MICHELE FEDERICO SCIACCA Filosofia e Metafisica VOLUME I MARZORATI - EDITORE - MILANO FILOSOFIA E METAFISICA I due volumi di Filosofia e Metafisica raccolgono le pagine più impegnate e pro- fonde che lo Sciacca ha scritto tra il 1945 e il 1950 e segnano il passaggio dal- lo «Spiritualismo cristiano» alla «Filosofia dell’integra- lità». In essi si possono leg- gere saggi di rilevante inte- resse teoretico come quelli sul concetto di metafisica e sull’ateismo, oltre all’altro sull'esistenza di Dio, che or- mai si allinea tra 1 testi clas- sici della filosofia contem- poranea. Lo stile avvincente e chia- ro, il vigore del pensiero in- sieme profondo e cristalli- no, l’unità dell’ispirazione, il modo proprio dell’ Auto- re di rendere attuali e vivi problemi di sempre, fanno che quest'opera, sistemati- ca senza pesantezza, sta una lettura appassionante e pro- ficua. Zursarax - $. Tommaso visita S. Bo- naventura. OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA Volumi pubblicati: I. L'interiorità oggettiva, III edizione italiana riveduta, pag. 120, L. 1000. 2. Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta, pag. 224, L. 1200. 3. Interpretazioni rosminiane, Il edizione riveduta e aumentata, pag. 272, L. 2000. 4. L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag. 292, L. 2000. 5. Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400. 6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata, pag. 980, L. 6000. 8. La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180, L. 1500. 9. Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500. 0. La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160, L. 1300. Il. In Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500. 12. Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500. 13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III edizione riveduta e aumen- tata, pag. 478, L. 4000. 15. Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000. 16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300. 17. Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L. 1000. Volumi in preparazione: 18. Soren Kierkegaard e il « malessere » della cristianità. 19. La filosofia italiana, II edizione. 20. Il tempo e la libertà. 21. Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia. 22-23. Platone, II edizione. 24. Studi sulla filosofia antica, Il edizione. 25. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione. 26. Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, Il edizione. 27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico. 29. Studi sulla filosofia moderna, III edizione. 30. Le mense di Cristo. MICHELE FEDERICO SCIACCA FILOSOFIA E METAFISICA Terza edizione riveduta e aumentata Volume I Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI MILANO — via privata Borromei, 1 B/7 Proprietà letteraria riservata © Copyright 1962 by Marzorati - editore, Milano Stampato in Italia - Printed in Italy 1962 Tipo-Lito P. Pasquetto - Milano INDICE VoLume I Dedica Prefazione . . Premessa alla seconda edizione . Nota bibliografica INTRODUZIONE Parte PrIMA FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA Car. I. - FiLosoria. I. 2. 3. 4. 5. Saggezza greca e saggezza biblica . La filosofia scienza «sui generis» e sua autonomia dalle altre scienze ‘o Astrattezza del dialettismo antinomico La filosofia come ricerca della verità interiore e suo esito religioso Lee La filosofia come sforzo di « ascesi » ed itinerario a Dio Cap, II. - « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA? » I. 2. 3. 4. La filosofia come ricerca « perennis » della verità . La filosofia e i suoi rapporti con la sua storia e la scienza . . . La filosofia come . metafisica. Essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze Ancora sulla distinzione tra filosofia e scienza . Cap. III. - FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE . 49 5I 56 61 69 70 73 76 81 PARTE SECONDA CONCETTO DI METAFISICA E SUA PROBLEMATICA INTERNA Cap, I. - LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI I. 2. 