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Tuesday, December 17, 2024

S

 MICHELE FEDERICO SCIACCA 

Filosofia e Metafisica 


VOLUME II 


MARZORATI - EDITORE - MILANO 








FILOSOFIA 
E METAFISICA 


I due volumi di Filosofia 
e Metafisica raccolgono le 
pagine più impegnate e pro- 
fonde che lo Sciacca ha 
scritto tra il 1945 e il 1950 
e segnano il passaggio dal- 
lo «Spiritualismo cristiano» 
alla «Filosofia dell’integra- 
lità». In essi si possono leg- 
gere saggi di rilevante inte- 
resse teoretico come quelli 
sul concetto di metafisica e 
sull’ateismo, oltre all’altro 
sull’esistenza di Dio, che or- 
mai si allinea tra i testi clas- 
sici della filosofia contem- 
poranea. 

Lo stile avvincente e chia- 
ro, il vigore del pensiero in- 
sieme profondo e cristalli- 
no, l’unità dell’ispirazione, 
il modo proprio dell’ Auto- 
re di rendere attuali e vivi 
problemi di sempre, fanno 
che quest'opera, sistemati- 
ca senza pesantezza, sta una 
lettura appassionante e pro- 
ficua. 


Zursaran - S. Tommaso visita S. Bo- 
naventura. 


OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA 


Volumi pubblicati: 


2. 


3. 


4. 
5. 


L'interiorità oggettiva, III edizione italiana riveduta, pag. 120, 
L. 1000. 
Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta, pag. 224, 
L. 1200. 
Interpretazioni rosminiane, II edizione riveduta e aumentata, 


pag. 272, L. 2000. 
L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag. 292, L. 2000. 
Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400. 


6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata, 


8. 


9. 
10. 


Il. 
12. 


pag. 980, L. 6000. 
La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180, 
L.' 1500. 


Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. 
La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160, 
L. 1300. 

In Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500. 
Dall Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500. 


13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III edizione riveduta e aumen- 


tata, pag. 478, L. 4000. 


15. Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000. 
16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300. 


17. 


Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L. 1000. 


Volumi in preparazione: 


18. 


Sòren Kierkegaard e il « malessere » della cristianità. 


19. La filosofia italiana, II edizione. 


20. 
21. 


Il tempo e la libertà. 
Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia. 


22-23. Platone, II edizione. 


24. 
25. 
26. 


Studi sulla filosofia antica, II edizione. 
Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione. 
Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, II edizione. 


27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico. 
29. Studi sulla filosofia moderna, INI edizione. 


30. 


Le mense di Cristo. 


MICHELE FEDERICO SCIACCA 


FILOSOFIA 
E METAFISICA 


Terza edizione riveduta e aumentata 


Volume II 





Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI 
MILANO — via privata Borromei, 1 B/7 





Proprietà letteraria riservata 


© Copyright 1962 by Marzorati - editore, Milano 


Stampato in Italia - Printed in Italy 
1962 





Tipo-Lito P. Pasquetto - Miiano 





L' illustrazione è opera del pittore fiorentino 
Primo Conti. 


La caravella dalle vele crociate, che attraversa le 

Colonne d’ Ercole, simboleggia l’aspetto essenziale 

della filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli 

per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se 

esso cammina e procede sorretto dalla fede nella 
verità di Cristo. 


PARTE TERZA 


ATEISMO E TEISMO 


SEZIONE PRIMA 


L’ATEISMO 


CaprrroLo Î 


PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA 


I. — Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine. 


Una mattina, il re Gerone domandò a Simonide che gli 
dicesse chi fosse Dio; Simonide gli chiese un giorno di tem- 
po per pensarci sopra; l'indomani, a corto di una risposta 
soddisfacente, gliene chiese due, poi quattro e così di se- 
guito. Alle meraviglie del re per il moltiplicarsi continuo 
dei giorni, Simonide rispose che più ci pensava, più il pro- 
blema gli sembrava oscuro. 

Le pagine che seguono si propongono di vagliare le ri- 
sposte di quanti, a differenza di Simonide, affermano in 
vario modo che «Dio non è», cioè vogliono essere un 
breve esame storico-critico delle forme più significative di 
ateismo, un’analisi e valutazione delle dottrine che impli- 
citamente o apertamente si dicono atee ( #Seos= senza Dio). 
Problema difficile e complesso, non solo per le sfumature 
che presenta, ma anche perchè quanti son atei spesso negano 
di esserlo o, ammettendolo, parlano di un’altra cosa (!). 
«Avevo sentito dire molte cose di lui già in passato, e fra 


(I) Per esempio, il Comre (Système de polit. pos., t. I, p. 48) scrive che 
l’ateismo è «una cosa rara »; il Renouvier (Derniers Entrétiens, Paris, p. 102) 
che «il n’y a que très peu d’athées »; lo stesso Le DantEc non si considera 
ateo (L’Athfisme, Paris, 1906, p. 56) e aggiunge che la gran maggioranza degli 
uomini « est imbue de l’idée de Dieu » (p. 19); da parte sua il Blondel afferma 
che l’ateismo è « une thèse verbale, une interprétation ou, mieux, une finction 
notionnelle, mais non une position réelle ni une attitude naturelle: on peut dire 
qu'il y a ou des anti-théistes ou des idolàtres, à defaut de croyants du vrai Dieu, il 
n’y a pas d’athées; car, pour nier Dieu, on est forcé de passer d’abord par l’affir- 


8 Filosofia e Metafisica 





l’altro che era ateo: è un uomo realmente molto istruito, e 
mi rallegrai di poter parlare con un vero scienziato. Oltre 
a ciò, è un uomo di educazione rara, sicchè parlava con me 
proprio come a persona del tutto uguale a lui per cultura 
e intelligenza. Non crede in Dio; tuttavia una cosa mi colpì: 
che in tutto quel tempo avesse l’aria di parlare di tutt'altra 
cosa, e appunto mi colpì perchè anche in precedenza, per 
quanti miscredenti avessi incontrato e per quanti libri del 
genere avessi letto, mi era sempre sembrato che parlassero 
e scrivessero cose del tutto diverse, sebbene in apparenza fosse 
il contrario. Allora glielo dissi, ma, si vede, non in modo 
chiaro, oppure non seppi esprimermi, perchè non capì nul- 
la... Senti, Parfén, poco fa tu mi hai fatto una domanda, 
eccoti la mia risposta: l’essenza del sentimento religioso 
sfugge a qualsiasi colpa o delitto, a qualsiasi ateismo; c’è 
in esso qualcosa di inafferrabile e ci sarà eternamente, c’è 
in esso qualcosa su cui sorvoleranno sempre gli atei, che par- 
leranno eternamente di tutt’altra cosa ». 

Così il principe Myskin nell’Idiozz di Dostoevskij} non 
senza una sottile ironia verso il «vero scienziato » « molto 
istruito » e dall’« educazione rara », il quale crede di negare 
Dio e parla « di tutt’altra cosa »: la sua « cultura » e « intel- 
ligenza » hanno come limite l'ignoranza di ciò che negano; 
conosce tante cose ma non la sola necessaria per essere vera- 
mente sapiente. Nè si tratta dell’ignoranza dell’ateismo vol- 
gare: vi sono atei che filano le prove classiche dell’esistenza 
di Dio meglio di tanti credenti; le ripetono anche a se stessi, 
e non se ne convincono. Evidentemente, oltre che ad insuf- 


mation au moins implicite, mais inéluctable d’un ’’super-immanent’’» (La querelle 
de l'athéisme, Séance du 24 mars 1928 de la « Société frangaise de Philosophie », nel 
vol. di BrunscHvice, La vraie et la fausse conversion, Paris, Presses Universitaires de 
France, 1951, pp. 212-213). Anche S. Agostino scrive: « Si tale. hoc hominum genus 
est, non multos parturimus; quantum videtur occurrere cogitationibus nostris, per- 
pauci sunt, et difficile est ut incurramus in hominem qui dicat ir corde suo, non est 
Deus... » (Enarr. in Psalm. 52, 2). E aggiunge: « Dio è così naturalmente pre- 
sente al cuore dell’uomo che solo i corrotti e i perduti nel vizio possono ne- 
garlo » (Enarr. in Psalm. 13; In Joan. Evang. tr. 106, c. 17, n. 4). 


L'ateismo 9 





ficienza della volontà e al «profitto» o al « piacere» di 
non convincersene, intervengono errori o fuorviamenti intel- 
lettuali, di cui il principale è appunto che, parlando di Dio 
e negandolo, parlano di un’altra cosa. Similmente, come 
abbiamo accennato, altri protestano di non essere atei; tut- 
tavia, lo sono, in quanto Lo concepiscono in maniera inade- 
guata o contrastante la sua essenza. 

« Nessuno, in fondo, è ateo se non a parole »; al con- 
trario, secondo Bayle, è possibile una « società di atei»; ai 
nostri giorni si parla di « ateismo di massa» e non più di 
una élite (ateismo individuale o di setta) e alcuni stati e 
governi si proclamano « ufficialmente » atei e areligiosi; non 
manca chi ha creduto di dimostrare, come il Rensi nella 
sua superficiale Apologia dell’ateismo, che è «razionale » 
negare l’esistenza di Dio, anche se l’ha fatto con una pas- 
sione da « credente senza Dio », spiegabile solo con un sot- 
terraneo e invincibile sentimento religioso. Problema dun- 
que complesso, soprattutto se considerato nel pensiero mo- 
derno e contemporaneo, che va trattato con un interesse 
pari alla sua importanza, anche se, come vedremo, l’ateismo, 
sotto qualsiasi forma si presenti, non è razionale perchè intrin- 
secamente contraddittorio ed è una violenza dell’uomo alla 
sua stessa natura (?). 


2. — Abuso del termine «ateismo ». 


E’ necessario distinguere ateismo in senso assoluto e in 
senso relativo: nel primo caso si nega Dio in qualsiasi modo 
lo si concepisce; nel secondo si giudicano atee alcune parti- 


(2) Ciò è confermato anche dai cosiddetti « fatti » tanto importanti per gli 
empirici, i materialisti e gli evoluzionisti; infatti, le forme più primitive di reli- 
gione sono monoteiste e il politeismo, il feticismo, ecc. sono forme derivate 
di corruzione o degenerazione. D'altra parte, l’ateismo in quanto tale non è 
originario: come momento negativo, presuppone quello positivo, l’affermazione 
di Dio, cioè nasce dal fatto che l’uomo è per essenza religioso: c’è l’ateo 
perchè c'è il credente, il « positivo », che può stare senza il « negativo », che, 
invece, non è senza l’altro. 


10 Filosofia e Metafisica 





colari maniere di concepire la divinità, o si dissente su par- 
ticolari questioni di culto e di carattere religioso-teologico. 
Per esempio, per i pagani sono atei i cristiani e per i cri- 
stiani i pagani; per i protestanti i cattolici e per i cattolici 
i protestanti, ecc. Samuel Parker, protestante del XVII se- 
colo, s'affanna a provare (*) che tutti gli scolastici sono stati 
assolutamente atei; da parte sua, il gesuita Hardouin, nel 
libro Azhei detecti (4), accusa di ateismo Descartes, Arnauld, 
Pascal, Malebranche, ecc. In altri termini, per ciascuna reli- 
gione positiva sono atee tutte le altre concezioni di Dio da 
essa disformi. Per conseguenza, secondo alcuni, la defini- 
zione del termine « ateismo » è puramente verbale, in quanto 
il contenuto del concetto di ateo varia secondo le diverse 
concezioni di Dio e del suo modo di esistere (°). A_ volte 
basta dissentire dalle opinioni dominanti o ufficiali di una 
determinata epoca, per grossolane ed empie che siano, per 
essere accusati di ateismo e condannati. Celebri, in questo 
senso, nell’antichità, il processo e la condanna di Socrate; 
notissimo il racconto dell’Euzifrone platonico dove l’ateo di 
fronte alla religione ufficiale è Socrate, sostenitore di una 
concezione della divinità più conforme al suo concetto, e 
credente l’indovino Eutifrone, che attribuisce agli dèi ogni 
specie di malefatta e se li rappresenta in maniera empia e 
volgare in conformità con le credenze popolari ufficialmente 
accettate (9). 

Qui vi è un abuso della parola «ateo» dettato quasi 
sempre da conformismo opportunistico o da una politica di 
tornaconto, e un’errata impostazione del problema. L’abu- 


(3) Cfr. Disputationes de Deo et Providentia divina, Londra, 1678, disp. 2, 
cap. 2. 

(4) Opera varia, Amsterdam, 1719. 

(5) Vocabulaire technique et critique de la philos., IV ediz., Paris, 1938, 
vol. I, p. 73. 

(6) In questi casi, l’« ateo » è il vero credente, colui che protesta contro 
le concezioni volgari o superstiziose e le pratiche sconvenienti, si mette « contro 
l'opinione comune » (il « paradossale »), che offende Dio e il suo culto. 


L'’ateismo (3 





so, già molte volte rilevato e criticato da scrittori di varia 
tendenza ("), si può riassumere, per quanto riguarda la pra- 
tica religiosa, in questi termini: è ateo chi non è rigida- 
mente conformista al culto ufficiale di un paese in una de- 
terminata epoca. Ma qui non si tratta più di un problema 
teoretico o speculativo, ma di una questione di prassi, tipica, 
per esempio, della Grecia antica, il cui politeismo, privo di 
dogmi e di una vera e propria teologia, era quasi soltanto 
culto controllato dallo Stato. Roma, cue per mancanza di 
autentico spirito religioso e opportunismo politico era tol- 
lerante con tutti i culti, li reprimeva sotto l’accusa di 
ateismo, quando contrastavano con le direttive politiche e 
l'autorità statale. In questi casi non c’è ateismo teore- 
tico in quanto non si nega l’esistenza di Dio, nè pratico 
perchè non si vive come se Dio non esistesse; si fa que- 
stione intorno alla prassi religiosa e per motivi ad essa 
estranei. Così i pagani chiamavano atei gli Ebrei (*) ed an- 
che i cristiani perchè si rifiutavano di praticare il loro culto; 
con l’editto imperiale del 380, invece, furono definite atee 
tutte le religioni non cristiane (sacrilegium = &3ed7ns). 
Altra la questione riguardante il diverso modo di con- 
cepire Dio: se si tratta di controversie dogmatiche si può 
parlare solo di non ortodossia (per esempio, i protestanti si 
possono dire eterodossi, ma non atei); se della concezione 
di Dio in generale, bisogna distinguere: a) non sono atee le 
concezioni primitive e rudimentali in quanto manca la co- 
scienza critica e dunque il problema stesso dell’ateismo; b) lo 
sono, invece, quelle che negano Dio, o chiamano con questo 
nome un ente che non lo è (la Natura, il Cosmo, ecc.). Ma 
nei due casi si tratta sempre di « insipienza »; infatti, 1r51- 
piens — pronunzia la parola e pensa ad altro — non è solo 
chi nega Dio, ma anche colui che Lo concepisce in modo so- 


i (7) Cfr., per esempio, Vottatre, Dict. philos., Paris, Flammarion, s. a., 
voce « Athée, Athéisme », pp. 35 e ss.; Franck, Dict. des sciences philos., sub. V. 
(8) Jos. Frav., Contra Apion., II, 16. 


12 Filosofia e Metafisica 





stanzialmente sconveniente alla sua essenza. Anzi quest’ul- 
tima forma di ateismo, non soltanto Lo offende, ma ostacola 
la conoscenza del Dio vero: rispetto ad essa l’« ateo » ha 
la funzione benefica, anche se negativa, di demolire gli 
« dèi falsi e bugiardi ». 4 

Non tengono conto di queste necessarie distinzioni quanti 
concludono che il termine ateo non ha alcun significato teo- 
retico definitivo o definibile, ma solo un eglore storico da 
determinare caso per caso secondo i diversi culti e le parti- 
colari rappresentazioni di Dio. Così non solo si nega ogni 
forma di ateismo — tutto si ridurrebbe a reciproche accuse 
tra sistemi teologici e culti diversi, a chiamare atee forme di 
religione rudimentali o meno progredite — ma che teismo 
ed ateismo, in quanto temi di polemiche religiose, siano pro- 
blemi appartenenti alle discussioni filosofiche; in altri ter- 
mini, si nega che l’esistenza di Dio sia un problema teo- 
retico e lo si relega tra le controversie intorno al culto. Af- 
fermazione insostenibile, storicamente e teoreticamente, la 
quale non distingue il problema del domma e del culto da 
quello filosofico vero e proprio. 

Infatti, dal punto di vista storico è facile constatare che, 
in ogni epoca, tutti i grandi sistemi speculativi hanno affron- 
tato come questione filosofica e da un punto di vista teoretico 
il problema dell’esistenza e della concezione di Dio; anzi 
non c’è stata e non c’è filosofia che non si sia posto il pro- 
blema, così intrinseco alla stessa ricerca da definirsi, secondo 
la risposta affermativa o negativa, teistica, agnostica, atea, 
ecc. Possibile che una questione la quale ha occupato la mente 
degli uomini in tutti i luoghi e tempi ed è stata sempre in- 
trinseca alla ricerca razionale, non abbia in sè alcun senso 
filosofico, al punto da far dire che il termine « ateismo » non 
ha un significato teoretico definitivo, è privo di un suo con- 
tenuto e appartiene solo alle controversie sul culto o tende 
decisamente a ridurvisi? 


L'ateismo 13 





Dal punto di vista teoretico, come giustamente osserva 
il Lachelier (9), «ce qui varie est moins le contenu philo- 
sophique » dell'idea di ateismo « que l’emploi plus ou moins 
malveillant » che si fa del termine contro una particolare 
dottrina o una determinata persona. Altro è il contenuto 
filosofico pressochè invariabile, altro l’uso pratico del ter- 
mine; dunque, il senso storico o pratico variabile va distinto 
da quello teoretico immutabile. Chi nega che i termini 
«ateismo » e « teismo » abbiano un senso speculativo e pre- 
tende con ciò di negar loro diritto di cittadinanza nelle ri- 
cerche e nelle discussioni filosofiche per affidarli soltanto 
alle controversie religiose, muove da una posizione di pen- 
siero, da un presupposto che ha già concluso per suo conto 
che il tema dell’esistenza di Dio è del tutto estraneo 
alla filosofia o alla ricerca razionale e perciò non costituisce 
un problema speculativo; dunque, da un sistema costruito in 
modo da non far posto all'idea di Dio e, in questo senso, 
da una filosofia atea. Per conseguenza, la sua affermazione 
che il termine ateismo non ha un contenuto teoretico defi- 
nibile ma solo un valore storico e pratico, è presupposta, 
senza essere dimostrata, nella sua iniziale posizione filo- 
sofica che, in partenza e aprioristicamente, esclude dal campo 
dell'indagine razionale il problema teologico, per relegarlo 
in quello delle questioni religiose, solo in quanto il sistema 
non ne «tollera » la presenza: ci troviamo di fronte ad uno 
scoperto e filosoficamente intollerabile :dolum theazri. Chi 
dice in partenza, confondendo l’uso pratico del termine atei- 
smo con il suo contenuto, che quello dell’esistenza o non - 
esistenza di Dio non è un problema filosofico ha già deciso; 
per lui, la ragione, come ragione filosofica, è atea o almeno 
agnostica. Ma questa affermazione è una soluzione del pro- 
blema in questione, non un’argomentazione valida per dimo- 
strare che quello teologico non ha un significato teoretico; 


(9) Vocabulaire ccc., cit., p. 72. 


14 Filosofia e Metafisica 





anzi per il fatto che dà già una soluzione, vera o falsa che 
sia, prova con ciò stesso che il problema appartiene all’in- 
dagine filosofica e non soltanto alle controversie religiose. 
Dunque esso va riportato in sede speculativa come quello che, 
non solo appartiene alla ricerca razionale, ma è il problema 
primo della metafisica e perciò intrinseco ed essenziale alla 
filosofia come tale. 

Ma daccapo: quando l’ateo dice « Dio non esiste », quale 
Dio nega? Pensa veramente a Dio? Ne nega l’esistenza sen- 
z’altro, o nega quella di un Dio immaginato in una deter- 
minata maniera? Si è teisti soltanto se si ammette l’esistenza 
di Dio concepito nell'unica maniera vera e atei quando, pur 
non negandolo senz’altro, se ne concepisce uno in un modo 
diverso dall’unico per cui ci si possa dire teisti, in quanto 
il solo concepirlo diversamente ne implica la negazione? 
Problemi, questi ed altri, da tener presenti in una valuta- 
zione filosofica dell’ateismo, ma tutti riducibili a quello di 
una «ragione atea »; dunque, ai fini della validità dell’atei- 
smo stesso la domanda decisiva è una sola: è razionale una 
ragione atea? 


CapiroLo II 


L’ATEISMO PRATICO 


I. — Di alcune sue forme. 


L'’ateismo pratico non è autonomo e originario ma dipen- 
dente e derivato: ogni sua forma ne presuppone una di atei- 
smo teoretico: la volontà atea, sia pure implicitamente, è 
conseguenza della ragione atea. Perciò la sua validità di- 
pende da quella dell’ateismo teoretico, la cui confutazione 
implica inappellabilmente l’altra dell’ateismo pratico. 

Vi è un ateismo, scrive Bossuet, « caché dans tous les 
coeurs, qui se répand dans toutes les actions: on compte 
Dieu pour rien » ('). È l’attitudine di quanti vivono e orga- 
nizzano la propria vita come se Dio non esistesse; e non se ne 
« preoccupano » (”). Non ne negano in modo esplicito l’esi- 
stenza; vivono e agiscono senza tenerne conto, cioè negano 
che Dio, esista o no, possa avere una qualsiasi efficacia va- 
lida sulla nostra condotta e aiutarci nella soluzione dei pro- 
blemi che c’interessano. Alla base di questo comportamento 
sottostà una tacita convinzione: niente nel mondo cambie- 

(1) Pensées détachées, II. 

(2) E’ più una questione di indifferenza che d’ignoranza; a volte di pi- 
grizia, d’insensibilità, di ottusità spirituale; infatti, di Dio sentono parlare e 
ne parlano, ma vivono egualmente come se non esistesse. Non si tratta soltanto 
di essere sopraffatti dalle passioni terrene o dall’urgenza della vita — il la- 
sciarsene sopraffare indica già che è debolissimo il richiamo dei valori religiosi — 
nè dall’influenza dell'ambiente o dell'educazione: il fatto che se ne lasciano 
assimilare è prova che mancano di una vera esigenza religiosa ed implica una 


accettazione che è sempre, almeno implicitamente, frutto di una sia pure ele- 
mentare riflessione e di un atto volontario sia esso di mera acquiescenza. 


16 Filosofia e Metafisica 





rebbe in bene o in male anche se Dio non esistesse; la vita, la 
morte e tutto il corso dell’umana esistenza non muterebbero 
di segno: dunque che vale ammetterlo o preoccuparsi di 
risolvere il problema della sua esistenza? Ma chi ragio- 
na in questo modo, di quale Dio non si preoccupa sa- 
pere se esista o no ed agisce, in privato ed in pubblico, 
come se non esistesse? Di un Dio la cui esistenza non 
avrebbe alcuna efficacia sulla nostra condotta e il senso 
della vita; che è dire di un Dio che non è tale, anzi che 
è meno dell’uomo, il quale in un certo modo riesce ad in- 
fluire sulle sue azioni e a dare una risposta a certi problemi. 
È evidente che tale ateismo pratico è la conseguenza di uno 
teoretico, cioè del concepire Dio come non Dio, che è ne- 
garne l’esistenza; dunque, affinchè esso possa giustificarsi 
deve prima provare la validità razionale della negazione teo- 
retica su cui si fonda e da cui deriva. 

Vi è una forma di ateismo pratico più radicale ed oggi 
di moda: la vita non ha senso, è assurda; dunque Dio non 
esiste; ma chi dice che la vita non ha senso per ciò stesso 
presuppone che Dio non esiste. Infatti, è contraddittorio ne- 
gare ogni senso alla vita e nello stesso tempo ammettere che 
Dio esiste — in tal caso si pensa ancora all'esistenza di un 
Dio che non è tale —; come non si può ammettere l’esistenza 
del vero Dio senza dare alla vita un senso preciso e assoluto. 
La negazione non è una conseguenza del fatto che la vita 
non ha senso, ma la premessa teoretica da cui scaturisce l’atei- 
smo pratico. Chi nega un senso alla vita non deduce da 
questa affermazione l’inesistenza di Dio; al contrario, dice 
che la vita non ha senso proprio perchè in cuor suo Lo ha già 
negato. « Dio non esiste » è la premessa, anche se taciuta od 
omessa, dell’altra proposizione «la vita non ha senso», 
dalla quale non consegue la negazione di Dio; quando la 
si pronuncia si è già negato Dio, anzi la si formula solo in 
quanto si è negato. 


L'ateismo 17 





L’ateismo pratico, anche in questo caso, è conseguenza 
di quello teoretico; dunque non è valido fino a quando non 
si sarà razionalmente dimostrata la validità di quest’ultimo. 
Del resto, è nota la critica di Sartre all’« ateismo assurdi- 
sta » del Camus: l’assurdismo elevato a sistema si autonega, 
in quanto è sistema ben ordinato del disordine, una specie 
di razionalizzazione dell’assurdo perfettamente sistemato; 
piuttosto che negare l’Assoluto lo implica senza spiegarlo. 
Ma questa critica vale anche contro l’ateismo del Sartre. 


Se il male e i cattivi sono premiati a che giova credere 
nell’esistenza degli dèi e adorarli? Si potrebbe credervi se 
attraverso il trionfo del giusto si manifestasse la loro giu- 
stizia; ma nelle cose del mondo avviene proprio il con- 
trario. Questa forma di ateismo pratico, presente in tutti i 
tempi (*) e presso tutte le società, può così riassumersi: se 
l'ingiustizia fosse punita e il male vinto, non si potrebbe non 
credere nell’esistenza degli dèi o di un Dio; invece, l’ingiu- 
stizia è premiata e il bene sconfitto, dunque non esiste la di- 
vinità, o almeno tutto sta a provare il contrario; ammesso 
che esista, è impotente o malvagia. 

Questa forma di ateismo pratico è la semplificazione em- 
pirica di un problema metafisico di grande portata e preci- 
samente di quello del male e della sua origine: Si Deus 
est, unde malum? La presenza del male nel mondo è una 
delle cause principali dell’ateismo, come ci attesta la dolo- 
rosa esperienza del nostro e di tutti i tempi. La stessa mis- 
sione di Cristo è stata interpretata in questo senso: il Getse- 
mani, la cattura, il processo, il supplizio e la morte sta- 
rebbero a testimoniare come il giusto soccomba e il bene sia 
sempre sconfitto dal male trionfante. 


(3) Se si onorano le azioni cattive ed ingiuste, a che adorare gli dèi — 
tl del pe xopesetv — ? (SorocLe, Edipo re, 895); se l'ingiustizia è più potente 
della giustizia non si può credere agli dèi (EuriPIpE, Elettra, 583). La stessa tesi è 
sostenuta dai sofisti (PLatonE, Repubblica, soprattutto i libri I e IM). 


18 Filosofia e Metafisica 





Ma in che senso si dice che il male vince ed è premiato 
e, dunque, Dio non esiste? Evidentemente nel senso che in 
questo mondo, su questa terra, il bene non è vittorioso ed 
è perseguitato. In altri termini, si esige che la giustizia di- 
vina si avveri in questa vita, qui si puniscano i cattivi e si 
premiino i buoni, qui si compia il destino dell’uomo; che 
questa vita non sia prova, ma compimento pieno dell’esi- 
stenza nell’episodio mondano, con cui viene in tal modo ad 
identificarsi tutta. Ma ciò implica la negazione di un’altra 
vita, dove si attua la piena giustizia divina, e la identifica- 
zione di tutto l’essere con la realtà mondana; cioè presup- 
pone la negazione teoretica di Dio e di un Regno divino, 
del resto superflui una volta che nel mondo può trionfare 
la perfetta giustizia e l’uomo avere felicità eterna. Infatti, se 
si ammette che Dio esiste come Provvidenza e giustizia as- 
soluta, è contraddittorio affermare che il male trionfa sem- 
pre ed è premiato; bisogna dire invece che, anche quel che 
sembra male è a fin di bene e la giustizia, anche se scon- 
fitta e punita in questa vita, sarà vittoriosa e premiata nel- 
l’altra; cioè, che la vera si attua in un altro mondo. Il fatto 
che il male trionfa sulla terra e il giusto vi è perseguitato e 
punito non autorizza la conclusione negativa dell’esistenza 
di Dio, anzi è uno degli aspetti della vicenda storica del- 
l’uomo che acutizza il problema, fa riflettere sul signi- 
ficato dell’esistenza e stimola al convincimento positivo. 
Pertanto, la vera forma del ragionamento ateo non è: «vi 
è il male vittorioso nel mondo e il bene sconfitto, dunque 
Dio non esiste », ma quest'altra: « Dio non esiste e non vi 
è una giustizia divina ultramondana, dunque il male è de- 
finitivamente vittorioso nel mondo e il bene sconfitto ». L’atei- 
smo pratico presuppone sempre quello teoretico. Il problema: 
si Deus est, unde malum?, per chi in partenza non ha ne- 
gato Dio, si pone in questi termini: « ammesso Dio, come 
si spiega il male?»; per chi Lo ha già negato, in questi al- 


L'ateismo 19 





tri: «se nel mondo c’è il male trionfante, Dio non esiste ». 
La conclusione solo in apparenza è tale; in realtà è la pre- 
messa: « Dio non esiste, dunque nel mondo c’è il male, e 
vi trionfa ». Infatti, se si nega un regno ultramondano ed 
ultraumano, il male è invincibile ed impossibile una giu- 
stizia perfetta; ma proprio perchè già... si è negato Dio! 

Da ultimo, negare Dio perchè nel mondo il male ha suc- 
cesso e il bene è perseguitato, è dare eccessiva importanza 
al giudizio degli uomini e attribuire valore assoluto a quel 
che il mondo può darci, altrimenti non si potrebbe conclu- 
dere a quella negazione, contraddittoria con la relatività del- 
l'umano giudizio e dei riconoscimenti che crediamo spet- 
tarci; ma sopravvalutare la giustizia e l’ingiustizia terrene e 
i beni che possono dispensare o interdire, è già negare Dio. 
Basta convincersi che, meno le essenzialissime, le cose hanno 
solo l’importanza che attribuiamo loro, per non disperare di 
fronte al male premiato o al bene perseguitato e per rimettere 
ogni giudizio, con l’anima in pace, alla giustizia divina. 

Invece, la forma di ateismo pratico che stiamo discutendo 
importa la negazione radicale del cristiano Regnum Dei, 
della verità delle parole di Cristo: « Il mio Regno non è di 
questo mondo ». Conseguenza pratica di una posizione teo- 
retica immanentistica — non vi è un al di là trascendente, 
l’unica realtà è questo mondo — afferma che v'è solo il 
regnum hominis, dove si attua il cosiddetto Regnum Dei. 
Ma è un umanesimo ateo « disincantato »; non crede nella 
potenza dell’uomo che da solo si costruisce il suo regno di 
felicità e dalla negazione teoretica di Dio conclude all’in- 
vincibilità del male e al suo trionfo tra gli uomini. Ciò 
prova indirettamente come, negato Dio, perdano ogni vali- 
dità anche i valori morali, tutti relativi alle situazioni con- 
tingenti, e non abbia più senso nemmeno essere onesti per 
sentirsi in pace con la coscienza. 

Su questa radicale negazione della concezione cristiana. 


20 Filosofia Metafisica 





dell’esistenza si fonda l’interpretazione, sopra accennata, del- 
la vita di Cristo come esempio della sconfitta del bene e della 
vittoria del male. Se la si accetta per vera, se Cristo sta a 
provare che il male è assolutamente invincibile e il bene soc- 
combente e crocifisso, non si sfugge a questa conclusione: 
Cristo sta a dirci che Dio non esiste, che non è Suo Figlio, 
nè è venuto a testimoniare del Padre; abbandonato perse- 
guitato crocifisso, è la prova che non vi è alcuna giustizia, 
nè Dio, convalida l’ateismo; Egli stesso, in fondo al cuore, 
nonostante le cose che ha detto del Padre, è stato un ateo 
tristissimo e sconsolato! 

Tali le conseguenze assurde di questo ateismo pratico 
che possiamo chiamare anche dell’insuccesso: il bene è sem- 
pre in perdita, il male sempre in vincita, dunque Dio non 
esiste. Ma, daccapo, proprio perchè si è negata l’esistenza di 
Dio si conclude che il male vince e il bene perde; altrimenti, 
se quella negazione non fosse presupposta, dall’insuccesso 
mondano e contingente del bene si ricaverebbe quest'altra 
conclusione: quando il bene si purifica attraverso la rinun- 
zia, la sofferenza e la sconfitta terrena, quando sfida il mar- 
tirio, si assicura la vittoria, vince con e nel sacrificio di chi 
gli si sacrifica, gli rende testimonianza. Invece, il male, 
apparentemente vittorioso, perde terribilmente nel momen- 
to che uccide il giusto, perchè vince come male, perchè 
costretto a commettere ingiustizia: è sconfitto proprio per 
il suo successo. La punizione della legge ingiusta, come dice 
Gandhi, sta nell’obbligarla ad essere applicata al giusto, 
nelle sue ingiustizie e nelle sue vittime (*). Bruto che, dopo 
la sconfitta di Filippi, giudica la virtù «un nome vano » 
e si uccide, non aveva mai creduto nella verità di essa e 
ne aveva sempre misurato il valore e il significato dall’even- 
tuale insuccesso o successo, anzi dal suo personale. 


(4) Per un approfondimento di questi temi cfr. il nostro volume Come 
si vince a Waterloo, Milano, Marzorati, 3* ediz., 1962, Il* delle « Opere com- 
plete ». 


L'ateismo 21 





Vi è in quest’ateismo pratico anche un fondo di superbia 
satanica: la pretesa che l’uomo faccia trionfare il bene e 
la giustizia con la sua opera, come se fosse egli il creatore e 
il garante dei valori. « Noi facciamo sempre come se aves- 
simo il compito di far trionfare la verità, mentre abbiamo 
solamente quello di combattere per essa» (Pascal). Simil- 
mente il nostro dovere è di essere giusti al servizio della 
giustizia: combattere per essa, senza pretendere di farla 
trionfare, perchè non ci spetta. Chi si arroga quest’ultimo 
compito è già ateo: affida a sè il trionfo del bene, non ce 
la fa, e conclude che se il bene perde e il male vince, non 
c'è bene in questo mondo e dunque... Dio non esiste. Un 
« dunque » apparente perchè non è tale, ma la premessa del- 
l’assurda pretesa di far trionfare il bene, di misurarne la 
vittoria o la sconfitta dal suo terreno successo o insuccesso, 
di pretendere che l’ordine divino si attui nel mondo e si iden- 
tifichi con quello umano, anzi sia lo stesso nostro ordine. 

Da ultimo, non vogliamo tacere di una forma molto dif- 
fusa di ateismo pratico, quello di quanti dicono di credere 
in Dio e ne negano l’esistenza in ogni loro azione, cioè agi- 
scono come se non Gli credessero, o non esistesse. Affermano 
di credere in Dio ma adorano il mondo, il potere, il denaro; 
immersi nelle cose, la loro credenza religiosa è solo una 
specie di polizza di assicurazione, pagata con il tributo del 
culto esteriore, sicuri, con questo supplemento di comodità, 
di star bene in questa vita e meglio nell’altra. È l’ateismo 
pratico della Messa della domenica e del segno della Croce, 
magari, per non sciupare quel frammento di tempo, pen- 
sando a qualche « buon affare ». Anche in questo caso, l’atei- 
smo pratico presuppone quello teoretico, in quanto la « fede » 
di questi cosiddetti credenti non è una dimensione interiore e 
manca di ogni fondamento razionale; è pura consuetudine 
alimentata dal timore del « non si sa mai ». Vi è l’angoscia 
bruciante e tormentata dei « buoni » atei; vi è l’ateismo so- 
stanziale dei cattivi credenti. 


22 Filosofia e Metafisica 





2. — Inconsistenza dell’ateismo pratico. 


Come abbiamo detto, l’ateismo pratico non prova la nega- 
zione di Dio, ma la presuppone: apparentemente dal mo- 
mento pratico trae la conseguenza teoretica che Dio non esi- 
stes in realtà quest’ultima è presupposta. Per esempio: nel 
mondo vince il male e perde il bene, dunque Dio non esi- 
ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza e non la 
premessa della negazione dell’esistenza di Dio; il dolore e il 
male sono inspiegabili, dunque non c’è un Dio, ma sono 
inspiegabili appunto perchè Dio si è negato. Leopardi esorta 
gli uomini a prendersi per mano per meglio sopportare il 
peso della vita di cui nessuno si cura; ma gli uomini sen- 
tono la vita come un peso assurdo solo se si presuppone 
che nessuno si cura di loro, cioè se si è già atei. Vana illu- 
sione il conforto della solidarietà nel comune dolore: una 
comunità di disperati non può dare speranza ad un solo 
uomo! È evidente il sofisma dell’ateismo pratico: da una 
valutazione negativa del mondo conclude che Dio non esi- 
ste, ma la prima proposizione è essa la conseguenza della 
seconda. La conclusione (Dio non esiste) dalla premessa (se 
il mondo è fatto così) è in realtà la premessa di cui l’altra 
è la conseguenza. 

D’altra parte, come abbiamo accennato, se il male potesse 
essere sconfitto definitivamente in questo mondo e l’uomo 
realizzarvi la felicità perfetta, sarebbero inutili Dio e una 
superiore giustizia divina: il conflitto tra il male e il bene 
sarebbe risolto in questa vita e l’esito immanente della lotta, 
tutto in potere dell’uomo, renderebbe superfluo quello al di 
là di essa e dipendente da un intervento, che s'inserisce 
nella lotta dell’uomo, ma non gli appartiene. Da questo punto 
di vista, all'opposto di come argomenta l’ateismo pratico, 
proprio gli insuccessi del bene e l’incertezza dell’esito defi- 
nitivo del conflitto, sempre sospeso tra il bene e il male, 
fanno evidente la convenienza razionale di una Giustizia 


L'ateismo 23 





divina trascendente e di una Provvidenza regolatrice della 
vita di ogni singolo e dell’ordine universale. 

L’ateismo pratico, inoltre, arriva a conclusioni opposte, 
ora ottimiste, ora pessimiste: dalla negazione dell’esistenza 
di Dio e di una giustizia superiore conclude, come alcune 
odierne forme di esistenzialismo, che nel mondo vince il 
male e la vita è miseria, assurdo, nulla; d’altro lato, dalle 
stesse negazioni, che, proprio liberandosi da quelle « super- 
stizioni », l’uomo realizza in terra la giustizia e la felicità 
perfette. Questo mito alimentò l’età dell’Illuminismo: ab- 
battere il vecchio edificio, demolire le illusorie speranze di 
una esistenza ultraterrena e ricostruire una società nuova, 
fiduciosa nelle sue sole forze razionali, che, immancabil- 
mente, per mezzo dell’onnipotente scienza, conquisterà per 
ogni uomo la più perfetta felicità; il mitico cristiano Regno 
di Dio si attuerà su questa terra in un futuro immancabile, 
di cui artefice è e sarà soltanto l’uomo (5). Il mito illumini- 
stico si è ripresentato, con il marxismo, sotto altra forma e 
la spinta di nuovi problemi, come mito della futura « società 
omogenea », instauratrice del « nuovo » uomo marxista e del 
«nuovo » umanesimo senza Dio. È facile che tale ottimi- 


(5) Il d’HotsacH fa consistere la felicità nell’ateismo; il BavLE ne fa quasi 
la glorificazione: vi sono atei più virtuosi dei cristiani, capaci di macchiarsi 
dei più turpi vizi; una società di atei, non solo è concepibile, ma sarebbe su- 
periore ad una cristiana; anche l’ateismo ha avuto i suoi eroi ed i suoi mar- 
tiri. L'Ottocento, a sua volta, crea il mito dell’ateo, modello di onestà, sal- 
dezza e coerenza morale, quasi una prova apologetica della verità dell’ateismo. 
Essere atei e onestissimi diventò una specie di srob, una patente, oltre che di 
alte virtù civili — e ciò fino ad un certo punto è vero —, anche di grande 
nobile coraggio morale, quello di sfidare il nulla della morte e di sapersi reg- 
gere, torre che non crolla, sulle sole leggi immanenti della coscienza; e ciò 
non manca del ridicolo che accompagna ogni bravura, oltre che di un buon 
grado di infantile superbia ed ingenuità, quella di chi crede che, negato Dio, 
vi possa essere un'assoluta legge morale. Ottimistico ateismo « borghese » che 
il pessimistico ateismo « antiborghese » del ’900 ha distrutto con spietata coe- 
renza, anche se è riescito a mettere al suo posto soltanto il nulla. 

Ma già nell’antichità Epicuro ritiene indispensabile alla tranquillità e fe- 
licità del saggio il liberarsi dalla credenza nell’immortalità dell’anima, dalle 
preoccupazioni dell’oltretomba e di una Provvidenza divina. Non nega l’esi- 
stenza degli dèi; li relega tra gli intermundi, modelli ideali di quella saggezza 
a cui l’uomo deve tendere. 


24 Filosofia e Metafisica 





smo, una volta affidato all’uomo il compito di realizzare 
quello che non gli compete e di fronte all’impossibilità di 
tradurre in atto le sue « disumane » aspirazioni, ritorni alla 
posizione dell’ateismo pratico pessimista. E° il destino di 
tutte le concezioni edoniste (9), le quali assolutizzano il rela- 
tivo — il piacere o l’utile economico, — che, come tale, può 
essere assoluto solo per un’arbitraria ed ingiustificata estra- 
polazione e per un depauperamento al minimo delle finalità 
dell’uomo. 


(6) Com'è noto, l’edonismo della Scuola cirenaica in alcuni suoi seguaci 
sbocca in un sostanziale pessimismo; così in Egesia, detto il « persuaditor di 
morte » (merarddvatoc). Alla stessa dialettica ubbidiscono alcune teorie del « pia- 
cere » e del « dolore » del secolo XVIII. 


CapitoLo III 


L’ATEISMO TEORETICO 


I. — Schema delle sue principali forme. 


L’ateismo teoretico, presupposto da quello pratico, è un 
giudizio negativo, diretto o indiretto, sull’esistenza di Dio; 
dunque dovrebbe essere la conclusione di un processo raziona- 
le da certe premesse. Possiamo distinguere: a) ateismo dom- 
matico o negazione pura e semplice dell’esistenza di Dio; 
b) ateismo scettico-agnostico, provvisorio o definitivo, il quale 
nega all’uomo la capacità di concepire Dio e di provarne co- 
munque l’esistenza: ogni qualvolta ci si pone il problema del- 
l’esistenza di Dio, dice Bayle, ci si imbatte in mille difficoltà 
insolubili, come la realtà del male e del dolore, per cui, 
quando si crede di averlo risolto, non si è risolto niente (!); 
c) ateismo critico o confutazione delle possibili prove razio- 
nali dell’esistenza di Dio — la posizione di Kant nella Cri- 
tica della Ragione pura — che tuttavia non è negata (ateismo 
attenuato), anzi la si ammette per esigenze morali: forma di 
fideismo, non religioso, ma come atto di fede razionale; 
d) concezioni improprie di Dio o dottrine come il deismo, 
il panteismo, il materialismo, che, pur non negandone l’esi- 
stenza, sono considerate atee per il modo come Lo concepi- 
scono. Certo, se come sostengono alcuni non può dirsi ateo 
chi ammette una realtà assoluta comunque concepita, non 


(1) Réponse aux questions d'un provincial, 1706, t. III, cap. LXXIV. 


26 Filosofia e Metafisica 








vi è forse pensatore che lo sia; ma, in tal caso, il concetto 
di Dio risulta puramente verbale, cioè mancante di un con- 
tenuto proprio e avente quello che ogni filosofia gli attri- 
buisce. D'altra parte, l’« Assoluto» come è concepito da 
alcuni filosofi non sempre è veramente tale, nè basta il ter- 
mine per qualificare l’idea di Dio. Si può dire che è Dio la 
Materia o l'Energia cosmica intese come principio assoluto? 
l’hegeliano Assoluto « che si fa », o un Dio limitato? Inoltre, 
la nozione di Dio, come quella che non appartiene solo al pen- 
siero filosofico ma anche e soprattutto alla coscienza religiosa, 
deve soddisfare le esigenze della ragione e della fede. e) Atei- 
smo come negazione dell’altenazione religiosa o liberazione 
definitiva dall’idea di Dio e riconquista dei diritti e dei poteri 
integrali dell’uomo. 


2. — L'’ateismo assoluto o dommatico. 


L’ateismo assoluto, negazione vera e propria dell’esistenza 
di Dio, ha scarsissimo interesse storico e nessun valore teo- 
retico. I filosofi atei in tal senso sono pochissimi (7), anzi 
l’ateismo, in questa accezione, è combattuto... proprio dagli 
atei, come quello che è una mera credenza: «credo ferma- 


(2) Nella Grecia antica sono considerati atei sotto questo aspetto alcuni so- 
fisti; Crizia, per esempio (frammento del dramma satiresco Sisyphos, SExT., 
Emir. IX, 54, in Diets, Fragm. der Vorsokratiker, Il, fr. 25, p. 319 della 
IV ediz.) sostiene che gli dèi sono una pura invenzione. Atei, oltre a Teodoro, 
Epicuro e Crizia, già ricordati, sono detti per tradizione Diogene di Apollo- 
nia, Diagora di Melo, Evemero, secondo il quale gli dèi non sono che antichi 
re o potenti, cioè uomini divinizzati. Nei tempi moderni, più che veri e pro- 
pri teorici dell’ateismo, vi sono agnostici e scettici; oppure dommatici nega- 
tori di Dio che non si son mai posto speculativamente il problema; o ancora so- 
stenitori di dottrine materialistiche che lo sopprimono fin dall’inizio, muovendo 
da un ateismo preconcetto. Ai nostri giorni non mancano ritorni alla forma 
dommatica di rifiuto radicale dell'idea di Dio, la cui esistenza è ritenuta « im- 
pensabile », « impossibile »: non si criticano le prove, si passa oltre, come 
di un problema che non ha senso logico nè interesse. Questo ateismo si può ri- 
portare a quello psicologico di tipo dommatico (per esempio, di Le Dantec): 
insensibilità per il problema e inconcepibilità dell'idea di Dio. Più che di una 
teoria filosofica si tratta di una situazione psicologica; perciò di un «caso » 
da trattare in altra sede e non di un problema da discutere filosoficamente. 


L'ateismo 27 





mente che Dio non esiste ». Di fronte ad una simile affer- 
mazione dommatica e « fideistica » non c’è che da scrollare 
le spalle fino a quando non venga trasformata in problema, 
in un interrogativo su cui portare la discussione. Le si può 
contrapporre, senza che l’ateo abbia il diritto di protestare, 
quella del teista dommatico: «La mia impossibilità di 
provare che non c’è Dio, mi svela la sua esistenza» (La 
Bruyère). 

Per Voltaire questo ateismo è una forma di dommatismo 
«quasi sempre fatale alla virtù » al pari del fanatismo (*). 
In questo senso, ha a suo modo un'anima religiosa, quella 
propria dell’ateo che vive intensamente il suo problema reli- 
gioso, antitesi dell’« indifferente », che appartiene ad altra 
forma di ateismo. Bayle fu prima protestante, poi cattolico, 
di nuovo protestante e difensore dell’ateismo: il problema 
religioso lo interessò sempre profondamente. Come dice il 
Rensi, che dell’ateismo ha scritto l’apologia, c'è « maggiore 
affinità di spirito fra un religioso fervente e un ateo il quale 
viva appassionatamente la sua negazione o rassegnata o di- 
sperata, che non tra il primo e un credente per consuetu- 
dine...» (‘); lo stesso autore si considera ateo «per religione» : 
«...solo l’ateismo è puro e pio, solo l’ateismo è la grande 
vera religione » (*), quella del Nulla, atteggiamento mistico 
che si spinge fino alla negazione di Dio (°). Come tale, a 
parte quanto vi può essere di positivo in un’anima sincera- 
mente tormentata, non è una posizione filosofica da discutere, 
ma uno stato d’animo irrazionale ed angoscioso, il quale, più 
che essere confutato, va « smontato » come ogni « passione », 
dimostrando razionalmente vera la tesi teistica, che è ripor- 
tare l’ateo allo stato di ragione. Si noti che egli non dimo- 


(3) Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., p. 45. 

(4) Rensi, Apologia dell’ateismo, p. 98. 

(5) Ivi, p. 101. 

(6) Anche nell’India moderna (prima metà del sec. XIX) abbiamo un esem- 
pio di ateismo assoluto, quello di BakHravar, autore del Sunisar (« Essenza 
del vuoto »), dove è esposta la « dottrina del vuoto » (sinyavada) o del Nulla. 


28 Filosofia e Metafisica 





stra che Dio non esiste, ha fede soltanto nel suo ateismo 
A gr: ì 

puro, che è una specie di idolatria par choc en retour. 
Intatti, chi crede nel proprio ateismo finisce sempre per ado- 
rare e temere qualche altra cosa, una forza della natura o 
la materia, un ente occulto o un valore umano divinizzato, 
lo stesso male (?). Ciò prova indirettamente che nell’uomo 
il sentimento religioso può deviare ma non si può estirpare 
e come, più che sull'esistenza di Dio, vi sia questione sul 
modo di pensare tale esistenza e Dio stesso senza contraddi- 
zione, cioè in maniera idonea e non sconveniente. 

C'è una forma di ateismo assoluto non nuova, ma oggi 
di moda a causa della fortuna di un certo esistenzialismo che 
offende anche il più elementare buon senso; vi abbiamo ac- 
cennato, ma l’aspetto che qui consideriamo si distingue 
sottilmente dall’ateismo assurdista del Camus. Il mondo è 
assurdo; se si potesse provare che Dio esiste, avrebbe un 
senso; ma Dio è indimostrabile; dunque il mondo è assurdo. 
Ateismo dommatico: muove dal presupposto che il mondo 
è assurdo e pretende contraddittoriamente che solo l’esistenza 
di Dio potrebbe dargli un senso; senza badare che quel pre- 
supposto implica, comporta e presuppone la sua negazione. 
Infatti, un mondo assurdo ne esclude l’esistenza, perchè è 
contraddittorio ammettere Dio come suo autore, a meno di 
non concepirLo come l’Assurdo, che è parlare non di Lui 
ma di un’altra cosa, cioè avere una concezione assurda di 

(7) In questo senso, la superstizione è la vendetta della religione: gli atei, 
i più spregiudicati, sono superstiziosissimi. Ritengono Dio una fantasticheria da 
donnicciuole, la dommatica un prodotto dell’immaginazione « fabulatrice » di 
menti bambine e immature, ma credono fino a torcersi le budella dalla paura 
che il gatto nero che attraversa la strada fa romper loro l’osso del collo. Nella 
coscienza primitiva la religione si manifesta in forme elementari o popolari e 
perciò anche superstiziose; nell’ateo, invece, che della religione nega il con- 
tenuto, resta la superstizione pura e semplice: l’ateo è un primitivo addot- 
trinato. Nel primo caso la religione assume forme elementari adeguate alla co- 
scienza primitiva (ciascuno crede, in buona fede, come può secondo il suo svi- 
luppo mentale), nel secondo l’indomabile sentimento religioso, conculcato dal- 
l’ateismo, trova il surrogato nella pura superstizione. In tal modo l’ateo, per la 


fede cieca nel suo ateismo, calunnia la grandezza e la dignità dell’uomo, che 
sono anche le sue. 


L’ateismo 29 





Dio e, come tale, atea. Inoltre, se il mondo è assurdo, come 
si può concepire la stessa possibilità di provare Dio? Anche 
essa bisogna dirla assurda; la stessa eventuale prova lo sa- 
rebbe. Ma evidentemente chi dice che, se si potesse provare 
l’esistenza di Dio, il mondo non sarebbe assurdo, ammette 
almeno ipoteticamente che questa ipotesi non è assurda, 
altrimenti non la porrebbe neppure; dunque nega, con ciò 
stesso, che il mondo è assurdo. Ma tant'è, l’esistenzialista 
ateo si fa un idolo del suo mondo senza senso, vi si crogiola 
dentro, felicemente confortato di tanta disperata infelicità; 
si perde nell’idolatria di un feticcio concettuale, l’Assurdo. 


3. — L’'agnosticismo. 


Nel pensiero moderno, specie con il positivismo e attra- 
verso le interpretazioni empiristiche e positiviste di Kant, 
l’agnosticismo, parola usata per la prima volta da Huxley 
nel 1869 e di cui l’inglese Leslie Stephen nel 1876 pubblicò 
l’apologia (An Agnostic’ Apology) (*) è una delle forme 
più diffuse di ateismo. Huxley coniò il termine in opposi- 
zione a gnosi: « non saper nulla » intorno ad un argomento 
e trovarsi di fronte ad un problema insolubile. Più esplici- 
tamente lo Stephen: la conoscenza umana ha dei limiti e 
quando si occupa di argomenti che sono al di là di essi 
costruisce un sapere fantastico; la teologia è al di là dei 
limiti dell’umana conoscenza; dunque è un tessuto di chi- 
mere. Ma è necessario precisare quali sono questi limiti — 
per un positivista sono diversi da quelli segnati da un idea- 
lista e i limiti di entrambi differenti da quelli di uno scet- 
tico —; se la negazione o l’affermazione dell’esistenza di 
Dio cade dentro o al di fuori di essi; che cosa s'intende con 
la parola « teologia », dato che ve n’è una naturale o razio- 
nale e un’altra rivelata o dommatica. Lo Stephen non sembra 

(8) Ma l’agnosticismo è antico; notissimo un frammento di Protagora: 


« quanto agli dèi, ignoro se sono o se non sono e quale aspetto abbiano » 
(Dros., IX, 51). 


30 Filosofia e Metafisica 





fare queste distinzioni e perciò confonde ordine religioso ed 
ordine filosofico. 

Nessun filosofo teista ha contestato i limiti della cono- 
scenza umana in materia di teologia e quasi tutti concordano 
nell’affermare che l’uomo non ha cognizione diretta della 
essenza di Dio; ma il problema che qui si discute non è 
quello dell’essenza, bensì l’altro della Sua esistenza che non 
è solo di fede ma anche di ragione. L’agnostico esclude 
che tale problema sia razionalmente solubile perchè muove 
da un suo modo di concepire i limiti della conoscenza; 
dunque la sua conclusione agnostica è un idolum theatri ine- 
rente al suo «sistema»: il problema dell’esistenza di Dio 
non è insolubile in se stesso e in qualunque caso, ma lo è 
solo rispetto alla sua teoria della conoscenza, cioè è una 
questione interna della sua filosofia. Perciò è arbitrario dalla 
proposizione, « la conoscenza umana ha dei limiti », dedurre 
la conseguenza, « dunque non sappiamo se Dio esiste », in 
quanto: 1) si limita la conoscenza umana al di qua dei 
suoi stessi limiti, cioè alla pura esperienza dei fatti o dei 
fenomeni sensibili; 2) si fa dell’esistenza di Dio un problema 
di pura fede; 3) si nega la possibilità di una conoscenza 
diversa da quella dei fatti e perciò di un sapere poetico, 
morale, ecc.; della metafisica in quanto tale e, con ciò stesso, 
di un sapere filosofico. L’agnosticismo in questo senso è la 
negazione della stessa filosofia che, depauperata e depoten- 
ziata, è ridotta alla pura conoscenza scientifica o dei fatti 
fisici, o alla pura conoscenza storica o dei fatti umani. 

Quantunque l’agnosticismo non sia ateismo (Locke, Ha- 
milton, Mansel, ecc., fondatori di quello moderno, non si 
possono dire atei), molti che si dicono agnostici lo sono, 
come Hume, d’Holbach e altri; d’altra parte, è facile da 
esso passare all’ateismo per affinità tra le due attitudini. 
L'affermazione, « al di là dei dati della nostra esperienza 
non sappiamo nulla », può trasformarsi facilmente, anche se 


L’ateismo 3 





si dice cosa molta diversa, nell’altra; « al di là dei fatti della 
nostra esperienza ron esiste nulla » ("). In tal caso l’agno- 
sticismo diventa ateismo dommatico e contraddice se stesso, 
in quanto, negando Dio, oltrepassa quei limiti che segna alla 
conoscenza umana e si spinge ad un’affermazione ripugnante 
alla sua natura. L’agnostico, dalla pretesa impossibilità di 
dimostrare l’esistenza di Dio, non può concludere, senza 
contraddirsi, alla sua negazione esplicita ('°). 

D'altra parte, egli non può, proprio perchè agnostico, 
controbattere le critiche di quanti pretendono dimostrare la 
contraddittorietà dell’esistenza di Dio in se stessa e ?n rap- 
porto con la concezione che se ne ha; per esempio, non 
può opporre nulla a chi sostiene (Strauss) che se Dio è infi- 
nito non può essere personale, perchè infinità e personalità 
si contraddicono; a chi afferma (Stuart Mill) che se fosse 
onnipotente e buono non dovrebbe esistere il male; a chi 
dice (Vacherot) che i due concetti di infinità e perfezione 
escludono l’esistenza, la quale non si addice a Dio, che è solo 


(9) E. Navitce, Philosophies négatives, Paris, 1900, p. 85. 

(10) Di ciò, in verità, l’agnosticismo ha piena coscienza: quello che hanno 
scritto coloro che credono di aver dimostrato l'esistenza di Dio, scrive HuxLFy 
(Essay, London, 1898, t. I, p. 245) sarebbe «il peggio, se non fosse sorpas- 
sato dalle assurdità ancora più grandi dei filosofi che cercano di provafe che 
Dio non esiste ». La filosofia positiva niente nega © niente afferma, perchè 
negare o affermare è oltrepassare il dato; perciò essa respinge l’ateismo, in quanto 
l’ateo « n'est point un esprit véritablement émancipé; c'est encore, à sa ma- 
nière, un théologien; il a son explication sur l’essence des choses... » (E. Lit- 
tré, Paroles de philosophie positive, pp. 31-32). 

L’agnosticismo ha la sua formulazione chiara e rigida nell’inglese H. L. 
Mansel, per il quale Dio non è assolutamente concepibile come assoluto e infi- 
nito, in quanto l’« Assoluto non può essere concepito né come cosciente, né 
come incosciente, né come complesso né come semplice; non può essere definito 
né per mezzo di differenze, né per mezzo della loro assenza; non può essere iden- 
tificato con l’universo, né può essere distinto » (The Limits of rel. Thougt, p. 30). 
Ma tutto ciò riguarda l’essenza e non l’esistenza di Dio; infatti, il Mansel ag- 
giunge, per influenza del Reid e del Kant, che la costituzione stessa del no- 
stro spirito ci costringe a credere nell'esistenza dell’ Essere assoluto e che tale 
credenza, oltre che sulla nostra natura, si fonda sulla rivelazione. Il Mansel dal- 
l’inconoscibilità dell'essenza ricava quella dell'esistenza, confondendo due pro- 
blemi diversi; il suo agnosticismo, spinto a questo punto, è scetticismo della 
ragione e fideismo puro; in definitiva, ateismo. 


32 Filosofia e Metafisica 





un’Idea ("!); tesi quest’ultima sviluppata e approfondita ai 
nostri giorni dal Carabellese, che identifica Dio con l’Og- 
getto puro della coscienza e taccia di ateismo coloro che lo 
considerano esistente. Di fronte a questi sofismi o ad usi 
errati del termine esistenza attribuito a Dio l’agnostico è 
disarmato ed il suo agnosticismo a mal partito. Se egli, pur 
razionalmente agnostico, ha fede nell’esistenza di Dio viene 
a trovarsi nell’insostenibile condizione di credere nell’Essere 
di cui non può dimostrare che l’esistenza non implica con- 
traddizione: come fa a credere ancora stando in questo 
dubbio, quasi contro la ragione, o almeno senza che questa 
porti il più piccolo aiuto alla sua fede? Se non crede, il pro- 
blema dell’esistenza di Dio e Dio stesso gli diventano in- 
differenti e tacitamente opera dentro di sè il « salto» dog- 
matico dal « non so nulla » al « non esiste nulla » al di là 
dei dati dell’esperienza, spingendosi a un tacito ateismo 
teoretico e a un manifesto ateismo pratico. Sono possibili 
anche un agnosticismo teoretico (non so se Dio esiste) e un 
ateismo pratico (mi comporto come se non esistesse); o un 


(11) «Il perfetto non esiste »; questa la tesi del VacHEROT nell’opera La 
métaphysique et la science (Paris, 1858), dove non si trova più il monismo evo- 
lutivo di derivazione hegeliana sostenuto nell’Histoire critique de l'École d’ Alexan- 
drie del 46: l'evoluzione di Dio nel mondo è « progrès. continu de l’étre infime 
dà l'étre par excellence, de la matière è l’esprit pur, à l’intelligence » (t. III, 
p. 328). Ne La métaphysique et la science egli mette la teologia di fronte a 
un aut-aut perentorio: 0 un « Dieu parfait », 0 un «Dieu réel». « Le Dieu 
parfait n’est qu’un idéal; mais c'est encore, comme tel, le plus digne objet de 
la théologie: car, qui dit idéal, dit la plus haute et la plus pure vérité. 
Quant à Dieu réel, il vit, il se développe dans l’immensité de l'espace 
et dans l’éternité du temps; il nous apparaît sous la variété infinie des formes 
qui le manifestent: c'est le Cosmos » (t. II, p. 544). Successivamente (Nouveau 
spiritualisme, Paris, 1884) ammette un solo Dio reale, Essere universale e ne- 
cessario, Causa prima e Fine ultimo del mondo, ma appunto perchè reale, non 
perfetto, in quanto perfezione e realtà implicano contraddizione: l’idea del- 
l’Essere perfetto è solo un'idea, la più alta della mente umana. Ma il Vacherot 
non è mai riescito a dimostrare la contraddittorietà tra perfezione ed esistenza, 
mentre è facile provare che proprio questa presunta contraddittorietà contraddice 
alla ragione. Infatti, egli cerca di dimostrare la sua tesi fondandosi sul fatto di 
esperienza che tutta la realtà conosciuta è imperfetta; ma come potrebbe essere 
diversamente quando identifica « toute réalité » o tutto ciò che esiste con il 
« phénomène qui passe »? Dà una definizione empirica dell’esistenza in ogni ac- 


<ezione e poi trova che è incompatibile con la perfezione di Dio! 


L'ateismo 33 





agnosticismo teoretico e, diciamo così, un teismo pratico: 
non so se Dio esiste, ma vivo come se esistesse. Quest'ultimo 
è il caso di chi ha fede nell’esistenza di Dio e agisce in con- 
seguenza; o anche di chi non ha fede in alcun Dio, ma in 
alcuni valori morali, a cui uniforma la sua condotta, affer- 
mati oggettivamente validi (rigorismo morale dogmatico e 
ateo), o rigorosamente rispettati pur nel convincimento che 
la loro validità oggettiva è indimostrabile (scetticismo con 
rigorosa eticità laica) (12). 

Vi è un agnosticismo (Hamilton, Mansel) che, non solo 
crede nell’esistenza di Dio, ma accetta anche la Rivelazione, 
alla quale però dà soltanto un valore prammatistico o rego- 
lativo, come alcuni modernisti, per esempio il Le Roy. 
L’agnostico non sa niente di Dio e nulla può dire di Lui; 
d’altra parte legge che Dio « vuole » che si creda che è 
Padre onnipotente, Provvidenza onnisciente ecc., e crede tutto 
ciò. Evidente contraddizione: l’agnostico dice di non sapere 
niente di Dio e nello stesso tempo ammette che è « volontà », 
cioè persona; quando afferma «Dio vuole che...» non è 
più agnostico tranne che non ammetta anche questo per 
pura fede. Ma perchè crede a queste proposizioni e non ad 
altre che magari affermano l’opposto? Se niente la ragione 
può dire di Dio, il contenuto di qualsiasi formula teologica 
gli dovrebbe essere indifferente; se invece crede in una pro- 
posizione piuttosto che in un’altra, significa che una delle 
due la trova più conveniente; ma così oltrepassa l’agnostici- 
smo, in quanto ammette un fondamento razionale della fede. 
Più coerente Kant (La religione dentro i limiti della sola 
ragione) che non accetta la rivelazione e dà delle sue for- 
mule un’interpretazione puramente morale. 

L’agnostico, che afferma di non sapere niente di Dio — 
se esiste, o se non esiste — e nello stesso tempo Gli crede 
per fede, riduce la fede stessa ad un puro stato d’animo e 


(12) Aporro Levi, Sceptica, Firenze, La Nuova Italia, 2* ediz., 1959. 


34 Filosofia e Metafisica 








la religione ad un sentimento soggettivo di vaga religiosità. 
Ma non c’è fede senza un contenuto oggettivo; la mera reli- 
giosità può riempirsi indifferentemente di qualsiasi conte- 
nuto, di Giove o di Cristo. L’agnostico, se non vuol con- 
traddirsi, deve mettere tutte le religioni sullo stesso piano: 
negata ogni convenienza razionale in base alla quale credere 
ad una piuttosto che a un’altra, non gli resta che il fatto 
soggettivo del credere. D'altra parte, non può tener ferma 
neanche questa posizione ed è costretto a contraddirsi. Infatti, 
implicitamente e contraddittoriamente ammette di sapere chi 
è colui della cui esistenza non sa, cioè ha, comunque, un'idea 
di Dio; ma se ne ha l’idea, sia pure negativamente, sa qual- 
cosa di Lui in contraddizione con il suo agnosticismo. Anzi, 
stranamente, non è più agnostico circa il problema del « che 
cosa è » Dio (quid sit) e continua ad esserlo circa l’altro del 
«se è» (an sit). In altri termini, è costretto a ragionare 
così: « Se potessi dimostrare che Dio esiste, saprei. razional- 
mente che esiste l’Essere perfettissimo, ecc. », cioè ad am- 
mettere che ha l’idea di Dio e, nello stesso tempo, a dire 
che non sa niente di Lui e della sua esistenza! Il solo pen- 
sarLo è già non essere agnostici; una volta pensato (l’agno- 
stico teista lo pensa come l’Essere perfettissimo; cristiano, 
nei termini della Rivelazione), la questione non è se sia 
impossibile o contraddittorio ammettere l’esistenza di Dio, 
ma se sia contraddittorio pensarLo senza ammetterLo esi- 
stente, cioè se il fatto che Lo si pensa non sia già prova 
della sua esistenza per necessità razionale. 

A questo punto e prima di proseguire è opportuno pre- 
cisare le tesi fondamentali dell’agnosticismo: 1) impossibile 
provare l’esistenza o la non-esistenza di Dio, in quanto la 
conoscenza umana è limitata ai fenomeni di esperienza; 
2) a fortiori nulla si può dire intorno alla Sua natura intrin- 
seca; 3) dunque i problemi dell’esistenza e natura di Dio, 
dato che Egli non è un fatto fisico nè un personaggio sto- 


L'ateismo 35 





rico, non sono oggetto della scienza e della storia, che si 
occupano solo di questi fatti e delle loro leggi; 4) Dio non 
ha un posto nel sapere umano in generale ed è oggetto della 
pura fede, il cui contenuto ha solo una validità pratica o 
regolativa. 

Ma escludere Dio dalla scienza e dalla storia, da ogni atti- 
vità umana, significa pretendere che l’uomo possa attuare 
se stesso, il suo sapere e la sua vita morale, facendo a meno 
di Lui, anzi senza mai pensarci e sentire il bisogno di ricor- 
rere a questa «ipotesi », sicuro di realizzare il suo ordine 
fino al compimento perfetto. Ma così l’agnosticismo con- 
traddice se stesso e precisamente la sua tesi fondamentale 
che la nostra conoscenza in ogni forma e grado ha dei 
limiti. Una delle due: o ha questi limiti e perciò stesso, 
insufficiente ad appagare l’uomo e le esigenze intrinseche 
«al suo ordine, rimanda ad una Intelligenza assoluta della 
quale non può fare a meno; o non li ha ed è autosufficiente, 
tanto da estraneare Dio dalla scienza e dalla condotta uma- 
na, e resta contraddetta la posizione dell’agnosticismo. Per- 
tanto, muovendo dalla tesi agnostica, si può arrivare alla 
conclusione opposta: proprio perchè la conoscenza umana 
ha dei limiti, pone il problema della Verità assoluta, di Dio. 
Infatti, se fosse perfetta, Dio sarebbe superfluo; nè quei limiti 
impediscono di provare la Sua esistenza, in quanto non so- 
no affatto segnati dall’esperienza sensoriale come l’agnosti- 
cismo pretende. 

D’altra parte, se per Dio non c’è posto nell’umano co- 
noscere e fare, l’agnosticismo è ateismo in partenza, in quan- 
to il tentativo di costruire una scienza senza Dio Lo esclude 
fin dall’inizio: ateismo dommatico anche se mascherato. Più 
coerenti coloro che, come il Croce e il Brunschvicg, escluso 
Dio dalla natura e dalla storia, concludono che il suo è un 
pseudo-problema e la religione frutto dell’« immaginazio- 
ne », anche se il loro ateismo iniziale è solo presupposto e 
non dimostrato. 


