente è vero »; 0 

è verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, 

c’è il niente di verità. 



L'esistenza di Dio 116 









2. — Gli element: del giudizio e il problema della sua vals- 

dità. 



Affinchè sia un giudizio sono indispensabili: 4) un sog- 

getto razionale pensante e giudicante; 5) un dato da giudi- 

care; c) delle norme o principi in base a cui giudica. Atti- 

vità giudicante, nell’ordine della natura, è soltanto l’uomo; 

in quanto ente razionale giudica, gli altri enti sono giudi- 

cati. Ma l’ente giudica sulla base di alcuni principî di giu- 

dizio, non solo le cose, ma anche se stesso e gli altri enti 

pensanti, e ogni singolo ente pensante se stesso e gli altri. 

Da ciò consegue che, per quanto poco conto possa fare delle 

umane facoltà razionali, so che la conoscenza sensoriale nella 

sua pura empiricità, è un grado conoscitivo inferiore a quel- 

la concettuale. Infatti, anche quando giudicassi che nessun 

concetto o giudizio è vero e che la verità è nella sola e pura 

sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con cui con- 

sidero vera la sensazione e falso il concetto; ma il giudizio 

con cui giudico vera la sensazione non è dovuto alla mia atti- 

vità sensitiva nè da essa derivato, bensì alla mia attività ra- 

zionale; anche in questo caso, è quest’ultima a pronunziare 

un giudizio di veridicità della conoscenza sensoriale e di 

erroneità di quella concettuale; ma il giudizio con cui giu- 

dico vera la prima e falsa la seconda è una conoscenza con- 

cettuale, la quale, proprio per il fatto che si esprime in un 

giudizio, è superiore ad ogni conoscenza sensoriale, di cui, 

contraddittoriamente, le si vuole contrapporre la superiorità. 

Ora è evidente: se la ragione giudica la sensazione non può 

essere da essa giudicata; ma la giudica in quanto fa uso di 

principî, senza di cui non potrebbe formulare giudizi. Per 

conseguenza: se non c’è giudizio senza il soggetto giudican- 

te secondo i principî del giudizio, la verità di ogni giudizio 

non risiede nel soggetto giudicante contingente e finito — o 

nella ragione per se stessa, anch'essa finita e mutevole — nè 

nella cosa sottoposta a giudizio, anch’essa contingente, finita 



112 Filosofia e Metafisica 









ed inferiore allo stesso soggetto pensante per il fatto che è 

giudicata e incapace di giudicare e giudicarsi, ma nei prin- 

«pi secondo cui il soggetto giudica (!). Dunque vi è giu- 

dizio vero, oggettivamente valido, in quanto la ragione nel 

giudicare si serve di regole, di principî necessari, immutabili, 

universali, assolutamente validi. Non sono pure « condizio- 

ni» del conoscere in sè vuote come le « forme a priori » 

kantiane, ma conoscenze primali, originarie, fondamento di 

ogni conoscenza vera. Che l’uomo sia capace di giudizi veri 

ci risulta dall’aver prima dimostrato che nessuna forma di 

scetticismo, com'è provato dallo stesso argomento dello scet- 

tico, può negare che l’uomo sia capace di verità; ma basta 

che egli lo sia anche di una sola, perchè consegua: 4) che 

è capace di giudizi veri; 4) che sono presenti alla sua mente 

alcuni principî, fondamento della veridicità di ogni giudi- 

zio vero. 


Infatti, chi dubita conosce qualcosa di vero, se non altro 

che dubita ed esiste come ente che dubita e s’inganna (si 

fallor, sum). Ma, come rileva Agostino (De vera religione, 

c. XXXIX), chi conosce qualcosa di vero lo conosce per la 

verità, dato che « tutto ciò che è vero, è vero per la verità ». 

La profondità di questa argomentazione non risiede nel pro- 

vare che l’uomo conosce alcune verità, tra cui prima quella 

di non poter dubitare dell’esistenza di se stesso come dubi- 

tante ed ingannantesi, ma nel rilevare che la presenza in 

noi di un solo vero sarebbe impossibile senza la presenza del 

lume della verità: se siamo capaci di una sola verità, c’è in 

noi la verità. Da ciò consegue: 4) ogni particolare verità, com- 

presa quella della coscienza che ogni singolo ha di esistere, 

presuppone — altrimenti non sarebbe — una verità primale, 



(1) Un giudizio può essere « formalmente » corretto e sostanzialmente erro- 

neo. Ciò non significa che i principî del giudizio siano o possano essere erro- 

nei, in quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la relazione 

che enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro caso i prin- 

cìpi sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando sempre 

gli stessi princìpi. 



L'esistenza di Dio 113 






di cui è una determinazione; 5) l’uomo è l’artefice di tutte 

le verità (l’umano sapere), ma non è il creatore della verità 

che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una specifica- 

zione; c) le verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in 

lui la verità che fa la mente capace di conoscenze vere, ma 

la verità, fonte di ogni umano vero, è da sè, anche se ogni 

umana scienza non fosse; 4) la coscienza di me esistente, 

cogito, ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di 

cui sono artefice, ma non è la verità prima, della quale la 

coscienza di me è solo la prima determinazione, ma la verità 

prima e in quanto oggetto di una mente; e) dunque, il sog- 

getto pensante — ma solo esso e non le verità che egli for- 

mula sul fondamento di essa — le è necessario senza che ciò 

implichi che ne è il creatore: il lume di verità è oggetto in- 

teriore della mente; f) per conseguenza, la coscienza di me, 

il Cogito, prima verità di cui sono l’artefice, non s’identifica 

con la verità prima, che la rende possibile e che, interiore 

alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò, 

appartenenza dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni 

umana verità compresa quella dell’autocoscienza, non è uma- 

na, ma divina: 4) dunque, la presenza nell’uomo di verità 

attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di ve- 

rità, ma questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, 

in lui, ma non da lui, pone il problema di se stessa: prin- 

cipio di ogni vero del quale l’uomo è artefice, pone il pro- 

blema del suo principio, che è il problema del Principio pri- 

mo, della Verità o dell’Essere. 


Identificare il problema del conoscere o gnoseologico con 

quello del suo fondamento o principio — problema ontologi- 

co-metafisico — e rinunziare a chiarire e ad approfondire, per 

superficiale acrisia, il problema critico della conoscenza. La 

capacità umana di formulare giudizi veri — verità prodotta 

dall'uomo — è soluzione del problema gnoseologico, ma è 

essa stessa problema, che porta implicito l’altro del prin- 



114 Filosofia e Metafisica 






cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma il problema del 

principio del conoscere non è più gnoseologico, in quanto 

è problema della verità, fonte di ogni vero, cioè della verità 

oggetto della mente e non suo prodotto; come tale, di ordine 

«ontologico », non « gnoseologico ». È essa che fa nascere 

il problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; 

dunque l’ontologicità della verità — la verità è l’essere — 

pone il problema metafisico del Principio: gnoseologia o dot- 

trina del giudizio; ontologia o dottrina della verità prima in- 

teriore all’ente pensante; metafisica o dottrina del Principio 

assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino nell’uo- 

mo e dall’uomo a Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una 

verità ontologica anteriore ad ogni particolare conoscenza ve- 

ra; 5) l’atto con cui so di esistere, non solo mi dà la prima 

verità oggettiva, ma, quel che più conta, mi attesta la pre- 

senza di un lume oggettivo di verità, di cui l’autocoscienza 

è solo una determinazione, anche se la prima e la sola essen- 

ziale. Dunque, verità primale e fondante in interiore homine, 

come oggetto della mente, madre dello stesso pensare, per la 

quale il soggetto è pensante ed ha coscienza di esistere come 

tale; la mente non adegua il suo lume di verità, l’autoco- 

scienza non esaurisce l’interiorità; la verità in inzeriore ho- 

mine per la sua stessa presenza, stimola, slancia, obbliga l’uo- 

mo a trascendere ez se ipsum. 


Autocoscienza è coscienza di sè e di altro da sè; come au- 

tocoscienza pura, l’« altro da sè » è l’oggetto o Idea, la ve- 

rità interiore, che il soggetto coglie nell’atto che ha coscienza 

di sè come ente pensante; anzi ha coscienza di sè perchè ha 

coscienza dell’altro, l’oggetto interiore o il lume di verità, 

che lo fa essere coscienza di sè e dell’oggetto stesso. L’inte- 

riorità fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque non 

l’autocoscienza come coscienza di me soggetto pensante, ma 

l’autocoscienza come atto primo o prima specificazione del- 

l’interiore verità pone il problema dell’esistenza di Dio, nè. 



L'esistenza di Dio 15 






può non porlo; le è necessariamente intrinseco: in quanto 

partecipe dell’infinito della verità non può non porsi il pro- 

blema dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e qual- 

siasi filosofia dell’immanenza sono al di qua di questa proble- 

matica, nell’anticamera dell’ontologia e della metafisica, che 

si rifiutano di riceverli fino a quando si ostinano a fare filo- 

sofia della natura etichettata fraudolentemente per filosofia 

dello spirito. 



3. — I principî del giudizio non sono « posti » dalla ragione, 



nè indotti dall'esperienza esterna. 



In quanto abbiamo detto ci sembra implicitamente risol- 

ta, nella parte negativa, anche la questione dell’origine dei 

princìpi del giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed 

immutabili con cui la ragione giudica ogni cosa, consegue: 


1) la ragione non può sottoporre le norme a giudizio, in 

quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, ces- 

serebbe di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o 

quelle che la giudicano: o la norma è norma di giudizio 

e allora essa che giudica tutto non può essere da nulla giu- 

dicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la norma 

di giudizio, bensì quella che la giudica. 


2) Se la ragione non può giudicare le norme secondo cui 

giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio errato, con- 

seguenza della finitezza della ragione umana, è riconosciuto 

per tale e corretto in base alle norme con cui la ragione giu- 

dica; dunque sono esse che giudicano l’operato della ra- 

gione, se i giudizi che essa formula siano veri od erronei. 


3) Da ciò consegue che le norme sono indipendenti dalla 

ragione, da essa non prodotte ma ad essa daze e, come tali, 

superiori, in quanto, secondo una celebre espressione di Ago- 

stino, non vi è dubbio che qui iudicat, co de quo sudicat esse 



116 Filosofia e Metafisica 






meltorem (*). In breve, ie norme del giudizio o le verità che 

lo fondano non sono un prodotto dell’attività razionale, in 

quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e finita, sareb- 

bero anch’esse mutevoli e finite; dunque, son esse che ren- 

dono possibili i giudizi e l’attività della ragione e non vice- 

versa: non vi sono norme vere perchè vi sono giudizi veri, 

ma vi sono giudizi veri in quanto la ragione può disporre 

di norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa stessa 

giudicata. La ragione non è madre ma figlia della verità, e, 

perchè tale, madre a sua volta di verità; dunque l’origine 

delle verità che la fanno vera non è da cercare in essa. Per- 

tanto altro è il problema della verità, altro il problema del 

conoscere razionale. 


Torto dell’idealismo panlogistico di Hegel, di alcuni suoi 

epigoni e di quanti non distinguono i due problemi, è di 

ridurre la metafisica a gnoseologia, identificando il proble- 

ma metafisico con quello gnoseologico e dissolvendo quello 

del principio-fondamento del conoscere nell’altro del cono- 

scere, principio e fondamento di se stesso. Il conoscere, asso- 

lutizzato, si chiude in se stesso, verità di sè a sè, si autopone, 

consumando la soppressione violenta ed arbitraria del pro- 

blema della verità o della intelligibilità metafisica del cono- 

scere razionale. È la sopraffazione che la ragione perpetra 

contro la verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, 

fondata dalla verità, si pone come fondante la verità stessa. 

La distinzione, in seno all’idealismo di Hegel e all’hegeli- 

smo, rinasce nella forma della dualità dialettica del pen- 

siero pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo del- 

l’autoposizione e dell’autonegazione del pensiero; e non può 

non rinascere in quanto il conoscere razionale va in cerca del 

suo fondamento, del suo principio che è la verità. Dissolto 

il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del problema 

nella dialettica del pensiero, il problema del fondamento del 


(2) Il lettore si sarà già accorto come l’argomentazione dalla verità, che 



stiamo svolgendo per provare l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: 

Il testo più completo a questo proposito è il De libero arbitrio L. Il. 



L'esistenza di Dio 117 






conoscere rinasce imperiosamente e si pone come problema 

ontologico della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, 

e il pensare come tale, e come problema metafisico del Prin- 

cipio assoluto, cioè della intelligibilità della verità dello stes- 

so conoscere razionale e del senso e del fine dell’uomo nella 

sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio non nasce 

nè può nascere in una filosofia come «sistema dell’asso- 

luta scienza razionale » in quanto in essa è dissolto il pro- 

blema della verità; nasce invece all’interno della ricerca del 

fondamento assoluto o del Principio primo della veridicità 

delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che 

indaga sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // pro- 

blema dell'esistenza di Dio è il problema della verità, che è 

l’oggetto primo ed interno della filosofia; prima di essere 

problema della ragione o del giudizio sulle cose, è problema 

della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della verità, 

lume della ragione. 



4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla ragione 

secondo i princìpi del giudizio, non possono esse — contin- 

genti, mutevoli, finite e inferiori alla stessa ragione — essere 

produttrici di tali verità; le cose posseggono un grado di ve- 

rità o di essere (sono, per es., più o meno belle), ma non la 

norma universale, con cui la ragione giudica del loro grado 

di essere o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose 

stesse e preesiste al giudizio che per mezzo suo la ragione 

pronunzia sulle cose. Voler ricavare dall’esperienza senso- 

riale i princìpi del giudizio è rischiare, senza venire a capo 

della questione, conclusioni scettiche, a cui, prima o poi, ar- 

riva ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente 

non può essere fonte dell’immutabile e necessario; il grado 

di verità che riscontriamo nelle cose contingenti non solo 

non adegua la verità conosciuta con la mente, ma è cono- 

sciuto e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme 

oggettive del giudizio. Per conseguenza i princìpi immuta- 

bili, fondanti la veridicità dei giudizi, non sono deducibili 



118 Filosofia e Metafisica 






a priori dalla ragione per analisi, nè sono un prodotto della 


sua attività; non inducibili 4 posteriori nel senso di contenuti 


enucleati da una forma qualsiasi di esperienza sensoriale. 

Donde, allora, questi princìpi? 



4. — Ragione ed intelligenza: l'intuito fondamentale dei 

principi del giudizio. 



Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno chia- 

rire un altro aspetto della questione. 


I princìpi del giudizio sono noti alla ragione, che di essi 

si giova per giudicare; la sua attività è discorsiva: stabilisce 

nessi e rapporti, formula giudizi e costruisce il discorso. La 

ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non ne ha co- 

noscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intel- 

ligenza e applicati dalla ragione, ia quale più che l’attività 

intuente i princìpi è quella, diciamo così, che li adopera (*). 

Per conseguenza le verità sono oggetto della intelligenza, ad 

essa presenti; la mente le vede in se stessa, le scopre dentro 

di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno 

la visione diretta della verità non com'è in sè ma come è alla 

mente presente nell’ordine naturale; per la ragione sono, 

sì il suo lume, ma lume giudicante, ne mettono in moto la 

capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza me- 

diata o indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’ori- 

gine di queste verità, ma soltanto dimostrato che non le 

produce la mente umana che pur ne è illuminata e costituita, 

nè la ragione, che pur di esse si giova per giudicare, nè deri- 

vano dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li ap- 



(3) Si può osservare che i princìpi si colgono nel momento che sono ap- 

plicati, non prima nè fuori della concretezza della esperienza. Rispondiamo che 

ciò non mette in questione l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’espe- 

rienza e i giudizi della ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, 

presenti nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presup- 

pone. D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata nel- 

l’unità concreta della vita spirituale. ” 



L'esistenza di Dio 119 






plica: constatiamo che sono in not, presenti alla nostra men- 

te, da essa direttamente intuite, suo oggetto intelligibile. 


Sono, dunque, innate? Non nel senso dell’innatismo pla- 

tonico, ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza 

illuminante ed operante della verità in interiore homine; pre- 

senti anche quando la ragione erra, perchè non è la verità 

che è assente a noi, ma noi ad essa. Se per ipotesi assurda, 

la nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo 

sarebbe incapace di verità, ma l’uomo, come spirito e anche 

come corpo, sarebbe annientato. Questa presenza enigmatica 

della verità in noi, non proveniente da noi nè dalle cose, e 

di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua origine; 

dunque, ci autorizza a porre l’ipotesi « Dio » come possi- 

bile soluzione del problema dell'origine della verità dalla no- 

stra mente intuita e di quello dell’intelligibilità di ogni esi- 

stente. Meraviglioso già che enti finiti e contingenti siano 

capaci di verità immutabile e necessaria; che le cose abbia- 

no un grado di essere o verità e nel loro divenire un ordine 

che non passa, le regola e orienta. 


Qualcuno potrebbe osservare: i principî, come dite, giu- 

dicano la ragione e non questa li giudica anche se giudica 

secondo essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione; 

dunque, sia pure per dire che son veri, essa li giudica. Esat- 

to, ma l’atto con cui la ragione dice che i princìpi son veri 

non è un giudizio, bensì una constatazione: la ragione, giu- 

dicando veridicamente, testimonia della loro verità; d'altra 

parte, i princìpi non sono oggetto immediato della ragione, 

ma della mente a cui sono presenti. In altri termini, il cosid- 

detto giudizio con cui la ragione riconosce la verità dei prin- 

cìpi non fonda la validità dei princìpi stessi, ma è l’atto con 

cui la ragione si costituisce come capace di giudizi veri sul 

fondamento della loro verità fondante. 



120 Filosofia e Metafisica 






5. — Il problema dell'origine dei princìpi del giudizio: tre 

risposte fondamentali. 



Degli elementi che compongono il giudizio — il sogget- 

to pensante, un dato da giudicare e le norme in base a cui 

la ragione giudica — c’interessa quest’ultimo come quello che 

pone il problema della verità oggettiva dei princìpi secondo 

cui la ragione giudica. Il problema del conoscere è fondamen- 

talmente quello della formazione dei concetti; il problema 

della verità quello della origine dei princìpi, la cui « profon- 

dità »:è tale da convincere che essa oltrepassa le possibilità 

dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre risposte, corri- 

spondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologi- 

che: in esse è contenuta quasi tutta la storia della filosofia. 



Prima risposta. - Non vi sono nella mente umana prin- 

cìpi del giudizio, in quanto tutto nella conoscenza deriva dal- 

l’esperienza sensoriale. 



È la risposta dell’empirismo la quale, a rigore, non è tale 

per il semplice motivo che non risolve ma sopprime il pro- 

blema; infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo in- 

durre alcun principio assoluto e universalmente valido. Non 

per nulla l’empirismo, dalle sue origini occamiste a Locke, 

Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista, agnostico, scet- 

tico. Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler deri- 

vare dall’esperienza sensoriale i princìpi con cui la ragione 

giudica l’esperienza stessa, è come dire che i princìpi sono 

anch'essi « cose ». Ma i princìpi del giudizio non son cose — 

e come non-cose sono ininduttibili dall’esperienza sensoriale 

— nè, d’altra parte, sono conoscenze @ priori; consegue 

che l’empirismo è costretto a negare la validità oggettiva dei 

princìpi e con essi la veridicità dei giudizi. Con ciò nega la 

verità ed il problema della verità del conoscere razionale 


rchè inizialmente, anche se implicitamente, fa della ve- 

rità, realtà intelligibile, « cosa » tra cose. Assimilati alle quali . 



L'esistenza di Dio 121 






MERE i pira : : 

i princìpi del giudizio, l’empirismo ne riduce a due gli ele- 

menti; ma, come vedremo tra poco, neppure a due. 



Seconda risposta. - I princìpi del giudizio sono a priori: 

innati nella mente umana (Razionalismo cartesiano-leibnizia- 

no) o prodotti dall'attività del soggetto pensante (Criticismo 

e Idealismo trascendentale). 



Nel primo caso sono conoscenze assolute, nel secondo sol- 

tanto « condizioni » assolute del conoscere. Il razionalismo 

innatista già comincia a non distinguere tra problema della 

verità e problema del conoscere razionale. Di qui il suo an- 

dare ai due estremi: da un lato, ammessa l’intuizione diretta 

dell'essere, nega il conoscere razionale e, per conseguenza 

non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebran- 

che); dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la cono- 

scenza alla pura razionalità con uguale conseguente nega- 

zione del mondo (panteismo acosmico dello Spinoza). Ad 

eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno perde 

a poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità 

e instaura l’autonomia della ragione senza distinguere tra 

problema della conoscenza e problema del fondamento del 

conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo illuminista che 

non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente 

il problema filosofico da quello teologico. 


Così è preparato il terreno al Criticismo e all’Idealismo 

trascendentale, che segnano il passaggio dall’« innatismo » 

all’«immanentismo » della verità: i princìpi del giudizio 

sono forme 4 priori immanenti dell’attività del soggetto pen- 

sante. Per conseguenza il problema della verità s’identifica 

con quello del conoscere razionale: non vi è un principio 

della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma 

l’assoluto, essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il 

reale e il reale il razionale. Pertanto il problema dell’intelli- 

gibilità metafisica della conoscenza non può avere più posto 

nell’idealismo trascendentale, in quanto il sapere razionale 



122 Filosofia e Metafisica 






è tutta l’intelligibilità metafisica: la gnoseologia è essa la 

metafisica, la sola possibile. Il problema dell'essere della 

verità del giudizio è risolto nell’altro della verità immanente 

allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non 

dell’Essere o della Verità che fonda il pensiero. In altri ter- 

mini, il pensiero stesso è verità, padre e fondamento della ve- 

ridicità di ogni conoscenza vera o razionale, con cui s’identi- 

ficano pensiero e reale. Anche questa volta i tre elementi del 

giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, nep- 

pure a due. 


Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale 

ed ogni ente nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se 

stesso; anzi — con il Gentile — nell’Azto del pensare o nel 

Pensiero pensante, unico, ineffabile, puntuale. Allo stesso 

modo l’empirismo, diventato positivismo, risolve il reale ed 

ogni ente nella Cose unica, alla quale assimila il pensiero, 

che ne è un epifenomeno, « cosa » dalle stesse leggi delle cose 

governata. Ma il positivismo non è solo sviluppo dell’empiri- 

smo, bensì risultato della collusione di quest’ultimo e del- 

l’idealismo trascendentale attraverso il criticismo di Kant: 

se da un lato può sembrare rinunzia al panlogismo dello 

Hegel, dall’altro, ne è uno sviluppo. Infatti, se la ragione è 

tutta immanente al mondo ed il processo dell’uno è quello 

dell’altra; se vi è adeguazione perfetta tra reale-cosmo e ra- 

zionale, consegue che assoluto filosofare è assoluto scientiz- 

zare: la filosofia si risolve nella scienza e vi s’identifica; lo 

Assoluto è la Scienza, la filosofia ne è la « metodologia ». 

La metafisica cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad 

Hegel ha nel positivismo uno dei suoi sviluppi coerenti: po- 

sto il conoscere razionale come fondante se stesso; negato il 

problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza 

una verità oggetto della mente; identificato il sistema del 

« sapere » con quello del « mondo », consegue che tutto il 

pensiero è ragione, che l’oggetto unico della ragione sono 

le cose e i princìpi del conoscere, cose essi stessi, o schemi, 



L'esistenza di Dio 123 






categorie in cui ordinare i fatti dell’esperienza. Non più i 

princìpi, ma « divino » è il fatto, come dice l’Ardigò, quasi i 

fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per l’idealismo 

trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il pro- 

dotto dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio 

stesso, è il Pensiero e non più la verità che lo illumina; ma 

siccome il Pensiero è tutto immanente nelle cose e nel 

mondo — dire che il mondo è immanente al Pensiero è dire 

la stessissima cosa che il mondo adegua, immanentisticamente, 

il Pensiero stesso — la divinità di quest'ultimo è divinità delle 

cose. Perciò a un epigono di un Hegel pensato, o meglio spen- 

sato, con mentalità afilosofica è stato facile ridurre la filosofia 

a « metodologia della storia », cioè dei fatti umani, forma di 

positivismo umanistizzante che, nel fondo, non differisce da 

quello naturalistico, che riduce la filosofia a metodologia 

delle scienze o dei fatti naturali. Infatti, se questo positivismo 

assolutizza la scienza, l’altro assolutizza la storia. Così la Ra- 

gione-Dio dello Hegel si precisa, senza che vi sia opposi- 

zione sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio. « Ciò che 

è reale è razionale, ciò che è razionale è reale »; consegue 

che se Dio non è razionale, non riducibile alla Ragione im- 

manente, se non è la stessa Ragione immanente, non è reale. 

Ma Dio identificato con la Ragione immanente non è più 

Dio, è il Cosmo; e se il Cosmo è Dio, Dio non esiste. 


In conclusione: 4) il problema della verità, fondante la 

veridicità del conoscere, risulta soppresso e con esso la ve- 

rità, la luce che fa intelligente la mente e la ragione capace 

di conoscenza oggettiva: non sono possibili giudizi veri sen- 

za l’oggettività dei princìpi del giudizio; 4) questi cessano di 

essere oggettivi nel momento stesso che si riducono a « fun- 

zioni » trascendentali del Pensiero o della Trascendentalità, 

principio creatore della verità, luce a se stesso e fondante 

da sè la propria assolutezza: il conoscere razionale è tutto e 

l’assoluto sapere; c) ma esso è giudizio sulle cose, dunque, 

tutto il sapere è sapere le cose, e niente le oltrepassa; 



124 Filosofia e Metafisica 






d) tutto è cosa: cose spirituali o umane, ma sempre co- 

se o fatti: idealisti, spiritualisti, positivisti o come si chia- 

mano sono in ogni caso fondamentalmente e sempre mate- 

rialisti (perciò il marxismo ha oggi tanto da dire, a prescin- 

dere dalle contingenze politico-sociali); e) così come sono 

negatori della essenza della filosofia, fatta necessariamente 

pura metodologia, in quanto le si nega l’oggetto interno — 

il problema della verità — quello che la costituisce autono- 

ma e la fa metafisica dell’essere che è verità e della verità 

che è l'essere. 


Ma non basta: posto che l’unico sapere è quello razio- 

nale o « mondano » — giudizio sulle cose per stabilire nessi 

e rapporti tra i dati dell’esperienza sensoriale — sapere asso- 

luto in quanto ha il suo fondamento in se stesso, consegue 

che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa prin- 

cipio dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di 

fondamento: la filosofia dallo Hegel in poi è, infatti, pro- 

cesso di « sfasciamento » del sistema della Ragione. Essa ha 

accolto dapprima la conclusione del criticismo kantiano, con- 

vergenza del razionalismo e dell’empirismo, che l’4 priori è 

« funzione » del soggetto pensante e l’esistenza di Dio per 

conseguenza non è razionalmente dimostrabile; e successiva- 

mente l’altra, che la Trascendentalità è essa stessa l’essere 

tutto e che non c’è problema dell’esistenza di Dio perchè 

Dio è lo stesso Logo immanente nel suo eterno divenire dia- 

lettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta 

fino a negare la « teologicità » della Ragione hegeliana e a 

concludere, come il pensiero più recente, che, se Dio non 

esiste e l’uomo non è Dio, niente ha più senso e tutto è 

assurdo. La filosofia moderna, come filosofia della sola « ra- 

gione », è filosofia senza «intelligenza »; perciò ha perduto 

Dio e l’uomo. 



Terza risposta. — I princìpi del giudizio sono presenti 

alla mente, che ne ha l'intuizione. 



L'esistenza di Dio 125 






Questa l’inzelligenza costituita dalla verità interiore, luce 

che illumina la ragione, che, illuminata, getta luce sulle co- 

se, le giudica, e giudicandole le vede nella loro intelligibilità 

o loro grado di essere. E’ la risposta dell’idealismo trascen- 

dentista, di derivazione e tradizione platonica, il solo idea- 

lismo autentico e, come tale, il solo vero realismo. I due 

idealismi concordano sull’apriorismo dei princìpi del giudizio, 

ma discordano radicalmente sul modo d’intenderli. L’ideali- 

smo trascendentale fa dei princìpi del giudizio un prodot- 

to del pensiero naturale e le condizioni categoriali della co- 

noscenza, identificando, come già detto, il problema della ve- 

rità come quello del conoscere razionale; l’idealismo trascen- 

dentista, invece, distingue tra «sapere » intuitivo e « cono- 

scere » razionale, tra presenza immediata della verità a//a 

mente e presenza riflessa della verità nella ragione; pertanto, 

per esso, i princìpi del giudizio sono verità interiori alla men- 

te, luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La inzelli- 

gentia è il fondamento della razio, che cerca l’intelligenza, 

la luce con cui, giudicando, illumina le cose e le conosce: le 

« conosce » in quanto le « vede » nella luce della verità alla 

mente presente. Ma /a presenza della verità oggettiva alla 

mente, appunto perchè interiorità, esclude l'’immanenza del- 

la verità stessa ed importa la sua trascendenza rispetto alla 

mente. La verità, presente alla mente, è più di essa: nel mio 

pensare e conoscere vi è qualcosa che trascende l’atto del mio 

pensare e conoscere, verità che è mia, zon da me, più di 

me. Per essa son vere tutte le cose vere, ogni ente è verità, 

il pensiero capace di verità e la ragion di giudizio vero; ma 

essa non è le cose vere, nè ogni ente vero, nè il mio pensiero, 

nè i miei giudizi: è ciò che fonda i singoli veri e li tra- 

scende. Per conseguenza, la presenza della verità alla mente 

è insieme trascendenza, in quanto alla mente è presente qual- 

cosa che non è prodotto da essa. Donde questa presenza? 

Quale il Principio assoluto della verità che illumina la mia 



126 Filosofia e Metafisica 






mente, per cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il pro- 

blema dell’intelligibilità metafisica del conoscere ed è appun- 

to il problema dell’esistenza di Dio. 



6. — Indubitabilità ed indistruttibilità della verità dei prin- 

cìpi del giudizio. 


Irrazionale e ridevole qualsiasi tentativo di mettere in 

dubbio la verità dei princìpi del giudizio; infatti, esso si con- 

figura come pretesa di giudicare intorno alla loro veridicità 

fondandosi proprio... sulla loro verità! Ma, se i princìpi del 

giudizio sono « al di là» del dubbio, consegue che l’intelli- 

genza che li intuisce è « fuori » del dubbio e dell’errore: il 

dubbio è della ragione e del conoscere razionale non della 

intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e rap- 

porti che la ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non 

nei princìpi del giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. 

L'intelligenza o intuito della verità è sempre nella verità; 

la mia mente e ogni mente umana, in questo senso, è la libera 

prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse 

scacciarla non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche 

il pazzo perde la verità, che resta presente alla sua intelli- 

genza. Infatti, il pazzo è uno « sconnesso », ragiona male o 

non ragiona affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi 

mal combinati, ma non potrebbe sragionare o sconnettere, 

senza i principi del giudizio presenti alla sua mente: se ne 

fosse privo non penserebbe affatto, nè male nè bene, non 

sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dun- 


ue anche nel pazzo c’è l’uomo essenziale e profondo, la 

presenza della verità: la ragione sopraffatta lo ha abbando- 

nato, la verità no, e fa che egli, sragionante, sia sempre uomo, 

soggetto spirituale. 

D’altra parte, anche ammesso, a detta di alcune teste scien- 

tifiche di pseudofilosofi di moda, che tutto il conoscere ra- 

zionale sia « convenzionale » nel metodo, nelle premesse e 



L'esistenza di Dio 127 






nelle conclusioni, ciò non scalfisce minimamente il nostro 

discorso: è possibile il convenzionalismo della conoscenza ra- 

zionale, proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali 

che lo rendono possibile. Dire che anche essi sono conven- 

zionali è giudicare i princìpi in base a cui si giudica e che 

non possono essere giudicati. Domando: in base a quali altri 

princìpi si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle due: 

o non ve ne sono altri e non potete giudicarli convenzionali; 

o ve ne sono altri, e allora sono essi i principi non conven- 

zionali. Anche se tutto il conoscere fosse convenzionale non 

potrebbero essere convenzionali i princìpi in base a cui giu- 

dico che tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal 

caso niente sarebbe convenzionale. 


Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la verità; 

se non altro non potrei distruggere la verità del giudizio con 

cui pretendessi distruggerla! Non posso annientare la mia 

mente, l’uomo profondo in me, anche se posso distruggere 

la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia, nè la sce- 

menza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se scon- 

volgono o annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. 

perenne, immortale —- come perenne ed eterna è la verità 

— non è l’io razionale propriamente detto, ma l’io intelli- 

gente, che è oltre la ragione e perciò oltre la scienza, la paz- 

zia, la morte. Anche nel naufragio totale di un’anima, super- 

stite la presenza della verità, sopravvive il meglio di lei, in 

lei il più di lei. Perciò anche l’uomo più reietto è capace di 

affermazioni vere, di slanci di bene; le profondità del suo 

essere restano sempre orientate verso Dio. Se i sotterranei 

della sua coscienza, sia pure per un attimo, sono rischiarati 

consapevolmente dalla luce della verità, quel lampo può es- 

sere decisivo, operare una trasformazione radicale: il reietto 

può diventare lume di verità e fuoco di carità, potenza di 

santità. La verità, ogni verità, per piccola che sia, è eterna; 

perciò va riconosciuta, rispettata, amata: è divina; in questo 



128 Filosofia e Metafisica 






senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e ogni cosa per il suo 

grado di essere. Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed 

amato: avanzo dolorante di miseria o rudere di mille delitti, 

in lui abita ancora e sempre la verità, che è divina (‘). Essa, 

non privilegio di alcuni ma bene a tutti comune, inerisce 

alla natura di ogni ente pensante in quanto tale: lume del- 

l’intelligenza, è dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del 

ricco, del venturoso e del percosso dalla sfortuna. E’ la rifles- 

sione scientifica o tecnica, la elaborazione dotta e concettuale 

che è solo di alcuni uomini; ma l’uomo essenziale, radicale, 

è nell’intelligenza della verità primale, fondamento di ogni 

elaborazione razionale e scientifica; in essa la sostanziosa e 

sostanziale sostanza umana. Togliere, per ipotesi, all'uomo 

la verità e dargli tutto il benessere possibile e l’universo, è 

un’operazione somigliante a quella di un assassino che, do- 

po aver ucciso, adorna splendidamente con meticolosa cura 

il cadavere della vittima. Chi è nella verità, chi sa, può sem- 

pre arricchirsi di conoscenza, perchè quel lume è il principio 

che fonda la veridicità di ogni conoscere. Non è divino il 

pensiero (idealismo trascendentale), non il fatto o la cosa (em- 

pirismo e positivismo), è divina la verità in noi, madre di 

ogni verità razionale e figlia della Verità che la oltrepassa e 

ci oltrepassa immensurabilmente. 