3. 4. « Crisi » ed essenzialità della metafisica . Metafisica e trascendenza. Le istanze dell’interiorità La filosofia moderna e contemporanea di fronte ai pro- blemi della metafisica PIA Gli esseri e l’Essere. L’Atto creatore . Car. II. - ÎDISCUSSIONE INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA. I. 2. 3. PN » Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni . Questioni marginali . Se hanno una metafisica anche le filosofie che la negano . Metafisica e trascendenza ‘i . L’interiorità come l’opposto dell’immanenza . Ultime precisazioni . . Replica ad una replica . . Ultima replica Car. III. - CULTURA E TRASCENDENZA Cap. IV. - CULTURA E METAFISICA Cap. V. - Vi È UNA FILOSOFIA DELLA STORIA? Car. VI. - ESISTENZA E CONSISTENZA I. 2. o n da w L’esistenzialismo o la rivolta contro l'essenza . L’incontraddittorietà dell’essenza e il problema è della metafisica LL. ‘o . Critica dell’esistenzialismo . Esistenza e consistenza . . L'essere e il problema teologico . . Conclusione pag. 89 105 170 179 Indice 7 VoLume II PartE TERZA ATEISMO E TEISMO Sezione Prima L’ATEISMO Cap. I. - PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA. I. Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine . . . . pag. 7 2. Abuso del termine ateismo. . . . . . ‘ » 9 Cap. II. - L’ATEISMO PRATICO. 1. Di alcune sue forme . . . ....0.0.» 15 2. L’inconsistenza dell’ateismo pratico . . . . . » 22 Cap. III. - L’ATEISMO TEORETICO. 1. Schema delle sue principali forme . . . . . n» 25 2. L’ateismo assoluto o dommatico . . . . +.» 26 3. L’agnosticismo . . . 0 .. » 29 4. Il fideismo come forma di agnosticismo . .. » 38 5. Il deismo . o . . ..0.0.0.. <. » 41 6. Monismo e panteismo . . . . . . <- . » 4 7. L’umanesimo ateo... ... . . . n 60 Cap. IV. - CRITICA CONCLUSIVA DELL’ATEISMO . . . » 70 Parte TERZA ATEISMO E TEISMO SEZIONE SECONDA L'ESISTENZA DI DIO Car. I. - POSIZIONE DEL PROBLEMA E I € DATI REALI ©) DEL- L'IPOTESI « DIO ». 1. Definizione nominale di Dio e fondamento razionale dell'ipotesi . . . . pag. 79 2. Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando si pone l’ipotesi « Dio»... . .... » 84 3. L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos» . . » 87 4. Da quale dato reale è conveniente partire per provare la verità dell'ipotesi « Dio» . . .. » 88 Indice . Importanza dei « dati » psicologici » nella dimostrazione dell’ipotesi « Dio » . . La pregiudiziale critica da cui muove il problema del- l’esistenza di Dio . La realtà spirituale punto di partenza della dimostra. zione dell’ipotesi « Dio » Cap. II. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA « VITA DELLO SPIRITO ”: 2) DALLA VERITÀ. Impostazione dei termini del problema Gli elementi del giudizio e il problema della sua va- lidità I principî del giudizio non sono « posti » dalla ragione nè indotti dall’esperienza esterna Ragione e intelligenza: l’intuito fondamentale dei prin cipî del giudizio Il problema dell’origine dei principi del giudizio: risposte fondamentali Indubitabilità ed indistruttibilità della < verità dei prin- cipî del giudizio Elementi e formulazione della prova « dalla verità » In interiore homine habitat veritas . Cap. III. - CHIARIMENTI E COROLLARI DELLA PROVA « DALLA 7. VERITÀ ». . Dio Primo Vero assoluto Ln . Il principio di causa e le due forme di astrazione . x . La verità presente alla mente è appartenenza di Dio senza essere Dio . Critica costruttiva del principio di causa . . Il non senso dell’ateismo La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve- ritas » e «ratio » . . Partecipazione iniziale e finale . Cap. IV - LE IDEE. Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori di Kant . . . Pag. 92 95 % 107 115 118 120 126 128 135 138 149 153 156 162 Indice 9 2. L’Idea nell’empirismo inglese . . . . . . . pag. 167 3. Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e validità del giudizio... . .. 0...» 