3% Filosofia e Metafisica 





In fondo, l’agnostico esclude Dio perchè il principio su 
cui fonda il sapere non gli consente di ammetterLo se non 
come qualcosa di estraneo ad esso, come l’Ente che è solo 
oggetto di fede e di cui è possibile avere soltanto una qual- 
che rappresentazione simbolica. Ma c’è conoscenza solo dei 
fenomeni e delle loro leggi? Può identificarsi con essa tutto 
il sapere, anche quello filosofico? La fisica o altra scienza 
naturale hanno come oggetto i fenomeni e le loro leggi, ma 
ciò non significa che ogni altra forma di conoscenza — mo- 
rale, artistica, filosofica — debba ridursi a questo modello, 
secondo l’affermazione arbitraria del positivismo e dello 
scientismo. L’agnosticismo metafisico e religioso è una con- 
seguenza del metodo e del sistema scientista: la scienza 
positiva, che ha come suoi oggetti i fenomeni naturali e le 
loro leggi, è l’unica conoscenza di cui l’uomo è capace; Dio 
non è qualcosa di cui si possa avere esperienza positiva; dun- 
que niente si può dire di Lui, nè che è nè che non è, nè 
che cosa è. Ma è arbitrario ridurre ogni forma di sapere 
alla conoscenza dei fenomeni di esperienza sensoriale, al- 
meno fino a quando non si sarà dimostrata la verità del 
sistema. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ido- 
lum theatri: il sistema non consente che si ponga il pro- 
blema di Dio, dunque non si può porre. Sì, in quel sistema 
e relativamente ad esso; no, in un altro che riconosce i di- 
ritti e l’autonomia della ricerca filosofica e si rifiuta di 
identificare l’essere con i fenomeni di esperienza senso- 
riale. L’agnostico, in questo caso positivista — nel dupli- 
ce senso di positivismo scientista o dei fatti fisici e di 
positivismo storicista o dei fatti umani — non riconosce i 
limiti del sistema; vittima del suo amor per esso, che non 
gli consente di dimostrare o negare l’esistenza di Dio ed 
averne una qualsiasi concezione non puramente simbolica 
o immaginaria, conclude che la sua esistenza è indimo- 
strabile e Dio l’assolutamente inconoscibile. Ma chi ha di- 
mostrato l’assoluta verità del sistema? Ammettiamo che qual-. 


L’ateismo 37 





cuno l’abbia fatto; bene: in tal caso, non c’è più agnosticismo! 

Nonostante le sue proteste, l’agnosticismo positivista — 
senza o con il « neo» — è ateismo vero e proprio, almeno 
in pratica. Dall’« ignorare » se Dio esiste ricava la norma: 
« agisci come se non esistesse ». Dio è inconoscibile e inve- 
rificabile « scientificamente »; alla sua idea non corrisponde 
alcuna realtà oggettiva; nei rapporti con l’ambiente natu- 
rale e sociale non ha alcuna importanza porsene il problema, 
perchè il suo «accantonamento » non arreca impedimento 
alcuno all’« organizzazione » della nostra vita nel mondo 
— anzi la facilita — per la quale valgono solo « strumenti » 
e «tecniche », non interessa neppure se vere (altro pro- 
blema questo della verità da mettere da parte), purchè più 
valide rispetto ad altre, più efficacemente « operative » e ido- 
nee ad una vita sempre più tecnicamente organizzata, so- 
cialmente progredita e comoda; dunque organizza e regola 
la tua vita intellettuale e morale, privata e pubblica, come 
se Dio non esistesse, senza pensarvi. In breve: «ometti 
l’idea di Dio ». Per Comte, l’idea di « Umanità » col tem- 
po eliminerà « irrevocabilmente » quella di Dio: per altri 
tale eliminazione sarà operata dalla Scienza e dal Progres- 
so, dalla futura « società comunista » ecc.; naturalmente, 
sempre e in ogni caso, con gran vantaggio degli uomini, 
che conseguiranno la vera felicità sulla terra. 

Ma quello teologico non è problema di felicità terrena; 
Dio non è chiamato a soddisfare bisogni materiali, ma ad 
appagare profonde esigenze spirituali; il suo problema si 
pone al di là di ogni possibile soddisfazione di tutti i pos- 
sibili bisogni terreni. Per accantonarne il pensiero o soffo- 
carlo si è costretti a sostenere che non ha importanza sa- 
pere se vi è una verità che dà senso alla vita dell’uomo e 
merita di essere servita, ma che interessa conoscere soltanto 
strumenti che hanno efficacia pratica per problemi solo mon- 
dani, economici, sociali, politici, ecc.; che la logica vale nella 


38 Filosofia e Metafisica 





misura in cui è una tecnica, tante « tecniche » capaci di or- 
ganizzare fenomeni psicologici, sociali, giuridici, senza preoc- 
cuparsi se vi è un’anima personale, una verità comune acco- 
munante, un diritto perenne, ecc. D'altra parte, si afferma 
che tutto ciò non cambia niente, è un’acquisizione della no- 
stra maturità intellettuale, è semplicemente trascrivere in 
termini « antropologici » e «scientifici » i « miti» di Dio 
e di una beatitudine celeste. Dunque, da un lato, più che 
abolire l’idea di Dio, la si sostituisce con altri valori e, dal- 
l’altro, questi ultimi sono intesi in modo da soddisfare la 
umana esigenza religiosa. Ma con ciò si riconosce l’insop- 
primibilità di quest’ultima e si creano «idoli» e «miti», 
si fa della pseudo-teologia. Così questo agnosticismo, intran- 
sigente verso Dio e apostolo di un totale ateismo pratico, si 
presenta come idolatria e mitologia dell'Umanità, della 
Scienza, del Progresso, della « Società » sempre migliore con 
questa o quella « democrazia »; alla teologia sostituisce un 
deteriore teologismo laicista. A questo punto non è più serio 
discuterlo. Persino Bayle, il formulatore del « paradoxe », 
così lo chiama Voltaire ('*), che può esistere una società di 
atei, crede con Plutarco che è meglio non avere alcuna opi- 
nione di Dio che averne una cattiva ed errata (!*); infatti, 
non c’è peggiore « religione » di quella che divinizza valori 
mondani per fini terreni, in quanto si risolve sempre in una 
diabolica e rovinosa divinizzazione dell’umano o dell’infra- 
umano e scatena il fanatismo. 


4. — Il fideismo come forma di agnosticismo. 


Non vi sono prove razionali od oggettive dell’esistenza 
di Dio, ma Gli si crede solo per fede; questo il fideismo, 
forma di agnosticismo non laico ma religioso. Tipico del 

(13) VoLtAIRE, op. cit., p. 39. 

(14) Barie, Pensées diverses écrites è un docteur de la Sorbonne è l’occasion 


de la cométe qui part au mois de décembre 1670, Rotterdam, 1721, $ 118 della. 
Continuation. 


L'ateismo 39 





protestantesimo, è anch’esso molto diffuso, conseguenza di 
più di un secolo di agnosticismo filosofico e del convinci- 
mento che non è possibile una metafisica come scienza ra- 
zionale. Il fideista crede nel Dio di cui la ragione non può 
dimostrare l’esistenza, del quale, anzi, può essere anche la 
negazione; in quest’ultimo caso continua a credere contro, 
nonostante la ragione dica il contrario! Fideismo disperato, 
fede a qualunque costo: credo nell’esistenza di Dio, mal- 
grado la ragione sia atea; irrazionale ed assurdo come quello 
di molte pagine di Unamuno e di Chestov: pascalianesimo 
barocco e antipascaliano, razionalmente infondato almeno 
quanto l’ateismo dove rischia di sboccare, perchè è molto 
difficile conservare la fede senza o contro la ragione e, se 
la si perde, dato che la credenza di Dio poggia solo su di 
essa, non soltanto si cessa di essere cristiani, ma si diventa 
senz'altro atei. 

Il fideista confonde due questioni che vanno tenute ben 
distinte: le ragioni o le prove razionali dell’esistenza di Dio 
e la fede propriamente detta, cioè l’adesione intellettuale e 
libera al contenuto della Rivelazione. Egli riduce tutto alla 
fede e nega a tal punto la capacità della ragione (quando 
addirittura non gliela contrappone quale nemica, come per 
esempio il Chestov) da non poter dare alla prima alcun 
fondamento razionale; in questo senso è un ateo credente 
contro tutto e se stesso. Ridurre tutto alla fede è contrario 
alla sua stessa essenza, come non è razionale ridurre tutto 
alla ragione: fideismo assoluto e assoluto razionalismo sono 
antitetici, ma hanno in comune la ragione atea, che è con- 
traddittoria. Religione e filosofia devono temere ugualmente 
l’assolutizzazione della ragione e la sua totale svalutazione, 
l’una e l’altra negazione della natura dell’uomo e dei suoi po- 
teri conoscitivi: l’ordine della fede è assicurato solo se « l’or- 
dine della ragione è conservato » (9). Il fideismo si dibatte in 


(15) L. OLLé LarrunE, Ce qu'on va chercher è Rome, Paris 1895, p. 30. 


40 Filosofia e Metafisica 





una contraddizione teoretica, e anche vitale: è ateismo teo- 
retico e teismo pratico; come dire, l’uomo diviso in due. 

Vi è ancora un fideismo non propriamente di carattere 
religioso (non fa dell’esistenza di Dio un atto di fede), non 
laico, nè riducibile senz’altro all’agnosticismo. Esso si fonda 
su una specie di «senso interiore» di Dio, tanto forte, 
universale e naturale da costituire una prova della sua esi- 
stenza, superiore, secondo i suoi sostenitori, a quelle razio- 
nali, che sono pressochè superflue esercitazioni logiche; 
per questo « senso » l’uomo è chiamato irresistibilmente a 
Dio. « Io sento che Dio c’è, e non sento affatto che non c’è. 
Tanto mi basta; ogni ragionamento è superfluo. Concludo 
che Dio esiste. Questa conclusione è inscritta nella mia 
natura » (!9). Così lo formula il La Bruyère, secondo il 
quale Dio è una presenza, un’evidenza: « ...l’esistenza di Dio 
l’ho approfondita; non posso essere ateo, e perciò sono ri- 
condotto e trascinato nella mia religione, irrecusabil- 
mente » (!?). Tesi d’ispirazione agostiniano-pascaliana, ma 
non di Agostino e neppure di Pascal, in quanto nel primo 
vi è questo e molto di più, come di più, anche se meno di 
quanto è in Agostino, è in Pascal. Certo, questo senso inte- 
riore di Dio è estremamente indicativo e attesta una disposi- 
zione ontologica, e non puramente psicologica, dell’uomo 
verso l’Essere supremo; ma da solo non è dimostrativo, nè 
rende superflua la prova razionale, anzi la esige proprio per 
la sua forza. In altri termini, non basta il senso interiore di 
Dio per provarne oggettivamente l’esistenza, in quanto da 
solo resta un dato soggettivo; è necessario approfondire la 
natura dell’uomo per vedere se esso s’inscrive in un elemento 
oggettivo anch'esso interiore, fondamento, radice e origine 
di quel sentimento. In tal caso, l’esistenza di Dio è provata 
oggettivamente, non dal senso di Dio stesso, ma da quell’ele- 


(16) Moralisti francesi, Milano, 1943, p. 67. Questa forma di fideismo ha 
avuto le sue espressioni più significative nel pensiero filosofico-religioso francese. 
(17) Ivi, p. 69. 


L’ateismo 4} 





mento oggettivo che lo spiega e giustifica, il quale, a sua 
volta, non è un puro dato nozionale, ma un’Idea, direi, vita- 
lizzata, vissuta nell’interiorità di quel senso interiore, da essa 
illuminato. Perciò, han torto il razionalismo, che, per una 
esagerata nociva ingiustificata esigenza di salvare la forza 
della ragione, prescinde dall’interiormente vissuto, e l’inte- 
riorismo che, forte del senso interno, vuol fare a meno della 
forza del ragionamento. Invece, è autenticamente agostiniana, 
perfettamente rispondente a quella del Rosmini e, dentro 
certi limiti e con alcune riserve, all’altra di Pascal, la posi- 
zione che esistenzia l’Idea nella concretezza della vita spi- 
rituale e illumina questa nella luce dell’Idea. Ma, anche 
presa da sola, la tesi dell’esistenza di Dio come evidenza 
dal senso interiore non può dirsi atea, tranne che non 
degeneri nell’ontologismo o nel panteismo. 

Invece, pur non potendo essere ridotta all’agnosticismo 
laico 0 ateo per certe sfumature a cui non vogliamo rinun- 
ziare, è più pericolosa l’altra tesi, propria di Kant, che am- 
mette l’esistenza di Dio, razionalmente indimostrabile, per 
pure esigenze della volontà: la ragione teoretica è agnostica;. 
tuttavia, per esigenze morali, bisogna agire come se Dio esi- 
stesse; la ragione pratica crede per fede razionale. In altri 
termini: l’esistenza di Dio è un atto «soggettivo» della 
volontà rispondente alle sue esigenze profonde, ma non è 
una verità « oggettivamente » valida. Questa posizione kan- 
tiana, ancora largamente diffusa, è stata estesa anche ai 
valori morali; ma così l’agnosticismo, oltre che la metafisica, 
mette in pericolo anche i valori spirituali (19). 


5. — Il deismo. 


« Un deista è un uomo che non ha avuto ancora il tempo- 
di diventare ateo ». Così il De Bonald, e fino ad un certo 
(18) Per una più ampia ed approfondita discussione della posizione kantiana, 


come di altre in queste pagine appena accennate, cfr. la Parte Terza, Sezione II 
di quest'opera. 


42 Filosofia e Metafisica 





punto ha ragione, perchè il deista, in fondo, è un ateo che 
non vuol dirsi tale. 

D'origine italiana, il deismo, dopo essere passato in Fran- 
cia, si trapiantò in Inghilterra, dove trovò il clima che gli 
si addiceva (!9), per poi essere accolto di nuovo in suolo 
trancese e celebrare il suo trionfo nel secolo XVIII. Si può 
chiamare deista, attraverso le forme molteplici che il deismo 
presenta nella storia del pensiero, la dottrina che nega ogni 
religione positiva e rivelata e fa di Dio un puro ente di 
ragione, quasi sempre identificato con l’Ordine della natura 
o con la Natura stessa (in questo caso non si distingue dal 
panteismo), con il Principio o la Causa che regge e governa 
il mondo. In tal senso, si possono dire deisti nell’antichità 
Aristotele e Plotino, nei tempi moderni Spinoza, ai nostri 
giorni il Martinetti, oltre a quelli veri e propri come E. Her- 
bert di Chirbury, Toland, Voltaire, Rousseau, lo stesso 
Kant, ecc. Nel secolo che fu il suo, il deismo è la manife- 
stazione più significativa, anche se non la più audace, dello 
spirito antireligioso e dell’esaltazione della libera e onni- 
potente ragione; infatti, polemizza contro ogni religione 
positiva (cattolica, protestante, ebraica), contro ogni forma 
di culto, il dogma e il soprannaturale. E’ chiamato anche 
«religione naturale », ma in più sensi: in quanto 2) am- 
mette solo quelle verità che si possono attingere e dimostrare 
con la sola ragione (esistenza di Dio, immortalità dell'anima, 
ecc.); 5) ha il culto della natura, madre benigna, dove 
tutto è bene ed accade secondo la legge del bene che viene 
ad identificarsi con Dio; c) è una religione spontanea, istin- 
tiva, senza costrizioni e comandamenti. Religione, in un 
certo senso, facile, a cui la ragione aderisce senza sforzo, 
senza un superiore atto di fede, culti speciali, mortifica- 
zioni e digiuni, anzi compiaciuta di vedervi confermata la 


(19) P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, Torino, 1946, pp. 269-70. . 


L'ateismo 43 





propria onnipotenza; rassicurante, in quanto fa che Dio, pur 
così vicino alla natura, intervenga il meno possibile nel 
corso delle cose naturali e umane; serenatrice delle coscienze, 
liberatrice dall’ inquietudine del peccato, dall’ attesa della 
grazia, dall’incertezza della salvezza, da un giudizio divino. 
In breve, la religione deistica è la negazione del Cristiane- 
simo: di Dio Padre, della caduta dell’uomo, dell’Incarna- 
zione, del riscatto. Religione di un Dio lontano, che inter- 
viene raramente, fa comodo alla ragione, a cui serve per 
meglio assicurare la libertà e la potenza senza esserle mai 
d’impaccio o di limite. Il deismo è la negazione del Dio della 
fede: «attenua Dio, ma non lo nega», come osserva il 
Bayle; « la differenza tra gli atei e deisti è quasi nulla » (?9). 
Esso s'inserisce in quel processo di autonomia dalla religione 
di ogni forma di attività umana, caratteristico dei secoli XVII 
e XVIII, allo scopo di liberare l’uomo dalla soggezione 
della Verità rivelata e della Chiesa. La scienza con Galilei 
e Newton, la politica con Machiavelli, il diritto con il giu- 
snaturalismo, la filosofia e la morale con il razionalismo, 
l’empirismo e Kant, si costituiscono separate dalla religione, 
tenuta lontana da ogni forma di attività umana, che si pone 
autonoma, opera soltanto dell’uomo. Così si viene a negare 
la religione, meglio se ne costruisce una ...senza religione, 
soltanto umana, razionale, naturale, che non menoma l’au- 
tonomia dell’uomo, anzi la conferma e completa: liberare 
la religione dalla religione, che comporta o la sua negazione, 
o la sua affermazione... contraddittoria (7). 

(20) P. Hazarp, op. cit., pp. 274; 275. 

(21) Molti elementi, di cui è necessario tener conto, concorsero al nascere 
e al fiorire del deismo, a definirne il contenuto: «) la già detta tendenza di eman- 
cipare l’uomo da ogni religione positiva e dalla Chiesa; 4) la reazione al gianseni- 
smo che assoggettava, fino a negarla, la volontà umana, colpita dal peccato e 
decaduta, alla grazia soprannaturale, imponeva un rigorismo esagerato e la rinun- 
zia al mondo, una concezione cupa della vita: c) il desiderio di far cessare le 
lotte religiose, che avevano insanguinato l’Europa, eliminando quanto (il loro 
contenuto religioso) poteva dividere ed armare l'una contro l’altra le varie con- 
fessioni, donde il farsi strada del nuovo concetto di « tolleranza » e la polemica 


contro il « fanatismo » (il VoLtarrE, op. cit., p. 45, lo considera più funesto 
dell’ateismo); d) motivi politici, cioè, lo sforzo del potere laico di ridurre al mi- 


44 Filosofia e Metafisica 





Da un punto di vista teoretico il deismo si rifà alla 
concezione che della Natura e della Legge universale 
ebbero la scienza e la filosofia dei secoli XVII e XVIII: 
Dio - Causa, Dio-Legge dell’ Universo, che governa e 
regge, Dio- Ordine della Natura sostituiscono il Dio cri- 
stiano rivelato, Padre, Creatore, Amore. La natura so- 
stituisce anche Cristo; è la « mediatrice » che, con la sua 
bontà, le sue provvidenze e il suo ordine perfetto, rivela 
Dio agli uomini; ma siccome Dio è la Natura eterna, 
questa si autorivela attraverso l’uomo, quello del raziona- 
lismo moderno e dell’Illuminismo, scienziato-filosofo, che 
di essa scopre le leggi, l’ordine e le provvidenze, rapisce i 
segreti affinchè l’umanità sia felice in un regno di felicità, 
tutto costruito esclusivamente dagli uomini. Così il deismo 
si trasforma in panteismo cosmico (divinizzazione della Na- 
tura), che, in ultima analisi, è divinizzazione dell’uomo, 
rivelatore dell’ordine e delle leggi che governano la Natura 
stessa, della quale, d’altra parte, conoscendola, s’impossessa 
per farla servire al suo fine supremo: la costruzione del 
Regnum hominis, luogo dell’unica sua felicità perfetta. 

Una religione senza misteri per un'esistenza senza enig- 
mi: questo il deismo. Una religione, dunque, che non è 


nimo l’ingerenza della Chiesa, limitatrice dell'autorità assoluta del Principe. Non 
è, del resto, questa la prima volta nè l’ultima che l’attività politica della Chiesa. 
come stato è motivo concorrente di scismi, eresie ed anche di ateismo. Vanno 
aggiunti anche elementi occasionali come i viaggi, che, facendo conoscere nuovi 
costumi e tradizioni, mettono in dubbio l’universalità di alcune credenze e 
generano scetticismo: tutto è relativo ai luoghi, ai tempi, ai climi. Si imma- 
ginano terre fantastiche per dimostrare che il Cristianesimo è assurdo; si esaltano: 
repubbliche senza preti e chiese; si tenta persino di provare con il calcolo che 
la resurrezione della carne è impossibile, ecc. Così si dubita di tutto, meno di 
quel che si vede e si può sperimentare; l’empirismo del Locke è il sistema adatto. 
alla bisogna (cfr. P. Hazarp, op. cit., pp. 1} e sgg.; 21 e sgg.). 

Gli empiristi e i materialisti francesi, non solo rigettano il teismo cristiano, 
ma anche la religione naturale del deismo inglese: i sensi bastano all’umano. 
sapere; non è conoscibile nè importa conoscere tutto ciò che oltrepassa i dati 
dell'esperienza sensoriale (« affinchè io creda nell’esistenza di Dio, lasciatemi toc- 
carlo!» dice Diderot); l'elemento primario del reale è la materia e la coscienza uno. 
secondario da essa derivato; materia e senso; dunque, solo la scienza ci può. 
far conoscere la natura e i suoi fenomeni. 


L'ateismo 45 





tale, ma è filosofia atea al servizio di una vita facile, arbi- 
tra di sè, desiderosa di non indagarsi a fondo, di non porsi 
problemi tormentosi e metafisici, di non avere eccessive 
preoccupazioni religiose, di essere felice in questo mondo. 
Il deismo, in fondo, è più ateo dell’ateismo dichiarato: lo 
ateo nega Dio, ma ne ha fame, il deista Lo ammette per 
identificarLo con l’ordine della natura e in definitiva con il 
sapere umano; l’ateo Lo nega e vede ovunque oscurità, 
mistero, dolore e male inspiegabili, il deista per ogni dove 
vede chiarezza ed evidenza razionali, felicità e bene; l’ateo 
è infelice e, nonostante tutto, religioso, il deista è un con- 
tento diabolico, che si crede in possesso di Dio e della sa- 
pienza divina: quel che può sembrare un mistero, per lui, 
è soltanto una difficoltà provvisoria, che il progresso irre- 
sistibile della scienza supererà. Deisti ante litteram furono i 
« libertini », sempre pronti ad assimilare posizioni filosofiche 
anticristiane, e a divulgarle: spiriti superficiali, ribelli, epi- 
curei, fatti per diluire le filosofie, per gettarsi a capofitto 
nelle novità, tranquillamente scettici e calcolatamente edo- 
nisti, privi di senso metafisico, pronti a non prendere in 
considerazione i problemi difficili, ostici per la loro cultura 
da raffinati. Diventati deisti, «si chiamano per eccellenza 
gli esprits forts » (?), ma non cessano di essere superficiali, 
anche se alimentati ed incoraggiati dall’« ateismo », di ben 
altra tempra, dello Spinoza (*). 

Il Settecento deista e « razionale » è ingenuamente con- 
vinto che il passato sia un cumulo di assurdità e compito 
del nuovo secolo dei lumi quello di « scoprirne gli errori »; 

(22) Bavyce Pensées sur la Cométe, cit., par. CXXXIX. 


(23) Esempio vistoso della fatuità di pensiero di alcuni tra i più rinomati 
deisti è John Toland, sul quale cfr. le belle pagine che gli ha dedicato l’Hazarp 
nell’op. cit., pp. 154-159; la superficialità vacua di Herbert di Chirbury è stata 
egregiamente dimostrata da M. M. Rosst nella monumentale opera in tre voll.: 
La vita, le opere e i tempi di E. Herbert di Chirbury, Firenze, Sansoni, 1947. 
Ci sembrano opportune e da meditare le parole che DostoevsKiy mette in bocca 
al vecchio Karamàzov: « sappi, imbecille, che noi tutti qui è solo per frivolezza 
che non crediamo, perchè ce ne manca il tempo... » (I fratelli Karamdzov, 
Milano, Corticelli, 1944, p. 147). 


46 Filosofia e Metafisica 








errore principe da denunziare e abolire la religione cristiana 
e il suo Dio, sostegno della tirannide e strumento di op- 
pressione dei popoli, « superstizione » che ha impedito allo 
uomo di conoscere e mettere in opera le sue immense possi- 
bilità per il progresso individuale e sociale. Deisti e « liberi 
pensatori » non si domandano mai perchè per secoli e se- 
coli gli uomini abbiano creduto e la filosofia si sia sforzata 
di attingere una verità razionale non disforme da quella 
religiosa: per loro tutto ciò è pregiudizio e superstizione. 
Orgogliosi, i « razionali » disprezzano i «religionari» (i 
due termini sono del Bayle), come il sapiente l’ignorante 
testardo ed incorreggibile (**). Loro sanno tutto: che non 
vi è rivelazione e non ve n’è bisogno; che nessuna fede 
religiosa è veritiera e necessaria; che Dio è lo stesso ordine 
della natura conoscibile pienamente dalla ragione, che in 
certo qual modo lo fa essere. In una parola, hanno scoperto 
la verità totale, costruito la scienza perfetta, dispensatrice 
agli uomini di felicità e liberatrice da ogni oscurità ed er- 
rore, dalle imposture dei frati. Così negano Dio senza nem- 
meno porsene seriamente il problema, e divinizzano l’uomo: 
« seguendo la ragione » — scrive uno dei «razionali» — 
«noi dipendiamo soltanto da noi stessi e diventiamo così 
in qualche modo degli dèi» (?); con la ragione e l’espe- 
rienza si scopre il « meccanismo » della natura e ci s’impos- 
sessa d’ogni segreto e mistero, dell’essenza stessa di Dio (?). 
Questi «liberi pensatori », incapaci di essere uomini che 
pensano in altezza e in profondità, si credono dèi. 


(24) Il Votare (0p. cit., p. 45), che pur riconosce alla religione positiva un 
valore sociale, la considera adatta per i bambini: «un catéchiste annonce Dieu 
aux enfants, et Newton le démonstre aux sages ». 

(25) Giusert, Histoire de Caléjava ... (1700), p 57 (cit. da P. Hazarp, 
op. cit., p. 161). 

(26) Una pagina del Maritain (I/ significato dell’ateismo contemporanco, 
Brescia, Morcelliana, 1950, pp. 26-27) ben chiarisce il concetto di Dio del deismo, 
molto affine al panteismo: « Supponete ora una nozione puramente naturale di 
Dio, che conoscendo l’esistenza dell'Essere supremo, misconoscesse al tempo 
stesso ciò che S. Paolo chiamava la sua gloria, negasse l'abisso di libertà signi- . 


L’ateismo 47 





Il deismo, frutto di un atteggiamento mentale spietata- 
mente spregiudicato e scettico tanto da mettere in dubbio 
tutta la tradizione e qualsiasi autorità, è il trionfo del più acri- 
tico dommatismo razionale, della superficialità sistematica, 
della più ingenua fiducia nei poteri della conoscenza umana 
e nelle possibilità assolute della scienza. « Età barbara della 
filosofia », l’ Illuminismo non ebbe in generale sensibilità 
per i problemi religiosi e per la filosofia intesa come inda- 
gine profonda della vita spirituale. Contro ragione, afferma 
l’assolutezza della ragione, molto facile a difendere una 
volta che tutto il sapere è limitato a quello scientifico e i 
problemi essenziali messi da parte; formula un concetto 
mitico della « libertà » e si crea la superstizione della scien- 
za (?’). Oggi, l’umanità sta vivendo in un’epoca di Nec-illu- 


ficato dalla sua trascendenza e incatenasse Lui stesso al mondo da Lui creato; 
supponete una nozione puramente razionale — e buffa — di Dio, che sia chiusa 
al soprannaturale e che renda impossibili i misteri nascosti nell'amore di Dio, 
nella sua libertà e nella sua vita incomunicabile. Avremmo allora il falso Dio 
dei filosofi, il Giove di tutti i falsi dèi. Immaginate un Dio che sia legato al- 
ordine della natura e che non sia che una suprema garanzia e giustificazione 
di questo ordine, un Dio che sia responsabile di questo mondo senza poter redi- 
merlo, e la cui inflessibile volontà, che nessuna preghiera può raggiungere, si 
compiaccia e dia la sua cosacrazione a tutto il male come a tutto il bene del 
mondo, a tutte le furfanterie e crudeltà come a tutte le generosità che operano 
nella natura, un Dio che benedica l’iniquità, la schiavitù e la miseria e che sacri- 
fichi l'uomo al cosmo, un Dio che delle lacrime dei fanciulli e dell’agonia degli 
innocenti faccia un coefficiente senza alcun compenso delle necessità sacre dei 
cieli eterni o dell'evoluzione. Un tale Dio sarebbe, sì, 1’ Essere supremo, ma cam- 
biato in idolo, il Dio matwralista della natura, il Giove di questo mondo, il 
grande Dio degli idolatri, dei potenti sui loro seggi, dei ricchi nella loro gloria ter- 
restre, del successo senza legge. Tale, mi pare, è stato il Dio della nostra filo- 
sofia razionalista moderna, il Dio forse di Leibniz e di Spinoza, sicuramente il 
Dio di Hegel ». 

(27) Il deismo, strettamente legato alla massoneria per il suo atteggiamento 
anticlericale, antichiesastico e individualista, assume come suoi dogmi indiscutibili 
il principio del libero pensiero e la fede nella ragione, emancipata dai legami della 
tradizione e da ogni autorità non liberamente riconosciuta, regola assoluta della 
vita (ateismo pratico). Siccome la libertà di ciascuno e di tutti va rispettata e, 
d'altra parte, le « ragioni » individuali sono spesso discordi, la verità di un punto 
di vista va stabilita ed accettata secondo il parere della maggioranza. Democrazia 
e « sacra » libertà della coscienza governata dall’intelligenza, che è « sacrilegio » 
anche limitare, « culto della ragione umana » che s’inchina solo a se stessa, questa 


48 Filosofia e Metafisica 








minismo pretenzioso e dilagante, superficiale e saccente, 
più grossolano di quello settecentesco; neo-positivismo di 
diverse tendenze, marxismo ortodosso e eretico, neo-empi- 
rismo e pragmatismo di vario colore, neo-materialismo, tutti 
si rifanno ai temi e soprattutto all’4r5ms dell’ Illuminismo, 
ne rinnovano la barbarie filosofica in un mondo che va verso 
la « civilizzazione » assoluta dell’uomo senza « umanità » e, 
dunque, senza « cultura ». 


6. — Monismo e panteismo. 


a) Il monismo. - La forma di ateismo più dotta, filoso- 
fica e fino ad un certo punto più critica è il panteismo, 
dottrina antica e moderna, quantunque l’introduzione e lo 


la nuova religione capace di rigenerare l’umanità per il « razionalismo » del 
Settecento e poi per il laicismo posteriore dell’epoca del positivismo. La ragione 
è Dio, la libertà dell’uomo un assioma; è « obbligatoria » (l’uomo ha il dovere di 
essere libero), com'è obbligatorio il culto della ragione che non s’inchina a dogmi 
o a principî 4 priori, religiosi o filosofici, anche se essa stessa ne riconosce la 
convenienza o la verità: salvare il postulato dell’assoluta libertà dell’assoluta 
ragione (e dire che i positivisti erano quasi tutti deterministi!) anche contro la 
ragione e l'evidenza. Per il laicismo massonico-positivista, di origini deiste e illu- 
ministe, « le bien inestimable » da custodire, conquistato dall'uomo contro i pre- 
giudizi e attraverso sofferenze e lotte, « c'est cette idée qu'il n'y a pas de 
vérité sacrée, c'est à dire interdite è la pleine investigation de l’homme, c’est 
que ce qu'il a de plus grand dans le monde c'est la liberté souveraine de l'esprit... 
c'est que toute vérité que nous vient pas de nous est un mensonge... ». Anche 
se si facesse visibile, « si Dieu lui méme se dressait devant les multitudes sous une 
forme palpable, le premier devoir de l'homme serait de refuser l’obéissance et 
de le considérer comme l’égal avec qui l’on discute, non comme le maître que 
l'on subit ». (J. Jaurès, Discours è la Chambre des Députés, 11 févr. 1895, cit. in 
Diction. Apologétique de la foi Cathol., Paris, 1924, IV ediz., vol. II, coll. 
1781-1782). La letteratura e i discorsi del tempo sul culto della libertà e sulla 
religione della ragione abbondano di simili sciocche doutades di una ingenuità 
acritica e afilosofica veramente scoraggiante. 

Il laicismo dimostra spesso rispetto per Dio, ma non per l’ Essere assoluto 
trascendente creatore, bensì per l’idea che l’uomo se ne fa: essa merita rispetto 
come tutto quanto appartiene all'uomo, il quale, ospitando Dio nel santuario 
della coscienza, ne rende rispettabile il nome. La nuova «religione laica » è la 
« religione dell’irreligione », secondo una felice espressione del Guyau. 

Forme di laicismo positivista sono il cosiddetto « monismo umanitario », a 
cui abbiamo accennato a proposito della « religion de l’humanité » del Comte 
(e anche del Saint-Simon, del Fourier, del Proudhon, ecc.), che dovrebbe sosti- 
tuire l'adorazione del Dio personale; e il « monismo sociologico » del Durkheim. 


L'’ateismo 49 





uso del termine siano relativamente recenti (28). Non è facile 
distinguere il panteismo dal monismo; tuttavia, nei limiti 
del nostro argomento, li trattiamo distintamente. 

Il panteismo filosofico ha due aspetti fondamentali: @) 
riduzione di Dio al mondo, il solo reale: Dio è l’unità di 
ciò che esiste, la somma delle parti; £) del mondo a Dio, 
del quale il primo è un insieme di manifestazioni o di ema- 
nazioni senza realtà permanente, mancanti di una loro so- 
stanza distinta da quella divina. Nel primo caso, si nega 
Dio nel mondo, nel secondo il mondo in Dio. Il primo 
possiamo chiamarlo cosmismo, che è quasi sempre materia- 
lismo; il secondo acosmismo, che può essere intellettualista 
(Spinoza), dialettico (Hegel), ecc.; il primo può identifi- 
carsi con il monismo, il secondo con il panteismo vero e pro- 
prio, che, sostanzialmente, tende sempre al monismo. L’uno 
e l’altro rispondono ad un'esigenza fondamentale: ridurre 
tutti gli esseri all'identità assoluta non solo logica ma anche 
ontologica; oppure: riportare la molteplicità degli enti alla 
unità ontologica, per cui Dio e il mondo non sono due 
realtà di diversa natura, ma una sola: l’essere del mondo 
è identico all’essere di Dio. Così l’esigenza legittima di uni- 
ficare il molteplice riportandolo a un unico principio, spinta 
oltre il limite della constatazione dell’ordine delle cose, per 
cui la molteplicità forma un «cosmo», conclude all’unità 
sostanziale delle cose stesse e del loro principio, senza più 
distinguere tra identità e analogia. 

Per il panteismo che riconduce Dio alla natura, la realtà 
è l’universo sensibile con cui Dio stesso s’identifica; anche 
se è detto spirito, lo è come spirito del mondo, energia 
vitale o animata e perciò sempre di natura materiale. Tale 
panteismo, che nega Dio come essere spirituale e. chiama 


(28) Come ha notato l’Eucken, il Toland usò per primo (1705) la parola 
Panteist; il Fay introdusse (1709) l’altra Panzeism. Si noti che i termini «pan- 
teismo », « monismo » (coniato dal Wolff), « agnosticismo » appartengono tutti 
al vocabolario filosofico moderno. 


50 Filosofia e Metafisica 





Dio lo stesso universo, s’identifica con il monismo natura- 
lista o materialista ed è senz’altro ateismo; infatti, dire che 
Dio è l’universo materiale è negare che esista e continuare 
ad usare un termine che non ha più alcun senso; è chia- 
mare una realtà con un nome che ne significa un’altra. 
Nell’antichità è monismo materialista il panteismo stoico (?°) 
e nei tempi moderni, sotto l’influsso della teoria dell’evolu- 
zione, quello biologico del Moleschott, Huxley, Biichner e, 
più fansioso di tutti, di Haeckel ecc.; monismo naturalista si 
può chiamare quello di alcuni positivisti, quali Du Bois Rey- 
mond, Spencer, Ardigò ecc. 

Per il panteismo cosmico, che identifica Dio con il mon- 
do ed è il vero monismo assolutamente ateo, l’unica realtà è 
la natura o universo, per se stesso esistente e avente in sè la 
ragione ultima di tutto, di ogni suo grado come di ogni ente 
particolare: non vi è l’Essere da cui deriva o procede il 
mondo, ma vi è il Mondo, l’Essere unico che si pone, si 
svolge e si spiega da, in e per se stesso; si fa Dio, è esso 
stesso Dio. Ma è evidente che il termine qui non significa 
nulla: Dio non c’è, c'è solo il mondo; in definitiva, la 
materia o qualcosa di materiale, originario e dotato di ener- 
gia vitale, che evolve da se stesso e per leggi proprie. Atei- 
smo puro che ha la pretesa di essere scientifico e, in realtà, 
non ha alcun fondamento scientifico e tanto meno filosofico. 
Infatti, presupposto un principio eterno e necessario, da cui 
per evoluzione tutte le cose derivano, consegue: 4) vi è una 
certa distinzione tra le cose e il loro principio unico, ma 
solo fenomenica e non di sostanza; 5) la sostanza o natura 
delle cose è una ed identica; c) la spiegazione ultima del- 


(29) Il cosmo è composto di materia, finita e piena, penetrata dalla Ragione, 
di natura ignea, forza immanente, Dio, che è insieme l’ordine che tiene unite le 
parti e la loro somma. Per Zenone, « l’universo ha due principi: uno passivo, 
la sostanza informe, la materia; l’altro attivo, la mente di Dio. Quest'ultimo pe- 
netra nella materia, produce i quattro elementi ed è artefice di tutte le cose » 
(1 frammenti degli stoici antichi, a cura di N. Festa, vol. 1, Zenone, Bari, 
Laterza, 1932, p. 80). i 


L'ateismo 51 





l’esistenza, del significato del processo e della diversità delle 
cose è nelle cose stesse, cioè nel loro principio e nelle leggi 
che governano l’evoluzione; 4) dunque, per Dio non c’è po- 
sto e non vi è traccia di divino nel mondo: l’Essere è ontolo- 
gicamente uno e si svolge per evoluzione progressiva. Ma che 
cos'è quest’Essere uno originario necessario? Un embrione 
informe del mondo, una specie di materia-madre che i 
monisti chiamano in vari modi: «omogeneo» (Spencer), 
«indistinto » (Ardigò), «sostanza primitiva» (Haeckel); 
ma si tratta di nomi, di ipotesi non accertate e non accerta- 
bili, di parole che vorrebbero sostituire Dio. Il monismo 
materialista, come quello dello Haeckel, è una contamina- 
zione grossolana di materialismo evoluzionista e di spino- 
zismo. 

Anche l’esperienza è contro l’ipotesi monista: la nostra 
coscienza ci attesta direttamente che almeno le sostanze in- 
telligenti sono fondamentalmente irriducibili; dunque, il plu- 
ralismo degli enti non è solo fenomenico, ma sostanziale. 
Con ciò ci testimonia: 4) che l’ipotesi dell’unità ontologica 
dell’essere non ha fondamento obiettivo e dunque non vi 
è una realtà primitiva materiale da cui tutto procede per evo- 
luzione; 5) che, rivelatasi inesistente tale realtà primitiva, re- 
sta aperta la possibilità di provare razionalmente che il mon- 
do è stato creato da un Essere assoluto, il cui essere è di altra 
natura da quello delle cose da Lui create; c) che, per con- 
seguenza, non c'è un’unica realtà, ma due di diversa na- 
tura, la creata dipendente dalla creante: l’essere di Dio e 
quello del mondo. Ma l’esistenza di Dio e la creazione, a 
differenza dell’ipotesi monista, si possono provare razional- 
mente; dunque, giacchè è vera la dottrina contraria, il mo- 
nismo risulta un'ipotesi falsa, nata da un passaggio erroneo: 
dall’esigenza legittima di ridurre la molteplicità delle cose 
all'unità concettuale dell’idea, passa illegittimamente all’unità 


52 Filosofia e Metafisica 





ontologica dell’essere reale (*°). D'altra parte, il materialismo o 
il naturalismo evoluzionista non possono e non potranno mai 
spiegarci come dalla materia primitiva, la si nomini come si 
voglia, nasca lo spirito ed entri nel mondo il pensiero: mi- 
stero inspiegabile. Dire che derivano per evoluzione dalla 
materia o che sono suoi epifenomeni (Marx) è non dir nien- 
te, è presentare la difficoltà insoluta... come soluzione! Non 
per nulla il panteismo vero e proprio si presenta meno gros- 
solanamente acritico del monismo materialista, ateo per af- 
fermazione dommatica e, nello stesso tempo, incapace di dare 
al suo ateismo un fondamento scientifico e una spiegazione 
razionale. Dopo il tanto rumore della seconda metà del se- 
colo XIX e dei primi anni del nostro e la diffusione at- 
traverso la stampa divulgativa e pseudoscientifica, è consi- 
derato definitivamente morto anche da scienziati e filosofi 
che non hanno preoccupazioni religiose. Morto come istanza 
filosofica, è diffuso in forma rinnovata e aggiornata tra le 
masse attraverso il comunismo, non perchè abbia una ben- 
chè minima forza speculativa, ma in quanto son vivi i pro- 
blemi di ordine economico-sociale ai quali viene agganciato. 
In altri termini, è soltanto l’aspetto sociale del marxismo che 
conferisce forza ed attualità alle sue grossolane teorie « filo- 
sofiche ». 

Da ultimo, l’espressione « tutto è Dio » non ha più senso 
quando si ammette, come nel caso del monismo materialista 
e naturalista, soltanto l’esistenza di esseri fisici o di un es- 
sere materiale embrionale, indistinto, omogeneo che sia. Il 
panteismo, per il significato essenziale del termine, importa 
sì l’Essere uno, ma lo concepisce come Spirito o Ragione, an- 
che se privo di coscienza ed impersonale, tanto è vero che 
fa del pensiero e della coscienza la rivelazione dell’ Essere 
a se stesso. D'altra parte, l’Assoluto di cui parla il panteista, 
pur non essendo il vero Dio, suscita ammirazione ed amo- 


(30) Cfr. Dict. apol. de la foi cathol. cit., vol. IMI, pp. 918-922. 


L'ateismo 53 





re, sia anche solo «intellettuale »; dà l’ebrezza del divino 
immanente (Spinoza). Tutto ciò manca nel monismo ma- 
terialista o naturalista, dove Dio è una pura espressione ver- 
bale: « tutto è Dio » viene ad identificarsi, perdendo il suo 
sostanziale significato, con l’espressione « tutto è materia » (5). 

b) Il panteismo e le sue forme. Vi è una forma anti- 
chissima di panteismo ricorrente e presente in tutte le epo- 
che e presso tutte le genti. Alludiamo a quel panteismo pre- 
filosofico, primitivo, proprio di popoli agli inizi della spe- 
culazione, o di nature poetiche e mistiche abbandonate al 
fascino dell’immediato, alla suggestione delle forze della 
natura senza mediazione razionale, riflessione concettuale ed 
elaborazione critica. La Grecia prefilosofica è in questo senso 
panteista: le forze cosmiche sono divinizzate, fatte oggetto 
di culto; nel politeismo già evoluto di Eschilo, Sofocle, Pin- 


(31) Si noti che nel materialismo dialettico (incontro dell’evoluzionismo e del 
dialettismo hegeliano) i concetti di monismo e panteismo subiscono una trasfor- 
mazione profonda al punto che non vi sono reperibili. Infatti, il materialismo 
dialettico nega che vi sia comunque un'essenza di uomo o di altro, un ordine 
immutabile, una « materia » nel senso tradizionale: tutto è il risultato di situa- 
zioni storiche, rispondenti ad un grado del divenire; tutto nel futuro potrà essere 
diverso, perchè non vi sono sostanze. Ora è esigenza del panteismo l'unificazione 
del molteplice, suoi presupposti l’ordine cosmico e, in comune con il monismo, 
l’unità sostanziale degli enti. Pertanto, rigettato il concetto di ente e quelli di 
sostanzialità ed ordine, l’evoluzionismo dialettico e materialista non può dirsi nè 
monista nè panteista, anzi del monismo e del panteismo è come la critica; in 
questo senso, è l’esito ultimo dell’uno e dell’altro. 

Per meglio far risaltare come nel monismo materialista, negati Dio e ogni 
realtà spirituale, la vita perda ogni significato che non sia quello biologico o 
economico, tutti i valori umani siano negati e l’esistenza diventi assurda, ripor- 
tiamo l’efficace descrizione che F. Acri (Della relazione tra anima e corpo) fa 
dei funerali del « filosofo » Spencer. « Ecco: io dico quel che ho letto. Morto 
lui, il suo corpo è portato, su un carro, in un luogo tra campi solitari, al set- 
tentrione di Londra, lì dove era un nuovo forno crematorio; ed era un mattino 
di dicembre, e tra gli umidi vapori splendeva il sole. Su quel carro non erano 
fiori, ma neanche alcun panno nero: e quelle duecento persone ch’erano lì 
ad aspettarlo non erano vestite a nero, e neanche ghirlanda alcuna avevano in 
mano. Venuto il carro, quelle si levano su in piedi riverenti e silenziose; e la 
cassa è deposta in una sala terrena, di contro a una porta. E uno fra loro leva 
la mano in segno di voler parlare; e parlò, e disse della vita di lui, delle opere 
di lui, insomma del passato di lui; del futuro di lui nè affermò nè negò nulla. 
Finito ch’ebbe, la cassa è sospinta contro la docile porta, giù per un’aperta di 
muro, entro il luogo del fuoco; e la porta sovra di lui si chiuse ». 


54 Filosofia e Metafisica 





daro, ecc., la distinzione tra le varie divinità, identificate con 
le forze naturali, si affievolisce; la molteplicità è gerarchizza- 
ta e unificata in un Dio supremo (Zeus « testa del mondo »). 
L’orfismo, con i suoi culti, le sue credenze nell’oltretomba e 
nella metempsicosi, è anch’esso una forma di panteismo pri- 
mitivo e tende a cancellare, riducendola ad apparenza, la 
individualità sostanziale della persona umana; l’invasato dal- 
la divinità, attraverso l’ispirazione ed il rito, si sente così 
posseduto dal Dio da immedesimarsi con lui. Le forze vi- 
tali e le loro manifestazioni, gli elementi della natura di- 
ventano, per l'immaginazione robusta e per la ragione an- 
cora debole e fanciulla, potenti divinità, buone o cattive, da 
propiziarsi con riti, culti, preghiere, sacrifici. L'unità onto- 
logica del tutto, vissuta immediatamente e con sentimento 
spontaneo, è ancora nella fase dell’intuizione poetica o del- 
l'abbandono mistico; il senso profondo della natura e della 
immedesimazione con le sue forze è ebrezza del divino, sen- 
timento vitale di comunione dell’uomo con la divinità e del- 
la divinità con l’uomo. Questa forma di panteismo, che 
non è pensiero riflesso ma esperienza immediata, trova le 
sue espressioni più spontanee e turgide nel primitivismo di 
popoli non ancora intellettualmente evoluti, o in quello di 
forti temperamenti mistici e poetici, che hanno esuberante 
il senso della natura e il culto della vita. I mistici tedeschi 
non cattolici, Goethe e quasi tutta la poesia del romanti- 
cismo germanico, alcuni scrittori contemporanei, soprattutto 
modernissimi, vibrano di potenti accenti panteistici, si sen- 
tono come immersi nella natura divinizzata. È quello che 
possiamo chiamare panteismo estetico: culto della « gran ma- 
dre Natura », che è «bella» anche quando è «orrida », 
Dio vivente di tutta la potenza delle sue forze attive, ora 
paurosamente terrifico (la tempesta, il terremoto, ecc.), ora 
maestosamente rasserenatore in una pace solenne, infinita, 
immobile (il cielo stellato, l'orizzonte immenso e limpido . 


L'ateismo 55 





da una vetta alpina ecc.). Ma questo panteismo, appunto 
perchè prefilosofico e quasi inconsapevole o solamente poe- 
tico, non può essere oggetto del nostro discorso. 


Il panteismo che riconduce la natura a Dio non parte dal 
mondo, ma dall’Essere uno e necessario, che chiama Dio, 
Infinito, Assoluto, Io; ma, in ogni caso, lo concepisce come 
Pensiero o Spirito, da cui deduce il mondo per emanazio- 
ne (Plotino), per deduzione necessaria e razionale (Spinoza), 
per posizione (Fichte), per movimento dialettico (Hegel), 
ecc. In tutte queste teorie, il mondo è identificato con Dio, 
per cui realmente esiste solo Dio, di cui il mondo stesso è 
una manifestazione. Virtualmente la sua realtà è negata; 
meglio, dovrebbe esserlo, se il panteista non avvertisse tale 
difficoltà e le contraddizioni insite nel sistema. 

Questa ed altre forme di panteismo hanno in comune due 
tesi che è opportuno indicare: 4) riduzione della molteplicità 
degli esseri all’unità ontologica di un unico ed identico Es- 
sere, per cui l’essere del mondo, emanante o procedente da 
Dio, è lo stesso essere di Dio; 2) che è dunque « incate- 
nato » al mondo, il solo possibile, che da lui emana eterna- 
mente e necessariamente e a lui torna per identificarvisi, co- 
me le gocce d’acqua che, lasciate temporaneamente sulla 
spiaggia dal flusso dell’onda, vengono riassorbite nella suc- 
cessiva (3°). 

Il mondo s’identifica con Dio, da cui emana o procede; 
dunque l’essere del mondo è lo stesso di quello divino; d’al- 


(32) Nota ed espressiva l’immagine dell’albero: fusto, rami, foglie tutto trae 
vita dallo stesso seme e dalla stessa linfa, che si rinnova identica a se stessa 
nell’unità della sostanza dal seme ai frutti. Essa è frequente nelle Enneadi ed ha 
avuto fortuna nella poesia romantica di Schlegel, Schiller, Novalis, ecc.: « S'im- 
magini la vita di un albero, grandissimo; trascorre in esso, rimanendo il suo 
principio, immobile, senza disperdersi per l’albero, poichè risiede nelle radici » 
(Ern., I ,8, 10). 


56 Filosofia e Metafisica 





tra parte, il panteismo non nega che il mondo è anche ma- 
teria o qualcosa che, non essendo spirito, non è della stessa 
natura spirituale di Dio; consegue che, se si mantiene il prin- 
cipio della identità del mondo con Dio, bisogna affermare 
l’identità dei contrari, che logicamente è non affermare nul- 
la. È la difficoltà in cui sembra incorrere il panteismo dello 
Spinoza: l’estensione (materia) e il pensiero (spirito) sono 
due degli attributi dell’ «rica Sostanza o Dio o Natura; se 
la dualità è anche in Dio non c’è l’unica realtà eterna (la 
Sostanza), ma due, irriducibili all’unità della Sostanza stes- 
sa; se questa è una, materia e spirito vi s'identificano e si 
afferma l’identità dei contrari, cioè si nega la realtà del- 
l’uno e dell’altro. 

Lo Spinoza e altri panteisti (Bruno, Fichte, Hegel, ecc.; 
Plotino identifica la materia con il « non-essere », cioè con 
la zona oscura dove si spenge l’emanazione dell’Uno), con- 
sapevoli della difficoltà, distinguono tra natura emanata o 
posta (razura naturata) e la Sostanza o Io o Spirito ema- 
nante o ponente (natura naturans). Ma daccapo: 4) o Dio e 
il mondo sono realmente distinti, due realtà, due nature, e 
non c’è panteismo; 2) o il mondo non si distingue real- 
mente da Dio e, in tal caso, c’è panteismo, ma la difficoltà 
sopra notata ne fa una dottrina contraddittoria. In altri ter- 
mini, o la distinzione Dio-mondo è reale (analogia dell’es- 
sere) e bisogna abbandonare la dottrina dell'Essere unico in 
cui esiste tutto ciò che esiste; o la distinzione non è reale 
(univocità dell’essere) e allora: o si conclude che il mondo 
è pura apparenza; o, se gli si vuol concedere un certo 
grado di realtà — concessione necessaria in ogni sistema 
panteista affinchè sia reale lo stesso Assoluto o Dio —, dato 
che esso non è solo spirito, bisogna identificare il suo ca- 
rattere materiale con quello spirituale di Dio, cioè due con- 
trari, identificazione che, oltre al resto, riesce ugualmente 


L’ateismo 57 








alla negazione della realtà del mondo (*). Ma cerchiamo 
di approfondire meglio l’argomento (#). 

Posta la tesi fondamentale: l’urità dell’idea dell’essere im- 

rta la unicità dell’Essere stesso, consegue che il molte- 
plice (gli enti particolari e finiti) o è l’Essere, o non è; dun- 
que, solo apparentemente, nella sua fenomenicità, si distin- 
gue dall’Essere; in realtà è lo stesso Essere e non è come di- 
stinto da esso. Parmenide per primo dà una soluzione netta 
ed estrema del problema: «l’Essere è, il Non-essere [il 
molteplice ] non è »; Platone, nel Parmenide, mette in evi- 
denza le insolubili aporie cui va incontro una dottrina del- 
l’Uno che nega i Molti, come quelle della tesi opposta dei 
Molti che negano l’Uno; da parte sua, contro la tesi pan- 
teista, ammette la realtà degli enti finiti che hanno dell’Es- 
sere senza essere l’Essere. Negare la realtà del finito è af- 
fermare senza dimostrarla l’unicità ontologica dell’essere; 
al contrario si dimostra, contro il panteismo, che tra l’Es- 
sere e il Non-essere è possibile la realtà di enti molteplici 
particolari e contingenti, che come enti sono e come finiti 
non sono l’Essere, senza perciò essere il Non-essere e senza 


(33) Tipico il panteismo dello Spinoza. L'unica sostanza — Dio-Natura — 
consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime la sua essenza eterna ed 
infinita. Come la Sostanza non esiste che nei suoi attributi, così questi (pensiero 
ed estensione sono i due che noi conosciamo) non esistono che nei loro modi in- 
finiti; perciò Dio esiste solo nelle cose come loro essenza universale e le cose 
sono in lui come modi della sua essenza. Dio è natura maturans in quanto essenza 
universale del mondo; natura naturata in quanto totalità delle cose, in cui la sua 
essenza si realizza; dunque non è diverso dai suoi effetti ed esiste solo in essi. 
Questo il panteismo nella sua forma più tipica: non creazione del mondo, ma 
sua derivazione necessaria dall’essenza divina. La dipendenza del mondo da Dio 
non è di causa efficiente ad effetto, ma di seguenza o di conseguenza; il mondo 
segue da Dio allo stesso modo che dalla definizione del triangolo segue che la 
somma degli angoli è uguale a due reti. In breve, il rapporto causale è con- 
cepito dallo Spinoza come rapporto logico-matematico di principio e di conse- 
guenza. Nulla può essere diverso da quello che è: non c’è posto per il caso 
nè per la libertà. Conoscere questa universale necessità è la beatitudine suprema 
dell'anima (amor Dei intellectualis). 

(34) Questa e altre tesi panteiste sono esaminate con fine acutezza da A. Va- 
LENSIN nel Dict. apol. de la foi cathol., vol. III, pp. 1332 c ss., che in qualche 
punto teniamo presente. 


55 Filosofia e Metafisica 








che la loro molteplicità ontologica neghi l’unità dell’idea 
dell’essere. 

Dio non si può concepire senza il mondo, dicono ancora 
i panteisti, in quanto sarebbe incosciente: coscienza, infatti, 
è alterità, il distinguersi da qualcosa che è e le si oppone; 
dunque il mondo è necessario a Dio, il quale si fa, diviene, 
si rivela a se stesso, prende coscienza di sè attraverso di 
esso. Questa tesi, tipica dell’idealismo trascendentale tede- 
sco, trasforma il panteismo in ateismo. Un Dio che si fa 
(il Got im Werden dello Hegel) non è Dio, non è Spi- 
rito infinito, che è Atto puro; qui si nega Dio e si chiama 
col suo nome un’altra cosa. Infatti, quando il panteista af- 
ferma che Dio senza il mondo sarebbe incosciente perchè 
la coscienza per cogliersi ha bisogno dell’altro da sè, non 
parla di Dio Coscienza assoluta, ma della coscienza finita 
dell’uomo, che non è puro spirito come Dio, il quale, co- 
me tale, è sempre Coscienza in atto e perciò non neces- 
sita dell’altro. Similmente Egli è spirito perfetto senza bi- 
sogno di diventarlo, di farsi: se si facesse, sarebbe sempre 
spirito in fieri e perciò mai perfetto. Un Dio che diviene non 
è mai Dio in nessun momento del suo divenire e dunque 
non esisterà come Dio; perciò è come dire che non è. È 
la conclusione a cui arriva Nietzsche nel notissimo passo 
della Gaia Scienza: « Dov'è Dio? Voglio dirvelo! L’abbia- 
mo ucciso, voi ed io... Dio è morto! Dio resterà morto! E 
noi l’abbiamo ucciso... ». 

Da ultimo, non si parla di Dio ma di altro quando si 
argomenta che, se è infinito, non può essere che imperso- 
nale: chi dice persona dice limite e finitezza, ma Dio è 
infinito e senza limiti; dunque Dio è impersonale. Osser- 
viamo che la conclusione non dimostra la sua impersonalità; 
semplicemente Lo nega, in quanto un Dio impersonale è 
un’astrazione (la Natura, l’Umanità ecc.). D'altra parte, la 
premessa è esatta se s'intende la persona finita, ma il con- 


L'’ateismo 59 





cetto di persona umana non è l’unico possibile : Dio è per- 
sona in maniera diversa da come lo siamo noi, ma lo è in 
modo analogo al nostro (#). Si noti che in quest’ultima sua 
tesi il panteismo considera l’infinità di Dio in un senso che 
Gli si addice veramente; infatti, concependo la persona 
solo secondo quella umana limitata, esclude che Egli possa 
esserlo. Ma qui nasce un dilemma: o Dio è infinito senza 
alcuna limitazione, e cadono le due prime tesi panteiste del 
Dio che si fa e a cui è necessario il mondo per acquistare 
coscienza di sè, in quanto un simile Dio non è perfetto e 
infinito in atto ma limitato nel divenire altro e nell’autori- 
velarsi a se stesso; o Dio non è infinito e perfetto in atto e 
allora, se tale, anche secondo l’uso ristretto che il pantei- 
smo fa del termine, si può dire persona, e cade la tesi pan- 
teista della sua impersonalità. Ma perchè vi sia panteismo 
non in contraddizione con se stesso e dunque sostenibile 
razionalmente, è necessario mantenere e giustificare tutte 
e tre le tesi. Impossibile: o Dio è l’Infinito in atto e non 
Gli è necessario il farsi nel mondo e il mondo stesso, e 
con ciò vien meno l’essenza metafisica del panteismo (il 
mondo è Dio e Gli è necessario); o non è l’Infinito in atto 
e allora, anche nell’accezione panteista, si può concepirLo 
esistente come persona, e vien meno l’altra tesi essenziale 
al panteismo della sua impersonalità. In qualunque forma, 
il panteismo presenta invincibili contraddizioni interne; co- 
me tale, è razionalmente insostenibile (*). 


(35) Invece, così ragionano quanti negano a Dio la personalità: voi chia- 
mate personalità e coscienza ciò che avete imparato a conoscere in voi stessi 
con questi nomi; ma sapete anche che non vi è personalità e coscienza senza 
limitazione e finitudine; perciò attribuendo a Dio quei predicati, fate di lui un 
essere finito, uguale a voi e non avete pensato a Dio, ma moltiplicato voi stessi 
nel pensiero. Questo ragionamento del Fichte, il quale riduce il teismo ad antro- 
pomorfismo, critica un modo di chiamare Dio personale diverso da quello del 
testa; perciò non interessa il vero teismo e non ha alcuna validità contro di 
esso. 

(36) Osserviamo ancora che, anche ad accettarla per un momento, la tesi 
panteista che il mondo è necessario a Dio, risulta contraddittoria in se stessa. 
Se il mondo è necessario a Dio, bisogna pure che abbia una sua realtà: se è pura 


60 Filosofia e Metafisica 





7. — L’umanesimo ateo. 


Con l’umanesimo assoluto o ateo, proprio di quelle filo- 
sofie che si dicono atee perchè umaniste, entriamo nel vivo 
dell’ateismo contemporaneo nelle sue molteplici forme di de- 
rivazione materialista, illuminista e idealista, soprattutto hege- 
liana. Secondo i suoi teorici, la religione (e perciò l’idea di 
Dio) aliena l’uomo in un Essere assoluto e trascendente, gli 
ta perdere il possesso di ciò che gli appartiene, gli impone 
un Altro; un maestro che gli insegna, o un rivale che gli 
contende. Di qui l’antitesi teismo-umanesimo: Dio è la ne- 
gazione dei diritti dell’uomo, che, adorando un Ente Supremo, 
frutto della sua immaginazione condizionata da situazioni 
storiche, aliena in lui quel che invece gli appartiene. Pertanto 
un umanesimo integrale ed autentico è possibile solo se l'uomo 
cessa dall’alienazione religiosa e riconquista i suoi diritti e 
poteri, cioè se attraverso l’evoluzione storica elimina il mo- 
mento religioso della rinunzia a ciò che gli spetta e attri- 
buisce a Dio. 

Questa forma di ateismo non è una novità del marxismo; 


apparenza, è assurdo dire che Dio esiste per un’apparenza, anzi dire che esiste; 
infatti, se il mondo è apparenza, siccome Gli è necessario per esistere, anche Dio 
è apparenza! Dunque, il panteista deve concedere al mondo una sua realtà, non 
diversa però da quella di Dio, altrimenti vien meno il principio dell’unicità 
dell'essere e con esso l'essenza del panteismo; ma se a Dio è necessaria per csi- 
stere la realtà del mondo e questa è della sua stessa natura, consegue che per 
esistere Gli è necessario... Dio stesso! Sì, può obiettare il panteista, gli è neces- 
saria la sua realtà non più in sè, ma fuori di sè, nel suo farsi per acquistare 
coscienza di sè. Benissimo; ma allora Dio in sè non è coscienza; se non è 
coscienza, non è soggetto; se non è soggetto, è oggetto, « materia ». Come nasce 
la coscienza? Si riproduce dentro il panteismo la difficoltà insormontabile del 
monismo materialista. 

Non conta che ci soffermiamo su quel misto di panteismo, deismo, emana- 
zionismo che è la cosiddetta teosofia, che non è filosofia nè teologia nè scienza, 
per la quale sembra abbiano un debole le signore; i due autori più noti, infatti, 
sono due donne, la Blavatsky e Annie Besant. Le loro tesi sono quelle già da 
noi confutate: 4) Dio è impersonale (un Dio personale è antropomorfico); in 
realtà, per la Blavatsky, Dio è onnipotente, onnisciente, ecc. (The Key to Theo- 
sophy, London, 1893, p. 44), ma solo Dio sa, se è tale, come può dirsi im- 
personale; 5) « Dio è tutto e tutto è Dio », scrive la Besant (WAy I became a 
theosophist, London, 1891, p. 18) confondendo le due forme di panteismo, che 
noi, meno frettolosi, abbiamo distinto e discusso separatamente, i 


L'ateismo 61 





già matura nell’Illuminismo, rappresenta solo una fase di quel 
processo di divinizzazione dell’umano, proprio del pensiero 
moderno: l’uomo può fare da sè quello che, attraverso l’alie- 
nazione religiosa, crede possa fare solo Dio. Il progresso e 
l’evoluzione storica dell'umanità risiedono precisamente nella 
graduale liberazione dalla « superstizione » religiosa, infanzia 
della ragione, nella sempre più matura consapevolezza che 
noi acquistiamo dei nostri poteri. Per l’idealismo trascen- 
dentale, da Fichte a Gentile, l’uomo realizza la sua umanità 
piena nel pensiero che, attraverso il dialettistmo che gli è 
immanente ed essenziale, perviene alla risoluzione del mo- 
mento religioso in quello filosofico e all’attuazione di quella 
assolutezza dalla religione attribuita a Dio e che, invece, è 
il pensiero stesso nel suo perenne divenire, nella conquistata 
consapevolezza di sè. Con il positivismo del Comte, il mate- 
rialismo del Feuerbach e l’economismo del Marx, la religione 
dell’« umanità » sostituisce quella di Dio. Così l’umanesimo 
ateo assume uno spiccato carattere sociale: l’uomo acquista 
coscienza di sè nella società, nel lavoro inteso come vincolo di 
« fraternità », strumento di dominio della natura, potenziato 
dal progresso scientifico e tecnico. Nella storia l’uomo rea- 
lizza tutto se stesso; nella società giusta attua quella perfezione 
assoluta che l’alienazione religiosa gli fa attribuire a Dio. 
Al contrario, secondo un’altra forma di umanesimo ateo 
antisociale anarchico individualista, ma di un individuali- 
smo antiborghese, l’evoluzione storica raggiunge la sua ma- 
turità con il tipo dell’uomo selezionato, eccezionale, eroe 
e tiranno, crudele e despota, di cui unica legge è l’arbitrio 
e tutto è sua « proprietà ». L’umanità esprime la sua po- 
tenza intera nell’« unico » (Stirner) o nel «superuomo » 
(Nietzsche), cioè quando oltrepassa se stessa, si pone al di 
là della « mediocrità » delle leggi, dello Stato, della morale 
ecc.; la pienezza dell’uomo è nella negazione dell’umano 
nel superumano del superuomo, usurpatore di tutto, con- 


62 Filosofia e Metafisica 





quistatore dei suoi supremi diritti contro Dio, di cui de- 
creta la morte cancellando al tempo stesso l’alienazione re- 
ligiosa, vergogna del « gregge » dei deboli. Queste forme di 
ateismo, imperniate sul concetto di alienazione, nonostante 
le differenze a volte rilevanti, hanno in comune alcuni pre- 
supposti dogmaticamente assunti: 4) la religione è un gra- 
do, inferiore rispetto ai successivi, dell’evoluzione dell’uma- 
nità, corrispondente al momento in cui l’uomo non ha an- 
cora piena coscienza di se stesso ed attribuisce a Dio quello 
che gli appartiene e attuerà in una fase più progredita del- 
la sua evoluzione; è) essa, per conseguenza, grado transi- 
torio del divenire storico, è destinata a scomparire quando 
tutti gli uomini, e non soltanto i più evoluti, avranno ac- 
quistato consapevolezza di sè, cioè quando vi sarà un’uma- 
nità o una società nella piena maturità della sua evoluzione; 
c) pertanto, quel che si adora come Dio non è che l’ideale 
umanità futura, che l’uomo per il momento proietta fuori 
di sè ed entifica in un Ente supremo e domani invece vedrà 
realizzato in se stesso con e nella sua opera; 4) fino a quando 
egli adora un Dio e si aliena in lui, è indizio che l’evolu- 
zione storica non ha raggiunto la sua completa attuazione 
e ancora vi è nella società un residuo d’infantilismo. 

Sul fondo comune della divinizzazione dell’umano — 
l’uomo al posto di Dio, l’« usurpatore » temporaneo desti- 
nato ad essere spodestato — l’umanesimo ateo si differenzia 
in forme diverse quando si tratta di stabilire in quale del- 
le sue attività l’uomo realizza il suo compimento: il Pro- 
gresso, la Scienza, la Filosofia, l’Umanità, la Società omo- 
genea, ecc. a volta a volta sono state additate come le 
nuove divinità della nuova «religione umanistica », la cui 
realizzazione farà sparire, relitto del passato, la « religione 
teologica ». La forma più vistosa, anche se teoreticamente me- 
no consistente, è quella marxista, sulla quale insistiamo in 
modo particolare per la sua diffusione e perchè espressione 


L’ateismo 63 





di ateismo integrale che pretende di oltrepassare anche se 
stesso, sforzo poderoso di costruire l’umanità intera contro 
Dio e di rivoluzionare dalle fondamenta la scala dei valori. 
Mai ateismo è stato più negativo ed assoluto, apocalittico e 
messianico; mai, come ora col marxismo, è stato forma 
di vita. 


La cosidetta « sinistra hegeliana », pur accettando il dia- 
lettismo, opera un rovesciamento di Hegel: i fatti non 
sono un’estrinsecazione dell’Idea, ma la sola e vera realtà, 
di cui l’Idea è solo un'immagine; perciò reale è l’uomo non 
come puro pensante, ma come istinto, senso, corpo: l’uomo 
è un «corpo cosciente », dice Feuerbach; ed è bisogno, in- 
sieme di bisogni, che vuol soddisfare per realizzare la pro- 
pria felicità. Nel rapporto sociale egli acquista coscienza 
della sua umanità ed è tanto più se stesso quanto più attua 
questa coscienza. Come nasce nell’uomo così concepito l’esi- 
genza religiosa? Questa la domanda alla quale Feuerbach 
risponde ne L'essenza del Cristianesimo (1841). 