7. — Elementi e formulazione della prova « dalla verità ». 



Dopo questo lungo discorso necessario e chiaritivo dell’es- 

senza della prova, raccogliamo tutti gli elementi che la ricer- 

ca ha messo a nostra disposizione. 



(4) Quanto sopra è detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta 

dello spirito non è solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale 

«dialetticità che si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, 

la vita spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto 



non vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa 

presenza il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. 



L'esistenza di Dio 129 






1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pen- 

siero o di una intelligenza: non vi è verità senza un pen- 

siero che la pensa, un'intelligenza che la intellige. Nel caso 

della mente umana finita, ciò non significa che la mente fac- 

cia essere la verità, «la ponga», ma solo che la scopre in 

sè, la intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce 

è da essa indipendente. D'altra parte, come verità non di 

ieri o di oggi, ma di sempre, è necessaria, eterna; era verità 

prima che mente umana la pensasse e lo sarà anche se nes- 

suna mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intel- 

ligenza, non può essere senza un'intelligenza che la pensi, nè 

può non essere, appunto perchè eterna; dunque vi è la Men- 

te o il Pensiero che la pensa, eterno come essa. Ma se Pen- 

siero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero 

eterno ed assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza 

della mente umana finita che ne partecipa soltanto. Dunque 

esiste la Mente assoluta infinita che è la Verità in sè asso- 

luta e infinita, da cui è ogni verità: è la Verità creatrice. 


Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana 

intuisce verità immutabili e necessarie, ma ciò non basta a 

provare che esiste Dio come Verità assoluta, in quanto le 

verità dalla mente intuite, proprio perchè intelligibili, appar- 

tengono all’ordine della mente o del pensiero non a quello 

della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal- 

‘l’ordine del pensiero all’ordine del reale. 


Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere affetto dal più 

grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica 

il reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della 

realtà; 5) dall’altro, non tien conto che noi argomentiamo 

dalla presenza della verità alla mente, cioè non da un pos- 

sibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla cui 

mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene al- 

l’ordine dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto 

che, se per l’essere finito la verità intuita è solo dell’ordine 



130 Filosofia e Metafisica 






del pensiero perchè egli per la sua finitezza non può es- 

sere il soggetto sussistente ad essa adeguato (se il pensiero 

umano adeguasse la verità infinita sarebbe esso Dio e per 

ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita, in- 

vece, la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè 

non è un’entità di ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui 

s'identifica. In altri termini, la distinzione tra i due ordini, 

per cui non è logicamente corretto dedurre dal pensabile la 

sua esistenza, è valida per il finito e non per l’Essere infinito 

o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gau- 

nilone; e, posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del 

Santo di Aosta. 


Questa precisazione significa ancora ben altro: la verità 

è oggetto nell’uomo, perchè non può identificarsi con il sog- 

getto, ente finito, ma come Verità in sè è soggetto, è il Sog- 

getto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non 

è l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione 

è valida contro chi obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto 

o la Sostanza assoluta, al pari dello Spinoza o del Carabellese. 



2) Si arriva alla stessa conclusione secondo un altro or- 

dine di considerazioni: la verità che la mente umana intui- 

sce e di cui la ragione si serve per formulare giudizi validi, 

ha i caratteri dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali 

ci obbligano a riconoscere che è, sì, nella mente umana, ma 

non dall’uomo creata; i caratteri essenziali della verità so- 

no gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la 

verità presente nella mente umana non può essere che di ori- 

gine divina: esiste Dio, Mente o Verità assoluta, che gliene 

ha fatto dono. 


Di qui ancora la necessità di tener distinte l’inzelligenza 

e la ragione di Dio: non vi può essere ragione di Dio senza 

intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è o viene 

a mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inespri- 

mibile perchè la ragione ne è impedita come nel caso del 

pazzo, dell’idiota, dell’ateo: niente può strappare la verità 



L'esistenza di Dio 131 






dalla mente e la mente dalla verità, che è divina, più del- 

l’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente del pazzo o 

dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la pre- 

senza di Dio come presenza della verità data all’intelli- 

genza. Per conseguenza, da un lato, la ragione che nega 

Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle all’inzellectus, fuori 

dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che argomenta 

dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio, 

dimostra conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la 

ratio chiede all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da 

questo punto di vista, la razio è un potere conoscitivo infe- 

riore all’inzellectus da cui dipende. Il dubbio e l’errore pos- 

sono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non nel- 

l’intuito fondamentale della verità. 


3) Tutti i caratteri che analogicamente attribuiamo a Dio 

sono contenuti nella verità dalla nostra mente intuita: 1) 

la verità rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere 

che è principio di se stesso; 2) la verità è necessaria ed im- 

mutabile; Dio, l’Essere necessario ed immutabile; 3) la ve- 

rità oltrepassa e trascende la mente umana; Dio, l’Essere tra- 

scendente; 4) la verità è creatrice di giudizi veri; Dio, l’Es- 

sere creatore; 5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Or- 

dine e la Perfezione assoluti; 6) la verità è essere, ciò che 

di essere è nella mente e nelle cose; Dio, l’Essere realissimo; 

7) la verità guida la mente alla conoscenza vera, suo fine e 

perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a un fine; 

8) la verità è l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è 

la Verità, il Soggetto intelligente infinito. 


4) Ormai possiamo dare alla prova la sua formulazione 


recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immu- 

tabili, assolute; l'ente intelligente, contingente e finito, non 

può creare nè ricevere dalle cose per mezzo dei sensi le ve- 

rità che intuisce; dunque esiste la Verità in sè necessaria, im- 

mutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra forma più 

propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 



132 Filosofia e Metafisica 






alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed asso- 

lute, che sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità im- 

mutabile, assoluta, trascendente che è Dio. 


La ragione giudica secondo i princìpi intuiti dall’intelli- 

genza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può met- 

tere in discussione, pretendere di dimostrare, la verità di 

quelle verità, fondamento della veridicità dei suoi giudizi. 

Intuite dalla mente, sono applicate dalla ragione; non ha 

senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o avrebbe po- 

tuto essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere 

la dimostrazione di quelle verità, fondamento della veridi- 

cità di ogni dimostrazione: sono fuori discussione, al di so- 

pra della dimostrazione razionale. Nè dimostrare l’esistenza 

di Dio « dalla verità » significa porre in discussione i prin- 

cìpi, punto di partenza fuori discussione. Per conseguenza, 

nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è impli- 

cata l’esistenza di Dio, in quanto la loro presenza è già pre- 

senza in immagine di Dio stesso. In questo senso si può dire 

che ogni qual volta la mente è presente alla verità che è in 

lei e di cui la ragione fa uso, è presente a Dio; dunque, pen- 

sare è pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto diretto ed im- 

mediato del nostro pensiero: Dio è l'al di là interiore, il 

Trascendente. Non il ragionamento o la dimostrazione fa 

che Dio esista, ma semplicemente constata che esiste: 2+2 

è uguale a 4 non che deve esserlo; Dio esiste, non che deve 

esistere. Più brevemente si può dire che dimostrare l’esisten- 

za di Dio è acquistare piena consapevolezza della nostra vita 

spirituale, dalla quale infatti muove l’argomentazione, la cui 

forza è nella proposizione «è presente alla mente umana 

qualcosa che è superiore ad essa, e alla ragione »; da qui la 

ragione argomenta. Dunque il processo razionale va dall’esi- 

stenza degli spiriti finiti e contingenti all’esistenza dello Spi- 

rito infinito e necessario; oppure dal soggetto pensante nel- 

l’oggettiva verità che gli è interiore e lo costituisce pensante, 

alla Mente infinita che è la Verità. Pertanto non si tratta 



L'esistenza di Dio 133 






di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio, ma dall’ente 

nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e neces- 

sario che lo fa essere ente pensante. 


D'altra parte, l’uomo pensa per la verità, oggetto naturale 

del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al 

pensiero è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conse- 

guenza, la « presenza » del pensiero è « compresenza » della 

verità; dove c’è pensiero c’è verità e viceversa; dove c’è pen- 

siero c'è dualità, il pensiero, che è tale perchè si illumina al- 

la verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso sia. La 

prima alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio 

dell’esplicitazione dell’implicito originario, di quell’unità pri- 

male, per cui anche la notte più densa della coscienza è sem- 

pre quella nella quale veglia la presenza di Dio. La notte si 

ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità che dal di 

dentro illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre 

più chiara e si rivela come presenza di Dio. C'è l’ente pen- 

sante, dunque c'è Dio: basta che vi sia un pensiero perchè 

sia implicata, come scrive Campanella, l’esistenza dell’ Asso- 

luto. In questo senso possiamo dire che c’è necessario pen- 

siero di Dio (per il fatto che esistono enti pensanti, Dio esi- 

ste) e possibile consapevolezza di Lui, effettiva, ogni qual 

volta il pensiero acquista coscienza di sè, cioè conquista la 

verità di se stesso, il senso della sua dipendenza dall’Essere 

creatore. Consapevolezza di Dio, affinchè l’argomentazione 

abbia rigore stringente e avvincente, è recupero integrale del 

sensus sui, del momento della robusta coscienza genuina, 

ignuda, pura di sofismi, vergine di menzogna: intelligenza 

della verità, che è senso dell’essere, il costituirsi dell’uomo 

nella sua genuina umana sostanza! 


« Chi pensa, pensa Dio»: al contrario « chi non pensa 

Dio, non pensa» perchè è assente all’oggetto naturale del 

pensiero, la verità. Non avremmo coscienza del nostro essere, 

se l’essere non fosse presente alla nostra coscienza; del nostro 

pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del no- 



134 Filosofia e-Metafisica 






stro volere, se il bene non fosse presente alla volontà: noi 

siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo 

chi si pone da questo punto di vita — cioè si colloca sul pia- 

no dell’essere — ha oltrepassato la posizione empirica e po- 

sitivistica, scientifica o storicistica, che sia, ed è già ben saldo 

in quella metafisica e della vita spirituale. 


Insistiamo: altro è l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, co- 

se distinte anche se non discordanti. Sapere Dio è conqui- 

stare l'intelligenza di Lui, che è prima della razio e anche 

senza di essa: la ratio trascrive in termini concettuali, tra- 

duce in discorso, che è appunto dimostrare sul fondamento 

dell’intelligentia. Il pensiero moderno ha voluto fare dell’esi- 

stenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto 

Dio: ne ha fatto un problema di « scienza », di conoscenza 

« scientifica », non uno di vita spirituale, d’« intelligenza », 

di verità. Dio per la pura ragione — quella del calcolo, dei 

nessi e rapporti — è un ente di ragione: il Dio del deismo 

è Ente razionale, in definitiva, la stessa Natura (Deus sive 

natura, dice Spinoza); quello del meccanicismo di Newton è 

Legge o Causa del mondo, l’Architetto dell’universo degli il- 

luministi; fino a quando, con lo Hegel, si risolve nel divenire 

stesso della vita della Ragione, che è tutto il Reale come spi- 

rito e come natura, per cui vita spirituale e realtà naturale si 

adeguano perfettamente in un cosmismo assoluto. Così Dio 

è perduto nè poteva non perdersi: la ragione, fatta essa 

tutta la verità, è priva dell’intelligenza di essa, veicolo a Dio. 

La ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo del- 

l’esperienza; attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li ap- 

plica alle cose di cui giudica: la ragione è « scientifica », este- 

riorizzante. Affinchè non sia solo questo è necessario Ché re- 

sti sempre unita all’intelligenza, imbevuta della luce della 

verità, in modo che con un occhio guardi nel mondo, e l’al- 

tro lo ficchi a fondo nella sorgente che la illumina e tutto 

illumina. Il problema di una filosofia che voglia essere revi- 

sione critica del pensiero moderno, è quello del recupero del- 



L'esistenza di Dio 135 






l’intelligenza, dell’intuito della verità che fa vera la ragione 

e ne è «al di là»; in altri termini, è il problema di oltre- 

passare la pura scienza, del riscatto dell’interiorità, della pro- 

fondità metafisica della mente. Bisogno di Dio è bisogno di 

un al di là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è 

risveglio dell’intelligenza che penetra oltre nessi e rapporti, 

luce di verità, sete di acqua sorgiva limpida e fresca: l’in- 

telligenza è sempre più giovane della ragione. Perciò la pie- 

na intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta, del santo, 

che, folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua per- 

sona — carne e ossa e sangue € spirito — come fusa in una 

unità incandescente e dinamica, che è slancio di azione, fe- 

condità di pensiero, accensione perenne dell’intelletto al fuo- 

co della verità. Ragione sì, anche; ma riempita d’intelligenza. 



8. — In interiore homine habitat veritas. 



Presenza, non immanenza della verità alla mente; se im- 

mane alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, 

la verità diventa un suo prodotto e non pone il problema del- 

l’esistenza della Mente assoluta, in cui il pensiero e il suo og- 

getto (la Verità) s’identificano, a differenza che nella mente 

finita: la mente umana si fa Dio essa stessa e perciò mente 

atea. Ma la riduzione della presenza ad immanenza della 

verità implica contraddizione, quella dell’idealismo trascen- 

dentale, specie della forma più matura e coerente di esso, 

che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è immanenza, 

verità e pensiero s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo 

stesso soggetto pensante nell’4to che pensa; il pensiero pensa 

se stesso. L’attualismo dice invece che pensare è mediare, ma 

la dialettica di pensiero pensante e di pensiero pensato 0 è 

un artificio, o è una contraddizione; infatti, o il pensiero 

pensante adegua il pensiero pensato e c'è immanenza, non 

mediazione, o non l’adegua e c’è trascendenza, non più im- 

manenza. 



136 Filosofia e Metafisica 






Presenza della verità alla mente dunque, e, nello stesso 

tempo, trascendenza, in quanto presenza è sempre dualità 

di pensiero e del suo oggetto intuito. Ora, se intuire la verità 

che è in noi è partecipare di qualcosa che ha caratteri divini, 

consegue che ogni qualvolta la mente cerca la verità, in fondo 

cerca Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro 

di sè un’immagine divina. D'altra parte, se la verità è inte- 

riore alla mente, in questo senso si può dire che Dio è in 

noi, che è in noi quella che è stata detta, forse imprecisa- 

mente, l’idea di Dio: alla nostra mente è presente un’im- 

magine di Lui, cioè la verità illuminante ed operante. Che 

non è Dio; e perciò la sua presenza accende il desiderio di 

Lui, Verità in sè che non conosciamo, stimola al possesso del 

Bene sommo, cioè all’unione con Dio. Infatti, il bene della 

mente è la conoscenza della verità: Dio è la verità assoluta; 

dunque alla mente adherere Deo bonum est (°). La pre- 

senza della verità in noi non è dato inerte, ma forza operante, 

stimolante, potenziatrice di tutta la vita dello spirito; orien- 

tatrice e unificatrice: l’oscura nozione della verità è il pre- 

sentimento di Dio; la stessa esigenza di verità è esigenza di 

Lui, come la prima verità scoperta è implicitamente la pri- 

ma scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è l’inter- 

mediario, le milieu, tra la mente finita creata e la Mente in- 

finita creante: l’uomo è unito alla verità che è in lui ed 

è perciò naturalmente, ma indirettamente, unito a Dio. Que- 

sta la sua condizione naturale. Da ciò consegue ancora: dato 

che oggetto e fine della mente è la conoscenza della verità, 

tutto il processo conoscitivo, dall’infimo grado al più ele- 

vato, anche quando l’uomo tende ad altro, è orientato a Dio, 

converge nella « scoperta » della verità, che coincide con la 

« scoperta » dell’esistenza di Dio, punto assoluto di conver- 



(5) S. Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente che il 

nostro processo 720 è dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una pro- 

duzione ideale nè un essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e non 



relativa; Egli è « Colui che è » e gli altri esseri sono per suo libero atto creativo. 



L'esistenza di Dio 137 









genza di tutta l’attività conoscitiva dell’ente pensante. O uni- 

ca filosofia è quella scettica — e perciò un’insormontabile e 

assurda contraddizione — o essa è capace di una sola verità 

e allora /a filosofia è sempre teistica, perchè teistica è l'intel- 

ligenza umana, la cui vita autentica è amore, attraverso la 

presenza della verità, della Verità in sè. Vi è in ogni ente 

pensante un teismo embrionale, in quanto gli è presente la 

verità, sia pure involuta o nascosta; vi è come un « pensiero 

compendiato », che si fa sempre più esplicito a mano a ma- 

no che lo spirito acquista coscienza della verità ad esso in- 

teriore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai la 

conoscenza piena della Verità assoluta, oggetto della sua 

suprema aspirazione ma sempre rivestito di «sacro miste- 

ro »; la Sapienza divina è mistero per la filosofia, non è filo- 

sofia. L’infinito di verità che alla mente manca, anche al- 

l’estremo confine della conoscenza, può esserle dato solo dal- 

la Rivelazione e dalla fede (6). L’uomo non è soltanto un 

essere razionale, ma intelligente e razionale; come intelli- 

genza è naturaliter teista. 



(6) F. BonatELLI, Pensiero e conoscenza, Bologna, 1864, p. 108. 



CapitoLo III 



CHIARIMENTI E COROLLARI 

DELLA PROVA «DALLA VERITA’ » 



1. — Dio Primo Vero assoluto. 



Vi sono verità che in nessun modo possiamo pensare che 

non siano vere: questa proposizione è il fondamento della 

prova, meglio di quell’aspetto di essa che sopra abbiamo svi- 

luppato. Il fatto che la ragione, malgrado la loro presenza, 

possa errare ed erri, non solo non prova nulla contro di 

esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle verità non fos- 

sero, non si potrebbe dire che la ragione sia capace di er- 

rore. Chi dice: «la ragione umana erra, s’inganna », sot- 

tintende: « perchè ha deviato dalla verità, se ne è allonta- 

nata »; dunque ammette la verità e, solo in quanto essa c’è, 

può rilevare che la ragione erra. L'affermazione: «la ra- 

gione umana erra e s'inganna, perchè tutto è errore ed in- 

ganno », non ha alcun senso: è soltanto uno sfogo passio- 

nale, un’insensatezza che, come tale, non interessa la ricer- 

ca filosofica. Essa significa: «l’uomo non può pensare altro 

che l’errore e l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma pensare 

il nulla di verità è non pensare, e se l’uomo non pensa non 

C'è più questione di errore, nè di verità. « Pensare il nulla », 

«l’assurdo », «il puro errore», «conoscere l’errore », ecc. 

sono espressioni senza senso, suoni verbali che non signifi- 

cano niente. 


D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare e l’ente 

pensante in ogni sua parte è contingente e finito, conferma 



L'esistenza di Dio 139 






che la verità, della cui conoscenza è capace, non è sua fat- 

tura: è stata data a lui, fatto capace di conoscerla. L'ente 

pensante è un dato; la verità che egli, contingente e finito, 

non può creare, è anch’essa un dato; ma se la verità in inte- 

riore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la verità 

in sè, il Primo Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero As- 

soluto o Dio; c) che di essa è il Principio: dalla verità creata 

in me alla Verità creante in sè; dal dato al Principio effi- 

ciente creatore: dalla mente finita alla Mente infinita; dal- 

l’uomo a Dio. Questa si può considerare un’altra formula- 

zione della stessa prova. 


Qui il termine principio ha il duplice senso di Principio 

esemplare e di Principio efficiente. La mia mente intuisce 

delle verità, che sono un’immagine vera e reale del Modello 

verissimo e realissimo o della Verità prima assoluta, ma non 

si tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine dell’al- 

bero che si riflette nello specchio d’acqua), bensì di un atto 

creativo efficiente che lascia nella creatura un’orma di sè, 

viva, operante ed illuminante, produttrice dell’attività razio- 

nale, cioè di verità seconde (i giudizi) che nascono dalle ve- 

rità prime, date all'uomo e da lui non create. L'immagine 

in me della Verità in sè non è rappresentativa bensì presen- 

tativa di Dio, non com'è nella Sua essenza, ma come può 

essere presente all’ente creato nello stato naturale. 


È invece rappresentativa la conoscenza razionale in quan- 

to lo è delle cose, rappresenta la loro essenza e i rapporti in 

termini concettuali: è conoscenza spettacolare, di ciò che 

sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è presentativo: 

l'intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla 

verità e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto 

non è di rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, 

ma di partecipazione a e di qualcosa che è dentro di me. 


La prova si fa sempre più chiara, ma nello stesso tempo 

più complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 



140 Filosofia e Metafisica 






2. — Il principio di causa e le due forme di astrazione. 



Nella formulazione data testè della prova abbiamo fatto 

uso del principio di causa, ormai legittimamente in quan- 

to si è dimostrato che l’ente pensante finito è capace di co- 

noscere verità oggettive, una delle quali è appunto il sud- 

detto principio, che, come ogni altro fondamentale del giu- 

dizio, è vero per se stesso e fonte di verità razionali (!). 

Come tale è già una presenza, per se stesso una attesta- 

zione, una testimonianza dell’esistenza di Dio; come prin- 

cipio di giudizio garantisce, solo perchè in sè vero, la veri- 

dicità di ogni dimostrazione razionale che su di esso si 

fonda e dunque anche di quella dell’esistenza di Dio. Ma 

nel contesto del nostro discorso il principio di causa ha un 

significato particolare. « Interiorità », « presenza » della ve- 

rità alla mente, implicita ed oscura quanto si voglia, signi- 

fica sentirsi dentro la verità che è in noi, viverla come vita 

e luce della nostra mente, esserne presi ed esser liberi nella 

sua presa. Partecipare consapevolmente di questa presenza 

è acquistare coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la con- 

sapevolezza della verità è già coscienza che vi è nella mente 

qualcosa di superiore ad essa: la verità è di per se stessa te- 

stimoniante. Pertanto il rapporto di causalità tra la Verità 

in noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è dimostra- 

tivo dell’esistenza di Dio, ma sulla base della capacità « pre- 

sentativa » di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri ter- 

mini, il rapporto di causalità di ordine razionale si esplica 

e riceve verità e forza dall’intelligenza, di cui fa parte, come 

verità originaria, lo stesso principio di causalità; l’argomen- 



(I) Resta da esaminare e provare se i princìpi fondamentali non siano im- 

plicati in un'unica intuizione primitiva. Tale approfondimento sarà fatto in altra 

sede, ma fin d'ora possiamo dire che i princìpi del giudizio sono impliciti nel- 

l’intuito fondamentale dell’Idea dell’essere, che intendiamo in un modo che non 

è più quello del Rosmini, anche se da lui ispirato. Successivamente alla prima 

edizione della presente opera abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: 

L’interiorità oggettiva, L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e 

immortalità, rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. 



L'esistenza di Dio 141 






tazione in base al suddetto principio dà forma razionale e 

dimostrativa al momento interioristico della presenza della 

verità alla mente, « presentativa » dell’esistenza di Dio. Per- 

ciò nella prova vi sono due momenti solidali e convergenti: 

a) prova come esperienza della presenza della verità, che è 

acquistare consapevolezza esplicita dell’« ospite celato e pre- 

sente », come dice il Blondel; 5) e prora come argomenta- 

zione dalla nostra realtà spirituale all’esistenza di Dio. 


Il principio di causa è 4 priori, non nel senso che ha per 

Kant, ma nell’altro che, come tutte le verità o princìpi pri- 

mi, è interiore a noi, intuito dalla nostra mente; dunque è 

già una conoscenza, sia pure inizialmente compendiata o im- 

plicita, una verità oggettiva e non una pura condizione sog- 

gettiva, anche se l’ priori di Kant è preteso come oggetti- 

vamente valido. Se è così, il principio di causa, come ogni 

altro fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideo- 

logica o ascendente, cioè astratto dalle percezioni sensoriali, 

in quanto ogni astrazione che l’uomo fa da queste presup- 

pone proprio i princìpi fondamentali come strumento di 

astrazione, dai contingenti finiti, di quanto hanno di uni- 

versale ed oggettivo. Tale astrazione ascendente, dai parti- 

colari a quel che le cose hanno di universale, non forma le 

verità prime e non potrebbe mai formarle — tanto è vero che 

ogni posizione empiristica prima o poi conclude al nomi- 

nalismo, all’agnosticismo, al fenomenismo — ma le trova 

formate e ne fa uso nel procedimento astrattivo. D'altra 

parte, esse sono prodotte e non dall'uomo, veri derivati e 

non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eter- 

no. Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stes- 

so: sono il prodotto, come ha dimostrato il Rosmini, non del- 

l’astrazione ideologica ascendente, ma dell’astrazione divina 

discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma di- 



(2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice precisamente 

« astrazione teosofica », espressione che noi non adoperiamo. Si potrebbe anche 

dire: astrazione logica ascendente e astrazione ontologica discendente. 



142 Filosofia e Metafisica 






scende in noi da Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe in 

interiore homine una presenza della Verità, ma la stessa 

Verità, non il divino, ma Dio stesso: il rapporto tra la ve- 

rità e la sua immagine non sarebbe analogico ma univoco; 

5) l’uomo sarebbe egli il Soggetto infinito della verità infinita, 

cioè Dio. Con l’astrazione discendente si spiega l’origine non 

umana delle verità primali che sono presenti alla nostra 

mente; con l’astrazione ascendente e sulla base di queste 

verità si conoscono le cose e si giudica della loro realtà o 

verità. Perciò noi non respingiamo quest’ultima, ma diciamo 

che essa, da un lato, presuppone l’astrazione discendente 

e, dall’altro, ha il suo campo di applicazione limitatamente 

al mondo esterno, cioè a quanto è oggetto di esperienza sen- 

soriale. Ma quel che importa è recuperare e far nostro il 

concetto di astrazione perchè è garanzia del rapporto ana- 

logico tra Dio e la mente finita e dunque baluardo contro 

l’ontologismo e il panteismo. 



3. — La verità presente alla mente è appartenenza di Dio 

senza essere Dio. 



Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre parzialmente, 

contiene di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza 

ideale, dunque sempre mancanti della sussistenza reale. Per- 

ciò noi misuriamo, « giudichiamo » la verità o il grado di 

realtà di ogni ente finito, senza che nessuno e tutti insieme 

adeguino la verità che è in noi; dunque, la verità dalla 

mente intuita non trova in nessuna cosa esistente la sua 

adeguata sussistenza e resta sempre un oggetto ideale astratto. 

Ma se c’è nella mente creata una presenza della verità asso- 

luta e necessaria senza che alcuna cosa esistente, l’uomo com- 

preso, perchè contingente e finita, possa essere la sua sussi- 


(3) Evidentemente si parla di « astrazione » da parte di Dio in senso ana- 

logico: qui il termine non vuol significare l’operazione propria dell’uomo — 

assurda se attribuita a Dio — di astrarre l’universale dal particolare, ma l'atto 



creativo con cui Dio dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata, non è 

più la verità come è in Lui, anzi la Verità che Egli è. 



L'esistenza di Dio 143 









stenza, consegue che esiste un Essere assoluto che, come tale, 

è il Soggetto della Verità assoluta. In questo senso le verità 

primali che la mente intuisce sono un’appartenenza di Dio, 

il « divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque opera 

dell’Intelligenza divina. Non Dio, assolutamente: la Verità 

in sè contiene infinitamente più perfezioni di quante possiamo 

attribuire alla verità che è in noi e le stesse perfezioni da noi 

conosciute le contiene senza limitazioni, distinzioni e in grado 

eminente. Noi non possiamo conoscere di Dio, se non per 

mezzo della Rivelazione, più di quanto ci fa conoscere la 

verità intuita: gli attributi di questa, per analogia, li predi- 

chiamo anche dell’Essere assoluto (°). 


Noi sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso 

di sapere e per quanto ha voluto che fosse presente alla 

nostra mente. În questo senso, ripetiamo, si può dire che 

l’Idea di Dio è in noi €, se in noi non fosse, non ci po- 

trebbe mai venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la 

verità, immagine della Verità in sè, intermediario che ci 

unisce a Lui. L’idea di Dio è in noi come derivata da Dio 

stesso, che è dire: le verità prime sono in noi come derivate 

dalla Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura 

implicata involuta quanto si voglia, è interiore alla mente, 

perchè interiore le è la verità che la illumina, la fa pensare, 

conoscere e giudicare di ogni cosa. Pertanto la proposizione, 



(4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si unisce il soprannaturale alla 

natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a proposito del Rosmini, di non 

capire o di non voler capire. 


(5) Dio, la Perfezione assoluta, possiamo definirLo solo negativamente. 

Omnis determinatio negatio est; dunque Dio, assoluta Perfezione, è al di là 

dell’atto definitorio della iogica della determinazione astratta o del definire esclu- 

dendo. In questo senso, come scrive Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò 

che si predica del finito (Età. I, Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito 

che Egli è l’indeterminato per eccesso e non per difetto: essere infinito e per- 

fettissimo, è l’Essere, non, però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio 

è fuori della serie degli esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è 

« l’analoguant createur » (N. I. I. BartHasar, Mon moi dans l'étre, Louvain, 

1946, p. IX). E’ l'Ipse suus actus essendi irreceptus, cioè non ricevuto in una 

essenza specifica; la sua essenza è l'atto di essere e dunque ia sua perfezione non 

ha limiti: indeterminato perchè senza limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 



144 Filosofia e Metafisica 






nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, è 

valida per tutte quelle conoscenze che non possiamo avere 

senza il concorso di similitudini sensibili, non per quelle 

verità primali che intuiamo direttamente e che, se non fos- 

sero in noi, non potremmo mai ricevere da alcuna specie 

sensibile. Per conoscere un oggetto particolare è necessaria 

l’esperienza sensoriale; per giudicare di questa o quella cosa 

è necessario ancora che preceda l’esperienza della cosa giu- 

dicanda; ma per conoscere i princìpi primi, che fondano la 

validità di ogni giudizio e rendono possibile la conoscenza 

riflessa delle cose particolari, non è necessaria esperienza 

alcuna, in quanto sono interiori alla mente, da essa intuiti, 

di essa lume; meglio è necessaria l’esperienza interiore. Ora 

è proprio questo lume di ogni conoscenza, fondamento di 

ogni altra verità, questo naturale iudicatorium, che si dice 

presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui unisce sine ad4- 

miniculo sensuum exteriorum (°). 



4. — Critica costruttiva del principio di causa. 



Da questa conclusione possiamo trarre lumi per ulteriori 

considerazioni sul principio di causa. 


E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali 

si servono del principio di causa — da un effetto alla sua 

causa fino alla causa ultima non causata — fanno come 

quel tale che va in giro tutto il giorno con una vettura da 

nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia sulla soglia. 

Secondo l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa 

non causata si serve del principio di causa fino ad un certo 

punto, poi lo abbandona, come chi licenzia la vettura sulla 

porta. In altri termini, il principio di causa è valido fino a 

quando si risale da effetto a causa, ma non quando si arriva 

(o si postula) ad una causa che non rimanda ad altro; cioè 

è valido per il mondo dell’esperienza e non per ciò (Dio) 



(6) S. Bonaventura, Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39, a. I, q. IL 



L'esistenza di Dio 145 






che trascende l’esperienza. Sotto l’obiezione dello Schope- 

nhauer c’è la critica di Kant all’argomento cosmologico. Tale 

osservazione ha per noi scarsa importanza, dopo il chiarimento 

dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della prova 

e dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si li- 

cenzia la vettura, del resto non presa a nolo, sulla soglia di 

casa, ma si entra in casa con essa, anzi si è già in casa, in 

quanto l’effetto è presenza del Principio da cui è. L’esemplari- 

smo ci consente di scoprire nella realtà spirituale l’immagine 

(effetto) del Principio primo; perciò conoscere me è cono- 

scere Dio come posso conoscerlo nel mio stato attuale: zove- 

rim me, noverim te, dice Agostino. 


Ma anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando 

diciamo che la dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla 

vita dello spirito (di cui fino ad ora abbiamo considerato solo 

l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da quell’essere contin- 

gente che è l’ente pensante finito avente un contenuto, og- 

getto d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. 


L’intuito o l’intelligenza di queste verità, che non sono 

perchè io le penso, ma, al contrario, io penso perchè esse 

sono e mi illuminano; la coscienza di questo contenuto del 

mio pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa esi- 

stenza, non da esso posto o creato e perciò suo oggetto, questo 

è il punto da cui muove la dimostrazione dell’esistenza di Dio 

« dalla verità ». Non dunque solo dal mio pensiero contingente 

e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità immuta- 

bili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; 

dall’ente « pensante », ma che è tale in quanto intuisce un 

« pensato » oggettivamente valido, che egli non crea e non 

giudica, ma da cui è come creato quale pensiero; dunque la 

prova muove « dalla vita dello spirito » nella sua pienezza, 

che governa secondo verità immutabili ed universali la sua 

attività intellettiva e morale. 


L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di verità se 

mossa ad un determinato uso del principio di causa e preci- 



146 Filosofia e Metafisica 






samente a quello che chiamiamo «cosmologico » o anche 

« scientifico »; infatti, la causalità in questo senso è uno dei 

princìpi di cui la ragione si serve per intendere (giudicare) e 

unificare il mondo dell’esperienza. Come verità oggettiva, 

invece, al pari delle altre primali, essa è una presenza in noi 

della verità e, come tale, valida come punto di partenza per 

dimostrare l’esistenza di Dio. Allora non il processo causale, 

applicazione che la ragione fa di esso ai fenomeni di espe- 

rienza, per se stesso porta a Dio — in tal caso è valida l’obie- 

zione dello Schopenhauer —, ma il principio di causa in se 

stesso, come puro principio, presenza di verità in noi. Biso- 

gna distinguere tra il principio di causa in se stesso e la sua 

applicazione. In altri termini, il processo causale è un nesso 

di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato all’esperienza; 

il principio di causa in se stesso, invece, è un dato intuito, 

la cui presenza è presenza di verità in noi: come tale — e 

come ogni altra verità primale — è punto di partenza per 

dimostrare l’esistenza di Dio. 