Hegel identifica Dio con il processo storico, con l’uo- 
mo infinitizzato; dunque, quando parla di Dio, parla del- 
l’uomo; basta scrivere «uomo» dove scrive « Dio» per 
restituire all'uomo stesso il suo autentico essere; pertanto, 
« il problema di Dio è il problema dell’uomo »; «il segreto 
della teologia è l’antropologia ». Così Feuerbach opera la 
« trasformazione del sacro » già implicita nel pensiero illu- 
minista e quasi esplicita nel Fichte e nello Hegel. 

La religione è un prodotto puramente umano: non po- 
tendo l’uomo soddisfare tutti i suoi bisogni, cioè liberarsi dal 
bisogno, postula o pone un Essere illusorio, proiezione di se 
stesso come vorrebbe essere. La teologia non è che antro- 
pologia; l'Assoluto filosofico e religioso, estrapolazione del- 
l'immaginazione, è l’uomo stesso, il suo essere come specie. 


64 Filosofia e Metafisica 





Così nasce l’alienazione religiosa o l’atto di abbandonare ad 
un altro la realizzazione dei valori, di scaricarsi di un com- 
pito. Se l’uomo acquista coscienza che quando pensa l’Infi- 
nito pensa e attesta l’infinito del suo pensiero, e quando lo 
sente, sente e attesta l’infinito del suo sentimento; se si 
fa consapevole che « nell’essere e nella coscienza della reli- 
gione non vi è niente di diverso da quel che c’è nel suo 
essere e nella sua coscienza »; in breve, se si convince che 
«egli inconsapevolmente e involontariamente crea Dio se- 
condo la propria immagine », si riprende quel che ha alienato 
e acquista coscienza che tutto il discorso su Dio non è che 
discorso sull’uomo, che lo ha creato a sua immagine e so- 
miglianza. In altri termini: se il fatto religioso dipende 
da una particolare situazione umana e dura fino a quando 
essa non evolve, cessata o trasformatasi, l’uomo cessa di 
pensare a Dio e di essere religioso. 

Feuerbach, nonostante tutto, resta legato al vecchio ma- 
terialismo; il reale per lui è ancora l’« oggetto » sensibile, 
come gli obietta Marx, che pur riconosce quanto deve al 
suo predecessore. In breve, conserva residui intellettualistici, 
che Marx elimina con la riduzione del reale all’« attività 
sensibile umana » intesa come prassi: il rapporto uomo-na- 
tura è dialettico e non vi è altra dialettica che quella uomo 
sensibile-realtà sensibile in funzione del lavoro umano; per- 
tanto, la dialettica deve scendere dal piano teoretico-idei- 
stico (Hegel) a quello pratico o « economico », anzi l’« eco- 
nomico », il « materiale », è l’unica « struttura » del processo, 
di cui le altre (morale, religione, arte, ecc.) sono solo « so- 
prastrutture ». La proprietà privata, autoalienazione dell’uo- 
mo, è una usurpazione o appropriazione della sua essenza 
da parte di un altro; la sua soppressione positiva coincide, 
da un lato, con la soppressione positiva della vita umana 
alienata e di ogni altra alienazione conseguenza della pri- 
ma come la religione, la morale, la famiglia, lo Stato, il di- 


L'’ateismo 65 





ritto, ecc.j dall’altro, con il ritorno all’uomo come «essere 
sociale », con la riconquista del suo vero essere originario: 
l’essere dell’uomo si attua nella natura, ma questa ha es- 
senza umana solo per l’uomo sociale, in quanto soltanto 
nella società diventa legame che unisce gli uomini tra loro. 
In quest’ultima si compie l’integrale naturalismo dell’uomo 
e l’integrale umanesimo della natura: non la dialettica hege- 
liana dell’Idea, ma quella uomo-natura, singolo-società. La 
storia non è il divenire dell’Idea o della Ragione, ma quel- 
lo della natura attraverso il lavoro dell’uomo; non la dia- 
lettica di compimento dello Spirito assoluto nella Filosofia, 
ma quella di compimento dell’uomo-natura nella Società so- 
cialista. 

Ciò posto, se non ci sono che l’uomo e la natura in rap- 
porto dialettico e la religione appartiene al momento del- 
l’alienazione o della proprietà privata, realizzata l’unità del- 
l’uomo con la natura nella società ed eliminata l’alienazione, 
la religione scompare da sola: l’ateismo è una constatazione, 
è o sarà un « fatto » della nuova società socialista. Amano 
a mano che l’uomo andrà costruendola e conquistando la sua 
libertà, sua opera esclusiva perchè la storia è soltanto opera 
dell’uomo che in essa ha tutto il suo senso, andrà sparendo, 
anche senza combatterla, la credenza nell’esistenza di Dio, 
soprastruttura dell’alienazione. « Dal momento che la es- 
senzialità dell’uomo e della natura diventa praticamente sen- 
sibile » nel rapporto dialettico uomo-natura, diventa prati- 
camente impossibile anche il problema di un'essenza estra- 
nea superiore alla natura e all’uomo implicante l’ammissione 
della loro inessenzialità. « L’ateismo come negazione di que- 
sta inessenzialità non ha alcun senso, poichè esso è una ne- 
gazione di Dio e pone con essa l’esistenza dell’uomo ». Dun- 
que, non c’è più bisogno della negazione di Dio e della reli- 
gione, l’ateismo diventa superfluo: l’autocoscienza positiva 
acquistata dall’uomo nella società socialista è la negazione 


66 Filosofia e Metafisica 








della negazione, cioè dell’ateismo: non si tratta di soppri- 
mere la religione, perchè è già sparita, come non si tratta di 
sopprimere la proprietà privata, già eliminata. In altri ter- 
mini, la negazione di Dio e della proprietà privata rappre- 
sentano solo un momento necessario del processo di emanci- 
pazione dell’uomo alienato, della conquista della sua libertà, 
ma non il fine della società umana, che è l’attuazione della 
libertà dell’umanità. 

Questi e altri discorsi poggiano sul presupposto domma- 
tico di Feuerbach che la materia è il primo ontologico, a 
cui Marx applica il metodo dialettico che lo Hegel riserva 
allo spirito. Così Marx riforma contemporaneamente la dia- 
lettica hegeliana e il concetto feuerbachiano di materia, ma 
la duplice operazione lascia intatto il presupposto materia- 
listico, anche se egli identifica la materia con la realtà eco- 
nomica, cioè la sostituisce così intesa, ma senza giustifica 
zione alcuna, allo spirito. Certo, l’economia, come ogni altra 
attività umana è dialettica, ma è tale in quanto attività 
spirituale che, pur interessando il corpo, risponde sem- 
pre ad un bisogno dello spirito unito al suo corpo; dun- 
que interessa la persona nella sua integralità spirituale e cor- 
porea. Ma, a parte ciò, da un lato resta da dimostrare che 
la materia o l’economico sia il primum o il principio as- 
soluto fondante tutta la realtà umana e non essa fondata 
da un altro principio, altrimenti si fa un’affermazione dom- 
matica, come tale gratuita e filosoficamente ingiustificata; 
dall’altro, è da vedere come il marxismo intende lo spirito, il 
pensiero, la coscienza. Ora è noto che, per Marx e i neomar- 
xisti russi o di loro ispirazione, « materia » non è soltanto 
la realtà economica, lo è l’universo tutto nella sua essenza; 
di essa, dato oggettivo indipendente dalla coscienza, que- 
st'ultima è solo «un elemento secondario derivato »; il pen- 
siero è un prodotto del cervello, che a sua volta lo è dell’evo- 
luzione della materia, per cui la dualità materia-spirito è 
una mera astrazione metafisica. Se è così, l’attività econo- 


L'ateismo 67 





mica, primum assoluto, è soltanto ed esclusivamente mate- 
riale, dato che la cosidetta coscienza o spirito è un elemento 
secondario derivato dalla materia oggettiva, madre di essa e 
di tutta la realtà naturale; dunque, monismo materialista in 
edizione aggiornata, ma più scorretta di quella del vecchio 
materialismo, in quanto il neo-materialismo pretende di es- 
sere « dialettico », ragione di quello «storico », come se 
si potesse parlare di « dialettica» dove tutto è materia e 
niente spirito. L'espressione « materialismo dialettico » è una 
contraddizione nei termini e non è ragione di alcun « ma- 
terialismo storico », per il motivo inconfutabile che non c’è 
dialettica dove non c’è spirito e dove esso è concepito come 
un elemento derivato dalla materia oggettiva; c’è solo que- 
st’ultima che è puro accadere naturale senza dialettica. Certo, 
l’ateismo in una concezione monistica diventa una consta- 
tazione di fatto, ma non per le ragioni che adduce Marx, 
bensì perchè, se la materia è il primum, non c’è nient'altro, 
nè coscienza derivata, nè realtà economica, nè storia; non 
c'è l’uomo nè Dio, non c’è lo stesso ateismo. Tutto diventa 
un dato inspiegato ed inspiegabile, gratuito; non resta che 
riporsi tutti i problemi senza tener conto dell’assurdo ini- 
ziale monismo materialistico. 

D'altra parte, che senso ha parlare di uguaglianza e fra- 
ternità tra gli uomini in una concezione in cui la persona 
è un puro prodotto naturale della materia, la risultante del- 
l'evoluzione materiale ed è per essenza tutta ‘e solo sociale, 
senza diritti extrasociali o anteriori alla società stessa? Marx 
ammazza la persona tre volte: nella materia, nella realtà 
economica e nella società; poi fa la peregrina scoperta che 
non c’è più bisogno di parlare di Dio e della religione! Ha 
« alienato » la persona nella materia, negato lo spirito nella 
realtà economica e nella società e dice di aver riscattato l’uo- 
mo dall’alienazione religiosa. A parte ciò, come si fa a dire 
che l’idea di Dio e la religione sono la conseguenza della 


68 Filosofia e Metafisica 





proprietà privata e dell’alienazione del lavoro, pronte a scom- 
parire, incubo plurimillenario, con la cessazione della causa 
«materiale » che le ha prodotte? Ma che aveva in testa 
l'insiptens Marx e che vi hanno gli insipientes che l’han 
perfezionato su questo punto quando pensano a Dio? 
Superfluo insistere nel criticare una dottrina che, sotto 
l’aspetto filosofico — a parte la questione sociale — è così 
puerile e grossolana da non potersi chiamare nemmeno as- 
surda; infatti, nessuno taccia di assurdità un bambino il 
uale dice che il manico di scopa che cavalca è uno dei 
cavalli del Re d’Inghilterra. È quel che capita al marxismo 
quando sostiene che gli uomini pensano a Dio perchè defrau- 
dati da una parte di quanto producono con il loro lavoro e 
che cesseranno dal pensarvi dal momento in cui, sparita la 
proprietà privata e la defraudazione del lavoro altrui, si sarà 
pienamente realizzata la libertà dal bisogno, l’ideale perse- 
guito dall’inizio dei tempi e proiettato in un immaginario 
Dio. Ma è opportuno osservare che l’umanesimo assoluto 
marxista, come quello che si fonda sull’autosufficienza uma- 
na, rientra nel quadro più vasto del pensiero moderno lai- 
cista; non per nulla è figlio dello Hegel. Variano i modi di 
divinizzazione dell’uomo: attraverso la Scienza, l'Arte, il 
Pensiero ecc., ma l’esito è identico; perciò la puerilità del 
marxismo non sfigura gran che al confronto di quella di 
altre dottrine. Solo che esso, invece di affidare il compito 
di costruire l’Uomo-Dio a forme di attività nobili o dotte, 
lo ha affidato ad una più rozza, l'economia; ma non è poi 
questo gran male, perchè l’esito è sempre lo stesso. Gli altri 
ateismi o laicismi non hanno da protestare contro il mar- 
xismo e da darsi una superiorità che è solo sciocca arro- 
ganza. 
Non è il caso d’insistere, perchè già incluse nella nostra 
esposizione critica, su altre teorie di alienazione religiosa, 
su quelle che dicono in generale: l’uomo che crede in Dio 


L'ateismo 69 





aliena se stesso, abdica; dunque un vero umanesimo non 
può non essere ateo. Nietzsche vien subito alla mente, ma 
le citazioni potrebbero essere numerosissime. Per esempio, 
il Brunschvicg; il quale non nega il valore trascendentale 
del pensiero, ma lo intende in senso idealistico: non Pen- 
siero in atto (Dio), bensì quello che è infinito progresso 
creativo; Dio s’identifica con la Ragione immanente. Se, in- 
vece, l’uomo ammette con la pura « immaginazione » un Dio 
trascendente aliena in Lui i poteri del pensiero, che è l’As- 
soluto. Anche per Sartre un Assoluto in sè è assurdo: l’idea 
di Dio è la proiezione all’infinito di un impossibile sogno 
dell’uomo, un'illusione fondamentale, il tentativo fantastico 
di fare coincidere la riflessione (il powr-Soî) con l'essere (l’en- 
Soi); è precisamente l’impossibile tentativo o di annullare 
l'oggetto nel puro soggetto o il soggetto nella pura oggetti- 
vità. L'uomo vuole essere Dio e non potrà mai esserlo per- 
chè Dio è assurdo; l’uomo è « una passione inutile ». 

Queste teorie concepiscono Dio come negazione dell’uo- 
mo; ma Dio non nega, eleva la natura umana ad un destino 
soprannaturale; dunque, da questo punto di vista, la sua 
idea non è alienazione, ma inglienazione. I filosofi dell’alie- 
nazione religiosa « s’immaginano » un Dio alienante e poi 
concludono che l’uomo, pensandovi, si aliena in Lui. Ma, 
in definitiva, cosa aliena? Quello che compete alla sua na- 
tura, o quel che non gli appartiene? Secondo i teorici del- 
l'alienazione, proprio quello che non gli appartiene, essere 
Dio. In altri termini, se si attribuisce all’uomo quello che 
spetta a Dio, chiaro, se vi pensa e lo ammette, si aliena.... 
ma come Dio, non come uomo. Non vi è, dunque, aliena- 
zione religiosa nè l’esistenza di Dio la comporta, se l’uo- 
mo si attribuisce quel che appartiene alla sua umanità e 
non quello che non gli spetta. Proprio chi divinizza l’uomo, 
lo aliena, lo fa escire fuori di sè, lo rende ridicolo, cari- 
catura di se stesso. 


CapitoLo V 


CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 


La breve indagine storico-critica sull’ateismo e le sue 
forme fondamentali, condotta con animo aperto e dal punto 
di vista più favorevole, ci porta a concludere che, sia quello 
vero e proprio come l’altro che non si dice esplicitamente 
tale o non lo è in apparenza, non vanno oltre affermazioni 
dommatiche o razionalmente contraddittorie. 

Infatti, l’ateismo assoluto, che nega senz'altro l’esistenza 
di Dio in qualsiasi modo Lo si concepisce, quando pretende 
ad un qualche significato filosofico, esprime la fiducia che 
la ragione umana abbia la capacità di provare la sua affer- 
mazione; ma nessun ateo, che si sappia, ha dato una simile 
prova razionale inconfutabile. Gli agnostici giustamente gli 
rimproverano questo suo dommatismo, di non porsi il pro- 
blema pregiudiziale se la ragione abbia il potere di dimo- 
strare vero il suo ateismo. Non solo, ma l’ateo non si chiede 
neppure se alla ragione, schietta e naturale, non ripugni una 
simile negazione proprio in quanto è naturalmente indiriz- 
zata all’Essere, origine e fondamento di ogni verità e dello 
stesso lume razionale; l’ateismo dommatico, in questo senso, 
è contro la natura dell’uomo, contro la ragione. Per con- 
seguenza, l’affermazione atea è irrazionale, dettata dalla 
« passione »; è lo stato dell’insipiens, di colui che non sa 


L'ateismo ZI 





quel che dice, proprio perchè la sua ragione è in cattività (1); 
condizione psicologica non avente alcun valore oggettivo e 
dunque filosofico. D’altra parte, l’ateismo dommatico non 
trova aiuti o sostegni nella scienza che non oltrepassa arbi- 
trariamente i suoi limiti — ma in tal caso gli aiuti sono ap- 
parenti perchè forniti da una scienza « apparente» — in 
quanto a nessuna contraddice l’esistenza di Dio, neanche 
quella del Dio personale. Nessuna psicologia scientifica può 
distruggere la superiorità della coscienza e del pensiero e 
la loro inderivabilità dalla materia; l’esistenza di Dio-Vo- 
lontà non contraddice all’ordine delle leggi fisiche; anzi pro- 
prio la scienza, se non «premeditata » e consapevole del 
suo oggetto e dei suoi limiti, può riconoscere la convenienza 
razionale del Dio-Persona. In conclusione, una ragione atea 
non è razionale nè ragionevole. 

Ma proprio quella convenienza nega l’agnostico, il quale 
dà torto all’ateo che pretende di « sapere » che Dio non esi- 
ste, ma lo dà anche al teista che presume di provarne l’esi- 
stenza; egli così non incorre nè nel possibile errore del 
primo, nè in quello pure possibile del credente che, dal 
fatto soggettivo del credere, conclude affermativamente. Lo 
agnostico non nega e non afferma l’esistenza di Dio; /a 
ignora, perchè i mezzi conoscitivi di cui l’uomo dispone non 
hanno la capacità di spingersi fino all’affermazione o alla 
negazione. Infatti, essi hanno validità conoscitiva solo se 
applicati a ciò di cui l’uomo può avere esperienza; ma dello 
Essere in sè non c’è esperienza e v'è solo « pensabilità »; 
dunque non c’è possibilità di pronunziarsi con un certo 
fondamento razionale sulla sua esistenza. 

Come abbiamo osservato, la verità della conclusione è 
legata a quella del sistema, il quale non comporta che si 
affermi o si neghi l’esistenza di Dio; ma è vero il sistema? 


(I) L’ateo non ubbidisce alla ragione, ma la sottomette al suo ateismo, 
meglio ai motivi passionali che lo fanno ateo. Non lo convincono ma l’ateismo 
gli è comodo: « vuole » essere ateo; ha paura di Dio e Lo nega. 


72 Filosofia e Metafisica 





E’ inconfutabilmente dimostrato che la conoscenza umana 
è limitata solo al mondo fenomenico (7)? Lo si afferma per- 
chè, in partenza, si assegna alla filosofia come suo oggetto 
proprio il fenomeno o il fatto e non il valore e l’atto; si 
riduce tutta l’esperienza valida a quella sensoriale igno- 
rando che ve n°è una spirituale più profonda e vera, che, 
quando non s’identifica superficialmente con i fenomeni psi- 
chici, attinge profondità metafisiche che danno evidenza 
razionale al problema di Dio e della sua esistenza. Ma asse- 
gnare alla filosofia come suo oggetto il fatto fisico e umano, 
è negare che ne abbia uno proprio, ridurla alla scienza o 
alla storia, di cui diventa una metodologia; dunque, si nega 
che l’esistenza di Dio è problema filosofico, perchè si nega 
che vi sono filosofia e problemi propriamente filosofici! In 
altri termini, il sistema che limita la conoscibilità al fatto e 
al fenomeno è una «filosofia » che si ferma «al di qua» 
della filosofia vera e propria, al punto in cui si arresta la 
scienza; cioè è una filosofia che deve ancora cominciare a 
filosofare sull’esistenza di Dio e gli altri problemi! 

«Non nego e non affermo; ignoro se Dio esiste ». Lo 
agnostico che dice di « ignorare » Dio è ateo — di fatto lo è 
chi lo ignora — ma dice d’ignorarlo perchè il sistema esige 
di fermarsi al fenomeno di esperienza; dunque perchè si 
ferma ad un certo punto. L’agnosticismo ateo è la rinunzia 
a pensare fino in fondo, il fermarsi alle cause penultime 
(scienza) senza spingersi fino al Principio primo (metafisica). 
Può essere timidezza, ma anche timore (*); teoreticamente 


(2) Per citare un esempio recente, anche se di scarsa consistenza speculativa, 
il Rensi, nella citata Apologia dell’ateismo, poggia tutta la sua argomentazione 
su una concezione materialistica dell’essere, ricavata da un’insostenibile interpre- 
tazione materialistica di Kant: « è soltanto ciò che può essere visto, toccato, per- 
cepito » (p. 15); Dio non può essere visto, toccato, percepito; Dio non è e pen- 
sare diversamente è « alienazione mentale » (p. 35). 

(3) In chi nega Dio o dice di ignorare se esiste, non di rado ha una in- 
fluenza decisiva un motivo psicologico di ordine pratico: giustificare la propria 
condotta di vita. Gli « spiriti forti » sono spesso di una estrema debolezza: « fan- 
no i bravi con Dio », secondo un'espressione di Pascal, per l'incapacità di libe- 


L'ateismo 73 








è il non osare, mancanza di vera vocazione filosofica, rinun- 
zia alla bellezza del « rischio » metafisico; è un « fermarsi », 
in contraddizione con la «spinta » della ragione e perciò 
non razionale. Bacone l’attribuisce a superficialità (*); Pascal 
al non pensare fino in fondo — « Athéisme. marque de force 
d’esprit, mais jusqu’à un certain degré seulement » (*) — 
a metà: «Les athées doivent dire des choses parfaitement 
claires » (*). Ma proprio di chiarezza mancano: presentano 
come chiara una conclusione che non lo è, per esaurito e 
definitivo un discorso che è infinito, e, quasi timorosi di 
convincersi dell’esistenza di Dio, cercano sempre qualche 
difficoltà per persuadersi del contrario ("). La ragione può 
rifiutarsi di andare fino in fondo solo facendo violenza a 
se stessa, facendosi schiava di interessi non razionali, misti- 
ficandosi, autocontraddicendosi (°). 

Tuttavia, a parte queste obiezioni, resta valida la pre- 
giudiziale « critica » sulla capacità della ragione di fondare 


rarsi da una passione anche volgare! Spesso, sotto l’apparenza di crisi spirituali, 
della coerenza di vita e pensiero, dell’onestà intellettuale, si nasconde l’attacca- 
mento ad una passione: pur di non rinunziarvi si mette la ragione a servizio 
di essa, la si costringe a sottolizzare, a trovar pretesti e scuse fino a quando 
non l’abbia giustificata. In tal caso, l’ateismo e l’agnosticismo ateo (« si vuole » 
ignorare Dio perchè fa comodo) scaturiscono da un fondo di immoralità. Certo 
non sono mancati e non mancano atei onesti e modelli di virtù morali; ma 
non di rado l’onestà di questi « galantuomini » dai costumi impeccabili è sata- 
nica: virtuosi per la superbia di esserlo, identificano i valori con la loro stessa 
persona, ne fanno una « posizione dell’io » da mantenere e rispettare anche fino 
al sacrificio di sè... a se stessi. 

(4) F. Bacone, De dignit. et aug. scient., 1, I, c. I, $ 5; « Certissimum est, 
atque experientia comprobatum, leves gustus in philosophia movére fortasse in 
atheismum, sed pleniores haustus ad religionem reducere ». 

(5) Pensées, Sect. III, 225, ed. Brunschvicg. 

(6) Ivi, Sect. HI, 221. 

(7) Come è stato osservato (Piar, in « Revue pratique d’apologétique », 15 
gennaio 1907, p. 451), se a cercare Dio si fosse impiegato un decimo dell’energia 
spesa per avvolgerlo di nubi, l’umanità avrebbe già posseduto la più ampia, 
precisa e solida delle teodicee. 

(8) VoLtaire (op. cit., p. 43), non certo sospetto di eccessiva pietà religiosa, 
scrive: « les athées sont pour la plupart des savants... qui raisonnent mal »; e 
gli « ambiziosi », i « voluptueux », aggiunge argutamente, « n’ont guére le temps 
de raisonner... ». 


74 Filosofia e Metafisica 








una teodicea e di risolvere il problema teologico; ma farla 
valere non significa affatto giustificare innanzi tutto se ha 
il diritto di oltrepassare l’esperienza sensoriale, ma provare 
che questa esperienza, alla quale la si vuol costringere e 
limitare, è inspiegabile senza oltrepassarla. Tale istanza non 
può essere ignorata dall’agnosticismo e dal criticismo, ap- 
punto perchè spinge la «critica » al limite del suo sviluppo 
più esigente. 

Ma ammettere razionalmente l’esistenza di Dio non im- 
plica di necessità concepirlo come l’Essere trascendente e 
personale, obiettano deisti e panteisti. Abbiamo già di- 
scusso e confutato le dottrine che concepiscono Dio come 
Ente impersonale e dimostrato la loro contraddittorietà : 
hanno il torto di chiamare Dio quel che non lo è, ma è 
« Forza », « Causa », « Legge naturale », « Natura » : in que- 
sti casi Dio è una parola senza contenuto, o con uno diverso. 
Ma ciò è lo stesso che negarLo e perciò il deismo e il pan- 
teismo sono atei: teismo verbale (uso della parola Dio) e 
ateismo sostanziale (chiamare Dio un’altra cosa). In breve, 
o si nega Dio e si abbia la franchezza di dirlo accettando 
l’assurdità dell’affermazione; o non Lo si nega e allora si 
parli di Lui e non di altro: Natura, Legge, Divenire, Idea, 
Inconscio, ecc. Un Dio impersonale non è Dio, « ma solo 
una parola mal adoperata, un non-concetto, una contradictio 
in adjecto », dice lo Schopenhauer. Se si riconosce la ne- 
cessità razionale del teismo, questo esige che Dio sia lo 
Essere intelligente e volente, Persona, con cui gli enti 
creati sono in rapporto di analogia e non di univocità o iden- 
tità. Questo indica il termine; qualsiasi altro uso è spurio 
e fa che il teismo diventi puramente verbale. 

Da ultimo, notiamo che Dio, oltre che una verità razio- 
nale, è innanzi tutto una verità religiosa, rispondente a una 
esigenza precisa dello spirito umano; dunque, la ragione è 
chiamata a provare non un ente qualsiasi, sia pure il Tutto 


L'ateismo 75 





o l’Assoluto, bensì l’Essere, assoluto sì, ma trascendente e 
personale. Dire che Dio è verità razionale non deve signi- 
ficare depauperazione della Sua idea al punto di farne una 
pura nozione concettuale esprimente l’esigenza dell'Unità o 
dell’Assoluto, della Legge di natura o della Causa fisica, 
in quanto la ragione è chiamata a dare fondamento razio- 
nale al Dio della religione, non a dimostrare l’esistenza di 
un ente, che soddisfa solo pure esigenze intellettuali della 
ragione stessa con la pretesa di ridurre ad esse quelle reli- 
giose, magari dicendo che, in tal modo, queste ultime, 
dallo stato ingenuo o d’immaginazione, vengono elevate a 
quello critico o di scientificità. Visto così il problema, quanti 
dicono che Dio è il Divenire o la Natura, l’impulso morale 
o l’Inconscio non parlano del Dio che gli uomini pregano, 
adorano, amano. D'altra parte, se diamo a quello che chia- 
mano Dio il senso vero che ha la parola, con tutto il ri- 
spetto per pensatori insigni, scoppia il ridicolo a pensare 
che si possa adorare, pregare, invocare, amare l’Idea che si 
dialettizza, l’Umanità, il Progresso, l’Inconscio, la Storia, 
ecc.; scoppia perchè si fa rappresentare a questi concetti 
una parte che non si addice loro, e al tempo stesso si rifiuta 
la religione per accettare l’idolatria. Non è stato forse ridi- 
colo il Comte con la sua «religione dell'Umanità »; chi si 
è fatto sacerdote della «religione della libertà »; quel tale 
adoratore della Dea-Ragione che, al tempo della Rivoluzione 
dell’ 89 dichiarò di essere «l’ennemi personnel de Jesus 
Christ»? Ed è ridicolo oggi chi afferma che «la verità è 
il Partito» e basti realizzare una società socialmente ed 
economicamente perfetta perchè si estingua nel cuore dello 
uomo l’esigenza religiosa nella riconquistata coscienza che 
Dio è una sua creazione. Queste forme di ateismo aperto o 
mascherato, sotto l'apparenza dotta, sono forse tra le più 


76 Filosofia e Metafisica 





grossolane ed ingenue e dell’ateismo vero e proprio non 
hanno il senso di angosciosa sofferenza e di disperazione 
sincera, che meritano comprensione e rispetto (7). 


(9) Nota bibliografica: 

P. Bayle, Pensées diverses écrites è un docteur de Sorbonne è l’occa- 
sion de la comète qui part au moins de décembre 1680, Rotterdam, 1721, 
voll. 4; VoLtarre, Dictionnaire philosophique, Paris, Flammarion, s. a., pp. 
35-45; L. SrerHen, An Agnostic’s Apology, London, 1876; Huxrey, Essays, 
London, 1898; F. Le Dantec, L’Athéisme, Paris, 1907; F. MANTHNER, Der 
Atheismus und seine Geschichte in Abendlande, Stoccarda e Berlino, 1922-23, 
voll. 4; G. Richarp, L’athéisme dogmatique, Paris, 1923; R. Fuint, Antitheistic 
Theories, Edimburgo, 1917, IX ediz.; A. B. DrocHmann, Atheism in Pagan 
Antiquity, London, 1922; G. Rensi, Apologia dell’ateismo, Roma, Formiggini, 
1925; P. CaraseLLEsE, I/ problema teologico come filosofia, Roma, Bardi, 1931; 
P. Hazarp, La crisi della coscienza europea, traduz. ital., Torino, Einaudi, 1946; 
J. P. SARTRE, L’Etre et le Néant, Paris, 1943; H. DE Lusac, I/ dramma dell’uma- 
nesimo ateo, trad. ital., Brescia, Morcelliana, 1949; M. F. Sciacca, Il problema 
di Dio e della religione nella filosofia attuale, Brescia, Morcelliana, 3* ediz., 
1953; Interiorità oggettiva, Milano, Marzorati, 2* ediz., 1961; Atto e essere, 
ivi, 3* ediz., 1961; L. BrunscHvice, De /a vraie et de la fausse conversion, 
suivi de la querelle de l’athéisme, Paris, Presses Univer. de France, 1951; 
J. MARITAIN, /l significato dell’ateismo contemporaneo, Brescia, Morcelliana,, 
1950; H. Dumfry, De /’athéisme contemporain, «Nouvelle Revue théolo- 
gique », n. 4, 1949, pp. 367-374; E. Ripeau, Paganisme ou christianisme? 
Etude sur l’athéisme moderne, Paris-Tournai, 1953; F. LomsarpIi, L. Fewerbach, 
Firenze, La Nuova Italia, 1935; H. Arvon, L. Feuerbach ou la transformation 
du sacré, Paris, Presses Univ. de France, 1957; F. N. OLESscHISscHUK, Atheismus, 
Berlino, 1955; J. Y. Carvez, La pensée de K. Marx, Paris, Éditions du Seuil, 
1956; L’athéisme contemporain, Genève, Éditions Labor et Fides, 1956; M. Buser,. 
L'eclissi di Dio, Milano, Edizioni di Comunità, 1961; E. Borne, Diew n'est pas 
mort. Essas sur l’athéisme contemporain, Paris, Librairie Arthème Fayard, 1956. 
Inoltre: Athdism di vari Autori; Hastincs, Encyclopaedia of Religion and Ethics, 
vol. I; Athéisme, « Vocabulaire technique et critique de la philosophie » a cura di 
A. Latanpe, Paris, Alcan, 1938, 4* ediz., vol. I; Francx, Dictionnaire des scien- 
ces philosophiques, Paris, 1875; Ateismo, « Enciclopedia italiana », vol. II; Agnosti- 
cisme, Athéisme, Panthéisme, « Dictionnaire apologétique de la foi catholique »,. 
Paris, Beauchesne, 1925, vol. I e vol. II. 


Parte TERZA 


ATEISMO E TEISMO 


SEZIONE SECONDA 


L’ESISTENZA DI DIO 


CaritoLo I 


POSIZIONE DEL PROBLEMA 
E I «DATI REALI» DELL'IPOTESI «DIO » 


I. — Definizione nominale di Dio e fondamento razionale 
dell’ipotesi. 

Assumiamo l’esistenza di Dio come un'ipotesi, ma, anche 
a partire da questo minimum, due questioni pregiudiziali 
simpongono: 4) che cosa s'intende per Dio; 5) se è razio- 
nalmente fondata l’ipotesi (1). 

Quale la definizione nominale di Dio? Ogni parola, per- 
chè tale, esprime qualcosa, è usata con un senso; dunque, 
quando gli uomini pensano pronunziano scrivono il termine 
«Dio» gli danno un certo significato, anche se con sfu- 
mature diverse e con un senso ammettiamo pure non sem- 
pre univoco. Tuttavia, quale che sia il grado di equivocità 


(1) Tale enunciazione rigidamente scientifica del problema sconcerterà quan- 
ti, ricchi d’intensa vita religiosa e di robusta fede, contestano che si possa persino 
parlare di « problema » dell’esistenza di Dio, tanto per loro tale verità è fuori 
discussione. Osservo: 4) non tutti gli uomini si trovano in questa condizione; 
5) l’esistenza di Dio per noi non è, di primo acchito, un’evidenza; c) la fede non 
è «del tutto » oggettivabile, vale per chi la possiede, ma da sola non è un 
argomento per convincere chi ne è privo che Dio esiste; pertanto, a chi non 
crede nella Sua esistenza è necessario, anche se non sufficiente, provare che 
l'affermazione « Dio esiste » è una verità, cioè una proposizione valida per ogni 
essere razionale. 

D'altra parte, come ho accennato sopra, la fede ha un grado non trascurabile 
di oggettivabilità; infatti, chi ha fede in Dio, una fede serie, un’interiore ed 
intensa vita religiosa, è portatore — agito ed agente ad un tempo — di questa 
verità; in tal senso, con il suo pensiero e la sua azione, con la « parola » e le 
opere, ne è la « testimonianza ». La potenza penetrante del suo « esempio », che 
incarna una verità e la esprime, ha una indubbia forza indicativa e comunica- 


80 Filosofia e Metafisica 





nell’uso del termine, chi afferma o chi nega che esiste Dio, 
come chi dice di non saperlo, in un certo modo, sa di che 
cosa afferma, nega, ignora l’esistenza; d’altra parte, la for- 
mulazione di un'ipotesi è possibile sulla base di alcuni dati 
reali che si cerca di spiegare, ma che non lo sono ancora: 
appunto si pone l’ipotesi come possibile spiegazione; se pro- 
vata, si assume come verità oggettivamente valida. 

Quali sono i dati reali che autorizzano l’essere razionale 
a porre l’ipotesi « Dio »? L’uomo e il mondo, la realtà esi- 
stente, in cui gli uomini vivono, pensano, operano. Se porto 
la riflessione sull’ente esistente che sono, mi avverto inserito 
in un universo di altri enti materiali, di organismi fisici; di 
altri enti che, come me, oltre alla vita organica, ne hanno 
una morale, cioè la libertà di orientare con responsabilità 
la propria condotta; dunque, sul piano fisico e su quello 
morale, mi avverto in relazione con tutti gli enti dell’uni- 
verso, da essi influenzato e su di essi influente. 

Queste prime riflessioni mi pongono di fronte ad un gro- 
viglio di problemi essenziali. So di non essere sempre esi- 
stito, almeno nel modo in cui esisto e posso esistere nel mon- 
do; di avere pertanto un principio al pari di ogni cosa in 
esso esistente; dunque, tutte le cose che sono non sono sem- 
pre state, nè saranno sempre: domani non sarò, tutti gli es- 


tiva, un potere indiscusso di stimolare la riflessione, suscitare il problema, sbloc- 
care il pensiero, mettere in moto la volontà e attizzarne lo slancio, spingere la 
ragione a realizzare tutta la sua forza normale, cioè a porsi all’« altezza » di 
dimostrare. Non dà convincimento razionale, ma genera una condizione psico- 
logica, che è più di una semplice « situazione »: stimola a chiamare a raccolta 
tutte le energie spirituali, affinchè costituiscano quella « forza » che « dà forza » 
alla ragione, o meglio la mette nella condizione di sviluppare la sua forza 
totale. Pertanto, l'impostazione scientifica data al problema non significa che esso 
sia puramente di tale natura, ma soltanto che vogliamo concedere il massimo 
all’istanza critica; anche lo stesso termine « problema » è da noi inteso in un 
senso particolare. Per cvitare equivoci diciamo fin d’ora che non c'è ragione al 
livello normale, totale o integrale, senza fede e non c'è fede senza ragione; 
dunque, escludiamo il puro razionalismo, che è una ragione ancora al di sotto 
delle sue capacità e della sua profondità, comc il puro fideismo, in quanto senza 
la ragione non si salva la fede, che, come fede di un essere razionale, non può 
essere dalla ragione disgiunta, nè la ragione negare. 


L'esistenza di Dio 81 





seri, che oggi sono, domani non saranno; ho, ciascuna cosa 
ha, un principio; ho, ciascuna cosa ha, una fine. La con- 
tingenza e la temporalità della mia esistenza e di ogni esi- 
stente in questo mondo è un fatto di esperienza; inizio e 
limite nel tempo: entro e passo, ogni essere passa. E allora, 
donde vengo? qual’è il principio del mio esistere? Passo; 
dove vado? Finisce tutto là, preda di rapaci o in una fossa? 
o «passo» soltanto, transito, per una destinazione che è 
la finalità suprema della mia esistenza? Sono contingenza 
e limite e morte, miseria e dolore, ma la coscienza di esserlo 
mi fa superiore a quanti esseri non lo sanno; tuttavia, anche 
se mi eleva, non fa che sia esente da miseria e dolore. 
D'altra parte, proprio l’essere un ente cosciente, pen- 
sante e volente, mi pone altri problemi: se sono coscienza, 
donde la coscienza e il pensiero? Non la materia può essere 
principio di quel che materia non è e di cui essa è priva, 
nè ha alcun fondamento l’ipotesi della sua evoluzione, per- 
chè non può mai spiegare il nascere dell’attività pensante e 
riflessiva. Donde la sua presenza in me, e dunque nel mon- 
do? Se penso, penso pure qualcosa, oggetto del mio pen- 
siero; dunque penso qualcosa che è vero, in quanto pen- 
siero non sarei se verità non fosse. Donde la verità? Son 
io, contingente e finito, la fonte creatrice di essa, che era 
prima che entrassi nel mondo e lo sarà anche quando ne 
sarò escito? Nella natura vi è un ordine intrinseco cui ubbi- 
disce l’evoluzione o il divenire naturale, ma che non riesco 
mai a penetrare fino in fondo, a cogliere nella sua totalità; 
vi è come un segreto nelle cose che mi meraviglia e stupisce. 
Nè la mia volontà è arbitrio cieco: mi conduco nella vita 
secondo norme, a cui riconosco, anche quando ad esse mi 
sottraggo, validità, forza obbligante. Donde queste norme? 
Della mia condotta mi sento responsabile, anche quando sem- 
bra che l’ambiente mi domini fino al punto da fare appa- 
rire la mia azione la risultante necessaria della sua influenza 


82 Filosofia e Metafisica 





determinante; responsabile appunto di non avere saputo rea- 
gire ad esso, di non averlo trasformato. Donde la mia libertà ? 

In breve, l’esistente contingente limitato finito è consa- 
pevole, in quanto essere razionale, che vi è nel mondo natu- 
rale un ordine che lo governa e in lui un ordine di pen- 
siero o di verità e uno morale o di bene non contingenti e 
non precari, indipendenti dall’inizio e dalla fine della sua 
esistenza; dunque, io contingente e finito — ed ogni cosa — 
«esisto » in quanto partecipo dell’« essere », perchè « sono » 
in questa partecipazione, altrimenti non sarei affatto. A_ que- 
sto punto: 4) ogni esistente contingente e finito non è il 
« principio » di se stesso, quantunque sia la « causa » di ogni 
atto della sua vita; 5) non è principio di quanto è di non-con- 
tingente in lui contingente, quantunque sia la causa di quanto 
pensi ed operi in conformità di esso. 

Tali riflessioni sono sufficienti per formulare la seguente 
ipotesi: esiste un Essere o un Principio intelligente — altri- 
menti non potrebbe essere principio di me « persona », sog- 
getto intelligente e volente e di quante persone sono state, 
sono e saranno —; trascendente — se no sarebbe natura o 
cosmo —; esistente da sè — altrimenti sarebbe un ente con- 
tingente, 46 aglio —, cioè ipsum esse subsistens, e perciò per- 
fettissimo, Principio assoluto di tutte le cose, dell’ordine del 
pensiero e della volontà come di quello della natura, sor- 
gente di ogni esistenza e Provvidenza governante quanto fa 
esistere? È l'ipotesi Dio. 

Vi è dunque una reale condizione umana, e del mondo su 
cui l’uomo riflette, che autorizza l’ipotesi dell’esistenza del- 
l’Essere intelligente, trascendente, esistente da sè e provvi- 
dente, a cui si dà il nome di Dio; eliminabile solo nel caso 
che fosse possibile dimostrare la non-contingenza di ogni 
singolo ente esistente e del mondo nella sua totalità, dare 
una spiegazione completa ed esaustiva della realtà umana e 
fisica da renderla « superflua »; in altri termini, solo se si 


L'esistenza di Dio 83 








dimostra razionalmente che il nostro mondo basta a se stesso, 
è autosufficiente, metafisicamente autonomo ed indipenden- 
te, fondamento assoluto di sè a se stesso. Ma se così fosse 
— il fatto che dei filosofi lo abbiano «immaginato » non 
è una soluzione razionalmente valida — l’ipotesi « Dio» 
non sarebbe mai nata (?). Si può anche « sospendere » 0 met- 
terla da parte assieme ai problemi che sempre la fanno e la 
faranno nascere, ma ciò comporta la rinunzia alla suprema 
conoscenza metafisica, ad una soluzione adeguata dei pro- 
blemi radicali non solo della filosofia, ma anche della più 
ingenua coscienza umana e direi del più elementare senso 
comune, dove pure quei problemi sono presenti. Posizione, 
dunque, insufficientemente filosofica o prefilosofica o afilo- 
sofica, quale è quella di un sapere puramente empirico ed 
anche scientifico nel senso delle scienze naturali; positivismo, 
quali che siano le sue sfumature o camuffamenti, anche 
quando si chiama « filosofia dello spirito » 0 « storicismo », 
pretesa risoluzione o dissoluzione della filosofia nelle scien- 
ze, del «valore» nei « fatti» o nelle «opere », del « per- 
chè » nel «come ». Ma la ricerca speculativa comincia pre- 
cisamente dall’insufficienza di fronte ai massimi problemi 
del sapere scientifico e di quello storico, i quali, pertanto, 
sono ben lungi dal poter risolvere in sè la filosofia, che li 
oltrepassa e nella quale, da ultimo, trova fondamento la 


(2) Risulta senza fondamento l’ipotesi secondo la quale ogni singola cosa 
esistente è contingente e temporanea, mentre il mondo in sè e nella sua totalità 
è necessario ed eterno, non svente un principio e una fine: è sempre stato € 
sempre sarà così com'è, pur divenendo — nascono, crescono e muoiono — gli 
esseri particolari. Chi così pensa resta sul piano naturalistico, e costruisce una 
metafisica puramente naturalistica; fa della cosmologia e non si pone ancora il 
problema « primo » della « filosofia prima ». Infatti, cerca e stabilisce le « cause 
del divenire », ma non si pone la questione del suo « principio » e delle sue stesse 
cause immanenti; oppure confonde la « sufficienza » del mondo — ha in se stesso 
le cause che lo governano — con la sua « autosufficienza »: ha in sè il principio 
da cui è. In tal caso, il mondo si assolutizza e l’ipotesi « Dio » diventa super- 
flua; ma tale « irreale » assolutizzazione è un'estrapolazione arbitraria del concetto 
di sufficienza del mondo, o una limitazione del problema al naturalistico e scien- 
tifico «come », che non è ancora il problema metafisico e filosofico del 
« perchè ». 


84 Filosofia e Metafisica 





loro stessa validità conosativa (*). Per conseguenza, anche 
la più embrionale posizione filosofica non può evitare l’ipo- 
tesi « Dio », che pertanto risulta ineliminabile e razional- 
mente possibile, conveniente e fondata, ancor prima che ra- 
zionalmente provata. 

Se l’ipotesi « Dio » non è eliminabile, in quanto ogni 
ente e il mondo nella sua totalità non risultano metafisica- 
mente autosufficienti, consegue che ha origine dalla coscien- 
za dei nostri limiti e della nostra insufficienza. Non che 
nasca dalla « mancanza », da ciò che « non siamo », quasi 
dal nostro « non-essere », in quanto ciò che non è non è e 
non pone problemi; nasce da quel che siamo, dal nostro 
« essere », cioè dalla nostra realtà relativa e contingente, 
ma sempre « realtà »; dalla nostra condizione di esseri reali, 
sufficienti nei limiti del nostro essere umano, ma non auto- 
sufficienti; dunque dal senso radicale (metafisico) di dipen- 
denza di una realtà — noi e il mondo — da un'altra Realtà 
« possibile » fino a quando siamo ancora nell’ipotesi; in bre- 
ve, dal fatto che abbiamo coscienza di essere e perciò di 
partecipare dell’essere. Una « filosofia dell’esistenza », nel- 
la quale quest’ultima è una « possibilità » fuori dell’essere, 
è semplicemente una filosofia del nulla e il nulla della filo- 
sofia. 


2. — Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando 
si pone l'ipotesi « Dio ». 


Non di un essere « qualunque », in quanto i dati reali 
da cui sorge l’ipotesi esigono la dimostrazione dell’esistenza 
di un essere adeguato alla soluzione dei problemi posti: 


(3) Sospendere l’ipotesi « Dio », come vedremo a suo luogo, è proiettare 
ogni ente, e l’esistenza in generale, al di fuori dell'essere, gettarli nella pura 
empiricità, privarli della loro onticità; è fermarsi al mero fenomenico, alla esi- 
stenzialità priva di essere, che è il nulla; ma l’esistenza, appunto perchè tale, im- 
plica l’essere, senza di cui non è. Pertanto, il problema di Dio è interno, non 
esterno, all’ente pensante; anche quando lo si pone come ipotesi, è già molto, 
di più. 


L'esistenza di Dio 85 





a) origine del mondo e del suo ordine; è) dello spirito, es- 
senza dell’uomo, e dunque dell’ordine di verità e di bene 
che è in lui e lo rende capace di conoscere e volere, di pen- 
sare il vero e di agire secondo una legge morale, di libertà 
e responsabilità; c) finalità dell’universo, dell’azione di ogni 
singolo essere spirituale e del significato dell’umana istoria. 
Meraviglia e stupore l’ordine dell’universo, che non riescia- 
mo interamente a « comprendere » nell’orizzonte della no- 
stra mente; stupore una mente che pensa, la complessità del- 
la più semplice sensazione, la capacità di scoprire una ve- 
rità, di agire liberamente secondo una legge; meraviglia e 
stupore l’enigma che è ogni essere vivente, il « mostro » 
uomo, il filo d’erba. Dunque l’Essere che poniamo come 
ipotesi, esplicativo di tutta la realtà, non possiamo pensarlo 
se non incondizionatamente ed immensurabilmente superiore 
a quanto è chiamato a spiegare, altrimenti apparterrebbe al- 
l’ordine umano e naturale, sarebbe una realtà da spiegare 
come le altre e non spiegante tutte le altre; ma se ci oltre- 
passano per la loro enigmaticità il mondo umano e quello 
naturale, che pur non bastano a se stessi e dunque mancano 
di realtà piena, a maggior ragione ci oltrepassa infinitamente 
l’Essere che per ipotesi poniamo come esplicativo di tutto 
e che non può non essere di ordine diverso. Di un ordine 
appunto trascendente e soprannaturale e perciò impossibile, 
per la nostra mente, nell’ordine naturale, a penetrarsi nella 
sua essenza: ogni conoscenza di Dio è conoscenza per mez- 
zo di Dio; non la creatura Lo conosce, ma Egli si fa cono- 
scere rivelandosi. L’enigma del mondo naturale ed umano 
rimanda al Mistero Divino. D'altra parte, la definizione no- 
minale di Dio come Essere intelligente, trascendente, esi- 
stente da sè e provvidente, infinito, onnisciente, ci fa acqui- 
stare una più netta coscienza della finitezza nostra e di ogni 
cosa, dei nostri limiti e della nostra insufficienza; in breve, 
della nostra dipendenza essenziale dall’Essere per ora ipote- 


86 Filosofia e Metafisica 





ticamente posto. Di fronte a Dio, infatti, la creatura si sente 
« niente »; l’immensurabilità con l’Essere la spinge ad anni- 
chilirsi, senza che tuttavia perda la consapevolezza inequi- 
vocabile che anch’essa è essere che vive, sente, pensa e vuole 
nell’essere. Così l’ente finito, imbevuto dell’Essere, secondo 
un'espressione di Giovanni di S. Tommaso, avverte centu- 
plicate le sue forze ed irresistibile il bisogno di espandersi 
nell'azione operosa e molteplice. 

Appare evidente che il « problema umano » di una pos- 
sibile esistenza di Dio e la sua trascrizione in termini di « pro- 
blema filosofico » nascente dalla riflessione sulla condizione 
dell’uomo e del mondo, non discordano da quelli in cui si 
esprime la « coscienza religiosa » quando onora, prega, ado- 
ra Dio. Vi è una convergenza di sensi, solo apparentemente 
diversi, nell’unico dato alla parola « Dio », che univocamente 
esprime la posizione umana del problema, la riflessione filo- 
sofica su di esso e l’esperienza o la vita religiosa. Pertanto la. 
dimostrazione razionale, se possibile, dell’ipotesi « Dio », de- 
ve tener conto della realtà umano-naturale, dei suoi pro- 
blemi reali, da cui l’ipotesi nasce, e dell’esperienza religiosa 
di cui Dio è fondamento e oggetto assoluto; sarà tale, cioè, 
che dimostri realmente quello che s'intende con la parola 
Dio. In breve: la riflessione filosofica, chiamata a preci- 
sare le formule e a dare possibilmente la giustificazione ra- 
zionale dell’ipotesi dimostrandola verità universalmente e ne- 
cessariamente valida, deve rispondere a suzta la domanda da 
cui l’ipotesi nasce, cioè alla condizione umana nella sua to- 
talità e, per conseguenza, anche alla coscienza religiosa, a 
cui appartiene in proprio il termine Dio. Oltre a ciò, la forza 
normale della dimostrazione si misura sull’uso del termine 
Dio in maniera rispondente a come esso è presentato dalla 
condizione umano-naturale e religiosa; altrimenti, alla fine 
del discorso, pur dicendo di avere o no provato la verità del- 
l'ipotesi, si è in effetti provata o non provata altra cosa. 


L'esistenza di Dio 87 





La risposta filosofica, chiamata ad adeguare la integralità 
della realtà da cui sorge l’ipotesi « Dio », deve essere soluzio- 
ne integrale della filosofia integrale. L’ipotesi va posta in di- 
scussione, così come essa è, affinchè la filosofia indaghi se sia 
possibile dimostrarla razionalmente così come essa è, se « ra- 
zionale » e « ragionevole »; in caso affermativo, la realtà ha 
la sua spiegazione integrale e la religione la garanzia del 
fondamento razionale (“). L’ipotesi « Dio» nasce da una 
reale problematica umana; la ricerca razionale è impegnata a 
confermarla o a smentirla, a dire se e fino a che punto l’esi- 
stenza dell’Essere intelligente e trascendente, creatore e prov- 
vidente, sia verità razionalmente provata e perciò oggettiva- 
mente valida, o una pura verità di fede, o un mero flatus 
vocis. 


3. — L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos ». 


Come abbiamo detto, l’ipotesi « Dio » nasce dall’esistenza 
degli enti contingenti e finiti, come tali non principio di 
se stessi; per conseguenza la prova della verità, o non, del- 
l'ipotesi non può avere altro punto di partenza che il mon- 
do :1mano e naturale. Ciò esclude che vi sia un’intuizione o 
conoscenza immediata dell’essere di Dio, che, secondo la 
religione cristiana, è di ordine soprannaturale e non possi- 
bile per sua natura ad un'intelligenza finita quale quella uma- 
na, i cui oggetti devono essere ad essa proporzionati. Dun- 
que, la mente — supposta la dimostrazione della ipotesi — 
non può conoscere Dio direttamente e in ciò che lo costi- 


(4) La definizione nominale del termine Dio, necessaria per sapere di che 
cosa si vuol dimostrare l’esistenza e se l'ipotesi sia razionalmente fondata, non 
pregiudica in alcun modo la soluzione del problema. Si tratta di una semplice 
ipotesi di lavoro: la risposta può essere totalmente o parzialmente negativa o 
positiva, come potrà anche arricchire di nuovi elementi la definizione nominale o 
respingere alcuni di quelli in essa contenuti. Per l'impostazione del problema 
dell’esistenza di Dio e limitatamente ad essa abbiamo tenuto presente in qualche 
punto lo studio di F. Van SreeNnsERGHEN, Le problème philosophique de l’existen- 
ce de Dieu, « Revue philosophique de Louvain », nn. 5, 6, 7, 8, 1947. 


88 Filosofia e Metafisica 





tuisce (quidditative), ma solo indirettamente per cognizione 
mediata ed analogica (°). Se l’esistenza di Dio fosse per sè nota 
quoad nos (6) non vi sarebbe problema nè bisogno di dimo- 
strazione razionale, ma solo una verità evidente per se stes- 
sa. Invece vi è proprio problema, anche se quanti hanno fede 
non sentono necessità di alcuna dimostrazione tanta è la 
forza del loro credo, anche se il problema si chiarisse, poi, 
come esplicitazione di un implicito originario e la dimostra- 
zione come consapevolezza di una presenza. Ma evidente- 
mente, altro è l’esperienza vissuta, altro la dimostrazione 
razionale, anche se quest’ultima non può e non deve elimi- 
nare o abolire la prima, dalla quale pur restando (come de- 
ve) distinta, può ricevere e riceve forza. Dunque necessità 
della dimostrazione, dato che Dio non è per sè noto rispetto 
a noi; ma necessità anche di far convergere ed operare in 
essa quanti elementi legittimi in noi e nelle cose possano 
concorrere a renderla più efficace e completa. In altri ter- 
mini, non dobbiamo privarci di nulla di quanto è a no- 
stra disposizione e il cui uso è razionalmente consentito. 


4. — Da quale dato reale è conveniente partire per pro- 
vare la verità dell'ipotesi « Dio ». 


È vero che di Dio non vi è intuizione immediata e vi 
è problema della sua esistenza, e possibile dimostrazione il 
cui punto di partenza sono le cose dell’ordine naturale, og- 
getto proporzionato alla nostra mente; ma l’espressione 
« realtà naturale » non comporta, anzi esclude, un significato 
restrittivo quale quello di cose materiali od oggetti del mondo 
esterno. Tra gli enti dell’ordine naturale vi è anche l’uomo, 
realtà spirituale, che è intelligenza e volontà, avente un or- 
dine di verità e di bene secondo cui ha l’obbligo di rego- 
lare il pensiero e l’azione. La mente umana, nella sua condi- 


(5) S. Tommaso, S. TA., Ia, q. 12, a. 4. 
(6) Ivi, Ia, 2, 1; Quaest. disput. de veritate, 10, 12 


L'esistenza di Dio 89 





zione finita e mutevole, conosce solo cose dell’ordine na- 
turale, ma, da un lato, ha una naturale aspirazione all’in- 
finito e all’immutabile che non potrebbe avere se, in qual- 
che modo, non avesse di esso una certa nozione, sia pure 
oscurissima e confusa; dall’altro, per quanto è capace di 
verità intellettuale e morale, manifesta qualcosa dî neces- 
sario ed immutabile, dato che son questi gli attributi con- 
venienti all’essenza della verità; che, se è, non può essere 
contingente e mutevole. Conveniamo che la verità di cui 
l’uomo è capace e la sua mente scopre non è la Verità in 
sè, bensì quella confacente alla natura dell’uomo, ma essa: 
a) non è contingente e mutevole; 5) è fecondatrice della 
mente; c) per la sua validità universale, nel suo grado è 
assoluta. Lo spirito e il suo contenuto di verità, se vi è ve- 
rità, sono dunque dati reali diversi dagli altri; se sono su- 
periori ad ogni altro dell’ordine naturale, sono le massime 
condizioni reali che danno origine all’ipotesi « Dio ». In- 
fatti, se l’uomo desse a se stesso le verità fondamentali se- 
condo cui giudica e i princìpi morali secondo cui libera- 
mente agisce, non sarebbe più finito e contingente, nè la 
sua mente mutevole e limitata; dunque, è contradditto- 
rio che un essere siffatto sia autore di principî neces- 
sari e universali quali appunto quelli del pensiero e del- 
l’azione. Se si dimostrasse che l’uomo (la mente umana in 
generale) è autore dell'ordine della verità e della legislazione 
morale, sarebbe egli l’essere infinito, necessario e assoluto; 
l'ipotesi « Dio » non si affaccerebbe alla nostra mente, venute 
meno le condizioni che la fanno nascere. Dunque l’uomo sa 
che: 4) non è il principio che fa esistere le cose naturali e 
le governa secondo un ordine; 5) non è principio di se stesso, 
della vita organica e spirituale, della sua intelligenza e vo- 
lontà come dell’ordine che le informa. Sa, in breve, che egli 
e le cose sono dati reali, e che quanto di universale e neces- 
sario è capace di scoprire e conoscere è anch’esso un dato 


90 Filosofia e Metafisica 





reale; son proprio questi dati che pongono il problema del 
loro principio, cioè fanno nascere l’ipotesi « Dio » nel senso 
sopra definito. Dunque, se il punto di partenza è dai dati 
reali, si può partire da uno quale che sia, ma ci sembra 
opportuno: 4) muovere da quello più idoneo per la prova 
dell’ipotesi, che, presentando maggiore ricchezza e comples- 
sità, accrescerà la forza della dimostrazione; £) senza esclu- 
dere gli altri possibili punti di partenza, in modo che le 
eventuali prove si potenzino reciprocamente e conferiscano 
alla dimostrazione tutta la sua forza normale. D'altra parte, 
se dei dati reali scelgo come punto di partenza le cose ma- 
teriali è evidente che, perchè nasca il problema della loro 
contingenza ed origine e da esso l’ipotesi « Dio », è neces- 
sario che «rifletta » su di esse, mi ponga il problema della 
loro ragion d’essere e significato, cioè che trascriva il mondo 
esterno in termini mentali o di pensiero; ma porselo come 
problema è già trascriverlo in questi termini. Pertanto non 
sono le cose come tali che pongono il problema della loro 
origine e spiegazione e con esso l’ipotesi « Dio », ma il mondo 
esterno fatto oggetto di riflessione; anche in questo caso, la 
prova non può non passare dal pensiero, come meglio sarà 
chiarito in seguito. Posto ciò, possiamo anche accettare la 
nota tesi tomista che l’esistenza di Dio probari debet a poste- 
riori, ma a patto che ci si intenda sul significato dei termini. 
Se 4 posteriori significa che non vi è intuizione diretta ed 
immediata di Dio, concordiamo perfettamente che la Sua esi- 
stenza va provata 4 posteriori e che di Dio c’è solo cono- 
scenza mediata e analogica. Se, invece, s'intende che bi- 
sogna partire dalla natura fisica per scoprire la causa non 
causata del suo esistere e che non vi è nessun dato nell’uomo, 
nella vita dello spirito e la stessa vita dello spirito, da cui 
è possibile partire, anche prescindendo dal mondo esterno, 
respingiamo tale significato dell’ posteriori, pericolosamente 
restrittivo in quanto per il suo esclusivismo, già come punto 


L'esistenza di Dio 9I 





di partenza, è insufficiente a dimostrare, nel caso che la ra- 
gione umana lo possa, la verità dell’ipotesi, contenente una 
ricchezza di elementi da esso inadeguabili. Non si tratta solo 
di dimostrare se il mondo abbia un Architetto, una Causa 
prima, una Legge incondizionata, concetti inadeguati ad 
esprimere quanto è incluso nella definizione nominale di 
Dio. Inadeguati anche i concetti di « Essere supremo » e di 
« Ente realissimo », che, pur entrando nella definizione e 
nella rappresentazione di Dio al pari déi precedenti se bene 
intesi, indicano solo un Ente che può essere l’« Atto puro 
e immutabile » di Aristotele, la « Sostanza unica e infinita » 
di Spinoza, il « Legislatore dell’universo » degli Illuministi 
ecc.; termini tutti inadeguati ad esprimere il contenuto -di 
quel che s'intende quando si dice « Dio », la cui esistenza 
qui si cerca dimostrare. Nessuno di questi concetti Lo in- 
dica come l’Essere personale creatore e provvidente, cioè con- 
tiene quegli attributi che la coscienza religiosa od anche la 
semplice condizione umana gli attribuiscono. Ora, come so- 
pra abbiamo chiarito, l’ipotesi « Dio » nasce proprio dalla 
condizione umana, che Dio definisce in termini non dissi- 
mili da quelli della coscienza religiosa, ed è proposta alla 
ragione speculativa in tw4ta la ricchezza del suo contenuto. 
Pertanto la dimostrazione richiesta è di un Dio che soddisfi 
tutta la problematica della realtà umana — della vita spi- 
rituale e la stessa vita spirituale, come la sua esperienza reli- 
giosa — oltre a quella della realtà fisica. Non si può mo- 
nopolizzare il problema dell’esistenza di Dio; è necessario 
che la dimostrazione sia tentata con la presenza operante di 
tutti gli elementi e di tutti gli strumenti possibili, affinchè 
abbia tutta la sua forza e, nello stesso tempo, soddisfi tutti i 
problemi e i dati reali che l’hanno sollecitata. Si tratta di un 
problema che interessa il fondamento assoluto della realtà: 
come totale è la sua portata, così totale devono essere l’im- 
pegno e la possibile soluzione. Sarà razionale e dunque lo- 


92 Filosofia e Metafisica 





gica; ma la logica che esige, affinchè tutto il reale vi sia 
presente e tutti i sensi del problema vi si trovino concorrenti 
e solidali nella loro concretezza, è la logica dell’« integra- 
zione », di cui quella dell’« esclusione » è solo un momento 
nella prima contenuto. 


5. — Importanza dei « dati » psicologici nella dimostrazione 
dell’ipotesi « Dio ». 


Pertanto a noi sembra che non siano da trascurare tutti 
quei dati psicologici che, senza essere la prova, ne sono i 
preliminari: le « disposizioni » dello spirito nel loro insieme 
fanno parte dei « prolegomeni » di una dimostrazione con- 
creta dell’ipotesi « Dio». Evidentemente non si tratta di 
« metterle al posto » dell’argomentazione razionale, ma di 
giovarsi delle migliori o più favorevoli condizioni perchè la 
stessa forza della ragione possa esplicare tutta la sua capa- 
cità. Per esempio, liberarsi da alcuni pregiudizi — e il pre- 
giudizio è di natura psicologica — è una specie di purifi- 
cazione che agevola l’intrapresa della ragione; riconoscere 
che alcuni impedimenti sono apparenti o illogici — quali 
la pretesa che di Dio si abbia percezione immediata in modo 
da coglierne l’essenza senz'ombra di oscurità e mistero, o 
che la metafisica possa sottostare al metodo sperimentale, 
ecc. — è già un buon avvio. Così pure acquistar coscienza 
dell’estrema importanza del problema, rendersi conto che 
dalla risposta positiva o negativa dipendono l’orientamento, 
il valore e il significato della nostra come di ogni altra esi- 
stenza, è una disposizione non accessoria, in quanto rende 
cautissimi nell’argomentare e concludere, estremamente vi- 
gili e tesi sì da potenziare al massimo del loro rendimento 
tutte le risorse spirituali ed intellettuali: l’attenzione si fa 
attentissima, intensa, concentrata. Queste disposizioni hanno 
un valore più che psicologico: comportano la rettitudine 
della coscienza. Nè è da trascurare — anche se non deve so- 


L'esistenza di Dio 93 





stituire la dimostrazione — l’esperienza religiosa sia comu- 
ne che privilegiata, quella delle grandi umili anime misti- 
che e dei grandi spiriti religiosi, esempio dell’alta tensione 
operante esigita da una questione della portata di quella 
che qui si discute. Son tutte forze concorrenti, anche se non 
determinanti in sede filosofica, alla realizzazione di quel 
«clima spirituale », intellettuale e morale insieme, confa- 
cente ad un problema quale è quello dell’esistenza di Dio. 
In breve, crediamo che, per scoprire e penetrare tutta la 
verità della prova e poterle aderire, sia necessario conquistare 
la pienezza del nostro essere e ad essa affidarci. Ciò non 
significa che l’adesione alla prova dipenda senz’altro dalla 
nostra accettazione volontaria o dal rifiuto, come se essa 
fosse priva di verità « attraente », ma che tale condizione è 
elemento essenziale per cogliere tutta la sua forza razionale. 
Chi più ama, più conosce; non che l’amore faccia essere 
la verità di ciò che è vero, ma dà maggior penetrazione alla 
mente e contribuisce a farle scoprire ed intendere la verità. 

Sempre dal punto di vista dei dati psicologici, l’odierno 
«clima esistenzialista », quando non è deteriore retorica o 
decadentismo e maniera, come presa di coscienza della « con- 
dizione » umana, senso dell’indigenza, del peccato, della 
morte ecc. ha la sua importanza in sede di preparazione 
alla prova (7), anche se da solo insufficientissimo, in quan- 
to l’aspetto essenziale di tale preparazione è proprio il sen- 
so della positività del nostro essere, senza della quale «la 


(7) L'esistenzialismo, infatti, ha riportato sul tappeto della discussione, anche 
se spesso con travisamenti notevoli, la metafisica e i suoi problemi e ha contri- 
buito a richiamare l’attenzione sull'esperienza e i valori religiosi. In qualche 
modo, anche se entro certi limiti e in maniera molto discutibile, ha come « smon- 
«danizzato », esso mondano, Ja filosofia riconferendole un certo carattere teolo- 
gico. Ciò spiega, perchè i cosidetti sostenitori del « nuovo razionalismo » marxista 
e di tanti « nuovi umanesimi assoluti » combattono anche le forme atee di esi- 
stenzialismo, preoccupati che questo « stato d’animo », per sua natura, alimenti 
sotto le ceneri del « finito » un’esigenza religiosa e trascendentistica. Spiega ancora 
perchè qualche inguaribile cultore di « scienze mondane » abbia sprezzantemente 
qualificato la filosofia di un pensatore di rilievo una specie di « praefatio ad 
missam ». 


94 Filosofia e Metafisica 





condizione » umana sarebbe pura possibilità, illusione, nien- 
te: non vi sarebbe problema dell’uomo e della sua indigenza, 
nè di Dio (*). Ma anche nella sua pienezza, la preparazione 
psicologica non è la soluzione del problema, non data esclu- 
sivamente da un'esperienza di tal natura nè solo da quella 
religiosa, come sostiene il Bergson; è come dire che non 
vi è prova razionale oggettivamente valida dell’esistenza di 
Dio. D'altra parte, come ancora dice il Bergson, con un 
significato che non è precisamente il nostro, la soluzione va 
posta ed affrontata « sperimentalmente », cioè tenendo conto 
di tutti i fazt1, anche di quelli di natura psicologica, in quanto 
la vita stessa dello spirito è un fatto, la più alta realtà data 
alla nostra esperienza. Perciò come metodi e dati psicologici 
non debbono escludere od ostacolare metodi e dati razionali, 
allo stesso modo questi ultimi non debbono fare a meno dei 
primi, quasi il problema dell’esistenza di Dio fosse una 
questione di ragione astratta, di pura logica formale, di geo- 
metrica razionalità e fosse possibile operare un’astrazione 
dell’uomo concreto, quando, come abbiamo visto, dalla sua 
vita integrale nasce l’ipotesi « Dio ». Non comprendiamo 
perchè nessuno pretende di « liberare » il poeta, l’artista, lo 
scienziato da quelle condizioni preliminari che favoriscono 
la risposta al bello o al vero e perchè invece si vuol pretendere 


(8) L'esistenza come pura « possibilità » non è, è la non esistenza, cioè un 
non-senso. Non c’è dramma nè tragedia nè angoscia, in quanto fin dall’inizio 
ci si colloca nel nulla; si ha la certezza che la partita è perduta in partenza, 
dunque il giuoco è fatto. Ecco perchè l’esistenzialista s’inebria del nulla e del- 
l’assurdo dell’esistenza: non c’è più rischio, la catastrofe è scontata in anticipo; 
la tragedia, nel suo stesso porsi, si tramuta in farsa. Lo stesso si può dire del 
dialettismo dello Hegel; l’antinomismo dialettico, identificato con l’essenza stessa 
del reale e del pensiero, « divora » l'essere dall'interno e divorandolo lo ali- 
menta. Per conseguenza la tragedia del Reale, che è quella della Ragione, s’iden- 
tifica col modo con cui la Ragione tesse il suo idillio eterno. Tutto il senso tragico 
dell’antinomismo svanisce una volta che il male e l'errore, le cadute e le colpe 
sono necessarie alla vita della Ragione assoluta e al suo perenne conquistarsi: 
tutto è perfettamente ordinato, pacifico. Una volta che il nulla e la contraddi- 
zione si assumono al posto dell’essere, si accetta la negatività pura: non c’è più 
problema nè dell’esistenza nè del reale e perciò non c’è problema di Dio: c’'è_ 
l'assurdo all'inizio e alla fine. 


L'esistenza di Dio 95 





che il filosofo, il quale si accinge a provare, con le armi del- 
la ragione la più rigorosa ed intransigente, l’ipotesi « Dio » 
nascente dalla totalità del reale che da questa soluzione aspet- 
ta intelligibilità profonda, abbia a prescindere da tutti quei 
dati psicologici che fanno parte della concreta vita spirituale, 
la più impegnata nell’esito della ricerca. Infatti, la questione 
che si pone col problema dell’esistenza di Dio, è di sapere 
se i dati reali della nostra esperienza siano o no metafisica- 
mente intelligibili, in quanto tale intelligibilità dipende ap- 
punto dall’esistenza, o non, dell'Essere personale e trascen- 
dente, creatore e provvidente, principio esplicativo di ogni 
fatto 4/ di là di tutta la serie dei fatti. 


6. — La pregiudiziale critica da cui muove il problema del- 
l’esistenza di Dio. 


Notiamo a questo punto che il problema dell’esistenza di 
Dio e della metafisica in generale muove da una pregiudi- 
ziale critica, non da quella, propria di Kant, di saggiare, 
prima di affrontare il problema, le capacità della ragione — 
farla giudice di se stessa: imputata e giudice insieme — 
per accertare se abbia o no il diritto di oltrepassare l’esperien- 
za, bensì dall’altra che l’esperienza stessa e quanto in essa 
è dato, approfonditi criticamente, restano metafisicamente 
inintelligibili, se quel problema non si pone e non si risolve. 
Per conseguenza il problema dell’esistenza di Dio s'inserisce 
alla radice stessa del problema critico. Ma ciò non deve in- 
durci, senza sufficienti prove razionali, ad ammettere ugual- 
mente che Dio esiste (conclusione « edificante », ma non fi- 
losofica) per il timore che altrimenti tutto sarebbe inintelligi- 
bile. D'altra parte, proprio l’esperienza della nostra finitezza 
e di ogni cosa esistente, tutta l’esperienza non bastante a sè 
stessa e perciò incapace di autospiegarsi, pone il problema 
della sua intelligibilità e con esso fa nascere l’ipotesi « Dio » 
come possibile soluzione: il finito come tale esige il che 


% Filosofia e Metafisica 





cosa lo spieghi e giustifichi. Che non può essere pure un 
finito, in quanto ancora problema e non soluzione; dunque, 
se è, dev'essere « qualcosa che esiste da sè », che, principio 
di se stesso, può rendere conto definitivo ed ultimo di quan- 
te cose esistono « non da sè ». Non è neppure un qualcosa 
ma un Chi, Ego, in quanto non una Cosa può essere il Prin- 
cipio delle cose tutte, ma il Soggetto assoluto, l’Intelligenza 
suprema. È precisamente l’ipotesi dell’esistenza di Dio. 


7. — La realtà spirituale punto di partenza della dimostra- 
zione dell'ipotesi Dio”. 


Prima di procedere fissiamo qualche conclusione utile a 
precisare i termini della questione: 4) il problema dell’esi- 
stenza di Dio è posto da dati reali, dalla condizione di reale 
finito del mondo umano e naturale; 5) questo, come finito, 
non può avere in se stesso il suo principio e pone il pro- 
blema della sua origine e della sua suprema intelligibilità; 
c) per conseguenza, la dimostrazione della verità o no della 
ipotesi « Dio », non può non partire dalla realtà finita che 
la fa nascere e la presenta alla riflessione: dall’esistenza di 
esseri limitati, dal fatto che degli enti sono, senza essere il 
principio di se stessi. Mettiamo da parte inizialmente, salvo a 
saggiarne in seguito la validità e a recuperare il recupera- 
bile, la prova che muovendo dall’Idea di Dio, 4 priori, at- 
traverso l’analisi del contenuto dell’Idea stessa, ne deduce 
l’esistenza. 

Accettato come punto di partenza il reale contingente fi- 
nito, ci sembra quanto mai conveniente ed anche necessario 
muovere da quell’ente che presenta una maggiore comples- 
sità e ricchezza di contenuto e ne è il grado più alto, tanto 
da non essere una parte tra le altre dell’universo, ma come 
il centro e la sintesi; e più ancora, in quanto il compimento 
della vita spirituale di un solo uomo trascende l’universo 
intero. L’uomo non è soltanto un reale finito, ma è il solo 


L'esistenza di Dio 97 





dotato di pensiero, capace di volere e conoscere razionalmen- 
te, di riflettere. Solo egli, infatti, tra gli enti finiti di cui ab- 
biamo esperienza, si pone il problema dell’intelligibilità me- 
tafisica della sua esistenza e con esso l’ipotesi « Dio ». D'altra 
parte, anche se scegliamo come punto di partenza quel reale 
finito che è il mondo detto materiale, o un suo particolare 
aspetto, siamo sempre costretti, come già accennato, a porlo 
come oggetto di pensiero, cioè a considerarlo per quanto ha 
di intelligibile: perciò l’oggetto del nostro pensiero non è 
il mondo materiale come tale, ma i suoi elementi concettuali. 
Il punto di partenza, anche in questo caso, è sempre l’uomo 
soggetto pensante e capace di conoscenza razionale, cioè sono 
i dati mentali che non sono le cose materiali, ma il risultato 
della riflessione su di esse. 

D'altra parte, l’uomo non potrebbe pensare se non fosse 
e non vivesse, se non fosse un essere vivente, ma l’essere e 
il vivere non implicano necessariamente il pensare. Infatti, si 
può essere senza vivere e pensare (una pietra), ma non si può 
vivere senza essere (il vivere importa necessariamente l’es- 
sere); però si può vivere senza pensare (una pianta, un cane), 
mentre non si può pensare senza essere e vivere, almeno 
nella condizione terrena degli esseri pensanti: dunque il pen- 
sare implica l’essere e il vivere (*). Di qui: 4) il pensare è 
superiore all’essere e al vivere: non si può pensare senza es- 
sere e vivere, ma il pensare non è attributo essenziale di ogni 
essere e di ogni vivente, bensì di una specie di esseri viventi 
e dunque è è più del puro essere e del puro vivere in quanto 
coscienza di essere e di vivere e, posto, implica gli altri due; 
5) il soggetto pensante, che come tale implica nell’ordine na- 
turale l’essere e il vivere, è quel dato reale che, nella sua in- 
terezza di organismo e pensiero, di materia e spirito, è ciò 
che sono le altre cose non pensanti, essere e vita, più quello 
che non sono, pensiero. Dunque, nella sua interezza, pos- 


(9) S. Agostino, De libero arbitrio, L. Il, c. 3, n. 7. 


98 Filosofia e Metafisica 





siede, in questo senso, tutti gli elementi essenziali della real- 
tà finita. Dovendo partire per la dimostrazione dell’ipotesi 
«Dio » dai reali finiti, mi pare estremamente conveniente 
scegliere come punto di partenza quello che è (come sono tut- 
ti gli esseri), vive (come quanti di essi sono organismi) e 
pensa (come solo a lui è concesso); che dunque assomma in 
sè tutte le categorie essenziali del reale. Ma è solo conve- 
niente, o anche necessario? 

Abbiamo detto che, tra tutti gli enti finiti, l’ipotesi «Dio» 
nasce nell’uomo, sia dalla riflessione sul mondo fisico come 
indica la semplice domanda: «chi ha mai fatto tutte que- 
ste cose? », sia da quella su se stesso. E’ su quest’ultima che 
dobbiamo portare la nostra attenzione al fine di ricavarne 
quanti elementi preliminari ci è consentito dal rigore della 
ricerca e dall'obbligo di non pregiudicare la dimostrazione. 

Come abbiamo già detto, l’uomo ha coscienza della sua 
finitezza e contingenza, che è però anche e innanzi tutto con- 
sapevolezza di essere, della miseria del dolore e della morte, 
di quanto lo fa consapevole che non basta a se stesso, 20 è 
da sè. La consapevolezza di tale condizione è propria del- 
l’uomo: è dell’infelice e solitario pastore errante dell’Asia non 
del gregge pago del suo stato perchè inconsapevole. Dunque, 
l’ipotesi « Dio » è posta e la sua dimostrazione richiesta dal- 
l’uomo per l’uomo, quasi appello della sua condizione af- 
finchè tenti di capire veramente qualcosa di essenziale e de- 
finitivo della propria esistenza e del suo significato. In altri 
termini, l'ipotesi « Dio » non nasce dal dato contingente co- 
me tale, pura empiricità, ma dalla coscienza o dalla consape- 
volezza della sua contingenza, cioè da un elemento spiritua- 
le; non dal puro fatto — a cui si ferma la mentalità positi- 
vista, che perciò fa a meno di Dio e, neppure sfiora il pro- 
blema dell’intelligibilità metafisica del reale — ma dalla co- 
scienza del fatto, che importa già una valutazione di esso e 
un passaggio dal piano empirico a quello ontico o dell’essere. 


L'esistenza di Dio 99 








del dato stesso. Questo, il dato da cui nasce l’ipotesi « Dio » 
e da cui bisogna partire. 

Abbiamo anche accennato all’aspetto religioso del proble- 
ma: alla essenzialità di Dio per l’esperienza religiosa, all’im- 
portanza che essa ha per una possibile dimostrazione raziona- 
le (!9). Non si dimentichi che il problema filosofico dell’esi- 
stenza di Dio si pone quale indagine razionale intorno al 
termine così come è definito sulla base della condizione uma- 
na e creduto dalla fede religiosa; alla ragione si chiede di 
dimostrare la verità di quel che si crede affinchè l’uomo 
« sappia » che è vero quello che «crede ». Chi rinunzia a 
partire dall’uomo, si priva in partenza dell’esperienza umana 
e religiosa, a cui il problema appartiene e che lo presenta al- 
l’esame della ragione, lo depaupera, quasi lo appiattisce. Dal 
filo d’erba non ci sembra si possa arrivare al Dio dell’espe- 
rienza umana in tutta la sua pienezza e della coscienza reli- 
giosa; d’altra parte, niente autorizza od obbliga la ricerca a 
prescindere dall’uomo, che quel problema vede nascere dal- 
la sua condizione. 

Ammettiamo che ogni ente di natura abbia una finalità, 
cioè che la sua vita si esplichi attraverso mezzi necessari di- 
sposti e combinati in modo da raggiungere il fine che le è 
proprio e precede e domina la disposizione e la combinazione 
dei mezzi stessi (!!). E’ evidente che esso: 2) non ha la cono- 
scenza del fine; 3) non si da sè la capacità di disporre e com- 
binare i mezzi per il suo raggiungimento; dunque, con- 
clude, la finalità naturale presuppone un’Intelligenza che 
non è nelle stesse energie vitali ma ad esse s'impone. Ciò im- 


(10) Giustamente è stato notato (H. De Lusac, De /a connaissance de Dieu, 
Éditions du Temoignage chretien, 1941, p. 54) che la nostra epoca ha perduto, 
almeno temporaneamente, « il gusto di Dio »; se questo gusto tornasse, le prove 
riapparirebbero « plus claires que le jour ». 

(11) Com'è noto, la biologia ammette con fondatezza una finalità degli orga- 
nismi viventi, una specie di loro « pensiero » embrionale o di orientamento delle 
forme della loro attività vitale verso una unità di realizzazione quasi che tale 
attività sia dotata di una specie di « potere sintetico ». 


100 Filosofia e Metafisica 





porta: ) dell’intelligenza che il mondo fisico presuppone c'è 
conoscenza mediata, mentre l’uomo ha esperienza immediata 
di essa in quanto ne è dotato, egli stesso « fatto » sperimentale 
della presenza dell’intelligenza; 4) le cose non hanno consa- 
pevolezza del fine a cui sono ordinate, nè sanno che il loro 
ordine presuppone un'intelligenza, mentre l’uomo ha consa- 
pevolezza del suo fine, esperimenta direttamente in sè l’in- 
telligenza, sa che non si è autoposto come essere intelligente; 
dunque sa che il suo essere ente intelligente pone il problema 
della sua origine come tale. In breve, il problema del riman- 
do dalla finalità delle cose all’Intelligenza da cui sono state 
ordinate non nasce direttamente e direi spontaneamente co- 
me quello del rimando dall’uomo-ente intelligente all’Intelli- 
genza da cui è intelligente; l’esperienza immediata che l’uomo 
ha di se stesso come ente intelligente fa che sia più diretta 
efficace sicura la via dall'uomo a Dio, mentre l’altra dalle 
cose (in questo caso dalla loro finalità) è indiretta e si conside- 
ra in un secondo tempo. Senza dire che la vita dell’ente in- 
telligente comporta tale ricchezza di esperienza e di valori co- 
‘ noscitivi, morali, estetici, religiosi da far sembrare ben povera 
cosa la finalità inconsapevole del mondo fisico. 

Un'altra considerazione ci sembra decisiva per accettare 
il reale-uomo come punto di partenza della dimostrazione 
dell’esistenza di Dio. Più di ogni altra cosa e della sua stessa 
esistenza all’uomo interessa sapere che cosa sia vero di quan- 
to conosce e bene di quanto vuole, cioè se è capace di cono- 
scere la verità a cui è obbligato ad uniformare la propria 
condotta. D'altra parte, se l’uomo non fosse capace di giu- 
dizi veri, non potrebbe niente dimostrare e non penserebbe 
neppure; se ragiona, discorre, dimostra lo fa in base a norme 
che considera vere, cioè oggettivamente valide e tali da ga- 
rantire la veridicità dei suoi giudizi e delle sue dimostrazioni. 
Per conseguenza, quando, stimolato dalla sua condizione, con- 
sidera l’ipotesi « Dio » e ne tenta la dimostrazione, si consi- 


L'esistenza di Dio 101 





dera già in possesso di alcune verità che rendono validi i suoi 
giudizi. Ma qui sorge un problema, quello del fondamento 
metafisico della conoscenza: le verità fondamentali e prima- 
li, senza cui non vi sarebbe discorso e dimostrazione, sono il 
prodotto della mente, «poste » da essa, o sono alla mente 
« presenti » e da essa soltanto « scoperte »? Nel primo caso 
la loro validità si presenta notevolmente sospetta, in quanto 
il prodotto della mente mutevole, capace di errore, di un esse- 
re finito e contingente non dà alcuna garanzia di universali- 
tà, immutabilità e necessità, cioè di possedere gli attributi 
essenziali alla verità. D'altra parte, la nostra stessa contingen- 
za e finitezza ci lascia perplessi nè ci convince di essere noi 
i « creatori » della verità; se non altro lascia in dubbio e in- 
duce a pensare che se mai siamo « portatori » attivi di essa, 
che in questo caso è «oggetto » della nostra mente e, co- 
me tale, da essa conosciuta ma non creata. Ma se è così, 
la presenza oggettiva della verità alla mente, da essa cono- 
sciuta o scoperta, pone il problema della sua origine e del 
come ne siamo in possesso, cioè del da dove sia entrata in noi. 
Problema che l’uomo non può lasciare sospeso o trascurare, 
in quanto si tratta di sapere qual’è la provenienza di quel- 
l’ordine di verità intellettuali e morali in base a cui pensa ed 
agisce, attua la sua vita spirituale; è il problema della intelli- 
gibilità profonda del reale non solo umano ma anche naturale, 
in quanto le cose sono intelligibili per il loro ordine, da cui, 
come sappiamo, nasce, quale eventuale soluzione, l’ipotesi 
« Dio ». 

Ammettiamo pure provvisoriamente che sia conveniente e 
necessario partire dalle cose del mondo esterno invece che 
dalla realtà-uomo, disposti anche a sacrificare l'apporto della 
vita spirituale mobilitata in tutta la sua pienezza. Evidente- 
mente la dimostrazione o la catena dei ragionamenti si ser- 
ve di norme o principî che considera veri, cioè oggettiva- 
mente validi (per esempio, il principio di causalità), tali da 


102 Filosofia e Metafisica 





garantire la veridicità del discorso. Ma il servirsi di essi im- 

rta già avere risolto il problema, da noi posto sopra, del- 
l'origine della verità di cui la mente umana è capace, se suo 
prodotto o suo oggetto e, in quest’ultimo caso, del come ne 
sia in possesso. Dunque il punto di partenza dalle cose ma- 
teriali presuppone quello da noi scelto, dall’ente razionale, 
il solo capace di un ordine di verità, ed in esso resta incluso. 
Se si dice che nell’uomo non vi è nulla di necessario e immu- 
tabile, in tal caso: @) si nega che egli possieda verità e con 
ciò stesso che possa provare l’ipotesi « Dio »; 5) non si 
spiega come avverta la sua contingenza e finitezza nè quella 
delle altre cose, avvertibili solo se ha una certa nozione di 
ciò che è necessario e infinito, cioè se sa cosa significhi la 
parola « verità ». Ma il solo sapere che è verità è già una 
verità e, come tale, qualcosa di immutabile e necessario, che 
appunto consente all'uomo di conoscere che lui e tutte le 
cose finite sono contingenti e mutevoli. Ed ecco che questa 
condizione di un contingente in cui è in certo modo presente 
un che di immutabile, infinito e necessario pone il problema 
della propria intelligibilità e con esso l’ipotesi « Dio ». Da 
qualunque punto di vista si consideri la questione, il pro- 
blema dell’esistenza di Dio si presenta come essenzialmente 
antropologico e solo subordinatamente cosmologico. Non pro- 
blema posto da qualcosa di astrattamente concettuale nè dalle 
cose materiali, ma che interessa la realtà umana integrale, 
considerata nella sintesi dinamica e nella compresenzialità 
di tutti gli elementi che la costituiscono, desiderosa d’intelli- 
gibilità totale e perciò nello stazo reale di aspirazione al pos- 
sesso della suprema verità metafisica, fondamento e prin- 
cipio dell’intelligibilità della vita spirituale. L'ipotesi « Dio » 
è suscitata dal bisogno di una conoscenza radicale del reale 
finito, dall’urgenza di sapere se gli esseri contingenti abbia- 
no o no un senso assoluto. 

Si tratta di un'esigenza, e dalla sola esigenza non si può. 


L'esistenza di Dio 103 








concludere all’affermazione; tuttavia, non si può negare che 
essa, non dimostrativa per se stessa, è almeno indicativa. Nel 
nostro caso, indica una condizione reale della vita dello spi- 
rito e precisamente quella di conoscere la verità della sua 
verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo 
la verità che vuol conoscere, anche la più elementare e po- 
vera, ha sempre come scopo ultimo, anche senza esplicita con- 
sapevolezza, di acquistare una maggiore conoscenza della 
verità di se stesso e della realtà finita in generale. In questo 
senso, sia pure oscuramente, anche inconsapevolmente, cer- 
care è cercare il senso assoluto dell’esistenza, la sua intelligi- 
bilità metafisica; ma è questo il problema donde nasce l’ipo- 
tesi « Dio »; dunque cercare è sempre porsi, anche indiret- 
tamente, il problema dell’esistenza di Dio, dell'Essere perso- 
nale e trascendente. Vi è nello spirito, per il fatto che si av- 
verte finito, un senso immanente dell’Essere che l’oltrepas- 
sa (!); c'è una nozione oscura, implicito originario, di 
quella che poi l'indagine speculativa chiarisce e precisa co- 
me Idea di Dio. Il problema dell’uomo, quello detto psico- 
logico-antropologico, è intimamente legato al problema del- 
l’esistenza di Dio; porsi l’uno è porsi anche l’altro. Le realtà 
psicologiche pongono l’ipotesi « Dio » (psicologismo che non 
è affatto soggettivismo) la cui dimostrazione investe il loro 
significato totale ‘e assoluto, la loro intelligibilità (teocentri- 
smo). Reali, dunque, i dati da spiegare, realista il metodo 
della ricerca; la finitezza dell’ente contingente e aspirante a 
sapersi fino in fondo è un fatto, come è un fatto la sua aspi- 
razione all’Assoluto. D'altra parte, non vi sarebbe quest’ulti- 
ma se nello spirito finito non fosse presente una certa nozio- 
ne dell’assoluto infinito, oscura e confusa quanto si voglia. 


(12) Non si fraintenda: non immanenza della trascendenza nell’ente finito 
come quella che è « posta » dallo stesso ente finito, per cui la trascendenza si 
risolve nell’immanenza dell'atto che la pone o in una condizione dell’esistente — 
pseudo-trascendenza di alcune forme di idealismo immanentista e di esistenzia- 
lismo — ma presenza della trascendenza all’ente finito come presenza dell’Essere 
che l’uomo non pone e dal quale è posto e oltrepassato. 


104 Filosofia e Metafisica 





Il dato uomo è costituito da un insieme di dati, di cui deve 
tener conto, proprio per rigore e scientificità d’indagine, qua- 
lunque tentativo di dimostrazione dell’ipotesi « Dio» per 
saggiarne l’importanza, la portata e quel che significa o in- 
dica la loro presenza. 

Cogito, ergo sum; ma nè il cogitare, nè il mio esse si spie- 
gano da se stessi non essendo assoluti ed infiniti. La celebre 
formula cartesiana, che qui non discutiamo, non dà dun- 
que la soluzione del problema di me ente finito, bensì indica 
solo la mia condizione di essere pensante. Ma proprio questa 
condizione pone il problema di se stessa o se stessa come pro- 
blema; pensiero ed essere sì, ma finiti; dunque il mio essere 
come il mio pensiero sono dati; ma donde sono essere e pen- 
siero o n essere che pensa? È evidente che il cogito, ergo 
sum suscita il problema del da chi sono stato pensato e sono 
pensato per esistere come essere finito pensante. Fino a quan- 
do non l’avrò risolto non possiederò l’intelligibilità piena del 
mio essere e ignorerò le radici del mio pensare e conoscere. 
Qual’è il principio che fa essere me cogitante? Pongo l’ipo- 
tesi « Dio ». Nel caso che riescirò a provarla, concluderò che 
l’Essere personale e trascendente mi ha fatto e mi fa essere 
un ente pensante; pertanto, non dirò più Cogito, ergo sum, 
ma in maniera completa e più vera: Cogitatus sum et cogitor, 
ergo sum ens cogitans. Questa formula non esprime più sol- 
tanto, come quella di Cartesio, il dato di fatto della mia real- 
tà, la coscienza che ho del mio esistere, ma anche e, in pri- 
mo'luogo, la intelligibilità radicale e profonda di me. Per 
la soluzione del problema metafisico che comporta, essa fa 
che io contingente e finito mi avverta ormai bastevole a me 
stesso nella conoscenza della radice metafisica del mio essere, 
del mio vivere e del mio pensare, nella spiegazione e giu- 
stificazione del senso assoluto della mia esistenza e della 
mia vita, del mio conoscere e volere. 

Non è forse superfluo avvertire, ad evitare interpretazio- 


L'esistenza di Dio 105 





ni errate, che qui non si sostiene affatto la tesi di un universo: 
in sè assurdo, il quale acquista senso intelligibile solo se si 
ammette l’esistenza di Dio. Infatti l'affermazione, « l’univer- 
so è in sè assurdo », non comporta neppure la formulazione 
dell’ipotesi, che non ha senso quando si è già concluso che 
l’universo è assurdo; anzi si può pensare assurdo solo per- 
chè in partenza è escluso che Dio esiste. Quell’affermazione 
è conclusiva; perciò non ha senso dire che solo ammettendo. 
l’esistenza di Dio l’universo acquista un senso. Pertanto, per 
il fatto stesso che l’ente pensante si pone il problema del- 
l’esistenza di Dio, almeno non si può escludere a priori che 
l’universo abbia un senso; ma, se è così, risulta senza senso 
la tesi di un fideismo aberrante: l’universo in sè è assurdo, 
ma «ciononostante » ammetto l’esistenza di Dio e dunque 
tutto mi diventa comprensibile. Tutto, tranne che esista Dio, 
se l’universo è assurdo. « Non è Dio che non accetto, com- 
prendi », dice l’ateo Ivan nei Karamézov, « ma il mondo da 
lui creato; è il mondo di Dio che non accetto e non posso ri- 
solvermi ad accettare ». Già, perchè assurdo o tutto negativo; 
dunque non può accettare neppure Dio. Qui si annida an- 
che un sofisma: se tutto nell’universo è assurdo, è anche 
assurda l’affermazione che tutto è assurdo, ma chi con- 
clude che tutto nell’universo è assurdo, ritiene vera, non 
assurda, questa conclusione: dunque non tutto è assurdo in 
quanto ammettere che una cosa è vera è ammettere un pen- 
siero capace di verità. Qui appunto nasce il problema: per- 
chè nel mondo c’è il pensiero? perchè ci sono io che penso? 
donde sono? Ciò pone l’ipotesi « Dio » e fa che sia « ragio- 
nevole », conveniente senza limitazioni alla ragione, e sia 
« assurdo » il non porla o rigettarla senza previa discussione 
impegnatissima. 

Da ciò consegue che il senso assoluto del reale che cer- 
chiamo scoprire non può essere immanente alla stessa realtà 
finita. Se così fosse, non penserei all’ipotesi « Dio » in quanto. 
l'oggetto della mia ricerca continuerebbe ad essere la realtà 


106 Filosofia e Metafisica 


mondana; dunque, il solo porre l’ipotesi già orienta in altra 
direzione, in quella dell’esistenza dell'Essere « trascendente ». 
Per conseguenza la posizione razionale del problema sem- 
bra essere la seguente: 4) esiste la realtà finita e contingente; 
5) come tale, mi suggerisce l'ipotesi dell’esistenza dell'Essere 
da sè esistente e di essa principio; c) dunque, l’Essere esi- 
stente da sè non posso cercarlo tra gli enti finiti, nessuno 
dei quali è assoluto ed incondizionato, e neppure nell’unità 
o totalità (nel « mondo ») degli enti finiti — Dio come unità 
impersonale è la più povera ed inerte delle finzioni —; d) i 
quali, tutti contingenti, attestano una dipendenza comune. 
Provare la verità dell’ipotesi « Dio» significa scoprire se 
esiste l’Essere incondizionato autosufficiente da cui tutto di- 
pende e a cui tutto tende, consapevolmente o inconsapevol- 
mente. 


Carrroro II 


LA DIMOSTRAZIONE 
DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: 


A) DALLA VERITA’ 


1. — Impostazione dei termini del problema. 


Da quanto abbiamo detto risulta che la nostra integra- 
zione del Cogito cartesiano è di fondamentale importanza. 
Essa porta implicita questa affermazione: io sono coscienza 
pensante perchè l’Essere che è il Pensiero mi ha fatto e mi 
fa essere, mi ha pensato, mi pensa e mi penserà. Ciò signi- 
fica che il mio pensiero — come quello di ogni ente pen- 
sante e di tutti, il pensiero umano o dell’ordine naturale in 
generale -— non è principio di se stesso, non il Primo meta- 
fisico, anche se causa di ciò che pensa; rimanda al suo Prin- 
cipio, è pensiero dal e per il Pensiero: è ed è pensante per- 
chè è stato pensato. Qui la differenza radicale (metafisica) tra 
l’idealismo trascendentista-teologico-teocentrico e l’idealismo 
trascendentale-mondano-antropocentrico, che è egocentrismo 
ed egotismo anche quando è etica del dovere; scettici 
smo, anche quando è panlogismo o sistema della scienza 
assoluta. Il primo è idealismo del pensiero che rimanda al 
Pensiero, dell’essere che si abbevera, si innova, si arricchisce 
e si compie nell’Essere; l’altro è idealismo del pensiero uma- 
no o naturale — tutto immanente al « mondo » con cui si 
identifica e perciò cosmico o cosmologico e non vera vita 
spirituale — assolutizzato con un atto irrazionale, che, fa- 
cendone il Primo metafisico, lo chiude in se stesso, lo re- 


108 Filosofia e Metafisica 





cide, appassisce, essicca, in quanto lo strappa al Pensiero, fon- 
te di ogni pensiero, all’Essere da cui deriva il suo essere, per 
farne il Tutto, la cui condanna è il suo nulla, il Nulla. Il 
dilemma dei due idealismi è il dilemma dell’uomo, della 
realtà, della verità: o l’uomo, il reale, il vero sono da Dio 
e l’uomo è uomo, il reale è reale e il vero è vero; o l’uomo, 
la ragione naturale, il mondo e le verità umane sono essi 
stessi l'Assoluto, il Primo, e questo tutto, fatto irragionevol- 
mente i/ Tutto, precipita nel Nulla. O l’idealismo del Pen- 
siero e degli enti pensanti, quello del cogitazus sum et cogitor, 
o l’idealismo del pensiero immanente che si autopone (e 
perciò si autonega) come Pensiero assoluto, quello che, da 
Cartesio, gradualmente, ha penetrato il pensiero moderno e 
si è sviluppato fino a culminare nello Hegel; dopo lo He- 
gel, precipitosamente, è sboccato, con rigorosa consequenzia- 
lità, nelle odierne filosofie del « Nulla », del « problema », 
delle « convenzioni », della pura « metodologia ». Era neces- 
sario, affinchè fosse chiara la posizione dei due idealismi, 
anticipare queste affermazioni, che il seguito del nostro di- 
scorso cercherà di approfondire. 

Il problema che poniamo è quello della verità della mia 
esistenza e di quella di ogni ente finito. In altri termini: io 
sono l’assoluta verità di me stesso, o sono dalla e per la 
Verità? Il problema dell’esistenza di Dio è quello della veri- 
tà o dell’essere di ogni ente, dell’ intelligibilità metafisica del 
reale o del senso assoluto dell’ente finito. Indagare se Dio 
esiste è sondare se vi è la verità della verità di ogni ente crea- 
to e della verità che è in ciascun ente pensante. Se il pro- 
blema è quello della verità degli enti, ancora una volta ri- 
sulta necessario muovere dall’uomo, il solo, tra gli enti finiti, 
che concepisce il suo esistere in termini di verità o d'’intelli- 
gibilità. Infatti, non la pura sensazione immediata fa sor- 
gere in noi il problema dell’esistenza di Dio, ma la riflessione 
sulle cose. E riflessione significa mediazione, giudizio; ma 


L'esistenza di Dio 109 





non c’è giudizio senza l’applicazione o l’uso di principi in 
base a cui si giudica. D'altra parte, se dall’ordine delle cose 
materiali finite e contingenti, come dal fatto che sono do- 
tate di movimento, si argomenta intorno all’esistenza di Dio, 
si fa uso di alcuni principi, per esempio di quello di cau- 
salità. 

In tal caso, l’argomentazione a favore dell’esistenza di 
Dio dal mondo esterno si fonda sulla validità oggettiva di 
quel principio, cioè su una verità; pertanto il problema pri- 
mo è di sapere se la mente umana sia capace di verità, come 
si trovino in essa o in qual modo le acquisti. Senza verità 
universalmente valida nessun giudizio e nessuna argomen- 
tazione oggettiva sono possibili; similmente non nascerebbe il 
problema dell’esistenza di Dio, se mancassimo completamen- 
te della nozione di una realtà non contingente e assoluta, 
se non fosse in noi una presenza oscura ed operante di quel 
che cerchiamo; se non fossimo in qualche modo nell’essere, 
cioè se non ne partecipassimo analogicamente; dalla totale 
contingenza e relatività non nasce il problema del necessa- 
rio e dell’assoluto. La dimostrazione dell’esistenza di Dio 
non può partire che dalla verità; ma essa è per sua natura 
intelligibile, oggetto di un pensiero; dunque la prova non 
può partire, tra tutti gli enti finiti e contingenti, che dal- 
l’ente che è mente, pensiero, spirito: dall'uomo o dalla vita 
spirituale. 

La posizione del problema si va sempre più precisando: 
a) dagli enti finiti e contingenti; è) da quelli di essi che 
sono menti o spiriti c) dall’oggezto delle menti; cioè dalla 
verità non contingente e non finita di cui sono capaci, dato 
che la verità non può essere che oggetto o contenuto di una 
mente. Se si prova che la mente finita è capace di verità e 
dalla presenza di essa alla mente l’esistenza di Dio, l’argo- 
mentazione può muovere anche partendo dalle cose mate- 
riali, in quanto sappiamo che c’è verità e siamo capaci di 


110 Filosofia e Metafisica 





conoscerla, che la validità dei nostri giudizi è garantita dal- 
la oggettività di alcuni principi; non è una nuova dimostra- 
zione, bensì un’applicazione di quella dalla vita dello spi- 
rito, giacchè la verità della seconda prova è condizionata, 
dipendente, da quella della prima, che la include, come in- 
clude le altre; di qui la sua superiorità, tanto da essere l’uni- 
ca prova dell’esistenza di Dio, fondamento di tutte. 

Così impostata, la questione si presenta sotto forma di 
dilemma: o vi è verità e la mente umana ne partecipa, e vi 
è problema e dimostrazione dell’esistenza di Dio; o verità non 
è, o, se è, la mente umana non ne partecipa affatto, e non 
vi è problema nè dimostrazione. Il nihilismo, lo scetticismo, 
l’agnosticismo, il relativismo assoluti, negando che vi è o 
si possa conoscere una verità necessaria universale immutabile, 
negano con ciò stesso il problema e l’esistenza di Dio: per 
loro essenza, come pensiero sono atei. Resta da dimostrare 
però che non vi è verità e, se vi è, la mente umana non 
ne partecipa; cioè se tali affermazioni sono razionali, abbiano 
un senso comprensibile. Nè si dica che vi è verità, sì, ma 
tutta umana, del solo ordine naturale o della sola universale 
ragione e ad essa immanente, perchè se la ragione si fa crea- 
trice di verità assoluta, si divinizza contro ragione: mute- 
vole e finita, è capace di « scoprire » verità assolute e non 
di «crearle ». Se si nega la trascendenza della Verità, non 
si può ammettere nè dimostrare — ragionevolmente ammet- 
tere e razionalmente dimostrare — che la ragione conosca 
verità assolute, per il semplice fatto che si è negata la ve- 
rità nel momento stesso che la si fa figlia della ragione na- 
turale finita e mutevole: o verità non è, ma se è, la ragione 
oltrepassa in quanto è alla ragione data e non da essa posta. 
In altri termini: o non è verità e si arriva alla conclusione 
assurda e contraddittoria che « è vero che niente è vero »; 0 
è verità, e c'è un dl di là dalla ragione; se non c’è, di nuovo, 
c’è il niente di verità. 


L'esistenza di Dio 116 








2. — Gli element: del giudizio e il problema della sua vals- 
dità. 


Affinchè sia un giudizio sono indispensabili: 4) un sog- 
getto razionale pensante e giudicante; 5) un dato da giudi- 
care; c) delle norme o principi in base a cui giudica. Atti- 
vità giudicante, nell’ordine della natura, è soltanto l’uomo; 
in quanto ente razionale giudica, gli altri enti sono giudi- 
cati. Ma l’ente giudica sulla base di alcuni principî di giu- 
dizio, non solo le cose, ma anche se stesso e gli altri enti 
pensanti, e ogni singolo ente pensante se stesso e gli altri. 
Da ciò consegue che, per quanto poco conto possa fare delle 
umane facoltà razionali, so che la conoscenza sensoriale nella 
sua pura empiricità, è un grado conoscitivo inferiore a quel- 
la concettuale. Infatti, anche quando giudicassi che nessun 
concetto o giudizio è vero e che la verità è nella sola e pura 
sensazione, sarebbe sempre un giudizio quello con cui con- 
sidero vera la sensazione e falso il concetto; ma il giudizio 
con cui giudico vera la sensazione non è dovuto alla mia atti- 
vità sensitiva nè da essa derivato, bensì alla mia attività ra- 
zionale; anche in questo caso, è quest’ultima a pronunziare 
un giudizio di veridicità della conoscenza sensoriale e di 
erroneità di quella concettuale; ma il giudizio con cui giu- 
dico vera la prima e falsa la seconda è una conoscenza con- 
cettuale, la quale, proprio per il fatto che si esprime in un 
giudizio, è superiore ad ogni conoscenza sensoriale, di cui, 
contraddittoriamente, le si vuole contrapporre la superiorità. 
Ora è evidente: se la ragione giudica la sensazione non può 
essere da essa giudicata; ma la giudica in quanto fa uso di 
principî, senza di cui non potrebbe formulare giudizi. Per 
conseguenza: se non c’è giudizio senza il soggetto giudican- 
te secondo i principî del giudizio, la verità di ogni giudizio 
non risiede nel soggetto giudicante contingente e finito — o 
nella ragione per se stessa, anch'essa finita e mutevole — nè 
nella cosa sottoposta a giudizio, anch’essa contingente, finita 


112 Filosofia e Metafisica 








ed inferiore allo stesso soggetto pensante per il fatto che è 
giudicata e incapace di giudicare e giudicarsi, ma nei prin- 
«pi secondo cui il soggetto giudica (!). Dunque vi è giu- 
dizio vero, oggettivamente valido, in quanto la ragione nel 
giudicare si serve di regole, di principî necessari, immutabili, 
universali, assolutamente validi. Non sono pure « condizio- 
ni» del conoscere in sè vuote come le « forme a priori » 
kantiane, ma conoscenze primali, originarie, fondamento di 
ogni conoscenza vera. Che l’uomo sia capace di giudizi veri 
ci risulta dall’aver prima dimostrato che nessuna forma di 
scetticismo, com'è provato dallo stesso argomento dello scet- 
tico, può negare che l’uomo sia capace di verità; ma basta 
che egli lo sia anche di una sola, perchè consegua: 4) che 
è capace di giudizi veri; 4) che sono presenti alla sua mente 
alcuni principî, fondamento della veridicità di ogni giudi- 
zio vero. 

Infatti, chi dubita conosce qualcosa di vero, se non altro 
che dubita ed esiste come ente che dubita e s’inganna (si 
fallor, sum). Ma, come rileva Agostino (De vera religione, 
c. XXXIX), chi conosce qualcosa di vero lo conosce per la 
verità, dato che « tutto ciò che è vero, è vero per la verità ». 
La profondità di questa argomentazione non risiede nel pro- 
vare che l’uomo conosce alcune verità, tra cui prima quella 
di non poter dubitare dell’esistenza di se stesso come dubi- 
tante ed ingannantesi, ma nel rilevare che la presenza in 
noi di un solo vero sarebbe impossibile senza la presenza del 
lume della verità: se siamo capaci di una sola verità, c’è in 
noi la verità. Da ciò consegue: 4) ogni particolare verità, com- 
presa quella della coscienza che ogni singolo ha di esistere, 
presuppone — altrimenti non sarebbe — una verità primale, 


(1) Un giudizio può essere « formalmente » corretto e sostanzialmente erro- 
neo. Ciò non significa che i principî del giudizio siano o possano essere erro- 
nei, in quanto l’errore non è in essi. Il giudizio è vero quando la relazione 
che enuncia è vera: falso quando è falsa, ma nell’uno e nell’altro caso i prin- 
cìpi sono sempre veri; infatti, il giudizio errato si corregge adoperando sempre 
gli stessi princìpi. 


L'esistenza di Dio 113 





di cui è una determinazione; 5) l’uomo è l’artefice di tutte 
le verità (l’umano sapere), ma non è il creatore della verità 
che è in lui e di cui tutto l'umano sapere è una specifica- 
zione; c) le verità dell’uomo non sarebbero se non fosse in 
lui la verità che fa la mente capace di conoscenze vere, ma 
la verità, fonte di ogni umano vero, è da sè, anche se ogni 
umana scienza non fosse; 4) la coscienza di me esistente, 
cogito, ergo sum, è la prima verità nell’ordine di quelle di 
cui sono artefice, ma non è la verità prima, della quale la 
coscienza di me è solo la prima determinazione, ma la verità 
prima e in quanto oggetto di una mente; e) dunque, il sog- 
getto pensante — ma solo esso e non le verità che egli for- 
mula sul fondamento di essa — le è necessario senza che ciò 
implichi che ne è il creatore: il lume di verità è oggetto in- 
teriore della mente; f) per conseguenza, la coscienza di me, 
il Cogito, prima verità di cui sono l’artefice, non s’identifica 
con la verità prima, che la rende possibile e che, interiore 
alla mente, non è la mente nè è da essa prodotta; g) perciò, 
appartenenza dell’uomo ma non dall’uomo, madre di ogni 
umana verità compresa quella dell’autocoscienza, non è uma- 
na, ma divina: 4) dunque, la presenza nell’uomo di verità 
attesta l’altra del lume di verità da e per cui è capace di ve- 
rità, ma questa seconda presenza, la verità-oggetto interiore, 
in lui, ma non da lui, pone il problema di se stessa: prin- 
cipio di ogni vero del quale l’uomo è artefice, pone il pro- 
blema del suo principio, che è il problema del Principio pri- 
mo, della Verità o dell’Essere. 

Identificare il problema del conoscere o gnoseologico con 
quello del suo fondamento o principio — problema ontologi- 
co-metafisico — e rinunziare a chiarire e ad approfondire, per 
superficiale acrisia, il problema critico della conoscenza. La 
capacità umana di formulare giudizi veri — verità prodotta 
dall'uomo — è soluzione del problema gnoseologico, ma è 
essa stessa problema, che porta implicito l’altro del prin- 


114 Filosofia e Metafisica 





cipio per cui ogni giudizio vero è tale; ma il problema del 
principio del conoscere non è più gnoseologico, in quanto 
è problema della verità, fonte di ogni vero, cioè della verità 
oggetto della mente e non suo prodotto; come tale, di ordine 
«ontologico », non « gnoseologico ». È essa che fa nascere 
il problema dell’esistenza di Dio o del suo Principio assoluto; 
dunque l’ontologicità della verità — la verità è l’essere — 
pone il problema metafisico del Principio: gnoseologia o dot- 
trina del giudizio; ontologia o dottrina della verità prima in- 
teriore all’ente pensante; metafisica o dottrina del Principio 
assoluto, che è la Verità in sè: dall’umano al divino nell’uo- 
mo e dall’uomo a Dio. Questo discorso significa: 4) vi è una 
verità ontologica anteriore ad ogni particolare conoscenza ve- 
ra; 5) l’atto con cui so di esistere, non solo mi dà la prima 
verità oggettiva, ma, quel che più conta, mi attesta la pre- 
senza di un lume oggettivo di verità, di cui l’autocoscienza 
è solo una determinazione, anche se la prima e la sola essen- 
ziale. Dunque, verità primale e fondante in interiore homine, 
come oggetto della mente, madre dello stesso pensare, per la 
quale il soggetto è pensante ed ha coscienza di esistere come 
tale; la mente non adegua il suo lume di verità, l’autoco- 
scienza non esaurisce l’interiorità; la verità in inzeriore ho- 
mine per la sua stessa presenza, stimola, slancia, obbliga l’uo- 
mo a trascendere ez se ipsum. 

Autocoscienza è coscienza di sè e di altro da sè; come au- 
tocoscienza pura, l’« altro da sè » è l’oggetto o Idea, la ve- 
rità interiore, che il soggetto coglie nell’atto che ha coscienza 
di sè come ente pensante; anzi ha coscienza di sè perchè ha 
coscienza dell’altro, l’oggetto interiore o il lume di verità, 
che lo fa essere coscienza di sè e dell’oggetto stesso. L’inte- 
riorità fonda l’autocoscienza trascendendola; dunque non 
l’autocoscienza come coscienza di me soggetto pensante, ma 
l’autocoscienza come atto primo o prima specificazione del- 
l’interiore verità pone il problema dell’esistenza di Dio, nè. 


L'esistenza di Dio 15 





può non porlo; le è necessariamente intrinseco: in quanto 
partecipe dell’infinito della verità non può non porsi il pro- 
blema dell’Infinito in sè. L’idealismo trascendentale e qual- 
siasi filosofia dell’immanenza sono al di qua di questa proble- 
matica, nell’anticamera dell’ontologia e della metafisica, che 
si rifiutano di riceverli fino a quando si ostinano a fare filo- 
sofia della natura etichettata fraudolentemente per filosofia 
dello spirito. 


3. — I principî del giudizio non sono « posti » dalla ragione, 


nè indotti dall'esperienza esterna. 


In quanto abbiamo detto ci sembra implicitamente risol- 
ta, nella parte negativa, anche la questione dell’origine dei 
princìpi del giudizio. Infatti, se sono le norme assolute ed 
immutabili con cui la ragione giudica ogni cosa, consegue: 

1) la ragione non può sottoporre le norme a giudizio, in 
quanto, se la norma stessa fosse passibile di giudizio, ces- 
serebbe di essere norma ingiudicabile per esserlo quella o 
quelle che la giudicano: o la norma è norma di giudizio 
e allora essa che giudica tutto non può essere da nulla giu- 
dicata; o è da sottoporre a giudizio e non è essa la norma 
di giudizio, bensì quella che la giudica. 

2) Se la ragione non può giudicare le norme secondo cui 
giudica, essa stessa ne è giudicata: il giudizio errato, con- 
seguenza della finitezza della ragione umana, è riconosciuto 
per tale e corretto in base alle norme con cui la ragione giu- 
dica; dunque sono esse che giudicano l’operato della ra- 
gione, se i giudizi che essa formula siano veri od erronei. 

3) Da ciò consegue che le norme sono indipendenti dalla 
ragione, da essa non prodotte ma ad essa daze e, come tali, 
superiori, in quanto, secondo una celebre espressione di Ago- 
stino, non vi è dubbio che qui iudicat, co de quo sudicat esse 


116 Filosofia e Metafisica 





meltorem (*). In breve, ie norme del giudizio o le verità che 
lo fondano non sono un prodotto dell’attività razionale, in 
quanto, se tali, essendo la ragione mutevole e finita, sareb- 
bero anch’esse mutevoli e finite; dunque, son esse che ren- 
dono possibili i giudizi e l’attività della ragione e non vice- 
versa: non vi sono norme vere perchè vi sono giudizi veri, 
ma vi sono giudizi veri in quanto la ragione può disporre 
di norme vere, in base a cui giudica e dalle quali è essa stessa 
giudicata. La ragione non è madre ma figlia della verità, e, 
perchè tale, madre a sua volta di verità; dunque l’origine 
delle verità che la fanno vera non è da cercare in essa. Per- 
tanto altro è il problema della verità, altro il problema del 
conoscere razionale. 

Torto dell’idealismo panlogistico di Hegel, di alcuni suoi 
epigoni e di quanti non distinguono i due problemi, è di 
ridurre la metafisica a gnoseologia, identificando il proble- 
ma metafisico con quello gnoseologico e dissolvendo quello 
del principio-fondamento del conoscere nell’altro del cono- 
scere, principio e fondamento di se stesso. Il conoscere, asso- 
lutizzato, si chiude in se stesso, verità di sè a sè, si autopone, 
consumando la soppressione violenta ed arbitraria del pro- 
blema della verità o della intelligibilità metafisica del cono- 
scere razionale. È la sopraffazione che la ragione perpetra 
contro la verità illuminante; il sovvertimento per cui essa, 
fondata dalla verità, si pone come fondante la verità stessa. 
La distinzione, in seno all’idealismo di Hegel e all’hegeli- 
smo, rinasce nella forma della dualità dialettica del pen- 
siero pensante e del pensiero pensato, nel dialettismo del- 
l’autoposizione e dell’autonegazione del pensiero; e non può 
non rinascere in quanto il conoscere razionale va in cerca del 
suo fondamento, del suo principio che è la verità. Dissolto 
il paralogismo e con esso la soluzione illusoria del problema 
nella dialettica del pensiero, il problema del fondamento del 

(2) Il lettore si sarà già accorto come l’argomentazione dalla verità, che 


stiamo svolgendo per provare l’esistenza di Dio, sia di ispirazione agostiniana.: 
Il testo più completo a questo proposito è il De libero arbitrio L. Il. 


L'esistenza di Dio 117 





conoscere rinasce imperiosamente e si pone come problema 
ontologico della verità o dell’essere fondante ogni conoscere, 
e il pensare come tale, e come problema metafisico del Prin- 
cipio assoluto, cioè della intelligibilità della verità dello stes- 
so conoscere razionale e del senso e del fine dell’uomo nella 
sua integralità. Il problema dell’esistenza di Dio non nasce 
nè può nascere in una filosofia come «sistema dell’asso- 
luta scienza razionale » in quanto in essa è dissolto il pro- 
blema della verità; nasce invece all’interno della ricerca del 
fondamento assoluto o del Principio primo della veridicità 
delle norme del conoscere razionale, cioè in una filosofia che 
indaga sul donde quest’ultimo deriva la sua validità. // pro- 
blema dell'esistenza di Dio è il problema della verità, che è 
l’oggetto primo ed interno della filosofia; prima di essere 
problema della ragione o del giudizio sulle cose, è problema 
della intelligenza, dell’intuizione fondamentale della verità, 
lume della ragione. 


4) D'altra parte, se le cose sono giudicate dalla ragione 
secondo i princìpi del giudizio, non possono esse — contin- 
genti, mutevoli, finite e inferiori alla stessa ragione — essere 
produttrici di tali verità; le cose posseggono un grado di ve- 
rità o di essere (sono, per es., più o meno belle), ma non la 
norma universale, con cui la ragione giudica del loro grado 
di essere o di verità, e che pertanto è indipendente dalle cose 
stesse e preesiste al giudizio che per mezzo suo la ragione 
pronunzia sulle cose. Voler ricavare dall’esperienza senso- 
riale i princìpi del giudizio è rischiare, senza venire a capo 
della questione, conclusioni scettiche, a cui, prima o poi, ar- 
riva ogni forma di empirismo. Il mutevole e contingente 
non può essere fonte dell’immutabile e necessario; il grado 
di verità che riscontriamo nelle cose contingenti non solo 
non adegua la verità conosciuta con la mente, ma è cono- 
sciuto e giudicato in quanto nella mente preesistono le norme 
oggettive del giudizio. Per conseguenza i princìpi immuta- 
bili, fondanti la veridicità dei giudizi, non sono deducibili 


118 Filosofia e Metafisica 





a priori dalla ragione per analisi, nè sono un prodotto della 

sua attività; non inducibili 4 posteriori nel senso di contenuti 

enucleati da una forma qualsiasi di esperienza sensoriale. 
Donde, allora, questi princìpi? 


4. — Ragione ed intelligenza: l'intuito fondamentale dei 
principi del giudizio. 


Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno chia- 
rire un altro aspetto della questione. 

I princìpi del giudizio sono noti alla ragione, che di essi 
si giova per giudicare; la sua attività è discorsiva: stabilisce 
nessi e rapporti, formula giudizi e costruisce il discorso. La 
ragione pertanto applica i i princìpi, li media, non ne ha co- 
noscenza diretta: essi sono conosciuti direttamente dall'intel- 
ligenza e applicati dalla ragione, ia quale più che l’attività 
intuente i princìpi è quella, diciamo così, che li adopera (*). 
Per conseguenza le verità sono oggetto della intelligenza, ad 
essa presenti; la mente le vede in se stessa, le scopre dentro 
di sè. Per l’intelligenza le norme sono illuminanti, le danno 
la visione diretta della verità non com'è in sè ma come è alla 
mente presente nell’ordine naturale; per la ragione sono, 
sì il suo lume, ma lume giudicante, ne mettono in moto la 
capacità di formulare giudizi e le danno la conoscenza me- 
diata o indiretta della verità. Non abbiamo ancora detto l’ori- 
gine di queste verità, ma soltanto dimostrato che non le 
produce la mente umana che pur ne è illuminata e costituita, 
nè la ragione, che pur di esse si giova per giudicare, nè deri- 
vano dai contenuti dell’esperienza sensoriale ai quali li ap- 


(3) Si può osservare che i princìpi si colgono nel momento che sono ap- 
plicati, non prima nè fuori della concretezza della esperienza. Rispondiamo che 
ciò non mette in questione l’intuito fondamentale dei princìpi, in quanto l’espe- 
rienza e i giudizi della ragione sono possibili proprio per i princìpi, i quali, 
presenti nell’esperienza non sono elementi derivabili da essa, che anzi li presup- 
pone. D'altra parte la distinzione intelligenza-ragione va sempre considerata nel- 
l’unità concreta della vita spirituale. ” 


L'esistenza di Dio 119 





plica: constatiamo che sono in not, presenti alla nostra men- 
te, da essa direttamente intuite, suo oggetto intelligibile. 

Sono, dunque, innate? Non nel senso dell’innatismo pla- 
tonico, ma in quello dell’interiorità agostiniana: presenza 
illuminante ed operante della verità in interiore homine; pre- 
senti anche quando la ragione erra, perchè non è la verità 
che è assente a noi, ma noi ad essa. Se per ipotesi assurda, 
la nostra mente fosse privata di questi princìpi, non solo 
sarebbe incapace di verità, ma l’uomo, come spirito e anche 
come corpo, sarebbe annientato. Questa presenza enigmatica 
della verità in noi, non proveniente da noi nè dalle cose, e 
di cui pur partecipiamo, pone il problema della sua origine; 
dunque, ci autorizza a porre l’ipotesi « Dio » come possi- 
bile soluzione del problema dell'origine della verità dalla no- 
stra mente intuita e di quello dell’intelligibilità di ogni esi- 
stente. Meraviglioso già che enti finiti e contingenti siano 
capaci di verità immutabile e necessaria; che le cose abbia- 
no un grado di essere o verità e nel loro divenire un ordine 
che non passa, le regola e orienta. 

Qualcuno potrebbe osservare: i principî, come dite, giu- 
dicano la ragione e non questa li giudica anche se giudica 
secondo essi; ma chi riconosce veri i princìpi è la ragione; 
dunque, sia pure per dire che son veri, essa li giudica. Esat- 
to, ma l’atto con cui la ragione dice che i princìpi son veri 
non è un giudizio, bensì una constatazione: la ragione, giu- 
dicando veridicamente, testimonia della loro verità; d'altra 
parte, i princìpi non sono oggetto immediato della ragione, 
ma della mente a cui sono presenti. In altri termini, il cosid- 
detto giudizio con cui la ragione riconosce la verità dei prin- 
cìpi non fonda la validità dei princìpi stessi, ma è l’atto con 
cui la ragione si costituisce come capace di giudizi veri sul 
fondamento della loro verità fondante. 


120 Filosofia e Metafisica 





5. — Il problema dell'origine dei princìpi del giudizio: tre 
risposte fondamentali. 


Degli elementi che compongono il giudizio — il sogget- 
to pensante, un dato da giudicare e le norme in base a cui 
la ragione giudica — c’interessa quest’ultimo come quello che 
pone il problema della verità oggettiva dei princìpi secondo 
cui la ragione giudica. Il problema del conoscere è fondamen- 
talmente quello della formazione dei concetti; il problema 
della verità quello della origine dei princìpi, la cui « profon- 
dità »:è tale da convincere che essa oltrepassa le possibilità 
dell’uomo. Prendiamo in considerazione tre risposte, corri- 
spondenti a tre diverse concezioni metafisiche e gnoseologi- 
che: in esse è contenuta quasi tutta la storia della filosofia. 


Prima risposta. - Non vi sono nella mente umana prin- 
cìpi del giudizio, in quanto tutto nella conoscenza deriva dal- 
l’esperienza sensoriale. 


È la risposta dell’empirismo la quale, a rigore, non è tale 
per il semplice motivo che non risolve ma sopprime il pro- 
blema; infatti, dall’esperienza sensoriale non possiamo in- 
durre alcun principio assoluto e universalmente valido. Non 
per nulla l’empirismo, dalle sue origini occamiste a Locke, 
Hume e fino ai nostri giorni, è nominalista, agnostico, scet- 
tico. Se e quando non è tale, è contraddittorio: voler deri- 
vare dall’esperienza sensoriale i princìpi con cui la ragione 
giudica l’esperienza stessa, è come dire che i princìpi sono 
anch'essi « cose ». Ma i princìpi del giudizio non son cose — 
e come non-cose sono ininduttibili dall’esperienza sensoriale 
— nè, d’altra parte, sono conoscenze @ priori; consegue 
che l’empirismo è costretto a negare la validità oggettiva dei 
princìpi e con essi la veridicità dei giudizi. Con ciò nega la 
verità ed il problema della verità del conoscere razionale 

rchè inizialmente, anche se implicitamente, fa della ve- 
rità, realtà intelligibile, « cosa » tra cose. Assimilati alle quali . 


L'esistenza di Dio 121 





MERE i pira : : 
i princìpi del giudizio, l’empirismo ne riduce a due gli ele- 
menti; ma, come vedremo tra poco, neppure a due. 


Seconda risposta. - I princìpi del giudizio sono a priori: 
innati nella mente umana (Razionalismo cartesiano-leibnizia- 
no) o prodotti dall'attività del soggetto pensante (Criticismo 
e Idealismo trascendentale). 


Nel primo caso sono conoscenze assolute, nel secondo sol- 
tanto « condizioni » assolute del conoscere. Il razionalismo 
innatista già comincia a non distinguere tra problema della 
verità e problema del conoscere razionale. Di qui il suo an- 
dare ai due estremi: da un lato, ammessa l’intuizione diretta 
dell'essere, nega il conoscere razionale e, per conseguenza 
non può giustificare la ragion d’essere del mondo (Malebran- 
che); dall’altra, nega l’intuito della verità e riduce la cono- 
scenza alla pura razionalità con uguale conseguente nega- 
zione del mondo (panteismo acosmico dello Spinoza). Ad 
eccezione del Malebranche, il razionalismo moderno perde 
a poco a poco il senso dell’origine trascendente della verità 
e instaura l’autonomia della ragione senza distinguere tra 
problema della conoscenza e problema del fondamento del 
conoscere; d’altro lato, si avvia al filosofismo illuminista che 
non distingue più tra filosofia e scienza e separa nettamente 
il problema filosofico da quello teologico. 

Così è preparato il terreno al Criticismo e all’Idealismo 
trascendentale, che segnano il passaggio dall’« innatismo » 
all’«immanentismo » della verità: i princìpi del giudizio 
sono forme 4 priori immanenti dell’attività del soggetto pen- 
sante. Per conseguenza il problema della verità s’identifica 
con quello del conoscere razionale: non vi è un principio 
della sua assolutezza (Hegel), non esigenza di assoluto, ma 
l’assoluto, essa, verità di e @ se stessa: il razionale adegua il 
reale e il reale il razionale. Pertanto il problema dell’intelli- 
gibilità metafisica della conoscenza non può avere più posto 
nell’idealismo trascendentale, in quanto il sapere razionale 


122 Filosofia e Metafisica 





è tutta l’intelligibilità metafisica: la gnoseologia è essa la 
metafisica, la sola possibile. Il problema dell'essere della 
verità del giudizio è risolto nell’altro della verità immanente 
allo stesso soggetto pensante: metafisica del pensiero e non 
dell’Essere o della Verità che fonda il pensiero. In altri ter- 
mini, il pensiero stesso è verità, padre e fondamento della ve- 
ridicità di ogni conoscenza vera o razionale, con cui s’identi- 
ficano pensiero e reale. Anche questa volta i tre elementi del 
giudizio sono ridotti a due; anzi, anche questa volta, nep- 
pure a due. 

Infatti, l’idealismo trascendentale risolve e nega il reale 
ed ogni ente nel Soggetto unico assoluto che è oggetto a se 
stesso; anzi — con il Gentile — nell’Azto del pensare o nel 
Pensiero pensante, unico, ineffabile, puntuale. Allo stesso 
modo l’empirismo, diventato positivismo, risolve il reale ed 
ogni ente nella Cose unica, alla quale assimila il pensiero, 
che ne è un epifenomeno, « cosa » dalle stesse leggi delle cose 
governata. Ma il positivismo non è solo sviluppo dell’empiri- 
smo, bensì risultato della collusione di quest’ultimo e del- 
l’idealismo trascendentale attraverso il criticismo di Kant: 
se da un lato può sembrare rinunzia al panlogismo dello 
Hegel, dall’altro, ne è uno sviluppo. Infatti, se la ragione è 
tutta immanente al mondo ed il processo dell’uno è quello 
dell’altra; se vi è adeguazione perfetta tra reale-cosmo e ra- 
zionale, consegue che assoluto filosofare è assoluto scientiz- 
zare: la filosofia si risolve nella scienza e vi s’identifica; lo 
Assoluto è la Scienza, la filosofia ne è la « metodologia ». 
La metafisica cosmologico-gnoseologista dal razionalismo ad 
Hegel ha nel positivismo uno dei suoi sviluppi coerenti: po- 
sto il conoscere razionale come fondante se stesso; negato il 
problema ontologico-metafisico della verità e per conseguenza 
una verità oggetto della mente; identificato il sistema del 
« sapere » con quello del « mondo », consegue che tutto il 
pensiero è ragione, che l’oggetto unico della ragione sono 
le cose e i princìpi del conoscere, cose essi stessi, o schemi, 


L'esistenza di Dio 123 





categorie in cui ordinare i fatti dell’esperienza. Non più i 
princìpi, ma « divino » è il fatto, come dice l’Ardigò, quasi i 
fatti fossero essi ad illuminare la mente. Così, per l’idealismo 
trascendentale, posto che i princìpi del giudizio sono il pro- 
dotto dell’attività del soggetto pensante, divino, anzi Dio 
stesso, è il Pensiero e non più la verità che lo illumina; ma 
siccome il Pensiero è tutto immanente nelle cose e nel 
mondo — dire che il mondo è immanente al Pensiero è dire 
la stessissima cosa che il mondo adegua, immanentisticamente, 
il Pensiero stesso — la divinità di quest'ultimo è divinità delle 
cose. Perciò a un epigono di un Hegel pensato, o meglio spen- 
sato, con mentalità afilosofica è stato facile ridurre la filosofia 
a « metodologia della storia », cioè dei fatti umani, forma di 
positivismo umanistizzante che, nel fondo, non differisce da 
quello naturalistico, che riduce la filosofia a metodologia 
delle scienze o dei fatti naturali. Infatti, se questo positivismo 
assolutizza la scienza, l’altro assolutizza la storia. Così la Ra- 
gione-Dio dello Hegel si precisa, senza che vi sia opposi- 
zione sostanziale, come Storia-Dio e Scienza-Dio. « Ciò che 
è reale è razionale, ciò che è razionale è reale »; consegue 
che se Dio non è razionale, non riducibile alla Ragione im- 
manente, se non è la stessa Ragione immanente, non è reale. 
Ma Dio identificato con la Ragione immanente non è più 
Dio, è il Cosmo; e se il Cosmo è Dio, Dio non esiste. 

In conclusione: 4) il problema della verità, fondante la 
veridicità del conoscere, risulta soppresso e con esso la ve- 
rità, la luce che fa intelligente la mente e la ragione capace 
di conoscenza oggettiva: non sono possibili giudizi veri sen- 
za l’oggettività dei princìpi del giudizio; 4) questi cessano di 
essere oggettivi nel momento stesso che si riducono a « fun- 
zioni » trascendentali del Pensiero o della Trascendentalità, 
principio creatore della verità, luce a se stesso e fondante 
da sè la propria assolutezza: il conoscere razionale è tutto e 
l’assoluto sapere; c) ma esso è giudizio sulle cose, dunque, 
tutto il sapere è sapere le cose, e niente le oltrepassa; 


124 Filosofia e Metafisica 





d) tutto è cosa: cose spirituali o umane, ma sempre co- 
se o fatti: idealisti, spiritualisti, positivisti o come si chia- 
mano sono in ogni caso fondamentalmente e sempre mate- 
rialisti (perciò il marxismo ha oggi tanto da dire, a prescin- 
dere dalle contingenze politico-sociali); e) così come sono 
negatori della essenza della filosofia, fatta necessariamente 
pura metodologia, in quanto le si nega l’oggetto interno — 
il problema della verità — quello che la costituisce autono- 
ma e la fa metafisica dell’essere che è verità e della verità 
che è l'essere. 

Ma non basta: posto che l’unico sapere è quello razio- 
nale o « mondano » — giudizio sulle cose per stabilire nessi 
e rapporti tra i dati dell’esperienza sensoriale — sapere asso- 
luto in quanto ha il suo fondamento in se stesso, consegue 
che, proprio perchè la ragione si pone come essa stessa prin- 
cipio dell’oggettività, quel sapere e ogni sapere è privo di 
fondamento: la filosofia dallo Hegel in poi è, infatti, pro- 
cesso di « sfasciamento » del sistema della Ragione. Essa ha 
accolto dapprima la conclusione del criticismo kantiano, con- 
vergenza del razionalismo e dell’empirismo, che l’4 priori è 
« funzione » del soggetto pensante e l’esistenza di Dio per 
conseguenza non è razionalmente dimostrabile; e successiva- 
mente l’altra, che la Trascendentalità è essa stessa l’essere 
tutto e che non c’è problema dell’esistenza di Dio perchè 
Dio è lo stesso Logo immanente nel suo eterno divenire dia- 
lettico (Hegel). Ma quest’ultima conclusione è stata spinta 
fino a negare la « teologicità » della Ragione hegeliana e a 
concludere, come il pensiero più recente, che, se Dio non 
esiste e l’uomo non è Dio, niente ha più senso e tutto è 
assurdo. La filosofia moderna, come filosofia della sola « ra- 
gione », è filosofia senza «intelligenza »; perciò ha perduto 
Dio e l’uomo. 


Terza risposta. — I princìpi del giudizio sono presenti 
alla mente, che ne ha l'intuizione. 


L'esistenza di Dio 125 





Questa l’inzelligenza costituita dalla verità interiore, luce 
che illumina la ragione, che, illuminata, getta luce sulle co- 
se, le giudica, e giudicandole le vede nella loro intelligibilità 
o loro grado di essere. E’ la risposta dell’idealismo trascen- 
dentista, di derivazione e tradizione platonica, il solo idea- 
lismo autentico e, come tale, il solo vero realismo. I due 
idealismi concordano sull’apriorismo dei princìpi del giudizio, 
ma discordano radicalmente sul modo d’intenderli. L’ideali- 
smo trascendentale fa dei princìpi del giudizio un prodot- 
to del pensiero naturale e le condizioni categoriali della co- 
noscenza, identificando, come già detto, il problema della ve- 
rità come quello del conoscere razionale; l’idealismo trascen- 
dentista, invece, distingue tra «sapere » intuitivo e « cono- 
scere » razionale, tra presenza immediata della verità a//a 
mente e presenza riflessa della verità nella ragione; pertanto, 
per esso, i princìpi del giudizio sono verità interiori alla men- 
te, luce di essa, da cui la ragione è illuminata. La inzelli- 
gentia è il fondamento della razio, che cerca l’intelligenza, 
la luce con cui, giudicando, illumina le cose e le conosce: le 
« conosce » in quanto le « vede » nella luce della verità alla 
mente presente. Ma /a presenza della verità oggettiva alla 
mente, appunto perchè interiorità, esclude l'’immanenza del- 
la verità stessa ed importa la sua trascendenza rispetto alla 
mente. La verità, presente alla mente, è più di essa: nel mio 
pensare e conoscere vi è qualcosa che trascende l’atto del mio 
pensare e conoscere, verità che è mia, zon da me, più di 
me. Per essa son vere tutte le cose vere, ogni ente è verità, 
il pensiero capace di verità e la ragion di giudizio vero; ma 
essa non è le cose vere, nè ogni ente vero, nè il mio pensiero, 
nè i miei giudizi: è ciò che fonda i singoli veri e li tra- 
scende. Per conseguenza, la presenza della verità alla mente 
è insieme trascendenza, in quanto alla mente è presente qual- 
cosa che non è prodotto da essa. Donde questa presenza? 
Quale il Principio assoluto della verità che illumina la mia 


126 Filosofia e Metafisica 





mente, per cui sono capace di giudizi veri? E’ questo il pro- 
blema dell’intelligibilità metafisica del conoscere ed è appun- 
to il problema dell’esistenza di Dio. 


6. — Indubitabilità ed indistruttibilità della verità dei prin- 
cìpi del giudizio. 