Kant, che ne fa una pura condizione del conoscere, deve 

necessariamente limitarne la validità all’esperienza e negare 

per conseguenza che esso sia applicabile al di là di essa e 

dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio. Ma in que- 

sto modo Kant, come lo Schopenhauer, « criticano » soltanto 

l’uso che la ragione fa del principio di causalità negando che 

possa essere esteso al di là dei dati dell’esperienza sensoriale. 

Certo, se il principio di causa è inteso nel suo primo signi- 

ficato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa in questo 

senso è un fenomeno che precede e condiziona un altro feno- 

meno che è a sua volta preceduto e condizionato da un altro 

ancora; è di questa causalità che lo Hume aveva negato la 

oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e necessario da nulla 

preceduto e condizionato, cioè è fuori della serie dei feno- 

meni e di ogni serie, fuori dello spazio e del tempo; perciò 

in questo senso non è causa dell’Universo, ma Principio as- 

soluto, diverso dalle cause del mondo fenomenico, cause a 



L'esistenza di Dio 147 






loro volta causate. Resta l’altro problema del principio di 

causa in se stesso, cioè della « verità » oggettiva di esso, che 

la «critica» ignorò per difetto di critica. Ora proprio la 

« verità » del principio in sè — non la sola sua applicazione 

o il processo di unificazione dei fenomeni — pone il pro- 

blema dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della 

sua soluzione. A Kant resta il merito di aver dimostrato, 

contro, la metafisica scientista e geometrizzante del raziona- 

lismo moderno, che il principio di causa, considerato nel 

suo uso scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare 

l’esistenza di Dio, in quanto o Dio resta inserito nella serie 

dei fenomeni e non è più Dio, o ne è fuori e non si dimostra 

con il solo uso del principio che viene infatti, come dice lo 

Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che il pro- 

blema di Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, 

che è problema puramente gnoseologico : Dio è al di là della 

unità dell'esperienza. Se noi Lo identifichiamo con il tutto 

dell’esperienza cadiamo in una forma di panteismo o di 

deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della 

metafisica razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e 

degli stoici) da Cartesio a Wolff: Dio principio unificante la 

esperienza, architetto del « mondo ». Di qui la identifica- 

zione di Dio con la Causa o la Legge, con la Ragione uni- 

versale; ma questo è il problema della causa cosmologica non 

quello del Principio teologico. 


Dal nostro punto di vista, la questione s'imposta diversa- 

mente: non dal processo causale (di causa in causa) a Dio 

Causa prima, ma dal principio in sè di causa, verità diretta- 

mente intuita, a Dio. La consapevolezza della presenza della 

verità è chiarimento dello spirito a se stesso, è toccare la 

sua interiorità profonda, che, conquistata, è è testimonianza di 

Dio, del Principio di verità e di ogni verità; poi la ragione 

argomenta e rende esplicito il rapporto di causalità, e la pre- 

senzialità si fa dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso 

diverso da quello che ha come legge dei fenomeni. Per con- 



148 Filosofia e-Metafisica 






seguenza crediamo che l’espressione « Dio-Causa prima » sia 

impropria e generi equivoci; meglio dire « Dio-Principio ». 


Dio non è causa, ma Principio anche del principio di causa, 

« verità » dalla mente intuita, come è Principio dell’ordine di 

causalità che regola i fenomeni di esperienza (7). 


Il mondo, più che effetto, è creatura di Dio; il concetto di 

effetto non traduce affatto la pregnanza di significato di quello 

di creatura, come il concetto di causa, così legato all’altro di 

serie, non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò 

che è nell’ordine dell’essere limitato o creato. Dire che Dio 

è Causa di se stesso importa la difficoltà di concepire una 

Causa in sè, indipendentemente dall’effetto e da ogni effetto, 

tranne che non si stabilisca un rapporto necessario tra Dio- 

Causa e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci 

consente di porre l’esistenza di Dio come problema di ordine 

metafisico, al di là del piano delle scienze sperimentali e 

matematiche. Dio non è causa esplicativa del mondo, sia 

pure causa ultima o prima spiegante il movimento o altro, 

quasi integrazione o prolungamento della conoscenza scien- 

tifica; è solo il Principio (e la ragione anche) di ciò che 

esiste: ciò che esiste si svolge nel suo ordine come se Dio non 

esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non fosse; infatti, 

esiste in quanto è il Principio creatore di tutto ciò che esiste. 

In breve, il concetto di causa appartiene all’ordine dei feno- 

meni: Dio invece è l’Essere, la ragion d’essere creatrice di 

tutto ciò che è. 


Il progresso della scienza, da questo punto di vista, non 

interessa il problema dell’esistenza di Dio, nè questa rende 

superflua o sostituisce la spiegazione scientifica; il metodo e 



(7) Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di Dio Causa prima non 

causata, anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale dei termini. Per evitare 

equivoci non diciamo neppure che Dio è causa sui, in quanto ciò potrebbe im- 

portare in Lui un assurdo « prima » e « poi ». Dio è Principio assoluto e solo 

per analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G. 

‘Capone Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî 

Cristiani di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. 



L'esistenza di Dio 149 






l’oggetto della metafisica non sono quelli della scienza e 

viceversa. La preoccupazione di tanti volonterosi di « armo- 

nizzare » metafisica e scienza — e, peggio, fede e scienza — 

è una forma di «irenismo » senza senso e pericolosa. Dal 

nostro punto di vista il principio di causa, più che risolutore 

del problema dell’esistenza di Dio, è esso stesso un dato che 

pone il problema dell’origine di se stesso come verità primale 

presente alla mente; ma, appunto perchè tale, esso è un 

dato che attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra parte, 

serve alla ragione per argomentare dalla verità presente alla 

mente all’esistenza della Verità in sè. In altri termini, la 

ragione dimostra l’esistenza di Dio in quanto lo spirito è 

capace di Dio: la mente che intuisce la verità attesta e de- 

sidera Dio. L'amore di sì come mente nella verità e l’amore 

di Dio come Verità assoluta non sono esteriori, ma l’uno 

all’altro interiori. 



5. — Il non senso dell’ateismo. 



Se così, è possibile affermare razionalmente che Dio non 

esiste ? 


Affermare razionalmente significa giustificare secondo ra- 

gione: si può giustificare l’affermazione « Dio non esiste » ? 

Se la domanda ha un senso non può significare che questo: 

l’affermazione « Dio non esiste » è un giudizio oggettivamente 

valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi oggettivamente 

validi senza princìpi assoluti su cui si fonda la loro validità 

oggettiva; ma la presenza di questi princìpi è proprio il 

fondamento della dimostrazione dell’esistenza di Dio; dunque, 

dire che il giudizio « Dio non esiste » è oggettivamente 

valido è una contraddizione nei termini, in quanto se la 

ragione è capace di un solo giudizio di tal fatta, ciò basta 

perchè argomenti l’esistenza di Dio e non possa più ne- 

garla. Esattamente S. Bonaventura osserva (*) che, anche la 



(8) Commento alle Sentenze, d. VII, p. I, a. I, q. II. 



150 Filosofia e Metafisica 






negazione di ogni verità fa ugualmente impensabile la ne- 

gazione dell’esistenza di Dio. Infatti, chi dice « non esiste 

verità » pone come assolutamente vera questa affermazione 

e dunque ammette qualcosa di oggettivamente vero; ma 

non vi può essere un solo giudizio vero e una sola verità 

senza che si ammetta esistente la Verità in sè, in quanto 

ogni vero è tale per la verità. Chi dice « Dio non esiste » e 

considera quest’affermazione come assolutamente vera, con 

ciò stesso afferma l’esistenza di Dio: anche chi nega che 

Dio esiste afferma Dio. Ma egli è convinto di essere ateo; 

benissimo: non vede la contraddizione, non si accorge che 

la sua negazione è l’affermazione senza senso di pensare 

l’impensabile: s’illude di pensarlo; l’ateo appunto è l’inst- 

piens, colui che non sa quel che dice, l’insensato. Dio è pre- 

sente alla nostra mente, interiore alla nostra vita spirituale: 

negare la sua esistenza è atto irrazionale, in quanto la ra- 

gione attua la sua capacità conoscitiva e giudicatrice perchè 

la verità è presente alla mente, cioè proprio per la presenza 

di Dio in noi; dunque, non può « razionalmente » dubitare 

di ciò che la rende capace di giudizi veri e la libera dal 

dubbio. Assurda la sua pretesa di giudicare la verità, fonda- 

mento di ogni suo giudizio vero e dunque quella che la 

giudica e non viceversa: alla ragione non spetta giudicare 

se i veri intuiti dalla mente siano tali, ma solo usarne per 

pronunciare giudizi veri. Come già abbiamo detto, dimo- 

strare Dio non significa farlo esistere, ma semplicemente 

passare dal sapere originario alla conoscenza discorsiva pro- 

pria della riflessione. La ragione che nega Dio si mette 

contro la verità intuita, cioè contro il fondamento di ogni 

giudizio vero, contro se stessa, si contraddice; non nega Dio, 

nega se stessa nell’errore: insipientia. 


In breve, non è ragionevole negare l’esistenza di Dio; an- 

che se la ragione costruisce un discorso negativo in tal sen- 



L'esistenza di Dio 151 






so, la forza di tale ragionamento è nulla, puramente appa- 

rente: la coerenza formale è vuota della verità che sostanzia 

ogni vero procedimento logico. La sua apparente logicità è 

sostanzialmente irragionevole; discorso che, mancando di 

razionalità intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo estrin- 

secamente o verbalmente razionale: l’ateismo non volgare è 

insensatezza sottile. Spesso si nega l’esistenza di Dio perchè 

non si riesce a penetrarne l’essenza, quasi per uno stolto ed 

irragionevole « dispetto » della ragione diabolicamente su- 

perba: «Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti nego; 

dico che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu 

non esisti». Lo stesso atteggiamento può determinare il 

fideismo assoluto: « Tu sei l’Oscuro e l’Assurdo e perciò 

credo che tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo 

irrazionale che spinge la ragione, uccidendola, a compiere 

lo sforzo innaturale di rendere «lucido » l’oscuro, di misu- 

rare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione della ra- 

gione si risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella 

sua distruzione. 


Allora, non ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non 

sanno quello che dicono. L’ateo è colui che pensando che 

Dio non esiste, in realtà non pensa: fa uso dei princìpi di 

verità senza consapevolezza alcuna della loro profondità me- 

tafisica. La sua è affermazione puramente verbale: egli pro- 

nuncia parole che non hanno senso e di cui non si rende 

conto; le dice, ma ad esse non può dare il suo assenso, in 

quanto non può assentire alla contraddizione e all’assurdo: 

il «sì», non dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è 

anch'esso verbale. « Sarei molto curioso di vedere qualcuno 

che fosse persuaso che Dio non c’è: almeno mi direbbe la 

ragione invincibile che l’ha saputo convincere » (La Bruyère). 

L’ateo si trova in una strana situazione: afferma che Dio 

non esiste e non può dare un ragionevole assenso a questa 

affermazione. Si può dire che la superstite  « ragionevo- 



152 Filosofia e Metafisica 






lezza » del negare l’assenso lo salva in parte dall’assurda 

«razionalità » irragionevole del suo ateismo (7). 


L’ateo, l’insensato che fa la ragione giudice della verità 

invece di usarla per giudicare secondo verità, capovolge lo 

ordine del pensiero, sottomette la verità alla ragione; una 

volta che lo schiavo crede di essere diventato padrone non 

sa più dove vada: perduto il criterio del giudizio, si perde 

nell’errore e nell’insensatezza. 


Conclusione: se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe 

neppur pensare che non esiste, in quanto non penserebbe 

nulla. In questo senso pensare è pensare che Dio esiste; « io 

penso, dunque Dio esiste », scrive ancora La Bruyère, in 

quanto la mente pensa perchè Dio esiste (!9). 


Da quanto abbiamo detto risulta che la dimostrazione 

dell’esistenza di Dio o la sua negazione è questione, dal 

punto di vista logico, di uniformità o disformità della ra- 

gione alla o dalla verità; la verità regola il buon uso della 

ragione, non viceversa. Nella ricerca, guidata dalla verità, 



(9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti sotto il titolo Existence de Dieu 

(Paris, 1910), nota acutamente che quelli che sono o credono di essere atei testi- 

moniano in favore dell’esistenza di Dio; infatti, ci aiutano a rendere sempre più 

pura la nostra concezione di Lui, a liberarci delle rappresentazioni grossolane o 

infedeli: 


Ces douteurs ont frayé la route 


Et sont si grands sous le ciel bleu 

Que, désormais, gràce è leurs doutes, 

On peut enfin affirmer Dieu. 


(10) Con la prova da noi sostenuta, di evidente ispirazione agostiniana, ha 

punti di contatto quella del Rosmini: l’idea dell’essere illimitato ed immutabile, 

intuita dalla mente limitata e mutevole, non può essere prodotta dalla mente 

stessa, la riceve come l’oggetto primo che la fa intelligente; vi è pertanto in 

noi un effetto non prodotto da noi nè da alcuna causa finita; dunque esiste 

una Mente infinita, necessaria ed eterna. (Nuovo Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 

797). Rosmini argomenta così perchè la sua idea dell'essere non è la forma 

a priori di Kant. Conoscere è giudicare, anche per lui: ma vi è un sapere 

intuitivo fondamentale che non è giudizio, e garantisce la validità di ogni cono- 

scere giudicativo. Nei nostri scritti successivi, già citati, abbiamo fuso la prova ago- 

stiniana’ con. quella del Rosmini attraverso un approfondimento del « principio 

di verità » e di quello dell’« essere come Idea », per cui è necessario integrare 

quanto si legge in queste pagine con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto 

ed essere, III ediz., pp. 124-134. 



L'esistenza di Dio 153 






la presenza di questa è presenza dell'immagine di Dio, cioè 

di un dato che testimonia del suo principio: nella stessa di- 

mostrazione dell’esistenza di Dio è presente quella verità la 

cui presenza rimanda al suo principio. Si può dire che la 

dimostrazione scaturisca da tutto il processo del pensiero, 

da ogni momento del suo svolgimento. Se conoscere signi- 

fica acquistare una sempre più chiara consapevolezza del 

grado di verità di cui la mente umana è capace, il processo 

del pensiero è processo di consapevolezza dell’esistenza di 

Dio: ogni verità scoperta è aztestazione della sua esistenza 

e punto di partenza per la dimostrazione razionale. La 

originaria oscura nozione di Dio si fa sempre più chiara a 

mano a mano che il pensiero acquista coscienza della verità 

e ad essa uniforma l’attività intellettiva: il suo destino di 

verità si precisa sempre più nettamente come desiderio di 

Dio. La vita intellettiva dell’ente creato e finito è itinerario 

dalla verità in noi alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio in sè. 

La presenza dell’uomo a se stesso lo è dell’uomo alla verità 

che gli è interiore ed infinitamente lo trascende. 


Vi è in lui il segno di qualcosa che è più di lui e perciò 

l’uomo più di ogni altro ente porta in sè i segni manifesti 

del suo Principio. 



6. — La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve- 

ritas » e «ratio ». 



L’internità della verità alla mente al tempo stesso che 

garantisce la validità oggettiva della prova dell’esistenza di 

Dio precisa nettamente i compiti e i limiti della ragione, che 

non « pone » la verità, ma argomenta sulla base della verità 

« posta », « data » alla mente: giudica di ogni cosa con cui 

l’esperienza la mette in contatto, in quanto le sono dati i 

mezzi per conoscere e giudicare secondo verità. Vi è un 

nucleo essenziale di verità che l’uomo non si dà da sè e 

che, illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo fa ca- 



154 Filosofia e Metafisica 






pace di conoscere quanto appartiene all’ordine della realtà 

creata e finita. Vi è, d’altra parte, una verità opera del- 

l’uomo, la conoscenza del mondo dell’esperienza, che la 

ragione è capace di costruire solo perchè poggia su un fon- 

damento che la trascende. Tale verità essenziale, originaria 

ed orientatrice di tutta la vita intellettiva dell’ente razio- 

nale creato, è presente alla mente e direttamente intuita da 

essa, che ne ha inzelligenza; è in noi la presenza illumi- 

nante ed operante di Dio. Per conseguenza, la verità intuita, 

fondamento di ogni conoscenza riflessa o di ogni giudizio, 

è indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimo- 

strazioni. Senza la sua presenza, che è presenza indiretta 

di Dio, il movimento stesso del pensiero sarebbe incompren- 

sibile ed inspiegabile: esso è originariamente mosso dalla ve- 

rità che è in lui verso la Verità che lo trascende. La ragione 

è chiamata a seguire questo movimento intellettivo dalla pre- 

senza interiore della verità alla Verità in sè, a inserirsi nella 

verità che fonda i suoi giudizi, ma appunto perchè li fonda, 

è ad essi e alla ragione anteriore: la presenza indiretta di 

Dio in noi è prima della dimostrazione della sua esistenza 

per concatenazione di concetti. Lo spirito tende alla Verità 

in sè sollecitato dalla verità in lui presente; tende a Dio che 

è in lui, ma che non gli è noto e perciò Lo cerca e ne 

dimostra l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile per- 

chè nello spirito è presente tutto ciò che la rende possibile, 

ciò di cui la ragione si serve per argomentare rettamente. 


È evidente che i due termini veritas e ratio vanno tenuti 

ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili 

dalla mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento 

di questi princìpi che la trascendono, stabilisce nessi e rela- 

zioni. La ragione è il lume delle cose in quanto è essa che 

le giudica, ma è /ume illuminato dalle verità intelligibili, 

che le consentono appunto di illuminare e giudicare ogni 

cosa (di fare che il mondo sia « esperienza »), tranne gli intel- 

ligibili stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso, 



L'esistenza di Dio 155 






è la verità che la trascende e la mette in grado di stabilire 

relazioni e nessi; la ragione cerca l’intelligenza della verità. 

Pertanto: 4) essa non potrebbe niente dimostrare — e dun- 

que neppure l’esistenza di Dio — se nulla di vero o di intel- 

ligibile la illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse per- 

chè la verità, indipendente da essa e dalla quale essa dipen- 

de, la illumina; c) dunque, la ragione non fa esistere Dio, 

ma solo dimostra che non può non esistere, in quanto è as- 

solutamente irragionevole che non esista e assolutamente ra- 

gionevole che esista. Per conseguenza anche se la dimostra- 

zione risultasse imperfetta a causa della ragione mutevole e 

finita, ciò non infirmerebbe la verità dell’esistenza di Dio. 

La concatenazione dei concetti può essere incompleta ed im- 


rfetta, perchè tale è l’umana ragione, ma non può mettere 

in dubbio l’esistenza di Dio, per il semplice motivo che la 

stessa dimostrazione imperfetta — ma sempre contenente 

una qualche verità — non vi sarebbe se Dio non esistesse 

e non illuminasse. 


Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, 

distingue tra « ragione » e «lume della ragione »: la prima 

è l’attività che ha come «oggetto » l’idea dell’essere, che è 

appunto suo lume. Questa distinzione va approfondita (l’ap- 

profondimento è nostro e non va attribuito al Roveretano) 

perchè chiarisce, ci sembra, un punto fondamentale del no- 

stro discorso. 


Comunemente diciamo, retaggio dell’intellettualismo gre- 

co e del razionalismo moderno, che il « senso è del parti- 

colare » e la « ragione dell’universale »; il « senso è del con- 

tingente » e la « ragione del necessario », ecc. Queste espres- 

sioni non significano affatto che il senso è particolare e la 

ragione universale: non solo quest’ultima, ma anche il senso 

«è la cosa meglio distribuita »; non solo «la facoltà di ben 

giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propria- 

mente quel che si chiama buon senso o ragione) è natural- 

mente uguale in tutti gli uomini » (Descartes, Discours de 



156 Filosofia e Metafisica 






la méthode, p. I), ma lo è anche la facoltà di sentire, an- 

ch’essa naturalmente uguale in tutti gli uomini. Da questo 

punto di vista, il senso, come facoltà comune a tutti gli uo- 

mini, è altrettanto universale come la ragione o l’intelli- 

genza. Per conseguenza, la particolarità e la contingenza 

della sensazione e l’universalità e la necessità del giudizio 

non dipendono dal senso o dalla ragione in quanto tali, ma 

dal diverso oggetto che è proprio di ciascuna delle due fa 

coltà; in altri termini la ragione è universale, capace di giu- 

dizi universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio 

la fa tale, cioè perchè illuminata dalla verità. Dunque, la 

universalità e la necessità del conoscere razionale non sono 

date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità che è suo 

oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si pri- 

vasse da se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere univer- 

sale e necessaria come organo conoscitivo. Non vi è un rap- 

porto gerarchico tra senso e ragione, questa superiore al- 

l’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel che 

è oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concre- 

tezza e sinteticità dell’atto spirituale dove sono presenti, en- 

trambi si coordinano e si subordinano alla verità illumi- 

nante. Non la ragione, ma il suo oggetto è vero. Da ultimo 

se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe più 

verità, sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e sog- 

gettiva al pari del senso, pur restando «la cosa meglio 

distribuita ». Ciò spiega perchè l’idealismo trascendentale si 

può sempre convertire in forme estreme di empirismo e scet- 

ticismo. 



7. — Partecipazione iniziale e finale. 



Vi è una verità primale presenze all’intelligenza fondante 

la veridicità dei giudizi della ragione; dunque l’uomo è 

creato con e per la verità, dove il «con» indica la parte- 

cipazione iniziale — è dalla verità — e il « per» il fine: 



L'esistenza di Dio 157 






cercare la verità nella vita temporale per fruirne nella vita 

eterna; dunque, la verità guida il pensiero e, guidandolo, 

fa che esso la trovi e trovi, salvi, se stesso: itinerario filo- 

sofico con meta religiosa. Vi è dunque una partecipazione 

iniziale ed una partecipazione finale dell'ente intelligente 

creato dalla e per la Verità creante; vi è una sua contingenza 

essenziale per il fatto stesso che è partecipante della verità, 

ma non è /a Verità, la contingenza della mente creata, che 

è per la Mente assoluta increata. Non una soltanto di ordine, 

diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma an- 

che e innanzitutto di ordine ontologico, del nostro essere: 

siamo enti perchè l'Ente ci fa essere. Ci pensa e ci fa essere; 

come esseri e per quanto abbiamo di essere abbiamo di verità, 

e la verità che siamo è il nostro grado di essere: ciò che è 

vero È, e ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere 

principiato implica l’esistenza di Dio. 


Ma io posso pensare di non-essere e il Non-essere, ed iden- 

tificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il 

Non-essere e il mio non-essere è implicato il mio essere, 

altrimenti non potrei pensare il Non-essere e me come non- 

essente; dunque, in quell’atto è dato il mio essere, un essere, 

ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esi- 

ste, esiste l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente 

è indipendente e allora ogni ente è #n essere assoluto in- 

dipendente, ciò che è assurdo perchè non ci sono più 

esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipen- 

dente; o l’ente dipende da altro per esistere e allora, ba- 

sta che esista l’ente finito, perchè esista Dio come Essere 

assoluto indipendente. Il problema dell’esistenza di Dio 

è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro cono- 

scere, ma a zutto il nostro essere: l’uomo può scartarlo o 

evitarlo solo evitando o scartando se stesso, tanto tale pro- 

blema è radicato in lui ed egli in esso. Ora, se la parte- 



(11) Superfluo avvertire che questa espressione è differentissima dall’altra 



hegeliana: « ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale », del resto 

già da noi criticata. 



158 Filosofia e Metafisica 






cipazione iniziale e finale all’Essere fa che l’ente creato non 

sia l’Essere ma dal e per l’Essere, fa anche che esso non sia 

estraneo alla Verità o all’Essere nè l’Essere a lui, ma si avver- 

ta nell’Essere, avvertendo, nello stesso tempo, che vi è in- 

commensurabilità e solo analogia tra l’ente partecipante del- 

l’Essere e l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel 

senso da noi usato, importa contemporaneamente attrazione 

e repulsa; l’ente finito è come attratto e respinto dall’Essere 

infinito: attratto perchè è 44 e per l’Essere, respinto perchè 

non è l’Essere. Partecipazione significa distinzione e diver- 

sità da ciò di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente finito 

diverso da Dio, è perchè è da Dio: l’abisso che lo divide è 

contemporaneamente il ponte che lo unisce a Lui. Ma allora 

il problema dell’esistenza di Dio non è tanto quello di co- 

noscere se Dio esiste, quanto l’altro di sapere che l’uomo 

esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste. 

Le due formule sono ben diverse: la prima — « conoscere 

se Dio esiste » — implica la possibilità del conoscere anche 

se Dio non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di 

fronte al quale la ragione si pone giudicante come di fronte 

ad una cosa di esperienza: è la posizione dell’estrinsecismo 

razionalistico o «scientifico» dei «razionali non ragione- 

voli ». L’altra formula, la nostra — sapere che l’uomo esi- 

ste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste -— im- 

porta invece: 4) un «sapere», che è più del puro cono- 

scere, in quanto è coscienza piena e completa di tutto l’uo- 

mo; ) una dipendenza iniziale e finale dell’ente integrale 

che sa di pensare ed essere perchè Dio esiste; c) l’impossi- 

bilità di esistere e pensare un solo istante se Dio non esi- 

stesse; d) la partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, 

per cui non è di fronte a Dio, ma, come può esserlo l’ente 

finito, in Dio ed Egli in lui. Per conseguenza, il problema 

dell’esistenza di Dio non è di «conoscere se », ma di « sa- 

pere che », cioè di acquistare consapevolezza della dipen- 

denza iniziale e finale, della partecipazione interiore, per cui 



L'esistenza di Dio 159 






si è in Dio: si conoscono le cose esterne, fuori di noi; si 

sanno le cose che sono in noi e noi in esse: perciò si sa 

che Dio esiste. 


« Essere in Dio » non significa, evidentemente, identifi- 

carsi con Lui o essere della Sua stessa natura, ma sapere di 

essere perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa perchè 

Dio ha illuminato ed illumina. Dimostrare la sua esistenza 

significa, dunque, acquistare coscienza della nostra dipen- 

denza ontologica, sapere che noi siamo, viviamo, pensiamo 

e vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a Lui. La 

dimostrazione non ci sta davanti, ma noi le siamo dentro, 

poichè siamo la verità da cui essa muove e la testimonianza 

vivente di quell’esistenza. Gli uomini sono esistenti in questa 

verità che li unifica: sono reali, frammentariamente, nell’e- 

sperienza fenomenica. Io «sono reale » nella scienza, ma 

« sono esistente » nella mezafisica e soltanto nella metafisica. 

Pertanto, l’esistenza di Dio è un « problema » solo fino a quan- 

do l’uomo non conquista la piena consapevolezza di sè e del 

suo essere, non è presente a se stesso, che è essere presente a 

Dio, sempre presente; se lo è, non è più problema, ma 

evidenza. Non inizialmente e perciò dapprima è problema; 

provvisorio, fino a quando il pensiero non dissipa l’oscu- 

rità che avvolge la verità originaria, non acquista consape- 

volezza di se stesso. L'esistenza di Dio non s'impone alla 

mente con evidenza immediata, in modo da metterla nel- 

l'impossibilità di dubitarne; è una verità che va cercata, ma, 

conquistata, è un’evidenza. 


La conoscenza di sè lo è di sè principiato dal Principio; 

dunque, il pensiero che conosce se stesso, sa che Dio esiste 

e, sapendolo, si sa da Dio: /eggendosi, legge Dio. In breve: 

se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega Dio, nega l’uomo che è, 

non si conosce. L’ateismo è una questione di analfabetismo; 

ignoranza dell’intelligibilità metafisica di se stessi, perchè 

ignoranza della dipendenza essenziale da Dio e della essen- 

ziale finalità in Lui. Basta l’esistenza di un ente pensante 



160 Filosofia e Metafisica 






perchè sia implicata quella del Pensiero assoluto: se un 

ente è, è l’Essere assoluto. Le incertezze sono nel processo 

della ricerca, non nella verità che lo guida. 


Questo processo si attua attraverso due momenti di tra- 

scendimento: 4) della ragione, di cui oggetto di giudizio 

sono le cose, il « mondo visibile » di Platone, per elevarsi 

all’intelligenza della verità; 4) di questa o della verità in noi, 


r elevarsi a Dio, la Verità in sè. Dunque, trascendimento 

dell’esteriorità (mondo della scienza o della ragione) e del- 

l’interiorità (mondo della sapienza o dell’intelligenza); cioè 

ancora del momento gnoseologico (ragione) e di quello in- 

tuitivo (intelligenza). Trascendimento che non è negazione; 

è interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla profondità 

di noi e delle cose alla Profondità misteriosa e sacra che so- 

vrasta ogni cosa e la fa essere. A questo punto, l’evidenza 

dell’Esistenza di Dio, Mistero che solve ogni enigma, dà 

all’uomo il presentimento (ma solo questo e, in questa vita, 

sempre oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella vi- 

sione ultraterrena di Dio, quando, sciolto dai legami delle 

cose, dal discorrere ormai superfluo della ragione, sarà tutto 

l’uomo, l’uomo assoluto, non come specie, ma come singolo 

ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto, si ar- 

riva a riconoscere la dipendenza iniziale e finale da Dio, la 

nostra grandezza. La ragione nel campo della sua attività 

è autonoma: giudica di ogni cosa del mondo senza essere 

giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e l’umana au- 

tonomia della ragione più piccola della piccolezza del « vi- 

sibile ». Quando Francesco Bacone, esaltato dai progressi 

della scienza, esigeva un metodo (con lui, Cartesio e Galilei) 

che consentisse all'uomo di farsi padrone della natura, di 

dominarla conoscendola, evidentemente non rifletteva abba- 

stanza che la grandezza umana era in tal modo assoggettata 

ai limiti della natura stessa: l’uomo abdicava all’infinito 

della sua intelligenza per incoronarsi piccolo re delle pic- 

cole cose, oggetto del conoscere razionale. La scienza è la 



L'esistenza di Dio 161 






grandezza dell’uomo razionale, la sua cosmicità, ma è proprio 

essa la sua piccolezza; l’inzelligenza, invece, con cui avverte la 

sua dipendenza da Dio, la sua piccolezza, è essa la sua vera 

grandezza, la sua spiritualità. Come filosofò Cusano, l’uo- 

mo è piccolo nella sua grandezza, la scienza del mondo; è 

grande nella sua piccolezza, la dipendenza da Dio e la non- 

conoscenza di Lui. L'uomo è in questo mistero: di fronte al 

mondo si tratta per lui di conoscere; di fronte a Dio di es- 

sere. Il pensiero moderno ha identificato l’uomo con il suo 

conoscere ed ha perduto l’intelligenza dell’uomo, cioè il 

problema del suo essere, del « consistere » del suo « esistere ». 


Come abbiamo detto, non può essere pensato l’ente avente 

un certo grado di essere senza che si pensi implicitamente al- 

l’Essere che è l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e ogni 

grado di essere; ma la consapevolezza dell’ente finito di par- 

tecipare e dipendere dall’Essere lo ordina a Lui. La parte- 

cipazione iniziale lo spinge ed orienta a quella finale, al- 

l’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua interiorità; il 

pensiero è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio. 

In questo senso, è come specificato dall’Essere a cui tende: 

la verità presente alla mente preforma l’intelligenza e la di- 

rige verso Dio — è il senso profondo dell’idea dell’essere 

del Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Es- 

sere —; la partecipazione manifesta la sua profondità nella 

finalità” ultima dell’intelligenza. Ma se è così, nell’intelli- 

genza, il cui fine è Dio, troviamo una solidarietà con la vo- 

lontà: la partecipazione finale si chiarisce come la finalità 

suprema dello spirito nella sua totalità di vita. 



CapitoLo IV 



LE IDEE 



I. — Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori 

di Kant. 



Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his intellectis 

sapiens esse nemo possit (!*). Quattordici secoli dopo, con 

ben altro orientamento di pensiero, Leopardi annotava (18 

luglio 1824) nello Zibaldone: « Certo è che, distrutte le for- 

me platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Dio» (?). 

Queste due profonde osservazioni di uomini così diversi e 

lontani nel tempo, per la loro perfetta coincidenza, sono estre- 

mamente significative. Per il santo dei primi secoli, come 

per l’« ateo » dell’800, di formazione illuministica, negare le 

idee come conoscenze in sè, anteriori alle cose e misura og- 

gettiva per giudicarle, è irreparabilmente negare Dio: o nella 

mente umana vi è una verità che non deriva dalle cose nè 

pone essa stessa e allora per questa presenza di qualcosa di 

immutabile e necessario, di illuminante e fecondo, ci si con- 

vince razionalmente che Dio esiste ed è irrazionale dire il 

contrario, o si nega che vi è una verità di tal natura e con 

essa la presenza di Dio e non è più possibile pensare o pro- 

vare l’esistenza dell’Essere trascendente, creatore e provvi- 

dente. Se tutto nell’uomo è umano, da lui prodotto e creato 

senza traccia orma immagine vestigio divino, è impossibile 

dargli la nozione di Dio: egli è stato privato di quanto gli 


(I) S. Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 46, n. 1. 



(2) G. Ltoparni, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze, 

Le Monnier, 1931, vol. II, p. 110. ° 



L'esistenza di Dio 163 









è indispensabile per poterlo trovare e provare, del lume della 

ragione, dell’oggetto che fa intelligente la sua intelligenza. 

Dio avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per l’uomo 

stesso, non per cercarLo, amarLo e pregarLo, ma perchè si 

perdesse nella finitezza e contingenza sua e del mondo, cosa 

tra le cose. Perciò Platone, il metafisico delle Idee, è il pa- 

dre della metafisica della verità, essenzialmente teistica: se 

esiste la verità, esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste. 

Bandire le Idee come oggetto immutabile della mente, è ban- 

dire Dio dal pensiero. Se la mente non conosce nulla di 

immutabile e necessario, niente vi è per essa d’intelligibile o 

di vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di assolutamente 

vero è conosciuto dalla mente — insopprimibilità delle ve- 

rità che fa contraddittorio lo scetticismo — l’intelligibile è, 

e Dio è. Se non s’intelligono le Idee sapiens esse nemo possit; 

cioè: chi non è presente alla verità che è in lui è insipiens, 

e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel che dice, non 

sa niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi og- 

gettivi, che rendono impossibile negare l’esistenza di Dio; 

chiuso al lume dell’intelligenza, è ottenebrato dalla duplice 

concupiscenza del senso e della ragione: un irragionevole 

raziocinante. 


Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta volgare nella schia- 

vitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche tempo 

qualificata « nobile» ed «eroica», nella passione o su- 

perbia della ragione, quella che sta alla base della nega- 

zione cosidetta « scientifica » o « filosofica » dell’esistenza di 

Dio: rifiuto di conoscersi, negarsi della ragione a se stessa. 

Il suo limite non è l’impossibilità di trascendere l’esperienza, 

ma il rifiuto di trascenderla, l’ignorare che in essa è pre- 

sente qualcosa che la trascende. Ragione «critica » non è 

quella che si autonega la capacità di oltrepassare l’esperienza, 

ma la ragione che sa che non può non oltrepassare l’esperienza 

e se stessa, in quanto cosciente di possedere una luce, la ve- 

rità, secondo la quale giudica, che è più di essa ed ha dun- 



164 Filosofia e Metafisica 






que al di là della sua mutevolezza il Principio creatore. Solo 

se la ragione conosce che la verità è più e non meno di essa, 

ritrova se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di 

Dio non si aggiunge all’esperienza quasi dall’esterno, ma è 

implicito nel problema dell’esperienza e nella esperienza stes- 

sa, che, in questo caso, è testimoniante: per il fatto che io 

ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima che per inferenza 

esplicita, l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato 

che l’attesta. 


Kant ha il torto di considerare l’esperienza sensoriale 

il limite della ragione, affermazione che consegue dalla 

riduzione delle Idee o verità prime, intuite dalla mente e 

fondamento della veridicità di ogni giudizio, a forme « prio- 

ri, a pure condizioni della conoscenza. Qui il punto della 

questione: le Idee per l’idealismo ontologico sono verità, 

conoscenze prime, oggetto interiore della mente; sulla base 

di esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo 

verità le cose date dall’esperienza, ma non giudica le Idee 

primali, che l’oltrepassano. Di qui la conclusione; esiste una 

verità che è data ed è più dell’io; dunque esiste Dio, la Ve- 

rità in sè donante, illuminante, creante. Per Kant, le forme 

a priori, quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza 

e da essa non derivato, non sono date all’intelletto, ma son 

funzioni di esso, forme dell’attività sintetica del pensiero; 

non verità o conoscenze, ma pure condizioni del conoscere e 

perciò vote: il contenuto lo riceviamo dall’esperienza, 4 

posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son vuote, 

la loro validità, pur essendo 4 priori, è limitata al mondo 

dell’esperienza; dunque valgono solo a costruire e sistemare 

contenuti empirici. È evidente che, svuotate le Idee del loro 

contenuto di verità e fatte condizioni della conoscenza delle 

cose, non possono più trascendere l’esperienza dalla quale re- 

stano bloccate; dunque, non è più possibile una metafisica 

come scienza, tra l’altro, una dimostrazione razionale dell’esi- 

stenza di Dio, in quanto le verità, secondo cui la ragione 



L'esistenza di Dio 165 






giudica dell’esperienza, non sono più tali, ma pure condi- 

zioni di essa; le forme a priori non trascendono la ragione, 

ma ne sono funzioni immanenti, nè l’esperienza, pur non 

derivando da essa, alla quale soltanto si applicano. Cono- 

scenza valida è solo quella razionale e tutto il sapere è 

identificato con la conoscenza scientifica. Kant nega il sa- 

pere intuitivo dell’intelligenza e perciò deve negare che si 

possa dimostrare l’esistenza di Dio: limitato l’uomo alla 

sua cosmicità lo si fa prigioniero del conoscere razionale e 

lo si priva di Dio, che non è problema della ragione, se 

prima non è problema dell’intelligenza. Così è distrutta qual- 

siasi possibilità di dimostrare Dio perchè sono state di- 

strutte le Idee. Chi ha parlato di « veleno kantiano », da 

questo punto di vista, ha avuto ragione, anche se egli, se 

tosse vivo, ci darebbe torto, ma non a ragione, per il tipo 

di apriorismo non kantiano qui sostenuto. 


In breve, Kant nega l’onticità dell’Idea e un sapere in- 

tuitivo: limite della forma 4 priori è l’esperienza senso- 

riale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a tra- 

scendere l’esperienza, cioè è il « cosmo», la «scienza ». Il 

concetto critico dell’4 priori, che ha il suo limite di funzio- 

nalità nell’esperienza, e il concetto critico dell’esperienza che 

ha il suo limite nell’4 priori che la organizza, sono criti- 

ci a metà: sono critici del concetto di scienza, non del 

concetto di metafisica. Secondo Kant, la struttura del pen- 

siero, la sua preformazione è tale da avere il suo oggetto ade- 

guato nel mondo fisico, in quanto l’esperienza fenomenica 

adegua la forma: il pensiero è ordinato al mondo, che è la 

sua finalità. Ciò nega implicitamente la partecipazione ini- 

ziale all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il con- 

cetto di creazione; infatti, se è posta la partecipazione ini- 

ziale, risulta contraddittorio negare quella finale, cioè am- 

mettere che l’Essere creatore abbia preformato l’ente creato 



166 Filosofia e Metafisica 









in maniera da non essere ordinato a Lui, ma da avere la sua 

adeguazione nel mondo. In altri termini, se la creatura è dal 

Creatore, non può non essere stata creata in modo da es- 

sergli ordinata; dunque la partecipazione iniziale implica 

necessariamente quella finale. Per Kant, invece, l’4 prio- 

ri ha la sua adeguazione nel mondo — nell'ordine na- 

turale: «il cielo stellato» e «la legge morale» — per 

conseguenza il mondo è la sua finalità suprema, e dun- 

que anche il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato dall’or- 

dine del pensiero e da quello della realtà; non si spiega più 

neppure come possano nascere l’esigenza di Dio e le Idee 

della ragione, che non si giustificano, dentro il sistema kan- 

tiano, neanche come postulati della ragione pratica; Kant 

ve li introduce, ma restano estranei alla Critica com'è intesa 

da lui, la quale si risolve nel sistema della « cosmicità ». La 

Critica non è tanto critica da approfondire l’interiorità del 

pensiero, da sondare le profondità dell’intelligenza: le manca 

l'intelligenza dell’intelligenza, e non s’accorge che esigenze 

e postulati non potrebbero essere le une sentite e gli altri 

pensati se lo spirito non portasse nella sua struttura i segni 

indelebili e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi, fa- 

cendo l’uomo ente pensante, gli diede il lume della verità e 

la verità come oggetto del pensiero. Se ne accorse il Rosmini, 

la cui idea dell’essere (altro che riducibile all’a priori kan- 

tiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è presenza analogica di 

Dio in noi (partecipazione iniziale) e preforma il pensiero 

stesso in modo che ad esso è impossibile invenire in alcuno 

dei contenuti di esperienza, o in tutta l’esperienza, il suo 

oggetto adeguato, per cui essa risulta ordinata, in solidarietà 

con la volontà, con l’atto morale sintetico dell’ideale e del 

reale, all’Essere, che, come tale, è la sua finalità assoluta, 

convogliante, come letto d’immenso fiume, le innumerevoli 

sorgenti della vita, la totalità del creato. 



L'esistenza di Dio 167 






2. — L'Idea nell’'empirismo inglese. 



Kant deriva il suo « criticismo » dal Locke, dallo Hume 

e dalla barbarie filosofica dell’Illuminismo, di cui è il più 

grande rappresentante. Locke è il primo consapevole e siste- 

matico distruttore dell’Idea nel senso dell’idealismo ogget- 

tivo. Infatti, con la parola idea indica sensazioni, immagini, 

percezioni, ecc., quanto è contenuto della «coscienza» : l’idea 

non è più l’oggetto intelligibile, immagine « priori dell’Intel- 

ligibile in sè, ma immagine del sensibile: l’anima, white 

paper, acquista le idee, puro contenuto della coscienza sog- 

gettiva, from experience. D'altra parte, anche per il Locke, 

funzione della ragione è di stabilire nessi e relazioni, ma solo 

tra le idee-immagini sensibili; per conseguenza, la verità è 

« unione o separazione di segni » (joining or separating of 

signs), cioè di quelli impressi dalla esperienza sensoriale: 

il valore oggettivo dell’idea è distrutto e con esso quello della 

verità. Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione sen- 

sibile complessa, cioè una somma di qualità prive di vin- 

colo reale; è « coesistenza continua » di alcune idee semplici, 

« considerate » (considered), per tale continuità di esistenza, 

unite in una cosa ed indicate con un « nome »; 5) l’identità 

della persona non viene da una sostanza permanente e perse- 

verante al di sotto del suo divenire, ma semplicemente dalla 

continuità della coscienza: la mia identità arriva fin dove 

arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di cui si cono- 

scono solo le qualità, abbiano un « sostegno », un'entità reale 

€ che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: «Io non so cosa sia » 

(I dont know what). Conclusione: l’idea è d'origine empi- 

rica, un puro nome, un contenuto della coscienza soggettiva; 

non esiste un correlato oggettivo del pensiero; la ragione 

unisce e divide « segni » che, soggettivi, non garantiscono 

l’oggettività dei giudizi; dunque, non esiste una verità intel- 

ligibile, l’Idea come oggetto della mente, non prodotta ma 

solo intuita da essa, nè ricavata dall’esperienza. Per l’ideali- 



168 Filosofia e Metafisica 






smo oggettivo gli intelligibili sono, come Verità in sè, il con- 

tenuto della Mente assoluta; come presenza della Verità in 

sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e fondamento 

oggettivo dei loro giudizi; ancora sono realizzate imperfet- 

tamente nelle cose, di cui costituiscono l’essere o il grado di 

verità. In altri termini, sono il Primo Vero da cui deriva 

ogni verità; Vero creatore e vivente, fecondo di quanto vi è 

di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così Pla- 

tone nel Timeo chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non 

sono il prototipo o l’esemplare intelligibile, ma pure imma- 

gini di origine sensibile: quanto noi conosciamo della realtà 

è quanto di « idee » o immagini ci forniscono i sensi; il reale 

conosciuto s’identifica con il contenuto della nostra coscienza 

empirica. 


Com'è noto, lo Hume, con maggiore coerenza del Locke 

e attraverso un approfondimento critico dei presupposti del- 

l’empirismo, non dice di « non sapere » cosa sia la sostanza, 

ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale, 

s’identifica tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con 

le « impressioni » e le « idee ». Ma, per lo Hume, tra le une 

e le altre non vi è differenza di origine — le prime sono « co- 

pie di nostre impressioni» (copies of our impressions) — 

bensì d’intensità, le idee sono « percezioni più deboli » (more 

fleeble perceptions); per conseguenza, di fronte ad un'idea, 

bisogna chiedersi di quale impressione sensibile sia la copia. 

Non vi sono «sostanze »: quella che così si chiama è un 

insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vin- 

colo causale necessario ed oggettivo, ma solo I’ « attesa » che 

al fatto 4 segua il fatto d: è l’« abitudine » (custom) che 

fa nascere questa attesa; non vi sono nessi tra le idee se non 

per « somiglianze » (resemblance), per « contiguità tempo- 

rale o locale » (contiguity in thime or place), per causa ed 

effetto, cioè seguenza accidentale di due fatti. 


Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua presenza 



L'esistenza di Dio 169 






alla mente indipendentemente dall'esperienza sensoriale, non 

è più possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento 

della conoscenza e della realtà; vien meno ogni regola della 

vita intellettiva e morale, ogni sostegno delle cose. Distrutte 

le Idee, non vi è più alcuna ragione che le cose siano come 

sono e non diversamente, che la ragione giudichi in un modo 

o in un altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il 

fatto che non vi sono più princìpi necessari, immutabili ed 

universali (*). Ciò prova come il punto cruciale del proble- 

ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro metafisico, sia 

la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e 

come la mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, 

come fa lo Hume, cade la validità oggettiva di ogni prin- 

cipio e qualunque dimostrazione è impossibile 4 priori ed 4 

posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in- 

fatti, dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione 

argomenta; dunque dal problema della verità: secondo che 

questo è risolto positivamente o negativamente anch'esse sono 

valide o no. Ma se è risolto positivamente è già dimostrata 

l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi 

altra dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono 



(3) Ancora una volta il Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non 

filosofo nel senso tecnico del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- 

sismo), scrive il 17 luglio 1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100): « Quindi è chiaro 

che la distruzione [per un errore di stampa nel testo si legge « distinzione »] 

delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta 

e de’ loro contrari. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- 

mento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con- 

tengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima 

dei detti soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa 

forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogni idea 

ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il 

buono assoluto è tornare alle idee di Platone e risuscitare le idee innate dopo 

averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile (1341) ragione per 

cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così 0 

così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni 

accidente, da ogni cosa di fatto, che in rcaltà è la sola ragione del tutto, e 

quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, 

cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose tra 

loro è relativa, se così posso dire, assolutamente ». 



170 Filosofia e Metafisica 






legate alla sorte di quella « dalla verità », da cui dipendono, 

di cui sono una applicazione e in cui restano incluse. 

Hume è una buona lezione; negata l’oggettività dell’Idea 

è negato Dio; niente più regge, non lo spirito nè le cose, non 

la filosofia nè la scienza. In questo senso l’ultrailluminista 

Hume, che sviluppa fino in fondo il principio ateo del- 

l’«uomo fonda l’uomo e il suo regno », è la crisi del mito 

illuminista, in quanto rappresenta la vanificazione del reale 

‘spirituale e corporeo e di ogni categoria del reale, la banca- 

rotta del razionalismo e dello scientismo illuministici. 



3. — Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e 

validità del giudizio. 



Kant si accorse della rovina della conoscenza oggettiva e 

della metafisica come scienza, conseguenza della negazione 

delle Idee; se ne accorse perfettamente anche il Rosmini. Ed 

ecco i due pensatori porsi gli stessi problemi: 4) dell’oggetti- 

vità del conoscere; 4) della restaurazione della metafisica co- 

me sapere razionale. 


La risposta di Kant è nota: i princìpi del conoscere non 

possono essere ricavati dall’esperienza sensoriale; sono forme 

4 priori della mente, oggettive ed universalmente valide, con 

cui lo spirito, mercè l’attività sintetica, costruisce l’esperienza, 

che alle forme fornisce il contenuto. Ma, per Kant, come 

abbiamo detto, le forme @ priori non sono conoscenze, ma 

pure («vuote ») condizioni della conoscenza: per lui non vi 

sono verità 4 priori, interiori alla mente e da essa intuite, ma 

di 4 priori c'è solo la « forma » del conoscere. Per conseguen- 

za, egli nega che vi siano verità intelligibili, oggetto dell’in- 

telligenza, cioè è d’ accordo con gli empiristi nel rigettare 

1’ «idea » com'è concepita dall’idealismo oggettivo. Per con- 

seguenza, quando affronta il problema della metafisica come 

scienza non può non rispondere negativamente: le forme 4 

priori, pur essendo indipendenti dall'esperienza, come sue 



L'esistenza di Dio IZI 






pure condizioni, al di fuori e al di là di essa non hanno al- 

cuna validità conoscitiva: 4 priori, ma bloccate nella e dalla 

esperienza. Prodotto dell’attività dello spirito e prive di un 

contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma sem- 

plicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono 

« giudicare » solo le cose di esperienza sensoriale. Ogni meta- 

fisica come scienza razionale risulta impossibile, come ogni 

prova dell’esistenza di Dio. 


In breve, Kant nega un sapere intuitivo, nega l’intelli- 

genza e perciò l’intuizione dell’intelligibile, la presenza alla 

mente della verità: la forma più alta di sapere è per lui il 

conoscere razionale o scientifico, la matematica e la fisica 

come scienze. Kant « critico » non è « platonico », è « aristo- 

telico ». L’intelletto e le sue forme « priori (le « categorie ») 

non sono attualità di conoscenza, ma potenzialità di cono- 

scere: quello kantiano è un «intelletto possibile», in quanto 

le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma 

pure condizioni del conoscere e condannate a restare tali 

fino a quando non vengono « riempite » dal contenuto del- 

l’esperienza; senza di esso, l’intelletto, in sè, è privo di cono- 

scenza, è pura possibilità di conoscere. Per conseguenza esso, 

che non è in sè attualità, può conoscere soltanto quanto è 

oggetto di esperienza, le cose sensibili nella loro fenomeni- 

cità. La conoscenza di tipo scientifico o razionale diventa così 

il modello del sapere e l’unico sapere umano. Kant critico — 

almento il Kant della Ragione pura — è più « illuminista » 

del Kant « precritico »: è il filosofo della ragione senza in- 

telligenza, della razionalità impersonale e non dell’ uomo 

concreto. 


Ma egli vide chiarissimo un aspetto del problema di Dio: 

che la prova cosmologica, come ogni altra, in fondo dipende 

da quella ontologica, che non è da identificare con la prova 

« dalla verità » o « dalla vita dello spirito », anzi la presup- 

pone e in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è 



172 Filosofia e Metafisica 






sempre lì: se esiste una verità intelligibile data alla mente. 

Fino a quando Kant fu « platonico » — o come si dice « pre- 

critico» — considerò valida la prova ontologica; diventato 

«critico » la rifiutò, perchè, negate le verità primali date 

alla mente ed ammessa la sola apriorità delle vuote con- 

dizioni del conoscere, gli era preclusa la possibilità di 

dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio 4 priori e con- 

seguentemente 4 posteriori. Ancora: col riconoscere la im- 

portanza primaria, rispetto a quella cosmologica, della pro- 

va ontologica, Kant si avvide che il problema dell’esisten- 

za di Dio inerisce alla vita dell’ente spirituale più che a 

quella del mondo fisico; perciò egli, dopo aver creduto di 

aver colpito al tallone l’Achille della metafisica, riprese il pro- 

blema in sede morale, cioè a proposito di un altro aspetto 

della vita dello spirito. Così egli distinse nettamente l’ « idea 

cosmologica » dall’ « idea teologica » facendo di quest’ ulti- 

ma un problema di pertinenza dell’attività morale. Ma, per 

lui, l’Idea è sempre una forma « vuota », che aspetta di rice- 

vere il contenuto dall’esperienza sensibile: la restaurazione 

della metafisica gli risulta impossibile; l’Idea resta ingiusti- 

ficata nel suo sistema. Se Dio fosse solo un’Idea della ragione 

nel senso kantiano, sarebbe un puro possibile; ma se Dio è 

solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che è diventa di 

colpo impossibile ed inesplicabile. 


L’idealismo trascendentale salta il fosso della pura « nou- 

menicità » dell’idea teologica, come dell’idea cosmologica e 

di quella psicologica; rovescia il fondamento metafisico del- 

l’idealismo oggettivo (la verità è principio del pensiero) e fa 

il pensiero umano principio della verità: non è « percettivo » 

ma di essa « costitutivo »; pensandola la fa essere. Così l’im- 

manentistica metafisica del Pensiero assoluto è antitetica alla 

trascendentistica metafisica della Verità; l’idealismo trascen- 

dentale o spurio è l’antitesi dell’idealismo trascendentista o 

autentico. Hegel è implacabile contro l’ « immediato », cioè 



L'esistenza di Dio 173 






contro il « sapere intuitivo » o dell’intelligenza che, come 

implicante la Trascendenza, è l’ostacolo maggiore alla ridu- 

zione di tutto il sapere al mediato conoscere razionale. La 

metafisica della verità è negata in quella del Pensiero o della 

Ragione assoluta, cioè nella metafisica dell’assoluta irragione- 

volezza, e l’uomo decapitato come singolo. La metafisica è 

perduta, ma resta il problema kantiano della sua restaura- 

zione. 


Essa fu possibile al Rosmini, il quale dalla critica dell’em- 

pirismo moderno non concluse alla forma 4 priori come pura 

condizione del conoscere, ma all’Idea come oggetto intuìto 

dalla mente. Egli riprende l’Idea dell’idealismo oggettivo, 

verità intuita dalla mente, ad essa data e di essa lume; restau- 

ra la verità primale come fondamento di ogni giudizio e su 

questa base ricostruisce la metafisica. Rosmini comprese benis- 

simo che per arrivare a Dio, o si passa dalla verità a noi inte- 

riore e trascendente, o non si passa e non si arriva, tanto da 

distinguere, a proposito del problema delle idee, l’ aspetto 

«ideologico » da quello che chiama « teosofico ». 


Il problema metafisico vero e proprio è quest’ultimo: 

origine da Dio dell’Idea dell’essere, oggetto intuìto dalla 

mente senza che esso sia Dio. Qui la soluzione del problema 

ideologico: le altre idee sono « figlie » dell’idea « madre » 

dell’essere, cioè giudizi sulle cose che ci presenta l’ espe- 

rienza. Noi non accettiamo alla lettera questa dottrina, ma 

facciamo nostra la sua anima di verità: vi sono verità se- 

conde (i giudizi sulle cose) per le quali è necessaria l’espe- 

rienza e sono dunque 4 posteriori, ma vi è in esse un ele- 

mento 4 priori, una verità prima — e non kantianamente 

pura condizione del conoscere — che le rende possibili, la 

quale non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla 

mente; viene da Dio ed è alla mente data. Così è restaurata 

l’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo e, con essa, ricosti- 

tuito il fondamento per la dimostrazione razionale dell’esi- 



174 Filosofia e Metafisica 









stenza di Dio; ripristinato il concetto della partecipazione 

iniziale e finale all’Essere (*). 


Da Cartesio a Hume due esigenze fondamentali dividono 

il pensiero moderno intorno al problema della verità: l’esi- 

genza razionalista e quella empirista. Il razionalismo appro- 

fondisce un problema che non va perduto di vista: se non vi 

è una verità prima indipendentemente dall’esperienza è im- 

possibile una conoscenza oggettivamente valida; le conclu- 

sioni dell’empirista Hume confermano la veridicità dell’istan- 

za razionalista. L’empirismo da parte sua, contro l’apriori- 



(4) Nel grande dialogo della filosofia moderna e soprattutto in seno all’em- 

pirismo inglese, occupa una posizione particolare il Berkeley. Grossolana e senza 

fondamento l’interpretazione di un Berkeley che nega la realtà del mondo; in- 

fatti, a parte quanto vi è di empiristico, fenomenistico e nominalistico, resta 

in lui un nucleo speculativo che s'inserisce nella linea dell’idealismo ogget- 

tivo, Il Berkeley non nega la realtà del mondo esterno; dice soltanto che 

è, e non può non essere, in rapporto costante con uno spirito che se lo 

« rappresenta ». Questa affermazione può essere intesa in due sensi: 2%) il 

mondo è la rappresentazione soggettiva di uno spirito — e non si sfugge al 

fenomenismo —; 5) il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale, co- 

me oggetto intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi. Forse 

il Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco che fa 

del termine «idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è la se- 

conda. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal fatto che 

il mondo esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta, « io non deduco 

che le cose non esistono realmente », ma — siccome non dipendono dall'essere 

percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia percezione — « concludo 

che deve esistere un altro spirito nel quale esistono ». Dunque, per il Berkeley 

a) le cose esistono realmente; £) non esistono perchè io o un’altra coscienza finita 

ce le rappresentiamo; c) siccome però non possono esistere da sole per la loro 

finitezza e contingenza, esistono per uno Spirito infinito ed assoluto, cioè in 

quanto Dio le fa essere; d) ma Dio fa essere le cose pensandole, cioè secondo 

un esemplare di verità; e) dunque le cose sono in quanto Dio (la Mente) le pensa. 

Interpretato così — le idee hanno un valore oggettivo di esemplari eterni della 

Mente creatrice — è sulla linea dell’idealismo oggettivo. Dio non conosce questo 

mondo perchè esiste, ma questo mondo esiste perchè Dio lo conosce; e S. Tom- 

maso: Universas creaturas non quia sunt, ideo movit Deus, sed ideo sunt quia 

movit. Che sia così lo prova anche il celebre esse est peraipi: l'essere delle cose 

non è nel « percepirle » (in tal caso la loro realtà sarebbe « posta » dal soggetto 

come per altre forme di idealismo), ma nell’« essere percepite », cioè nell’« es- 

sere pensate » come idee da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto Dio l’ha 

creato, cioè lo ha pensato nel suo ordine o nella sua verità. 


Berkeley più che gnoseologo è metafisico: tema primo della sua speculazione 

è la teologia naturale, esistenza di Dio e degli spiriti finiti. Egli con la sua me- 

tafisica interiorista c non cosmologica e gnoseologista, s'inserisce nella linea pla- 

tonica; meglio, per restare più vicini al suo tempo, in quella pascaliana e non 

nella cartesiana. 



L'esistenza di Dio 175 






stico razionalismo deduttivista, pone l’istanza del concreto, ri- 

vendica il valore dell’esperienza e della singolarità degli enti, 

il fatto o il dato dell’esistenza. Le due istanze vanno conser- 

vate e perciò pongono il problema della loro sintesi. Il vichia- 

no « giudizio storico », sintesi di « filologia » e « filosofia », è 

il primo tentativo in tal senso: Vico, da questo punto di vista, 

oltrepassa la filosofia europea del suo tempo. La « sintesi a 

priori » di Kant e la « percezione intellettiva » del Rosmini 

sono la maturità del problema e le sue due soluzioni. Dun- 

que, dopo Vico Kant Rosmini, non c’è più questione sulla 

sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è, capitale e decisiva, 

sulla natura della forma o del principio della validità del 

conoscere stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del 

pensiero, o 5) sua attività creatrice, o c) dati al pensiero, 

suo oggetto, sapere originario? Questa la gran questione: la 

prima risposta differenzia Kant dall’idealismo trascenden- 

tale (seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a Kant e 

all’idealismo. Come si vede, è in questione il problema della 

validità del giudizio: l’4 priori è oggetto della mente, o suo 

prodotto? Torna in discussione, in piena maturità del pen- 

siero moderno, il problema centrale della teoria della cono- 

scenza di S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica, 

anche se in diversa maniera, fanno il pensiero umano crea- 

tore della verità, fondamento a se stesso: il primo ontologico 

è il primo conoscitivo. La risposta rosminiana, conforme nel- 

lo spirito a quella di S. Agostino e della tradizione plato- 

nica, fa della verità primale il lume dell’intelletto, dono di 

Dio, una Sua presenza alla mente. La verità, così intesa, 

implica l’esistenza di Dio ed è il fondamento dell’argomen- 

tazione razionale che la dimostra. La prima risposta dice: 

«l’uomo dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo 

e nega Dio: è la risposta atea; la seconda: «l’uomo riceve 

la verità da Dio », e con ciò stabilisce un rapporto di dipen- 

denza essenziale tra l’uomo e Dio: è la risposta teista. Ma la 

prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo fa- 



176 a Filosofia e Metafisica 






tale: «se l’uomo dà la verità a se stesso, la verità è tutta 

umana »; dunque, «deteologizzazione » dell’uomo e della 

sua verità. Lo scetticismo è inevitabile e, con esso, il nulli- 

smo. Lo sviluppo è coerente: dalla negazione di Dio alla 

divinizzazione dell’uomo; dalla deteologizzazione dell’uomo 

alla sua negazione, al nulla. La parabola dell’immanentismo 

si conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge nel- 

la sua indistruttibilità. 



CapitoLo V 



LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO 



I. — Critica e precisazioni. 



Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, mol- 

to superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse 

a chi sa quali «lontani pericoli ». È necessario intenderci 

sulla questione, anche perchè non ci sembra onesto che l’ac- 

cusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi dall’errore è 

immune. 


C'è conoscenza mediata di Dio quando: «@) obiectum se 

reddit cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quod- 

ammodo similis; b) res cognoscitur per speciem alterius rei 

(cognitio rei per speciem relucentem in speculo, v. g. sensi- 

tiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito della 

dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente 

alle due proposizioni: a) la verità che la mente umana in- 

tuisce non è la Verità in sè o Dio, quantunque ad essa si- 

mile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui riflessa 

nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la 

Sua intima essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è 

Dio; essa fa che Lui, pur essendo la sua natura diversa da 

quella della creatura, non sia un fine separato dall’uomo, co- 

me pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, 

per opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua vo- 

lontà, per cui l’uomo, tornando al Creatore attraverso la 

Sua presenza in lui, opera di Dio stesso, compie un atto 

che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra mente 



178 Filosofia e Metafisica 






vi è una verità primale che viene da Dio e dunque qual- 

cosa di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore 

attraverso l’intermediario della verità. Consegue che lo spi- 

rito che cerca la verità cerca Dio: chi pensa la verità e nella 

verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In questo senso ab- 

biamo detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. 


In altri termini: la presenza immediata della verità alla 

mente non significa presenza immediata di Dio, intuizione 

della Sua essenza o contatto diretto della mente; significa solo 

presenza immediata della verità com’è data alla mente da 

Dio, e non della Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. 


Se qualcuno ci accusasse ancora di ontologismo gli do- 

manderemmo se esclude qualsiasi rapporto tra l’uomo e Dio, 

qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di partecipa- 

zione, sia pure mediata. Se così, gli obietteremmo che ha 

separato il Creatore dalla creatura e che non incontrerà mai 

Dio col pensiero: se per noi il pensiero è teistico, per lui è 

ateistico. Certo, non vi è visione immediata di Dio nè cono- 

scenza, nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è errore 

l’ontologismo inteso come cognizione diretta di Dio; ma vi 

è un tipo di ontologismo — sfido l’uso della parola compro- 

messa — diverso dall’altro, anzi di esso la confutazione, il 

quale non esclude l’intuizione di verità intelligibili, interiori 

alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa e 

poi sempre più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, 

come abbiamo sopra chiarito, ma d’inzeriorità, di presen- 

zialità della verità in noi e a noi, non di dato inerte get- 

tato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia ope- 

rante, di presenza attiva e attivante il dinamismo del pen- 

siero, da essa orientato e guidato e senza di essa inesplicabile 

ed incomprensibile. E «interiorità » della verità significa 

«trascendenza » della verità stessa. 


Ora, se per ontologismo s'intende intuizione o visione 

immediata e diretta di Dio, il nostro, ripetiamo, non lo è 

affatto; se, invece, si considera impropriamente e a torto on- . 



L'esistenza di Dio 179 






tologista ogni posizione filosofica che ammette verità ante- 

riori all'esperienza e interiori alla mente che le intuisce, al- 

lora anche il nostro è ontologismo, che però non ha niente 

da spartire con l’altro. Infatti, per noi, di Dio vi è solo co- 

noscenza mediata ed indiretta, per partecipazione e analogia; 

dunque, l’impropria qualifica ci lascia perfettamente tran- 

quilli, perchè confortati dalla solidarietà anche di chi ci chia- 

ma ontologisti, tranne che, illuministicamente, non sostenga 

che l’uomo sia del tutto separato da Dio. E che noi parliamo 

di analogia e non di univocità nessun lettore di buona vo- 

lontà può metterlo in dubbio. 


« Vedere », « intuire » la verità che è in noi, non è affatto 

« vedere », « intuire » Dio: non conosciamo la Verità in sè, 

ma quanto di essa è riflesso nello « specchio » della nostra 

anima: videmus per speculum. Tra la verità in noi e la Ve- 

rità in sè vi è « somiglianza»: dunque rapporto di « ana- 

logia », che esclude l’identità o l’univocità delle due nature. 

La mente « partecipa » della divina Verità non direttamente, 

ma mediatamente, attraverso l’intermediario della verità ri- 

flessavi, per cui la verità in essa non è come è in Dio: 

è riflesso divino senza essere Dio, che, non ora, ma d/lora 

vedremo facie ad faciem (!). La verità, lume e vita del- 

l’umana mente, ha i caratteri divini della immutabilità e 

dell’assolutezza, ma non è Dio: è «il più splendido riflesso » 

di Lui (?). In questo riflesso la mente vede ciò che conosce 

assolutamente e ciò si dice omnia in divina veritate vel ratio- 

nibus acternitatis videre et secundum cas de omnibus iudi- 

care (*). Così S. Tommaso interpreta rettamente — non on- 

tologisticamente nè aristotelicamente — S. Agostino: l’ana- 

logia da noi stabilita tra Dio-Verità e la verità in noi è 

identica a quella tomista tra l’essere riferito a Dio e l’essere 

riferito a noi. 



(1) S. Agostino, De Trinitate, 1. XV, c. 8, n. 14. 

(2) S. Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X, c. 24, n. 40. 

(3) S. Tommaso, Summa contra Gentes, l. Ill, c. XLVII. 



180 Filosofia e Metafisica 






2. — Conoscersi ed essere conosciuti. 



Essenziale il problema del conoscere, ma più, quel- 

lo dell’essere conosciuti; infatti, l'indagine sul fondamen- 

to metafisico della conoscenza ha rivelato che l’uomo co- 

nosce ed è capace di verità in quanto è conosciuto. Il 

socratico « conosci te stesso », al pari del cartesiano Cogito, 

va anch'esso integrato: « Conosci te stesso e saprai che sei 

conosciuto »; conosci te stesso e dentro di te troverai la pre- 

senza di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a quando 

non avrai trovato questa presenza. La scoperta della verità 

in noi, il passaggio dal suo stato implicito e oscuro, avver- 

tito quasi come un lontano presentimento, allo stato d’in- 

tuizione chiara ed esplicita è una folgorazione, come se un 

fascio di luce investisse di colpo e improvvisamente la mente 

umana. Perciò l’intuizione della verità ci dà ad un tempo 

gioia e sgomento, senso di possesso e di ossequio: scopriamo 

in noi qualcosa che è più di noi. Nel momento che l’intel- 

ligenza è folgorata, quello della scoperta, una ricchezza 

la riempie e la fa folgorante: ricchezza e povertà, quella 

di chi è ricco per avere ricevuto in dono la ricchezza per 

cui è ricco ed insieme povero, in quanto è solo minimo 

anticipo per guadagnarsi la vera Ricchezza. Umiltà ed en- 

tusiasmo: umiltà di fronte alla verità che è divina; entu- 

siasmo chè essa, che è più di noi, è in noi. La verità intuita 

è indissolubilmente della nostra mente: figlia della verità, 

perchè tale, la mente è partorita madre di verità, creatrice 

di molteplici veri. L'intelligenza è poessca; creatrice di bel- 

lezza, di bene, di giudizi veri in forme sempre nuove ed 

infinite. Una verità scoperta è il motivo centrale che ri- 

torna, come in una sinfonia, variamente orchestrato nei 

veri che produce; c’è armonia, profonda, della intelligenza, 

del senso e della ragione; c’è l’unità concreta dello spirito 

nella luce della verità, il quale vede chiaro dove prima era 

buio, ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta, che 



L'esistenza di Dio 188 






è nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi in una zona 

di luce, al di là della quale permane il sacro mistero di Dio: 

la verità che ci sovrasta rimanda ad un Mistero che ci som- 

merge; ma nel suo abisso presentiamo che sarà la nostra 

chiarezza totale e definitiva, alla quale tende la mente, dal 

mistero sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite 

della filosofia totale dell’uomo integrale, quella che è mania: 

meraviglia, entusiasmo, follia. La verità in noi stimola, per- 

cuote, pungola, sferza, fa di chi la ama un « genio di verità ». 