Irrazionale e ridevole qualsiasi tentativo di mettere in 
dubbio la verità dei princìpi del giudizio; infatti, esso si con- 
figura come pretesa di giudicare intorno alla loro veridicità 
fondandosi proprio... sulla loro verità! Ma, se i princìpi del 
giudizio sono « al di là» del dubbio, consegue che l’intelli- 
genza che li intuisce è « fuori » del dubbio e dell’errore: il 
dubbio è della ragione e del conoscere razionale non della 
intelligenza e del sapere intuitivo; l’errore è nei nessi e rap- 
porti che la ragione stabilisce ed essa stessa corregge, non 
nei princìpi del giudizio e nell’atto intellettivo che li intuisce. 
L'intelligenza o intuito della verità è sempre nella verità; 
la mia mente e ogni mente umana, in questo senso, è la libera 
prigioniera della verità. Anche se in odio ad essa volesse 
scacciarla non potrebbe: vi abita ed è in casa sua; neanche 
il pazzo perde la verità, che resta presente alla sua intelli- 
genza. Infatti, il pazzo è uno « sconnesso », ragiona male o 
non ragiona affatto, come si dice, pensa ed agisce con nessi 
mal combinati, ma non potrebbe sragionare o sconnettere, 
senza i principi del giudizio presenti alla sua mente: se ne 
fosse privo non penserebbe affatto, nè male nè bene, non 
sragionerebbe. Pietre, piante, animali non sono pazzi. Dun- 

ue anche nel pazzo c’è l’uomo essenziale e profondo, la 
presenza della verità: la ragione sopraffatta lo ha abbando- 
nato, la verità no, e fa che egli, sragionante, sia sempre uomo, 
soggetto spirituale. 
D’altra parte, anche ammesso, a detta di alcune teste scien- 
tifiche di pseudofilosofi di moda, che tutto il conoscere ra- 
zionale sia « convenzionale » nel metodo, nelle premesse e 


L'esistenza di Dio 127 





nelle conclusioni, ciò non scalfisce minimamente il nostro 
discorso: è possibile il convenzionalismo della conoscenza ra- 
zionale, proprio in quanto vi sono princìpi non convenzionali 
che lo rendono possibile. Dire che anche essi sono conven- 
zionali è giudicare i princìpi in base a cui si giudica e che 
non possono essere giudicati. Domando: in base a quali altri 
princìpi si giudicano convenzionali i princìpi? Una delle due: 
o non ve ne sono altri e non potete giudicarli convenzionali; 
o ve ne sono altri, e allora sono essi i principi non conven- 
zionali. Anche se tutto il conoscere fosse convenzionale non 
potrebbero essere convenzionali i princìpi in base a cui giu- 
dico che tutto è convenzionale; se lo fossero, bene, in tal 
caso niente sarebbe convenzionale. 

Non vi è giudizio con cui io possa distruggere la verità; 
se non altro non potrei distruggere la verità del giudizio con 
cui pretendessi distruggerla! Non posso annientare la mia 
mente, l’uomo profondo in me, anche se posso distruggere 
la mia ragione: non la distruggono nè la pazzia, nè la sce- 
menza, nè la violenza scatenata delle passioni, anche se scon- 
volgono o annientano la mia ragione. Il mio io profondo,. 
perenne, immortale —- come perenne ed eterna è la verità 
— non è l’io razionale propriamente detto, ma l’io intelli- 
gente, che è oltre la ragione e perciò oltre la scienza, la paz- 
zia, la morte. Anche nel naufragio totale di un’anima, super- 
stite la presenza della verità, sopravvive il meglio di lei, in 
lei il più di lei. Perciò anche l’uomo più reietto è capace di 
affermazioni vere, di slanci di bene; le profondità del suo 
essere restano sempre orientate verso Dio. Se i sotterranei 
della sua coscienza, sia pure per un attimo, sono rischiarati 
consapevolmente dalla luce della verità, quel lampo può es- 
sere decisivo, operare una trasformazione radicale: il reietto 
può diventare lume di verità e fuoco di carità, potenza di 
santità. La verità, ogni verità, per piccola che sia, è eterna; 
perciò va riconosciuta, rispettata, amata: è divina; in questo 


128 Filosofia e Metafisica 





senso, è divino l’uomo nel suo ordine, e ogni cosa per il suo 
grado di essere. Dunque, l’uomo va sempre rispettato ed 
amato: avanzo dolorante di miseria o rudere di mille delitti, 
in lui abita ancora e sempre la verità, che è divina (‘). Essa, 
non privilegio di alcuni ma bene a tutti comune, inerisce 
alla natura di ogni ente pensante in quanto tale: lume del- 
l’intelligenza, è dell’uomo, di ogni uomo, del povero e del 
ricco, del venturoso e del percosso dalla sfortuna. E’ la rifles- 
sione scientifica o tecnica, la elaborazione dotta e concettuale 
che è solo di alcuni uomini; ma l’uomo essenziale, radicale, 
è nell’intelligenza della verità primale, fondamento di ogni 
elaborazione razionale e scientifica; in essa la sostanziosa e 
sostanziale sostanza umana. Togliere, per ipotesi, all'uomo 
la verità e dargli tutto il benessere possibile e l’universo, è 
un’operazione somigliante a quella di un assassino che, do- 
po aver ucciso, adorna splendidamente con meticolosa cura 
il cadavere della vittima. Chi è nella verità, chi sa, può sem- 
pre arricchirsi di conoscenza, perchè quel lume è il principio 
che fonda la veridicità di ogni conoscere. Non è divino il 
pensiero (idealismo trascendentale), non il fatto o la cosa (em- 
pirismo e positivismo), è divina la verità in noi, madre di 
ogni verità razionale e figlia della Verità che la oltrepassa e 
ci oltrepassa immensurabilmente. 


7. — Elementi e formulazione della prova « dalla verità ». 


Dopo questo lungo discorso necessario e chiaritivo dell’es- 
senza della prova, raccogliamo tutti gli elementi che la ricer- 
ca ha messo a nostra disposizione. 


(4) Quanto sopra è detto previene un'eventuale obiezione: la vita concreta 
dello spirito non è solo verità e bene, ma anche errore e male; è da questa reale 
«dialetticità che si ascende a Dio e non dalla sola intuizione della verità. Certo, 
la vita spirituale è conflitto di verità ed errore, di bene e male, ma tale conflitto 


non vi sarebbe senza la presenza della verità alla mente. Ora è proprio questa 
presenza il fondamento dell’argomentazione dell’esistenza di Dio. 


L'esistenza di Dio 129 





1) La verità è un'entità intelligibile, oggetto di un pen- 
siero o di una intelligenza: non vi è verità senza un pen- 
siero che la pensa, un'intelligenza che la intellige. Nel caso 
della mente umana finita, ciò non significa che la mente fac- 
cia essere la verità, «la ponga», ma solo che la scopre in 
sè, la intuisce; dunque, la verità che l’umana mente intuisce 
è da essa indipendente. D'altra parte, come verità non di 
ieri o di oggi, ma di sempre, è necessaria, eterna; era verità 
prima che mente umana la pensasse e lo sarà anche se nes- 
suna mente umana esistesse. Ma se è verità, oggetto d’intel- 
ligenza, non può essere senza un'intelligenza che la pensi, nè 
può non essere, appunto perchè eterna; dunque vi è la Men- 
te o il Pensiero che la pensa, eterno come essa. Ma se Pen- 
siero eterno, è della stessa natura della Verità; il Pensiero 
eterno ed assoluto è la Verità eterna ed assoluta, a differenza 
della mente umana finita che ne partecipa soltanto. Dunque 
esiste la Mente assoluta infinita che è la Verità in sè asso- 
luta e infinita, da cui è ogni verità: è la Verità creatrice. 

Si potrebbe obiettare: concediamo che la mente umana 
intuisce verità immutabili e necessarie, ma ciò non basta a 
provare che esiste Dio come Verità assoluta, in quanto le 
verità dalla mente intuite, proprio perchè intelligibili, appar- 
tengono all’ordine della mente o del pensiero non a quello 
della realtà; dunque non è ancora spiegato il passaggio dal- 
‘l’ordine del pensiero all’ordine del reale. 

Chi così obiettasse dimostrerebbe di essere affetto dal più 
grossolano empirismo, in quanto: 4) da un lato, identifica 
il reale con l’empirico, cioè con il grado più povero della 
realtà; 5) dall’altro, non tien conto che noi argomentiamo 
dalla presenza della verità alla mente, cioè non da un pos- 
sibile o pensabile, ma dall’erze pensante, dall'uomo alla cui 
mente è presente la verità, e l’ente pensante appartiene al- 
l’ordine dell’esistenza, non del possibile; c) nè tiene conto 
che, se per l’essere finito la verità intuita è solo dell’ordine 


130 Filosofia e Metafisica 





del pensiero perchè egli per la sua finitezza non può es- 
sere il soggetto sussistente ad essa adeguato (se il pensiero 
umano adeguasse la verità infinita sarebbe esso Dio e per 
ciò stesso insensatamente ateo), per la Mente infinita, in- 
vece, la verità è lo stesso ordine dell’Essere. La Verità in sè 
non è un’entità di ordine ideale, ma è Dio, l’Essere con cui 
s'identifica. In altri termini, la distinzione tra i due ordini, 
per cui non è logicamente corretto dedurre dal pensabile la 
sua esistenza, è valida per il finito e non per l’Essere infinito 
o Dio. Su questo punto ha ragione S. Anselmo e non Gau- 
nilone; e, posteriormente, il paralogismo è di Kant, non del 
Santo di Aosta. 

Questa precisazione significa ancora ben altro: la verità 
è oggetto nell’uomo, perchè non può identificarsi con il sog- 
getto, ente finito, ma come Verità in sè è soggetto, è il Sog- 
getto infinito e assoluto; dunque Dio, che è la Verità, non 
è l’Oggetto impersonale, ma il Soggetto. Questa precisazione 
è valida contro chi obiettasse che io faccio di Dio l’Oggetto 
o la Sostanza assoluta, al pari dello Spinoza o del Carabellese. 


2) Si arriva alla stessa conclusione secondo un altro or- 
dine di considerazioni: la verità che la mente umana intui- 
sce e di cui la ragione si serve per formulare giudizi validi, 
ha i caratteri dell’immutabilità, necessità, universalità, i quali 
ci obbligano a riconoscere che è, sì, nella mente umana, ma 
non dall’uomo creata; i caratteri essenziali della verità so- 
no gli stessi della definizione nominale di Dio; dunque, la 
verità presente nella mente umana non può essere che di ori- 
gine divina: esiste Dio, Mente o Verità assoluta, che gliene 
ha fatto dono. 

Di qui ancora la necessità di tener distinte l’inzelligenza 
e la ragione di Dio: non vi può essere ragione di Dio senza 
intelligenza di Dio, mentre, anche quando non vi è o viene 
a mancare la prima, resta la intelligenza di Lui, inespri- 
mibile perchè la ragione ne è impedita come nel caso del 
pazzo, dell’idiota, dell’ateo: niente può strappare la verità 


L'esistenza di Dio 131 





dalla mente e la mente dalla verità, che è divina, più del- 
l’uomo e all’uomo donata. Anche nella mente del pazzo o 
dell’idiota, del malvagio o dell’ateo c’è perennemente la pre- 
senza di Dio come presenza della verità data all’intelli- 
genza. Per conseguenza, da un lato, la ragione che nega 
Dio è la ratio nemica di se stessa, ribelle all’inzellectus, fuori 
dell’intelligenza, insensata: dall’altro, la ratio che argomenta 
dalla presenza della verità all’inzellectus l’esistenza di Dio, 
dimostra conformemente all’intelligenza, non la fa essere: la 
ratio chiede all’intellectus la ragione di se stessa. Perciò, da 
questo punto di vista, la razio è un potere conoscitivo infe- 
riore all’inzellectus da cui dipende. Il dubbio e l’errore pos- 
sono trovarsi nella ragione non conforme al vero, non nel- 
l’intuito fondamentale della verità. 

3) Tutti i caratteri che analogicamente attribuiamo a Dio 
sono contenuti nella verità dalla nostra mente intuita: 1) 
la verità rispetto alla mente è incondizionata; Dio, l’Essere 
che è principio di se stesso; 2) la verità è necessaria ed im- 
mutabile; Dio, l’Essere necessario ed immutabile; 3) la ve- 
rità oltrepassa e trascende la mente umana; Dio, l’Essere tra- 
scendente; 4) la verità è creatrice di giudizi veri; Dio, l’Es- 
sere creatore; 5) la verità è ordine e perfezione; Dio, l’Or- 
dine e la Perfezione assoluti; 6) la verità è essere, ciò che 
di essere è nella mente e nelle cose; Dio, l’Essere realissimo; 
7) la verità guida la mente alla conoscenza vera, suo fine e 
perfezione; Dio, l’Essere intelligente che ordina a un fine; 
8) la verità è l'oggetto di un soggetto pensante; Dio, che è 
la Verità, il Soggetto intelligente infinito. 

4) Ormai possiamo dare alla prova la sua formulazione 

recisa: l'ente intelligente intuisce verità necessarie, immu- 
tabili, assolute; l'ente intelligente, contingente e finito, non 
può creare nè ricevere dalle cose per mezzo dei sensi le ve- 
rità che intuisce; dunque esiste la Verità in sè necessaria, im- 
mutabile, assoluta che è Dio. Oppure sotto altra forma più 
propriamente agostiniana: nulla vi è nell'uomo di superiore 


132 Filosofia e Metafisica 





alla mente; ma la mente intuisce verità immutabili ed asso- 
lute, che sono ad essa superiori; dunque esiste la Verità im- 
mutabile, assoluta, trascendente che è Dio. 

La ragione giudica secondo i princìpi intuiti dall’intelli- 
genza senza che possa giudicarli; pertanto essa non può met- 
tere in discussione, pretendere di dimostrare, la verità di 
quelle verità, fondamento della veridicità dei suoi giudizi. 
Intuite dalla mente, sono applicate dalla ragione; non ha 
senso domandarsi perchè è così o se potrebbe o avrebbe po- 
tuto essere diversamente, in quanto non ha senso pretendere 
la dimostrazione di quelle verità, fondamento della veridi- 
cità di ogni dimostrazione: sono fuori discussione, al di so- 
pra della dimostrazione razionale. Nè dimostrare l’esistenza 
di Dio « dalla verità » significa porre in discussione i prin- 
cìpi, punto di partenza fuori discussione. Per conseguenza, 
nell’intuizione delle verità immutabili e necessarie è impli- 
cata l’esistenza di Dio, in quanto la loro presenza è già pre- 
senza in immagine di Dio stesso. In questo senso si può dire 
che ogni qual volta la mente è presente alla verità che è in 
lei e di cui la ragione fa uso, è presente a Dio; dunque, pen- 
sare è pensare Dio senza che Egli sia l’oggetto diretto ed im- 
mediato del nostro pensiero: Dio è l'al di là interiore, il 
Trascendente. Non il ragionamento o la dimostrazione fa 
che Dio esista, ma semplicemente constata che esiste: 2+2 
è uguale a 4 non che deve esserlo; Dio esiste, non che deve 
esistere. Più brevemente si può dire che dimostrare l’esisten- 
za di Dio è acquistare piena consapevolezza della nostra vita 
spirituale, dalla quale infatti muove l’argomentazione, la cui 
forza è nella proposizione «è presente alla mente umana 
qualcosa che è superiore ad essa, e alla ragione »; da qui la 
ragione argomenta. Dunque il processo razionale va dall’esi- 
stenza degli spiriti finiti e contingenti all’esistenza dello Spi- 
rito infinito e necessario; oppure dal soggetto pensante nel- 
l’oggettiva verità che gli è interiore e lo costituisce pensante, 
alla Mente infinita che è la Verità. Pertanto non si tratta 


L'esistenza di Dio 133 





di procedimento dall’idea all’esistenza di Dio, ma dall’ente 
nsante finito e contingente all’Esistente assoluto e neces- 
sario che lo fa essere ente pensante. 

D'altra parte, l’uomo pensa per la verità, oggetto naturale 
del pensiero, che è tale solo per essa: la verità presente al 
pensiero è presenza del pensiero, lo costituisce. Per conse- 
guenza, la « presenza » del pensiero è « compresenza » della 
verità; dove c’è pensiero c’è verità e viceversa; dove c’è pen- 
siero c'è dualità, il pensiero, che è tale perchè si illumina al- 
la verità, e la verità, che gli è presente e fa che esso sia. La 
prima alba del pensiero è la prima luce della verità, l’inizio 
dell’esplicitazione dell’implicito originario, di quell’unità pri- 
male, per cui anche la notte più densa della coscienza è sem- 
pre quella nella quale veglia la presenza di Dio. La notte si 
ta giorno, ma solo perchè s’illumina alla verità che dal di 
dentro illumina: l’oscura primitiva presenza si fa sempre 
più chiara e si rivela come presenza di Dio. C'è l’ente pen- 
sante, dunque c'è Dio: basta che vi sia un pensiero perchè 
sia implicata, come scrive Campanella, l’esistenza dell’ Asso- 
luto. In questo senso possiamo dire che c’è necessario pen- 
siero di Dio (per il fatto che esistono enti pensanti, Dio esi- 
ste) e possibile consapevolezza di Lui, effettiva, ogni qual 
volta il pensiero acquista coscienza di sè, cioè conquista la 
verità di se stesso, il senso della sua dipendenza dall’Essere 
creatore. Consapevolezza di Dio, affinchè l’argomentazione 
abbia rigore stringente e avvincente, è recupero integrale del 
sensus sui, del momento della robusta coscienza genuina, 
ignuda, pura di sofismi, vergine di menzogna: intelligenza 
della verità, che è senso dell’essere, il costituirsi dell’uomo 
nella sua genuina umana sostanza! 

« Chi pensa, pensa Dio»: al contrario « chi non pensa 
Dio, non pensa» perchè è assente all’oggetto naturale del 
pensiero, la verità. Non avremmo coscienza del nostro essere, 
se l’essere non fosse presente alla nostra coscienza; del nostro 
pensare, se la verità non fosse presente al pensiero; del no- 


134 Filosofia e-Metafisica 





stro volere, se il bene non fosse presente alla volontà: noi 
siamo, pensiamo, vogliamo nell’essere o nella verità. Solo 
chi si pone da questo punto di vita — cioè si colloca sul pia- 
no dell’essere — ha oltrepassato la posizione empirica e po- 
sitivistica, scientifica o storicistica, che sia, ed è già ben saldo 
in quella metafisica e della vita spirituale. 

Insistiamo: altro è l’inzelligentia, altro la ratio di Dio, co- 
se distinte anche se non discordanti. Sapere Dio è conqui- 
stare l'intelligenza di Lui, che è prima della razio e anche 
senza di essa: la ratio trascrive in termini concettuali, tra- 
duce in discorso, che è appunto dimostrare sul fondamento 
dell’intelligentia. Il pensiero moderno ha voluto fare dell’esi- 
stenza di Dio un problema di pura ragione; ed ha perduto 
Dio: ne ha fatto un problema di « scienza », di conoscenza 
« scientifica », non uno di vita spirituale, d’« intelligenza », 
di verità. Dio per la pura ragione — quella del calcolo, dei 
nessi e rapporti — è un ente di ragione: il Dio del deismo 
è Ente razionale, in definitiva, la stessa Natura (Deus sive 
natura, dice Spinoza); quello del meccanicismo di Newton è 
Legge o Causa del mondo, l’Architetto dell’universo degli il- 
luministi; fino a quando, con lo Hegel, si risolve nel divenire 
stesso della vita della Ragione, che è tutto il Reale come spi- 
rito e come natura, per cui vita spirituale e realtà naturale si 
adeguano perfettamente in un cosmismo assoluto. Così Dio 
è perduto nè poteva non perdersi: la ragione, fatta essa 
tutta la verità, è priva dell’intelligenza di essa, veicolo a Dio. 
La ragione è giudizio delle cose, suo oggetto è il mondo del- 
l’esperienza; attinge dall ‘intelligenza i princìpi, ma li ap- 
plica alle cose di cui giudica: la ragione è « scientifica », este- 
riorizzante. Affinchè non sia solo questo è necessario Ché re- 
sti sempre unita all’intelligenza, imbevuta della luce della 
verità, in modo che con un occhio guardi nel mondo, e l’al- 
tro lo ficchi a fondo nella sorgente che la illumina e tutto 
illumina. Il problema di una filosofia che voglia essere revi- 
sione critica del pensiero moderno, è quello del recupero del- 


L'esistenza di Dio 135 





l’intelligenza, dell’intuito della verità che fa vera la ragione 
e ne è «al di là»; in altri termini, è il problema di oltre- 
passare la pura scienza, del riscatto dell’interiorità, della pro- 
fondità metafisica della mente. Bisogno di Dio è bisogno di 
un al di là del mondo, cioè di un al di là della ragione; è 
risveglio dell’intelligenza che penetra oltre nessi e rapporti, 
luce di verità, sete di acqua sorgiva limpida e fresca: l’in- 
telligenza è sempre più giovane della ragione. Perciò la pie- 
na intelligenza di Dio è del mistico, dell’asceta, del santo, 
che, folgorato dalla luce della verità, sente tutta la sua per- 
sona — carne e ossa e sangue € spirito — come fusa in una 
unità incandescente e dinamica, che è slancio di azione, fe- 
condità di pensiero, accensione perenne dell’intelletto al fuo- 
co della verità. Ragione sì, anche; ma riempita d’intelligenza. 


8. — In interiore homine habitat veritas. 


Presenza, non immanenza della verità alla mente; se im- 
mane alla mente, nel senso proprio della filosofia moderna, 
la verità diventa un suo prodotto e non pone il problema del- 
l’esistenza della Mente assoluta, in cui il pensiero e il suo og- 
getto (la Verità) s’identificano, a differenza che nella mente 
finita: la mente umana si fa Dio essa stessa e perciò mente 
atea. Ma la riduzione della presenza ad immanenza della 
verità implica contraddizione, quella dell’idealismo trascen- 
dentale, specie della forma più matura e coerente di esso, 
che è l’attualismo del Gentile. Se presenza è immanenza, 
verità e pensiero s’identificano: l’oggetto del pensiero è lo 
stesso soggetto pensante nell’4to che pensa; il pensiero pensa 
se stesso. L’attualismo dice invece che pensare è mediare, ma 
la dialettica di pensiero pensante e di pensiero pensato 0 è 
un artificio, o è una contraddizione; infatti, o il pensiero 
pensante adegua il pensiero pensato e c'è immanenza, non 
mediazione, o non l’adegua e c’è trascendenza, non più im- 
manenza. 


136 Filosofia e Metafisica 





Presenza della verità alla mente dunque, e, nello stesso 
tempo, trascendenza, in quanto presenza è sempre dualità 
di pensiero e del suo oggetto intuito. Ora, se intuire la verità 
che è in noi è partecipare di qualcosa che ha caratteri divini, 
consegue che ogni qualvolta la mente cerca la verità, in fondo 
cerca Dio e quando scopre un vero, scopre in esso e dentro 
di sè un’immagine divina. D'altra parte, se la verità è inte- 
riore alla mente, in questo senso si può dire che Dio è in 
noi, che è in noi quella che è stata detta, forse imprecisa- 
mente, l’idea di Dio: alla nostra mente è presente un’im- 
magine di Lui, cioè la verità illuminante ed operante. Che 
non è Dio; e perciò la sua presenza accende il desiderio di 
Lui, Verità in sè che non conosciamo, stimola al possesso del 
Bene sommo, cioè all’unione con Dio. Infatti, il bene della 
mente è la conoscenza della verità: Dio è la verità assoluta; 
dunque alla mente adherere Deo bonum est (°). La pre- 
senza della verità in noi non è dato inerte, ma forza operante, 
stimolante, potenziatrice di tutta la vita dello spirito; orien- 
tatrice e unificatrice: l’oscura nozione della verità è il pre- 
sentimento di Dio; la stessa esigenza di verità è esigenza di 
Lui, come la prima verità scoperta è implicitamente la pri- 
ma scoperta della Sua esistenza. La verità in noi è l’inter- 
mediario, le milieu, tra la mente finita creata e la Mente in- 
finita creante: l’uomo è unito alla verità che è in lui ed 
è perciò naturalmente, ma indirettamente, unito a Dio. Que- 
sta la sua condizione naturale. Da ciò consegue ancora: dato 
che oggetto e fine della mente è la conoscenza della verità, 
tutto il processo conoscitivo, dall’infimo grado al più ele- 
vato, anche quando l’uomo tende ad altro, è orientato a Dio, 
converge nella « scoperta » della verità, che coincide con la 
« scoperta » dell’esistenza di Dio, punto assoluto di conver- 


(5) S. Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 54. E' evidente che il 
nostro processo 720 è dall’immanenza alla trascendenza. Dio non è nè una pro- 
duzione ideale nè un essere tra gli altri; la sua trascendenza è assoluta e non 


relativa; Egli è « Colui che è » e gli altri esseri sono per suo libero atto creativo. 


L'esistenza di Dio 137 








genza di tutta l’attività conoscitiva dell’ente pensante. O uni- 
ca filosofia è quella scettica — e perciò un’insormontabile e 
assurda contraddizione — o essa è capace di una sola verità 
e allora /a filosofia è sempre teistica, perchè teistica è l'intel- 
ligenza umana, la cui vita autentica è amore, attraverso la 
presenza della verità, della Verità in sè. Vi è in ogni ente 
pensante un teismo embrionale, in quanto gli è presente la 
verità, sia pure involuta o nascosta; vi è come un « pensiero 
compendiato », che si fa sempre più esplicito a mano a ma- 
no che lo spirito acquista coscienza della verità ad esso in- 
teriore, quantunque, nello stato attuale, non avrà mai la 
conoscenza piena della Verità assoluta, oggetto della sua 
suprema aspirazione ma sempre rivestito di «sacro miste- 
ro »; la Sapienza divina è mistero per la filosofia, non è filo- 
sofia. L’infinito di verità che alla mente manca, anche al- 
l’estremo confine della conoscenza, può esserle dato solo dal- 
la Rivelazione e dalla fede (6). L’uomo non è soltanto un 
essere razionale, ma intelligente e razionale; come intelli- 
genza è naturaliter teista. 


(6) F. BonatELLI, Pensiero e conoscenza, Bologna, 1864, p. 108. 


CapitoLo III 


CHIARIMENTI E COROLLARI 
DELLA PROVA «DALLA VERITA’ » 


1. — Dio Primo Vero assoluto. 


Vi sono verità che in nessun modo possiamo pensare che 
non siano vere: questa proposizione è il fondamento della 
prova, meglio di quell’aspetto di essa che sopra abbiamo svi- 
luppato. Il fatto che la ragione, malgrado la loro presenza, 
possa errare ed erri, non solo non prova nulla contro di 
esse, ma anzi le conferma; infatti, se quelle verità non fos- 
sero, non si potrebbe dire che la ragione sia capace di er- 
rore. Chi dice: «la ragione umana erra, s’inganna », sot- 
tintende: « perchè ha deviato dalla verità, se ne è allonta- 
nata »; dunque ammette la verità e, solo in quanto essa c’è, 
può rilevare che la ragione erra. L'affermazione: «la ra- 
gione umana erra e s'inganna, perchè tutto è errore ed in- 
ganno », non ha alcun senso: è soltanto uno sfogo passio- 
nale, un’insensatezza che, come tale, non interessa la ricer- 
ca filosofica. Essa significa: «l’uomo non può pensare altro 
che l’errore e l’inganno, cioè il nulla di verità »; ma pensare 
il nulla di verità è non pensare, e se l’uomo non pensa non 
C'è più questione di errore, nè di verità. « Pensare il nulla », 
«l’assurdo », «il puro errore», «conoscere l’errore », ecc. 
sono espressioni senza senso, suoni verbali che non signifi- 
cano niente. 

D'altra parte, il fatto che la ragione possa errare e l’ente 
pensante in ogni sua parte è contingente e finito, conferma 


L'esistenza di Dio 139 





che la verità, della cui conoscenza è capace, non è sua fat- 
tura: è stata data a lui, fatto capace di conoscerla. L'ente 
pensante è un dato; la verità che egli, contingente e finito, 
non può creare, è anch’essa un dato; ma se la verità in inte- 
riore homine è prodotta, consegue: 4) che non è la verità 
in sè, il Primo Vero assoluto; 5) che è dal Primo Vero As- 
soluto o Dio; c) che di essa è il Principio: dalla verità creata 
in me alla Verità creante in sè; dal dato al Principio effi- 
ciente creatore: dalla mente finita alla Mente infinita; dal- 
l’uomo a Dio. Questa si può considerare un’altra formula- 
zione della stessa prova. 

Qui il termine principio ha il duplice senso di Principio 
esemplare e di Principio efficiente. La mia mente intuisce 
delle verità, che sono un’immagine vera e reale del Modello 
verissimo e realissimo o della Verità prima assoluta, ma non 
si tratta di un rispecchiarsi meccanico (l’immagine dell’al- 
bero che si riflette nello specchio d’acqua), bensì di un atto 
creativo efficiente che lascia nella creatura un’orma di sè, 
viva, operante ed illuminante, produttrice dell’attività razio- 
nale, cioè di verità seconde (i giudizi) che nascono dalle ve- 
rità prime, date all'uomo e da lui non create. L'immagine 
in me della Verità in sè non è rappresentativa bensì presen- 
tativa di Dio, non com'è nella Sua essenza, ma come può 
essere presente all’ente creato nello stato naturale. 

È invece rappresentativa la conoscenza razionale in quan- 
to lo è delle cose, rappresenta la loro essenza e i rapporti in 
termini concettuali: è conoscenza spettacolare, di ciò che 
sta fuori di me. Il sapere intuitivo, invece, è presentativo: 
l'intelligenza non si rappresenta la verità, è presente alla 
verità e la verità ad essa: dunque inzeriorità. Il rapporto 
non è di rappresentazione di qualcosa che sta fuori di me, 
ma di partecipazione a e di qualcosa che è dentro di me. 

La prova si fa sempre più chiara, ma nello stesso tempo 
più complessa; conta che ci fermiamo ancora a considerarla. 


140 Filosofia e Metafisica 





2. — Il principio di causa e le due forme di astrazione. 


Nella formulazione data testè della prova abbiamo fatto 
uso del principio di causa, ormai legittimamente in quan- 
to si è dimostrato che l’ente pensante finito è capace di co- 
noscere verità oggettive, una delle quali è appunto il sud- 
detto principio, che, come ogni altro fondamentale del giu- 
dizio, è vero per se stesso e fonte di verità razionali (!). 
Come tale è già una presenza, per se stesso una attesta- 
zione, una testimonianza dell’esistenza di Dio; come prin- 
cipio di giudizio garantisce, solo perchè in sè vero, la veri- 
dicità di ogni dimostrazione razionale che su di esso si 
fonda e dunque anche di quella dell’esistenza di Dio. Ma 
nel contesto del nostro discorso il principio di causa ha un 
significato particolare. « Interiorità », « presenza » della ve- 
rità alla mente, implicita ed oscura quanto si voglia, signi- 
fica sentirsi dentro la verità che è in noi, viverla come vita 
e luce della nostra mente, esserne presi ed esser liberi nella 
sua presa. Partecipare consapevolmente di questa presenza 
è acquistare coscienza dell’esistenza di Dio, in quanto la con- 
sapevolezza della verità è già coscienza che vi è nella mente 
qualcosa di superiore ad essa: la verità è di per se stessa te- 
stimoniante. Pertanto il rapporto di causalità tra la Verità 
in noi e la Verità in sè, stabilito dalla ragione, è dimostra- 
tivo dell’esistenza di Dio, ma sulla base della capacità « pre- 
sentativa » di Dio stesso che ha la verità in noi. In altri ter- 
mini, il rapporto di causalità di ordine razionale si esplica 
e riceve verità e forza dall’intelligenza, di cui fa parte, come 
verità originaria, lo stesso principio di causalità; l’argomen- 


(I) Resta da esaminare e provare se i princìpi fondamentali non siano im- 
plicati in un'unica intuizione primitiva. Tale approfondimento sarà fatto in altra 
sede, ma fin d'ora possiamo dire che i princìpi del giudizio sono impliciti nel- 
l’intuito fondamentale dell’Idea dell’essere, che intendiamo in un modo che non 
è più quello del Rosmini, anche se da lui ispirato. Successivamente alla prima 
edizione della presente opera abbiamo svolto questi punti nei seguenti volumi: 
L’interiorità oggettiva, L’uomo, questo squilibrato, Atto ed Essere, Morte e 
immortalità, rispettivamente I, IV, V, IX delle Opere complete. 


L'esistenza di Dio 141 





tazione in base al suddetto principio dà forma razionale e 
dimostrativa al momento interioristico della presenza della 
verità alla mente, « presentativa » dell’esistenza di Dio. Per- 
ciò nella prova vi sono due momenti solidali e convergenti: 
a) prova come esperienza della presenza della verità, che è 
acquistare consapevolezza esplicita dell’« ospite celato e pre- 
sente », come dice il Blondel; 5) e prora come argomenta- 
zione dalla nostra realtà spirituale all’esistenza di Dio. 

Il principio di causa è 4 priori, non nel senso che ha per 
Kant, ma nell’altro che, come tutte le verità o princìpi pri- 
mi, è interiore a noi, intuito dalla nostra mente; dunque è 
già una conoscenza, sia pure inizialmente compendiata o im- 
plicita, una verità oggettiva e non una pura condizione sog- 
gettiva, anche se l’ priori di Kant è preteso come oggetti- 
vamente valido. Se è così, il principio di causa, come ogni 
altro fondamentale, non è il prodotto dell’astrazione ideo- 
logica o ascendente, cioè astratto dalle percezioni sensoriali, 
in quanto ogni astrazione che l’uomo fa da queste presup- 
pone proprio i princìpi fondamentali come strumento di 
astrazione, dai contingenti finiti, di quanto hanno di uni- 
versale ed oggettivo. Tale astrazione ascendente, dai parti- 
colari a quel che le cose hanno di universale, non forma le 
verità prime e non potrebbe mai formarle — tanto è vero che 
ogni posizione empiristica prima o poi conclude al nomi- 
nalismo, all’agnosticismo, al fenomenismo — ma le trova 
formate e ne fa uso nel procedimento astrattivo. D'altra 
parte, esse sono prodotte e non dall'uomo, veri derivati e 
non il Vero assoluto, da cui sono, immagine del Modello eter- 
no. Dunque astratti sì, ma non dalle cose, bensì da Dio stes- 
so: sono il prodotto, come ha dimostrato il Rosmini, non del- 
l’astrazione ideologica ascendente, ma dell’astrazione divina 
discendente (*). La verità non sale a noi dalle cose, ma di- 


(2) A. Rosmini, Teosofia, 1185; 1405 e passim. Il Rosmini dice precisamente 
« astrazione teosofica », espressione che noi non adoperiamo. Si potrebbe anche 
dire: astrazione logica ascendente e astrazione ontologica discendente. 


142 Filosofia e Metafisica 





scende in noi da Dio (*), altrimenti: 4) non vi sarebbe in 
interiore homine una presenza della Verità, ma la stessa 
Verità, non il divino, ma Dio stesso: il rapporto tra la ve- 
rità e la sua immagine non sarebbe analogico ma univoco; 
5) l’uomo sarebbe egli il Soggetto infinito della verità infinita, 
cioè Dio. Con l’astrazione discendente si spiega l’origine non 
umana delle verità primali che sono presenti alla nostra 
mente; con l’astrazione ascendente e sulla base di queste 
verità si conoscono le cose e si giudica della loro realtà o 
verità. Perciò noi non respingiamo quest’ultima, ma diciamo 
che essa, da un lato, presuppone l’astrazione discendente 
e, dall’altro, ha il suo campo di applicazione limitatamente 
al mondo esterno, cioè a quanto è oggetto di esperienza sen- 
soriale. Ma quel che importa è recuperare e far nostro il 
concetto di astrazione perchè è garanzia del rapporto ana- 
logico tra Dio e la mente finita e dunque baluardo contro 
l’ontologismo e il panteismo. 


3. — La verità presente alla mente è appartenenza di Dio 
senza essere Dio. 


Ogni cosa esistente è per quanto, e sempre parzialmente, 
contiene di quelle verità che intuiamo nella loro pienezza 
ideale, dunque sempre mancanti della sussistenza reale. Per- 
ciò noi misuriamo, « giudichiamo » la verità o il grado di 
realtà di ogni ente finito, senza che nessuno e tutti insieme 
adeguino la verità che è in noi; dunque, la verità dalla 
mente intuita non trova in nessuna cosa esistente la sua 
adeguata sussistenza e resta sempre un oggetto ideale astratto. 
Ma se c’è nella mente creata una presenza della verità asso- 
luta e necessaria senza che alcuna cosa esistente, l’uomo com- 
preso, perchè contingente e finita, possa essere la sua sussi- 

(3) Evidentemente si parla di « astrazione » da parte di Dio in senso ana- 
logico: qui il termine non vuol significare l’operazione propria dell’uomo — 
assurda se attribuita a Dio — di astrarre l’universale dal particolare, ma l'atto 


creativo con cui Dio dà all'uomo la verità primale, che, perchè creata, non è 
più la verità come è in Lui, anzi la Verità che Egli è. 


L'esistenza di Dio 143 








stenza, consegue che esiste un Essere assoluto che, come tale, 
è il Soggetto della Verità assoluta. In questo senso le verità 
primali che la mente intuisce sono un’appartenenza di Dio, 
il « divino nell'uomo (*)», ma non Dio, quantunque opera 
dell’Intelligenza divina. Non Dio, assolutamente: la Verità 
in sè contiene infinitamente più perfezioni di quante possiamo 
attribuire alla verità che è in noi e le stesse perfezioni da noi 
conosciute le contiene senza limitazioni, distinzioni e in grado 
eminente. Noi non possiamo conoscere di Dio, se non per 
mezzo della Rivelazione, più di quanto ci fa conoscere la 
verità intuita: gli attributi di questa, per analogia, li predi- 
chiamo anche dell’Essere assoluto (°). 

Noi sappiamo di Dio quanto Egli stesso ci ha concesso 
di sapere e per quanto ha voluto che fosse presente alla 
nostra mente. În questo senso, ripetiamo, si può dire che 
l’Idea di Dio è in noi €, se in noi non fosse, non ci po- 
trebbe mai venire dal di fuori; è in noi perchè in noi è la 
verità, immagine della Verità in sè, intermediario che ci 
unisce a Lui. L’idea di Dio è in noi come derivata da Dio 
stesso, che è dire: le verità prime sono in noi come derivate 
dalla Verità assoluta, che è Dio. Tale cognizione, oscura 
implicata involuta quanto si voglia, è interiore alla mente, 
perchè interiore le è la verità che la illumina, la fa pensare, 
conoscere e giudicare di ogni cosa. Pertanto la proposizione, 


(4) Se qualcuno obiettasse che in tal modo si unisce il soprannaturale alla 
natura umana, dimostrerebbe, come è avvenuto a proposito del Rosmini, di non 
capire o di non voler capire. 

(5) Dio, la Perfezione assoluta, possiamo definirLo solo negativamente. 
Omnis determinatio negatio est; dunque Dio, assoluta Perfezione, è al di là 
dell’atto definitorio della iogica della determinazione astratta o del definire esclu- 
dendo. In questo senso, come scrive Spinoza, si deve negare di Lui tutto ciò 
che si predica del finito (Età. I, Prop. XVI Scol.). Ma bisogna chiarire subito 
che Egli è l’indeterminato per eccesso e non per difetto: essere infinito e per- 
fettissimo, è l’Essere, non, però, un'astrazione o una pura idea. Dunque Dio 
è fuori della serie degli esseri, non è analogo nell’analogia dell’essere: è 
« l’analoguant createur » (N. I. I. BartHasar, Mon moi dans l'étre, Louvain, 
1946, p. IX). E’ l'Ipse suus actus essendi irreceptus, cioè non ricevuto in una 
essenza specifica; la sua essenza è l'atto di essere e dunque ia sua perfezione non 
ha limiti: indeterminato perchè senza limitazioni, perchè è tutta la perfezione. 


144 Filosofia e Metafisica 





nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, è 
valida per tutte quelle conoscenze che non possiamo avere 
senza il concorso di similitudini sensibili, non per quelle 
verità primali che intuiamo direttamente e che, se non fos- 
sero in noi, non potremmo mai ricevere da alcuna specie 
sensibile. Per conoscere un oggetto particolare è necessaria 
l’esperienza sensoriale; per giudicare di questa o quella cosa 
è necessario ancora che preceda l’esperienza della cosa giu- 
dicanda; ma per conoscere i princìpi primi, che fondano la 
validità di ogni giudizio e rendono possibile la conoscenza 
riflessa delle cose particolari, non è necessaria esperienza 
alcuna, in quanto sono interiori alla mente, da essa intuiti, 
di essa lume; meglio è necessaria l’esperienza interiore. Ora 
è proprio questo lume di ogni conoscenza, fondamento di 
ogni altra verità, questo naturale iudicatorium, che si dice 
presenza di Dio nell’uomo, legame che a Lui unisce sine ad4- 
miniculo sensuum exteriorum (°). 


4. — Critica costruttiva del principio di causa. 


Da questa conclusione possiamo trarre lumi per ulteriori 
considerazioni sul principio di causa. 

E’ stato obiettato dallo Schopenhauer che coloro i quali 
si servono del principio di causa — da un effetto alla sua 
causa fino alla causa ultima non causata — fanno come 
quel tale che va in giro tutto il giorno con una vettura da 
nolo e poi, alla sera, giunto a casa, la licenzia sulla soglia. 
Secondo l’arguta osservazione, chi conclude ad una causa 
non causata si serve del principio di causa fino ad un certo 
punto, poi lo abbandona, come chi licenzia la vettura sulla 
porta. In altri termini, il principio di causa è valido fino a 
quando si risale da effetto a causa, ma non quando si arriva 
(o si postula) ad una causa che non rimanda ad altro; cioè 
è valido per il mondo dell’esperienza e non per ciò (Dio) 


(6) S. Bonaventura, Commento alle Sentenze, vol. II, d. 39, a. I, q. IL 


L'esistenza di Dio 145 





che trascende l’esperienza. Sotto l’obiezione dello Schope- 
nhauer c’è la critica di Kant all’argomento cosmologico. Tale 
osservazione ha per noi scarsa importanza, dopo il chiarimento 
dato sopra dei due momenti solidali e convergenti della prova 
e dell’uso che facciamo del principio di causa. Qui non si li- 
cenzia la vettura, del resto non presa a nolo, sulla soglia di 
casa, ma si entra in casa con essa, anzi si è già in casa, in 
quanto l’effetto è presenza del Principio da cui è. L’esemplari- 
smo ci consente di scoprire nella realtà spirituale l’immagine 
(effetto) del Principio primo; perciò conoscere me è cono- 
scere Dio come posso conoscerlo nel mio stato attuale: zove- 
rim me, noverim te, dice Agostino. 

Ma anche questo punto va ulteriormente precisato. Quando 
diciamo che la dimostrazione dell’esistenza di Dio muove dalla 
vita dello spirito (di cui fino ad ora abbiamo considerato solo 
l’aspetto intellettivo) intendiamo dire da quell’essere contin- 
gente che è l’ente pensante finito avente un contenuto, og- 
getto d’intuizione, di verità immutabili e necessarie. 

L’intuito o l’intelligenza di queste verità, che non sono 
perchè io le penso, ma, al contrario, io penso perchè esse 
sono e mi illuminano; la coscienza di questo contenuto del 
mio pensiero, per il quale ho certezza della mia stessa esi- 
stenza, non da esso posto o creato e perciò suo oggetto, questo 
è il punto da cui muove la dimostrazione dell’esistenza di Dio 
« dalla verità ». Non dunque solo dal mio pensiero contingente 
e mutevole, ma da esso avente un contenuto di verità immuta- 
bili ed assolute, che, come finito, non si può dare da sè; 
dall’ente « pensante », ma che è tale in quanto intuisce un 
« pensato » oggettivamente valido, che egli non crea e non 
giudica, ma da cui è come creato quale pensiero; dunque la 
prova muove « dalla vita dello spirito » nella sua pienezza, 
che governa secondo verità immutabili ed universali la sua 
attività intellettiva e morale. 

L’obiezione dello Schopenhauer ha un fondo di verità se 
mossa ad un determinato uso del principio di causa e preci- 


146 Filosofia e Metafisica 





samente a quello che chiamiamo «cosmologico » o anche 
« scientifico »; infatti, la causalità in questo senso è uno dei 
princìpi di cui la ragione si serve per intendere (giudicare) e 
unificare il mondo dell’esperienza. Come verità oggettiva, 
invece, al pari delle altre primali, essa è una presenza in noi 
della verità e, come tale, valida come punto di partenza per 
dimostrare l’esistenza di Dio. Allora non il processo causale, 
applicazione che la ragione fa di esso ai fenomeni di espe- 
rienza, per se stesso porta a Dio — in tal caso è valida l’obie- 
zione dello Schopenhauer —, ma il principio di causa in se 
stesso, come puro principio, presenza di verità in noi. Biso- 
gna distinguere tra il principio di causa in se stesso e la sua 
applicazione. In altri termini, il processo causale è un nesso 
di causa-effetto tra fenomeni ed è limitato all’esperienza; 
il principio di causa in se stesso, invece, è un dato intuito, 
la cui presenza è presenza di verità in noi: come tale — e 
come ogni altra verità primale — è punto di partenza per 
dimostrare l’esistenza di Dio. 

Kant, che ne fa una pura condizione del conoscere, deve 
necessariamente limitarne la validità all’esperienza e negare 
per conseguenza che esso sia applicabile al di là di essa e 
dunque valido per dimostrare l’esistenza di Dio. Ma in que- 
sto modo Kant, come lo Schopenhauer, « criticano » soltanto 
l’uso che la ragione fa del principio di causalità negando che 
possa essere esteso al di là dei dati dell’esperienza sensoriale. 
Certo, se il principio di causa è inteso nel suo primo signi- 
ficato fisico o naturalistico, Kant ha ragione: causa in questo 
senso è un fenomeno che precede e condiziona un altro feno- 
meno che è a sua volta preceduto e condizionato da un altro 
ancora; è di questa causalità che lo Hume aveva negato la 
oggettività. Ma Dio è l’Essere assoluto e necessario da nulla 
preceduto e condizionato, cioè è fuori della serie dei feno- 
meni e di ogni serie, fuori dello spazio e del tempo; perciò 
in questo senso non è causa dell’Universo, ma Principio as- 
soluto, diverso dalle cause del mondo fenomenico, cause a 


L'esistenza di Dio 147 





loro volta causate. Resta l’altro problema del principio di 
causa in se stesso, cioè della « verità » oggettiva di esso, che 
la «critica» ignorò per difetto di critica. Ora proprio la 
« verità » del principio in sè — non la sola sua applicazione 
o il processo di unificazione dei fenomeni — pone il pro- 
blema dell’esistenza di Dio ed è punto di partenza della 
sua soluzione. A Kant resta il merito di aver dimostrato, 
contro, la metafisica scientista e geometrizzante del raziona- 
lismo moderno, che il principio di causa, considerato nel 
suo uso scientifico o cosmologico, non può servire a dimostrare 
l’esistenza di Dio, in quanto o Dio resta inserito nella serie 
dei fenomeni e non è più Dio, o ne è fuori e non si dimostra 
con il solo uso del principio che viene infatti, come dice lo 
Schopenhauer, licenziato sulla soglia di casa. Si è che il pro- 
blema di Dio non è affatto quello dell’unità dell’esperienza, 
che è problema puramente gnoseologico : Dio è al di là della 
unità dell'esperienza. Se noi Lo identifichiamo con il tutto 
dell’esperienza cadiamo in una forma di panteismo o di 
deismo e, in qualunque caso, di ateismo. E° l’errore della 
metafisica razionalistica (nel pensiero greco di Aristotele e 
degli stoici) da Cartesio a Wolff: Dio principio unificante la 
esperienza, architetto del « mondo ». Di qui la identifica- 
zione di Dio con la Causa o la Legge, con la Ragione uni- 
versale; ma questo è il problema della causa cosmologica non 
quello del Principio teologico. 

Dal nostro punto di vista, la questione s'imposta diversa- 
mente: non dal processo causale (di causa in causa) a Dio 
Causa prima, ma dal principio in sè di causa, verità diretta- 
mente intuita, a Dio. La consapevolezza della presenza della 
verità è chiarimento dello spirito a se stesso, è toccare la 
sua interiorità profonda, che, conquistata, è è testimonianza di 
Dio, del Principio di verità e di ogni verità; poi la ragione 
argomenta e rende esplicito il rapporto di causalità, e la pre- 
senzialità si fa dimostrazione. Ma qui la causalità ha senso 
diverso da quello che ha come legge dei fenomeni. Per con- 


148 Filosofia e-Metafisica 





seguenza crediamo che l’espressione « Dio-Causa prima » sia 
impropria e generi equivoci; meglio dire « Dio-Principio ». 

Dio non è causa, ma Principio anche del principio di causa, 
« verità » dalla mente intuita, come è Principio dell’ordine di 
causalità che regola i fenomeni di esperienza (7). 

Il mondo, più che effetto, è creatura di Dio; il concetto di 
effetto non traduce affatto la pregnanza di significato di quello 
di creatura, come il concetto di causa, così legato all’altro di 
serie, non adegua quello di Dio come Principio di tutto ciò 
che è nell’ordine dell’essere limitato o creato. Dire che Dio 
è Causa di se stesso importa la difficoltà di concepire una 
Causa in sè, indipendentemente dall’effetto e da ogni effetto, 
tranne che non si stabilisca un rapporto necessario tra Dio- 
Causa e il mondo-effetto; ma questo è panteismo. Ciò ci 
consente di porre l’esistenza di Dio come problema di ordine 
metafisico, al di là del piano delle scienze sperimentali e 
matematiche. Dio non è causa esplicativa del mondo, sia 
pure causa ultima o prima spiegante il movimento o altro, 
quasi integrazione o prolungamento della conoscenza scien- 
tifica; è solo il Principio (e la ragione anche) di ciò che 
esiste: ciò che esiste si svolge nel suo ordine come se Dio non 
esistesse, ma non potrebbe esistere se Dio non fosse; infatti, 
esiste in quanto è il Principio creatore di tutto ciò che esiste. 
In breve, il concetto di causa appartiene all’ordine dei feno- 
meni: Dio invece è l’Essere, la ragion d’essere creatrice di 
tutto ciò che è. 

Il progresso della scienza, da questo punto di vista, non 
interessa il problema dell’esistenza di Dio, nè questa rende 
superflua o sostituisce la spiegazione scientifica; il metodo e 


(7) Perciò abbiamo evitato studiatamente di parlare di Dio Causa prima non 
causata, anche a costo di scostarci dall'uso tradizionale dei termini. Per evitare 
equivoci non diciamo neppure che Dio è causa sui, in quanto ciò potrebbe im- 
portare in Lui un assurdo « prima » e « poi ». Dio è Principio assoluto e solo 
per analogia può chiamarsi anche Causa non causata. Cfr. la comunicazione di G. 
‘Capone Braca nel vol. Ricostruzione metafisica, Atti del IV Convegno di Studî 
Cristiani di Gallarate, Padova, Liviana, 1949, pp. 188-193. 


L'esistenza di Dio 149 





l’oggetto della metafisica non sono quelli della scienza e 
viceversa. La preoccupazione di tanti volonterosi di « armo- 
nizzare » metafisica e scienza — e, peggio, fede e scienza — 
è una forma di «irenismo » senza senso e pericolosa. Dal 
nostro punto di vista il principio di causa, più che risolutore 
del problema dell’esistenza di Dio, è esso stesso un dato che 
pone il problema dell’origine di se stesso come verità primale 
presente alla mente; ma, appunto perchè tale, esso è un 
dato che attesta l’esistenza della Verità in sè; d’altra parte, 
serve alla ragione per argomentare dalla verità presente alla 
mente all’esistenza della Verità in sè. In altri termini, la 
ragione dimostra l’esistenza di Dio in quanto lo spirito è 
capace di Dio: la mente che intuisce la verità attesta e de- 
sidera Dio. L'amore di sì come mente nella verità e l’amore 
di Dio come Verità assoluta non sono esteriori, ma l’uno 
all’altro interiori. 


5. — Il non senso dell’ateismo. 


Se così, è possibile affermare razionalmente che Dio non 
esiste ? 

Affermare razionalmente significa giustificare secondo ra- 
gione: si può giustificare l’affermazione « Dio non esiste » ? 
Se la domanda ha un senso non può significare che questo: 
l’affermazione « Dio non esiste » è un giudizio oggettivamente 
valido. Come sappiamo, non ci sono giudizi oggettivamente 
validi senza princìpi assoluti su cui si fonda la loro validità 
oggettiva; ma la presenza di questi princìpi è proprio il 
fondamento della dimostrazione dell’esistenza di Dio; dunque, 
dire che il giudizio « Dio non esiste » è oggettivamente 
valido è una contraddizione nei termini, in quanto se la 
ragione è capace di un solo giudizio di tal fatta, ciò basta 
perchè argomenti l’esistenza di Dio e non possa più ne- 
garla. Esattamente S. Bonaventura osserva (*) che, anche la 


(8) Commento alle Sentenze, d. VII, p. I, a. I, q. II. 


150 Filosofia e Metafisica 





negazione di ogni verità fa ugualmente impensabile la ne- 
gazione dell’esistenza di Dio. Infatti, chi dice « non esiste 
verità » pone come assolutamente vera questa affermazione 
e dunque ammette qualcosa di oggettivamente vero; ma 
non vi può essere un solo giudizio vero e una sola verità 
senza che si ammetta esistente la Verità in sè, in quanto 
ogni vero è tale per la verità. Chi dice « Dio non esiste » e 
considera quest’affermazione come assolutamente vera, con 
ciò stesso afferma l’esistenza di Dio: anche chi nega che 
Dio esiste afferma Dio. Ma egli è convinto di essere ateo; 
benissimo: non vede la contraddizione, non si accorge che 
la sua negazione è l’affermazione senza senso di pensare 
l’impensabile: s’illude di pensarlo; l’ateo appunto è l’inst- 
piens, colui che non sa quel che dice, l’insensato. Dio è pre- 
sente alla nostra mente, interiore alla nostra vita spirituale: 
negare la sua esistenza è atto irrazionale, in quanto la ra- 
gione attua la sua capacità conoscitiva e giudicatrice perchè 
la verità è presente alla mente, cioè proprio per la presenza 
di Dio in noi; dunque, non può « razionalmente » dubitare 
di ciò che la rende capace di giudizi veri e la libera dal 
dubbio. Assurda la sua pretesa di giudicare la verità, fonda- 
mento di ogni suo giudizio vero e dunque quella che la 
giudica e non viceversa: alla ragione non spetta giudicare 
se i veri intuiti dalla mente siano tali, ma solo usarne per 
pronunciare giudizi veri. Come già abbiamo detto, dimo- 
strare Dio non significa farlo esistere, ma semplicemente 
passare dal sapere originario alla conoscenza discorsiva pro- 
pria della riflessione. La ragione che nega Dio si mette 
contro la verità intuita, cioè contro il fondamento di ogni 
giudizio vero, contro se stessa, si contraddice; non nega Dio, 
nega se stessa nell’errore: insipientia. 

In breve, non è ragionevole negare l’esistenza di Dio; an- 
che se la ragione costruisce un discorso negativo in tal sen- 


L'esistenza di Dio 151 





so, la forza di tale ragionamento è nulla, puramente appa- 
rente: la coerenza formale è vuota della verità che sostanzia 
ogni vero procedimento logico. La sua apparente logicità è 
sostanzialmente irragionevole; discorso che, mancando di 
razionalità intrinseca, è intrinseca irragionevolezza, solo estrin- 
secamente o verbalmente razionale: l’ateismo non volgare è 
insensatezza sottile. Spesso si nega l’esistenza di Dio perchè 
non si riesce a penetrarne l’essenza, quasi per uno stolto ed 
irragionevole « dispetto » della ragione diabolicamente su- 
perba: «Tu sei l’Impenetrabile, l’Oscuro, ed io ti nego; 
dico che, siccome non ti posso ridurre alla mia misura, Tu 
non esisti». Lo stesso atteggiamento può determinare il 
fideismo assoluto: « Tu sei l’Oscuro e l’Assurdo e perciò 
credo che tu esisti ». È la conclusione di un razionalismo 
irrazionale che spinge la ragione, uccidendola, a compiere 
lo sforzo innaturale di rendere «lucido » l’oscuro, di misu- 
rare lo smisurato. Così l’innaturale maggiorazione della ra- 
gione si risolve nel suo accorciamento sterilizzante, nella 
sua distruzione. 

Allora, non ci dovrebbero essere atei? Ci sono, ma non 
sanno quello che dicono. L’ateo è colui che pensando che 
Dio non esiste, in realtà non pensa: fa uso dei princìpi di 
verità senza consapevolezza alcuna della loro profondità me- 
tafisica. La sua è affermazione puramente verbale: egli pro- 
nuncia parole che non hanno senso e di cui non si rende 
conto; le dice, ma ad esse non può dare il suo assenso, in 
quanto non può assentire alla contraddizione e all’assurdo: 
il «sì», non dettato dalla volontà libera ma dall’arbitrio, è 
anch'esso verbale. « Sarei molto curioso di vedere qualcuno 
che fosse persuaso che Dio non c’è: almeno mi direbbe la 
ragione invincibile che l’ha saputo convincere » (La Bruyère). 
L’ateo si trova in una strana situazione: afferma che Dio 
non esiste e non può dare un ragionevole assenso a questa 
affermazione. Si può dire che la superstite  « ragionevo- 


152 Filosofia e Metafisica 





lezza » del negare l’assenso lo salva in parte dall’assurda 
«razionalità » irragionevole del suo ateismo (7). 

L’ateo, l’insensato che fa la ragione giudice della verità 
invece di usarla per giudicare secondo verità, capovolge lo 
ordine del pensiero, sottomette la verità alla ragione; una 
volta che lo schiavo crede di essere diventato padrone non 
sa più dove vada: perduto il criterio del giudizio, si perde 
nell’errore e nell’insensatezza. 

Conclusione: se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe 
neppur pensare che non esiste, in quanto non penserebbe 
nulla. In questo senso pensare è pensare che Dio esiste; « io 
penso, dunque Dio esiste », scrive ancora La Bruyère, in 
quanto la mente pensa perchè Dio esiste (!9). 

Da quanto abbiamo detto risulta che la dimostrazione 
dell’esistenza di Dio o la sua negazione è questione, dal 
punto di vista logico, di uniformità o disformità della ra- 
gione alla o dalla verità; la verità regola il buon uso della 
ragione, non viceversa. Nella ricerca, guidata dalla verità, 


(9) J. Lacneav, nei frammenti raccolti sotto il titolo Existence de Dieu 
(Paris, 1910), nota acutamente che quelli che sono o credono di essere atei testi- 
moniano in favore dell’esistenza di Dio; infatti, ci aiutano a rendere sempre più 
pura la nostra concezione di Lui, a liberarci delle rappresentazioni grossolane o 
infedeli: 

Ces douteurs ont frayé la route 

Et sont si grands sous le ciel bleu 
Que, désormais, gràce è leurs doutes, 
On peut enfin affirmer Dieu. 

(10) Con la prova da noi sostenuta, di evidente ispirazione agostiniana, ha 
punti di contatto quella del Rosmini: l’idea dell’essere illimitato ed immutabile, 
intuita dalla mente limitata e mutevole, non può essere prodotta dalla mente 
stessa, la riceve come l’oggetto primo che la fa intelligente; vi è pertanto in 
noi un effetto non prodotto da noi nè da alcuna causa finita; dunque esiste 
una Mente infinita, necessaria ed eterna. (Nuovo Saggio, n. 1456 sgg.; Teos., 
797). Rosmini argomenta così perchè la sua idea dell'essere non è la forma 
a priori di Kant. Conoscere è giudicare, anche per lui: ma vi è un sapere 
intuitivo fondamentale che non è giudizio, e garantisce la validità di ogni cono- 
scere giudicativo. Nei nostri scritti successivi, già citati, abbiamo fuso la prova ago- 
stiniana’ con. quella del Rosmini attraverso un approfondimento del « principio 
di verità » e di quello dell’« essere come Idea », per cui è necessario integrare 
quanto si legge in queste pagine con quanto abbiamo scritto soprattutto in Atto 
ed essere, III ediz., pp. 124-134. 


L'esistenza di Dio 153 





la presenza di questa è presenza dell'immagine di Dio, cioè 
di un dato che testimonia del suo principio: nella stessa di- 
mostrazione dell’esistenza di Dio è presente quella verità la 
cui presenza rimanda al suo principio. Si può dire che la 
dimostrazione scaturisca da tutto il processo del pensiero, 
da ogni momento del suo svolgimento. Se conoscere signi- 
fica acquistare una sempre più chiara consapevolezza del 
grado di verità di cui la mente umana è capace, il processo 
del pensiero è processo di consapevolezza dell’esistenza di 
Dio: ogni verità scoperta è aztestazione della sua esistenza 
e punto di partenza per la dimostrazione razionale. La 
originaria oscura nozione di Dio si fa sempre più chiara a 
mano a mano che il pensiero acquista coscienza della verità 
e ad essa uniforma l’attività intellettiva: il suo destino di 
verità si precisa sempre più nettamente come desiderio di 
Dio. La vita intellettiva dell’ente creato e finito è itinerario 
dalla verità in noi alla Verità in sè, da Dio in noi a Dio in sè. 
La presenza dell’uomo a se stesso lo è dell’uomo alla verità 
che gli è interiore ed infinitamente lo trascende. 

Vi è in lui il segno di qualcosa che è più di lui e perciò 
l’uomo più di ogni altro ente porta in sè i segni manifesti 
del suo Principio. 


6. — La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve- 
ritas » e «ratio ». 


L’internità della verità alla mente al tempo stesso che 
garantisce la validità oggettiva della prova dell’esistenza di 
Dio precisa nettamente i compiti e i limiti della ragione, che 
non « pone » la verità, ma argomenta sulla base della verità 
« posta », « data » alla mente: giudica di ogni cosa con cui 
l’esperienza la mette in contatto, in quanto le sono dati i 
mezzi per conoscere e giudicare secondo verità. Vi è un 
nucleo essenziale di verità che l’uomo non si dà da sè e 
che, illuminandolo e facendolo ente intelligente, lo fa ca- 


154 Filosofia e Metafisica 





pace di conoscere quanto appartiene all’ordine della realtà 
creata e finita. Vi è, d’altra parte, una verità opera del- 
l’uomo, la conoscenza del mondo dell’esperienza, che la 
ragione è capace di costruire solo perchè poggia su un fon- 
damento che la trascende. Tale verità essenziale, originaria 
ed orientatrice di tutta la vita intellettiva dell’ente razio- 
nale creato, è presente alla mente e direttamente intuita da 
essa, che ne ha inzelligenza; è in noi la presenza illumi- 
nante ed operante di Dio. Per conseguenza, la verità intuita, 
fondamento di ogni conoscenza riflessa o di ogni giudizio, 
è indipendente dalla ragione ed anteriore alle sue dimo- 
strazioni. Senza la sua presenza, che è presenza indiretta 
di Dio, il movimento stesso del pensiero sarebbe incompren- 
sibile ed inspiegabile: esso è originariamente mosso dalla ve- 
rità che è in lui verso la Verità che lo trascende. La ragione 
è chiamata a seguire questo movimento intellettivo dalla pre- 
senza interiore della verità alla Verità in sè, a inserirsi nella 
verità che fonda i suoi giudizi, ma appunto perchè li fonda, 
è ad essi e alla ragione anteriore: la presenza indiretta di 
Dio in noi è prima della dimostrazione della sua esistenza 
per concatenazione di concetti. Lo spirito tende alla Verità 
in sè sollecitato dalla verità in lui presente; tende a Dio che 
è in lui, ma che non gli è noto e perciò Lo cerca e ne 
dimostra l’esistenza: ma la dimostrazione è possibile per- 
chè nello spirito è presente tutto ciò che la rende possibile, 
ciò di cui la ragione si serve per argomentare rettamente. 

È evidente che i due termini veritas e ratio vanno tenuti 
ben distinti: la veritas è l’insieme dei principi intelligibili 
dalla mente intuiti; la ratio è l’attività che, sul fondamento 
di questi princìpi che la trascendono, stabilisce nessi e rela- 
zioni. La ragione è il lume delle cose in quanto è essa che 
le giudica, ma è /ume illuminato dalle verità intelligibili, 
che le consentono appunto di illuminare e giudicare ogni 
cosa (di fare che il mondo sia « esperienza »), tranne gli intel- 
ligibili stessi. Lume della ragione, la quale è lume del senso, 


L'esistenza di Dio 155 





è la verità che la trascende e la mette in grado di stabilire 
relazioni e nessi; la ragione cerca l’intelligenza della verità. 
Pertanto: 4) essa non potrebbe niente dimostrare — e dun- 
que neppure l’esistenza di Dio — se nulla di vero o di intel- 
ligibile la illuminasse: 5) è capace di conoscenze riflesse per- 
chè la verità, indipendente da essa e dalla quale essa dipen- 
de, la illumina; c) dunque, la ragione non fa esistere Dio, 
ma solo dimostra che non può non esistere, in quanto è as- 
solutamente irragionevole che non esista e assolutamente ra- 
gionevole che esista. Per conseguenza anche se la dimostra- 
zione risultasse imperfetta a causa della ragione mutevole e 
finita, ciò non infirmerebbe la verità dell’esistenza di Dio. 
La concatenazione dei concetti può essere incompleta ed im- 

rfetta, perchè tale è l’umana ragione, ma non può mettere 
in dubbio l’esistenza di Dio, per il semplice motivo che la 
stessa dimostrazione imperfetta — ma sempre contenente 
una qualche verità — non vi sarebbe se Dio non esistesse 
e non illuminasse. 

Rosmini, che indubbiamente tiene presente S. Agostino, 
distingue tra « ragione » e «lume della ragione »: la prima 
è l’attività che ha come «oggetto » l’idea dell’essere, che è 
appunto suo lume. Questa distinzione va approfondita (l’ap- 
profondimento è nostro e non va attribuito al Roveretano) 
perchè chiarisce, ci sembra, un punto fondamentale del no- 
stro discorso. 

Comunemente diciamo, retaggio dell’intellettualismo gre- 
co e del razionalismo moderno, che il « senso è del parti- 
colare » e la « ragione dell’universale »; il « senso è del con- 
tingente » e la « ragione del necessario », ecc. Queste espres- 
sioni non significano affatto che il senso è particolare e la 
ragione universale: non solo quest’ultima, ma anche il senso 
«è la cosa meglio distribuita »; non solo «la facoltà di ben 
giudicare e di distinguere il vero dal falso (che è propria- 
mente quel che si chiama buon senso o ragione) è natural- 
mente uguale in tutti gli uomini » (Descartes, Discours de 


156 Filosofia e Metafisica 





la méthode, p. I), ma lo è anche la facoltà di sentire, an- 
ch’essa naturalmente uguale in tutti gli uomini. Da questo 
punto di vista, il senso, come facoltà comune a tutti gli uo- 
mini, è altrettanto universale come la ragione o l’intelli- 
genza. Per conseguenza, la particolarità e la contingenza 
della sensazione e l’universalità e la necessità del giudizio 
non dipendono dal senso o dalla ragione in quanto tali, ma 
dal diverso oggetto che è proprio di ciascuna delle due fa 
coltà; in altri termini la ragione è universale, capace di giu- 
dizi universalmente validi, perchè l’oggetto che le è proprio 
la fa tale, cioè perchè illuminata dalla verità. Dunque, la 
universalità e la necessità del conoscere razionale non sono 
date dalla ragione, ma dal suo lume, dalla verità che è suo 
oggetto; nel caso in cui la ragione fosse privata (o si pri- 
vasse da se stessa) del suo lume, cesserebbe di essere univer- 
sale e necessaria come organo conoscitivo. Non vi è un rap- 
porto gerarchico tra senso e ragione, questa superiore al- 
l’altro, ma vi è tra quel che è oggetto del senso e quel che 
è oggetto della ragione. Da ciò consegue che nella concre- 
tezza e sinteticità dell’atto spirituale dove sono presenti, en- 
trambi si coordinano e si subordinano alla verità illumi- 
nante. Non la ragione, ma il suo oggetto è vero. Da ultimo 
se la ragione producesse essa la verità, non vi sarebbe più 
verità, sarebbe essa stessa lume e, come tale, mutevole e sog- 
gettiva al pari del senso, pur restando «la cosa meglio 
distribuita ». Ciò spiega perchè l’idealismo trascendentale si 
può sempre convertire in forme estreme di empirismo e scet- 
ticismo. 


7. — Partecipazione iniziale e finale. 


Vi è una verità primale presenze all’intelligenza fondante 
la veridicità dei giudizi della ragione; dunque l’uomo è 
creato con e per la verità, dove il «con» indica la parte- 
cipazione iniziale — è dalla verità — e il « per» il fine: 


L'esistenza di Dio 157 





cercare la verità nella vita temporale per fruirne nella vita 
eterna; dunque, la verità guida il pensiero e, guidandolo, 
fa che esso la trovi e trovi, salvi, se stesso: itinerario filo- 
sofico con meta religiosa. Vi è dunque una partecipazione 
iniziale ed una partecipazione finale dell'ente intelligente 
creato dalla e per la Verità creante; vi è una sua contingenza 
essenziale per il fatto stesso che è partecipante della verità, 
ma non è /a Verità, la contingenza della mente creata, che 
è per la Mente assoluta increata. Non una soltanto di ordine, 
diciamo così, gnoseologico o del nostro conoscere, ma an- 
che e innanzitutto di ordine ontologico, del nostro essere: 
siamo enti perchè l'Ente ci fa essere. Ci pensa e ci fa essere; 
come esseri e per quanto abbiamo di essere abbiamo di verità, 
e la verità che siamo è il nostro grado di essere: ciò che è 
vero È, e ciò che è, è vero (!!). La coscienza di me come essere 
principiato implica l’esistenza di Dio. 