La preghiera del filosofo alla verità che lo genera e lo fa 

padre di veri è una sola, semplice e vera: « Signore, che 

sei la Verità, fa che io, nella umiltà della mia piccolezza e 

nell'amore per la Tua grandezza, possa essere il più pazzo 



dei saggi ». 



CaritoLo VI 



LA DIMOSTRAZIONE 

DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: 

B) DALLA VITA MORALE 

E DAL DESIDERIO NATURALE DI BEATITUDINE 



1. — Contraddittorietà dello scetticismo. 



I risultati, a cui fino ad ora la nostra ricerca ha appro- 

dato, possono essere così riassunti: 4) la mente creata e fi- 

nita conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quan- 

to oscura e confusa, ha intuizione originaria: le sono pre- 

senti, interiori; 2) di esse la ragione si serve per giudicare 

di ogni cosa; c) son queste verità che ci insegnano, quasi 

« maestro interiore », la presenza di Dio in noi; d) esiste 

la Verità, dunque, esiste Dio. Se non esistesse non esiste- 

remmo noi stessi e non potremmo neppur dire che Dio esi- 

ste, in quanto mancheremmo di intelligenza. Degli scettici 

del suo tempo Aristotele scrive: «somigliano più a delle 

piante che a degli uomini » (4); lo scetticismo, in qualunque 

tempo, prima o poi, finisce fatalmente per abbassare l’uo- 

mo al puro livello biologico. 


L'osservazione di Aristotele, profondissima, merita un 

breve commento. Lo scettico nega che il pensiero umano 

sia capace di conoscere la verità che gli compete: fatto per 

la verità, non la conosce; dunque il suo valore e il suo es- 

sere sono nulli. Ma l’uomo è uomo per il pensiero (intelli- 



(I) ArisroreLE, Met., l. IV, c. 3. 






L'esistenza di Dio 183 






genza e ragione): negare l’uno è negare l’altro, è fare che 

l’uomo somigli più a delle piante che all'uomo che è. Op- 

pure: il pensiero, senza il suo oggetto naturale che è la 

verità, è il non-pensiero; l’uomo, che è non-pensiero, è 

non-uomo: un puro vegetale o un puro animale (livello bio- 

logico). Qualsiasi questione sull’uomo non ha più senso, ma 

appunto per ciò, non ha senso lo scetticismo, che, nel suo 

stesso porsi, è contraddittorio: si autonega. 


Non solo lo scetticismo, ma ogni posizione filosofica che 

nega una verità oggettiva è negazione del pensiero e dunque 

dell’uomo; lo è l’idealismo storicista e dialettico. Se la verità 

e la sua validità sono storiche, consegue che il pensiero greco 

è la verità « storica » dell’antichità, quello cristiano la verità 

« storica » del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplice- 

mente che l’uomo non è capace di verità e non vi è verità, 

perchè verità significa verità e nient'altro: nè antica nè me- 

dioevale nè moderna, ma verità — scoperta nell’antichità o 

nel medioevo, da greci o da italiani — valida per ogni ente 

pensante, una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la 

verità è dialettica e la dialetticità è l’essenza del reale, conse- 

gue ancora che niente ha essere e nulla è vero: la realtà 

o la verità di ciascun ente è in « rapporto al » suo contrario 

dove si nega e si conserva dialetticamente. Nessun ente è 

quello che è: è nel suo conservarsi distruggendosi; nessun 

ente ha una sua realtà o essenza e la verità non è tale. 


Noi abbiamo difeso la presenza oggettiva della verità alla 

mente, perchè solo così si può difendere la validità del pen- 

siero e con essa l’uomo: perdere la verità è perdere il pen- 

siero, è svuotare l’uomo di se stesso, della sua natura, farlo 

somigliante, come dice Aristotele, alle piante e alle bestie. 

D'altra parte, se si nega validità oggettiva al sapere umano, si 

nega il fondamento naturale di quello rivelato, cioè la base 

della fede. A chi avrebbe parlato Dio se l’ente pensante non 

avesse lume oggettivo d’intelletto e discorsivo potere di ra- 



184 Filosofia e Metafisica 






gione ? Il suo discorso agli uomini avrebbe, in tal caso, lo stesso 

senso, cioè nessuno, che per le piante e le fiere; o tanti sensi 

mutevoli quante sarebbero le contingenti posizioni « stori- 

che » del pensiero, o le autonegantesi sue posizioni « dialetti- 

che »j cioè ancora alcun senso sensato. 



2. — La prova dalla vita morale. 



Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività intellettiva, af- 

finchè la prova non sembrasse pregiudicata da altri elementi, 

e soprattutto perchè qualsiasi altra possibile dell’esistenza di 

Dio, a nostro avviso, presuppone quella « dalla verità ». Ma 

ora è necessario analizzare gli altri aspetti della vita dello 

spirito, affinchè la prova manifesti tutta la sua aderenza al- 

l’uomo nella pienezza della sua integralità e riveli intera la 

sua forza normale. 


La verità originaria presente alla mente non interessa solo 

la vita intellettiva, ma ogni forma della nostra attività. Anche 

la vita morale ha il suo fondamento nei princìpi originari che 

guidano, orientano e informano ogni azione, quantunque nes- 

suna li adegui: ne sono la misura senz’essere da essa misu- 

rati. L'azione « buona » o quella « doverosa » non fanno es- 

sere bontà e dovere, anzi non vi sarebbero senza la bontà e 

il dovere, che invece sarebbero ugualmente anche se nel 

mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna azione buo- 

na e doverosa. Possiamo concludere: non vi sono i valori 

morali perchè esistono le azioni che li esprimono, ma queste 

in quanto esistono quelli, preesistono a tutte le azioni e ne 

sono indipendenti. 


I valori morali sono innanzi tutto verità oggettive, intuite 

dalla mente; in questo senso, anche se « pratici », sono teo- 

retici, regole della volontà che ad essi è obbligata a subordi- 

narsi, e ai quali si subordina e uniforma ogni qualvolta ne 

« riconosce » la verità ed il pregio: è la volontà volente se- 

condo l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di ogni 



L'esistenza di Dio 185. 









cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la ragione pra- 

tica di ogni azione secondo i valori morali, i quali sono verità 

(e come tali «teoretici ») regolatrici della volontà e della no- 

stra condotta e perciò aventi un uso pratico. Per conseguenza, 

come alla mente sono dati i princìpi fondamentali del cono- 

scere, così le sono dati quelli del volere; dalla presenza in 

noi di verità speculative si argomenta l’esistenza di Dio come 

Verità in sè; dalla presenza in noi dei valori morali si argo- 

menta l’esistenza di Dio come Valore assoluto, Bene sommo. 

L’argomentazione è identica a quella fatta a proposito della 

prova « dalla verità »: la mente umana è capace di conoscere 

valori morali assoluti che sono la vita, la forza e l’efficacia 

della volontà che di essi è come la rivelatrice; essi non sono 

creati dalla mente o dalla volontà, nè indotti a posteriori 

dall’esperienza, la quale anzi li presuppone; dunque esiste 

Dio come Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice di 

tutti i valori, di essi fondamento e sostegno. 


Il bene morale è anche «attrattivo »; la sua « attrazione » 

conferisce alla prova una nuova sfumatura e rivela tutta la 

sua potenza dinamica. Oggetto naturale della volontà è il 

bene, sua verità; essa ne è attratta, anche quando lo misco- 

nosce e gli si pone contro: il pentimento del male fatto, 

rivincita del bene, è opera della sua forza di attrazione. Il 

bene è il principio motore della volontà e l’elemento infor- 

matore delle volizioni. Non c’è felicità senza bene; il suo 

possesso è la felicità di ogni ente spirituale; dunque il bene 

è il principio di ogni nostra azione. Vi è una intuizione intel- 

lettiva di esso, una presenza, che è presenza di Dio come 

Bene sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di 

Lui e pertanto il rapporto tra il bene intuito e Dio come 

Bene Sommo è sempre analogico. Intuizione operante, crea- 

trice: conoscere il bene e volerlo è amarlo, esserne attratti; 

esso genera il movimento della volontà e ne concentra gli 

sforzi verso lo stesso fine, che non è solo il bene che l’ente 



486 Filosofia e Metafisica 






finito può conoscere e praticare, ma, attraverso questo, è il 

Bene Sommo, che trascende ogni bene e lo fonda. Amare il 

bene è operare nel bene, che si possiede in esso operando; le 

azioni buone sono le risposte veraci che noi diamo all’oggetto 

della nostra suprema aspirazione. Solo quando il bene diventa 

regola costante e continua della condotta, l’ente razionale, 

stimolato interiormente dall’attrazione del Bene sommo, 

cammina e si approssima sempre più alla meta. È la sag- 

gezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva, ricca ed in- 

digente, suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la 

norma regolatrice ed orientatrice. Il Bene Sommo, lume del- 

la mente e della volontà, illuminando, ama: Dio illumina 

ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci illuminiamo 

amandoci ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attra- 

zione del bene; Dio è l’attrazione assoluta del Bene assoluto. 

Il dinamismo della volontà, alla quale è presente il bene, è 

originariamente orientato verso il Bene Sommo o Dio, Cen- 

tro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi sforzi, 

che, altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente 

spirituale finito ha dunque il desiderio naturale del Bene 

Sommo, assolutamente ed infinitamente perfetto. 



3. — La prova dal desiderio naturale di beatitudine. 



L’ultima proposizione è la « maggiore », se alla dimostra- 

zione si dà la forma sillogistica, di un 'altra prova dell’esi- 

stenza di Dio, la quale si fonda pur essa su quella « dalla 

verità ». Infatti, la proposizione — «tutti gli uomini deside- 

rano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto » 

— non sarebbe formulabile se non avessimo la nozione del 

bene oggettivo; ma tale nozione non potremmo avere — 

non la crea la mente altrimenti l’uomo sarebbe Dio, nè si 

può indurre dall’esperienza la quale, al contrario, la presuppo- 

ne — se non ci fosse data originariamente come oggetto in- 

tuito. Per conseguenza: «) gli uomini desiderano natural- . 



L'esistenza di Dio 187 






mente il Bene sommo solo in quanto vi è in loro la sua pre- 

senza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il desiderio del 

Bene sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un 

principio di verità. Ciò rileva — diciamo fugacemente — 

quanto sia errata l’interpretazione modernista di tale argo- 

mento, la quale si fonda su un presupposto agnosticismo che 

distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo della prova; 

come pure quella pragmatistica, che, negato il suo valore teo- 

retico, limita la forza dell’argomento alla sua portata pra- 

tica e volontaristica. 


«Tutti gli uomini cercano di essere felici; senza eccezione. 

Quali che siano i differenti mezzi che adoperino, tendono 

a questo scopo... La volontà non muove mai il più piccolo 

passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte 

le azioni di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono 

perdere... »; così Pascal in una delle sue Pensées. Questo desi- 

derio di felicità, naturale ed irresistibile, è il movente della 

volontà che, spinta di volizione in volizione, non sa e non 

può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce del 

Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può ade- 

guare le tendenze e i desideri della volontà, il suo desiderio 

intimo e profondo del Bene assoluto, anzi il possesso dei beni 

finiti lo accresce sempre di più: la « volontà voluta » non 

adegua la « volontà volente », che vuole ancora e vorrà sem- 

pre fino a quando non possiederà l'oggetto della sua suprema 

aspirazione, come scrive il Blondel. Ma se è così, se gli 

uomini, anche quando si perdono, vogliono la felicità piena 

— quella che non rinvia — è evidente che la loro volontà è 

originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che 

è in essa la presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si 

può dire con Agostino: qualsiasi cosa l’uomo cerchi e voglia, 

cerca e vuole Dio. C’è al fondo del desiderio naturale di 

beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può 

restare sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 



188 Filosofia e Metafisica 






volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà rea- 

lizza il piano di se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la 

caduta dell’uomo al disotto dell’uomo. Vi è un dramma es- 

senziale alla radice della volontà: vuole con tutta se stessa 

il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al mas- 

simo della loro forza normale non la garantiscono dalla ca- 

duta, nè bastano ad ottenere da soli la beatitudine; ma sono 

la condizione indispensabile perchè essa resti conforme alla 

sua norma e non evada dalla sua partecipazione finale. In- 

fatti, orientare tutta la capacità della volontà volente verso 

un voluto finito è atto innaturale, è la guerra della volontà 

contro se stessa, contro il suo desiderio naturale del Bene 

infinito; è il male, in quanto, dato che il desiderio di infinito 

è indistruttibile, l’infinita capacità di volere, concentrandosi 

in un finito, lo assolutizza, non lo riconosce per quello che è. 

Così l’aspirazione all’infinito, teista e religiosa, degrada in 

idolatria e fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al falso 

per aver detto falso vero. L'autenticità della natura umana è 

perduta fino a quando, caduto l’idolo, l’orientamento genui- 

no della volontà non riprende il suo corso naturale e non si 

eleva al vero livello umano di desiderio naturale di beatitu- 

dine in Dio. 


Ma l’esigenza, come la pura esperienza vissuta, non ba- 

sta e, se puramente psicologica, non è dimostrativa. Rispon- 

diamo: 4) qui si tratta di un’esigenza naturale, essenziale ed 

universale dello spirito e, come tale, dell’essere umano; 5) i 

dati psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c) 

l’esperienza interiore, per il fatto che è tale, è più vera di 

qualsiasi esperienza esteriore; d) non ci troviamo di fronte 

al puro dato psicologico nel senso ristretto e soggettivistico 

del termine, ma alla vita dello spirito, che è un dato reale e 

all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora, 

il dato psicologico che qui consideriamo — tutti gli uomini 

desiderano la felicità piena e dunque tutti aspirano al Bene - 



L'esistenza di Dio 189 






sommo, il solo che possa appagare questo loro naturale desi- 

derio o essenziale esigenza — oltre che indicativo di una con- 

dizione reale, è anche aztestativo o testimoniante, in quanto 

quella condizione sarebbe inesplicabile senza la nozione o la 

presenza interiore del Bene sommo, inquietudine e movi- 

mento della volontà, verso cui è attratta in un dinamismo 

che in questo scopo unico ed assoluto trova la sua direttrice 

essenziale e la sua unità totale. Ma proprio nella indicatività 

e attestazione della condizione reale è il fondamento della 

dimostrazione razionale che giustamente si esige; non vi po- 

trebbe essere nella volontà la presenza creatrice di tanta vita 

spirituale ed orientatrice di ogni desiderio ed azione, se non 

esistesse il Bene sommo, a cui la volontà stessa aspira. In 

breve: non vi sarebbe nell’uomo desiderio di Dio, se Dio non 

esistesse. L’« indicatività » dell’esigenza, chiarita, approfon- 

dita e colta nella condizione naturale dell’ uomo, si rivela 

fondamento oggettivo della dimostrazione razionale. Ma se è 

così, anche se il desiderio di Dio si manifesta per ultimo, an- 

che nel caso che non si manifestasse affatto, esso è ugual- 

mente il motore interiore di tutto il dinamismo della vita 

spirituale: senza questa originaria « presenza della trascen- 

denza » (dell’Al di là interiore e trascendente) l’uomo sarebbe 

privo di ogni segno di Dio perchè da nient'altro potrebbe 

riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il 

desiderio naturale e necessario del fine ultimo o del Bene 

sommo non è una inclinazione incosciente, contingente e 

transitoria della volontà, ma un’inclinazione consapevole, 

che ci porta verso il bene, non della sola volontà, ma di tutto 

l’uomo (7). Gli altri desideri non sono che in funzione del- 

l’appagamento del desiderio essenziale e fondamentale della 

beatitudine, cioè del possesso del Bene sommo (5); dunque, 



(2) S. Tommaso, De veritate, 22, 3, ad 5 m. 


(3) Qui non si confondono affatto Bene e felicità, Valore e beatitudine: 

l'aspirazione alla felicità non significa volere il Benc per la felicità. Se fosse pos- 

sibile pensarlo senza contraddizione, si potrebbe dire ed è stato detto dai mistici, 



190 Filosofia e Metafisica 






la spiegazione di tutto il movimento della volontà va cercata 

in questo « implicito essenziale », sua unità primitiva, di cui 

le singole azioni non sono che l’esplicazione parziale e a 

cui tendono tutte come alla suprema unità finale. Il bene 

infinito a cui la volontà tende è la ragione per cui vuole gli 

altri beni: come l’oggetto della intelligenza è il Vero asso- 

luto, così l'oggetto della volontà è il Bene sommo. 


L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e per- 

ciò è vita perenne e dinamismo ascendente. Dinamismo «ver- 

ticale» e non «orizzontale», che è di ordine fisico o biolo- 

gico e non di natura spirituale; la dinamica dello spirito è 

processo di trascendenza reale e non apparente o spuria, 

quello che si mantiene sempre allo stesso livello, e non ascen- 

de, che guarda « avanti » e non «in alto », avanza ctelluri- 

camente » verso ciò che è più ir /è e non sale « iperurania- 

mente » verso quello che è 42 di lè. Noi abbiamo perduto il 

senso profondo ed autentico dei termini più pregnanti e per- 

ciò più ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali 

quelli di dinamismo, ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dal- 

l’uso immanentistico, e perciò naturalistico, che li ha depau- 

perati, depotenziati, detonalizzati. Un dinamismo che non è 

mosso ed alimentato da un fine che lo trascende è agitazione 

inconcludente ed arrovellamento disperato; una trascendenza 

come posizione provvisoria di un che che sarà immanentiz- 

zato è appiattimento dello spirito nell’orizzontalità del li- 

vello terrestre e perciò negazione del suo slancio ascendente 

alla trascendenza vera. Chi dice che noi, tendendo all’infi- 

nito, lo « realizziamo » nel nostro stesso tendere e lo « co- 



e come espressione mistica non è contraddittoria) che la creatura è disposta a sof- 

frire tutte le pene anche eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene 

sommo. Pertanto il desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche 

se tale possesso dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si 

preoccupi della propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già tutta la 

beatitudine dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale di beatitudine, 

se il possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità possibile, sarebbe ugual- 

mente desiderio di beatitudine e felicità. 



L'esistenza di Dio 198 






struiamo » nel nostro divenire, dice cosa che non ha alcun 

senso e, degradando l’infinito alla nostra finitezza, degrada 

noi al livello della fisicità e ci assimila alle cose. Il Gott-im- 

werden di Hegel è un'espressione senza senso, in quanto 

usa il termine Dio e dice di Lui cosa che Lo nega, con- 

traria alla Sua natura. Dio non è un fine che « produce » 

l’uomo — ed è ridicolo che lo possa produrre — ma un fine 

a cui l’uomo « tende » e può « attingere »; e ogni fine a cui 

« si tende » e che si vuole « attingere » presuppone precisa- 

mente l’esistenza del fine desiderato. Dio, dunque, a cui 

ogni uomo tende, è la Mente che è Verità, la Volontà che 

è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni 

vero e di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente 

creatrice. Il Bene sommo trascendente è appunto il fine ade- 

guato dell'umano naturale desiderio di beatitudine. 


Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene som- 

mo; ma potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qual- 

cosa di inesistente e impossibile. Abbiamo già risposto a 

questa obiezione, la cui forza è puramente apparente, in 

quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano natu- 

ralmente il Bene sommo, è provato anche che il loro desi- 

derio naturale non può essere vano, proprio perchè natu- 

rale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è desi- 

derio naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un 

desiderio naturale senza l’esistenza dell'oggetto proporzionato 

sarebbe contraddittorio ed inintelligibile: una potenza senza 

il suo atto, nel linguaggio tomista. Per conseguenza, come ar- 

gomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe 

avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non 

potrebbe eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo ec- 

cede è perchè l’Essere infinito dà fondamento a questo suo 

desiderio; dunque esiste il Bene sommo, infinitamente per- 

fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua 



(4) S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 



192 Filosofia e Metafisica 






natura tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- 

mente diffusivo, Attività creatrice, da e per cui è ogni bene 

creato, di Lui debole immagine. Ma per quel che è di bene 

è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il fine 

del suo movimento (7). 


Ma anche la prova dal desiderio naturale di beatitudine 

‘presuppone l’altra « dalla verità », senza l’intuizione della 

quale non vi sarebbe in noi il desiderio del Bene sommo, 

in quanto l’uomo non sarebbe creatura intelligente. Dio, 

creandomi ente intelligente, mi dà quanto è necessario che 

io abbia per essere tale; la verità a me interiore fa che la 

mia vita intellettiva resti sempre sotto la dipendenza divina: 

cammino sulle orme di Lui e dunque su una via già se- 

gnata ed orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della 

mia volontà. Nessuna verità finita può soddisfare la mia 

intelligenza e nessun bene creato il desiderio infinito della 

mia volontà; io ho avuto quanto basta affinchè la nostalgia 

della « patria » sia invincibilmente impressa nella mia vita 

spirituale e ne segni la « via »: et irrequietum est cor nostrum 

donec requiescat in te (6). L’autocoscienza o la consapevolez- 

za di quel che sono è insieme coscienza di me o dell’io e 

di Chi o del Tx che trascende; sapere me è sapere che Dio 

è; ed è amarLo. L’autocoscienza profonda, sapersi fino in 

fondo, involge la coscienza dell’esistenza dell’ente finito e 

quella dell’Essere infinito. 


L’autocoscienza kantiana ed idealistica, invece, è coscienza 

di me come trascendentalità o unità delle forme trascen- 

dentali. Per conseguenza: è coscienza di me vuoto (le forme 

a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma del contenuto 

dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- 

lida delle forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, 



(5) Il desiderio naturale di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene 

spesso ciò si dimentichi, « sostiene e comanda ogni speculazione filosofica sul 

mondo, sull’umanità e sul loro destino » (Le problème de la philosophie catho- 

lique, Paris, 1928, p. 161). 


(6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. 



L'esistenza di Dio 193 






non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra- 

scendentale non può mai trascendere il mondo, non è mai 

coscienza di me e di Chi mi trascende. L’idealismo trasfor- 

ma l’Io trascendentale kantiano in entità metafisica per cui, 

da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la 

«cosa in sè» come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- 

soluto è lo stesso Io trascendentale, lo identifica coerente- 

mente con l’unità del mondo. Così l’autocoscienza resta pri- 

gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto, si assimila 

alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo 

muore nella trascendentalità: il suo desiderio naturale di 

beatitudine è compresso e soffocato; il suo fine ultimo è il 

mondo, il suo unico amore la terra. Dio è morto e, con Lui, 

l’uomo. 



CapiroLo VII 



BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI 

ONTOLOGICO E COSMOLOGICO 



Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la prova 

« dalla vita dello spirito » non è riducibile nè a quella onto- 

logica nella forma di Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- 

vuto nel corso della storia della filosofia, nè alla prova co- 

smologica, di cui la più chiara ed esatta formulazione sono 

le « cinque vie » di S. Tommaso. Non è riducibile, ma non ne 

esclude alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più 

forza, perchè di esse è il fondamento. Sarebbe quanto mai 

opportuno, ma non rientra nei limiti della nostra indagine, 

un esame approfondito delle due prove ontologica e cosmo- 

logica, nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno 

avuto, in rapporto a quella da noi sostenuta; mostrerebbe 

come esse, in molti punti concordanti e convergenti, sono 

riducibili in fondo ad una sola. Qui ci limitiamo a qualche 

osservazione, che giova a chiarire quanto abbiamo scritto. 



— La prova ontologica. 



È la più accanitamente difesa e combattuta, ma resiste 

sempre; non si tratta di respingerla o accettarla integralmen- 

te, ma di bene intenderla e soprattutto di integrarla. Infatti, 

se essa presuppone la prova « dalla verità », tipica di S. Ago- 

stino, ci sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, 

in tal caso, muovendo dalla realtà della vita spirituale, 

vien meno la forza della principale obiezione: impossibilità 



L'esistenza di Dio 195 






di dedurre dall’idea di Dio la sua esistenza, di passare dal- 

l’ordine del pensiero a quello della realtà. A nostro avviso, 

l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina agostiniana 

della verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. 


I sostenitori della prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- 

naventura sicuramente, sono preoccupati del fatto che, se la 

nozione di Dio non è in noi, non può in alcun modo essere 

indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se non 

è presente alla mente e da essa interiormente intuita la ve- 

rità, fondamento di ogni vero particolare e modo come Dio 

può essere in noi, non è possibile all'uomo partecipare del 

suo Principio: senza una verità originaria che illumina la 

mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo 

verità; di pensare e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea 

di Dio, come chiariremo tra poco, è partire dal fatto del 

pensare: è un fazto che la mente conosce verità aventi i ca- 

ratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’asso- 

lutezza; un fazto che essa non le crea e non le riceve dalle 

cose finite e contingenti; dunque esiste Dio come Verità in 

sè, da cui deriva la verità che è in noi. Intuire l’idea di Dio 

è possibile in quanto si intuisce la verità in noi, quella di 

cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità 

illuminante e operante, tanto è vero che le operazioni del- 

la ragione (il giudizio e la dimostrazione) sono possibili in 

quanto presuppongono quel lume di verità che è anche lu- 

me di bene, che alimenta il movimento della volontà e fa 

che sia desiderio ed amore del Bene sommo. 


Se teniamo presente la formulazione agostiniana della 

prova « dalla verità » nella forma sillogistica in cui l'abbiamo 

enunciata, la minore — «la mente umana intuisce verità 

immutabili e assolute, ad essa superiori » — implica l’esi- 

stenza di Dio, cioè della Verità in sè: non vi potrebbe essere 

verità presente alla mente e ad essa superiore se non esistesse 

la Verità. Abbiamo avuto cura di dimostrare che non c’è 

verità semza un pensiero che la pensa e che, d’altra parte, 



19% Filosofia e Metafisica 









non c’è pensiero senza verità: nell’uomo vi è verità, dun- 

que egli è un ente pensante; privo della verità cesserebbe 

di esserlo. Per conseguenza: esiste un pensante, dunque, esi- 

ste Dio, Pensiero assoluto creatore di ogni ente pensante. 

Certo, per analisi, posso distinguere e distinguo tra il pen- 

sare e la verità oggetto della mia mente, ma, in concreto, 

il pensare, perchè tale, involge già la verità e questa il pen- 

siero di cui è oggetto; dunque concretamente io esisto come 

essere pensante la verità e pensante per la verità: l’una ade- 

risce all’altro e sono inscindibili. Perciò la prova « dalla ve- 

rità » non muove da un possibile, ma dall’ente pensante, dal- 

l’uomo. D'altra parte, la verità oggetto della mente e per 

cui la mente è mente, non ha la sua sussistenza nell’ente 

pensante che la pensa, in quanto questo è finito e contin- 

gente e quella infinita e necessaria; dunque, pensata dalla 

mente, le è superiore. Di qui la necessità che esista il Pen- 

siero infinito, necessario e assoluto, Soggetto sussistente del- 

la Verità, che con esso s’identifica. Nell’ente creato la verità 

non scindibile dalla mente è suo oggetto, da nessuna cosu 

creata adeguato; perciò l’unità non significa anche identità; 

nell’Ente increato Pensiero e Verità s’identificano. 


A noi sembra che l’argomento ontologico di S. Anselmo 

vada inteso tenendo presente quanto già detto. Egli muove 

dall’idea di Dio come « l’essere di cui non si può pensare nulla 

di maggiore »; tale idea importa innanzi tutto che sia pen- 

sata, cioè che vi sia una mente che pensa; ma non vi può 

essere pensiero senza presenza di verità; dunque l’idea di 

Dio importa l’esistenza di un ente pensante e, come tale, 

dotato di verità. Per conseguenza, la presenza alla mente 

dell’idea di Dio presuppone l’esistenza dell’ente che è pen- 

siero ed è tale perchè in lui è presente la verità; l'argomento 

ontologico presuppone la prova « dalla verità ». Una sarebbe 

la difficoltà, che non è alcuna di quelle prospettate da Gau- 

nilone, S. Tommaso e Kant: come fa l’uomo a pensare 

Dio? ad averne un’idea vera? In fondo, l’ateo nega Dio per-. 



L'esistenza di Dio 197 






chè nega che si possa averne un’idea vera; se lo si con- 

vince che l’idea di Dio è presente alla mente e che perciò ne- 

garne l’esistenza è contraddittorio, si arrende 0, se non al- 

tro, si dispone a ragionare secondo verità. Dunque, superata 

la difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la prova 

è imbattibile, in quanto basta pensare Dio per pensarlo esi- 

stente. L’alternativa che pone l’argomento ontologico è la 

seguente: o si pensa Dio o non Lo si pensa; se lo si pensa, 

Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a Dio nel 

momento che Lo nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dun- 

que, ripetiamo, se Dio si pensa, esiste; ma per il fatto che 

la mente Lo pensa, le è presente la verità e con essa l’idea 

di Dio. 


Ancora: se Dio è l’essere di cui non si può pensare nul- 

la di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa, riconosce 

che le è presente qualcosa che è superiore ad essa, e ad 

ogni cosa esistente o pensabile; per conseguenza conclude 

(l’argomentazione è identica a quella della prova « dalla ve- 

rità ») che esiste l’Essere assoluto. La verità presente alla men- 

te le aderisce, come già detto, per cui non c’è mente senza 

verità e verità che non sia oggetto di una mente. L’idea di 

Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso modo: in concreto, 

c'è l’uomo pensante Dio e l’idea gli appartiene come qual- 

cosa che fa parte della sua natura; non il pensiero e l’idea 

di Dio, ma il pensiero che pensa Dio. Così intesa, la prova 

perde quel carattere concettuale ed astratto che, a prima vi- 

sta, presenta e acquista tutta la sua concretezza: non muove 

dall’idea di Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui 

aderisce la verità, connaturata, nell’atto creativo, alla crea- 

tura umana. 


Bisogna ancora notare che nei sostenitori dell’argomento 

ontologico c'è un’altra preoccupazione legittima, quella di 

dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio cristiano, cioè del- 

l’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore, 

Verità illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 



198 Filosofia e Metafisica 



si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ra- 

gione ma anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto 

proprio della religione e della coscienza religiosa. Per il 

filosofo cristiano, il problema dell’esistenza di Dio si pone 

in questi termini: è razionalmente dimostrabile l’esistenza 

del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razio- 

nale della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provviden- 

za? Per lui, senza che la fede abbia a pregiudicare la razio- 

nalità della dimostrazione, non si tratta solo della ragione, 

ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a servizio 

della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio 

Causa prima non causata del divenire, Legge dell’Uni- 

verso, come quello aristotelico, ma di Dio Padre Creatore 

ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema, il 

punto di partenza dell’argomentazione ha una grande im- 

portanza: bisogna partire da un ente che contenga tutti gli 

elementi per concludere a Dio come è creduto per fede e 

poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su 

questo punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, 

qui das fidei intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire 

intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es quod credimus 

(Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostra- 

zione: Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod 

prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, 

ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere (Proslo- 

gion, c. IV). 


È qui il punto: la mente intende Dio perchè Egli, la Ve- 

rità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che 

rendono valida la discorsività razionale. In questo senso è 

vero che, se Dio non fosse originariamente a noi interiore, 

non potremmo mai dimostrarne l’esistenza, non saremmo 

neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche razio- 

nali. Ma, oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè 

notata: chi parte dal mondo fisico rischia di non incontrare 

il vero Dio — quello in cui si possa credere, che si possa 



L'esistenza di Dio 199 






pregare, adorare, sentire vivente nel cuore di ogni uomo — 

ma un Principio impersonale, una Causa cosmica, una Leg- 

ge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filo- 

sofo di un deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega 

perchè San Tommaso, filosofo cristiano, pur essendo aristo- 

telico, ha trasposto il pensiero del filosofo pagano in ter- 

mini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non è 

aristotelico. Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza 

aristotelica del suo pensiero e non se ne rivive la profonda 

ispirazione cristiana di origine agostiniana, di essere cristiani 

di fede, ma aristotelici — e dunque non cristiani — di -pen- 

siero, cioè dei piissimi... atei. Invece, chi muove dalla vita 

dello spirito nella sua integralità, se riesce nella prova, di- 

mostra il Dio che è Mente e Volontà creatrici di spiriti e 

di menti, Verità e Libertà creatrici di verità e di libertà a 

loro volta creatrici; questo Dio si può pregare, adorare, 

sentire nel cuore. D'accordo: si tratta di partire da un dato 

positivo di esperienza su cui esercitare la riflessione; perchè 

non può essere la nostra vita spirituale? la nostra esperienza 

interiore più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’espe- 

rienza interiore, la realtà umana, non sono dati positivi? 

Ma proprio l’esperienza interiore e la vita tutta dello spirito 

sono intelligibili per il lume interiore di intelligibilità che 

le fa tali, per la verità presente alla mente, immagine di 

Dio, da Lui data. Da e per questa, e solo in quanto essa 

c'è, la ragione argomenta che Dio esiste; rapporto di somi- 

glianza e analogia, razionalmente corretto e perfettamente 

ortodosso. Se l'argomento ontologico è inteso nel suo nucleo 

di verità ed in stretto legame con la prova « dalla verità », 

da esso presupposta, perde le sue apparenze di astrattezza e 

di argomentazione dal puro dato concettuale. Inserito nella 

realtà della vita spirituale non è più raggiunto dalle obie- 

zioni di Gaunilone o di S. Tommaso, il quale non nega la 

presenza in noi delle verità prime che, anche se è neces- 

saria l’esperienza per acquistarne consapevolezza (vengono 



200 Filosofia e Metafisica 









dopo «cronologicamente »), non sono date dall’esperienza 

sensoriale. 


Così impostato, l'argomento ontologico è di un’evidenza 

fuori discussione derivantegli dall’identità in Dio di essenza 

ed esistenza (!). La stessa affermazione che nell’essenza di Dio 

è contenuta l’esistenza ha un significato più che altro chia- 

ritivo ed esplicativo; in effetti, non è che nell’essenza di Dio 

è contenuta la Sua esistenza, bensì che la Sua essenza è 

necessariamente la Sua esistenza. Non essendo Dio «ricevuto» 

in alcuna essenza specifica, come abbiamo detto sulla scorta 

di S. Tommaso, perchè la Sua stessa essenza è l’atto di es- 

sere — o il suo atto di essere è costitutivo dell’essenza — 

consegue ancora la identità perfetta di essenza ed esistenza. 