Ma io posso pensare di non-essere e il Non-essere, ed iden- 
tificare Essere e Nulla. Posso; però nell’atto che penso il 
Non-essere e il mio non-essere è implicato il mio essere, 
altrimenti non potrei pensare il Non-essere e me come non- 
essente; dunque, in quell’atto è dato il mio essere, un essere, 
ed è implicata l’esistenza dell’Essere: giacchè qualcosa esi- 
ste, esiste l’Essere assoluto indipendente. Infatti, o l’ente 
è indipendente e allora ogni ente è #n essere assoluto in- 
dipendente, ciò che è assurdo perchè non ci sono più 
esseri assoluti indipendenti, ma /’Essere assoluto indipen- 
dente; o l’ente dipende da altro per esistere e allora, ba- 
sta che esista l’ente finito, perchè esista Dio come Essere 
assoluto indipendente. Il problema dell’esistenza di Dio 
è dunque interiore, intrinseco, non solo al nostro cono- 
scere, ma a zutto il nostro essere: l’uomo può scartarlo o 
evitarlo solo evitando o scartando se stesso, tanto tale pro- 
blema è radicato in lui ed egli in esso. Ora, se la parte- 


(11) Superfluo avvertire che questa espressione è differentissima dall’altra 


hegeliana: « ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale », del resto 
già da noi criticata. 


158 Filosofia e Metafisica 





cipazione iniziale e finale all’Essere fa che l’ente creato non 
sia l’Essere ma dal e per l’Essere, fa anche che esso non sia 
estraneo alla Verità o all’Essere nè l’Essere a lui, ma si avver- 
ta nell’Essere, avvertendo, nello stesso tempo, che vi è in- 
commensurabilità e solo analogia tra l’ente partecipante del- 
l’Essere e l’Essere stesso. Il concetto di partecipazione, nel 
senso da noi usato, importa contemporaneamente attrazione 
e repulsa; l’ente finito è come attratto e respinto dall’Essere 
infinito: attratto perchè è 44 e per l’Essere, respinto perchè 
non è l’Essere. Partecipazione significa distinzione e diver- 
sità da ciò di cui si partecipa: in pari tempo, l’ente finito 
diverso da Dio, è perchè è da Dio: l’abisso che lo divide è 
contemporaneamente il ponte che lo unisce a Lui. Ma allora 
il problema dell’esistenza di Dio non è tanto quello di co- 
noscere se Dio esiste, quanto l’altro di sapere che l’uomo 
esiste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste. 
Le due formule sono ben diverse: la prima — « conoscere 
se Dio esiste » — implica la possibilità del conoscere anche 
se Dio non esistesse, come se Egli fosse un qualsiasi ente, di 
fronte al quale la ragione si pone giudicante come di fronte 
ad una cosa di esperienza: è la posizione dell’estrinsecismo 
razionalistico o «scientifico» dei «razionali non ragione- 
voli ». L’altra formula, la nostra — sapere che l’uomo esi- 
ste e conosce, perchè Dio esiste e solo perchè esiste -— im- 
porta invece: 4) un «sapere», che è più del puro cono- 
scere, in quanto è coscienza piena e completa di tutto l’uo- 
mo; ) una dipendenza iniziale e finale dell’ente integrale 
che sa di pensare ed essere perchè Dio esiste; c) l’impossi- 
bilità di esistere e pensare un solo istante se Dio non esi- 
stesse; d) la partecipazione dell’ente creato all’Essere in sè, 
per cui non è di fronte a Dio, ma, come può esserlo l’ente 
finito, in Dio ed Egli in lui. Per conseguenza, il problema 
dell’esistenza di Dio non è di «conoscere se », ma di « sa- 
pere che », cioè di acquistare consapevolezza della dipen- 
denza iniziale e finale, della partecipazione interiore, per cui 


L'esistenza di Dio 159 





si è in Dio: si conoscono le cose esterne, fuori di noi; si 
sanno le cose che sono in noi e noi in esse: perciò si sa 
che Dio esiste. 

« Essere in Dio » non significa, evidentemente, identifi- 
carsi con Lui o essere della Sua stessa natura, ma sapere di 
essere perchè Dio l’ha voluto e lo vuole, e che si sa perchè 
Dio ha illuminato ed illumina. Dimostrare la sua esistenza 
significa, dunque, acquistare coscienza della nostra dipen- 
denza ontologica, sapere che noi siamo, viviamo, pensiamo 
e vogliamo in Dio, anche quando siamo assenti a Lui. La 
dimostrazione non ci sta davanti, ma noi le siamo dentro, 
poichè siamo la verità da cui essa muove e la testimonianza 
vivente di quell’esistenza. Gli uomini sono esistenti in questa 
verità che li unifica: sono reali, frammentariamente, nell’e- 
sperienza fenomenica. Io «sono reale » nella scienza, ma 
« sono esistente » nella mezafisica e soltanto nella metafisica. 
Pertanto, l’esistenza di Dio è un « problema » solo fino a quan- 
do l’uomo non conquista la piena consapevolezza di sè e del 
suo essere, non è presente a se stesso, che è essere presente a 
Dio, sempre presente; se lo è, non è più problema, ma 
evidenza. Non inizialmente e perciò dapprima è problema; 
provvisorio, fino a quando il pensiero non dissipa l’oscu- 
rità che avvolge la verità originaria, non acquista consape- 
volezza di se stesso. L'esistenza di Dio non s'impone alla 
mente con evidenza immediata, in modo da metterla nel- 
l'impossibilità di dubitarne; è una verità che va cercata, ma, 
conquistata, è un’evidenza. 

La conoscenza di sè lo è di sè principiato dal Principio; 
dunque, il pensiero che conosce se stesso, sa che Dio esiste 
e, sapendolo, si sa da Dio: /eggendosi, legge Dio. In breve: 
se c'è l’uomo, c'è Dio: chi nega Dio, nega l’uomo che è, 
non si conosce. L’ateismo è una questione di analfabetismo; 
ignoranza dell’intelligibilità metafisica di se stessi, perchè 
ignoranza della dipendenza essenziale da Dio e della essen- 
ziale finalità in Lui. Basta l’esistenza di un ente pensante 


160 Filosofia e Metafisica 





perchè sia implicata quella del Pensiero assoluto: se un 
ente è, è l’Essere assoluto. Le incertezze sono nel processo 
della ricerca, non nella verità che lo guida. 

Questo processo si attua attraverso due momenti di tra- 
scendimento: 4) della ragione, di cui oggetto di giudizio 
sono le cose, il « mondo visibile » di Platone, per elevarsi 
all’intelligenza della verità; 4) di questa o della verità in noi, 

r elevarsi a Dio, la Verità in sè. Dunque, trascendimento 
dell’esteriorità (mondo della scienza o della ragione) e del- 
l’interiorità (mondo della sapienza o dell’intelligenza); cioè 
ancora del momento gnoseologico (ragione) e di quello in- 
tuitivo (intelligenza). Trascendimento che non è negazione; 
è interiorizzazione di noi a noi stessi, salita dalla profondità 
di noi e delle cose alla Profondità misteriosa e sacra che so- 
vrasta ogni cosa e la fa essere. A questo punto, l’evidenza 
dell’Esistenza di Dio, Mistero che solve ogni enigma, dà 
all’uomo il presentimento (ma solo questo e, in questa vita, 
sempre oscuro) di come egli sarà, penserà e vivrà nella vi- 
sione ultraterrena di Dio, quando, sciolto dai legami delle 
cose, dal discorrere ormai superfluo della ragione, sarà tutto 
l’uomo, l’uomo assoluto, non come specie, ma come singolo 
ente spirituale. Nell’ordine naturale, se non a tanto, si ar- 
riva a riconoscere la dipendenza iniziale e finale da Dio, la 
nostra grandezza. La ragione nel campo della sua attività 
è autonoma: giudica di ogni cosa del mondo senza essere 
giudicata da nessuna; ma il mondo è piccolo e l’umana au- 
tonomia della ragione più piccola della piccolezza del « vi- 
sibile ». Quando Francesco Bacone, esaltato dai progressi 
della scienza, esigeva un metodo (con lui, Cartesio e Galilei) 
che consentisse all'uomo di farsi padrone della natura, di 
dominarla conoscendola, evidentemente non rifletteva abba- 
stanza che la grandezza umana era in tal modo assoggettata 
ai limiti della natura stessa: l’uomo abdicava all’infinito 
della sua intelligenza per incoronarsi piccolo re delle pic- 
cole cose, oggetto del conoscere razionale. La scienza è la 


L'esistenza di Dio 161 





grandezza dell’uomo razionale, la sua cosmicità, ma è proprio 
essa la sua piccolezza; l’inzelligenza, invece, con cui avverte la 
sua dipendenza da Dio, la sua piccolezza, è essa la sua vera 
grandezza, la sua spiritualità. Come filosofò Cusano, l’uo- 
mo è piccolo nella sua grandezza, la scienza del mondo; è 
grande nella sua piccolezza, la dipendenza da Dio e la non- 
conoscenza di Lui. L'uomo è in questo mistero: di fronte al 
mondo si tratta per lui di conoscere; di fronte a Dio di es- 
sere. Il pensiero moderno ha identificato l’uomo con il suo 
conoscere ed ha perduto l’intelligenza dell’uomo, cioè il 
problema del suo essere, del « consistere » del suo « esistere ». 

Come abbiamo detto, non può essere pensato l’ente avente 
un certo grado di essere senza che si pensi implicitamente al- 
l’Essere che è l’Esistente, da cui dipende ogni esistente e ogni 
grado di essere; ma la consapevolezza dell’ente finito di par- 
tecipare e dipendere dall’Essere lo ordina a Lui. La parte- 
cipazione iniziale lo spinge ed orienta a quella finale, al- 
l’Essere in sè, l’oggetto adeguato dalla sua interiorità; il 
pensiero è perenne ricerca dell’Essere, il pellegrino di Dio. 
In questo senso, è come specificato dall’Essere a cui tende: 
la verità presente alla mente preforma l’intelligenza e la di- 
rige verso Dio — è il senso profondo dell’idea dell’essere 
del Rosmini, che ha il suo oggetto adeguato solo nell’Es- 
sere —; la partecipazione manifesta la sua profondità nella 
finalità” ultima dell’intelligenza. Ma se è così, nell’intelli- 
genza, il cui fine è Dio, troviamo una solidarietà con la vo- 
lontà: la partecipazione finale si chiarisce come la finalità 
suprema dello spirito nella sua totalità di vita. 


CapitoLo IV 


LE IDEE 


I. — Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori 
di Kant. 


Tanta vis in eis (ideis) constituitur, ut nisi his intellectis 
sapiens esse nemo possit (!*). Quattordici secoli dopo, con 
ben altro orientamento di pensiero, Leopardi annotava (18 
luglio 1824) nello Zibaldone: « Certo è che, distrutte le for- 
me platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Dio» (?). 
Queste due profonde osservazioni di uomini così diversi e 
lontani nel tempo, per la loro perfetta coincidenza, sono estre- 
mamente significative. Per il santo dei primi secoli, come 
per l’« ateo » dell’800, di formazione illuministica, negare le 
idee come conoscenze in sè, anteriori alle cose e misura og- 
gettiva per giudicarle, è irreparabilmente negare Dio: o nella 
mente umana vi è una verità che non deriva dalle cose nè 
pone essa stessa e allora per questa presenza di qualcosa di 
immutabile e necessario, di illuminante e fecondo, ci si con- 
vince razionalmente che Dio esiste ed è irrazionale dire il 
contrario, o si nega che vi è una verità di tal natura e con 
essa la presenza di Dio e non è più possibile pensare o pro- 
vare l’esistenza dell’Essere trascendente, creatore e provvi- 
dente. Se tutto nell’uomo è umano, da lui prodotto e creato 
senza traccia orma immagine vestigio divino, è impossibile 
dargli la nozione di Dio: egli è stato privato di quanto gli 

(I) S. Acosrino, De diversis quaestionibus 83, q. 46, n. 1. 


(2) G. Ltoparni, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Firenze, 
Le Monnier, 1931, vol. II, p. 110. ° 


L'esistenza di Dio 163 








è indispensabile per poterlo trovare e provare, del lume della 
ragione, dell’oggetto che fa intelligente la sua intelligenza. 
Dio avrebbe creato l’uomo non per Lui, ma per l’uomo 
stesso, non per cercarLo, amarLo e pregarLo, ma perchè si 
perdesse nella finitezza e contingenza sua e del mondo, cosa 
tra le cose. Perciò Platone, il metafisico delle Idee, è il pa- 
dre della metafisica della verità, essenzialmente teistica: se 
esiste la verità, esiste Dio; la verità esiste, dunque Dio esiste. 
Bandire le Idee come oggetto immutabile della mente, è ban- 
dire Dio dal pensiero. Se la mente non conosce nulla di 
immutabile e necessario, niente vi è per essa d’intelligibile o 
di vero: non vi è Dio. Ma siccome qualcosa di assolutamente 
vero è conosciuto dalla mente — insopprimibilità delle ve- 
rità che fa contraddittorio lo scetticismo — l’intelligibile è, 
e Dio è. Se non s’intelligono le Idee sapiens esse nemo possit; 
cioè: chi non è presente alla verità che è in lui è insipiens, 
e l’ateo è l’insipiens, colui che non sa quel che dice, non 
sa niente di sè, signora e perciò è ignorante dei motivi og- 
gettivi, che rendono impossibile negare l’esistenza di Dio; 
chiuso al lume dell’intelligenza, è ottenebrato dalla duplice 
concupiscenza del senso e della ragione: un irragionevole 
raziocinante. 

Alla base dell’ateismo, o c’è la caduta volgare nella schia- 
vitù delle passioni, o la caduta diabolica, da qualche tempo 
qualificata « nobile» ed «eroica», nella passione o su- 
perbia della ragione, quella che sta alla base della nega- 
zione cosidetta « scientifica » o « filosofica » dell’esistenza di 
Dio: rifiuto di conoscersi, negarsi della ragione a se stessa. 
Il suo limite non è l’impossibilità di trascendere l’esperienza, 
ma il rifiuto di trascenderla, l’ignorare che in essa è pre- 
sente qualcosa che la trascende. Ragione «critica » non è 
quella che si autonega la capacità di oltrepassare l’esperienza, 
ma la ragione che sa che non può non oltrepassare l’esperienza 
e se stessa, in quanto cosciente di possedere una luce, la ve- 
rità, secondo la quale giudica, che è più di essa ed ha dun- 


164 Filosofia e Metafisica 





que al di là della sua mutevolezza il Principio creatore. Solo 
se la ragione conosce che la verità è più e non meno di essa, 
ritrova se stessa e Dio. Perciò il problema dell’esistenza di 
Dio non si aggiunge all’esperienza quasi dall’esterno, ma è 
implicito nel problema dell’esperienza e nella esperienza stes- 
sa, che, in questo caso, è testimoniante: per il fatto che io 
ci sono e il mondo c’è, Dio esiste. Prima che per inferenza 
esplicita, l’esistenza di Dio è data implicitamente dal dato 
che l’attesta. 

Kant ha il torto di considerare l’esperienza sensoriale 
il limite della ragione, affermazione che consegue dalla 
riduzione delle Idee o verità prime, intuite dalla mente e 
fondamento della veridicità di ogni giudizio, a forme « prio- 
ri, a pure condizioni della conoscenza. Qui il punto della 
questione: le Idee per l’idealismo ontologico sono verità, 
conoscenze prime, oggetto interiore della mente; sulla base 
di esse la ragione giudica di ogni cosa, cioè conosce secondo 
verità le cose date dall’esperienza, ma non giudica le Idee 
primali, che l’oltrepassano. Di qui la conclusione; esiste una 
verità che è data ed è più dell’io; dunque esiste Dio, la Ve- 
rità in sè donante, illuminante, creante. Per Kant, le forme 
a priori, quel che nella conoscenza è prima dell’esperienza 
e da essa non derivato, non sono date all’intelletto, ma son 
funzioni di esso, forme dell’attività sintetica del pensiero; 
non verità o conoscenze, ma pure condizioni del conoscere e 
perciò vote: il contenuto lo riceviamo dall’esperienza, 4 
posteriori. Per conseguenza, dato che in se stesse son vuote, 
la loro validità, pur essendo 4 priori, è limitata al mondo 
dell’esperienza; dunque valgono solo a costruire e sistemare 
contenuti empirici. È evidente che, svuotate le Idee del loro 
contenuto di verità e fatte condizioni della conoscenza delle 
cose, non possono più trascendere l’esperienza dalla quale re- 
stano bloccate; dunque, non è più possibile una metafisica 
come scienza, tra l’altro, una dimostrazione razionale dell’esi- 
stenza di Dio, in quanto le verità, secondo cui la ragione 


L'esistenza di Dio 165 





giudica dell’esperienza, non sono più tali, ma pure condi- 
zioni di essa; le forme a priori non trascendono la ragione, 
ma ne sono funzioni immanenti, nè l’esperienza, pur non 
derivando da essa, alla quale soltanto si applicano. Cono- 
scenza valida è solo quella razionale e tutto il sapere è 
identificato con la conoscenza scientifica. Kant nega il sa- 
pere intuitivo dell’intelligenza e perciò deve negare che si 
possa dimostrare l’esistenza di Dio: limitato l’uomo alla 
sua cosmicità lo si fa prigioniero del conoscere razionale e 
lo si priva di Dio, che non è problema della ragione, se 
prima non è problema dell’intelligenza. Così è distrutta qual- 
siasi possibilità di dimostrare Dio perchè sono state di- 
strutte le Idee. Chi ha parlato di « veleno kantiano », da 
questo punto di vista, ha avuto ragione, anche se egli, se 
tosse vivo, ci darebbe torto, ma non a ragione, per il tipo 
di apriorismo non kantiano qui sostenuto. 

In breve, Kant nega l’onticità dell’Idea e un sapere in- 
tuitivo: limite della forma 4 priori è l’esperienza senso- 
riale; perciò limite dell’uomo è la sua impossibilità a tra- 
scendere l’esperienza, cioè è il « cosmo», la «scienza ». Il 
concetto critico dell’4 priori, che ha il suo limite di funzio- 
nalità nell’esperienza, e il concetto critico dell’esperienza che 
ha il suo limite nell’4 priori che la organizza, sono criti- 
ci a metà: sono critici del concetto di scienza, non del 
concetto di metafisica. Secondo Kant, la struttura del pen- 
siero, la sua preformazione è tale da avere il suo oggetto ade- 
guato nel mondo fisico, in quanto l’esperienza fenomenica 
adegua la forma: il pensiero è ordinato al mondo, che è la 
sua finalità. Ciò nega implicitamente la partecipazione ini- 
ziale all’Essere e rende inutilizzabile filosoficamente il con- 
cetto di creazione; infatti, se è posta la partecipazione ini- 
ziale, risulta contraddittorio negare quella finale, cioè am- 
mettere che l’Essere creatore abbia preformato l’ente creato 


166 Filosofia e Metafisica 








in maniera da non essere ordinato a Lui, ma da avere la sua 
adeguazione nel mondo. In altri termini, se la creatura è dal 
Creatore, non può non essere stata creata in modo da es- 
sergli ordinata; dunque la partecipazione iniziale implica 
necessariamente quella finale. Per Kant, invece, l’4 prio- 
ri ha la sua adeguazione nel mondo — nell'ordine na- 
turale: «il cielo stellato» e «la legge morale» — per 
conseguenza il mondo è la sua finalità suprema, e dun- 
que anche il primo iniziale. Basta: Dio è eliminato dall’or- 
dine del pensiero e da quello della realtà; non si spiega più 
neppure come possano nascere l’esigenza di Dio e le Idee 
della ragione, che non si giustificano, dentro il sistema kan- 
tiano, neanche come postulati della ragione pratica; Kant 
ve li introduce, ma restano estranei alla Critica com'è intesa 
da lui, la quale si risolve nel sistema della « cosmicità ». La 
Critica non è tanto critica da approfondire l’interiorità del 
pensiero, da sondare le profondità dell’intelligenza: le manca 
l'intelligenza dell’intelligenza, e non s’accorge che esigenze 
e postulati non potrebbero essere le une sentite e gli altri 
pensati se lo spirito non portasse nella sua struttura i segni 
indelebili e perenni di Chi lo ha creato spirito, di Chi, fa- 
cendo l’uomo ente pensante, gli diede il lume della verità e 
la verità come oggetto del pensiero. Se ne accorse il Rosmini, 
la cui idea dell’essere (altro che riducibile all’a priori kan- 
tiano!), oggetto intuìto dal pensiero, è presenza analogica di 
Dio in noi (partecipazione iniziale) e preforma il pensiero 
stesso in modo che ad esso è impossibile invenire in alcuno 
dei contenuti di esperienza, o in tutta l’esperienza, il suo 
oggetto adeguato, per cui essa risulta ordinata, in solidarietà 
con la volontà, con l’atto morale sintetico dell’ideale e del 
reale, all’Essere, che, come tale, è la sua finalità assoluta, 
convogliante, come letto d’immenso fiume, le innumerevoli 
sorgenti della vita, la totalità del creato. 


L'esistenza di Dio 167 





2. — L'Idea nell’'empirismo inglese. 


Kant deriva il suo « criticismo » dal Locke, dallo Hume 
e dalla barbarie filosofica dell’Illuminismo, di cui è il più 
grande rappresentante. Locke è il primo consapevole e siste- 
matico distruttore dell’Idea nel senso dell’idealismo ogget- 
tivo. Infatti, con la parola idea indica sensazioni, immagini, 
percezioni, ecc., quanto è contenuto della «coscienza» : l’idea 
non è più l’oggetto intelligibile, immagine « priori dell’Intel- 
ligibile in sè, ma immagine del sensibile: l’anima, white 
paper, acquista le idee, puro contenuto della coscienza sog- 
gettiva, from experience. D'altra parte, anche per il Locke, 
funzione della ragione è di stabilire nessi e relazioni, ma solo 
tra le idee-immagini sensibili; per conseguenza, la verità è 
« unione o separazione di segni » (joining or separating of 
signs), cioè di quelli impressi dalla esperienza sensoriale: 
il valore oggettivo dell’idea è distrutto e con esso quello della 
verità. Consegue: 4) la sostanza è un’idea o impressione sen- 
sibile complessa, cioè una somma di qualità prive di vin- 
colo reale; è « coesistenza continua » di alcune idee semplici, 
« considerate » (considered), per tale continuità di esistenza, 
unite in una cosa ed indicate con un « nome »; 5) l’identità 
della persona non viene da una sostanza permanente e perse- 
verante al di sotto del suo divenire, ma semplicemente dalla 
continuità della coscienza: la mia identità arriva fin dove 
arriva la mia memoria; c) se gli enti esistenti, di cui si cono- 
scono solo le qualità, abbiano un « sostegno », un'entità reale 
€ che cosa essa sia, l’uomo non lo sa: «Io non so cosa sia » 
(I dont know what). Conclusione: l’idea è d'origine empi- 
rica, un puro nome, un contenuto della coscienza soggettiva; 
non esiste un correlato oggettivo del pensiero; la ragione 
unisce e divide « segni » che, soggettivi, non garantiscono 
l’oggettività dei giudizi; dunque, non esiste una verità intel- 
ligibile, l’Idea come oggetto della mente, non prodotta ma 
solo intuita da essa, nè ricavata dall’esperienza. Per l’ideali- 


168 Filosofia e Metafisica 





smo oggettivo gli intelligibili sono, come Verità in sè, il con- 
tenuto della Mente assoluta; come presenza della Verità in 
sè, l'oggetto d’ intuizione delle menti finite e fondamento 
oggettivo dei loro giudizi; ancora sono realizzate imperfet- 
tamente nelle cose, di cui costituiscono l’essere o il grado di 
verità. In altri termini, sono il Primo Vero da cui deriva 
ogni verità; Vero creatore e vivente, fecondo di quanto vi è 
di vero, vita della mente e di ogni cosa: voytà Zé, così Pla- 
tone nel Timeo chiama le Idee. Per Locke, invece, esse non 
sono il prototipo o l’esemplare intelligibile, ma pure imma- 
gini di origine sensibile: quanto noi conosciamo della realtà 
è quanto di « idee » o immagini ci forniscono i sensi; il reale 
conosciuto s’identifica con il contenuto della nostra coscienza 
empirica. 

Com'è noto, lo Hume, con maggiore coerenza del Locke 
e attraverso un approfondimento critico dei presupposti del- 
l’empirismo, non dice di « non sapere » cosa sia la sostanza, 
ma che non vi sono sostanze: la realtà, spirituale e materiale, 
s’identifica tutta (nè vi è una Realtà in sè trascendente) con 
le « impressioni » e le « idee ». Ma, per lo Hume, tra le une 
e le altre non vi è differenza di origine — le prime sono « co- 
pie di nostre impressioni» (copies of our impressions) — 
bensì d’intensità, le idee sono « percezioni più deboli » (more 
fleeble perceptions); per conseguenza, di fronte ad un'idea, 
bisogna chiedersi di quale impressione sensibile sia la copia. 
Non vi sono «sostanze »: quella che così si chiama è un 
insieme di percezioni che si assomigliano; non vi è un vin- 
colo causale necessario ed oggettivo, ma solo I’ « attesa » che 
al fatto 4 segua il fatto d: è l’« abitudine » (custom) che 
fa nascere questa attesa; non vi sono nessi tra le idee se non 
per « somiglianze » (resemblance), per « contiguità tempo- 
rale o locale » (contiguity in thime or place), per causa ed 
effetto, cioè seguenza accidentale di due fatti. 

Ecco: negato il valore oggettivo dell’Idea e la sua presenza 


L'esistenza di Dio 169 





alla mente indipendentemente dall'esperienza sensoriale, non 
è più possibile un criterio valido di giudizio, un fondamento 
della conoscenza e della realtà; vien meno ogni regola della 
vita intellettiva e morale, ogni sostegno delle cose. Distrutte 
le Idee, non vi è più alcuna ragione che le cose siano come 
sono e non diversamente, che la ragione giudichi in un modo 
o in un altro e la volontà agisca così e non altrimenti, per il 
fatto che non vi sono più princìpi necessari, immutabili ed 
universali (*). Ciò prova come il punto cruciale del proble- 
ma dell’esistenza di Dio, come di ogni altro metafisico, sia 
la questione della verità: se vi è verità e fino a che punto e 
come la mente umana ne partecipi. Se tale verità si nega, 
come fa lo Hume, cade la validità oggettiva di ogni prin- 
cipio e qualunque dimostrazione è impossibile 4 priori ed 4 
posteriori. La validità razionale delle prove 4 posteriori, in- 
fatti, dipende da quella dei princìpi secondo cui la ragione 
argomenta; dunque dal problema della verità: secondo che 
questo è risolto positivamente o negativamente anch'esse sono 
valide o no. Ma se è risolto positivamente è già dimostrata 
l’esistenza di Dio; se negativamente, impossibile qualsiasi 
altra dimostrazione. In ogni caso le prove 4 posteriori sono 


(3) Ancora una volta il Leopardi, con chiara intuizione (lo cito perchè non 
filosofo nel senso tecnico del termine, e perchè imbevuto di empirismo e sen- 
sismo), scrive il 17 luglio 1821 (op. cit., vol. III, pagine 99-100): « Quindi è chiaro 
che la distruzione [per un errore di stampa nel testo si legge « distinzione »] 
delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta 
e de’ loro contrari. Vale a dire di una perfezione ecc., la quale abbia un fonda- 
mento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la con- 
tengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima 
dei detti soggetti e indipendente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa 
forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogni idea 
ci deriva dalle sensazioni relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il 
buono assoluto è tornare alle idee di Platone e risuscitare le idee innate dopo 
averle distrutte, giacchè tolte queste, non v'è altra possibile (1341) ragione per 
cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente essere così 0 
così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni 
accidente, da ogni cosa di fatto, che in rcaltà è la sola ragione del tutto, e 
quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, 
cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose tra 
loro è relativa, se così posso dire, assolutamente ». 


170 Filosofia e Metafisica 





legate alla sorte di quella « dalla verità », da cui dipendono, 
di cui sono una applicazione e in cui restano incluse. 
Hume è una buona lezione; negata l’oggettività dell’Idea 
è negato Dio; niente più regge, non lo spirito nè le cose, non 
la filosofia nè la scienza. In questo senso l’ultrailluminista 
Hume, che sviluppa fino in fondo il principio ateo del- 
l’«uomo fonda l’uomo e il suo regno », è la crisi del mito 
illuminista, in quanto rappresenta la vanificazione del reale 
‘spirituale e corporeo e di ogni categoria del reale, la banca- 
rotta del razionalismo e dello scientismo illuministici. 


3. — Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e 
validità del giudizio. 


Kant si accorse della rovina della conoscenza oggettiva e 
della metafisica come scienza, conseguenza della negazione 
delle Idee; se ne accorse perfettamente anche il Rosmini. Ed 
ecco i due pensatori porsi gli stessi problemi: 4) dell’oggetti- 
vità del conoscere; 4) della restaurazione della metafisica co- 
me sapere razionale. 

La risposta di Kant è nota: i princìpi del conoscere non 
possono essere ricavati dall’esperienza sensoriale; sono forme 
4 priori della mente, oggettive ed universalmente valide, con 
cui lo spirito, mercè l’attività sintetica, costruisce l’esperienza, 
che alle forme fornisce il contenuto. Ma, per Kant, come 
abbiamo detto, le forme @ priori non sono conoscenze, ma 
pure («vuote ») condizioni della conoscenza: per lui non vi 
sono verità 4 priori, interiori alla mente e da essa intuite, ma 
di 4 priori c'è solo la « forma » del conoscere. Per conseguen- 
za, egli nega che vi siano verità intelligibili, oggetto dell’in- 
telligenza, cioè è d’ accordo con gli empiristi nel rigettare 
1’ «idea » com'è concepita dall’idealismo oggettivo. Per con- 
seguenza, quando affronta il problema della metafisica come 
scienza non può non rispondere negativamente: le forme 4 
priori, pur essendo indipendenti dall'esperienza, come sue 


L'esistenza di Dio IZI 





pure condizioni, al di fuori e al di là di essa non hanno al- 
cuna validità conoscitiva: 4 priori, ma bloccate nella e dalla 
esperienza. Prodotto dell’attività dello spirito e prive di un 
contenuto proprio, non verità o oggetti intelligibili, ma sem- 
plicemente condizioni di conoscenza dei fenomeni, possono 
« giudicare » solo le cose di esperienza sensoriale. Ogni meta- 
fisica come scienza razionale risulta impossibile, come ogni 
prova dell’esistenza di Dio. 

In breve, Kant nega un sapere intuitivo, nega l’intelli- 
genza e perciò l’intuizione dell’intelligibile, la presenza alla 
mente della verità: la forma più alta di sapere è per lui il 
conoscere razionale o scientifico, la matematica e la fisica 
come scienze. Kant « critico » non è « platonico », è « aristo- 
telico ». L’intelletto e le sue forme « priori (le « categorie ») 
non sono attualità di conoscenza, ma potenzialità di cono- 
scere: quello kantiano è un «intelletto possibile», in quanto 
le forme non sono conoscenze o intuizioni originarie, ma 
pure condizioni del conoscere e condannate a restare tali 
fino a quando non vengono « riempite » dal contenuto del- 
l’esperienza; senza di esso, l’intelletto, in sè, è privo di cono- 
scenza, è pura possibilità di conoscere. Per conseguenza esso, 
che non è in sè attualità, può conoscere soltanto quanto è 
oggetto di esperienza, le cose sensibili nella loro fenomeni- 
cità. La conoscenza di tipo scientifico o razionale diventa così 
il modello del sapere e l’unico sapere umano. Kant critico — 
almento il Kant della Ragione pura — è più « illuminista » 
del Kant « precritico »: è il filosofo della ragione senza in- 
telligenza, della razionalità impersonale e non dell’ uomo 
concreto. 

Ma egli vide chiarissimo un aspetto del problema di Dio: 
che la prova cosmologica, come ogni altra, in fondo dipende 
da quella ontologica, che non è da identificare con la prova 
« dalla verità » o « dalla vita dello spirito », anzi la presup- 
pone e in essa s'inserisce; vide che il nodo della questione è 


172 Filosofia e Metafisica 





sempre lì: se esiste una verità intelligibile data alla mente. 
Fino a quando Kant fu « platonico » — o come si dice « pre- 
critico» — considerò valida la prova ontologica; diventato 
«critico » la rifiutò, perchè, negate le verità primali date 
alla mente ed ammessa la sola apriorità delle vuote con- 
dizioni del conoscere, gli era preclusa la possibilità di 
dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio 4 priori e con- 
seguentemente 4 posteriori. Ancora: col riconoscere la im- 
portanza primaria, rispetto a quella cosmologica, della pro- 
va ontologica, Kant si avvide che il problema dell’esisten- 
za di Dio inerisce alla vita dell’ente spirituale più che a 
quella del mondo fisico; perciò egli, dopo aver creduto di 
aver colpito al tallone l’Achille della metafisica, riprese il pro- 
blema in sede morale, cioè a proposito di un altro aspetto 
della vita dello spirito. Così egli distinse nettamente l’ « idea 
cosmologica » dall’ « idea teologica » facendo di quest’ ulti- 
ma un problema di pertinenza dell’attività morale. Ma, per 
lui, l’Idea è sempre una forma « vuota », che aspetta di rice- 
vere il contenuto dall’esperienza sensibile: la restaurazione 
della metafisica gli risulta impossibile; l’Idea resta ingiusti- 
ficata nel suo sistema. Se Dio fosse solo un’Idea della ragione 
nel senso kantiano, sarebbe un puro possibile; ma se Dio è 
solo possibile, Dio è impossibile; e tutto ciò che è diventa di 
colpo impossibile ed inesplicabile. 

L’idealismo trascendentale salta il fosso della pura « nou- 
menicità » dell’idea teologica, come dell’idea cosmologica e 
di quella psicologica; rovescia il fondamento metafisico del- 
l’idealismo oggettivo (la verità è principio del pensiero) e fa 
il pensiero umano principio della verità: non è « percettivo » 
ma di essa « costitutivo »; pensandola la fa essere. Così l’im- 
manentistica metafisica del Pensiero assoluto è antitetica alla 
trascendentistica metafisica della Verità; l’idealismo trascen- 
dentale o spurio è l’antitesi dell’idealismo trascendentista o 
autentico. Hegel è implacabile contro l’ « immediato », cioè 


L'esistenza di Dio 173 





contro il « sapere intuitivo » o dell’intelligenza che, come 
implicante la Trascendenza, è l’ostacolo maggiore alla ridu- 
zione di tutto il sapere al mediato conoscere razionale. La 
metafisica della verità è negata in quella del Pensiero o della 
Ragione assoluta, cioè nella metafisica dell’assoluta irragione- 
volezza, e l’uomo decapitato come singolo. La metafisica è 
perduta, ma resta il problema kantiano della sua restaura- 
zione. 

Essa fu possibile al Rosmini, il quale dalla critica dell’em- 
pirismo moderno non concluse alla forma 4 priori come pura 
condizione del conoscere, ma all’Idea come oggetto intuìto 
dalla mente. Egli riprende l’Idea dell’idealismo oggettivo, 
verità intuita dalla mente, ad essa data e di essa lume; restau- 
ra la verità primale come fondamento di ogni giudizio e su 
questa base ricostruisce la metafisica. Rosmini comprese benis- 
simo che per arrivare a Dio, o si passa dalla verità a noi inte- 
riore e trascendente, o non si passa e non si arriva, tanto da 
distinguere, a proposito del problema delle idee, l’ aspetto 
«ideologico » da quello che chiama « teosofico ». 

Il problema metafisico vero e proprio è quest’ultimo: 
origine da Dio dell’Idea dell’essere, oggetto intuìto dalla 
mente senza che esso sia Dio. Qui la soluzione del problema 
ideologico: le altre idee sono « figlie » dell’idea « madre » 
dell’essere, cioè giudizi sulle cose che ci presenta l’ espe- 
rienza. Noi non accettiamo alla lettera questa dottrina, ma 
facciamo nostra la sua anima di verità: vi sono verità se- 
conde (i giudizi sulle cose) per le quali è necessaria l’espe- 
rienza e sono dunque 4 posteriori, ma vi è in esse un ele- 
mento 4 priori, una verità prima — e non kantianamente 
pura condizione del conoscere — che le rende possibili, la 
quale non viene da nessuna esperienza nè è creata dalla 
mente; viene da Dio ed è alla mente data. Così è restaurata 
l’Idea nel senso dell’idealismo oggettivo e, con essa, ricosti- 
tuito il fondamento per la dimostrazione razionale dell’esi- 


174 Filosofia e Metafisica 








stenza di Dio; ripristinato il concetto della partecipazione 
iniziale e finale all’Essere (*). 

Da Cartesio a Hume due esigenze fondamentali dividono 
il pensiero moderno intorno al problema della verità: l’esi- 
genza razionalista e quella empirista. Il razionalismo appro- 
fondisce un problema che non va perduto di vista: se non vi 
è una verità prima indipendentemente dall’esperienza è im- 
possibile una conoscenza oggettivamente valida; le conclu- 
sioni dell’empirista Hume confermano la veridicità dell’istan- 
za razionalista. L’empirismo da parte sua, contro l’apriori- 


(4) Nel grande dialogo della filosofia moderna e soprattutto in seno all’em- 
pirismo inglese, occupa una posizione particolare il Berkeley. Grossolana e senza 
fondamento l’interpretazione di un Berkeley che nega la realtà del mondo; in- 
fatti, a parte quanto vi è di empiristico, fenomenistico e nominalistico, resta 
in lui un nucleo speculativo che s'inserisce nella linea dell’idealismo ogget- 
tivo, Il Berkeley non nega la realtà del mondo esterno; dice soltanto che 
è, e non può non essere, in rapporto costante con uno spirito che se lo 
« rappresenta ». Questa affermazione può essere intesa in due sensi: 2%) il 
mondo è la rappresentazione soggettiva di uno spirito — e non si sfugge al 
fenomenismo —; 5) il mondo è reale per quanto partecipa dell’Idea, la quale, co- 
me oggetto intelligibile, non può non essere senza una mente che la pensi. Forse 
il Berkeley si presta ad entrambe le interpretazioni, dato l’uso equivoco che fa 
del termine «idea », ma la più rispondente al suo pensiero metafisico è la se- 
conda. Nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, scrive testualmente: dal fatto che 
il mondo esiste in quanto vi è uno spirito che se lo rappresenta, « io non deduco 
che le cose non esistono realmente », ma — siccome non dipendono dall'essere 
percepite da me ed esistono indipendentemente dalla mia percezione — « concludo 
che deve esistere un altro spirito nel quale esistono ». Dunque, per il Berkeley 
a) le cose esistono realmente; £) non esistono perchè io o un’altra coscienza finita 
ce le rappresentiamo; c) siccome però non possono esistere da sole per la loro 
finitezza e contingenza, esistono per uno Spirito infinito ed assoluto, cioè in 
quanto Dio le fa essere; d) ma Dio fa essere le cose pensandole, cioè secondo 
un esemplare di verità; e) dunque le cose sono in quanto Dio (la Mente) le pensa. 
Interpretato così — le idee hanno un valore oggettivo di esemplari eterni della 
Mente creatrice — è sulla linea dell’idealismo oggettivo. Dio non conosce questo 
mondo perchè esiste, ma questo mondo esiste perchè Dio lo conosce; e S. Tom- 
maso: Universas creaturas non quia sunt, ideo movit Deus, sed ideo sunt quia 
movit. Che sia così lo prova anche il celebre esse est peraipi: l'essere delle cose 
non è nel « percepirle » (in tal caso la loro realtà sarebbe « posta » dal soggetto 
come per altre forme di idealismo), ma nell’« essere percepite », cioè nell’« es- 
sere pensate » come idee da una Mente. Infatti, il mondo è in quanto Dio l’ha 
creato, cioè lo ha pensato nel suo ordine o nella sua verità. 

Berkeley più che gnoseologo è metafisico: tema primo della sua speculazione 
è la teologia naturale, esistenza di Dio e degli spiriti finiti. Egli con la sua me- 
tafisica interiorista c non cosmologica e gnoseologista, s'inserisce nella linea pla- 
tonica; meglio, per restare più vicini al suo tempo, in quella pascaliana e non 
nella cartesiana. 


L'esistenza di Dio 175 





stico razionalismo deduttivista, pone l’istanza del concreto, ri- 
vendica il valore dell’esperienza e della singolarità degli enti, 
il fatto o il dato dell’esistenza. Le due istanze vanno conser- 
vate e perciò pongono il problema della loro sintesi. Il vichia- 
no « giudizio storico », sintesi di « filologia » e « filosofia », è 
il primo tentativo in tal senso: Vico, da questo punto di vista, 
oltrepassa la filosofia europea del suo tempo. La « sintesi a 
priori » di Kant e la « percezione intellettiva » del Rosmini 
sono la maturità del problema e le sue due soluzioni. Dun- 
que, dopo Vico Kant Rosmini, non c’è più questione sulla 
sinteticità dell’atto del conoscere, ma c’è, capitale e decisiva, 
sulla natura della forma o del principio della validità del 
conoscere stesso. Le forme o i princìpi sono: 4) funzioni del 
pensiero, o 5) sua attività creatrice, o c) dati al pensiero, 
suo oggetto, sapere originario? Questa la gran questione: la 
prima risposta differenzia Kant dall’idealismo trascenden- 
tale (seconda risposta) e la terza oppone Rosmini a Kant e 
all’idealismo. Come si vede, è in questione il problema della 
validità del giudizio: l’4 priori è oggetto della mente, o suo 
prodotto? Torna in discussione, in piena maturità del pen- 
siero moderno, il problema centrale della teoria della cono- 
scenza di S. Agostino. Le risposte kantiana ed idealistica, 
anche se in diversa maniera, fanno il pensiero umano crea- 
tore della verità, fondamento a se stesso: il primo ontologico 
è il primo conoscitivo. La risposta rosminiana, conforme nel- 
lo spirito a quella di S. Agostino e della tradizione plato- 
nica, fa della verità primale il lume dell’intelletto, dono di 
Dio, una Sua presenza alla mente. La verità, così intesa, 
implica l’esistenza di Dio ed è il fondamento dell’argomen- 
tazione razionale che la dimostra. La prima risposta dice: 
«l’uomo dà la verità a se stesso », e con ciò divinizza l’uomo 
e nega Dio: è la risposta atea; la seconda: «l’uomo riceve 
la verità da Dio », e con ciò stabilisce un rapporto di dipen- 
denza essenziale tra l’uomo e Dio: è la risposta teista. Ma la 
prima risposta, dopo Hegel, avanza verso uno sviluppo fa- 


176 a Filosofia e Metafisica 





tale: «se l’uomo dà la verità a se stesso, la verità è tutta 
umana »; dunque, «deteologizzazione » dell’uomo e della 
sua verità. Lo scetticismo è inevitabile e, con esso, il nulli- 
smo. Lo sviluppo è coerente: dalla negazione di Dio alla 
divinizzazione dell’uomo; dalla deteologizzazione dell’uomo 
alla sua negazione, al nulla. La parabola dell’immanentismo 
si conclude nell’assurdo; e la verità del teismo riemerge nel- 
la sua indistruttibilità. 


CapitoLo V 


LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO 


I. — Critica e precisazioni. 


Non ci meraviglierebbe che qualche Don Abbondio, mol- 
to superficialmente, ci accusasse di ontologismo e pensasse 
a chi sa quali «lontani pericoli ». È necessario intenderci 
sulla questione, anche perchè non ci sembra onesto che l’ac- 
cusa sia lanciata, com’è stato fatto, a chi dall’errore è 
immune. 

C'è conoscenza mediata di Dio quando: «@) obiectum se 
reddit cognoscibile per aliam realitatem quae illi est quod- 
ammodo similis; b) res cognoscitur per speciem alterius rei 
(cognitio rei per speciem relucentem in speculo, v. g. sensi- 
tiva). Crediamo che quanto abbiamo detto a proposito della 
dimostrazione dell’esistenza di Dio risponda perfettamente 
alle due proposizioni: a) la verità che la mente umana in- 
tuisce non è la Verità in sè o Dio, quantunque ad essa si- 
mile; 5) conosciamo Dio per l’immagine di Lui riflessa 
nello specchio della nostra anima senza che ci sia nota la 
Sua intima essenza. Immagine di Dio, dunque, che non è 
Dio; essa fa che Lui, pur essendo la sua natura diversa da 
quella della creatura, non sia un fine separato dall’uomo, co- 
me pensano anche S. Agostino e il Rosmini, ma comunicabile, 
per opera di Dio stesso, alla sua intelligenza e alla sua vo- 
lontà, per cui l’uomo, tornando al Creatore attraverso la 
Sua presenza in lui, opera di Dio stesso, compie un atto 
che ha con Dio una relazione essenziale. Nella nostra mente 


178 Filosofia e Metafisica 





vi è una verità primale che viene da Dio e dunque qual- 
cosa di divino, per cui l’ente pensante è unito al Creatore 
attraverso l’intermediario della verità. Consegue che lo spi- 
rito che cerca la verità cerca Dio: chi pensa la verità e nella 
verità pensa Dio ed ha Lui come fine. In questo senso ab- 
biamo detto che il pensiero umano è per sua natura teistico. 

In altri termini: la presenza immediata della verità alla 
mente non significa presenza immediata di Dio, intuizione 
della Sua essenza o contatto diretto della mente; significa solo 
presenza immediata della verità com’è data alla mente da 
Dio, e non della Verità com'è in Lui, cioè di Dio stesso. 

Se qualcuno ci accusasse ancora di ontologismo gli do- 
manderemmo se esclude qualsiasi rapporto tra l’uomo e Dio, 
qualsiasi forma di unione, sia pure indiretta, di partecipa- 
zione, sia pure mediata. Se così, gli obietteremmo che ha 
separato il Creatore dalla creatura e che non incontrerà mai 
Dio col pensiero: se per noi il pensiero è teistico, per lui è 
ateistico. Certo, non vi è visione immediata di Dio nè cono- 
scenza, nell’ordine naturale, della Sua essenza ed è errore 
l’ontologismo inteso come cognizione diretta di Dio; ma vi 
è un tipo di ontologismo — sfido l’uso della parola compro- 
messa — diverso dall’altro, anzi di esso la confutazione, il 
quale non esclude l’intuizione di verità intelligibili, interiori 
alla mente umana, anche se in maniera oscura e confusa e 
poi sempre più chiara e distinta. Non si tratta d’innatismo, 
come abbiamo sopra chiarito, ma d’inzeriorità, di presen- 
zialità della verità in noi e a noi, non di dato inerte get- 
tato nell'anima come in un pozzo, bensì di energia ope- 
rante, di presenza attiva e attivante il dinamismo del pen- 
siero, da essa orientato e guidato e senza di essa inesplicabile 
ed incomprensibile. E «interiorità » della verità significa 
«trascendenza » della verità stessa. 

Ora, se per ontologismo s'intende intuizione o visione 
immediata e diretta di Dio, il nostro, ripetiamo, non lo è 
affatto; se, invece, si considera impropriamente e a torto on- . 


L'esistenza di Dio 179 





tologista ogni posizione filosofica che ammette verità ante- 
riori all'esperienza e interiori alla mente che le intuisce, al- 
lora anche il nostro è ontologismo, che però non ha niente 
da spartire con l’altro. Infatti, per noi, di Dio vi è solo co- 
noscenza mediata ed indiretta, per partecipazione e analogia; 
dunque, l’impropria qualifica ci lascia perfettamente tran- 
quilli, perchè confortati dalla solidarietà anche di chi ci chia- 
ma ontologisti, tranne che, illuministicamente, non sostenga 
che l’uomo sia del tutto separato da Dio. E che noi parliamo 
di analogia e non di univocità nessun lettore di buona vo- 
lontà può metterlo in dubbio. 

« Vedere », « intuire » la verità che è in noi, non è affatto 
« vedere », « intuire » Dio: non conosciamo la Verità in sè, 
ma quanto di essa è riflesso nello « specchio » della nostra 
anima: videmus per speculum. Tra la verità in noi e la Ve- 
rità in sè vi è « somiglianza»: dunque rapporto di « ana- 
logia », che esclude l’identità o l’univocità delle due nature. 
La mente « partecipa » della divina Verità non direttamente, 
ma mediatamente, attraverso l’intermediario della verità ri- 
flessavi, per cui la verità in essa non è come è in Dio: 
è riflesso divino senza essere Dio, che, non ora, ma d/lora 
vedremo facie ad faciem (!). La verità, lume e vita del- 
l’umana mente, ha i caratteri divini della immutabilità e 
dell’assolutezza, ma non è Dio: è «il più splendido riflesso » 
di Lui (?). In questo riflesso la mente vede ciò che conosce 
assolutamente e ciò si dice omnia in divina veritate vel ratio- 
nibus acternitatis videre et secundum cas de omnibus iudi- 
care (*). Così S. Tommaso interpreta rettamente — non on- 
tologisticamente nè aristotelicamente — S. Agostino: l’ana- 
logia da noi stabilita tra Dio-Verità e la verità in noi è 
identica a quella tomista tra l’essere riferito a Dio e l’essere 
riferito a noi. 


(1) S. Agostino, De Trinitate, 1. XV, c. 8, n. 14. 
(2) S. Acosrino, De Gen. ad litteram, 1. X, c. 24, n. 40. 
(3) S. Tommaso, Summa contra Gentes, l. Ill, c. XLVII. 


180 Filosofia e Metafisica 





2. — Conoscersi ed essere conosciuti. 


Essenziale il problema del conoscere, ma più, quel- 
lo dell’essere conosciuti; infatti, l'indagine sul fondamen- 
to metafisico della conoscenza ha rivelato che l’uomo co- 
nosce ed è capace di verità in quanto è conosciuto. Il 
socratico « conosci te stesso », al pari del cartesiano Cogito, 
va anch'esso integrato: « Conosci te stesso e saprai che sei 
conosciuto »; conosci te stesso e dentro di te troverai la pre- 
senza di Dio; non avrai conosciuto te stesso fino a quando 
non avrai trovato questa presenza. La scoperta della verità 
in noi, il passaggio dal suo stato implicito e oscuro, avver- 
tito quasi come un lontano presentimento, allo stato d’in- 
tuizione chiara ed esplicita è una folgorazione, come se un 
fascio di luce investisse di colpo e improvvisamente la mente 
umana. Perciò l’intuizione della verità ci dà ad un tempo 
gioia e sgomento, senso di possesso e di ossequio: scopriamo 
in noi qualcosa che è più di noi. Nel momento che l’intel- 
ligenza è folgorata, quello della scoperta, una ricchezza 
la riempie e la fa folgorante: ricchezza e povertà, quella 
di chi è ricco per avere ricevuto in dono la ricchezza per 
cui è ricco ed insieme povero, in quanto è solo minimo 
anticipo per guadagnarsi la vera Ricchezza. Umiltà ed en- 
tusiasmo: umiltà di fronte alla verità che è divina; entu- 
siasmo chè essa, che è più di noi, è in noi. La verità intuita 
è indissolubilmente della nostra mente: figlia della verità, 
perchè tale, la mente è partorita madre di verità, creatrice 
di molteplici veri. L'intelligenza è poessca; creatrice di bel- 
lezza, di bene, di giudizi veri in forme sempre nuove ed 
infinite. Una verità scoperta è il motivo centrale che ri- 
torna, come in una sinfonia, variamente orchestrato nei 
veri che produce; c’è armonia, profonda, della intelligenza, 
del senso e della ragione; c’è l’unità concreta dello spirito 
nella luce della verità, il quale vede chiaro dove prima era 
buio, ha potere penetrativo e dimostrativo. La scoperta, che 


L'esistenza di Dio 188 





è nostra, della verità ci eleva al di sopra di noi in una zona 
di luce, al di là della quale permane il sacro mistero di Dio: 
la verità che ci sovrasta rimanda ad un Mistero che ci som- 
merge; ma nel suo abisso presentiamo che sarà la nostra 
chiarezza totale e definitiva, alla quale tende la mente, dal 
mistero sgomenta ma dal presentimento esaltata. È il limite 
della filosofia totale dell’uomo integrale, quella che è mania: 
meraviglia, entusiasmo, follia. La verità in noi stimola, per- 
cuote, pungola, sferza, fa di chi la ama un « genio di verità ». 
La preghiera del filosofo alla verità che lo genera e lo fa 
padre di veri è una sola, semplice e vera: « Signore, che 
sei la Verità, fa che io, nella umiltà della mia piccolezza e 
nell'amore per la Tua grandezza, possa essere il più pazzo 


dei saggi ». 


CaritoLo VI 


LA DIMOSTRAZIONE 
DALLA «VITA DELLO SPIRITO »: 
B) DALLA VITA MORALE 
E DAL DESIDERIO NATURALE DI BEATITUDINE 


1. — Contraddittorietà dello scetticismo. 


I risultati, a cui fino ad ora la nostra ricerca ha appro- 
dato, possono essere così riassunti: 4) la mente creata e fi- 
nita conosce verità immutabili e necessarie, di cui, per quan- 
to oscura e confusa, ha intuizione originaria: le sono pre- 
senti, interiori; 2) di esse la ragione si serve per giudicare 
di ogni cosa; c) son queste verità che ci insegnano, quasi 
« maestro interiore », la presenza di Dio in noi; d) esiste 
la Verità, dunque, esiste Dio. Se non esistesse non esiste- 
remmo noi stessi e non potremmo neppur dire che Dio esi- 
ste, in quanto mancheremmo di intelligenza. Degli scettici 
del suo tempo Aristotele scrive: «somigliano più a delle 
piante che a degli uomini » (4); lo scetticismo, in qualunque 
tempo, prima o poi, finisce fatalmente per abbassare l’uo- 
mo al puro livello biologico. 

L'osservazione di Aristotele, profondissima, merita un 
breve commento. Lo scettico nega che il pensiero umano 
sia capace di conoscere la verità che gli compete: fatto per 
la verità, non la conosce; dunque il suo valore e il suo es- 
sere sono nulli. Ma l’uomo è uomo per il pensiero (intelli- 


(I) ArisroreLE, Met., l. IV, c. 3. 





L'esistenza di Dio 183 





genza e ragione): negare l’uno è negare l’altro, è fare che 
l’uomo somigli più a delle piante che all'uomo che è. Op- 
pure: il pensiero, senza il suo oggetto naturale che è la 
verità, è il non-pensiero; l’uomo, che è non-pensiero, è 
non-uomo: un puro vegetale o un puro animale (livello bio- 
logico). Qualsiasi questione sull’uomo non ha più senso, ma 
appunto per ciò, non ha senso lo scetticismo, che, nel suo 
stesso porsi, è contraddittorio: si autonega. 

Non solo lo scetticismo, ma ogni posizione filosofica che 
nega una verità oggettiva è negazione del pensiero e dunque 
dell’uomo; lo è l’idealismo storicista e dialettico. Se la verità 
e la sua validità sono storiche, consegue che il pensiero greco 
è la verità « storica » dell’antichità, quello cristiano la verità 
« storica » del mondo moderno, ecc. Ciò significa semplice- 
mente che l’uomo non è capace di verità e non vi è verità, 
perchè verità significa verità e nient'altro: nè antica nè me- 
dioevale nè moderna, ma verità — scoperta nell’antichità o 
nel medioevo, da greci o da italiani — valida per ogni ente 
pensante, una volta scoperta e acquisita al pensiero. Se la 
verità è dialettica e la dialetticità è l’essenza del reale, conse- 
gue ancora che niente ha essere e nulla è vero: la realtà 
o la verità di ciascun ente è in « rapporto al » suo contrario 
dove si nega e si conserva dialetticamente. Nessun ente è 
quello che è: è nel suo conservarsi distruggendosi; nessun 
ente ha una sua realtà o essenza e la verità non è tale. 

Noi abbiamo difeso la presenza oggettiva della verità alla 
mente, perchè solo così si può difendere la validità del pen- 
siero e con essa l’uomo: perdere la verità è perdere il pen- 
siero, è svuotare l’uomo di se stesso, della sua natura, farlo 
somigliante, come dice Aristotele, alle piante e alle bestie. 
D'altra parte, se si nega validità oggettiva al sapere umano, si 
nega il fondamento naturale di quello rivelato, cioè la base 
della fede. A chi avrebbe parlato Dio se l’ente pensante non 
avesse lume oggettivo d’intelletto e discorsivo potere di ra- 


184 Filosofia e Metafisica 





gione ? Il suo discorso agli uomini avrebbe, in tal caso, lo stesso 
senso, cioè nessuno, che per le piante e le fiere; o tanti sensi 
mutevoli quante sarebbero le contingenti posizioni « stori- 
che » del pensiero, o le autonegantesi sue posizioni « dialetti- 
che »j cioè ancora alcun senso sensato. 


2. — La prova dalla vita morale. 


Fino ad ora abbiamo insistito sull’attività intellettiva, af- 
finchè la prova non sembrasse pregiudicata da altri elementi, 
e soprattutto perchè qualsiasi altra possibile dell’esistenza di 
Dio, a nostro avviso, presuppone quella « dalla verità ». Ma 
ora è necessario analizzare gli altri aspetti della vita dello 
spirito, affinchè la prova manifesti tutta la sua aderenza al- 
l’uomo nella pienezza della sua integralità e riveli intera la 
sua forza normale. 

La verità originaria presente alla mente non interessa solo 
la vita intellettiva, ma ogni forma della nostra attività. Anche 
la vita morale ha il suo fondamento nei princìpi originari che 
guidano, orientano e informano ogni azione, quantunque nes- 
suna li adegui: ne sono la misura senz’essere da essa misu- 
rati. L'azione « buona » o quella « doverosa » non fanno es- 
sere bontà e dovere, anzi non vi sarebbero senza la bontà e 
il dovere, che invece sarebbero ugualmente anche se nel 
mondo non fosse e non fosse mai stata alcuna azione buo- 
na e doverosa. Possiamo concludere: non vi sono i valori 
morali perchè esistono le azioni che li esprimono, ma queste 
in quanto esistono quelli, preesistono a tutte le azioni e ne 
sono indipendenti. 

I valori morali sono innanzi tutto verità oggettive, intuite 
dalla mente; in questo senso, anche se « pratici », sono teo- 
retici, regole della volontà che ad essi è obbligata a subordi- 
narsi, e ai quali si subordina e uniforma ogni qualvolta ne 
« riconosce » la verità ed il pregio: è la volontà volente se- 
condo l’ordine morale. La ragione speculativa giudica di ogni 


L'esistenza di Dio 185. 








cosa secondo i princìpi primali del giudizio; la ragione pra- 
tica di ogni azione secondo i valori morali, i quali sono verità 
(e come tali «teoretici ») regolatrici della volontà e della no- 
stra condotta e perciò aventi un uso pratico. Per conseguenza, 
come alla mente sono dati i princìpi fondamentali del cono- 
scere, così le sono dati quelli del volere; dalla presenza in 
noi di verità speculative si argomenta l’esistenza di Dio come 
Verità in sè; dalla presenza in noi dei valori morali si argo- 
menta l’esistenza di Dio come Valore assoluto, Bene sommo. 
L’argomentazione è identica a quella fatta a proposito della 
prova « dalla verità »: la mente umana è capace di conoscere 
valori morali assoluti che sono la vita, la forza e l’efficacia 
della volontà che di essi è come la rivelatrice; essi non sono 
creati dalla mente o dalla volontà, nè indotti a posteriori 
dall’esperienza, la quale anzi li presuppone; dunque esiste 
Dio come Valore assoluto o assoluta Volontà creatrice di 
tutti i valori, di essi fondamento e sostegno. 

Il bene morale è anche «attrattivo »; la sua « attrazione » 
conferisce alla prova una nuova sfumatura e rivela tutta la 
sua potenza dinamica. Oggetto naturale della volontà è il 
bene, sua verità; essa ne è attratta, anche quando lo misco- 
nosce e gli si pone contro: il pentimento del male fatto, 
rivincita del bene, è opera della sua forza di attrazione. Il 
bene è il principio motore della volontà e l’elemento infor- 
matore delle volizioni. Non c’è felicità senza bene; il suo 
possesso è la felicità di ogni ente spirituale; dunque il bene 
è il principio di ogni nostra azione. Vi è una intuizione intel- 
lettiva di esso, una presenza, che è presenza di Dio come 
Bene sommo; non intuizione, ma ancora immagine reale di 
Lui e pertanto il rapporto tra il bene intuito e Dio come 
Bene Sommo è sempre analogico. Intuizione operante, crea- 
trice: conoscere il bene e volerlo è amarlo, esserne attratti; 
esso genera il movimento della volontà e ne concentra gli 
sforzi verso lo stesso fine, che non è solo il bene che l’ente 


486 Filosofia e Metafisica 





finito può conoscere e praticare, ma, attraverso questo, è il 
Bene Sommo, che trascende ogni bene e lo fonda. Amare il 
bene è operare nel bene, che si possiede in esso operando; le 
azioni buone sono le risposte veraci che noi diamo all’oggetto 
della nostra suprema aspirazione. Solo quando il bene diventa 
regola costante e continua della condotta, l’ente razionale, 
stimolato interiormente dall’attrazione del Bene sommo, 
cammina e si approssima sempre più alla meta. È la sag- 
gezza, ma saggezza mossa, inquieta ed attiva, ricca ed in- 
digente, suscitatrice di sempre nuove risposte secondo la 
norma regolatrice ed orientatrice. Il Bene Sommo, lume del- 
la mente e della volontà, illuminando, ama: Dio illumina 
ed il suo lume è amore; noi, gli illuminati, ci illuminiamo 
amandoci ed amando gli altri enti creati. L'amore è l’attra- 
zione del bene; Dio è l’attrazione assoluta del Bene assoluto. 
Il dinamismo della volontà, alla quale è presente il bene, è 
originariamente orientato verso il Bene Sommo o Dio, Cen- 
tro assoluto di attrazione, unificatore di tutti i suoi sforzi, 
che, altrimenti, sarebbero inspiegabili, inintelligibili. L’ente 
spirituale finito ha dunque il desiderio naturale del Bene 
Sommo, assolutamente ed infinitamente perfetto. 


3. — La prova dal desiderio naturale di beatitudine. 


L’ultima proposizione è la « maggiore », se alla dimostra- 
zione si dà la forma sillogistica, di un 'altra prova dell’esi- 
stenza di Dio, la quale si fonda pur essa su quella « dalla 
verità ». Infatti, la proposizione — «tutti gli uomini deside- 
rano naturalmente il Bene sommo, infinitamente perfetto » 
— non sarebbe formulabile se non avessimo la nozione del 
bene oggettivo; ma tale nozione non potremmo avere — 
non la crea la mente altrimenti l’uomo sarebbe Dio, nè si 
può indurre dall’esperienza la quale, al contrario, la presuppo- 
ne — se non ci fosse data originariamente come oggetto in- 
tuito. Per conseguenza: «) gli uomini desiderano natural- . 


L'esistenza di Dio 187 





mente il Bene sommo solo in quanto vi è in loro la sua pre- 
senza indiretta, ma attiva ed operante; 5) il desiderio del 
Bene sommo presuppone dunque la nozione di esso, cioè un 
principio di verità. Ciò rileva — diciamo fugacemente — 
quanto sia errata l’interpretazione modernista di tale argo- 
mento, la quale si fonda su un presupposto agnosticismo che 
distrugge fin dall’inizio il fondamento oggettivo della prova; 
come pure quella pragmatistica, che, negato il suo valore teo- 
retico, limita la forza dell’argomento alla sua portata pra- 
tica e volontaristica. 

«Tutti gli uomini cercano di essere felici; senza eccezione. 
Quali che siano i differenti mezzi che adoperino, tendono 
a questo scopo... La volontà non muove mai il più piccolo 
passo se non verso questo oggetto. È esso il motivo di tutte 
le azioni di tutti gli uomini, financo di quelli che si vogliono 
perdere... »; così Pascal in una delle sue Pensées. Questo desi- 
derio di felicità, naturale ed irresistibile, è il movente della 
volontà che, spinta di volizione in volizione, non sa e non 
può arrestare il suo dinamismo se non quando fruisce del 
Bene infinitamente perfetto. Ma nessun bene finito può ade- 
guare le tendenze e i desideri della volontà, il suo desiderio 
intimo e profondo del Bene assoluto, anzi il possesso dei beni 
finiti lo accresce sempre di più: la « volontà voluta » non 
adegua la « volontà volente », che vuole ancora e vorrà sem- 
pre fino a quando non possiederà l'oggetto della sua suprema 
aspirazione, come scrive il Blondel. Ma se è così, se gli 
uomini, anche quando si perdono, vogliono la felicità piena 
— quella che non rinvia — è evidente che la loro volontà è 
originariamente orientata verso il suo fine assoluto, cioè che 
è in essa la presenza di quel Bene sommo a cui aspira. Si 
può dire con Agostino: qualsiasi cosa l’uomo cerchi e voglia, 
cerca e vuole Dio. C’è al fondo del desiderio naturale di 
beatitudine il bisogno di fedeltà ad un bene a cui si può 
restare sempre fedeli perchè assoluto: l’infinita capacità di 


188 Filosofia e Metafisica 





volere trova in esso il suo oggetto adeguato, la volontà rea- 
lizza il piano di se stessa. Venir meno a questa fedeltà è la 
caduta dell’uomo al disotto dell’uomo. Vi è un dramma es- 
senziale alla radice della volontà: vuole con tutta se stessa 
il Bene assoluto e sa che anche la fedeltà e l'impegno al mas- 
simo della loro forza normale non la garantiscono dalla ca- 
duta, nè bastano ad ottenere da soli la beatitudine; ma sono 
la condizione indispensabile perchè essa resti conforme alla 
sua norma e non evada dalla sua partecipazione finale. In- 
fatti, orientare tutta la capacità della volontà volente verso 
un voluto finito è atto innaturale, è la guerra della volontà 
contro se stessa, contro il suo desiderio naturale del Bene 
infinito; è il male, in quanto, dato che il desiderio di infinito 
è indistruttibile, l’infinita capacità di volere, concentrandosi 
in un finito, lo assolutizza, non lo riconosce per quello che è. 
Così l’aspirazione all’infinito, teista e religiosa, degrada in 
idolatria e fanatismo. È il sovvertimento: dir vero al falso 
per aver detto falso vero. L'autenticità della natura umana è 
perduta fino a quando, caduto l’idolo, l’orientamento genui- 
no della volontà non riprende il suo corso naturale e non si 
eleva al vero livello umano di desiderio naturale di beatitu- 
dine in Dio. 

Ma l’esigenza, come la pura esperienza vissuta, non ba- 
sta e, se puramente psicologica, non è dimostrativa. Rispon- 
diamo: 4) qui si tratta di un’esigenza naturale, essenziale ed 
universale dello spirito e, come tale, dell’essere umano; 5) i 
dati psicologici non sono illusioni ma realtà psicologiche; c) 
l’esperienza interiore, per il fatto che è tale, è più vera di 
qualsiasi esperienza esteriore; d) non ci troviamo di fronte 
al puro dato psicologico nel senso ristretto e soggettivistico 
del termine, ma alla vita dello spirito, che è un dato reale e 
all’intuito fondamentale del bene, oggetto della mente. Ora, 
il dato psicologico che qui consideriamo — tutti gli uomini 
desiderano la felicità piena e dunque tutti aspirano al Bene - 


L'esistenza di Dio 189 





sommo, il solo che possa appagare questo loro naturale desi- 
derio o essenziale esigenza — oltre che indicativo di una con- 
dizione reale, è anche aztestativo o testimoniante, in quanto 
quella condizione sarebbe inesplicabile senza la nozione o la 
presenza interiore del Bene sommo, inquietudine e movi- 
mento della volontà, verso cui è attratta in un dinamismo 
che in questo scopo unico ed assoluto trova la sua direttrice 
essenziale e la sua unità totale. Ma proprio nella indicatività 
e attestazione della condizione reale è il fondamento della 
dimostrazione razionale che giustamente si esige; non vi po- 
trebbe essere nella volontà la presenza creatrice di tanta vita 
spirituale ed orientatrice di ogni desiderio ed azione, se non 
esistesse il Bene sommo, a cui la volontà stessa aspira. In 
breve: non vi sarebbe nell’uomo desiderio di Dio, se Dio non 
esistesse. L’« indicatività » dell’esigenza, chiarita, approfon- 
dita e colta nella condizione naturale dell’ uomo, si rivela 
fondamento oggettivo della dimostrazione razionale. Ma se è 
così, anche se il desiderio di Dio si manifesta per ultimo, an- 
che nel caso che non si manifestasse affatto, esso è ugual- 
mente il motore interiore di tutto il dinamismo della vita 
spirituale: senza questa originaria « presenza della trascen- 
denza » (dell’Al di là interiore e trascendente) l’uomo sarebbe 
privo di ogni segno di Dio perchè da nient'altro potrebbe 
riceverlo o ricavarlo. Giustamente San Tommaso nota che il 
desiderio naturale e necessario del fine ultimo o del Bene 
sommo non è una inclinazione incosciente, contingente e 
transitoria della volontà, ma un’inclinazione consapevole, 
che ci porta verso il bene, non della sola volontà, ma di tutto 
l’uomo (7). Gli altri desideri non sono che in funzione del- 
l’appagamento del desiderio essenziale e fondamentale della 
beatitudine, cioè del possesso del Bene sommo (5); dunque, 


(2) S. Tommaso, De veritate, 22, 3, ad 5 m. 

(3) Qui non si confondono affatto Bene e felicità, Valore e beatitudine: 
l'aspirazione alla felicità non significa volere il Benc per la felicità. Se fosse pos- 
sibile pensarlo senza contraddizione, si potrebbe dire ed è stato detto dai mistici, 


190 Filosofia e Metafisica 





la spiegazione di tutto il movimento della volontà va cercata 
in questo « implicito essenziale », sua unità primitiva, di cui 
le singole azioni non sono che l’esplicazione parziale e a 
cui tendono tutte come alla suprema unità finale. Il bene 
infinito a cui la volontà tende è la ragione per cui vuole gli 
altri beni: come l’oggetto della intelligenza è il Vero asso- 
luto, così l'oggetto della volontà è il Bene sommo. 

L'ente spirituale è capace di desiderare l’Infinito e per- 
ciò è vita perenne e dinamismo ascendente. Dinamismo «ver- 
ticale» e non «orizzontale», che è di ordine fisico o biolo- 
gico e non di natura spirituale; la dinamica dello spirito è 
processo di trascendenza reale e non apparente o spuria, 
quello che si mantiene sempre allo stesso livello, e non ascen- 
de, che guarda « avanti » e non «in alto », avanza ctelluri- 
camente » verso ciò che è più ir /è e non sale « iperurania- 
mente » verso quello che è 42 di lè. Noi abbiamo perduto il 
senso profondo ed autentico dei termini più pregnanti e per- 
ciò più ricchi ed espressivi della nostra vita spirituale, quali 
quelli di dinamismo, ascesi, trascendenza, ecc., corrotti dal- 
l’uso immanentistico, e perciò naturalistico, che li ha depau- 
perati, depotenziati, detonalizzati. Un dinamismo che non è 
mosso ed alimentato da un fine che lo trascende è agitazione 
inconcludente ed arrovellamento disperato; una trascendenza 
come posizione provvisoria di un che che sarà immanentiz- 
zato è appiattimento dello spirito nell’orizzontalità del li- 
vello terrestre e perciò negazione del suo slancio ascendente 
alla trascendenza vera. Chi dice che noi, tendendo all’infi- 
nito, lo « realizziamo » nel nostro stesso tendere e lo « co- 


e come espressione mistica non è contraddittoria) che la creatura è disposta a sof- 
frire tutte le pene anche eterne, in vita e dopo la morte, pur di fruire del Bene 
sommo. Pertanto il desiderio di beatitudine Jo è del Bene assoluto in sè, anche 
se tale possesso dovesse comportare l'eterno dolore; ma, senza che la creatura si 
preoccupi della propria felicità, il Bene sommo per se stesso voluto è già tutta la 
beatitudine dell’ente creato. In altri termini, il desiderio naturale di beatitudine, 
se il possesso del Bene esigesse tutta la nostra infelicità possibile, sarebbe ugual- 
mente desiderio di beatitudine e felicità. 


L'esistenza di Dio 198 





struiamo » nel nostro divenire, dice cosa che non ha alcun 
senso e, degradando l’infinito alla nostra finitezza, degrada 
noi al livello della fisicità e ci assimila alle cose. Il Gott-im- 
werden di Hegel è un'espressione senza senso, in quanto 
usa il termine Dio e dice di Lui cosa che Lo nega, con- 
traria alla Sua natura. Dio non è un fine che « produce » 
l’uomo — ed è ridicolo che lo possa produrre — ma un fine 
a cui l’uomo « tende » e può « attingere »; e ogni fine a cui 
« si tende » e che si vuole « attingere » presuppone precisa- 
mente l’esistenza del fine desiderato. Dio, dunque, a cui 
ogni uomo tende, è la Mente che è Verità, la Volontà che 
è Bene assoluto: è la Persona assoluta, fondamento di ogni 
vero e di ogni bene e perciò essenzialmente e perennemente 
creatrice. Il Bene sommo trascendente è appunto il fine ade- 
guato dell'umano naturale desiderio di beatitudine. 

Sia, tutti gli uomini desiderano naturalmente il Bene som- 
mo; ma potrebbe darsi che, desiderandoio, tendano a qual- 
cosa di inesistente e impossibile. Abbiamo già risposto a 
questa obiezione, la cui forza è puramente apparente, in 
quanto, dimostrato che tutti gli uomini desiderano natu- 
ralmente il Bene sommo, è provato anche che il loro desi- 
derio naturale non può essere vano, proprio perchè natu- 
rale. Omne agens agit propter finem (*), e non vi è desi- 
derio naturale che sia privo del suo oggetto, in quanto un 
desiderio naturale senza l’esistenza dell'oggetto proporzionato 
sarebbe contraddittorio ed inintelligibile: una potenza senza 
il suo atto, nel linguaggio tomista. Per conseguenza, come ar- 
gomenta Campanella, se Dio non fosse, l’uomo non potrebbe 
avere il desiderio dell’Infinito, in quanto la mente finita non 
potrebbe eccedere il mondo nelle sue appetizioni; se lo ec- 
cede è perchè l’Essere infinito dà fondamento a questo suo 
desiderio; dunque esiste il Bene sommo, infinitamente per- 
fetto, nostro fine supremo e beatitudine. Il bene per sua 


(4) S. Tommaso, Summa contra gentes, }. III, c. 2. 


192 Filosofia e Metafisica 





natura tende a comunicarsi; Dio, Bene sommo, è massima- 
mente diffusivo, Attività creatrice, da e per cui è ogni bene 
creato, di Lui debole immagine. Ma per quel che è di bene 
è reale, ordinato ad un fine, che è il principio ed il fine 
del suo movimento (7). 

Ma anche la prova dal desiderio naturale di beatitudine 
‘presuppone l’altra « dalla verità », senza l’intuizione della 
quale non vi sarebbe in noi il desiderio del Bene sommo, 
in quanto l’uomo non sarebbe creatura intelligente. Dio, 
creandomi ente intelligente, mi dà quanto è necessario che 
io abbia per essere tale; la verità a me interiore fa che la 
mia vita intellettiva resti sempre sotto la dipendenza divina: 
cammino sulle orme di Lui e dunque su una via già se- 
gnata ed orientata; perciò Dio è anche il fine ultimo della 
mia volontà. Nessuna verità finita può soddisfare la mia 
intelligenza e nessun bene creato il desiderio infinito della 
mia volontà; io ho avuto quanto basta affinchè la nostalgia 
della « patria » sia invincibilmente impressa nella mia vita 
spirituale e ne segni la « via »: et irrequietum est cor nostrum 
donec requiescat in te (6). L’autocoscienza o la consapevolez- 
za di quel che sono è insieme coscienza di me o dell’io e 
di Chi o del Tx che trascende; sapere me è sapere che Dio 
è; ed è amarLo. L’autocoscienza profonda, sapersi fino in 
fondo, involge la coscienza dell’esistenza dell’ente finito e 
quella dell’Essere infinito. 

L’autocoscienza kantiana ed idealistica, invece, è coscienza 
di me come trascendentalità o unità delle forme trascen- 
dentali. Per conseguenza: è coscienza di me vuoto (le forme 
a priori in sè sono vuote) o di me piero, ma del contenuto 
dell’esperienza, delle cose, a cui è limitata l'applicazione va- 
lida delle forme. La trascendentalità, com’è definita da Kant, 


(5) Il desiderio naturale di beatitudine, come scrive il Blondel, sebbene 
spesso ciò si dimentichi, « sostiene e comanda ogni speculazione filosofica sul 
mondo, sull’umanità e sul loro destino » (Le problème de la philosophie catho- 
lique, Paris, 1928, p. 161). 

(6) S. Acostino, Confess., L I, c. 6, n. 1. 


L'esistenza di Dio 193 





non può mai riempirsi di Dio e perciò l’autocoscienza tra- 
scendentale non può mai trascendere il mondo, non è mai 
coscienza di me e di Chi mi trascende. L’idealismo trasfor- 
ma l’Io trascendentale kantiano in entità metafisica per cui, 
da un lato, elimina il concetto di noumenicità (non vi è la 
«cosa in sè» come pensabile), e dall’altro, dato che l’As- 
soluto è lo stesso Io trascendentale, lo identifica coerente- 
mente con l’unità del mondo. Così l’autocoscienza resta pri- 
gioniera della trascendentalità e lo spirito, tutto, si assimila 
alla natura: l’immanentismo è cosmismo assoluto. L'uomo 
muore nella trascendentalità: il suo desiderio naturale di 
beatitudine è compresso e soffocato; il suo fine ultimo è il 
mondo, il suo unico amore la terra. Dio è morto e, con Lui, 
l’uomo. 


CapiroLo VII 


BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI 
ONTOLOGICO E COSMOLOGICO 


Da quanto abbiamo detto, appare evidente che la prova 
« dalla vita dello spirito » non è riducibile nè a quella onto- 
logica nella forma di Sant’ Anselmo e nelle altre che ha rice- 
vuto nel corso della storia della filosofia, nè alla prova co- 
smologica, di cui la più chiara ed esatta formulazione sono 
le « cinque vie » di S. Tommaso. Non è riducibile, ma non ne 
esclude alcuna, anzi le include e, a nostro avviso, dà loro più 
forza, perchè di esse è il fondamento. Sarebbe quanto mai 
opportuno, ma non rientra nei limiti della nostra indagine, 
un esame approfondito delle due prove ontologica e cosmo- 
logica, nelle diverse e pur simili formulazioni che hanno 
avuto, in rapporto a quella da noi sostenuta; mostrerebbe 
come esse, in molti punti concordanti e convergenti, sono 
riducibili in fondo ad una sola. Qui ci limitiamo a qualche 
osservazione, che giova a chiarire quanto abbiamo scritto. 


— La prova ontologica. 


È la più accanitamente difesa e combattuta, ma resiste 
sempre; non si tratta di respingerla o accettarla integralmen- 
te, ma di bene intenderla e soprattutto di integrarla. Infatti, 
se essa presuppone la prova « dalla verità », tipica di S. Ago- 
stino, ci sembra impossibile non riconoscerla vera, in quanto, 
in tal caso, muovendo dalla realtà della vita spirituale, 
vien meno la forza della principale obiezione: impossibilità 


L'esistenza di Dio 195 





di dedurre dall’idea di Dio la sua esistenza, di passare dal- 
l’ordine del pensiero a quello della realtà. A nostro avviso, 
l'argomento di Anselmo presuppone la dottrina agostiniana 
della verità e va inteso all’interno di tutto il suo pensiero. 

I sostenitori della prova ontologica, S. Anselmo e S. Bo- 
naventura sicuramente, sono preoccupati del fatto che, se la 
nozione di Dio non è in noi, non può in alcun modo essere 
indotta dall’esperienza delle cose finite. Ciò significa: se non 
è presente alla mente e da essa interiormente intuita la ve- 
rità, fondamento di ogni vero particolare e modo come Dio 
può essere in noi, non è possibile all'uomo partecipare del 
suo Principio: senza una verità originaria che illumina la 
mente, egli non è capace di verità e di argomentare secondo 
verità; di pensare e pensare Dio. Ma ciò più che dall’Idea 
di Dio, come chiariremo tra poco, è partire dal fatto del 
pensare: è un fazto che la mente conosce verità aventi i ca- 
ratteri divini della necessità, dell’immutabilità e dell’asso- 
lutezza; un fazto che essa non le crea e non le riceve dalle 
cose finite e contingenti; dunque esiste Dio come Verità in 
sè, da cui deriva la verità che è in noi. Intuire l’idea di Dio 
è possibile in quanto si intuisce la verità in noi, quella di 
cui Egli ci ha fatto partecipi e che è presenza di Lui; verità 
illuminante e operante, tanto è vero che le operazioni del- 
la ragione (il giudizio e la dimostrazione) sono possibili in 
quanto presuppongono quel lume di verità che è anche lu- 
me di bene, che alimenta il movimento della volontà e fa 
che sia desiderio ed amore del Bene sommo. 

Se teniamo presente la formulazione agostiniana della 
prova « dalla verità » nella forma sillogistica in cui l'abbiamo 
enunciata, la minore — «la mente umana intuisce verità 
immutabili e assolute, ad essa superiori » — implica l’esi- 
stenza di Dio, cioè della Verità in sè: non vi potrebbe essere 
verità presente alla mente e ad essa superiore se non esistesse 
la Verità. Abbiamo avuto cura di dimostrare che non c’è 
verità semza un pensiero che la pensa e che, d’altra parte, 


19% Filosofia e Metafisica 








non c’è pensiero senza verità: nell’uomo vi è verità, dun- 
que egli è un ente pensante; privo della verità cesserebbe 
di esserlo. Per conseguenza: esiste un pensante, dunque, esi- 
ste Dio, Pensiero assoluto creatore di ogni ente pensante. 
Certo, per analisi, posso distinguere e distinguo tra il pen- 
sare e la verità oggetto della mia mente, ma, in concreto, 
il pensare, perchè tale, involge già la verità e questa il pen- 
siero di cui è oggetto; dunque concretamente io esisto come 
essere pensante la verità e pensante per la verità: l’una ade- 
risce all’altro e sono inscindibili. Perciò la prova « dalla ve- 
rità » non muove da un possibile, ma dall’ente pensante, dal- 
l’uomo. D'altra parte, la verità oggetto della mente e per 
cui la mente è mente, non ha la sua sussistenza nell’ente 
pensante che la pensa, in quanto questo è finito e contin- 
gente e quella infinita e necessaria; dunque, pensata dalla 
mente, le è superiore. Di qui la necessità che esista il Pen- 
siero infinito, necessario e assoluto, Soggetto sussistente del- 
la Verità, che con esso s’identifica. Nell’ente creato la verità 
non scindibile dalla mente è suo oggetto, da nessuna cosu 
creata adeguato; perciò l’unità non significa anche identità; 
nell’Ente increato Pensiero e Verità s’identificano. 

A noi sembra che l’argomento ontologico di S. Anselmo 
vada inteso tenendo presente quanto già detto. Egli muove 
dall’idea di Dio come « l’essere di cui non si può pensare nulla 
di maggiore »; tale idea importa innanzi tutto che sia pen- 
sata, cioè che vi sia una mente che pensa; ma non vi può 
essere pensiero senza presenza di verità; dunque l’idea di 
Dio importa l’esistenza di un ente pensante e, come tale, 
dotato di verità. Per conseguenza, la presenza alla mente 
dell’idea di Dio presuppone l’esistenza dell’ente che è pen- 
siero ed è tale perchè in lui è presente la verità; l'argomento 
ontologico presuppone la prova « dalla verità ». Una sarebbe 
la difficoltà, che non è alcuna di quelle prospettate da Gau- 
nilone, S. Tommaso e Kant: come fa l’uomo a pensare 
Dio? ad averne un’idea vera? In fondo, l’ateo nega Dio per-. 


L'esistenza di Dio 197 





chè nega che si possa averne un’idea vera; se lo si con- 
vince che l’idea di Dio è presente alla mente e che perciò ne- 
garne l’esistenza è contraddittorio, si arrende 0, se non al- 
tro, si dispone a ragionare secondo verità. Dunque, superata 
la difficoltà di come l’uomo abbia l’idea di Dio, la prova 
è imbattibile, in quanto basta pensare Dio per pensarlo esi- 
stente. L’alternativa che pone l’argomento ontologico è la 
seguente: o si pensa Dio o non Lo si pensa; se lo si pensa, 
Dio esiste. L’ateo Lo nega perchè non pensa a Dio nel 
momento che Lo nega: la sua mente è fuori di se stessa. Dun- 
que, ripetiamo, se Dio si pensa, esiste; ma per il fatto che 
la mente Lo pensa, le è presente la verità e con essa l’idea 
di Dio. 

Ancora: se Dio è l’essere di cui non si può pensare nul- 
la di superiore, la mente, nell’atto che Lo pensa, riconosce 
che le è presente qualcosa che è superiore ad essa, e ad 
ogni cosa esistente o pensabile; per conseguenza conclude 
(l’argomentazione è identica a quella della prova « dalla ve- 
rità ») che esiste l’Essere assoluto. La verità presente alla men- 
te le aderisce, come già detto, per cui non c’è mente senza 
verità e verità che non sia oggetto di una mente. L’idea di 
Dio, in S. Anselmo, va intesa allo stesso modo: in concreto, 
c'è l’uomo pensante Dio e l’idea gli appartiene come qual- 
cosa che fa parte della sua natura; non il pensiero e l’idea 
di Dio, ma il pensiero che pensa Dio. Così intesa, la prova 
perde quel carattere concettuale ed astratto che, a prima vi- 
sta, presenta e acquista tutta la sua concretezza: non muove 
dall’idea di Dio, ma dall’ente pensante Dio, dal pensiero cui 
aderisce la verità, connaturata, nell’atto creativo, alla crea- 
tura umana. 

Bisogna ancora notare che nei sostenitori dell’argomento 
ontologico c'è un’altra preoccupazione legittima, quella di 
dimostrare l’esistenza di Dio, ma del Dio cristiano, cioè del- 
l’Essere che è Pensiero e Volontà, Verità e Bene creatore, 
Verità illuminante ed Amore. In altri termini, il Dio di cui 


198 Filosofia e Metafisica 


si dà la prova deve soddisfare non solo le esigenze della ra- 
gione ma anche quelle della fede, dato che Egli è l'oggetto 
proprio della religione e della coscienza religiosa. Per il 
filosofo cristiano, il problema dell’esistenza di Dio si pone 
in questi termini: è razionalmente dimostrabile l’esistenza 
del Dio a cui si crede per fede? Quale il fondamento razio- 
nale della fede in Dio Padre, Creatore, Amore, Provviden- 
za? Per lui, senza che la fede abbia a pregiudicare la razio- 
nalità della dimostrazione, non si tratta solo della ragione, 
ma del suo uso cristiano, cioè della ragione posta a servizio 
della fede; dunque di dimostrare non l’esistenza di un Dio 
Causa prima non causata del divenire, Legge dell’Uni- 
verso, come quello aristotelico, ma di Dio Padre Creatore 
ecc., Spirito o Persona Assoluta. Posto così il problema, il 
punto di partenza dell’argomentazione ha una grande im- 
portanza: bisogna partire da un ente che contenga tutti gli 
elementi per concludere a Dio come è creduto per fede e 
poi anche conosciuto esistente per ragione. Sant'Anselmo su 
questo punto è molto esplicito, all’inizio: Ergo, Domine, 
qui das fidei intellectum, da mihi, ut quantum scis expedire 
intelligam, quia es sicut credimus, et hoc es quod credimus 
(Proslogion, c. II); e nella conclusione della sua dimostra- 
zione: Gratias tibi, bone Domine, gratias tibi quia quod 
prius credidi te donante, iam sic intelligo te illuminante, 
ut si te esse nolim credere, non possim non intelligere (Proslo- 
gion, c. IV). 

È qui il punto: la mente intende Dio perchè Egli, la Ve- 
rità, la illumina facendola partecipe di verità, di quelle che 
rendono valida la discorsività razionale. In questo senso è 
vero che, se Dio non fosse originariamente a noi interiore, 
non potremmo mai dimostrarne l’esistenza, non saremmo 
neppure enti intelligenti e per conseguenza neanche razio- 
nali. Ma, oltre a ciò, ripeto, resta l’altra preoccupazione testè 
notata: chi parte dal mondo fisico rischia di non incontrare 
il vero Dio — quello in cui si possa credere, che si possa 


L'esistenza di Dio 199 





pregare, adorare, sentire vivente nel cuore di ogni uomo — 
ma un Principio impersonale, una Causa cosmica, una Leg- 
ge suprema della natura, come capitò ad Aristotele, il filo- 
sofo di un deismo ante litteram e non del teismo. Ciò spiega 
perchè San Tommaso, filosofo cristiano, pur essendo aristo- 
telico, ha trasposto il pensiero del filosofo pagano in ter- 
mini di pensiero cristiano; e perciò, nello spirito, non è 
aristotelico. Di qui il pericolo, se ci si ferma alla scorza 
aristotelica del suo pensiero e non se ne rivive la profonda 
ispirazione cristiana di origine agostiniana, di essere cristiani 
di fede, ma aristotelici — e dunque non cristiani — di -pen- 
siero, cioè dei piissimi... atei. Invece, chi muove dalla vita 
dello spirito nella sua integralità, se riesce nella prova, di- 
mostra il Dio che è Mente e Volontà creatrici di spiriti e 
di menti, Verità e Libertà creatrici di verità e di libertà a 
loro volta creatrici; questo Dio si può pregare, adorare, 
sentire nel cuore. D'accordo: si tratta di partire da un dato 
positivo di esperienza su cui esercitare la riflessione; perchè 
non può essere la nostra vita spirituale? la nostra esperienza 
interiore più ricca di ogni altra? Forse lo spirito e l’espe- 
rienza interiore, la realtà umana, non sono dati positivi? 
Ma proprio l’esperienza interiore e la vita tutta dello spirito 
sono intelligibili per il lume interiore di intelligibilità che 
le fa tali, per la verità presente alla mente, immagine di 
Dio, da Lui data. Da e per questa, e solo in quanto essa 
c'è, la ragione argomenta che Dio esiste; rapporto di somi- 
glianza e analogia, razionalmente corretto e perfettamente 
ortodosso. Se l'argomento ontologico è inteso nel suo nucleo 
di verità ed in stretto legame con la prova « dalla verità », 
da esso presupposta, perde le sue apparenze di astrattezza e 
di argomentazione dal puro dato concettuale. Inserito nella 
realtà della vita spirituale non è più raggiunto dalle obie- 
zioni di Gaunilone o di S. Tommaso, il quale non nega la 
presenza in noi delle verità prime che, anche se è neces- 
saria l’esperienza per acquistarne consapevolezza (vengono 


200 Filosofia e Metafisica 








dopo «cronologicamente »), non sono date dall’esperienza 
sensoriale. 

Così impostato, l'argomento ontologico è di un’evidenza 
fuori discussione derivantegli dall’identità in Dio di essenza 
ed esistenza (!). La stessa affermazione che nell’essenza di Dio 
è contenuta l’esistenza ha un significato più che altro chia- 
ritivo ed esplicativo; in effetti, non è che nell’essenza di Dio 
è contenuta la Sua esistenza, bensì che la Sua essenza è 
necessariamente la Sua esistenza. Non essendo Dio «ricevuto» 
in alcuna essenza specifica, come abbiamo detto sulla scorta 
di S. Tommaso, perchè la Sua stessa essenza è l’atto di es- 
sere — o il suo atto di essere è costitutivo dell’essenza — 
consegue ancora la identità perfetta di essenza ed esistenza. 
Dire che a Dio è necessaria l’esistenza significa che l’esi- 
stenza è identica alla Sua essenza, che non è alcuna speci- 
fica essenza; in breve, Egli è la Verità che è Verità, l’Essere 
che è l’Essere e non può non essere l’Essere: è l’Esistente. 
Chiaro che l’identità di essenza ed esistenza vale soltanto 
per Dio e non per l’«isola beata » di Gaunilone o per i 
«cento talleri» di Kant; isola beata, talleri e ogni altra 
cosa non possiedono l’esistenza in e da sè e perciò dipen- 
dono dall’Essere che è l’Esistenza, da Dio l’Esistente asso- 
luto. La derivazione, nell’argomento ontologico, dell’esistenza 
dall’essenza serve per convincere la nostra mente, a cui Dio 
non è evidente per se stesso, con la forza del ragionamento; 


DI 


cioè è necessaria per la nostra mente finita, ma in Dio 


(I) Com'è noto, pur ammettendo l’identità in Dio di essenza ed esistenza, 
S. Tommaso critica l'argomento ontologico anselmiano: accetta le premesse, ma nega 
la conclusione, non accorgendosi che è impossibile perchè contraddittorio. S. Tom- 
maso concede che l’Essere perfettissimo non può essere concepito senza essere 
concepito esistente, ma aggiunge che ciò significa che esiste solo in intellectu e 
non in rerum natura. L’obiezione non ha alcuna forza: l’Essere perfettissimo, 
che non può non essere concepito che come esistente, per ciò solo esiste. Il 
passaggio dall’ordine dell’idea a quello dell’esistenza è richiesto da tutte le altre 
cose, che possono essere concepite esistenti e non esistere affatto în rerum natura 
perchè non perfettissime, tranne che da Dio, in quanto solo in Lui, come S. Tom- 
maso ammette, essenza ed esistenza s’identificano. 


L'esistenza di Dio 201 





non si può parlare di derivazione alcuna per la identità di 
essenza ed esistenza. Se c’è identità, come si dice che dalla 
essenza deriva necessariamente l’esistenza — e per la mente 
finita non può essere diversamente in quanto nello stato 
naturale non le è presente Dio com'è in sè — così si può. 
dire, ma non più rispetto a noi, che dall’esistenza deriva 
la Sua essenza. In verità, non c’è derivazione: Dio è lo 
Essere che è l’Essere, identità assoluta di essenza ed esi- 
stenza come di esistenza ed essenza. 

Ciò posto, possiamo dire che per Dio dall’essenza segue 
l’esistenza; per ogni altro ente dall'esistenza segue l’essenza, 
ma tutti gli enti che non sono Dio ricevono l’esistenza, non 
la « pongono », non esistono da sè. Solo in Dio, posta l’es- 
senza, segue l’esistenza; meglio, posta l’essenza, è posta 
con essa l’esistenza, perchè Egli è atto di se stesso; dunque 
non Lo si può concepire senza concepirLo esistente: l’esi- 
stenza non si aggiunge, è nella Sua essenza. Ma, se è ne- 
cessario per Dio che dall’essenza segua l’esistenza, è neces- 
sario per ogni altro ente che dall’esistenza segua l’essenza, 
cioè non può concepirsi esistente senza concepirlo con una 
sua essenza. È qui la forza della prova cosmologica: partendo 
dalle cose, non possiamo non muovere dalla loro esistenza, 
cioè da ciò che non è contenuto nella loro essenza; ma ap- 
punto perchè non sono atto di se stesse, pongono il pro- 
blema del principio del loro esistere. D'altra parte, non la 
sola loro esistenza lo pone, ma l’esistenza contenente una 
essenza, un ordine, una « verità »; dunque, pongono il pro- 
blema del loro principio non in quanto soltanto esistenti, ma 
in quanto esistenti con un'essenza o essenze esistenziate. Per 
conseguenza, l'argomento dalle cose contingenti si riallaccia 
a quello « dalla verità », come, del resto, l’argomento on- 
tologico, il quale, a differenza di quello cosmologico, che 
non può non partire dall’esistenza delle cose, non può muo- 
vere che dall’essenza o idea di Dio, la sola che contiene 
necessariamente l’esistenza. 

Da ultimo notiamo che l’argomento anselmiano con- 


202 Filosofia e Metafisica 





tiene un altro elemento di verità, del resto, già da noi evi- 
denziato: mettere l’ateo di fronte al senso dell’affermazione 
«Dio non esiste ». Che Dio non esiste si può «dire» e 
l’ateo lo « dice »; ma ha un senso questa espressione ver- 
bale e le si può dare l’assenso? S. Anselmo dimostra che 
quel che dice l’ateo non ha senso, e per questo è insipiens, 
«non sa quello che dice »: parla di Dio, ma « pensa » ad 
altro, manca della vera nozione. Non perchè non ce l’abbia, 
ma perchè egli non è presente a se stesso, è fuori della sua 
vita spirituale e perciò della verità: i suoi giudizi non pos- 
sono essere che da insipiens, della ragione sensitiva non della 
ragione intellettiva. Che Dio non esista non si può neppure 
pensare (Proslogion, cap. III), perchè non ha senso pensare 
come non esistente l’Essere di cui non si può pensare nulla 
di maggiore, perchè pensandolo non esistente mon si pensa 
più a Lui, ma ad un qualsiasi altro ente che si può pensare 
senza pensarlo esistente appunto perchè non è l’Essere di 
cui non si può pensare nulla di maggiore. L’ateo, in realtà, 
nel momento che nega Dio, pensa a un altro ente. Ciò prova 
ancora che l’esistenza di Dio non è una verità immediata 
nota a noi per se stessa e perciò è bisognosa di dimostrazione, 
ma non perchè manchi in noi la nozione primitiva di Dio 
{e dunque l’appoggio della dimostrazione debba essere cer- 
cato nel dato sensibile), ma perchè possiamo allontanarci da 
noi stessi e dalla luce interiore, essere assenti a noi, « fuori 
di noi », lontani dal sapere intellettivo ed immersi nel cono- 
scere sensitivo. La dimostrazione occorre non perchè manchi 
in noi la presenza di Dio, ma perchè non c’è immediata nè 
sempre attuale consapevolezza di Lui. Se l’ateo riflettesse 
su quello che « dice » non potrebbe « pensare » che Dio non 
esiste nè «assentire » alla sua affermazione negativa, in 
quanto, incontrandosi con se stesso e con la verità che è in 
lui, si incontra con Dio. L'argomento ontologico manifesta 
chiaramente la sua origine agostiniana, da dove trae for- 
za. Esso è anche valido negativamente: dimostra assurda. 
la negazione dell’esistenza di Dio, cioè nega che abbia valore 


L'esistenza di Dio 203 








razionale la proposizione « Dio non esiste », che l’insipiens 
pronunzia in cuor suo (?). 


2. — La prova cosmologica. 


Ci siamo più di una volta richiamati alla prova (alle 
prove) cosmologica o a posteriori dell’esistenza di Dio, an- 
ch’essa vera se riportata a quella « dalla verità ». L’argo- 
mentazione — vi è il moto nelle cose; ciò che è mosso è 
mosso da altro (quidguid movetur ab alio movetur); la 
serie causale non può procedere all’infinito; dunque esiste 
un Primo Motore, qui ipse est immobilis — prima che di 
S. Tommaso (I via) è di S. Agostino, il quale a più riprese 
formula l’argomento cosmologico. Ma lo stesso Agostino 
la riduce a quella « dalla verità » per il motivo che la prova, 
la quale parte dai dati sensibili, dipende da alcuni elementi 
intelligibili non derivati e non derivabili dall’esperienza, 
quelli che le conferiscono validità oggettiva; dunque, non 


(2) E’ nota la critica di Kant all'argomento ontologico: 4) l’idea di un 
oggetto non contiene la sua esistenza; essa dice solo che esso è possibile, perchè 
non implica contraddizione; £) l'esistenza può essere aggiunta solo dalla espe- 
rienza, cioè 4 posteriori (sinteticamente) ed è indeducibile dall’essenza (analitica- 
mente); c) perciò, se l’esistenza, anche nel caso dell'idea di Dio, va aggiunta 
dall'esperienza, consegue che essa non fa parte dell'essenza o idea; dunque to- 
glierla o aggiungerla non diminuisce nè accresce il contenuto dell’essenza; d) 
pertanto, anche negandogli l’esistenza, l’idea o l'essenza di Dio non perde alcuna 
perfezione. In altri termini, l’esistenza non è un predicato e dunque il contenuto 
del concetto di un oggetto resta quello che è sia che esista o non esista. Ciò 
conferma che l'esistenza di un oggetto pensato non può essere dedotta dalla sua 
essenza, ma è aggiunta dall'esperienza nel caso che questa la fornisca; ma l’espe- 
rienza non fornisce affatto l’esistenza di Dio e pertanto non è possibile dimo- 
strare che Egli esiste fondandosi sui princìpi speculativi della ragione, senza che 
ciò impedisca che Dio venga pensato come l'Essere perfetto di cui non si può 
pensare nulla di maggiore, appunto perchè, avere o non avere l’esistenza niente 
aggiunge e toglie all'idea di un oggetto. 

Kant considera Dio alla stessa stregua degli enti finiti per i quali vale la 
distinzione di essenza ed esistenza, senza senso per Dio, che è identità di essenza 
ed esistenza; infatti, l'affermazione di Anselmo, che l’idea di Dio involve neces- 
sariamente l'esistenza vale solo per Lui, per l’ente di cui non si può pensare 
nulla di più grande. Kant non si accorge (il paralogismo è suo) che quando 
afferma che dall’idea di Dio non si può dedurre l’esistenza, la quale dunque 
dovrebb'essere aggiunta, non parla più di Dio, in quanto non parla dell’essere 
di cui non si può pensare nulla di più grande: quando critica l’argomento onto- 


204 Filosofia e Metafisica 





possiamo ascendere dalle cose sensibili a Dio senza appog- 
giarci alla Verità interiore. Esatta l’affermazione di S. Tom- 
maso che la prova deve avere il suo punto di appoggio in 
un dato reale e non in una pura entità concettuale, ma il 
dato reale primo non è il sensibile, bensì la realtà spirituale 
e quanto in essa è implicitamente presente. Per esempio: 
esistono cose che hanno un certo grado di perfezione; ciò 
indica che esiste il perfetto del quale partecipano le perfe- 
zioni finite; dunque esiste Dio Perfezione assoluta (IV via). 
Esatto, ma come può il soggetto conoscere, misurare, il grado 
di perfezione delle cose, se non intuisce la perfezione, se 
non ha in sè la misura con cui misura? In altri termini: non 
potrei dire «questa cosa ha un grado di perfezione » se 
non fossi illuminato dalla perfezione, cioè se non fosse in- 
teriore alla mia mente una nozione di essa, che le cose pos- 
sono anche esplicitare, ma non mi possono dare. La propo- 
sizione «le cose hanno un grado di perfezione » è un giu- 


logico non pensa a Dio, e perciò è insipiens, non sa quello che dice. L'idea di 
Dio è qualcosa che non posso dire soltanto presente in me senza contraddire a 
quello che penso; secondo un’espressione del Bertini, il concetto di Dio è un 
concetto reale, cioè implicante la realtà del suo oggetto. 

Tutta l’argomentazione di Kant è errata sostanzialmente. La sua afferma- 
zione: sia che Dio esista o no, nulla si toglie o si aggiunge alla sua perfezione, 
vale per l’ente finito, ma non ha alcun senso per Dio, in quanto, data l'identità 
di essenza ed esistenza, non ha senso parlare di togliere o di aggiungere a Dio- 
l’esistenza. Ne ha solo uno: togliere a Dio l’esistenza non significa lasciargli tutta 
la sua perfezione, ma negarlo senz’altro, in quanto l’esistenza è la sua stessa 
essenza; dunque, negata la prima, è distrutta l’altra e anche l’idea. Così resta 
confermato che se Dio non esistesse l’uomo non potrebbe pensarLo e lo stesso 
ateo che « pensa » di negare Dio, può farlo perchè Egli esiste. Negare Dio è 
ancora negare l’uomo come ente pensante; ma l’ente pensante esiste e pensa Dio, 
dunque Dio esiste. 

Ma le critiche che Kant muove all’argomento ontologico e agli altri hanno, 
in fondo, un'importanza secondaria nel suo sistema, cosa a cui forse non si è 
badato abbastanza. Ci spieghiamo: è l’impostazione della Critica che in partenza 
nega l’esistenza di Dio o almeno non può più giustificarla; le obiezioni alle 
prove tradizionali, tutte paralogismi, sono chiamate a coonestare i presupposti del 
sistema. Quando Kant ha ammesso che le forme valgono solo nei limiti della 
esperienza c pertanto il pensiero trova il suo oggetto adeguato nei contenuti finiti 
dell'esperienza stessa o in quel contenuto finito che è il reale nella sua totalità, 
e che le «idee » non sono conoscenze ma pure « condizioni » del conoscere il. 


% 


cui contenuto dovrebbero ricevere dall’esperienza (e Dio non è oggetto di espe- 


L'esistenza di Dio 205 





dizio: come potrei giudicare se non possedessi i princìpi del 
giudizio a cui conformare ogni giudizio? Ma con ciò oltre- 
passo i corpi e anche me stesso, in quanto quella verità pri- 
male è più di me, misura anche la mia ragione e la mia 
intelligenza. Scoperta essa, ho scoperto che Dio esiste non 
« dalle cose », ma in quanto mi sono elevato da esse alla 
verità che è in me e da questa a Dio: dall’esteriore all’inte- 
riore e dall’interiore al Superiore. Quella cosmologica è una 
via anch'essa, ma più lunga; l’altra « dalla verità » più 
breve: dalla verità in me (interiore) alla Verità in sè (al 
Superiore). Entrambe si fondano sulla dipendenza essenziale 
dell’ente finito dall’Essere che lo pone, ma nella prima il 
rapporto è diretto: lo spirito conosce se stesso e in questo 
atto intuisce la verità che in lui è presente e lo illumina; 
di qui argomenta che, partecipato, esiste l’Essere di cui 
partecipa, il Principio da cui è. Pertanto l’autocoscienza 
implica la presenza a se stessa del Principio creante: avver- 


rienza) e se non lo ricevono sono « vuote », egli ha escluso non solo la soluzione 
del problema dell’esistenza di Dio, ma Dio stesso dalla concreta vita dello spirito: 
ha decapitato l'uomo affinchè con la testa non sovrastasse di un infinitesimo il 
livello delle cose o del mondo. Quando Kant dice che non vi è altra verità ncl- 
l'uomo oltre quella che egli stesso si costituisce col processo sintetico del conoscere, 
ne fa il legislatore della natura (cioè gli attribuisce il potere che spetta a Dio), 
ma nello stesso tempo, mondanizzandolo, lo immondanizza, lo pone al di sotto 
di se stesso, al livello dell’empirico. L'esigenza della metafisica e i postulati della 
ragione pratica sono pure sovrastrutture che la Critica non sopporta se non con- 
traddicendosi. Essa nella sua impostazione iniziale non è orientata verso la teo- 
logia, bensì verso la cosmologia intesa come conoscenza critica del fenomenico. 

Non possiamo non accennare, a proposito dell’esistenza di Dio, all’ontolo- 
gismo critico del Carabellese, derivante da un ripensamento di Spinoza attraverso 
un'elaborazione critica del Criticismo di Kant. Per il Carabellese, Dio è 1’ Oggetto 
puro assoluto immanente alle singole coscienze, dunque non esiste; infatti, l’esi- 
stenza è soggettività ed alterità ed è dei soggetti singoli; Dio, l'Assoluto, non è 
soggettività nè alterità e perciò non gli compete l’esistenza: dire che esiste è fare 
di Lui un soggetto singolo tra singoli, cioè négarLo. L'argomento ontologico de- 
v'essere pertanto abbandonato così come è nella sua forma tradizionale e accettato 
solo nel punto di partenza, l’ Idea: Dio è 1’ Oggetto o l' Idea assoluta, pura, 
oggettiva immanente allé singole coscienze: l’ Unico nei singoli e non uno dei 
singoli, come sarebbe se si ammettesse esistente. Così inteso, Dio non si può 
negare con il pensiero, pérchè sarebbe negare l’oggettività del pensiero stesso con 
un atto di pensiero e ciò è contraddittorio. «/o penso, dunque affermo Dio; 
se tu neghi Dio, non pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva 


206 Filosofia e Metafisica 





tirsi, è avvertirsi dipendenti da Dio. In breve, se esiste 
l’uomo, esiste Dio; l’uomo esiste, dunque Dio esiste: basta 
che esista un pensiero, perchè sia implicata l’esistenza del 
Pensiero assoluto. Infatti, dato un pensiero, come abbiamo 
detto, è dato un essere pensante e se è dato un essere, esiste 
l’Essere assoluto. Dall’ente pensante all’Essere pensante, dalla 
verità-uomo, la verità che ogni uomo è, alla Verità in sè, di 
cui ogni uomo partecipa per una dipendenza essenziale ini- 
ziale e finale. 

Attraverso di essa, se vuole esser valida, è costretta a 
passare la via cosmologica per il motivo che sono i prin- 
cìpi primi o le verità primali che rendono possibile il giu- 
dizio vero, la conoscenza delle cose sensibili, e con ciò fanno 
che sia valida ogni argomentazione dalle cose finite e con- 
ungenti a Dio essere infinito e necessario. Ogni regola di giu- 


e in quella negativa » (P. CaraseLLEsE, 1 problema teologico come filosofia, 
Roma, 1930, pp. 181-183). 

Ma quale argomento ontologico? Qui non c'è più argomento di sorta: c’è solo 
l’affermazione che io penso con la quale è identificato Dio. Altro è dire « io 
penso, dunque affermo Dio »; altro «io penso, dunque Dio esiste ». Le due 
formule sono antitetiche: la prima nega Dio e, contraddittoriamente, afferma 
il pensiero; la seconda dimostra l’esistenza di Dio dalla realtà del pensiero, che 
c'è perchè Dio esiste. S. Anselmo muove dall'idea di Dio e ne argomenta l’esi- 
stenza; il Carabellese dice che Dio è Idea, solo Idea, pura Idea immanente e ne 
nega l’esistenza. Altro che argomento ontologico! Idea di chi? delle coscienze 
singole e dunque immanente e, come tale, adeguata da quel finito che è il mondo; 
ma se Di è tutto immanente, è finito come il mondo a cui è immanente, e ad 
esso relativo. Non la trascendenza, e perciò l’esistenza, nega Dio come assoluto; 
è l’immanenza che lo risolve e lo nega nella finitezza, singolare o globale, delle 
singole coscienze, di cui è l’Oggetto unico. E Dio è l'Unico proprio in quanto 
esiste, perchè è l’unico Esistente assoluto, in cui coincidono essenza ed esistenza. 

Questa, in fondo, la posizione del Carabellese: accetta il concetto panteistico 
spinoziano di Dio, lo ripensa utilizzando quello kantiano di Idea o noumenicità 
pura e a questo assimila, contro la lettera e lo spirito della sua filosofia, l’idea 
dell’essere del Rosmini. Da ciò trae le conseguenze estreme: se Dio è pura nou- 
menicità o Idea e questa non è che l’oggetto di una coscienza pensante, Egli 
è l’Oggetto puro immanente alle singole coscienze pensanti. Così il Carabellese 
all’immanenza idealistica, con la quale ha polemizzato efficacemente tutta Ja vita, 
sostituisce l’immazenza ontologica, dell’Idea od Oggetto assoluto nei soggetti sin- 
goli. A noi qui non interessa l’importanza polemica di questa posizione nei 
confronti dell’idealismo trascendentale, ma la sua validità ai fini del problema 
dell’esistenza di Dio; e non ne ha alcuna. Il Carabellese ha ripetuto anche lui 
l’errore di distinguere in Dio essenza ed esistenza e non si è accorto che, negare 
l'esistenza, è negare anche l'essenza, cioè l'Idea; in fondo, ipostatizza la rosmi- 


L'esistenza di Dio 207 





dizio lo è innanzi tutto del nostro pensiero; dunque tutte le 
possibili prove cosmologiche dipendono da quella « dalla ve- 
rità ». Le due forme di argomentazione — a) esiste qual- 
cosa di contingente e finito, dunque esiste l’Essere necessario 
ed infinito; 5) è presente alla mente una verità che le è su- 
periore; dunque esiste la Verità in sè — nella loro profon- 
dità si riportano allo stesso principio di verità, da cui rice- 
vono la loro forza. Infatti, partendo pure dalle cose sensibili, 
l’argomentazione non può non seguire questo procedimento: 
le cose sono contingenti e mutevoli e, come tali, non possono 
avere in se stesse la loro ragion d’essere: bisogna « trascen- 
derle » per cogliere il Principio da cui derivano quanto han- 
no di ordine, di perfezione e di essere; al di sopra dell’or- 
dine e della perfezione delle cose vi sono l’ordine e la per- 
fezione del nostro pensiero, con cui conosciamo, « giudichia- 
mo » e « misuriamo » quelli delle cose; la verità che è in 


niana idea dell'essere, lume di ragione e oggetto della mente, e ne fa l' Idea 
assoluta avente valore di Oggetto unico immanente. Il Carabellese, a cui importa 
il problema dell’unità del molteplice come già al suo maestro Varisco, identifica 
Dio con l’unità ideale o con l’ Idea pura; ma il problema dell'unità del molteplice 
è ben diverso da quello di Dio e l’unità ideale non è l’unità reale. - Per la 
critica dell'immanenza ontologica cfr. le osservazioni di G. Zamsoni nell’ Itinerario 
filosofico, (Verona, 1949, p. 118), che abbiamo tenuto presenti. Per altre nostre 
osservazioni al pensiero del Carabellese su questo punto cfr. 1! Secolo XX, Milano, 
19472, pp. 277-281; Il problema di Dio e della religione nella filosofia attua- 
le, Brescia, 19533, pp. 120-122. D'altra parte, è errato affermare che l'esistenza 
non è una perfezione e non aggiunge nulla all'essere pensato, in quanto l’ente che 
esiste nel solo pensiero e non anche nella realtà è inferiore a quello che esiste 
nel pensiero e nella realtà, come nota S. Anselmo (Proslogion, c. Il); lo è in 
quanto l’essere che esiste solo nel pensiero ne dipende: esiste perchè il pensiero 
lo pensa e soltanto come essere pensato. Pertanto dire che l’esistenza non aggiunge 
nulla alla perfezione dell'idea di Dio è dire che Egli è relativo al pensiero 
umano, è puro oggetto pensato ed è solo in quanto il pensiero lo pensa. Perfetta- 
mente il contrario: io penso in quanto in me è presente la verità che è presenza 
di Dio e dunque in quanto la stessa idea di Dio è luce del mio pensiero. Ma 
Kant, tornando a lui, nega che esistano nello spirito conoscenze primarie ed in- 
tuitivé e dunque una verità originaria; consegue che non c'è altra verità nell'uomo 
oltre quella che egli stesso si costruisce con la sintesi della forma 4 priori e del 
contenuto a posteriori: Dio è escluso dal processo della vita dello spirito. Le 
obiezioni di Kant all'argomento ontologico provengono dalla corruzione del 
significato del termine «idea » operata dagli empiristi inglesi ec mirano molto 
lontano: c'è già in nuce l’idealismo trascendentale, che è la riduzione dell’essere 
all’immanenza del pensiero. 


208 Filosofia e Metafisica 





noi ci è data, dunque, il ragionamento ci porta a trascendere 
noi stessi, a risalire dalla verità-data alla Verità-Principio, 
a Dio. In altri termini: il pensiero discende dalle verità pri- 
mali intuite per conoscere e giudicare secondo queste verità 
le cose sensibili; da queste ascende alle verità che sono in lui, 
inferiori alle cose, e da esse a Dio, l’Essere perfettissimo, 
che ogni cosa ed ogni verità trascende. Per conseguenza, 
l'ordine e la perfezione del mondo non si conoscono con i 
sensi ma con la ragione, cioè misurandole con la verità che 
è in noi: il fondamento della loro conoscenza è l’intuizione 
primitiva della verità; dunque le prove 4 contingentia mundi 
passano dalla vita dello spirito. È vero quanto scrive il sal- 
mista (XIX, Vulg. XVIII): coelì enarrant gloriam Dei, et 
opera manuum cius enuntiat firmamentum; ma nulla mi 
direbbero e mi indicherebbero, se in me non lucesse la luce 
della verità. Così impostata, la prova cosmologica è incon- 
futabile; non si può negare Dio senza spingersi ad affer- 
mazioni assurde come questa: è contraddittorio concepire 
l’Essere assoluto ed ammettere l’esistenza, per poi attribuire 
l’eternità e l’assolutezza alla materia e al mondo che sono 
contingenti e finiti! 

La prova cosmologica non solo suppone quella « dalla 
verità » ma è riducibile, come osservò Kant, alla prova onto- 
logica: Dio, Principio assoluto, ha la ragione della sua esi- 
stenza nella sua stessa essenza; perciò in Lui essenza ed esi- 
stenza s’identificano; ma è questo, come sappiamo, il fon- 
damento dell’argomento ontologico (*). 


(3) Com'è noto, all'argomento cosmologico, così come lo riceve attraverso 
il razionalismo cartesiano-leibniziano, Kant muove un’obiezione: non è possibile 
applicare all’Essere trascendente la categoria della causalità, valida solo nei li- 
miti dell'esperienza, dove non si trova un ente incondizionato e dove, invece, 
ogni causa è a sua volta causata; dunque la categoria della causalità, fuori della 
esperienza, è una forma vuota, senza oggetto. Abbiamo già evidenziato i limiti 
di questa critica kantiana del principio di causa, la quale, del resto non infirma 
la validità dell'argomento. Cfr. pp. 144-149 di questo Il volume. 

G. BontapinI nel vol. Ricostruzione metafisica (Atti del IV Congresso di Studi 
filosofici cristiani, cit., p. 379) d'accordo con me afferma «che la filosofia non 


x 


persegue la ricerca di un Dio qualunque, ma di quello che è indicato dalla co- 


L'esistenza di Dio 209 








D'altra parte, la formulazione della prova — esiste qual- 
cosa che non è da sè, dunque esiste Dio — è insufficiente a 
dimostrare l’esistenza dell’Essere creatore e trascendente, In- 
telligenza e Volontà; infatti, il puro Ens realissimum può 
essere una causa o un principio impersonale, una legge co- 
smica ordinatrice. Non basta che esista qualcosa, ma è ne- 
cessario che esistano degli effetti tali, da cui si può argo- 
mentare per analogia l’esistenza dell'Essere creatore, trascen- 
dente ecc., cioè di Dio, quale Lo crede per fede la coscienza 
religiosa. L’Ens di ragione, causa dell’origine del mondo, è 
un’idea cosmologica, che non è Dio, quantunque Egli sia 


scienza religiosa; che, perciò, essa non parte dalla (mera) esperienza sensibile, ma 
dalla coscienza cristiana (la quale rientra nella unità dell'esperienza); che la più 
ricca delle cose reali di cui abbiamo certezza è l’uomo; che Dio si dimostra 
con tutto l'uomo; che la metafisica, come voleva S. Agostino, è metafisica della 
verità, la quale si coglie in interiore homine ». Successivamente aggiunge: « con 
questo si dice che l’essere, che è oggetto della metafisica, non è fuori dal pen- 
siero (per questa non estraneità dell’essere al pensiero è possibile la metafisica stessa 
come scienza). Ma con questo è altresì chiaro che non è da opporre la metafisica 
dell'essere a quella della verità: si tratta di aspetti di una medesima posizione ». 
Certamente, una volta che il Bontadini mi concede che l'essere non è estraneo al 
pensiero, cioè gli è interno originariamente come idea; del resto, non ho mai 
opposto la metafisica della verità a quella dell'essere se ben intesa, nè Agostino 
e Rosmini a S. Tommaso, anzi ho sempre sostenuto il contrario. Proprio la 
Neoscolastica italiana, invece, trova opposizione, o tutto vuol ridurre al suo to- 
mismo; perciò il problema dell’opposizione è affar suo e non mio. Secondo 
Bontadini io ho «sottoscritta » (nel vol. 17 problema di Dio e della religione 
nella filos. attuale, cit.) « la prova tomistica, soltanto spiritwalizzandola, appunto 
con quel riferimento a ’’tutto l’uomo’ » e anche qui si dichiara d’accordo; ma, 
come per me va intesa la prova tomistica, appare chiaro da tutto il presente 
scritto. Da ultimo il Bontadini mi ascrive tra i « personalisti concilianti »; invece, 
io non concilio niente, perchè non c'è niente da conciliare. Il conciliare presup- 
pone due punti di vista opposti o una lite; e qui non c’è opposizione o ite; 
è sempre smorzare e attenuare e qui marco i concetti e li approfondisco come 
posso e so. La parte del paciere in filosofia non ha senso o è posticcia. Suc- 
cessivamente il Bontadini ha avuto modo, a proposito di non so qual Convegno 
francescano, di occuparsi di me e, a quanto sembra, in particolar modo della 
prosa contenuta in questo volume. Quel che in tale occasione egli ebbe a dire e 
pubblicare (Spiritualismo cristiano e metafisica classica, « Giorn. crit. d. filos. 
ital., I, 1955) dimostra semplicemente che ha orecchiato senza leggere e « cri- 
ticato » sulla base di preconcetti e luoghi comuni; ma la maldicenza, anche se 
« neo-scolastica » non è oggetto di discussione. Del resto, il superamento della fase 
esigenzialistico-fideistica e l'inserimento del mio spiritualismo nella linea della 
metafisica classica è stato ampiamente vagliato e riconosciuto dalla più autorevole 
critica mondiale, compresi i più accreditati tomisti e neotomisti. 


210 Filosofia e Metafisica 





l’Ente assoluto; di qui ancora la necessità di partire « dalla 
vita dello spirito » che è intelligenza di verità, volontà mo- 
rale ecc., effetti da cui si argomenta per analogia l’esistenza 
di Dio essere creatore, Mente e Verità assolute, Volontà, Per- 
fezione infinita. Quale cosa del mondo fisico potrebbe mai 
farmi pensare che Dio è Libertà e Persona? 

Non lo pensò Aristotele, che cercava appunto un Dio 
Primo Motore Immobile, principio del movimento o del di- 
venire, non potenza ma Atto puro; ma quale abisso tra il 
Dio au quel pense la plupart des hommes e questo Dio filo- 
sofico que les hommes n’ont jamais songé è invoquer! (*). 
È il Dio di una filosofia ma di nessuna religione e non può 
esserlo di una filosofia cristiana. Non diciamo che il Dio 
della religione (e della cristiana) non si possa chiamare anche 
Primo Motore immobile o Atto puro, ma che questa termi- 
nologia va trasposta in senso cristiano. Pertanto è necessario 
non solo integrare Aristotele, ma trasporlo come ha fatto 
S. Tommaso, la cui metafisica, che utilizza filosoficamente 
il concetto di creazione, non culmina nell’aristotelico Mo- 
tore Immobile, ma in quello cristiano, che è l’Essere crea- 
tore, infinito e provvidente, cioè il Dio che tutti gli uo- 
mini invocano. Non basta partire dal reale finito e dive- 
niente per arrivare a Dio; è necessaria una «critica » del- 
l’ente finito e diveniente in quanto tale, in modo da sta- 
bilire quali elementi contenga e se tali da farci conclu- 
dere non ad una o più cause immutabili del divenire, ma 
al Principio creatore e provvidente. Daccapo: non è pos- 
sibile alcuna critica dell’ente finito, cioè alcun giudizio 
oggettivamente vero, se non è presente alla mente la ve- 
rità che è fondamento di ogni giudizio e della ragione 
giudicante; ma se è presente la verità, esiste Dio, che è 
la Verità, il Lume eterno e trascendente, che illumina la 
mente e riscalda il cuore delle creature. 


(4) H. Bercson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, 
1946, pp. 256 segg. ° 


L'esistenza di Dio 211 





Da ultimo, la prova cosmologica dev'essere spogliata di 
quel suo carattere puramente razionalistico e gnoseologico, 
più della tradizione tomista che di S. Tommaso. Il proble- 
ma, infatti, più che nei termini gnoseologistici di intelletto co- 
noscente ed oggetto conosciuto, di Causa prima ed effetto, 
s'imposta in quelli ontologici di ciò che è empirico e con- 
tingente e di ciò che è metafisico e necessario; altrimenti, se 
il metafisico (l’essere) non precede l’empirico (le cose), è 
impossibile da questo arrivare all’essere. 

Dopo quanto abbiamo detto, le tre prove — dalla verità, 
che include anche quella ontolcgica, dalla vita morale, legata 
all’altra del desiderio di beatitudine e cosmologica — si pre- 
sentano concorrenti e solidali: tutto il creato, nel suo ordine 
o nel suo essere o nella sua verità, con una voce sola, attesta 
la sua dipendenza da Dio e in Lui, e solo in Lui, cerca ed 
attua la sua finalità suprema (5). 


(5) Credo che ciò possa tranquillizzare L. BogLioLo (Che cos'è metafisica, 
« Salesiamum », I, 1948, p. 64), il quale esige da me e da altri « una interiorità 
più robusta che non avesse timore della materia nè la fuggisse », cioè un'interiorità 
profonda, universale e totale. Ci sembra che la nostra abbia una tale robustezza: 
come una a filosofia dell’integralità » potrebbe aver timore della materia e del 
mondo, e fuggirli? 


CaprrroLo VIII 
L’IPOTESI PROIBITA 


La nostra indagine, muovendo dall’ipotesi « Dio», ha 
dimostrato che è razionale porla; la ricerca ha provato la 
sua verità oggettiva e necessaria. A questo punto è oppor- 
tuno domandarsi se è possibile porre l’ipotesi opposta, « Dio 
non esiste » e, se porla, sia razionale. La si può porre, ma 
con un atto non razionale; dunque, non è razionale porla, 
come del resto abbiamo chiarito a proposito dell’ateo che è 
insipiens. Se fosse razionale porre, al pari dell’ipotesi « Dio 
esiste », l’altra « Dio non esiste », le due ipotesi si distrug- 
gerebbero e bisognerebbe, come lo scettico antico, « sospen- 
dere » il giudizio e con esso la filosofia. Se è razionale porre 
l'ipotesi « Dio» non è razionale porre quella opposta. Qui 
non siamo sul terreno dell’empirico accadere: è possibile 
che domani sia una bella giornata com'è possibile che sia 
brutta; invece, non è razionalmente possibile che Dio esista 
ed altrettanto razionalmente possibile che non esista. Per 
porre una ipotesi è necessario che sia razionalmente possi- 
bile che possa essere dimostrata vera; non posso porre come 
ipotesi da dimostrare una tesi destituita di qualsiasi fonda- 
mento razionale, fantastica o assurda. Posso anche farlo ma 
ragionando per assurdo, cioè per dimostrare indirettamente la 
verità della tesi opposta. Se così, l’ateo non pensa, « vocia »; 
non è consapevole dell’assurdità della sua negazione: la sua 
non è una conclusione critica, ma un’affermazione domma- 
tica; non il risultato di una riflessione esauriente, ma uno 
stato passionale che sottigliezze e sofismi s’incaricano di fare , 


L'esistenza di Dio 213 





apparire «logico ». « Dio non esiste » è l’ipotesi proibita, 
l’impossibile razionale. Non si tratta di ammettere l’esisten- 
za di Dio perchè soddisfa un mio desiderio ed è consolante, 
ma perchè tale affermazione risponde all’ordine della ragione 
e di tutta la realtà umana. Se l’ipotesi « Dio » non fosse ra- 
zionale — e lo fosse quella opposta — tutto l’uomo e l’univer- 
so sarebbero un falso incomprensibile ed assurdo. Ma non è 
razionale che sia razionale l’ipotesi « Dio non esiste », ap- 
punto perchè l’uomo — in ogni forma della sua attività e in 
tutte convergenti e unificate, la pienezza sua nel suo ordine 
e in ogni grado della sua normatività, attestante la razio- 
nalità dell’ipotesi « Dio » — sarebbe sostanzialmente contrad- 
dittorio e assurdo, nel caso che l’ipotesi opposta, anche come 
ipotesi, si ponesse razionale e dimostrabile. L’ipotesi teista 
inerisce alla natura dell’uomo e all’ordine della ragione; se 
quella ateista v’inerisse ugualmente, col solo porla come ra- 
zionale, si distruggerebbe l’uomo nella sua essenza. È con- 
traddittorio che alla stessa razionalità umana inerisca l’ipo- 
tesi « Dio esiste » e l’opposta; perciò « Dio non esiste » è 
l'ipotesi proibita perchè contraria alla ragione e alla natura 
dell’uomo. 

Mi sembra che qui vadano cercate la forza e la verità del- 
la pascaliana prova « della scommessa » e non nel suo pre- 
sunto carattere pragmatistico e volontaristico, che è solo una 
interpretazione scorretta o insufficiente. Pascal, posto che è 
impossibile la neutralità di fronte al problema, vuol dimo- 
strare e dimostra che non si può non scommettere a favore 
dell’ipotesi « Dio esiste », perchè non si può scommettere a 
favore dell’opposta, in quanto è irrazionale, contrario, non ad 
una pura esigenza, ma a tutto l’uomo nel suo ordine. Scom- 
mettere per l’ipotesi « Dio non esiste » è implicitamente pun- 
tare per il mondo, cioè per un bene finito; scommettere per 
l’altra « Dio esiste » lo è per il bene infinito, senza scommet- 
tere contro il mondo. Ma, una volta che si tratta dell’Infi- 
nito, il giuoco è fatto, dice Pascal: non si può non scom- 
mettere per Dio. Non perchè sia più conveniente e con- 


214 Filosofia e Metafisica 


fortevole scommettere per un ipotetico bene infinito anzichè 
per un reale bene finito, ma semplicemente perchè il reale 
bene finito (il mondo) non si spiega più come sia un bene 
se Dio non esiste: o si considera un nulla, ed è assurdo 
scommettere per il nulla; o reale e positivo nel suo ordine, 
ma basta che sia tale, perchè la realtà e positività del mondo 
comporti l’esistenza di Dio; nè, ancora, si può scommettere 
per l’ipotesi ateista perchè l’ordine della ragione giudica ra- 
zionale e ad esso conforme l’ipotesi teista e per conseguenza 
irrazionale e disforme la sua opposta. Perciò la scelta, se- 
condo Pascal e secondo noi, non è tra due ipotesi, ma tra la 
ragionevolezza dell’una e l’irragionevolezza dell’altra, tra il 
seguire la pienezza della ragione e l’abbandonarsi all’insen- 
satezza della passione sofisticata; non è tra due condizioni 
reali dell’uomo, ma tra la sua condizione reale e la nega- 
zione insensata ed assurda di essa. L’ateo prima di essere 
contro Dio è contro se stesso: si nega come uomo e nega 
Dio; non passa da sè perchè ha negato Dio, attraverso cui 
l’uomo coglie la profondità di sè e il suo ordine; dunque, la 
sua è l’ipotesi proibita. Da ultimo: anche in chi nega Dio 
o Lo dimentica per attaccamento al mondo o a sua cosa (atei- 
smo pratico) vi è sempre la presenza di Lui, perchè l’atto 
con cui si attacca alle cose è pur atto di pensiero; e non c’è 
pensiero senza Dio. C'è e non Lo riconosce; dice di no al 
suo «sì» profondo ed indistruttibile: offendendo Dio of- 
fende se stesso, si degrada al di sotto della razionalità. Nè 
di ciò è incolpevole: certo, se ha dimenticato Dio per il 
mondo, non ha più coscienza di Lui, ma è responsabile di 
essersi attaccato alle cose fino alla dimenticanza di Dio, alla 
negazione pratica della Sua esistenza, che è negazione della 
sua natura umana e della finalità che le è propria e non è 
il mondo. 

Ipotesi proibita è il « dubbio iperbolico » di Cartesio, che, 
perchè iperbolico anche se metodico, sospende tutto, anche 
Dio, tanto da ammettere l’ipotesi di un « Genio maligno ».. 


L'esistenza di Dio 215 





Ma il dubbio spinto al massimo, fino a negare Dio, distrug- 
ge se stesso, perchè distrugge il pensiero: se davvero fosse 
possibile bloccare la mente nel dubbio assoluto, nel momento 
stesso, cesserebbe il pensiero e dal dubbio non nascerebbe 
mai il Cogito; infatti, è contraddittorio pensare e nello stesso 
tempo annullare il pensiero con un atto del pensiero quale 
è il dubbio assoluto. Chi dubita pensa e, se pensa, anche 
nel grado più negativo del dubbio, non può dubitare di pen- 
sare; ma basta che vi sia un pensiero, anche come pensiero 
del dubbio, perchè sia implicata l’esistenza di Dio; dunque 
il dubbio iperbolico è impossibile, in quanto, negando sia 
pure come momento metodologico, l’esistenza di Dio, si ne- 
ga il pensiero e anche quell’atto di pensiero che è «il dub- 
bio iperbolico » e con esso l’ipotesi ateista. « Metodo » si- 
gnifica « via»; ma il pensiero per trovare la verità non può 
seguire la « via » che lo porta alla negazione di se stesso nel 
dubbio assoluto che comporta la « sospensione » dell’esisten- 
za di Dio. 

Dunque, è irrazionale ed assurda anche l'ipotesi del « Ge- 
nio maligno », che implica, sia pure provvisoriamente, la pos- 
sibilità di concepire razionalmente ciò che non è razional- 
mente concepibile, cioè che tutto sia assurdo stupido insi- 
gnificante, al punto che un tal Genio avrebbe potuto aver 
fatta la testa degli uomini in modo da far loro sembrare evi- 
dente e vero quel che è sostanzialmente falso. Ma è precisa- 
mente questa l’ipotesi proibita perchè assurda; dunque impos- 
sibile ed irreale, informulabile nell’ordine razionale come ad 
esso contraddicente. Non per seguire un metodo che porta 
alla verità, ma contro ogni metodo confacente alla ragione, 
Cartesio si è potuto spingere, sia pure provvisoriamente, al 
dubbio iperbolico e alla ipotesi del « Genio maligno » (). 


(1) Lo stesso discorso vale per la « Volontà » cieca ed irrazionale dello 
Schopenhauer, altra specie di Genio malefico, tanto è vero che, irrazionale quanto 
si voglia, in fondo, pensa e delibera se, come dice il filosofo, crea illusioni cd 
allettamenti per alimentare negli uomini la volontà di vivere; dunque pensa e 
delibera l’assurdo; ma è assurda una pura volontà dell'assurdo. 


216 Filosofia e Metafisica 





Proprio alle origini del razionalismo moderno, nella sua stes- 
sa posizione, c'è insito un elemento d’irrazionalità: l’atto 
irrazionale con cui la ragione presume di poter ancora esser 
tale negando la trascendenza della verità e con essa l’esisten- 
za di Dio, autosufficienza del pensiero, il quale, nell’atto che 
si autopone, si autonega: è l’elemento dissolvente immanente 
alla stessa filosofia moderna. 

Concludiamo che il dubbio sull’esistenza di Dio si può 
spingere al punto da esigere una prova razionale, da di- 
scutere questa o quella prova, ma non fino a negare la ra- 
zionalità dell’ipotesi « Dio esiste » e ad ammettere quella 
dell’ipotesi opposta, la quale, se posta, distrugge lo stesso 
dubbio e lo stesso pensiero: se l’ipotesi « Dio non esiste » 
fosse razionale, tutto sarebbe falso, e dunque anche l’ipo- 
tesi stessa; perciò impossibile che sia vera e formularla razio- 
nalmente perchè assurda. Un dubbio che si spinge fino a 
quella ipotesi varca i confini della razionalità e della ragio- 
nevolezza, si pone fuori dell’una e dell’altra, del pensiero e 
dell’uomo, nell’irreale. L’ateismo è lo stato irreale dell’uomo, 
è di chi è fuori del pensiero, della sua natura di uomo, di 
se stesso; è dell’insipiens. Il razionalismo moderno, fin dal 
suo inizio cartesiano, contiene un elemento di « insensatez- 
za»: ammettere la razionalità e la verità del pensare anche 
se Dio non esistesse; e ciò è contraddittorio. 

Secondo Kant, è « pensabile » che Dio esiste, anzi è solo 
« pensabile », perchè non implica contraddizione. Egli esclu- 
de il dubbio iperbolico e l’ipotesi del « Genio maligno », ma 
non che sia razionalmente possibile e dunque « pensabile » 
l’altra ipotesi « Dio non esiste »; se così non fosse, le « anti- 
nomie » o i « conflitti » della ragione pura non sarebbero 
possibili. Infatti, i due corni dell’antinomia, la tesi e l’an- 
titesi, propri della dialettica dell'idea cosmologica, sottinten- 
dono il primo che Dio esiste e l’altro che non esiste: «il 
mondo ha un cominciamento nel tempo e, per lo spazio, è 
chiuso dentro limiti », dunque Dio esiste; « il mondo non ha 


L'esistenza di Dio 217 





cominciamento nè limiti spaziali, ma è infinito sia rispetto al 
tempo come rispetto allo spazio », dunque Dio non esiste; 
«la causalità secondo le leggi della natura non è la sola da 
cui si possano derivare tutti i fenomeni del mondo e perciò 
è necessario ammettere per spiegazione di essi anche una cau- 
salità per libertà », dunque Dio esiste; « non c’è nessuna 
libertà, ma tutto nel mondo accade universalmente secondo 
leggi della natura », dunque Dio non esiste ecc. Come sap- 
piamo e lo stesso Kant ammette, è pensabile, perchè non 
contraddittorio, che Dio esiste e dunque è pensabile la se- 
rie delle tesi; ma, come abbiamo dimostrato, non è pensa- 
bile razionalmente che Dio non esiste e dunque non è razio- 
nalmente pensabile la serie delle antitesi; se è contradditto- 
rio pensare quest’ultima, una volta che è razionale pensare 
quella delle tesi, cessa l’antinomismo della ragione pura. In 
breve: è pensabile che Dio esiste, non che Dio non esiste; 
dunque non è pensabile la serie delle antitesi che si fonda 
sulla pensabilità della ipotesi « Dio non esiste »; perciò non 
vi sono antinomie o conflitti della ragione pura, in quanto 
la pensabilità della serie delle tesi non consente razional- 
mente la pensabilità e dunque la razionalità di quella delle 
antitesi. Se l’ipotesi « Dio non esiste » è impensabile, anche 
la serie delle antitesi, che si fonda sulla pensabilità di questa 
ipotesi, risulta impensabile; con ciò cessa l’antinomismo e 
il conflitto, restando compatibili con l’ordine della ragione 
solo l'ipotesi della esistenza di Dio e, con essa, soltanto la 
serie delle tesi. 