Dire che a Dio è necessaria l’esistenza significa che l’esi- 

stenza è identica alla Sua essenza, che non è alcuna speci- 

fica essenza; in breve, Egli è la Verità che è Verità, l’Essere 

che è l’Essere e non può non essere l’Essere: è l’Esistente. 

Chiaro che l’identità di essenza ed esistenza vale soltanto 

per Dio e non per l’«isola beata » di Gaunilone o per i 

«cento talleri» di Kant; isola beata, talleri e ogni altra 

cosa non possiedono l’esistenza in e da sè e perciò dipen- 

dono dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio l’Esistente asso- 

luto. La derivazione, nell’argomento ontologico, dell’esistenza 

dall’essenza serve per convincere la nostra mente, a cui Dio 

non è evidente per se stesso, con la forza del ragionamento; 



DI 



cioè è necessaria per la nostra mente finita, ma in Dio 



(I) Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di essenza ed esistenza, 

S. Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano: accetta le premesse, ma nega 

la conclusione, non accorgendosi che è impossibile perchè contraddittorio. S. Tom- 

maso concede che l’Essere perfettissimo non può essere concepito senza essere 

concepito esistente, ma aggiunge che ciò significa che esiste solo in intellectu e 

non in rerum natura. L’obiezione non ha alcuna forza: l’Essere perfettissimo, 

che non può non essere concepito che come esistente, per ciò solo esiste. Il 

passaggio dall’ordine dell’idea a quello dell’esistenza è richiesto da tutte le altre 

cose, che possono essere concepite esistenti e non esistere affatto în rerum natura 

perchè non perfettissime, tranne che da Dio, in quanto solo in Lui, come S. Tom- 

maso ammette, essenza ed esistenza s’identificano. 



L'esistenza di Dio 201 






non si può parlare di derivazione alcuna per la identità di 

essenza ed esistenza. Se c’è identità, come si dice che dalla 

essenza deriva necessariamente l’esistenza — e per la mente 

finita non può essere diversamente in quanto nello stato 

naturale non le è presente Dio com'è in sè — così si può. 

dire, ma non più rispetto a noi, che dall’esistenza deriva 

la Sua essenza. In verità, non c’è derivazione: Dio è lo 

Essere che è l’Essere, identità assoluta di essenza ed esi- 

stenza come di esistenza ed essenza. 


Ciò posto, possiamo dire che per Dio dall’essenza segue 

l’esistenza; per ogni altro ente dall'esistenza segue l’essenza, 

ma tutti gli enti che non sono Dio ricevono l’esistenza, non 

la « pongono », non esistono da sè. Solo in Dio, posta l’es- 

senza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta 

con essa l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque 

non Lo si può concepire senza concepirLo esistente: l’esi- 

stenza non si aggiunge, è nella Sua essenza. Ma, se è ne- 

cessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza, è neces- 

sario per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, 

cioè non può concepirsi esistente senza concepirlo con una 

sua essenza. È qui la forza della prova cosmologica: partendo 

dalle cose, non possiamo non muovere dalla loro esistenza, 

cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma ap- 

punto perchè non sono atto di se stesse, pongono il pro- 

blema del principio del loro esistere. D'altra parte, non la 

sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza contenente una 

essenza, un ordine, una « verità »; dunque, pongono il pro- 

blema del loro principio non in quanto soltanto esistenti, ma 

in quanto esistenti con un'essenza o essenze esistenziate. Per 

conseguenza, l'argomento dalle cose contingenti si riallaccia 

a quello « dalla verità », come, del resto, l’argomento on- 

tologico, il quale, a differenza di quello cosmologico, che 

non può non partire dall’esistenza delle cose, non può muo- 

vere che dall’essenza o idea di Dio, la sola che contiene 

necessariamente l’esistenza. 


Da ultimo notiamo che l’argomento anselmiano con- 



202 Filosofia e Metafisica 






tiene un altro elemento di verità, del resto, già da noi evi- 

denziato: mettere l’ateo di fronte al senso dell’affermazione 

«Dio non esiste ». Che Dio non esiste si può «dire» e 

l’ateo lo « dice »; ma ha un senso questa espressione ver- 

bale e le si può dare l’assenso? S. Anselmo dimostra che 

quel che dice l’ateo non ha senso, e per questo è insipiens, 

«non sa quello che dice »: parla di Dio, ma « pensa » ad 

altro, manca della vera nozione. Non perchè non ce l’abbia, 

ma perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della sua 

vita spirituale e perciò della verità: i suoi giudizi non pos- 

sono essere che da insipiens, della ragione sensitiva non della 

ragione intellettiva. Che Dio non esista non si può neppure 

pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha senso pensare 

come non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla 

di maggiore, perchè pensandolo non esistente mon si pensa 

più a Lui, ma ad un qualsiasi altro ente che si può pensare 

senza pensarlo esistente appunto perchè non è l’Essere di 

cui non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà, 

nel momento che nega Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova 

ancora che l’esistenza di Dio non è una verità immediata 

nota a noi per se stessa e perciò è bisognosa di dimostrazione, 

ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva di Dio 

{e dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cer- 

cato nel dato sensibile), ma perchè possiamo allontanarci da 

noi stessi e dalla luce interiore, essere assenti a noi, « fuori 

di noi », lontani dal sapere intellettivo ed immersi nel cono- 

scere sensitivo. La dimostrazione occorre non perchè manchi 

in noi la presenza di Dio, ma perchè non c’è immediata nè 

sempre attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse 

su quello che « dice » non potrebbe « pensare » che Dio non 

esiste nè «assentire » alla sua affermazione negativa, in 

quanto, incontrandosi con se stesso e con la verità che è in 

lui, si incontra con Dio. L'argomento ontologico manifesta 

chiaramente la sua origine agostiniana, da dove trae for- 

za. Esso è anche valido negativamente: dimostra assurda. 

la negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia valore 



L'esistenza di Dio 203 









razionale la proposizione « Dio non esiste », che l’insipiens 

pronunzia in cuor suo (?). 



2. — La prova cosmologica. 



Ci siamo più di una volta richiamati alla prova (alle 

prove) cosmologica o a posteriori dell’esistenza di Dio, an- 

ch’essa vera se riportata a quella « dalla verità ». L’argo- 

mentazione — vi è il moto nelle cose; ciò che è mosso è 

mosso da altro (quidguid movetur ab alio movetur); la 

serie causale non può procedere all’infinito; dunque esiste 

un Primo Motore, qui ipse est immobilis — prima che di 

S. Tommaso (I via) è di S. Agostino, il quale a più riprese 

formula l’argomento cosmologico. Ma lo stesso Agostino 

la riduce a quella « dalla verità » per il motivo che la prova, 

la quale parte dai dati sensibili, dipende da alcuni elementi 

intelligibili non derivati e non derivabili dall’esperienza, 

quelli che le conferiscono validità oggettiva; dunque, non 



(2) E’ nota la critica di Kant all'argomento ontologico: 4) l’idea di un 

oggetto non contiene la sua esistenza; essa dice solo che esso è possibile, perchè 

non implica contraddizione; £) l'esistenza può essere aggiunta solo dalla espe- 

rienza, cioè 4 posteriori (sinteticamente) ed è indeducibile dall’essenza (analitica- 

mente); c) perciò, se l’esistenza, anche nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta 

dall'esperienza, consegue che essa non fa parte dell'essenza o idea; dunque to- 

glierla o aggiungerla non diminuisce nè accresce il contenuto dell’essenza; d) 

pertanto, anche negandogli l’esistenza, l’idea o l'essenza di Dio non perde alcuna 

perfezione. In altri termini, l’esistenza non è un predicato e dunque il contenuto 

del concetto di un oggetto resta quello che è sia che esista o non esista. Ciò 

conferma che l'esistenza di un oggetto pensato non può essere dedotta dalla sua 

essenza, ma è aggiunta dall'esperienza nel caso che questa la fornisca; ma l’espe- 

rienza non fornisce affatto l’esistenza di Dio e pertanto non è possibile dimo- 

strare che Egli esiste fondandosi sui princìpi speculativi della ragione, senza che 

ciò impedisca che Dio venga pensato come l'Essere perfetto di cui non si può 

pensare nulla di maggiore, appunto perchè, avere o non avere l’esistenza niente 

aggiunge e toglie all'idea di un oggetto. 


Kant considera Dio alla stessa stregua degli enti finiti per i quali vale la 

distinzione di essenza ed esistenza, senza senso per Dio, che è identità di essenza 

ed esistenza; infatti, l'affermazione di Anselmo, che l’idea di Dio involve neces- 

sariamente l'esistenza vale solo per Lui, per l’ente di cui non si può pensare 

nulla di più grande. Kant non si accorge (il paralogismo è suo) che quando 

afferma che dall’idea di Dio non si può dedurre l’esistenza, la quale dunque 

dovrebb'essere aggiunta, non parla più di Dio, in quanto non parla dell’essere 

di cui non si può pensare nulla di più grande: quando critica l’argomento onto- 



204 Filosofia e Metafisica 






possiamo ascendere dalle cose sensibili a Dio senza appog- 

giarci alla Verità interiore. Esatta l’affermazione di S. Tom- 

maso che la prova deve avere il suo punto di appoggio in 

un dato reale e non in una pura entità concettuale, ma il 

dato reale primo non è il sensibile, bensì la realtà spirituale 

e quanto in essa è implicitamente presente. Per esempio: 

esistono cose che hanno un certo grado di perfezione; ciò 

indica che esiste il perfetto del quale partecipano le perfe- 

zioni finite; dunque esiste Dio Perfezione assoluta (IV via). 

Esatto, ma come può il soggetto conoscere, misurare, il grado 

di perfezione delle cose, se non intuisce la perfezione, se 

non ha in sè la misura con cui misura? In altri termini: non 

potrei dire «questa cosa ha un grado di perfezione » se 

non fossi illuminato dalla perfezione, cioè se non fosse in- 

teriore alla mia mente una nozione di essa, che le cose pos- 

sono anche esplicitare, ma non mi possono dare. La propo- 

sizione «le cose hanno un grado di perfezione » è un giu- 



logico non pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea di 

Dio è qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire a 

quello che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un 

concetto reale, cioè implicante la realtà del suo oggetto. 


Tutta l’argomentazione di Kant è errata sostanzialmente. La sua afferma- 

zione: sia che Dio esista o no, nulla si toglie o si aggiunge alla sua perfezione, 

vale per l’ente finito, ma non ha alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità 

di essenza ed esistenza, non ha senso parlare di togliere o di aggiungere a Dio- 

l’esistenza. Ne ha solo uno: togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta 

la sua perfezione, ma negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa 

essenza; dunque, negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così resta 

confermato che se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo stesso 

ateo che « pensa » di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste. Negare Dio è 

ancora negare l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste e pensa Dio, 

dunque Dio esiste. 


Ma le critiche che Kant muove all’argomento ontologico e agli altri hanno, 

in fondo, un'importanza secondaria nel suo sistema, cosa a cui forse non si è 

badato abbastanza. Ci spieghiamo: è l’impostazione della Critica che in partenza 

nega l’esistenza di Dio o almeno non può più giustificarla; le obiezioni alle 

prove tradizionali, tutte paralogismi, sono chiamate a coonestare i presupposti del 

sistema. Quando Kant ha ammesso che le forme valgono solo nei limiti della 

esperienza c pertanto il pensiero trova il suo oggetto adeguato nei contenuti finiti 

dell'esperienza stessa o in quel contenuto finito che è il reale nella sua totalità, 

e che le «idee » non sono conoscenze ma pure « condizioni » del conoscere il. 





cui contenuto dovrebbero ricevere dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espe- 



L'esistenza di Dio 205 






dizio: come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del 

giudizio a cui conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltre- 

passo i corpi e anche me stesso, in quanto quella verità pri- 

male è più di me, misura anche la mia ragione e la mia 

intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste non 

« dalle cose », ma in quanto mi sono elevato da esse alla 

verità che è in me e da questa a Dio: dall’esteriore all’inte- 

riore e dall’interiore al Superiore. Quella cosmologica è una 

via anch'essa, ma più lunga; l’altra « dalla verità » più 

breve: dalla verità in me (interiore) alla Verità in sè (al 

Superiore). Entrambe si fondano sulla dipendenza essenziale 

dell’ente finito dall’Essere che lo pone, ma nella prima il 

rapporto è diretto: lo spirito conosce se stesso e in questo 

atto intuisce la verità che in lui è presente e lo illumina; 

di qui argomenta che, partecipato, esiste l’Essere di cui 

partecipa, il Principio da cui è. Pertanto l’autocoscienza 

implica la presenza a se stessa del Principio creante: avver- 



rienza) e se non lo ricevono sono « vuote », egli ha escluso non solo la soluzione 

del problema dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita dello spirito: 

ha decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un infinitesimo il 

livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è altra verità ncl- 

l'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col processo sintetico del conoscere, 

ne fa il legislatore della natura (cioè gli attribuisce il potere che spetta a Dio), 

ma nello stesso tempo, mondanizzandolo, lo immondanizza, lo pone al di sotto 

di se stesso, al livello dell’empirico. L'esigenza della metafisica e i postulati della 

ragione pratica sono pure sovrastrutture che la Critica non sopporta se non con- 

traddicendosi. Essa nella sua impostazione iniziale non è orientata verso la teo- 

logia, bensì verso la cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. 


Non possiamo non accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontolo- 

gismo critico del Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso 

un'elaborazione critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto 

puro assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti, l’esi- 

stenza è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio, l'Assoluto, non è 

soggettività nè alterità e perciò non gli compete l’esistenza: dire che esiste è fare 

di Lui un soggetto singolo tra singoli, cioè négarLo. L'argomento ontologico de- 

v'essere pertanto abbandonato così come è nella sua forma tradizionale e accettato 

solo nel punto di partenza, l’ Idea: Dio è 1’ Oggetto o l' Idea assoluta, pura, 

oggettiva immanente allé singole coscienze: l’ Unico nei singoli e non uno dei 

singoli, come sarebbe se si ammettesse esistente. Così inteso, Dio non si può 

negare con il pensiero, pérchè sarebbe negare l’oggettività del pensiero stesso con 

un atto di pensiero e ciò è contraddittorio. «/o penso, dunque affermo Dio; 

se tu neghi Dio, non pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva 



206 Filosofia e Metafisica 






tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se esiste 

l’uomo, esiste Dio; l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta 

che esista un pensiero, perchè sia implicata l’esistenza del 

Pensiero assoluto. Infatti, dato un pensiero, come abbiamo 

detto, è dato un essere pensante e se è dato un essere, esiste 

l’Essere assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla 

verità-uomo, la verità che ogni uomo è, alla Verità in sè, di 

cui ogni uomo partecipa per una dipendenza essenziale ini- 

ziale e finale. 


Attraverso di essa, se vuole esser valida, è costretta a 

passare la via cosmologica per il motivo che sono i prin- 

cìpi primi o le verità primali che rendono possibile il giu- 

dizio vero, la conoscenza delle cose sensibili, e con ciò fanno 

che sia valida ogni argomentazione dalle cose finite e con- 

ungenti a Dio essere infinito e necessario. Ogni regola di giu- 



e in quella negativa » (P. CaraseLLEsE, 1 problema teologico come filosofia, 

Roma, 1930, pp. 181-183). 


Ma quale argomento ontologico? Qui non c'è più argomento di sorta: c’è solo 

l’affermazione che io penso con la quale è identificato Dio. Altro è dire « io 

penso, dunque affermo Dio »; altro «io penso, dunque Dio esiste ». Le due 

formule sono antitetiche: la prima nega Dio e, contraddittoriamente, afferma 

il pensiero; la seconda dimostra l’esistenza di Dio dalla realtà del pensiero, che 

c'è perchè Dio esiste. S. Anselmo muove dall'idea di Dio e ne argomenta l’esi- 

stenza; il Carabellese dice che Dio è Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne 

nega l’esistenza. Altro che argomento ontologico! Idea di chi? delle coscienze 

singole e dunque immanente e, come tale, adeguata da quel finito che è il mondo; 

ma se Di è tutto immanente, è finito come il mondo a cui è immanente, e ad 

esso relativo. Non la trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come assoluto; 

è l’immanenza che lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o globale, delle 

singole coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico proprio in quanto 

esiste, perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui coincidono essenza ed esistenza. 


Questa, in fondo, la posizione del Carabellese: accetta il concetto panteistico 

spinoziano di Dio, lo ripensa utilizzando quello kantiano di Idea o noumenicità 

pura e a questo assimila, contro la lettera e lo spirito della sua filosofia, l’idea 

dell’essere del Rosmini. Da ciò trae le conseguenze estreme: se Dio è pura nou- 

menicità o Idea e questa non è che l’oggetto di una coscienza pensante, Egli 

è l’Oggetto puro immanente alle singole coscienze pensanti. Così il Carabellese 

all’immanenza idealistica, con la quale ha polemizzato efficacemente tutta Ja vita, 

sostituisce l’immazenza ontologica, dell’Idea od Oggetto assoluto nei soggetti sin- 

goli. A noi qui non interessa l’importanza polemica di questa posizione nei 

confronti dell’idealismo trascendentale, ma la sua validità ai fini del problema 

dell’esistenza di Dio; e non ne ha alcuna. Il Carabellese ha ripetuto anche lui 

l’errore di distinguere in Dio essenza ed esistenza e non si è accorto che, negare 

l'esistenza, è negare anche l'essenza, cioè l'Idea; in fondo, ipostatizza la rosmi- 



L'esistenza di Dio 207 






dizio lo è innanzi tutto del nostro pensiero; dunque tutte le 

possibili prove cosmologiche dipendono da quella « dalla ve- 

rità ». Le due forme di argomentazione — a) esiste qual- 

cosa di contingente e finito, dunque esiste l’Essere necessario 

ed infinito; 5) è presente alla mente una verità che le è su- 

periore; dunque esiste la Verità in sè — nella loro profon- 

dità si riportano allo stesso principio di verità, da cui rice- 

vono la loro forza. Infatti, partendo pure dalle cose sensibili, 

l’argomentazione non può non seguire questo procedimento: 

le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali, non possono 

avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna « trascen- 

derle » per cogliere il Principio da cui derivano quanto han- 

no di ordine, di perfezione e di essere; al di sopra dell’or- 

dine e della perfezione delle cose vi sono l’ordine e la per- 

fezione del nostro pensiero, con cui conosciamo, « giudichia- 

mo » e « misuriamo » quelli delle cose; la verità che è in 



niana idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea 

assoluta avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui importa 

il problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco, identifica 

Dio con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità del molteplice 

è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità reale. - Per la 

critica dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G. Zamsoni nell’ Itinerario 

filosofico, (Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto presenti. Per altre nostre 

osservazioni al pensiero del Carabellese su questo punto cfr. 1! Secolo XX, Milano, 

19472, pp. 277-281; Il problema di Dio e della religione nella filosofia attua- 

le, Brescia, 19533, pp. 120-122. D'altra parte, è errato affermare che l'esistenza 

non è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere pensato, in quanto l’ente che 

esiste nel solo pensiero e non anche nella realtà è inferiore a quello che esiste 

nel pensiero e nella realtà, come nota S. Anselmo (Proslogion, c. Il); lo è in 

quanto l’essere che esiste solo nel pensiero ne dipende: esiste perchè il pensiero 

lo pensa e soltanto come essere pensato. Pertanto dire che l’esistenza non aggiunge 

nulla alla perfezione dell'idea di Dio è dire che Egli è relativo al pensiero 

umano, è puro oggetto pensato ed è solo in quanto il pensiero lo pensa. Perfetta- 

mente il contrario: io penso in quanto in me è presente la verità che è presenza 

di Dio e dunque in quanto la stessa idea di Dio è luce del mio pensiero. Ma 

Kant, tornando a lui, nega che esistano nello spirito conoscenze primarie ed in- 

tuitivé e dunque una verità originaria; consegue che non c'è altra verità nell'uomo 

oltre quella che egli stesso si costruisce con la sintesi della forma 4 priori e del 

contenuto a posteriori: Dio è escluso dal processo della vita dello spirito. Le 

obiezioni di Kant all'argomento ontologico provengono dalla corruzione del 

significato del termine «idea » operata dagli empiristi inglesi ec mirano molto 

lontano: c'è già in nuce l’idealismo trascendentale, che è la riduzione dell’essere 

all’immanenza del pensiero. 



208 Filosofia e Metafisica 






noi ci è data, dunque, il ragionamento ci porta a trascendere 

noi stessi, a risalire dalla verità-data alla Verità-Principio, 

a Dio. In altri termini: il pensiero discende dalle verità pri- 

mali intuite per conoscere e giudicare secondo queste verità 

le cose sensibili; da queste ascende alle verità che sono in lui, 

inferiori alle cose, e da esse a Dio, l’Essere perfettissimo, 

che ogni cosa ed ogni verità trascende. Per conseguenza, 

l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono con i 

sensi ma con la ragione, cioè misurandole con la verità che 

è in noi: il fondamento della loro conoscenza è l’intuizione 

primitiva della verità; dunque le prove 4 contingentia mundi 

passano dalla vita dello spirito. È vero quanto scrive il sal- 

mista (XIX, Vulg. XVIII): coelì enarrant gloriam Dei, et 

opera manuum cius enuntiat firmamentum; ma nulla mi 

direbbero e mi indicherebbero, se in me non lucesse la luce 

della verità. Così impostata, la prova cosmologica è incon- 

futabile; non si può negare Dio senza spingersi ad affer- 

mazioni assurde come questa: è contraddittorio concepire 

l’Essere assoluto ed ammettere l’esistenza, per poi attribuire 

l’eternità e l’assolutezza alla materia e al mondo che sono 

contingenti e finiti! 


La prova cosmologica non solo suppone quella « dalla 

verità » ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova onto- 

logica: Dio, Principio assoluto, ha la ragione della sua esi- 

stenza nella sua stessa essenza; perciò in Lui essenza ed esi- 

stenza s’identificano; ma è questo, come sappiamo, il fon- 

damento dell’argomento ontologico (*). 



(3) Com'è noto, all'argomento cosmologico, così come lo riceve attraverso 

il razionalismo cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile 

applicare all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei li- 

miti dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, 

ogni causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della 

esperienza, è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti 

di questa critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non infirma 

la validità dell'argomento. Cfr. pp. 144-149 di questo Il volume. 


G. BontapinI nel vol. Ricostruzione metafisica (Atti del IV Congresso di Studi 

filosofici cristiani, cit., p. 379) d'accordo con me afferma «che la filosofia non 





persegue la ricerca di un Dio qualunque, ma di quello che è indicato dalla co- 



L'esistenza di Dio 209 









D'altra parte, la formulazione della prova — esiste qual- 

cosa che non è da sè, dunque esiste Dio — è insufficiente a 

dimostrare l’esistenza dell’Essere creatore e trascendente, In- 

telligenza e Volontà; infatti, il puro Ens realissimum può 

essere una causa o un principio impersonale, una legge co- 

smica ordinatrice. Non basta che esista qualcosa, ma è ne- 

cessario che esistano degli effetti tali, da cui si può argo- 

mentare per analogia l’esistenza dell'Essere creatore, trascen- 

dente ecc., cioè di Dio, quale Lo crede per fede la coscienza 

religiosa. L’Ens di ragione, causa dell’origine del mondo, è 

un’idea cosmologica, che non è Dio, quantunque Egli sia 



scienza religiosa; che, perciò, essa non parte dalla (mera) esperienza sensibile, ma 

dalla coscienza cristiana (la quale rientra nella unità dell'esperienza); che la più 

ricca delle cose reali di cui abbiamo certezza è l’uomo; che Dio si dimostra 

con tutto l'uomo; che la metafisica, come voleva S. Agostino, è metafisica della 

verità, la quale si coglie in interiore homine ». Successivamente aggiunge: « con 

questo si dice che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pen- 

siero (per questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica stessa 

come scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la metafisica 

dell'essere a quella della verità: si tratta di aspetti di una medesima posizione ». 

Certamente, una volta che il Bontadini mi concede che l'essere non è estraneo al 

pensiero, cioè gli è interno originariamente come idea; del resto, non ho mai 

opposto la metafisica della verità a quella dell'essere se ben intesa, nè Agostino 

e Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre sostenuto il contrario. Proprio la 

Neoscolastica italiana, invece, trova opposizione, o tutto vuol ridurre al suo to- 

mismo; perciò il problema dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo 

Bontadini io ho «sottoscritta » (nel vol. 17 problema di Dio e della religione 

nella filos. attuale, cit.) « la prova tomistica, soltanto spiritwalizzandola, appunto 

con quel riferimento a ’’tutto l’uomo’ » e anche qui si dichiara d’accordo; ma, 

come per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto il presente 

scritto. Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i « personalisti concilianti »; invece, 

io non concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presup- 

pone due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; 

è sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come 

posso e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia. Suc- 

cessivamente il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno 

francescano, di occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della 

prosa contenuta in questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e 

pubblicare (Spiritualismo cristiano e metafisica classica, « Giorn. crit. d. filos. 

ital., I, 1955) dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e « cri- 

ticato » sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma la maldicenza, anche se 

« neo-scolastica » non è oggetto di discussione. Del resto, il superamento della fase 

esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio spiritualismo nella linea della 

metafisica classica è stato ampiamente vagliato e riconosciuto dalla più autorevole 

critica mondiale, compresi i più accreditati tomisti e neotomisti. 



210 Filosofia e Metafisica 






l’Ente assoluto; di qui ancora la necessità di partire « dalla 

vita dello spirito » che è intelligenza di verità, volontà mo- 

rale ecc., effetti da cui si argomenta per analogia l’esistenza 

di Dio essere creatore, Mente e Verità assolute, Volontà, Per- 

fezione infinita. Quale cosa del mondo fisico potrebbe mai 

farmi pensare che Dio è Libertà e Persona? 


Non lo pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio 

Primo Motore Immobile, principio del movimento o del di- 

venire, non potenza ma Atto puro; ma quale abisso tra il 

Dio au quel pense la plupart des hommes e questo Dio filo- 

sofico que les hommes n’ont jamais songé è invoquer! (*). 

È il Dio di una filosofia ma di nessuna religione e non può 

esserlo di una filosofia cristiana. Non diciamo che il Dio 

della religione (e della cristiana) non si possa chiamare anche 

Primo Motore immobile o Atto puro, ma che questa termi- 

nologia va trasposta in senso cristiano. Pertanto è necessario 

non solo integrare Aristotele, ma trasporlo come ha fatto 

S. Tommaso, la cui metafisica, che utilizza filosoficamente 

il concetto di creazione, non culmina nell’aristotelico Mo- 

tore Immobile, ma in quello cristiano, che è l’Essere crea- 

tore, infinito e provvidente, cioè il Dio che tutti gli uo- 

mini invocano. Non basta partire dal reale finito e dive- 

niente per arrivare a Dio; è necessaria una «critica » del- 

l’ente finito e diveniente in quanto tale, in modo da sta- 

bilire quali elementi contenga e se tali da farci conclu- 

dere non ad una o più cause immutabili del divenire, ma 

al Principio creatore e provvidente. Daccapo: non è pos- 

sibile alcuna critica dell’ente finito, cioè alcun giudizio 

oggettivamente vero, se non è presente alla mente la ve- 

rità che è fondamento di ogni giudizio e della ragione 

giudicante; ma se è presente la verità, esiste Dio, che è 

la Verità, il Lume eterno e trascendente, che illumina la 

mente e riscalda il cuore delle creature. 



(4) H. Bercson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 

1946, pp. 256 segg. ° 



L'esistenza di Dio 211 






Da ultimo, la prova cosmologica dev'essere spogliata di 

quel suo carattere puramente razionalistico e gnoseologico, 

più della tradizione tomista che di S. Tommaso. Il proble- 

ma, infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto co- 

noscente ed oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, 

s'imposta in quelli ontologici di ciò che è empirico e con- 

tingente e di ciò che è metafisico e necessario; altrimenti, se 

il metafisico (l’essere) non precede l’empirico (le cose), è 

impossibile da questo arrivare all’essere. 


Dopo quanto abbiamo detto, le tre prove — dalla verità, 

che include anche quella ontolcgica, dalla vita morale, legata 

all’altra del desiderio di beatitudine e cosmologica — si pre- 

sentano concorrenti e solidali: tutto il creato, nel suo ordine 

o nel suo essere o nella sua verità, con una voce sola, attesta 

la sua dipendenza da Dio e in Lui, e solo in Lui, cerca ed 

attua la sua finalità suprema (5). 



(5) Credo che ciò possa tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica, 

« Salesiamum », I, 1948, p. 64), il quale esige da me e da altri « una interiorità 

più robusta che non avesse timore della materia nè la fuggisse », cioè un'interiorità 

profonda, universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una tale robustezza: 

come una a filosofia dell’integralità » potrebbe aver timore della materia e del 

mondo, e fuggirli? 



CaprrroLo VIII 

L’IPOTESI PROIBITA 



La nostra indagine, muovendo dall’ipotesi « Dio», ha 

dimostrato che è razionale porla; la ricerca ha provato la 

sua verità oggettiva e necessaria. A questo punto è oppor- 

tuno domandarsi se è possibile porre l’ipotesi opposta, « Dio 

non esiste » e, se porla, sia razionale. La si può porre, ma 

con un atto non razionale; dunque, non è razionale porla, 

come del resto abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è 

insipiens. Se fosse razionale porre, al pari dell’ipotesi « Dio 

esiste », l’altra « Dio non esiste », le due ipotesi si distrug- 

gerebbero e bisognerebbe, come lo scettico antico, « sospen- 

dere » il giudizio e con esso la filosofia. Se è razionale porre 

l'ipotesi « Dio» non è razionale porre quella opposta. Qui 

non siamo sul terreno dell’empirico accadere: è possibile 

che domani sia una bella giornata com'è possibile che sia 

brutta; invece, non è razionalmente possibile che Dio esista 

ed altrettanto razionalmente possibile che non esista. Per 

porre una ipotesi è necessario che sia razionalmente possi- 

bile che possa essere dimostrata vera; non posso porre come 

ipotesi da dimostrare una tesi destituita di qualsiasi fonda- 

mento razionale, fantastica o assurda. Posso anche farlo ma 

ragionando per assurdo, cioè per dimostrare indirettamente la 

verità della tesi opposta. Se così, l’ateo non pensa, « vocia »; 

non è consapevole dell’assurdità della sua negazione: la sua 

non è una conclusione critica, ma un’affermazione domma- 

tica; non il risultato di una riflessione esauriente, ma uno 

stato passionale che sottigliezze e sofismi s’incaricano di fare , 



L'esistenza di Dio 213 






apparire «logico ». « Dio non esiste » è l’ipotesi proibita, 

l’impossibile razionale. Non si tratta di ammettere l’esisten- 

za di Dio perchè soddisfa un mio desiderio ed è consolante, 

ma perchè tale affermazione risponde all’ordine della ragione 

e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi « Dio » non fosse ra- 

zionale — e lo fosse quella opposta — tutto l’uomo e l’univer- 

so sarebbero un falso incomprensibile ed assurdo. Ma non è 

razionale che sia razionale l’ipotesi « Dio non esiste », ap- 

punto perchè l’uomo — in ogni forma della sua attività e in 

tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo ordine 

e in ogni grado della sua normatività, attestante la razio- 

nalità dell’ipotesi « Dio » — sarebbe sostanzialmente contrad- 

dittorio e assurdo, nel caso che l’ipotesi opposta, anche come 

ipotesi, si ponesse razionale e dimostrabile. L’ipotesi teista 

inerisce alla natura dell’uomo e all’ordine della ragione; se 

quella ateista v’inerisse ugualmente, col solo porla come ra- 

zionale, si distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È con- 

traddittorio che alla stessa razionalità umana inerisca l’ipo- 

tesi « Dio esiste » e l’opposta; perciò « Dio non esiste » è 

l'ipotesi proibita perchè contraria alla ragione e alla natura 

dell’uomo. 


Mi sembra che qui vadano cercate la forza e la verità del- 

la pascaliana prova « della scommessa » e non nel suo pre- 

sunto carattere pragmatistico e volontaristico, che è solo una 

interpretazione scorretta o insufficiente. Pascal, posto che è 

impossibile la neutralità di fronte al problema, vuol dimo- 

strare e dimostra che non si può non scommettere a favore 

dell’ipotesi « Dio esiste », perchè non si può scommettere a 

favore dell’opposta, in quanto è irrazionale, contrario, non ad 

una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo ordine. Scom- 

mettere per l’ipotesi « Dio non esiste » è implicitamente pun- 

tare per il mondo, cioè per un bene finito; scommettere per 

l’altra « Dio esiste » lo è per il bene infinito, senza scommet- 

tere contro il mondo. Ma, una volta che si tratta dell’Infi- 

nito, il giuoco è fatto, dice Pascal: non si può non scom- 

mettere per Dio. Non perchè sia più conveniente e con- 



214 Filosofia e Metafisica 



fortevole scommettere per un ipotetico bene infinito anzichè 

per un reale bene finito, ma semplicemente perchè il reale 

bene finito (il mondo) non si spiega più come sia un bene 

se Dio non esiste: o si considera un nulla, ed è assurdo 

scommettere per il nulla; o reale e positivo nel suo ordine, 

ma basta che sia tale, perchè la realtà e positività del mondo 

comporti l’esistenza di Dio; nè, ancora, si può scommettere 

per l’ipotesi ateista perchè l’ordine della ragione giudica ra- 

zionale e ad esso conforme l’ipotesi teista e per conseguenza 

irrazionale e disforme la sua opposta. Perciò la scelta, se- 

condo Pascal e secondo noi, non è tra due ipotesi, ma tra la 

ragionevolezza dell’una e l’irragionevolezza dell’altra, tra il 

seguire la pienezza della ragione e l’abbandonarsi all’insen- 

satezza della passione sofisticata; non è tra due condizioni 

reali dell’uomo, ma tra la sua condizione reale e la nega- 

zione insensata ed assurda di essa. L’ateo prima di essere 

contro Dio è contro se stesso: si nega come uomo e nega 

Dio; non passa da sè perchè ha negato Dio, attraverso cui 

l’uomo coglie la profondità di sè e il suo ordine; dunque, la 

sua è l’ipotesi proibita. Da ultimo: anche in chi nega Dio 

o Lo dimentica per attaccamento al mondo o a sua cosa (atei- 

smo pratico) vi è sempre la presenza di Lui, perchè l’atto 

con cui si attacca alle cose è pur atto di pensiero; e non c’è 

pensiero senza Dio. C'è e non Lo riconosce; dice di no al 

suo «sì» profondo ed indistruttibile: offendendo Dio of- 

fende se stesso, si degrada al di sotto della razionalità. Nè 

di ciò è incolpevole: certo, se ha dimenticato Dio per il 

mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è responsabile di 

essersi attaccato alle cose fino alla dimenticanza di Dio, alla 

negazione pratica della Sua esistenza, che è negazione della 

sua natura umana e della finalità che le è propria e non è 

il mondo. 