Possiamo aggiungere che neppure secondo un convenzio- 
nalismo logico sia razionalmente possibile porre l’ipotesi atei- 
sta, in quanto non ha senso porsi come ipotesi di lavoro un 
dato convenzionale intrinsecamente assurdo. Dunque non c’è 
il dilemma — o « Dio esiste », 0 « Dio non esiste » — perchè 
il secondo corno è assurdo, infondabile razionalmente anche 
come ipotesi: nell’ordine razionale manca l’alternativa di 
questo 44 aut. Non c’è scelta se non tra ciò che è pensa- 


218 Filosofia e Metafisica 





bile, rispondente a tutta la natura dell’uomo e ciò che è im- 
pensabile, perchè in sè assurdo; dunque razionalmente è for- 
mulabile solo l'ipotesi dell’esistenza di Dio, la sola pensa- 
bile. L’ateismo non è neanche un problema perchè non è 
un problema sensato (?). 


x 


(2) Indubbiamente la psicologia dell’ateo è molto più complessa di quel che 
risulta da quanto sopra si è detto limitatamente all’ateismo considerato come 
posizione speculativa. Abbiamo trascurato tutti gli elementi che formano lo « stato 
d'animo » dell’ateo, interessantissimi ma marginali per un metafisico che non 
desidera farsi sopraffare dalla psicologia e dal sentimento. Tuttavia nell’ateismo 
« filosofico » vi è un aspetto sul quale vale la pena d’insistere ancora. L’ateo — 
‘egli come individuo o la ragione umana in generale, fa lo stesso — vuole essere 
Dio senza Dio: è qui la contraddizione costitutiva dell'essenza stessa dell’ateismo, 
in quanto nessuno penserebbe di essere Dio senza l’idea di Dio, cioè... se Dio 
non esistesse! Ancora: egli nega che Dio esiste non perchè sia impossibile che 
esista l’Essere assoluto o perchè riconosca che non merita di esistere, tanto è vero 
che identifica con Dio qualcosa che non lo è ed egli stesso vuole essere Dio. 
L’ateismo filosofico è l’autodeificazione dell’uomo e della ragione, idolatria; ma 
anche in tanta assurdità c'è una conferma dell’esistenza di Dio: l’ateo non 
potrebbe autodeificarsi se non avesse ricevuto come ente pensante la vocazione 
ad aspirare all'adozione divina. Egli devia irrazionalmente questo dono di Dio, 
invece di indirizzarlo a Dio stesso, ma non riesce ad annientarlo, altrimenti non 
potrebbe autodeificarsi. Il suicidio metafisico della sua umanità profonda gli è 
impossibile: la sua insensatezza non sopprime l’eterna coscienza della sua aspi- 
razione (M. BLonpeL, La philosophie et l'esprit chrétien, vol. I, p. 78), tanto 
che egli, in fondo, tende a realizzare la sua unione con Dio, anche sotto la 
forma mostruosa di una unione con se stesso divinizzato. L'orientamento primi- 
tivo e radicale del pensiero umano verso Dio « non è sterminabile ». Lo si può 
tradire; e l’ateismo ne è un tradimento, è dire di no a Dio; ma l’ateo, come tale, 
dice di no anche a se stesso, all'uomo che è. Non lo neghiamo: vi è nel 
cuore dell’ateo serio una sofferenza, che merita tutta la nostra simpatia umana, 
e si può guadagnare dalla misericordia di Dio la « chiamata ». La sua condizione 
è quella di chi ad ogni momento «si rifiuta » ad una « chiamata » interiore, 
generosamente cd instancabilmente insistente. 


CapitoLo IX 


RAGIONE E FEDE 
NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO 


A proposito dell'argomento ontologico abbiamo notato 
che S. Anselmo si propone dimostrare che esiste il Dio a cui 
si crede per fede e quale la fede Lo indica; anche noi te- 
niamo fermo questo punto: non si tratta di dimostrare l’esi- 
stenza di un Dio quale che sia, ma del Dio, a cui si crede 
per fede. Ciò non significa nè che la ragione penetri la sua 
essenza (!), nè che la fede sia il fondamento della dimo- 
strazione della Sua esistenza, la quale, verità di fede e ve- 
rità di ragione insieme, interessa la filosofia e la religione. 
Certo, esse vanno distinte e la via per cui la ragione arriva 
a Dio è diversa da quella per la quale vi arriva la fede, ma 
le due vie devono concludere allo stesso concetto di Dio, in 
modo che la ragione sia una conferma della fede: conosco 
razionalmente che esiste il Dio a cui credo per fede. Così 
impostato il problema, la fede non solo non è un ostacolo, 
ma è anzi un aiuto per la ragione e nulla toglie alla forza 
razionale della dimostrazione; anzi, in un certo senso, gliene 
conferisce, in quanto fa che la ragione dimostri il Dio di 
cui si cerca sapere anche razionalmente se esiste, Quello che 
l’uomo prega, invoca, adora ed in cui crede e spera. 

(1) Evidentemente il fatto che la ragione non penetri l’essenza di Dio non 
infirma l’argomento ontologico nel senso che, se la ragione ignora Dio nella sua 
essenza, non si comprende come dall’essenza o idea possa dedurre l’esistenza. 


E' chiaro che, quale che sia Dio nella sua essenza, questa s'identifica sempre 
con l’esistenza. 


220 Filosofia e Metafisica 





Impostare la questione in questi termini ci sembra estre- 
mamente importante per oltrepassare l’apparente antitesi, tan- 
to rovinosa quanto inconsistente, tra il « Dio della fede » 
e il « Dio della ragione », il Dio d’Isacco e di Giacobbe e 
il Dio dei filosofi, la quale oppone fede a ragione, verità a 
verità, cioè stabilisce un’antinomia senza senso. Da un lato, 
un fideismo che, per il fatto che nega la ragione, non salva 
la fede, la quale non dev'essere invocata per provare l’esi- 
stenza di Dio; dall’altro, un razionalismo che, negando la 
fede, di essa non è più una conferma e se anche dimostra 
Dio, egli non è quelio della coscienza religiosa, ma una causa 
cosmica, una legge della natura. È necessario, invece, con- 
servare nella sua interezza il contributo della ragione e del 
pensiero critico-dimostrativo (altrimenti s’impoverisce — sia 
detto per i volontaristi ed i pragmatisti — proprio la ricchez- 
za di quella vita spirituale che credono difendere contro il 
razionalismo astratto), senza separare la ragione dalla fede. 
Se separata, non sa precisamente che cosa si proponga di 
dimostrare; disincarnata, la sua dimostrazione, risultato di 
un'’astratta concatenazione concettuale e priva di quella forza 
reale che può attingere solo dalla pienezza e dalla concre- 
tezza della vita spirituale, è di un Dio che non è quello 
dell’esperienza religiosa ed umana. 

Teniamo fermo il punto centrale della questione: l’esi- 
stenza di Dio si dimostra razionalmente, dunque è una verità 
di ragione; ma la ragione è chiamata a dimostrare, senza fon- 
darsi sulla fede, il Dio della coscienza religiosa, Quello che 
gli uomini invocano ed adorano, e, per una filosofia cri- 
stiana, il Dio della Rivelazione. La fede non interviene e 
non deve nella dimostrazione, ma è lì presente ad indicare 
alla ragione qual’è il Dio di cui è chiamata a dimostrare 
l’esistenza; è indicativa della meta da raggiungere e, dun- 
que, in certo senso, orientativa: è l’assente presente. L’esi- 
stenza di Dio, dunque, è verità di ragione e anche di fede. 

Ma il fideismo, oggi più pericoloso che mai dopo quasi 


L'esistenza di Dio 221 





tre secoli di accanita corrosione della metafisica, è tentatore 
e non risparmia neppure la coscienza comune. Infatti, quasi 
sempre si dice: « io credo o non credo nell’esistenza di Dio » 
facendo di essa, implicitamente e spesso inconsapevolmente, 
una questione di pura fede. Il pensiero speculativo moderno, 
quando non è ateo o indifferente, è prevalentemente fideista 
ed afferma che l’esistenza di Dio, di cui si riconosce l’esi- 
genza, non è dimostrabile razionalmente: è una credenza, 
un bisogno morale, un atto di volontà, un « affare » intimo, 
un sentimento personale. Di qui il pragmatismo e il volonta- 
rismo religioso: credo nell’esistenza di Dio che non posso 
dimostrare razionalmente; credo, « voglio credere » che esi- 
ste e « dunque » esiste. Un « dunque » inconcludente. Fidei- 
smo è agnosticismo; alla ragione agnostica, oppone la vo- 
lontà credente: posizione insostenibile e contraddittoria. 

Vi è ancora un’altra forma non agnostica nè scettica di 
fideismo, quella protestantica, che non nasce dalla sfiducia 
nei poteri della ragione, ma da una reazione contro di essa, 
considerata troppo pericolosa e nemica della fede; contro 
la ragione che pretende di risolvere, non solo il problema 
dell’esistenza di Dio, ma anche Dio stesso nel processo del 
pensiero, come se Dio e la religione fossero questioni pura- 
mente razionali e filosofiche. È il « fideismo » che combatte 
il «razionalismo» deista o ateo (il deismo, in fondo, è 
ateismo bello e buono), la pretesa della ragione di dire 
tutto intorno a Dio, di costruire una religione naturale o 
razionale, o di risolvere il momento «inferiore » della co- 
scienza religiosa in quello « superiore » della coscienza filo- 
sofica o della razionalità. In questa forma di fideismo vi è 
un fondo di verità: rivendicare i diritti della fede contro 
la ragione scatenata, quella dello Hegel, e, come tale, irra- 
zionale per passione e cecità; indicarle che il Dio che si 
cerca non è quello « filosofico » o l’« Ente supremo di ra- 
gione » del deismo e neppure il « Dio che si fa ». Ma vi è 
anche un gran torto: rivendicare i diritti della fede contro 


222 Filosofia e Metafisica 





la ragione e concludere che essa nega Dio e la fede, è loro 
nemica, il « diabolico» nell’uomo, come sostengono, per 
esempio, Unamuno e Chestov. Invece la fede deve far 
valere i suoi diritti non «contro» ma «con» la ragione, 
di essa giovandosi; se è contro la ragione è contro se stessa: 
non si può credere « senza » o « contro » la ragione; il con- 
flitto distrugge i due termini. Il fideista dimentica che la 
sua è sempre la fede di un essere razionale e dunque sempre 
imbevuta di ragione, come quest’ultima, pur «distinta », 
non è « separata » dall’altra, altrimenti è ragione atea: deista, 
illuminista. Il fideismo puro, che è ateismo della ragione e 
dunque « fede per disperazione », è esso stesso ateo; l’ateo 
precisamente si rifiuta di credere perchè, secondo lui, la 
ragione smentisce la fede. La difesa della ragione, dentro i 
limiti delle sue capacità naturali, è anche difesa della 
fede (2). 

Posto ciò, contrapporre il Dio della fede al Dio della 
ragione è architettare un’antitesi convenzionale ed inesi- 
stente, se per ragione s'intende non quella «immaginata » 
dal razionalismo assoluto, ma la ragione normale, la quale 
non si oppone alla fede, non le si può contrapporre, nè la 
fede ad essa. Nel caso del problema che stiamo discutendo, 
essa argomenta intorno all’esistenza di Dio per dimostrarne 
la verità, cioè per confermare la credenza religiosa. Colla- 
borazione, dunque: dimostrare cor la ragione l’esistenza di 
Dio a cui si crede per fede. 


(2) Queste mie affermazioni esplicite e chiare rendono inspiegabile il « di- 
screto sospetto » dello STEFANINI (Ricostruzione metafisica, cit., p. 387) che anch'io 
« non rasenti la metafisica della fede » per la mia « insistenza » (sì, insistenza, e 
senza sospetti neppure discreti) nel sostenere che nella dimostrazione dell’esistenza 
di Dio bisogna tener conto della coscienza religiosa e cristiana dell’uomo. Tutto 
quanto questo saggio esclude il fideismo, la metafisica della fede e la petitio 
principii di presupporre ciò che si deve dimostrare. Vedo che anche C. Ferro 
(Guida storico-bibliografica allo studio della filosofia, Milano, 1949, p. 162) accusa 
me e lo Stefanini, senza neppure discreti sospetti, di « fideismo » e « volonta- 
rismo »; ma che si può fare contro le accuse gratuite ed orchestrate sempre nello 
stesso ambiente se non alzare le spalle e continuare tranquillamente il proprio 
lavoro? 


L'esistenza di Dio 223 








Con ciò si soddisfa ancora un’altra profonda esigenza: la 
esistenza di Dio non è solo una verità razionale, ma di tutto 
l’uomo: verità integrale dell’uomo integrale. Non della ra- 
gione astratta, disincarnata, ma della ragione concreta, 
profondamente umana, che non «prescinde » dall’uomo 
nella pienezza della sua vita spirituale. La ragione filo- 
sofica, che non è quella «geometrica », non ha da es- 
sere « passionale » ma non può non essere « appassiona- 
ta», « accesa », ad alta tensione; è passione di verità (eros) 
e, come tale, anche finesse. Solo in quanto eros è ragione 
penetrante: solo in quanto si accende di amore per la 
verità attinge la verità; in questo senso è vero che l’uomo co- 
nosce anche razionalmente per quanto ama, e più ama e 
più conosce. Pertanto dimostrare l’esistenza di Dio non è 
un'operazione, diciamo così, di ordinaria amministrazione; 
non è fare un calcolo, mettersi di fronte ad una questione 
indifferente, con indifferenza e quasi con pigrizia: non ci 
«si esercita» con questo problema. È necessario viverlo 
intensamente, nella drammatica alternativa del sì e del no, 
da cui dipende tutto il senso della nostra esistenza e delle 
cose, la consistenza essenziale del nostro accidentale vivere. 
« Riflettere » sul problema dell’esistenza di Dio è sopravvan- 
zare con la ragione, nell'amore per la verità, la stessa ragione 
per renderla aderente a quella, verità primale che la illu- 
mina, per mezzo di cui giudica e che pur la trascende (*). 
Dimostrazione rigorosissima, ma il cui rigore logico deve 
essere vita e non morte dello spirito, fiamma di verità e 
non estintore. È qui che presta il suo aiuto la fede, pur 
senza interferire: la sua presenza indicativa è anche incen- 
tiva, eccitatrice dei poteri della ragione, sollevata al massimo 
della sua forza normale dalla consapevolezza che la rispo- 
sta che da essa si attende, è quella del sì o del no al pro- 
blema assoluto. La risposta dev'essere senz'altro conforme 
6 Amore petitur, amore quacritur, amore pulsatur, amore revelatur, amore 


denique in co quod revelatum fuerit permanetur (S. Acostino, De moribus cath. 
ecclesiae, c. XVII, 31). 


224 Filosofia e Metafisica 





alle conclusioni della dimostrazione, quali che siano, ma le 
conclusioni stesse sono più sicure razionalmente se si è certi 
che la ragione abbia fatto il suo dovere, fino in fondo. Per- 
ciò la ragione riflessa non può non tener presente l’oggetto 
della fede religiosa, di un’esperienza che non può essere 
un'illusione universale (se il teismo lo fosse, sarebbe la 
ragione ad autorizzare tale illusione!); e, a sua volta, la 
fede si tenga sempre ancorata al suo fondamento razionale: 
credendo cogitat et cogitando credit (*). 


(4) S. Acosrino, De praedestinatione sanctorum, c. Il, p. 5. 


CapritoLo X 


LA CONVERGENZA TOTALE 


« Molti i portatori di ferule, pochi i bacchi », nè basta 
portar la ferula per essere un bacco; lo è chi è acceso del 
sacro fuoco. Similmente, non basta «esercitarsi » a dimo- 
strare l’esistenza di Dio, ornarsi di sillogismi e filati di- 
scorsi, anche se « indispensabili »; è necessario « impegnarsi » 
con la totalità di se stessi, dirigere, unificate e solidali, tutte 
le proprie energie spirituali e vitali verso lo stesso punto; 
fare sul serio, perchè si tratta dell’unica cosa assolutamente 
seria della nostra esistenza. Ciò richiede particolari dispo- 
sizioni, una reale condizione psicologica di tutto l’essere 
spirituale che esclude l’indifferenza e la pigrizia ed include 
la consapevolezza della profondità della questione, dell’ur- 
genza improrogabile di risolverla, della totalitarietà della 
risposta, dalla quale dipende persino se noi siamo vera- 
mente o solo apparentemente degli esseri intelligenti e non 
cose, il cui funzionamento organico ha delle singolari ma- 
nifestazioni — dette impropriamente pensiero, ragione, vo- 
lontà — che gli altri organismi animali non hanno, beati 
loro in questo caso! Non si dimostra l’esistenza di Dio senza 
aderire pienamente alla verità che si vuol provare, se non 
si è disposti a dimostrarla, « chiamati » dall’interno di noi 
a tentare la prova. Non è una chiamata qualsiasi: è quella 
dell’Essere che scende in noi e sale dalle profondità del 
nostro essere; nè chiamata vi sarebbe se l’atto della crea- 
zione non ci avesse radicato in Lui. La chiamata aspetta in si- 
lenzio quando noi, perduto il senso autentico del nostro 


226 Filosofia e Metafisica 





esistere nell’onda del tempo, dall’Essere ci sradichiamo: 
déracinés, sperduti e campati nel vuoto; allora le ore ine- 
sorabili s'incurvano fino a saldarsi e ad annientarci nel 
cerchio del finito più insignificante, opprimente, insoppor- 
tabile. Se le cose stanno così, dimostrare Dio significa de- 
siderare una tale certezza della sua esistenza da essere poi 
nella condizione di non più dubitare; infatti, è sapere tutta 
la verità di tutta la nostra vita, ciò che appunto toglie il potere 
di dubitare di Lui. È l’atto dell’adesione totale e traboc- 
cante, il momento della piena armonia, dell’equilibrio del 
nostro essere integrale, che trova il suo appagamento nella 
conversione all’Essere; è la fedeltà, 1! non poter dire di no. 
L’uomo è libero solo se è liberamente prigioniero della ve- 
rità. Perciò, la dimostrazione dell’esistenza di Dio, affinchè 
la ragione sia nella condizione di « rendere al massimo », 
esige preventivamente una « conversione » di tutto l’uomo 
a quel problema. 

Tale « conversione » al problema (non a Dio) riguarda 
innanzi tutto la ragione. « Sofistica » non è la ragione retta, 
ma quella deviata; sofisma è un’argomentazione corretta 
nella forma ma sostanzialmente errata, gioco di sottigliezze 
non forza di ragionamento; perciò chi sofistica è sempre 
contraddittorio. Vi sono nella sua argomentazione nessi e 
relazioni formalmente coerenti, ma il discorso è ugual- 
mente errato ('). È la stessa ragione che lo corregge dimo- 
strando falsa l’affermazione da cui muove e argomenta, ma 
non potrebbe se non le fossero presenti i princìpi veri a 
cui deve uniformarsi. Ciò significa che la verità non è nel 
nesso razionale, ma nel principio secondo cui esso è fatto: i 
nessi razionali (le argomentazioni) sono veri se il principio 
è vero, sono solo formalmente corretti e sostanzialmente 
errati se muovono da un errore assunto come verità. Da 
questo punto di vista la ragione è inferiore all’intelligenza 





(1) « Le raisonnement n'est pas la raison; il en est souvent la parodie » 
(E. Hetto, Du Néant è Dieu, Paris, 1921, p. 154). 


L'esistenza di Dio 227 





che intuisce i princìpi, fondamento su cui la ragione argo- 
menta; ma la verità dell’argomentazione non è nel puro 
nesso logico, opera della ragione, ma nel principio, cono- 
sciuto dall’intelligenza, che ne è il fondamento. L°’intelli- 
genza è illuminata direttamente dalla verità, la ragione 
mediatamente attraverso la prima, la quale, nella sua im- 
mediatezza, è infallibile. L'intelligenza non è sofistica, la 
ragione può esserlo fino al punto di dire vero al falso e 
falso al vero, di convincere di menzogna, di sofisticare la 
verità: il sofisma è l’alibi della menzogna; buona parte 
della vita individuale e sociale è volgare sofisma. La ragione 
riceve luce dall’intelligenza, intuitiva della verità e crea- 
trice di verità; giudica di ogni cosa e ci fa conoscere la 
verità delle cose, ma solo in quanto l’intelligenza la illu- 
mina, la fa feconda di verità; l’una è la verità fresca, allo 
stato incandescente, zampillante come sorgiva, l’altra è la 
verità riflessa, solidificata. Ma affinchè sia verità riflessa è 
necessario che sia «riflessione secondo verità », che «si 
converta », s'indirizzi alla verità e soltanto ad essa: solo 
purificandosi della tendenza sofistica, la ragione si eleva 
al livello della sua vera natura, riconquista se stessa in tutta 
la forza di cui è capace; affinchè possa dimostrare la verità 
di una proposizione e conferirle tutta la sua potenza logica 
è necessario che essa sia tutta della e per la verità. Solo a 
questo livello la ragione conquista e realizza tutta la sua 
forza normale; fino a quando è nell’errore, è al di sotto di 
se stessa e l’uomo al di sotto dell’uomo. 

La sua natura di uomo lo sollecita semplicemente a vi- 
vere al suo livello di uomo. Eppure soltanto l’uomo, tra 
tutti gli enti creati, non vive al suo livello normale, sem- 
pre in squilibrio sul punto del suo equilibrio integrale; 
tutti gli altri viventi sì; la bestia è tutta la bestia che è, 
difficilmente l’uomo è tutto l’uomo che è. Destino tre- 
mendo, drammatico, quello che alimenta insopprimibile 
una filosofia dell’integralità. Sembra di facile attuazione il 


228 Filosofia e Metafisica 





comando «sii tutto l’uomo che puoi essere »; è invece tre- 
mendamente difficile: io non so mai in quale condizione 
raggiunga il limite della mia umanità totale. Ammesso pure 
che lo raggiungessi e ne fossi sicuro, non basterebbe per 
salvarmi: questo livello posso perderlo in ogni attimo ed 
ogni attimo debbo riconquistarlo. Salvarmi non dipende solo 
da me; da me dipende mettermi nella condizione di esserlo: 
qui tutto il senso di una filosofia cristiana dell’integralità. 
È evidente, dunque, che quando parliamo di ragione o del- 
l’uomo senz’altro al livello di tutta la sua forza normale 
non intendiamo un’assurda super-ragione o un assurdo su- 
peruomo, che è la negazione dell’uomo o meglio la subli- 
mazione di quello inferiore, ma semplicemente della ragione 
che sia tutta la ragione, dello spirito che sia tutto lo spi- 
rito, dell’uomo che sia tutto l’uomo, cioè che attui integral- 
mente tutto il suo essere secondo l’ordine dell’essere, in modo 
che sia la pienezza di se stesso. Ma qui è il punto: non c’è 
attuale e totale normatività dell'uomo se ogni sua energia 
e forma di attività non sia indirizzata a Dio; e non c’è 
salvezza se Dio non lo salva. Solo in questo caso la pie- 
nezza dell’uomo è colma. La filosofia cristiana dell’inte- 
gralità è la filosofia dell’umiltà assoluta. 

La disposizione intellettuale di « conversione » alla ve- 
rità è anche disposizione morale, processo di purificazione di 
tutto lo spirito, elevazione al suo livello autentico: è met- 
tersi nella condizione di esser liberi dall’errore. Per dimo- 
strare secondo verità, è necessario escir fuori dal nostro 
egoismo, dalle nostre passioni, sofisticherie e bassezze: solo 
allora la ragione dispone di tutta la sua efficacia; non 
sottomettere il pensiero alla concupiscenza, le norme del 
giudizio alle cose da giudicare, in modo da ascendere 
al livello dello spirito, fino al punto in cui la sua at- 
tività, convertita al problema, converge tutta nella sua so- 
luzione. Non basta ragionare secondo la logica, è neces- 
sario esistere, pensare, ragionare secondo la verità. Alla base 


L'esistenza di Dio 229 





dell’autentica ricerca filosofica vi è una iniziale onestà di 
pensiero e di volontà, che è frutto di ascesi e purificazione: 
non si conosce la verità se non si è già nella condizione in- 
tellettuale e spirituale di essere degni di conoscerla. La sua 
scoperta è la scoperta dell’io profondo a cui è interiore, è il 
premio di chi si è liberato dell’io superficiale, egoista, fram- 
mentario, disperso; premio dell’onestà fondamentale di una 
ragione votata alla verità e di una volontà che è buona vo- 
lontà di servirla. Tutti possono far versi, ma son pochi i 
poeti; e non vi è poeta senza una particolare condizione di 
spirito, quella che chiamano «estro»; e vi è anche un 
« estro » filosofico, come ve ne è uno religioso ed uno anche 
scientifico. L’« estro » della filosofia è l’amore incondizio- 
nato della verità, che è poi, anche quando non se ne ha 
coscienza, amore di Dio, che è la Verità; i « bei discorsi », 
di cui parla Socrate, sono il suo modo di pregare, la ma- 
niera con cui la ragione si rivolge alla verità, come ne 
testimonia purificata e purificantesi sempre più e meglio 
nella verità stessa. Solo allora le argomentazioni manife- 
stano tutta la loro forza normale (?). 

Questa la condizione per acquistare tutta la consapevo- 
lezza possibile della nostra iniziale e finale partecipazione 
all’Essere. Come abbiamo già detto, del « nulla» non c’è 
discorso nè filosofia: il nulla è il nulla e non avrebbe alcun 
senso senza la positività dell’essere. Ogni ente è l’essere che è; 
è il richiamo, la sollecitazione dell’Essere che lo stimola ad 
essere il pieno attuale ed ascendente del suo essere: l’ente 
spirituale emerge perennemente dal suo essere per la spinta 
che riceve dall’Essere che lo ha creato e l’attrae. La partecipa- 
zione all’Essere gli dà tanta ricchezza da sentirsi come afflitto, 


(2) Difficilmente la forza « attuale » delle attività dell’uomo è tutta la loro 
forza « normale », la quale, d’altronde, anche allo stato interamente attuale, non 
è mai autosufficiente, anche se sufficiente nell'ordine naturale. Anzi la normati- 
vità piena è impossibile senza la convergenza di tutto lo spirito in Dio, cioè 
senza la condizione attuale della transnaturalità. L’autosufficienza, invece, è l’al 
di là della norma, l’abrorme, che è la negazione dell’uomo. 


2% Filosofia e Metafisica 








più che dalla sua povertà, dalla pienezza potenziale che 
non riesce a rendere tutta attuale. L'uomo è sempre più di 
quel che è in un’ora: in ogni oggi ha sempre un domani. 
Perciò è speranza e fedeltà e non nostalgia, che è del di- 
sperato, di chi non ha domani significante ed eterno, dei 
sradicati dall’essere. È nostalgico chi nel futuro vede il nulla 
e nel presente il vuoto: misconosce la partecipazione ini- 
ziale e perciò si volge al passato, non perchè lo trovi signi- 
ficante, ma per un fatale abbandono «in ciò che non è». 
L’uomo è lievitato dall’essere: farina che si fa pane, sempre 
nuovo pane: la fame dell’essere è lievito inesauribile. Ogni 
ente è dato, ma è esso che si fa, si costruisce nello spirito, 
ma solo perchè si costruisce nel e sull’essere; il livello dello 
oggi sporge sempre in quello del domani: lievito e lievita- 
zione perenne. È la tensione della vita spirituale nella sua 
integralità; nè teme rotture, perchè la tensione dell’essere 
all’Essere è il «tonico », il « ricostituente » dello spirito. È 
la tensione al finito che spezza l’esistenza; quella all’infinito, 
risposta totale alla chiamata, è l’autenticità della creatura, 
che salda e tempra il legame d’amore e di verità dell’atto 
creativo. Da un punto di vista empirico questa tensione 
incandescente può far sembrare allucinata e allucinante la 
vita; ontologicamente, nella dimensione dell’essere al li- 
vello di tutta la sua forza normale, è luce piena dell’esistenza, 
che ha saputo addossarsi fino alla sofferenza (distacco e 
riconquista) tutta la pienezza della vita. « Pour étre vrai- 
ment homme il faut accepter d’ètre et accepter l’ètre sans 
aucune réserve » (*. L'’ontologo, il metafisico vero, non 
« parla » dell’essere, « vive» del e nell’Essere assumendosi 
il problema totale del significato del suo essere integrale, 
fin nelle sue profonde ed abissali radici. 

Tale condizione è esigita assolutamente dalla dimostra- 
zione dell’esistenza di Dio, dell’unum necessarium, dal pro- 


(3) BaLtHAsar, op. cit., p. IX. 


L'esistenza di Dio 231 





blema essenziale della filosofia essenziale: tutto il dinami- 
smo della vita spirituale è chiamato a convergere nella 
soluzione del problema totale della verità totale. Solo allora 
non capiterà d’incontrare persone che conoscono benis- 
simo tutte le prove dell’esistenza di Dio tanto da saperle 
esporre meglio di coloro che ne sono convinti, ed essere 
atei ugualmente; o altre che ne sanno dimostrare esatta- 
mente l’esistenza a degli atei senza convincerli, pur avendo 
costoro perfettamente inteso per filo e per segno tutti i 
processi logici. Che manca? manca la tensione, la conver- 
genza totale della vita spirituale e di tutte le sue infinite ed a 
volte misteriose energie. Non basta mettere in opera la ra- 
gione, a tavolino, tranquillamente; occorre che io metta in 
moto, con la ragione, tutto me stesso, in modo che essa viva 
di tutta la mia vita, pulsante di tutte le energie del mio 
spirito. Si scoprono allora nella ragione una forza insospet- 
tata e risorse che sembrano quasi non appartenerle; e la 
ragione scopre nello spirito la presenza di qualcosa che 
prima intravvedeva solo confusamente: si fa luce e nella 
luce cerca e dimostra secondo verità, con intelligenza, con 
quell’intelletto di amore, che potenzia le sue capacità di- 
mostrative senza comprometterle. La ragione cerca e trova, 
cerca scopre dimostra, vivente di tutto il mio spirito, non 
l’Ente necessario o la Legge o la Causa, ma il Dio creante, 
vivificante, provvidente: lo scopre essa che ama, ed è vita 
ed è artefice di verità, perchè dalla verità illuminata. La 
originaria ed oscura nozione di Dio si chiarisce ed il pre- 
sentimento primitivo, che ha sempre orientato e sollecitato 
ogni atto spirituale, si svela come verità razionalmente vera. 
La dimostrazione è ricca di tutta l’intensità presentativa 
della verità: tutto lo spirito dimostra l’esistenza di Dio, 
perchè tutto convergente in questa dimostrazione. La prova 
non è soltanto lavoro di dialettica e concatenazione astratta 
di concetti, ma di logica incarnata, piena di tutte le risorse, 
adesione integrale dello spirito integrale. Allora ogni ente 


232 Filosofia e Metafisica 





conosce il senso assoluto della sua contingenza: la risposta 
è tutta la sua verità, tutta la sua realtà; orienta indefettibil- 
mente la vita nel tempo — di un passato che altrimenti non 
importerebbe più e di un futuro che diversamente sarebbe 
inutile — all’eternità. La prova non ha fatto certamente 
che Dio esista; il suo rigore logico ha confermato l’essere di 
Dio, del Trascendente interiore; ed è tale presenza che ha 
reso possibile la prova stessa. Il presentimento, prima se- 
greto e confuso, si traduce in termini discorsivi: la vita 
dello spirito, nella consapevolezza razionale della sua si- 
gnificanza, trova pace nella verità operosa e creatrice di 
nuovi veri, che sono nuovi beni, al di sopra e al di là delle 
parvenze sensibili e delle schematizzazioni astratte, in una 
pace che è solennità di pensiero maturo e compiuto, ope- 
rosità di volontà inesauribile nella realizzazione del bene. 
« Trop de vérité m’étonne », scrive Pascal. M°étonne non 
direi, perchè la verità non stordisce nè fulmina: la verità 
illumina. Certo che, nello stato naturale dell’uomo, resta una 
zona infinita di Luce, che, per troppa luce, non si penetra. 
Vedere buio nella Luce: è questa la reale inquietudine del- 
l’uomo, la sua felice e feconda infelicità sulla terra. « La 
Grande Luce» è per noi «la Grande Tenebra»: più si 
riflette sulla sua essenza e più la Luce inviolabile ed acce- 
cante nasconde a noi il suo essere. Di qui l’irresistibile bi- 
sogno del ritorno all’ Essere, di veder nella luce tutta la Luce. 

Con Agostino ed il migliore agostinismo — e S. Tom- 
maso ne è il più originale assimilatore — noi rivendichiamo 
una dimostrazione dell’esistenza di Dio in tutta la sua effi- 
cacia concreta, che solo la vita dello spirito e il suo inte- 
riore dinamismo le possono conferire. Dio non si dimostra 
ambulando (Aristotele, a mo’ di esempio, insegnava « pas- 
seggiando ») ed astrattamente sillogizzando come se ba- 
stasse un sillogismo per far decidere del senso di tutta la 
umanità e delle cose. La vita spirituale è più ricca della ragio- 
ne, anche se è vero che non vi è vita spirituale senza ragione. 
È necessario che nella prova vi sia la solidarietà essenziale di 


L'esistenza di Dio 233 





tutti gli elementi attivi e reali della vita dello spirito (ve- 
dute dell’intelletto, disposizioni della volontà, amore di ve- 
rità, rigore razionale, indicatività della fede e desiderio di 
possederla, insegnamenti della tradizione ecc.) concorrenti 
allo stesso scopo: solidarietà essenziale di elementi in una 
convergenza totale, orientata e guidata dalla primitiva ve- 
rità interiore. A questo livello e sulla base di una razionalità 
sì piena e pregnante l’esistenza di Dio si presenta come 
verità assoluta e la sua non esistenza come affermazione 
insensata e ipotesi proibita; a questo livello la ragione di- 
mostra, inconfutabilmente, che vi è l’Essere creatore tra- 
scendente, Bene e Provvidenza, Principio unificatore della 
vita spirituale di ogni singolo ente razionale, Verità che 
dona a noi la verità, Luce della nostra mente, Valore asso- 
luto, fonte di ogni valore. Tutto converge in Lui perchè 
tutto è da e per Lui. La verità in me, immagine della Ve- 
rità in sè, presentimento primitivo di Dio e principio mo- 
tore originario di tutto il mio movimento spirituale, se non 
sono assente a me stesso, fa sì che tutta la mia attività ar- 
monizzi in una convergenza radicale assoluta; solo essa ha 
il potere di unificare tutti i momenti della mia vita e diri- 
gerli verso la meta unica. Se, come abbiamo scritto altrove, 
in me mancasse la presenza operante di questa intuizione 
originaria, « se essa non esercitasse il suo potere sintetico ed 
unificante, la mia vita sarebbe sparpagliata, dispersa in tan- 
te direzioni insufficienti e tutte insieme inefficaci ad uni- 
ficarla e a dirigerla verso un punto assoluto e totale. E’ la 
condizione dell’ateo, dell’insipiens, che non sa più dove va- 
dano e dove cadano i brandelli della sua insignificante esi- 
stenza. Ed è una condizione ”’irreale”’ perchè frutto di igno- 
ranza e di errori, disconoscimento o falsificazione della reale 
condizione dell’uomo... ». Perduto l’essere, si spezza l’unità 
dell’esistenza, si disperde nel frammento: è la disintegrazio- 
ne, il disfacimento; questa la morte, non quella corporea. 
Un uomo ed una società senza Dio sono fuori dell’uomo € 


234 Filosofia e Metafisica 





dell’umana convivenza. In una società che ha ucciso l’uomo 
perchè ha ucciso Dio, non si comunica perchè la comuni- 
cazione è possibile solo nella verità. Solo tenendo presente 
che la nozione di Dio vivifica, penetra, permea, imbeve 
‘e mette in moto l’interezza della vita spirituale, per cui 
la forma logica dell’argomentazione aderisce perfettamente 
alla concretezza dell’integrale realtà umana, si coglie tutta 
l'efficienza di cui la prova è capace. Pace della mente nel- 
la verità creatrice di nuovi veri: mente vera; pace della 
volontà inesauribile nella realizzazione del bene: volontà 
operosa. Mente vera e volontà buona: è la rettitudine del- 
l’uomo. 

La pura « razionalità » non è « intelligenza », che inclu- 
de l’altra e l’oltrepassa; la prima, fatta di nessi e di rapporti, 
o è astrattismo e formalismo, o conoscenza dell’empirico: 
c’è razionalità pura dell’astratto e delle cose fisiche (la Critica 
della ragion pura, da questo punto di vista, è una metodo- 
logia delle scienze). Di Dio non c’è pura razionalità, ma in- 
telligenza penetrante. Nel conquistare la verità della Sua esi- 
stenza vi è un recupero dell’io profondo, del sensus sui, 
della verginità e schiettezza del nostro essere, della sua 
‘autentica originarietà: è la prossimità del noi sorgivo alla 
Sorgente eterna. Il pensiero moderno ha voluto essere « ra- 
zionale » e perciò è scientifico e metodologico; si è privato 
dell’ « intelligenza » di Dio e perciò ha cercato di demolire o 
fare a meno della metafisica: ha confuso i due piani diversi 
dell’empirico e del metafisico. Posizione formalisticamente 
«razionale », ma non ragionevole. La « ragionevolezza » è 
la razionalità fatta penetrante dall’intelligenza e vivificata 
dal sentimento: chi è ragionevole non può negare l’esistenza 
di Dio. Perciò è necessario avere tanta ragionevolezza da non 
‘essere puramente razionali o passionali, tanto calore di sen- 
timento da rendere umana la ragione e tanta forza di ragione 
da purificare ed illuminare il sentimento, in modo che la 
verità dell’esistenza di Dio manifesti tutta la sua razionalità 


L'esistenza di Dio 235 





e ragionevolezza, che sono anche quelle della ragione. Tutto 
il nostro discorso è un invito ai « razionali » e ai « passio- 
nali » affinchè tornino ad essere « ragionevoli ». 

A questo punto, dimostrata razionalmente — e con una 
ragione ricca di tutto se stessa — l’esistenza di Dio, il di- 
scorso della filosofia cessa e comincia quello della fede. Ma 
il filosofo deve dire di sì alla sua vocazione di « arrivare », 
di spingersi fino a questo punto, se pensa interamente, se 
è spietatamente «critico »: non deve fermarsi a metà. Egli 
non può sottrarsi alla responsabilità di realizzare quell’equi- 
librio, in cui tutta la vita dello spirito è compresente, solidale 
e unificata, in cui si attua la rormazività piena, inclusiva di 
tutte ie norme di ogni forma di attività e di tutti gli equi- 
libri parziali. Il filosofo non può sottrarsi, costi quel che 
costi, ad elevarsi — senza niente disprezzare o respingere 
di quanto ha positività — al livello in cui l’essere conquista 
la sua chiarezza nella partecipazione consapevole all’Essere, 
in cui si coglie l’intelligibilità metafisica del senso dell’esi- 
stenza, il suo significato assoluto nell’immortalità e nella spe- 
ranza della salvezza. Poi la fede, quella che ha tale forza at- 
trattiva da sollevare l’anima al punto in cui « cade » in Dio, 
suo centro di gravità. Se mi seppellisco nel mondo, mi faccio 
cosa tra le cose, mi sottraggo alla legge della gravitazione 
degli spiriti, la terra mi ghermisce, mi attrae e terra e fango 
mi coprono. Se dal mondo ascendo, non per perderlo di vista 
ma per riconquistarlo, vedo tutto il creato nella luce dell’Es- 
sere che è Verità. Da questa altezza il mondo non mi attira 
e lo vedo sospeso a Dio, in cui gravito, in cui bramo « ca- 
dere » non per annullarmi, ma perchè la sua Luce mi tra- 
sfiguri. A questo punto il discorso si conclude — come Ago- 
stino il XV ed ultimo libro del De Trinstate — precatione 
melius quam disputatione. 


APPENDICE 


IL CONCETTO CATTOLICO 
DI LIBERTA’ DI PENSIERO 


Di diritto e di fatto il solo Istituto e il solo sistema dot- 
trinale che riconoscono e garantiscono la libertà autentica 
del pensiero e dell’azione sono l’istituto della Chiesa catto- 
lica e il sistema dottrinale filosofico-teologico del Cattolice- 
simo. Una tale affermazione, nei tempi perduti che l’uma- 
nità attraversa, a prima vista, superficialmente e solo in ap- 
parenza, è scandalosa e sconcertante. Dal Rinascimento in 
poi, attraverso i « libertini », gli « spiriti forti », i deisti del 
Seicento e successivamente i cosiddetti «liberi pensatori » 
del giacobinismo settecentesco e del laicismo dell’800, si è 
prevenuti a vedere nella Chiesa e nel Cattolicesimo la nega- 
zione della libertà e di ogni libertà e ad identificare l’una e 
l’altro con la coazione più oppressiva e tirannica. La lotta. 
tra la Chiesa e le altre confessioni religiose, le teorie politiche 
moderne, il liberalismo e il marxismo è stata interpretata, da 
storici e scrittori non cattolici, come la lotta tra l’oscuranti- 
smo della tirannia chiesastica e clericale e l’affermarsi della 
libertà dell’uomo, con una confusione di problemi e piani € 
un travisamento di fatti e princìpi che può solo spiegarsi con 
la graduale e progressiva ignoranza, caratteristica del mondo 
moderno e contemporaneo, di quel che sono la Chiesa e il 
suo complesso dottrinale. 

Di fatto è accaduto sempre al contrario: quando un’au- 
torità ha misconosciuto i diritti della persona umana e ogni 
forma più elementare di libertà, si è trovata di fronte, non 
nemica ma intransigente e irriducibile, la Chiesa di Roma 
senza paure al cospetto di qualsiasi tirannide, per cui gli 


240 Filosofia e Metafisica 





oppressi hanno in Lei visto l’unica speranza e cercato l’estre- 
mo rifugio. Così ogni qual volta gli stessi uomini che met- 
tono in moto le forze oscure del potere e dell’ambizione, 
sopraffatti dallo stesso ingranaggio da essi scatenato ed im- 
potenti ad arrestare lo sfacelo di ogni legge ed autorità a cui 
consegue anarchia, perdono smarriti il controllo e il presti- 
gio d'’istituti e leggi è atterrato, chi raccoglie l’eredità e guida 
ancora tra tanta tenebra di sanguinosa violenza negatrice di 
ogni libertà, è la Chiesa. Ai nostri giorni, in quei Paesi dove 
tirannia impera e libertà è delitto da punire di morte, è la 
Chiesa che ancora resiste, infonde speranze ed offre un’oasi 
ristoratrice di libertà al gregge di uomini che terrorizzato 
applaude alla sua schiavitù. Per rendersi conto di come sol- 
tanto la Chiesa è sempre stata ed è l’unica tutrice della-libertà 
umana e la sola immancabile garanzia di essa, non per fina- 
lità diverse dalla difesa della libertà stessa e dunque non per 
una sua concezione strumentale, bisogna che vengano tempi 
duri, anni in cui la libertà è minacciata o calpestata. Quando 
tutti s'inchinano alla realtà di fatto, la Chiesa protesta per 
quanti tacciono e difende assiste protegge anche gli stessi 
oppressori affinchè costoro, riacquistata la libertà per se stes- 
si, possano di nuovo sentirsi creature spirituali e redimersi 
dalla colpa di aver negato agli altri questo naturale e fonda- 
mentale diritto. 

Questo storicamente. Ma quale il concetto cattolico di 
libertà, e, più particolarmente, della libertà di pensiero? Co- 
me intenderla dal punto di vista del Cattolicesimo? Pro- 
blema imponente, che in una brevissima nota può essere sol- 
tanto sfiorato in quelli che a noi sembrano i suoi aspetti teo- 
retici essenziali. 

Innanzi tutto, libertà di pensiero significa libertà del pen- 
siero, cioè non libertà di pensare quello che piace, che è la 
negazione radicale della libertà nell’arbitrio irrazionale e nel 
non-pensare, ma di pensare in maniera conforme alla natura 
del pensiero, cioè in modo che, pensando, il pensiero avverta 


Il concetto cattolico di libertà di pensiero 241 





che quel che pensa è confacente alla sua essenza e non una 
violenza, che è sua schiavitù. Dunque, libertà di pensiero 
come tale significa semplicemente libertà del pensiero di 
pensare l’oggezto che gli è conveniente e a cui la sua natura 
lo porta e sollecita. Ma l’oggetto del pensiero alla sua essenza 
conforme è la verità; pertanto libertà di pensiero significa 
libertà del pensiero di fronte alla verità, pensare nella verità. 
Chi pensa nella verità non può non pensare la verità che 
l'umano pensiero può conoscere e chi la pensa, pensa confor- 
memente alla natura del pensiero stesso e dunque in piena 
libertà di pensiero, conformemente ai princìpi illuminanti la 
ragione e garanzia della veridicità di ogni giudizio. 

Ma la verità è più del pensiero che la pensa e per cui 
esso pensa, in quanto non vi è pensiero senza il suo oggetto. 
E’ più perchè non è il pensiero a crearla: la verità è prima 
ed indipendentemente da esso; e vi sono i veri che la mente 
può conoscere perchè c’è la verità, presente in ogni vero € 
per cui ogni vero è tale. Se la verità è più del pensiero, gli 
sovrasta, lo trascende; dunque, il rapporto verità-pensiero è 
di ordine gerarchico: il pensiero deve ubbidire alla verità. Il 
« diritto » alla sua libertà, a pensare il vero nella verità, lo 
esercita, afferma e garantisce solo a patto che compia il « do- 
vere » di ubbidire alla verità, in quanto è libero solo ubbi- 
dendole. Altrimenti si fa schiavo dell’errore, esce dalla verità 
che è come escire fuori di strada, perdersi nel buio di sè a se 
stesso, pensare disformemente dalla sua natura, che è non 
pensare, soffrire della privazione della verità e del peso del- 
l’errore. Dunque il concetto cattolico di libertà di pensiero si 
può così formulare: chi pensa conformemente alla verità pen- 
sa conformemente alla natura stessa del pensiero, il quale è 
libero quando pensa il suo oggetto proprio, cioè quando si 
sottopone all’ordine oggettivo e superiore della verità. Libertà 
del pensiero è libertà dall’errore: solo chi si fa servo della 
verità è libero dall’errore ed in possesso dell’oggetto che ap- 
paga la sua natura e, appagandola, gli dà la gioia della libertà 


242 Filosofia e Metafisica 








piena. La libertà è processo di liberazione dall’errore senza che 
tuttavia s’identifichi con il processo attraverso cui si conquista. 

Similmente la libertà della volontà è libertà dal male, cioè 
volere conformemente al bene, il quale sovrasta la volontà e la 
trascende; dunque la volontà è libera quando è libera di ubbi- 
dire al bene, come il pensiero lo è quando è libero di ubbidire 
alla verità. Il concetto cattolico di libertà della volontà si- 
gnifica: obbedienza libera a legge giusta e buona; disubbidire 
in questo caso è farsi schiavi del male e perdere la libertà del 
volere. Anche per la volontà, dunque, libertà è processo di 
liberazione dal male, conquista del bene e conformità del- 
l’azione al bene voluto, che, cristianamente, significa amato. 

Ma ecco pronte le obiezioni o i luoghi comuni: qui s’im- 
pone al pensiero una verità bella e fatta e lo si obbliga a 
seguirla; non gli si consente che si scelga la sua verità. 

Hanno un senso razionale queste parole ? 

Non bisogna imporre al pensiero nessuna verità? lasciarlo 
sospeso a se stesso, nel vuoto? Ma il pensiero non è affatto 
libero nel vuoto, anzi tende a liberarsi dal vuoto da cui ri- 
fugge. Bisogna dunque dargli un oggetto; e quello che gli è 
conforme e lo rende libero è proprio la verità, che è tal cosa 
che non è nè antica nè moderna, nè di ieri nè di oggi: 
è di sempre, extratemporale o superstorica, quantunque sia 
madre del tempo e della storia; è tal cosa che non può non 
imporsi al pensiero ed obbligarlo a seguirla. Se il pensiero 
dice di no, mentisce, e la menzogna, come l’errore, è schia- 
vitù. i 
Che significa che il pensiero, se libero, deve scegliere la 
sua verità? Ha solo un senso: scegliere la verità invece che 
l’errore. Ma di fronte alla verità non c’è scelta, perchè non 
c'è più alternativa. Sua, sì, se significa che il pensiero sce- 
gliendola, se ne impossessa, la ama, le si sente unito; se la 
fatica della conquista gliela fa sembrare tutta per sè; sì an- 
cora nel senso che in essa si trova a suo agio e vi si adagia, 
anche se per una veglia perenne. No, invece, se significa che 


Il concetto cattolico di libertà di pensiero 243 





la verità è prodotta o creata dal pensiero, a lui relativa e da 
lui dipendente, tanto da essere verità per uno e non-verità 
per un altro. Tal verità non è più tale, è opinione; ma qui 
delle opinioni non si fa questione. In breve: o si dice dimo- 
strandolo che non vi è verità e non c’è più libertà di pen- 
siero, per il semplice motivo che il pensiero è sempre nella 
non-verità; o verità c'è e allora, siccome la verità è tal cosa 
che è sempre vera e mutare non può, la libertà del pensiero 
ha ‘un senso razionale e comprensibile, se è libertà di essere 
nella verità, di conoscerla e amarla, di pensare e giudicare 
secondo essa. Ma il pensiero moderno non cattolico ha pro- 
prio negato l’esistenza di una verità oggettiva ed immuta- 
bile, dei principi stessi della ragione, per una verità storica 
e relativa, che è nello stesso dialettizzarsi e divenire del 
pensiero, temporanea e quasi puntuale, produzione mutevole 
della mutevole mente umana. Perciò, perduto il vero con- 
cetto di libertà del pensiero, schiavo dell’errore, accusa di 
negatore della libertà il Cattolicesimo, il solo che ne abbia 
un concetto vero avente tutta la sua forza normale perchè 
conforme alla genuina natura del pensiero, la cui libertà 
si realizza nell’ubbidienza alla verità, che è tal padrone 
che riscatta dalla schiavitù dell’errore ed impone tale di- 
pendenza che, solo dipendendone, si è perfettamente liberi. 

Dentro questa libertà del pensiero nella verità e della 
volontà nel bene è legittima e vera ogni altra libertà: po- 
litica e sociale, privata e pubblica, ma sempre tale che si 
attui nel vero e nel bene e in ubbidienza ad essi. Solo il 
concetto cattolico della libertà di pensiero è fondamento e 
garanzia di ogni altra libertà, della libertà integrale; perciò 
la Chiesa difende i diritti naturali della persona umana, che 
si compendiano in un solo fondamentale diritto: libertà di 
essere per la verità che è esser liberi di tutta la libertà e 
liberati dalla schiavitù dell’errore. Tale libertà ha un solo 
limite: la verità per il pensiero, il bene per la volontà; perchè 
non ha senso una libertà del pensiero e della volontà oltre 


244 Filosofia e Metafisica 





la verità, al di là del bene. Oltre la verità e il bene c'è il 
nulla di verità e di bene, che è il nulla di pensiero e di 
volontà; e nel nulla non c’è questione nè di libertà nè di 
schiavitù: c’è il nulla della persona umana, di ogni suo di- 
ritto e dovere. Pensare fuori della verità è non pensare e 
non essere affatto liberi di pensare; è sbrigliarsi nell’errore, 
che è il niente del pensiero; pensare quel che piace è rifiu- 
tarsi di pensare quel che è vero, è il non-pensare perchè ciò 
che piace non è oggetto del pensiero ma del senso. Se si 
abbandona il piano della libertà spirituale o di pensare nella 
verità si scende a quello della libertà biologica o vitale, 
governata dal meccanismo degli istinti e dalla violenza delle 
passioni. Allora il soggettivismo incontrollato del « ciò che 
piace » fa che l’uomo venga meno alla sua prima libertà so- 
ciale e morale, quella di riconoscere e rispettare la libertà 
dell’altro: è la violenza in tutte le sue forme, dell’assassinio 
singolo e di quello collettivo (la guerra), della rivolta o 
della tirannide. Per esser libero, l’uomo deve farsi libero 
di non fare quel che gli piace, e di fare quel che è giusto 
perchè conforme all’ordine del bene, in cui soltanto la sua 
volontà è libera e all’ordine del vero, in cui soltanto il suo 
pensiero è libero. Dunque libertà nella verità e nel bene. 

Da un punto di vista teologico questa formula si traduce 
in quest'altra: libertà nell’ortodossia. La verità è infinita e 
si manifesta in aspetti infiniti, che mai la esauriscono; pen- 
sare nell’ortodossia è aggiungere qualcosa, armonizzante col 
tutto, al sistema dell’inesauribile verità, come una guglia ad 
una cattedrale. Perciò noi crediamo che una filosofia, per 
quanta verità possa contenere, non è mai tutta la verità e 
dunque non vi è alcuna filosofia che possa dirsi tutta la 
verità cattolica. Tante filosofie perciò, ma non come tante 
verità, bensì come tanti veri, parziali e concordanti, della 
unica verità, in essa convergenti, come i raggi di un cer- 
chio convergono tutti al centro. La Chiesa ha conosciuto nel 
migliore Medioevo questa magnifica libertà di pensiero den- 


Il concetto cattolico di libertà di pensiero 245 





tro l’ortodossia; il pensiero ortodosso non può identificarsi 
senz'altro con una filosofia o con una determinata corrente 
filosofica. Non una philosophia perennis, perchè perenne c’è 
solo la verità e la filosofia come ricerca e scoperta di sempre 
nuovi veri nella verità, ognuno dei quali è perenne come 
particolare vero. Perenne è ogni filosofia le cui verità rive- 
lano un aspetto della verità, perchè vive della vita perenne 
della verità; è ogni pensare nell’ortodossia, senza esclu- 
sione, in quanto la verità è soltanto monopolio di se stessa 
ed oggetto di ogni pensiero retto e di ogni volontà onesta. 
Chiunque abbia scoperto un vero ed accresciuto l’umana 
conoscenza dell’unica eterna verità, anche se si dice ateo, 
contro se stesso, pur essendo schiavo dell’errore, è libero per 
quanto pensa e conosce di vero, nella misura in cui ubbi- 
disce alla verità, ed è anche cattolico per quel che pensa 
non contraddicente l’ortodossia. Il concetto cattolico della 
libertà di pensiero è tal cosa che rende liberi anche coloro 
che fanno di tutto per essere schiavi dell’errore e del male. 


INDICE DEI NOMI 


A 


Abelardo, p. 204. 

Acri, p. 143; vol. II, p. 53. 

Agostino (S.), p. 35, 40, 62, 67, 
99, 124, 125, 127, 128, 137, 
139, 140, 141, 143, 145, 147, 
148, 149, 150, 151, 154, 155, 
156, 165, 166, 180, 184, 187, 
194, 207, 210, 216, 217, 223, 
224; vol. II, p. 8, 40, 97, 112, 
115, 136, 145, 155, 162, 175, 
177, 179, 187, 192, 194, 203, 
209, 223, 224, 232, 235. 

Alembert (d’), p. 109, 180. 

Alessandro, p. 187. 

Aliotta, p. 130. 

Amerio, p. 137. 

Ampère (d’), p. 180. 

Anselmo (S.), vol. II, p. 130, 
194, 195, 196, 197, 198, 202, 
203, 206, 207, 219. 

Antonelli, p. 13. 

Ardigò, vol. II, p. 50, 51, 123. 

Aristotele, p. 51, 52, 61, 91, 97, 
105, 113, 122, 123, 127, 128, 
129, 138, 139, 140, 141, 142, 
143, 144, 145, 146, 147, 149, 
150, 152, 153, 156, 181, 184, 
190, 193, 194, 220, 221, 227; 
vol. II, p. 42, 91, 147, 183, 
199, 210, 232. 


Arnauld, vol. II, p. 10. 
Arvon, vol. II, p. 76. 


Bacone, p. 181 vol. II, p. 73, 
160. 


Bakhtavar, vol. II, p. 27. 

Balmes, p. 127. 

Balthasar, vol. II, p. 143, 230. 

Bayle, vol. II, p. 9, 23, 25, 27, 
38, 43, 45, 46, 76. 

Berdiaeff, p. 188, 205. 

Bergson, p. 116; vol. II, p. 94, 
210. 


Berkeley, p. 107, 108; vol. II, 
p. 174. 

Bernardo (S.), p. 204. 

Bertini, vol. II, p. 204. 

Besant, vol. II, p. 60. 

Bespaloff, p. 205. 

Blavatsky, vol. II, p. 60. 

Blondel, p. 40, 67, 80, 127, 128, 
129, 143, 155, 225, 226; vol. 
II, p. 7, 141, 187, 218. 

Bogliolo, p. %; vol. II, p. 211. 

Bonatelli, vol. II, p. 137. 

Bonaventura (S.), p. 99, 156, 
144; vol. II, p. 150, 195. 

Bontadini, vol. II, p. 208, 209. 

Borne, vol. I, p. 76. 


250 Indice dei nomi 





Bossuet, vol. II, p. 15. 
Bruno, vol. II, p. 56. 


Brunschvicg, vol. II, p. 8, 35, 
69. 


Bruto, vol. II, p. 20. 
Buber, vol. II, p. 76. 
Biichner, vol. II, p. 50. 


c 


Calvez, vol. II, p. 76. 


Campanella, p. 127; vol. II, p. 
130, 191. 


Camus, p. 189, 211; vol. II, p. 
17, 28. 


Capone Braga, vol. II, p. 148. 
Carabellese, p. 221; val. II, p. 
32, 76, 130, 205, 206, 207. 

Caracciolo, p. 13. 

Carlini, p. 101, 137, 138, 140, 
141, 143, 145, 146, 147, 148, 
150, 151, 156. 

Cartesio, p. 15, 37, 89, 100, 105, 
106, 107, 108, 111, 118, 144, 
204, 215; vol. II, p. 10, 105, 
108, 155, 160, 174, 214, 215. 


Cesare, p. 187. 
Chestov, p. 208; vol. II, p. 39, 
222. 


Ciro, p. 187. 


Comte, p. 114; vol. II, p. 7, 37, 
61, 75. 


Condillac, p. 108. 

Copernico, p. 73. 

Crippa, p. 13. 

Crizia, vol. II, p. 26. 

Croce, vol. II, p. 35. 
Cusano, p. 127; vol. II, p. 161. 


D 


D'Amore, p. 227, 228. 

Dario, p. 187. 

De Bonald, vol. II, p. 41. 

De Finance, p. 143. 

De Lubac, vol. II, p. 76, 99. 

Destutt de Tracy, p. 108. 

Diagora di Melo, vol. II, p. 26. 

Diderot, vol. II, p. 44. 

Diels, vol. II, p. 26. 

Diogene di Apollonia, vol. II, 
p. 26. 

Diogene Laerzio, vol. II, p. 29. 

Dostoiewskij, p. 164, 210; vol. 
II, p. 8, 45. 

Drochmann, vol. II, p. 76. 


Du Bois Reymond, vol. II, p. 
50. 


Duméry, vol. II, p. 76. 
Durkheim, vol. II, p. 48. 


‘E 
Eddigton, p. 201. 
Egesia, vol. II, p. 24. 
Eliot, p. 177. 
Epicuro, p. 67; vol. II, p. 23, 
26. 


Eraclito, p. 159. 

Erode, p. 187. 

Eschilo, vol. II, p. 53. 
Eucken, p. 118; vol. II, p. 49. 
Euripide, vol. II, p. 17. 
Evemero, vol. II, p. 26. 


Ferro, vol. II, p. 222. 
Festa, vol. II, p. 50. 


Indice dei nomi 251 





Feuerbach, p. 114, 211; vol. II, 
p. 61, 63, 66. 

Fichte, p. 114; vol. II, p. 55, 
56, 59, 61, 63. 

Ficino, p. 127. 

Flint, vol. II, p. 76. 

Fondane, p. 205. 

Fourer, vol. II, p. 48. 

Franchi, p. 186. 

Franck, vol. II, p. 76. 


G 


Galilei, p. 73; vol. II, p. 43, 
160. 
Gandhi, vol. II, p. 20. 


Gaunilone, vol. II, p. 130, 199, 
200. 

Gentile, p. 14, 38, 91, 115, 116, 
117, 138; vol. II, p. 61, 122, 
135. 


Giacobbe, vol. II, p. 220. 

Gilbert, vol. II, p. 46. 

Gilson, p. 14!, 142, 143, 192, 
197, 202, 218, 222. 

Giovanni di S. Tommaso, vol. 
II, p. 86. 

Goethe, vol. II, p. 54. 

Gratry, p. 127. 

Guyau, vol. II, p. 48. 


H 


Haeckel, vol. II, p. 50; 51. 
Hamann, p. 204. 

Hamilton, vol. II, p. 30, 33. 
Hardouin, vol. II, p. 10. 
Hasting, vol. II, p. 76. 





Hazard, vol. II, p. 42, 43, 44, 
46, 76. 

Hegel, p. 57, 59, 93, 113, 115, 
124, 134, 154, 166, 168, 183, 
185, 186, 202, 203, 204, 206, 
211, 213; vol. II, p. 47, 49, 
55, 56, 58, 63, 64, 66, 68, 94, 
108, 116, 121, 122, 123, 124, 
134, 172, 175, 191, 221. 

Heidegger, p. 102, 124, 1%, 
203, 205, 206. 

Hello, p. 225; vol. II, p. 226. 

Herbert di Chirbury, vol. II, 
p. 42, 45. 

Herder, p. 179, 180. 

Hobbes, p. 108. 

Holbach (d’), vol. II, p. 23, 30. 

Huizinga, p. 174. 

Hume, p. 108, 109, 144; vol. 
II, p. 30, 120, 146, 167, 168, 
169, 170, 174. 

Huxley, vol. II, p. 29, 31, 50, 
76. 

L 


Isacco, vol. II, p. 220. 


J 


Jacobi, p. 204. 
Jaeger, p. 122. 
James, p. 118. 
Jaspers, p. 205, 206. 
Jaurès, vol. II, p. 47. 


K 


Kant, p. 59, 74, 91, 93, 109, 110, 
111, 112, 113, 114, 115, II6, 
117, 144, 204; vol. II, p. 25, 


252 Indice dei nomi 





29, 31, 33, 41, 42, 43, 72, 5, 

122, 130, 141, 145, 146, 147, 

152, 164, 166, 167, 170, I71, 

172, 175, 196, 200, 203, 204, 

205, 207, 208, 216, 217. 
Keplero, p. 73. 


Kierkegaard, p. 114, 198, 202, 
203, 204, 206, 208, 210. 


L 


La Bruyère, vol. II, p. 27, 40, 
151. 


Lachelier, p. 108, 118; vol. II, 
p. 13. 

Lagneau, vol. II, p. 152. 

Lalande, p. 199; vol. II, p. 76. 


Le Dantec, vol. II, p. 7, 26, 
76. 

Leibniz, p. 107, 108; vol. II, 
p. 47. 


Leopardi, vol. II, p. 22, 162, 
169. 


Le Roy, p. 99; vol. II, p. 33. 
Le Senne, p. 209. 

Levi Ad., vol. II, p. 33. 
Liard, p. 117. 

Littré, vol. II, p. 31. 


Locke, p. 109, 111, 144; vol, II, 
p. 30, 44, 120, 167, 168. 


M 


Machiavelli, vol. II, p. 43. 


Malebranche, p. 106, 107, 127; 
vol. II, p. 10, 121. 


Mansel, vol. II, p. 30, 31, 33. 
Mansfield, p. 226. 
Manthner, vol. II, p. 76. 


Marcel, p. 205, 206, 222. 

Maritain, p. 197; vol. II, p. 4, 
76. 

Martinetti, vol. II, p. 42. 

Marx, p. 114, 168, 211; vol. II, 
p.- 52, 61, 64, 66, 67, 68. 

Masnovo, p. 151, 223. 

Moleschott, vol. II, p. 50. 


Naville, vol. II, p. 31. 

Newton, vol. II, p. 43, 46, 135. 

Nietzsche, p. 166, 168, 210; vol. 
II, p. 58, 61. 

Novalis, vol. II, p. 55. 


o 


Occam, p. 98, 182. 

Oleschtschuk, vol. II, p. 76. 

Olgiati, p. 19, 92, 93, 95, 105, 
126, 127, 128, 129, 130, 13I, 
132, 133, 134, 135, 136, 137, 
139, 140, 141, 142, 143, 144, 
145, 146, 147, 148, 149, 150, 
151, 152, 153, 154, 155, 156, 
157. 

Ollé-Laprune, vol. II, p. 39. 


P 


Parker, vol. II, p. 10. 

Parmenide, p. 97, 159, 190, 201; 
vol. II, p. 57. 

Paolo (S.), p. 68. 

Pascal, p. 40, 53, 56, 68, 75, 
76, 80, 127, 151, 155, 1907, 
204, 240; 214, 216; vol. II, p. 
10, 21, 40, 41, 72, 73, 107, 
213, 214, 232. 


Indice dei nomi 253 





Pico della Mirandola, p. 158. 
Pindaro, vol. II, p. 53. 
Pitagora, p. 49, 56. 

Platone, p. 40, 49, 52, 62, 64, 
66, 79, 97, 125, 128, 141, 143, 
151, 153, 155, 165, 184, 190, 
193, 194, 202, 206, 212; vol. 
II, p. 17, 57, 73, 160, 163, 
168, 169. 

Plotino, p. 98, 202; vol. II, p. 
42, 55, 56. 

Plutarco, vol. II, p. 34. 

Poincaré, p. 34. 

Pompeo, p. 187. 

Prini, p. 13. 

Protagora, vol. II, p. 29. 

Proudhon, vol. II, p. 48. 


Reid, vol. II, p. 31. 

Renouvier, vol. II, p. 7. 

Rensi, vol. II, p. 9, 27, 72, 76. 

Ricciotti, p. 21. 

Richard, vol. II, p. 76. 

Rickert, p. 117. 

Rideau, vol. II, p. 76. 

Rosmini, p. 32, 40, 58, 64, 68, 
116, 124, 127, 151, 155, 156, 
187, 222, 224; vol. II, p. 4l, 
140, 141, 143, 152, 155, 161, 
166, 170, 173, 175, 177, 206, 
209. 

Rossi, vol. II, p. 45. 


Rousseau, p. 204; vol. II, p. 42. 


S 


Saint-Simon, vol. II, p. 48. 
Salomone, p. 50. 


Sartre, vol. II, p. 17, 69, 76. 

Scheler, p. 124. 

Schiller, vol. II, p. 55. 

Schlegel, vol. II, p. 55. 

Schopenhauer, p. 114, 183; vol. 
II, p. 74, 144, 145, 146, 147, 
215. 

Sciacca, p. 138, 140, 143, 147, 
151, 154; vol. II, p. 76. 

Scotuzzi, p. 13. 

Sesto Empirico, vol. II, p. 26. 

Socrate, p. 50, 51, 128; vol. II, 
p. 10, 229. 

Sofocle, vol. II, p. 53. 

Spaventa, p. 115, I16. 

Spencer, vol. II, p. 50, 51, 53. 

Spinoza, p. 107, 108, 113, 134; 
vol. II, p. 45, 47, 49, 53, 55, 
56, 57, 91, 121, 130, 143. 

Stalin, p. 164. 

Stefanini, vol. II, p. 222. 

Stephen, vol. II, p. 29, 76. 

Stirner, vol. II, p. 61. 

Strauss, vol. II, p. 31. 

Stuart Mill, vol. II, p. 3I. 

Suarez, p. 127. 

Sully Prudhomme, p. 115. 


T 


Teodoro, vol. II, p. 26. 

Toland, vol. II, p. 42, 45, 49. 

Tommaso d’Aquino (S.), p. 68, 
122, 127, 128, 138, 139, 140, 
141, 142, 143, 145, 146, 147, 
148, 149, 151, 152, 153, 154, 
155, 156, 165, 166, 190, 217, 
221, 224, 226, 227, 228; vol. 
II, p. 88, 179, 189, 194, 1%, 


254 Indice dei nomi 





199, 200, 203, 204, 209, 210, 
211, 232. 
Tucidide, p. 31. 


U 
Unamuno, vol. II, p. 39, 222. 


Vv 


Vacherot, vol. II, p. 31, 32. 
Valensin, vol. II, p. 57. 


Van Steenberghen, vol. II, p. 
87. 


Varisco, vol. II, p. 207. 


Vico, p. 127, 137, 173, 183; vol. 
II, p. 175. 


Voltaire, p. 108, 179; vol. II, 
p- 11, 27, 38, 42, 43, 46, 73, 
76. 


W 


Windelband, p. 117. 
Wolff, p. 100, 106, 107; vol. II, 
p. 49, 147. 


Z 


Zamboni, vol. II, p. 207. 
Zenone, vol. II, p

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