Ipotesi proibita è il « dubbio iperbolico » di Cartesio, che, 

perchè iperbolico anche se metodico, sospende tutto, anche 

Dio, tanto da ammettere l’ipotesi di un « Genio maligno ».. 



L'esistenza di Dio 215 






Ma il dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio, distrug- 

ge se stesso, perchè distrugge il pensiero: se davvero fosse 

possibile bloccare la mente nel dubbio assoluto, nel momento 

stesso, cesserebbe il pensiero e dal dubbio non nascerebbe 

mai il Cogito; infatti, è contraddittorio pensare e nello stesso 

tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero quale 

è il dubbio assoluto. Chi dubita pensa e, se pensa, anche 

nel grado più negativo del dubbio, non può dubitare di pen- 

sare; ma basta che vi sia un pensiero, anche come pensiero 

del dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di Dio; dunque 

il dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia 

pure come momento metodologico, l’esistenza di Dio, si ne- 

ga il pensiero e anche quell’atto di pensiero che è «il dub- 

bio iperbolico » e con esso l’ipotesi ateista. « Metodo » si- 

gnifica « via»; ma il pensiero per trovare la verità non può 

seguire la « via » che lo porta alla negazione di se stesso nel 

dubbio assoluto che comporta la « sospensione » dell’esisten- 

za di Dio. 


Dunque, è irrazionale ed assurda anche l'ipotesi del « Ge- 

nio maligno », che implica, sia pure provvisoriamente, la pos- 

sibilità di concepire razionalmente ciò che non è razional- 

mente concepibile, cioè che tutto sia assurdo stupido insi- 

gnificante, al punto che un tal Genio avrebbe potuto aver 

fatta la testa degli uomini in modo da far loro sembrare evi- 

dente e vero quel che è sostanzialmente falso. Ma è precisa- 

mente questa l’ipotesi proibita perchè assurda; dunque impos- 

sibile ed irreale, informulabile nell’ordine razionale come ad 

esso contraddicente. Non per seguire un metodo che porta 

alla verità, ma contro ogni metodo confacente alla ragione, 

Cartesio si è potuto spingere, sia pure provvisoriamente, al 

dubbio iperbolico e alla ipotesi del « Genio maligno » (). 



(1) Lo stesso discorso vale per la « Volontà » cieca ed irrazionale dello 

Schopenhauer, altra specie di Genio malefico, tanto è vero che, irrazionale quanto 

si voglia, in fondo, pensa e delibera se, come dice il filosofo, crea illusioni cd 

allettamenti per alimentare negli uomini la volontà di vivere; dunque pensa e 

delibera l’assurdo; ma è assurda una pura volontà dell'assurdo. 



216 Filosofia e Metafisica 






Proprio alle origini del razionalismo moderno, nella sua stes- 

sa posizione, c'è insito un elemento d’irrazionalità: l’atto 

irrazionale con cui la ragione presume di poter ancora esser 

tale negando la trascendenza della verità e con essa l’esisten- 

za di Dio, autosufficienza del pensiero, il quale, nell’atto che 

si autopone, si autonega: è l’elemento dissolvente immanente 

alla stessa filosofia moderna. 


Concludiamo che il dubbio sull’esistenza di Dio si può 

spingere al punto da esigere una prova razionale, da di- 

scutere questa o quella prova, ma non fino a negare la ra- 

zionalità dell’ipotesi « Dio esiste » e ad ammettere quella 

dell’ipotesi opposta, la quale, se posta, distrugge lo stesso 

dubbio e lo stesso pensiero: se l’ipotesi « Dio non esiste » 

fosse razionale, tutto sarebbe falso, e dunque anche l’ipo- 

tesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla razio- 

nalmente perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a 

quella ipotesi varca i confini della razionalità e della ragio- 

nevolezza, si pone fuori dell’una e dell’altra, del pensiero e 

dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo stato irreale dell’uomo, 

è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di uomo, di 

se stesso; è dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal 

suo inizio cartesiano, contiene un elemento di « insensatez- 

za»: ammettere la razionalità e la verità del pensare anche 

se Dio non esistesse; e ciò è contraddittorio. 


Secondo Kant, è « pensabile » che Dio esiste, anzi è solo 

« pensabile », perchè non implica contraddizione. Egli esclu- 

de il dubbio iperbolico e l’ipotesi del « Genio maligno », ma 

non che sia razionalmente possibile e dunque « pensabile » 

l’altra ipotesi « Dio non esiste »; se così non fosse, le « anti- 

nomie » o i « conflitti » della ragione pura non sarebbero 

possibili. Infatti, i due corni dell’antinomia, la tesi e l’an- 

titesi, propri della dialettica dell'idea cosmologica, sottinten- 

dono il primo che Dio esiste e l’altro che non esiste: «il 

mondo ha un cominciamento nel tempo e, per lo spazio, è 

chiuso dentro limiti », dunque Dio esiste; « il mondo non ha 



L'esistenza di Dio 217 






cominciamento nè limiti spaziali, ma è infinito sia rispetto al 

tempo come rispetto allo spazio », dunque Dio non esiste; 

«la causalità secondo le leggi della natura non è la sola da 

cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò 

è necessario ammettere per spiegazione di essi anche una cau- 

salità per libertà », dunque Dio esiste; « non c’è nessuna 

libertà, ma tutto nel mondo accade universalmente secondo 

leggi della natura », dunque Dio non esiste ecc. Come sap- 

piamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non 

contraddittorio, che Dio esiste e dunque è pensabile la se- 

rie delle tesi; ma, come abbiamo dimostrato, non è pensa- 

bile razionalmente che Dio non esiste e dunque non è razio- 

nalmente pensabile la serie delle antitesi; se è contradditto- 

rio pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare 

quella delle tesi, cessa l’antinomismo della ragione pura. In 

breve: è pensabile che Dio esiste, non che Dio non esiste; 

dunque non è pensabile la serie delle antitesi che si fonda 

sulla pensabilità della ipotesi « Dio non esiste »; perciò non 

vi sono antinomie o conflitti della ragione pura, in quanto 

la pensabilità della serie delle tesi non consente razional- 

mente la pensabilità e dunque la razionalità di quella delle 

antitesi. Se l’ipotesi « Dio non esiste » è impensabile, anche 

la serie delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa 

ipotesi, risulta impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e 

il conflitto, restando compatibili con l’ordine della ragione 

solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa, soltanto la 

serie delle tesi. 


Possiamo aggiungere che neppure secondo un convenzio- 

nalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi atei- 

sta, in quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un 

dato convenzionale intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è 

il dilemma — o « Dio esiste », 0 « Dio non esiste » — perchè 

il secondo corno è assurdo, infondabile razionalmente anche 

come ipotesi: nell’ordine razionale manca l’alternativa di 

questo 44 aut. Non c’è scelta se non tra ciò che è pensa- 



218 Filosofia e Metafisica 






bile, rispondente a tutta la natura dell’uomo e ciò che è im- 

pensabile, perchè in sè assurdo; dunque razionalmente è for- 

mulabile solo l'ipotesi dell’esistenza di Dio, la sola pensa- 

bile. L’ateismo non è neanche un problema perchè non è 

un problema sensato (?). 





(2) Indubbiamente la psicologia dell’ateo è molto più complessa di quel che 

risulta da quanto sopra si è detto limitatamente all’ateismo considerato come 

posizione speculativa. Abbiamo trascurato tutti gli elementi che formano lo « stato 

d'animo » dell’ateo, interessantissimi ma marginali per un metafisico che non 

desidera farsi sopraffare dalla psicologia e dal sentimento. Tuttavia nell’ateismo 

« filosofico » vi è un aspetto sul quale vale la pena d’insistere ancora. L’ateo — 

‘egli come individuo o la ragione umana in generale, fa lo stesso — vuole essere 

Dio senza Dio: è qui la contraddizione costitutiva dell'essenza stessa dell’ateismo, 

in quanto nessuno penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio, cioè... se Dio 

non esistesse! Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia impossibile che 

esista l’Essere assoluto o perchè riconosca che non merita di esistere, tanto è vero 

che identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso vuole essere Dio. 

L’ateismo filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della ragione, idolatria; ma 

anche in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza di Dio: l’ateo non 

potrebbe autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente pensante la vocazione 

ad aspirare all'adozione divina. Egli devia irrazionalmente questo dono di Dio, 

invece di indirizzarlo a Dio stesso, ma non riesce ad annientarlo, altrimenti non 

potrebbe autodeificarsi. Il suicidio metafisico della sua umanità profonda gli è 

impossibile: la sua insensatezza non sopprime l’eterna coscienza della sua aspi- 

razione (M. BLonpeL, La philosophie et l'esprit chrétien, vol. I, p. 78), tanto 

che egli, in fondo, tende a realizzare la sua unione con Dio, anche sotto la 

forma mostruosa di una unione con se stesso divinizzato. L'orientamento primi- 

tivo e radicale del pensiero umano verso Dio « non è sterminabile ». Lo si può 

tradire; e l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come tale, 

dice di no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel 

cuore dell’ateo serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia umana, 

e si può guadagnare dalla misericordia di Dio la « chiamata ». La sua condizione 

è quella di chi ad ogni momento «si rifiuta » ad una « chiamata » interiore, 

generosamente cd instancabilmente insistente. 



CapitoLo IX 



RAGIONE E FEDE 

NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO 



A proposito dell'argomento ontologico abbiamo notato 

che S. Anselmo si propone dimostrare che esiste il Dio a cui 

si crede per fede e quale la fede Lo indica; anche noi te- 

niamo fermo questo punto: non si tratta di dimostrare l’esi- 

stenza di un Dio quale che sia, ma del Dio, a cui si crede 

per fede. Ciò non significa nè che la ragione penetri la sua 

essenza (!), nè che la fede sia il fondamento della dimo- 

strazione della Sua esistenza, la quale, verità di fede e ve- 

rità di ragione insieme, interessa la filosofia e la religione. 

Certo, esse vanno distinte e la via per cui la ragione arriva 

a Dio è diversa da quella per la quale vi arriva la fede, ma 

le due vie devono concludere allo stesso concetto di Dio, in 

modo che la ragione sia una conferma della fede: conosco 

razionalmente che esiste il Dio a cui credo per fede. Così 

impostato il problema, la fede non solo non è un ostacolo, 

ma è anzi un aiuto per la ragione e nulla toglie alla forza 

razionale della dimostrazione; anzi, in un certo senso, gliene 

conferisce, in quanto fa che la ragione dimostri il Dio di 

cui si cerca sapere anche razionalmente se esiste, Quello che 

l’uomo prega, invoca, adora ed in cui crede e spera. 


(1) Evidentemente il fatto che la ragione non penetri l’essenza di Dio non 

infirma l’argomento ontologico nel senso che, se la ragione ignora Dio nella sua 

essenza, non si comprende come dall’essenza o idea possa dedurre l’esistenza. 



E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua essenza, questa s'identifica sempre 

con l’esistenza. 



220 Filosofia e Metafisica 






Impostare la questione in questi termini ci sembra estre- 

mamente importante per oltrepassare l’apparente antitesi, tan- 

to rovinosa quanto inconsistente, tra il « Dio della fede » 

e il « Dio della ragione », il Dio d’Isacco e di Giacobbe e 

il Dio dei filosofi, la quale oppone fede a ragione, verità a 

verità, cioè stabilisce un’antinomia senza senso. Da un lato, 

un fideismo che, per il fatto che nega la ragione, non salva 

la fede, la quale non dev'essere invocata per provare l’esi- 

stenza di Dio; dall’altro, un razionalismo che, negando la 

fede, di essa non è più una conferma e se anche dimostra 

Dio, egli non è quelio della coscienza religiosa, ma una causa 

cosmica, una legge della natura. È necessario, invece, con- 

servare nella sua interezza il contributo della ragione e del 

pensiero critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce — sia 

detto per i volontaristi ed i pragmatisti — proprio la ricchez- 

za di quella vita spirituale che credono difendere contro il 

razionalismo astratto), senza separare la ragione dalla fede. 

Se separata, non sa precisamente che cosa si proponga di 

dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di 

un'’astratta concatenazione concettuale e priva di quella forza 

reale che può attingere solo dalla pienezza e dalla concre- 

tezza della vita spirituale, è di un Dio che non è quello 

dell’esperienza religiosa ed umana. 


Teniamo fermo il punto centrale della questione: l’esi- 

stenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una verità 

di ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fon- 

darsi sulla fede, il Dio della coscienza religiosa, Quello che 

gli uomini invocano ed adorano, e, per una filosofia cri- 

stiana, il Dio della Rivelazione. La fede non interviene e 

non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare 

alla ragione qual’è il Dio di cui è chiamata a dimostrare 

l’esistenza; è indicativa della meta da raggiungere e, dun- 

que, in certo senso, orientativa: è l’assente presente. L’esi- 

stenza di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. 


Ma il fideismo, oggi più pericoloso che mai dopo quasi 



L'esistenza di Dio 221 






tre secoli di accanita corrosione della metafisica, è tentatore 

e non risparmia neppure la coscienza comune. Infatti, quasi 

sempre si dice: « io credo o non credo nell’esistenza di Dio » 

facendo di essa, implicitamente e spesso inconsapevolmente, 

una questione di pura fede. Il pensiero speculativo moderno, 

quando non è ateo o indifferente, è prevalentemente fideista 

ed afferma che l’esistenza di Dio, di cui si riconosce l’esi- 

genza, non è dimostrabile razionalmente: è una credenza, 

un bisogno morale, un atto di volontà, un « affare » intimo, 

un sentimento personale. Di qui il pragmatismo e il volonta- 

rismo religioso: credo nell’esistenza di Dio che non posso 

dimostrare razionalmente; credo, « voglio credere » che esi- 

ste e « dunque » esiste. Un « dunque » inconcludente. Fidei- 

smo è agnosticismo; alla ragione agnostica, oppone la vo- 

lontà credente: posizione insostenibile e contraddittoria. 


Vi è ancora un’altra forma non agnostica nè scettica di 

fideismo, quella protestantica, che non nasce dalla sfiducia 

nei poteri della ragione, ma da una reazione contro di essa, 

considerata troppo pericolosa e nemica della fede; contro 

la ragione che pretende di risolvere, non solo il problema 

dell’esistenza di Dio, ma anche Dio stesso nel processo del 

pensiero, come se Dio e la religione fossero questioni pura- 

mente razionali e filosofiche. È il « fideismo » che combatte 

il «razionalismo» deista o ateo (il deismo, in fondo, è 

ateismo bello e buono), la pretesa della ragione di dire 

tutto intorno a Dio, di costruire una religione naturale o 

razionale, o di risolvere il momento «inferiore » della co- 

scienza religiosa in quello « superiore » della coscienza filo- 

sofica o della razionalità. In questa forma di fideismo vi è 

un fondo di verità: rivendicare i diritti della fede contro 

la ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come tale, irra- 

zionale per passione e cecità; indicarle che il Dio che si 

cerca non è quello « filosofico » o l’« Ente supremo di ra- 

gione » del deismo e neppure il « Dio che si fa ». Ma vi è 

anche un gran torto: rivendicare i diritti della fede contro 



222 Filosofia e Metafisica 






la ragione e concludere che essa nega Dio e la fede, è loro 

nemica, il « diabolico» nell’uomo, come sostengono, per 

esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far 

valere i suoi diritti non «contro» ma «con» la ragione, 

di essa giovandosi; se è contro la ragione è contro se stessa: 

non si può credere « senza » o « contro » la ragione; il con- 

flitto distrugge i due termini. Il fideista dimentica che la 

sua è sempre la fede di un essere razionale e dunque sempre 

imbevuta di ragione, come quest’ultima, pur «distinta », 

non è « separata » dall’altra, altrimenti è ragione atea: deista, 

illuminista. Il fideismo puro, che è ateismo della ragione e 

dunque « fede per disperazione », è esso stesso ateo; l’ateo 

precisamente si rifiuta di credere perchè, secondo lui, la 

ragione smentisce la fede. La difesa della ragione, dentro i 

limiti delle sue capacità naturali, è anche difesa della 

fede (2). 


Posto ciò, contrapporre il Dio della fede al Dio della 

ragione è architettare un’antitesi convenzionale ed inesi- 

stente, se per ragione s'intende non quella «immaginata » 

dal razionalismo assoluto, ma la ragione normale, la quale 

non si oppone alla fede, non le si può contrapporre, nè la 

fede ad essa. Nel caso del problema che stiamo discutendo, 

essa argomenta intorno all’esistenza di Dio per dimostrarne 

la verità, cioè per confermare la credenza religiosa. Colla- 

borazione, dunque: dimostrare cor la ragione l’esistenza di 

Dio a cui si crede per fede. 



(2) Queste mie affermazioni esplicite e chiare rendono inspiegabile il « di- 

screto sospetto » dello STEFANINI (Ricostruzione metafisica, cit., p. 387) che anch'io 

« non rasenti la metafisica della fede » per la mia « insistenza » (sì, insistenza, e 

senza sospetti neppure discreti) nel sostenere che nella dimostrazione dell’esistenza 

di Dio bisogna tener conto della coscienza religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto 

quanto questo saggio esclude il fideismo, la metafisica della fede e la petitio 

principii di presupporre ciò che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro 

(Guida storico-bibliografica allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162) accusa 

me e lo Stefanini, senza neppure discreti sospetti, di « fideismo » e « volonta- 

rismo »; ma che si può fare contro le accuse gratuite ed orchestrate sempre nello 

stesso ambiente se non alzare le spalle e continuare tranquillamente il proprio 

lavoro? 



L'esistenza di Dio 223 









Con ciò si soddisfa ancora un’altra profonda esigenza: la 

esistenza di Dio non è solo una verità razionale, ma di tutto 

l’uomo: verità integrale dell’uomo integrale. Non della ra- 

gione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta, 

profondamente umana, che non «prescinde » dall’uomo 

nella pienezza della sua vita spirituale. La ragione filo- 

sofica, che non è quella «geometrica », non ha da es- 

sere « passionale » ma non può non essere « appassiona- 

ta», « accesa », ad alta tensione; è passione di verità (eros) 

e, come tale, anche finesse. Solo in quanto eros è ragione 

penetrante: solo in quanto si accende di amore per la 

verità attinge la verità; in questo senso è vero che l’uomo co- 

nosce anche razionalmente per quanto ama, e più ama e 

più conosce. Pertanto dimostrare l’esistenza di Dio non è 

un'operazione, diciamo così, di ordinaria amministrazione; 

non è fare un calcolo, mettersi di fronte ad una questione 

indifferente, con indifferenza e quasi con pigrizia: non ci 

«si esercita» con questo problema. È necessario viverlo 

intensamente, nella drammatica alternativa del sì e del no, 

da cui dipende tutto il senso della nostra esistenza e delle 

cose, la consistenza essenziale del nostro accidentale vivere. 

« Riflettere » sul problema dell’esistenza di Dio è sopravvan- 

zare con la ragione, nell'amore per la verità, la stessa ragione 

per renderla aderente a quella, verità primale che la illu- 

mina, per mezzo di cui giudica e che pur la trascende (*). 

Dimostrazione rigorosissima, ma il cui rigore logico deve 

essere vita e non morte dello spirito, fiamma di verità e 

non estintore. È qui che presta il suo aiuto la fede, pur 

senza interferire: la sua presenza indicativa è anche incen- 

tiva, eccitatrice dei poteri della ragione, sollevata al massimo 

della sua forza normale dalla consapevolezza che la rispo- 

sta che da essa si attende, è quella del sì o del no al pro- 

blema assoluto. La risposta dev'essere senz'altro conforme 

6 Amore petitur, amore quacritur, amore pulsatur, amore revelatur, amore 



denique in co quod revelatum fuerit permanetur (S. Acostino, De moribus cath. 

ecclesiae, c. XVII, 31). 



224 Filosofia e Metafisica 






alle conclusioni della dimostrazione, quali che siano, ma le 

conclusioni stesse sono più sicure razionalmente se si è certi 

che la ragione abbia fatto il suo dovere, fino in fondo. Per- 

ciò la ragione riflessa non può non tener presente l’oggetto 

della fede religiosa, di un’esperienza che non può essere 

un'illusione universale (se il teismo lo fosse, sarebbe la 

ragione ad autorizzare tale illusione!); e, a sua volta, la 

fede si tenga sempre ancorata al suo fondamento razionale: 

credendo cogitat et cogitando credit (*). 



(4) S. Acosrino, De praedestinatione sanctorum, c. Il, p. 5. 



CapritoLo X 



LA CONVERGENZA TOTALE 



« Molti i portatori di ferule, pochi i bacchi », nè basta 

portar la ferula per essere un bacco; lo è chi è acceso del 

sacro fuoco. Similmente, non basta «esercitarsi » a dimo- 

strare l’esistenza di Dio, ornarsi di sillogismi e filati di- 

scorsi, anche se « indispensabili »; è necessario « impegnarsi » 

con la totalità di se stessi, dirigere, unificate e solidali, tutte 

le proprie energie spirituali e vitali verso lo stesso punto; 

fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa assolutamente 

seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari dispo- 

sizioni, una reale condizione psicologica di tutto l’essere 

spirituale che esclude l’indifferenza e la pigrizia ed include 

la consapevolezza della profondità della questione, dell’ur- 

genza improrogabile di risolverla, della totalitarietà della 

risposta, dalla quale dipende persino se noi siamo vera- 

mente o solo apparentemente degli esseri intelligenti e non 

cose, il cui funzionamento organico ha delle singolari ma- 

nifestazioni — dette impropriamente pensiero, ragione, vo- 

lontà — che gli altri organismi animali non hanno, beati 

loro in questo caso! Non si dimostra l’esistenza di Dio senza 

aderire pienamente alla verità che si vuol provare, se non 

si è disposti a dimostrarla, « chiamati » dall’interno di noi 

a tentare la prova. Non è una chiamata qualsiasi: è quella 

dell’Essere che scende in noi e sale dalle profondità del 

nostro essere; nè chiamata vi sarebbe se l’atto della crea- 

zione non ci avesse radicato in Lui. La chiamata aspetta in si- 

lenzio quando noi, perduto il senso autentico del nostro 



226 Filosofia e Metafisica 






esistere nell’onda del tempo, dall’Essere ci sradichiamo: 

déracinés, sperduti e campati nel vuoto; allora le ore ine- 

sorabili s'incurvano fino a saldarsi e ad annientarci nel 

cerchio del finito più insignificante, opprimente, insoppor- 

tabile. Se le cose stanno così, dimostrare Dio significa de- 

siderare una tale certezza della sua esistenza da essere poi 

nella condizione di non più dubitare; infatti, è sapere tutta 

la verità di tutta la nostra vita, ciò che appunto toglie il potere 

di dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione totale e traboc- 

cante, il momento della piena armonia, dell’equilibrio del 

nostro essere integrale, che trova il suo appagamento nella 

conversione all’Essere; è la fedeltà, 1! non poter dire di no. 

L’uomo è libero solo se è liberamente prigioniero della ve- 

rità. Perciò, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affinchè 

la ragione sia nella condizione di « rendere al massimo », 

esige preventivamente una « conversione » di tutto l’uomo 

a quel problema. 


Tale « conversione » al problema (non a Dio) riguarda 

innanzi tutto la ragione. « Sofistica » non è la ragione retta, 

ma quella deviata; sofisma è un’argomentazione corretta 

nella forma ma sostanzialmente errata, gioco di sottigliezze 

non forza di ragionamento; perciò chi sofistica è sempre 

contraddittorio. Vi sono nella sua argomentazione nessi e 

relazioni formalmente coerenti, ma il discorso è ugual- 

mente errato ('). È la stessa ragione che lo corregge dimo- 

strando falsa l’affermazione da cui muove e argomenta, ma 

non potrebbe se non le fossero presenti i princìpi veri a 

cui deve uniformarsi. Ciò significa che la verità non è nel 

nesso razionale, ma nel principio secondo cui esso è fatto: i 

nessi razionali (le argomentazioni) sono veri se il principio 

è vero, sono solo formalmente corretti e sostanzialmente 

errati se muovono da un errore assunto come verità. Da 

questo punto di vista la ragione è inferiore all’intelligenza 






(1) « Le raisonnement n'est pas la raison; il en est souvent la parodie » 

(E. Hetto, Du Néant è Dieu, Paris, 1921, p. 154). 



L'esistenza di Dio 227 






che intuisce i princìpi, fondamento su cui la ragione argo- 

menta; ma la verità dell’argomentazione non è nel puro 

nesso logico, opera della ragione, ma nel principio, cono- 

sciuto dall’intelligenza, che ne è il fondamento. L°’intelli- 

genza è illuminata direttamente dalla verità, la ragione 

mediatamente attraverso la prima, la quale, nella sua im- 

mediatezza, è infallibile. L'intelligenza non è sofistica, la 

ragione può esserlo fino al punto di dire vero al falso e 

falso al vero, di convincere di menzogna, di sofisticare la 

verità: il sofisma è l’alibi della menzogna; buona parte 

della vita individuale e sociale è volgare sofisma. La ragione 

riceve luce dall’intelligenza, intuitiva della verità e crea- 

trice di verità; giudica di ogni cosa e ci fa conoscere la 

verità delle cose, ma solo in quanto l’intelligenza la illu- 

mina, la fa feconda di verità; l’una è la verità fresca, allo 

stato incandescente, zampillante come sorgiva, l’altra è la 

verità riflessa, solidificata. Ma affinchè sia verità riflessa è 

necessario che sia «riflessione secondo verità », che «si 

converta », s'indirizzi alla verità e soltanto ad essa: solo 

purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si eleva 

al livello della sua vera natura, riconquista se stessa in tutta 

la forza di cui è capace; affinchè possa dimostrare la verità 

di una proposizione e conferirle tutta la sua potenza logica 

è necessario che essa sia tutta della e per la verità. Solo a 

questo livello la ragione conquista e realizza tutta la sua 

forza normale; fino a quando è nell’errore, è al di sotto di 

se stessa e l’uomo al di sotto dell’uomo. 


La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente a vi- 

vere al suo livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra 

tutti gli enti creati, non vive al suo livello normale, sem- 

pre in squilibrio sul punto del suo equilibrio integrale; 

tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la bestia che è, 

difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tre- 

mendo, drammatico, quello che alimenta insopprimibile 

una filosofia dell’integralità. Sembra di facile attuazione il 



228 Filosofia e Metafisica 






comando «sii tutto l’uomo che puoi essere »; è invece tre- 

mendamente difficile: io non so mai in quale condizione 

raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure 

che lo raggiungessi e ne fossi sicuro, non basterebbe per 

salvarmi: questo livello posso perderlo in ogni attimo ed 

ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non dipende solo 

da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: 

qui tutto il senso di una filosofia cristiana dell’integralità. 

È evidente, dunque, che quando parliamo di ragione o del- 

l’uomo senz’altro al livello di tutta la sua forza normale 

non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo su- 

peruomo, che è la negazione dell’uomo o meglio la subli- 

mazione di quello inferiore, ma semplicemente della ragione 

che sia tutta la ragione, dello spirito che sia tutto lo spi- 

rito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integral- 

mente tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo 

che sia la pienezza di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è 

attuale e totale normatività dell'uomo se ogni sua energia 

e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è 

salvezza se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pie- 

nezza dell’uomo è colma. La filosofia cristiana dell’inte- 

gralità è la filosofia dell’umiltà assoluta. 


La disposizione intellettuale di « conversione » alla ve- 

rità è anche disposizione morale, processo di purificazione di 

tutto lo spirito, elevazione al suo livello autentico: è met- 

tersi nella condizione di esser liberi dall’errore. Per dimo- 

strare secondo verità, è necessario escir fuori dal nostro 

egoismo, dalle nostre passioni, sofisticherie e bassezze: solo 

allora la ragione dispone di tutta la sua efficacia; non 

sottomettere il pensiero alla concupiscenza, le norme del 

giudizio alle cose da giudicare, in modo da ascendere 

al livello dello spirito, fino al punto in cui la sua at- 

tività, convertita al problema, converge tutta nella sua so- 

luzione. Non basta ragionare secondo la logica, è neces- 

sario esistere, pensare, ragionare secondo la verità. Alla base 



L'esistenza di Dio 229 






dell’autentica ricerca filosofica vi è una iniziale onestà di 

pensiero e di volontà, che è frutto di ascesi e purificazione: 

non si conosce la verità se non si è già nella condizione in- 

tellettuale e spirituale di essere degni di conoscerla. La sua 

scoperta è la scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è il 

premio di chi si è liberato dell’io superficiale, egoista, fram- 

mentario, disperso; premio dell’onestà fondamentale di una 

ragione votata alla verità e di una volontà che è buona vo- 

lontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son pochi i 

poeti; e non vi è poeta senza una particolare condizione di 

spirito, quella che chiamano «estro»; e vi è anche un 

« estro » filosofico, come ve ne è uno religioso ed uno anche 

scientifico. L’« estro » della filosofia è l’amore incondizio- 

nato della verità, che è poi, anche quando non se ne ha 

coscienza, amore di Dio, che è la Verità; i « bei discorsi », 

di cui parla Socrate, sono il suo modo di pregare, la ma- 

niera con cui la ragione si rivolge alla verità, come ne 

testimonia purificata e purificantesi sempre più e meglio 

nella verità stessa. Solo allora le argomentazioni manife- 

stano tutta la loro forza normale (?). 


Questa la condizione per acquistare tutta la consapevo- 

lezza possibile della nostra iniziale e finale partecipazione 

all’Essere. Come abbiamo già detto, del « nulla» non c’è 

discorso nè filosofia: il nulla è il nulla e non avrebbe alcun 

senso senza la positività dell’essere. Ogni ente è l’essere che è; 

è il richiamo, la sollecitazione dell’Essere che lo stimola ad 

essere il pieno attuale ed ascendente del suo essere: l’ente 

spirituale emerge perennemente dal suo essere per la spinta 

che riceve dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipa- 

zione all’Essere gli dà tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, 



(2) Difficilmente la forza « attuale » delle attività dell’uomo è tutta la loro 

forza « normale », la quale, d’altronde, anche allo stato interamente attuale, non 

è mai autosufficiente, anche se sufficiente nell'ordine naturale. Anzi la normati- 

vità piena è impossibile senza la convergenza di tutto lo spirito in Dio, cioè 

senza la condizione attuale della transnaturalità. L’autosufficienza, invece, è l’al 

di là della norma, l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 



2% Filosofia e Metafisica 









più che dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che 

non riesce a rendere tutta attuale. L'uomo è sempre più di 

quel che è in un’ora: in ogni oggi ha sempre un domani. 

Perciò è speranza e fedeltà e non nostalgia, che è del di- 

sperato, di chi non ha domani significante ed eterno, dei 

sradicati dall’essere. È nostalgico chi nel futuro vede il nulla 

e nel presente il vuoto: misconosce la partecipazione ini- 

ziale e perciò si volge al passato, non perchè lo trovi signi- 

ficante, ma per un fatale abbandono «in ciò che non è». 

L’uomo è lievitato dall’essere: farina che si fa pane, sempre 

nuovo pane: la fame dell’essere è lievito inesauribile. Ogni 

ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce nello spirito, 

ma solo perchè si costruisce nel e sull’essere; il livello dello 

oggi sporge sempre in quello del domani: lievito e lievita- 

zione perenne. È la tensione della vita spirituale nella sua 

integralità; nè teme rotture, perchè la tensione dell’essere 

all’Essere è il «tonico », il « ricostituente » dello spirito. È 

la tensione al finito che spezza l’esistenza; quella all’infinito, 

risposta totale alla chiamata, è l’autenticità della creatura, 

che salda e tempra il legame d’amore e di verità dell’atto 

creativo. Da un punto di vista empirico questa tensione 

incandescente può far sembrare allucinata e allucinante la 

vita; ontologicamente, nella dimensione dell’essere al li- 

vello di tutta la sua forza normale, è luce piena dell’esistenza, 

che ha saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e 

riconquista) tutta la pienezza della vita. « Pour étre vrai- 

ment homme il faut accepter d’ètre et accepter l’ètre sans 

aucune réserve » (*. L'’ontologo, il metafisico vero, non 

« parla » dell’essere, « vive» del e nell’Essere assumendosi 

il problema totale del significato del suo essere integrale, 

fin nelle sue profonde ed abissali radici. 


Tale condizione è esigita assolutamente dalla dimostra- 

zione dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium, dal pro- 



(3) BaLtHAsar, op. cit., p. IX. 



L'esistenza di Dio 231 






blema essenziale della filosofia essenziale: tutto il dinami- 

smo della vita spirituale è chiamato a convergere nella 

soluzione del problema totale della verità totale. Solo allora 

non capiterà d’incontrare persone che conoscono benis- 

simo tutte le prove dell’esistenza di Dio tanto da saperle 

esporre meglio di coloro che ne sono convinti, ed essere 

atei ugualmente; o altre che ne sanno dimostrare esatta- 

mente l’esistenza a degli atei senza convincerli, pur avendo 

costoro perfettamente inteso per filo e per segno tutti i 

processi logici. Che manca? manca la tensione, la conver- 

genza totale della vita spirituale e di tutte le sue infinite ed a 

volte misteriose energie. Non basta mettere in opera la ra- 

gione, a tavolino, tranquillamente; occorre che io metta in 

moto, con la ragione, tutto me stesso, in modo che essa viva 

di tutta la mia vita, pulsante di tutte le energie del mio 

spirito. Si scoprono allora nella ragione una forza insospet- 

tata e risorse che sembrano quasi non appartenerle; e la 

ragione scopre nello spirito la presenza di qualcosa che 

prima intravvedeva solo confusamente: si fa luce e nella 

luce cerca e dimostra secondo verità, con intelligenza, con 

quell’intelletto di amore, che potenzia le sue capacità di- 

mostrative senza comprometterle. La ragione cerca e trova, 

cerca scopre dimostra, vivente di tutto il mio spirito, non 

l’Ente necessario o la Legge o la Causa, ma il Dio creante, 

vivificante, provvidente: lo scopre essa che ama, ed è vita 

ed è artefice di verità, perchè dalla verità illuminata. La 

originaria ed oscura nozione di Dio si chiarisce ed il pre- 

sentimento primitivo, che ha sempre orientato e sollecitato 

ogni atto spirituale, si svela come verità razionalmente vera. 

La dimostrazione è ricca di tutta l’intensità presentativa 

della verità: tutto lo spirito dimostra l’esistenza di Dio, 

perchè tutto convergente in questa dimostrazione. La prova 

non è soltanto lavoro di dialettica e concatenazione astratta 

di concetti, ma di logica incarnata, piena di tutte le risorse, 

adesione integrale dello spirito integrale. Allora ogni ente 



232 Filosofia e Metafisica 






conosce il senso assoluto della sua contingenza: la risposta 

è tutta la sua verità, tutta la sua realtà; orienta indefettibil- 

mente la vita nel tempo — di un passato che altrimenti non 

importerebbe più e di un futuro che diversamente sarebbe 

inutile — all’eternità. La prova non ha fatto certamente 

che Dio esista; il suo rigore logico ha confermato l’essere di 

Dio, del Trascendente interiore; ed è tale presenza che ha 

reso possibile la prova stessa. Il presentimento, prima se- 

greto e confuso, si traduce in termini discorsivi: la vita 

dello spirito, nella consapevolezza razionale della sua si- 

gnificanza, trova pace nella verità operosa e creatrice di 

nuovi veri, che sono nuovi beni, al di sopra e al di là delle 

parvenze sensibili e delle schematizzazioni astratte, in una 

pace che è solennità di pensiero maturo e compiuto, ope- 

rosità di volontà inesauribile nella realizzazione del bene. 

« Trop de vérité m’étonne », scrive Pascal. M°étonne non 

direi, perchè la verità non stordisce nè fulmina: la verità 

illumina. Certo che, nello stato naturale dell’uomo, resta una 

zona infinita di Luce, che, per troppa luce, non si penetra. 

Vedere buio nella Luce: è questa la reale inquietudine del- 

l’uomo, la sua felice e feconda infelicità sulla terra. « La 

Grande Luce» è per noi «la Grande Tenebra»: più si 

riflette sulla sua essenza e più la Luce inviolabile ed acce- 

cante nasconde a noi il suo essere. Di qui l’irresistibile bi- 

sogno del ritorno all’ Essere, di veder nella luce tutta la Luce. 


Con Agostino ed il migliore agostinismo — e S. Tom- 

maso ne è il più originale assimilatore — noi rivendichiamo 

una dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua effi- 

cacia concreta, che solo la vita dello spirito e il suo inte- 

riore dinamismo le possono conferire. Dio non si dimostra 

ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio, insegnava « pas- 

seggiando ») ed astrattamente sillogizzando come se ba- 

stasse un sillogismo per far decidere del senso di tutta la 

umanità e delle cose. La vita spirituale è più ricca della ragio- 

ne, anche se è vero che non vi è vita spirituale senza ragione. 

È necessario che nella prova vi sia la solidarietà essenziale di 



L'esistenza di Dio 233 






tutti gli elementi attivi e reali della vita dello spirito (ve- 

dute dell’intelletto, disposizioni della volontà, amore di ve- 

rità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio di 

possederla, insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti 

allo stesso scopo: solidarietà essenziale di elementi in una 

convergenza totale, orientata e guidata dalla primitiva ve- 

rità interiore. A questo livello e sulla base di una razionalità 

sì piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come 

verità assoluta e la sua non esistenza come affermazione 

insensata e ipotesi proibita; a questo livello la ragione di- 

mostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere creatore tra- 

scendente, Bene e Provvidenza, Principio unificatore della 

vita spirituale di ogni singolo ente razionale, Verità che 

dona a noi la verità, Luce della nostra mente, Valore asso- 

luto, fonte di ogni valore. Tutto converge in Lui perchè 

tutto è da e per Lui. La verità in me, immagine della Ve- 

rità in sè, presentimento primitivo di Dio e principio mo- 

tore originario di tutto il mio movimento spirituale, se non 

sono assente a me stesso, fa sì che tutta la mia attività ar- 

monizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha 

il potere di unificare tutti i momenti della mia vita e diri- 

gerli verso la meta unica. Se, come abbiamo scritto altrove, 

in me mancasse la presenza operante di questa intuizione 

originaria, « se essa non esercitasse il suo potere sintetico ed 

unificante, la mia vita sarebbe sparpagliata, dispersa in tan- 

te direzioni insufficienti e tutte insieme inefficaci ad uni- 

ficarla e a dirigerla verso un punto assoluto e totale. E’ la 

condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove va- 

dano e dove cadano i brandelli della sua insignificante esi- 

stenza. Ed è una condizione ”’irreale”’ perchè frutto di igno- 

ranza e di errori, disconoscimento o falsificazione della reale 

condizione dell’uomo... ». Perduto l’essere, si spezza l’unità 

dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la disintegrazio- 

ne, il disfacimento; questa la morte, non quella corporea. 

Un uomo ed una società senza Dio sono fuori dell’uomo € 



234 Filosofia e Metafisica 






dell’umana convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo 

perchè ha ucciso Dio, non si comunica perchè la comuni- 

cazione è possibile solo nella verità. Solo tenendo presente 

che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve 

‘e mette in moto l’interezza della vita spirituale, per cui 

la forma logica dell’argomentazione aderisce perfettamente 

alla concretezza dell’integrale realtà umana, si coglie tutta 

l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della mente nel- 

la verità creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della 

volontà inesauribile nella realizzazione del bene: volontà 

operosa. Mente vera e volontà buona: è la rettitudine del- 

l’uomo. 


La pura « razionalità » non è « intelligenza », che inclu- 

de l’altra e l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi e di rapporti, 

o è astrattismo e formalismo, o conoscenza dell’empirico: 

c’è razionalità pura dell’astratto e delle cose fisiche (la Critica 

della ragion pura, da questo punto di vista, è una metodo- 

logia delle scienze). Di Dio non c’è pura razionalità, ma in- 

telligenza penetrante. Nel conquistare la verità della Sua esi- 

stenza vi è un recupero dell’io profondo, del sensus sui, 

della verginità e schiettezza del nostro essere, della sua 

‘autentica originarietà: è la prossimità del noi sorgivo alla 

Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha voluto essere « ra- 

zionale » e perciò è scientifico e metodologico; si è privato 

dell’ « intelligenza » di Dio e perciò ha cercato di demolire o 

fare a meno della metafisica: ha confuso i due piani diversi 

dell’empirico e del metafisico. Posizione formalisticamente 

«razionale », ma non ragionevole. La « ragionevolezza » è 

la razionalità fatta penetrante dall’intelligenza e vivificata 

dal sentimento: chi è ragionevole non può negare l’esistenza 

di Dio. Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non 

‘essere puramente razionali o passionali, tanto calore di sen- 

timento da rendere umana la ragione e tanta forza di ragione 

da purificare ed illuminare il sentimento, in modo che la 

verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua razionalità 



L'esistenza di Dio 235 






e ragionevolezza, che sono anche quelle della ragione. Tutto 

il nostro discorso è un invito ai « razionali » e ai « passio- 

nali » affinchè tornino ad essere « ragionevoli ». 


A questo punto, dimostrata razionalmente — e con una 

ragione ricca di tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il di- 

scorso della filosofia cessa e comincia quello della fede. Ma 

il filosofo deve dire di sì alla sua vocazione di « arrivare », 

di spingersi fino a questo punto, se pensa interamente, se 

è spietatamente «critico »: non deve fermarsi a metà. Egli 

non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare quell’equi- 

librio, in cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale 

e unificata, in cui si attua la rormazività piena, inclusiva di 

tutte ie norme di ogni forma di attività e di tutti gli equi- 

libri parziali. Il filosofo non può sottrarsi, costi quel che 

costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o respingere 

di quanto ha positività — al livello in cui l’essere conquista 

la sua chiarezza nella partecipazione consapevole all’Essere, 

in cui si coglie l’intelligibilità metafisica del senso dell’esi- 

stenza, il suo significato assoluto nell’immortalità e nella spe- 

ranza della salvezza. Poi la fede, quella che ha tale forza at- 

trattiva da sollevare l’anima al punto in cui « cade » in Dio, 

suo centro di gravità. Se mi seppellisco nel mondo, mi faccio 

cosa tra le cose, mi sottraggo alla legge della gravitazione 

degli spiriti, la terra mi ghermisce, mi attrae e terra e fango 

mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per perderlo di vista 

ma per riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Es- 

sere che è Verità. Da questa altezza il mondo non mi attira 

e lo vedo sospeso a Dio, in cui gravito, in cui bramo « ca- 

dere » non per annullarmi, ma perchè la sua Luce mi tra- 

sfiguri. A questo punto il discorso si conclude — come Ago- 

stino il XV ed ultimo libro del De Trinstate — precatione 

melius quam disputatione. 



APPENDICE 



IL CONCETTO CATTOLICO 

DI LIBERTA’ DI PENSIERO 



Di diritto e di fatto il solo Istituto e il solo sistema dot- 

trinale che riconoscono e garantiscono la libertà autentica 

del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa catto- 

lica e il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolice- 

simo. Una tale affermazione, nei tempi perduti che l’uma- 

nità attraversa, a prima vista, superficialmente e solo in ap- 

parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal Rinascimento in 

poi, attraverso i « libertini », gli « spiriti forti », i deisti del 

Seicento e successivamente i cosiddetti «liberi pensatori » 

del giacobinismo settecentesco e del laicismo dell’800, si è 

prevenuti a vedere nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega- 

zione della libertà e di ogni libertà e ad identificare l’una e 

l’altro con la coazione più oppressiva e tirannica. La lotta. 

tra la Chiesa e le altre confessioni religiose, le teorie politiche 

moderne, il liberalismo e il marxismo è stata interpretata, da 

storici e scrittori non cattolici, come la lotta tra l’oscuranti- 

smo della tirannia chiesastica e clericale e l’affermarsi della 

libertà dell’uomo, con una confusione di problemi e piani € 

un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi con 

la graduale e progressiva ignoranza, caratteristica del mondo 

moderno e contemporaneo, di quel che sono la Chiesa e il 

suo complesso dottrinale. 


Di fatto è accaduto sempre al contrario: quando un’au- 

torità ha misconosciuto i diritti della persona umana e ogni 

forma più elementare di libertà, si è trovata di fronte, non 

nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di Roma 

senza paure al cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 



240 Filosofia e Metafisica 






oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estre- 

mo rifugio. Così ogni qual volta gli stessi uomini che met- 

tono in moto le forze oscure del potere e dell’ambizione, 

sopraffatti dallo stesso ingranaggio da essi scatenato ed im- 

potenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità a cui 

consegue anarchia, perdono smarriti il controllo e il presti- 

gio d'’istituti e leggi è atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida 

ancora tra tanta tenebra di sanguinosa violenza negatrice di 

ogni libertà, è la Chiesa. Ai nostri giorni, in quei Paesi dove 

tirannia impera e libertà è delitto da punire di morte, è la 

Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi 

ristoratrice di libertà al gregge di uomini che terrorizzato 

applaude alla sua schiavitù. Per rendersi conto di come sol- 

tanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica tutrice della-libertà 

umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per fina- 

lità diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per 

una sua concezione strumentale, bisogna che vengano tempi 

duri, anni in cui la libertà è minacciata o calpestata. Quando 

tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la Chiesa protesta per 

quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi 

oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stes- 

si, possano di nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi 

dalla colpa di aver negato agli altri questo naturale e fonda- 

mentale diritto. 


Questo storicamente. Ma quale il concetto cattolico di 

libertà, e, più particolarmente, della libertà di pensiero? Co- 

me intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Pro- 

blema imponente, che in una brevissima nota può essere sol- 

tanto sfiorato in quelli che a noi sembrano i suoi aspetti teo- 

retici essenziali. 


Innanzi tutto, libertà di pensiero significa libertà del pen- 

siero, cioè non libertà di pensare quello che piace, che è la 

negazione radicale della libertà nell’arbitrio irrazionale e nel 

non-pensare, ma di pensare in maniera conforme alla natura 

del pensiero, cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta 



Il concetto cattolico di libertà di pensiero 241 






che quel che pensa è confacente alla sua essenza e non una 

violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di pensiero 

come tale significa semplicemente libertà del pensiero di 

pensare l’oggezto che gli è conveniente e a cui la sua natura 

lo porta e sollecita. Ma l’oggetto del pensiero alla sua essenza 

conforme è la verità; pertanto libertà di pensiero significa 

libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella verità. 

Chi pensa nella verità non può non pensare la verità che 

l'umano pensiero può conoscere e chi la pensa, pensa confor- 

memente alla natura del pensiero stesso e dunque in piena 

libertà di pensiero, conformemente ai princìpi illuminanti la 

ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. 


Ma la verità è più del pensiero che la pensa e per cui 

esso pensa, in quanto non vi è pensiero senza il suo oggetto. 

E’ più perchè non è il pensiero a crearla: la verità è prima 

ed indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente 

può conoscere perchè c’è la verità, presente in ogni vero € 

per cui ogni vero è tale. Se la verità è più del pensiero, gli 

sovrasta, lo trascende; dunque, il rapporto verità-pensiero è 

di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla verità. Il 

« diritto » alla sua libertà, a pensare il vero nella verità, lo 

esercita, afferma e garantisce solo a patto che compia il « do- 

vere » di ubbidire alla verità, in quanto è libero solo ubbi- 

dendole. Altrimenti si fa schiavo dell’errore, esce dalla verità 

che è come escire fuori di strada, perdersi nel buio di sè a se 

stesso, pensare disformemente dalla sua natura, che è non 

pensare, soffrire della privazione della verità e del peso del- 

l’errore. Dunque il concetto cattolico di libertà di pensiero si 

può così formulare: chi pensa conformemente alla verità pen- 

sa conformemente alla natura stessa del pensiero, il quale è 

libero quando pensa il suo oggetto proprio, cioè quando si 

sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà 

del pensiero è libertà dall’errore: solo chi si fa servo della 

verità è libero dall’errore ed in possesso dell’oggetto che ap- 

paga la sua natura e, appagandola, gli dà la gioia della libertà 



242 Filosofia e Metafisica 









piena. La libertà è processo di liberazione dall’errore senza che 

tuttavia s’identifichi con il processo attraverso cui si conquista. 


Similmente la libertà della volontà è libertà dal male, cioè 

volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la 

trascende; dunque la volontà è libera quando è libera di ubbi- 

dire al bene, come il pensiero lo è quando è libero di ubbidire 

alla verità. Il concetto cattolico di libertà della volontà si- 

gnifica: obbedienza libera a legge giusta e buona; disubbidire 

in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del 

volere. Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di 

liberazione dal male, conquista del bene e conformità del- 

l’azione al bene voluto, che, cristianamente, significa amato. 


Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni: qui s’im- 

pone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a 

seguirla; non gli si consente che si scelga la sua verità. 


Hanno un senso razionale queste parole ? 


Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo 

sospeso a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto 

libero nel vuoto, anzi tende a liberarsi dal vuoto da cui ri- 

fugge. Bisogna dunque dargli un oggetto; e quello che gli è 

conforme e lo rende libero è proprio la verità, che è tal cosa 

che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: 

è di sempre, extratemporale o superstorica, quantunque sia 

madre del tempo e della storia; è tal cosa che non può non 

imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il pensiero 

dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schia- 

vitù. i 

Che significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la 

sua verità? Ha solo un senso: scegliere la verità invece che 

l’errore. Ma di fronte alla verità non c’è scelta, perchè non 

c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il pensiero sce- 

gliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la 

fatica della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì an- 

cora nel senso che in essa si trova a suo agio e vi si adagia, 

anche se per una veglia perenne. No, invece, se significa che 



Il concetto cattolico di libertà di pensiero 243 






la verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da 

lui dipendente, tanto da essere verità per uno e non-verità 

per un altro. Tal verità non è più tale, è opinione; ma qui 

delle opinioni non si fa questione. In breve: o si dice dimo- 

strandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pen- 

siero, per il semplice motivo che il pensiero è sempre nella 

non-verità; o verità c'è e allora, siccome la verità è tal cosa 

che è sempre vera e mutare non può, la libertà del pensiero 

ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di essere 

nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare 

secondo essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha pro- 

prio negato l’esistenza di una verità oggettiva ed immuta- 

bile, dei principi stessi della ragione, per una verità storica 

e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del 

pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole 

della mutevole mente umana. Perciò, perduto il vero con- 

cetto di libertà del pensiero, schiavo dell’errore, accusa di 

negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne abbia 

un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè 

conforme alla genuina natura del pensiero, la cui libertà 

si realizza nell’ubbidienza alla verità, che è tal padrone 

che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone tale di- 

pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. 


Dentro questa libertà del pensiero nella verità e della 

volontà nel bene è legittima e vera ogni altra libertà: po- 

litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre tale che si 

attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il 

concetto cattolico della libertà di pensiero è fondamento e 

garanzia di ogni altra libertà, della libertà integrale; perciò 

la Chiesa difende i diritti naturali della persona umana, che 

si compendiano in un solo fondamentale diritto: libertà di 

essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e 

liberati dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo 

limite: la verità per il pensiero, il bene per la volontà; perchè 

non ha senso una libertà del pensiero e della volontà oltre 



244 Filosofia e Metafisica 






la verità, al di là del bene. Oltre la verità e il bene c'è il 

nulla di verità e di bene, che è il nulla di pensiero e di 

volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di 

schiavitù: c’è il nulla della persona umana, di ogni suo di- 

ritto e dovere. Pensare fuori della verità è non pensare e 

non essere affatto liberi di pensare; è sbrigliarsi nell’errore, 

che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è rifiu- 

tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò 

che piace non è oggetto del pensiero ma del senso. Se si 

abbandona il piano della libertà spirituale o di pensare nella 

verità si scende a quello della libertà biologica o vitale, 

governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle 

passioni. Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che 

piace » fa che l’uomo venga meno alla sua prima libertà so- 

ciale e morale, quella di riconoscere e rispettare la libertà 

dell’altro: è la violenza in tutte le sue forme, dell’assassinio 

singolo e di quello collettivo (la guerra), della rivolta o 

della tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero 

di non fare quel che gli piace, e di fare quel che è giusto 

perchè conforme all’ordine del bene, in cui soltanto la sua 

volontà è libera e all’ordine del vero, in cui soltanto il suo 

pensiero è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. 


Da un punto di vista teologico questa formula si traduce 

in quest'altra: libertà nell’ortodossia. La verità è infinita e 

si manifesta in aspetti infiniti, che mai la esauriscono; pen- 

sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa, armonizzante col 

tutto, al sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad 

una cattedrale. Perciò noi crediamo che una filosofia, per 

quanta verità possa contenere, non è mai tutta la verità e 

dunque non vi è alcuna filosofia che possa dirsi tutta la 

verità cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come tante 

verità, bensì come tanti veri, parziali e concordanti, della 

unica verità, in essa convergenti, come i raggi di un cer- 

chio convergono tutti al centro. La Chiesa ha conosciuto nel 

migliore Medioevo questa magnifica libertà di pensiero den- 



Il concetto cattolico di libertà di pensiero 245 






tro l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può identificarsi 

senz'altro con una filosofia o con una determinata corrente 

filosofica. Non una philosophia perennis, perchè perenne c’è 

solo la verità e la filosofia come ricerca e scoperta di sempre 

nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è perenne come 

particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- 

lano un aspetto della verità, perchè vive della vita perenne 

della verità; è ogni pensare nell’ortodossia, senza esclu- 

sione, in quanto la verità è soltanto monopolio di se stessa 

ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà onesta. 

Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana 

conoscenza dell’unica eterna verità, anche se si dice ateo, 

contro se stesso, pur essendo schiavo dell’errore, è libero per 

quanto pensa e conosce di vero, nella misura in cui ubbi- 

disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa 

non contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della 

libertà di pensiero è tal cosa che rende liberi anche coloro 

che fanno di tutto per essere schiavi dell’errore e del male. 



INDICE DEI NOMI 





Abelardo, p. 204. 


Acri, p. 143; vol. II, p. 53. 


Agostino (S.), p. 35, 40, 62, 67, 

99, 124, 125, 127, 128, 137, 

139, 140, 141, 143, 145, 147, 

148, 149, 150, 151, 154, 155, 

156, 165, 166, 180, 184, 187, 

194, 207, 210, 216, 217, 223, 

224; vol. II, p. 8, 40, 97, 112, 

115, 136, 145, 155, 162, 175, 

177, 179, 187, 192, 194, 203, 

209, 223, 224, 232, 235. 


Alembert (d’), p. 109, 180. 


Alessandro, p. 187. 


Aliotta, p. 130. 


Amerio, p. 137. 


Ampère (d’), p. 180. 


Anselmo (S.), vol. II, p. 130, 

194, 195, 196, 197, 198, 202, 

203, 206, 207, 219. 


Antonelli, p. 13. 


Ardigò, vol. II, p. 50, 51, 123. 


Aristotele, p. 51, 52, 61, 91, 97, 

105, 113, 122, 123, 127, 128, 

129, 138, 139, 140, 141, 142, 

143, 144, 145, 146, 147, 149, 

150, 152, 153, 156, 181, 184, 

190, 193, 194, 220, 221, 227; 

vol. II, p. 42, 91, 147, 183, 

199, 210, 232. 



Arnauld, vol. II, p. 10. 

Arvon, vol. II, p. 76. 



Bacone, p. 181 vol. II, p. 73, 

160. 



Bakhtavar, vol. II, p. 27. 


Balmes, p. 127. 


Balthasar, vol. II, p. 143, 230. 


Bayle, vol. II, p. 9, 23, 25, 27, 

38, 43, 45, 46, 76. 


Berdiaeff, p. 188, 205. 


Bergson, p. 116; vol. II, p. 94, 

210. 



Berkeley, p. 107, 108; vol. II, 

p. 174. 


Bernardo (S.), p. 204. 


Bertini, vol. II, p. 204. 


Besant, vol. II, p. 60. 


Bespaloff, p. 205. 


Blavatsky, vol. II, p. 60. 


Blondel, p. 40, 67, 80, 127, 128, 

129, 143, 155, 225, 226; vol. 

II, p. 7, 141, 187, 218. 


Bogliolo, p. %; vol. II, p. 211. 


Bonatelli, vol. II, p. 137. 


Bonaventura (S.), p. 99, 156, 

144; vol. II, p. 150, 195. 


Bontadini, vol. II, p. 208, 209. 


Borne, vol. I, p. 76. 



250 Indice dei nomi 






Bossuet, vol. II, p. 15. 

Bruno, vol. II, p. 56. 



Brunschvicg, vol. II, p. 8, 35, 

69. 



Bruto, vol. II, p. 20. 

Buber, vol. II, p. 76. 

Biichner, vol. II, p. 50. 





Calvez, vol. II, p. 76. 



Campanella, p. 127; vol. II, p. 

130, 191. 



Camus, p. 189, 211; vol. II, p. 

17, 28. 



Capone Braga, vol. II, p. 148. 

Carabellese, p. 221; val. II, p. 

32, 76, 130, 205, 206, 207. 


Caracciolo, p. 13. 


Carlini, p. 101, 137, 138, 140, 

141, 143, 145, 146, 147, 148, 

150, 151, 156. 


Cartesio, p. 15, 37, 89, 100, 105, 

106, 107, 108, 111, 118, 144, 

204, 215; vol. II, p. 10, 105, 

108, 155, 160, 174, 214, 215. 



Cesare, p. 187. 

Chestov, p. 208; vol. II, p. 39, 

222. 



Ciro, p. 187. 



Comte, p. 114; vol. II, p. 7, 37, 

61, 75. 



Condillac, p. 108. 


Copernico, p. 73. 


Crippa, p. 13. 


Crizia, vol. II, p. 26. 


Croce, vol. II, p. 35. 

Cusano, p. 127; vol. II, p. 161. 





D'Amore, p. 227, 228. 


Dario, p. 187. 


De Bonald, vol. II, p. 41. 


De Finance, p. 143. 


De Lubac, vol. II, p. 76, 99. 


Destutt de Tracy, p. 108. 


Diagora di Melo, vol. II, p. 26. 


Diderot, vol. II, p. 44. 


Diels, vol. II, p. 26. 


Diogene di Apollonia, vol. II, 

p. 26. 


Diogene Laerzio, vol. II, p. 29. 


Dostoiewskij, p. 164, 210; vol. 

II, p. 8, 45. 


Drochmann, vol. II, p. 76. 



Du Bois Reymond, vol. II, p. 

50. 



Duméry, vol. II, p. 76. 

Durkheim, vol. II, p. 48. 



‘E 

Eddigton, p. 201. 

Egesia, vol. II, p. 24. 

Eliot, p. 177. 

Epicuro, p. 67; vol. II, p. 23, 

26. 



Eraclito, p. 159. 


Erode, p. 187. 


Eschilo, vol. II, p. 53. 

Eucken, p. 118; vol. II, p. 49. 

Euripide, vol. II, p. 17. 

Evemero, vol. II, p. 26. 



Ferro, vol. II, p. 222. 

Festa, vol. II, p. 50. 



Indice dei nomi 251 






Feuerbach, p. 114, 211; vol. II, 

p. 61, 63, 66. 


Fichte, p. 114; vol. II, p. 55, 

56, 59, 61, 63. 


Ficino, p. 127. 


Flint, vol. II, p. 76. 


Fondane, p. 205. 


Fourer, vol. II, p. 48. 


Franchi, p. 186. 


Franck, vol. II, p. 76. 





Galilei, p. 73; vol. II, p. 43, 

160. 

Gandhi, vol. II, p. 20. 



Gaunilone, vol. II, p. 130, 199, 

200. 


Gentile, p. 14, 38, 91, 115, 116, 

117, 138; vol. II, p. 61, 122, 

135. 



Giacobbe, vol. II, p. 220. 


Gilbert, vol. II, p. 46. 


Gilson, p. 14!, 142, 143, 192, 

197, 202, 218, 222. 


Giovanni di S. Tommaso, vol. 

II, p. 86. 


Goethe, vol. II, p. 54. 


Gratry, p. 127. 


Guyau, vol. II, p. 48. 





Haeckel, vol. II, p. 50; 51. 

Hamann, p. 204. 


Hamilton, vol. II, p. 30, 33. 

Hardouin, vol. II, p. 10. 

Hasting, vol. II, p. 76. 






Hazard, vol. II, p. 42, 43, 44, 

46, 76. 


Hegel, p. 57, 59, 93, 113, 115, 

124, 134, 154, 166, 168, 183, 

185, 186, 202, 203, 204, 206, 

211, 213; vol. II, p. 47, 49, 

55, 56, 58, 63, 64, 66, 68, 94, 

108, 116, 121, 122, 123, 124, 

134, 172, 175, 191, 221. 


Heidegger, p. 102, 124, 1%, 

203, 205, 206. 


Hello, p. 225; vol. II, p. 226. 


Herbert di Chirbury, vol. II, 

p. 42, 45. 


Herder, p. 179, 180. 


Hobbes, p. 108. 


Holbach (d’), vol. II, p. 23, 30. 


Huizinga, p. 174. 


Hume, p. 108, 109, 144; vol. 

II, p. 30, 120, 146, 167, 168, 

169, 170, 174. 


Huxley, vol. II, p. 29, 31, 50, 

76. 




Isacco, vol. II, p. 220. 





Jacobi, p. 204. 

Jaeger, p. 122. 

James, p. 118. 

Jaspers, p. 205, 206. 

Jaurès, vol. II, p. 47. 





Kant, p. 59, 74, 91, 93, 109, 110, 

111, 112, 113, 114, 115, II6, 

117, 144, 204; vol. II, p. 25, 



252 Indice dei nomi 






29, 31, 33, 41, 42, 43, 72, 5, 


122, 130, 141, 145, 146, 147, 


152, 164, 166, 167, 170, I71, 


172, 175, 196, 200, 203, 204, 


205, 207, 208, 216, 217. 

Keplero, p. 73. 



Kierkegaard, p. 114, 198, 202, 

203, 204, 206, 208, 210. 





La Bruyère, vol. II, p. 27, 40, 

151. 



Lachelier, p. 108, 118; vol. II, 

p. 13. 


Lagneau, vol. II, p. 152. 


Lalande, p. 199; vol. II, p. 76. 



Le Dantec, vol. II, p. 7, 26, 

76. 


Leibniz, p. 107, 108; vol. II, 

p. 47. 



Leopardi, vol. II, p. 22, 162, 

169. 



Le Roy, p. 99; vol. II, p. 33. 

Le Senne, p. 209. 


Levi Ad., vol. II, p. 33. 

Liard, p. 117. 


Littré, vol. II, p. 31. 



Locke, p. 109, 111, 144; vol, II, 

p. 30, 44, 120, 167, 168. 





Machiavelli, vol. II, p. 43. 



Malebranche, p. 106, 107, 127; 

vol. II, p. 10, 121. 



Mansel, vol. II, p. 30, 31, 33. 

Mansfield, p. 226. 

Manthner, vol. II, p. 76. 



Marcel, p. 205, 206, 222. 


Maritain, p. 197; vol. II, p. 4, 

76. 


Martinetti, vol. II, p. 42. 


Marx, p. 114, 168, 211; vol. II, 

p.- 52, 61, 64, 66, 67, 68. 


Masnovo, p. 151, 223. 


Moleschott, vol. II, p. 50. 



Naville, vol. II, p. 31. 


Newton, vol. II, p. 43, 46, 135. 


Nietzsche, p. 166, 168, 210; vol. 

II, p. 58, 61. 


Novalis, vol. II, p. 55. 





Occam, p. 98, 182. 


Oleschtschuk, vol. II, p. 76. 


Olgiati, p. 19, 92, 93, 95, 105, 

126, 127, 128, 129, 130, 13I, 

132, 133, 134, 135, 136, 137, 

139, 140, 141, 142, 143, 144, 

145, 146, 147, 148, 149, 150, 

151, 152, 153, 154, 155, 156, 

157. 


Ollé-Laprune, vol. II, p. 39. 





Parker, vol. II, p. 10. 


Parmenide, p. 97, 159, 190, 201; 

vol. II, p. 57. 


Paolo (S.), p. 68. 


Pascal, p. 40, 53, 56, 68, 75, 

76, 80, 127, 151, 155, 1907, 

204, 240; 214, 216; vol. II, p. 

10, 21, 40, 41, 72, 73, 107, 

213, 214, 232. 



Indice dei nomi 253 






Pico della Mirandola, p. 158. 

Pindaro, vol. II, p. 53. 

Pitagora, p. 49, 56. 


Platone, p. 40, 49, 52, 62, 64, 

66, 79, 97, 125, 128, 141, 143, 

151, 153, 155, 165, 184, 190, 

193, 194, 202, 206, 212; vol. 

II, p. 17, 57, 73, 160, 163, 

168, 169. 


Plotino, p. 98, 202; vol. II, p. 

42, 55, 56. 


Plutarco, vol. II, p. 34. 


Poincaré, p. 34. 


Pompeo, p. 187. 


Prini, p. 13. 


Protagora, vol. II, p. 29. 


Proudhon, vol. II, p. 48. 



Reid, vol. II, p. 31. 


Renouvier, vol. II, p. 7. 


Rensi, vol. II, p. 9, 27, 72, 76. 


Ricciotti, p. 21. 


Richard, vol. II, p. 76. 


Rickert, p. 117. 


Rideau, vol. II, p. 76. 


Rosmini, p. 32, 40, 58, 64, 68, 

116, 124, 127, 151, 155, 156, 

187, 222, 224; vol. II, p. 4l, 

140, 141, 143, 152, 155, 161, 

166, 170, 173, 175, 177, 206, 

209. 


Rossi, vol. II, p. 45. 



Rousseau, p. 204; vol. II, p. 42. 





Saint-Simon, vol. II, p. 48. 

Salomone, p. 50. 



Sartre, vol. II, p. 17, 69, 76. 


Scheler, p. 124. 


Schiller, vol. II, p. 55. 


Schlegel, vol. II, p. 55. 


Schopenhauer, p. 114, 183; vol. 

II, p. 74, 144, 145, 146, 147, 

215. 


Sciacca, p. 138, 140, 143, 147, 

151, 154; vol. II, p. 76. 


Scotuzzi, p. 13. 


Sesto Empirico, vol. II, p. 26. 


Socrate, p. 50, 51, 128; vol. II, 

p. 10, 229. 


Sofocle, vol. II, p. 53. 


Spaventa, p. 115, I16. 


Spencer, vol. II, p. 50, 51, 53. 


Spinoza, p. 107, 108, 113, 134; 

vol. II, p. 45, 47, 49, 53, 55, 

56, 57, 91, 121, 130, 143. 


Stalin, p. 164. 


Stefanini, vol. II, p. 222. 


Stephen, vol. II, p. 29, 76. 


Stirner, vol. II, p. 61. 


Strauss, vol. II, p. 31. 


Stuart Mill, vol. II, p. 3I. 


Suarez, p. 127. 


Sully Prudhomme, p. 115. 





Teodoro, vol. II, p. 26. 


Toland, vol. II, p. 42, 45, 49. 


Tommaso d’Aquino (S.), p. 68, 

122, 127, 128, 138, 139, 140, 

141, 142, 143, 145, 146, 147, 

148, 149, 151, 152, 153, 154, 

155, 156, 165, 166, 190, 217, 

221, 224, 226, 227, 228; vol. 

II, p. 88, 179, 189, 194, 1%, 



254 Indice dei nomi 






199, 200, 203, 204, 209, 210, 

211, 232. 

Tucidide, p. 31. 



Unamuno, vol. II, p. 39, 222. 



Vv 



Vacherot, vol. II, p. 31, 32. 

Valensin, vol. II, p. 57. 



Van Steenberghen, vol. II, p. 

87. 



Varisco, vol. II, p. 207. 



Vico, p. 127, 137, 173, 183; vol. 

II, p. 175. 



Voltaire, p. 108, 179; vol. II, 

p- 11, 27, 38, 42, 43, 46, 73, 

76. 





Windelband, p. 117. 

Wolff, p. 100, 106, 107; vol. II, 

p. 49, 147. 





Zamboni, vol. II, p. 207. 

Zenone, vol. II, p. 50. 

No comments:

Post a Comment