170 Cap. V. - LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO. l. Critica e precisazioni . . . . . . . » 177 2. Conoscersi ed essere conosciuti. . . . . . » 180 Cap. VI. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA « VITA DELLO SPIRITO »: b) DALLA VITA MORALE E DAL DESIDERIO NATURALE DI BEATITUDINE. I. Contraddittorietà dello scetticismo . . . . . . » 182 2. La prova dalla vita morale... . . .. . » 184 3. La prova dal desiderio naturale di beatitudine. . . » 186 Cap. VII. - BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI ONTOLO- GICO E COSMOLOGICO. I. La prova ontologica . . . » 194 2. La prova cosmologica . . . » 203 Cap. VIII. - L’IPOTESI PROIBITA . «+.» 212 Cap. IX. - RAGIONE E FEDE NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESI- STENZA DI DIO. 0... » 219 Cap. X. - LA CONVERGENZA TOTALE . . . . ... » 225 APPENDICE. - ÎL CONCETTO CATTOLICO DI LIBERTÀ DI PENSIERO » 239 INDICE DEI NOMI . » 247 Ai mici giovani dell'Università di Genova e di Pavia L’ illustrazione è opera del pittore fiorentino Primo Conti. La caravella dalle vele crociate, che attraversa le Colonne d’ Ercole, simboleggia l'aspetto essenziale della filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se esso cammina e procede sorretto dalla fede nella verità di Cristo. PREFAZIONE I più impegnativi e sistematici scritti raccolti în questo volume sono il «condensato » dei due corsi universitari di Filosofia teoretica, da me tenuti negli anni 1947-48 e I 948-49 nell'Università di Genova, elaborazione di idee maturate nell'ultimo corso professato nell'Università di Pavia. La le- zione — almeno per me — è la forma più efficace di comu- nicazione e di silenziosa collaborazione: è sempre stato ben poco quel che ho insegnato al confronto di quanto ho appreso insegnando. Perciò ogni anno il debito verso i miei Scolari aumenta: il giorno in cui si stabilizzerà, avrò esaurito la mia capacità d'imparare insegnando e sarà giustizia e onestà che scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo intrinseco (e direi in segno di riconoscenza) che il volume è dedicato ai mici Giovani di Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un altro: alcuni di Loro sono già docenti, studiosi e scrittori di filosofia. Per il saggio sull’Esistenza di Dio, nella fase di elaborazione e in quella di revisione, ho chiesto il loro ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche con precise obiezioni scritte, di cui ho tenuto conto. Di ciò ringrazio i Proff. Antonelli, Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi, tutti già mici scolari del Portico pavese edoggi mici colla- boratori nella lieta fatica delle ore riscattate e affidate alla perennità dello spirito. Così, dopo i Problemi di filosofia, ormai lontani, pub- blico ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che l’or- ganicità del volume non abbisogna di essere giustificata: 14 Filosofia e Metafisica l’unità dell’ispirazione (almeno questo è il mio avviso) trapela dalla prima all'ultima pagina; le idee fondamentali che lo sostanziano, sempre presenti, tornano con una inst- stenza martellante. Ma, come che sia di ciò, resta il fatto che pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici, invece di quella Filosofia dell’integralità, che prometto da alcuni anni e la cui pubblicazione non ritengo prossima. Il senso di responsabilità mi obbliga manzonianamente a pensarci sopra, a meditare ancora su quella che considero la siste- mazione definitiva del mio pensiero, per minima che potrà essere la sua importanza. Ma, in mancanza diciamo pure di meglio, anche le pa- gine qui raccolte forse significano qualcosa. Innanzitutto ho cercato di eliminare un equivoco, a cui i miei precedenti scritti potevano prestarsi: non dall’imma- nenza alla trascendenza, ma dalla presenza in noi di qual- cosa che ci orienta ed oltrep assa alla Trascendenza in sè: da Dio come è presente alla nostra mente a Dio in sè nella sua Realtà assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La prima posizione, per la sua equivocità, andava definiti- vamente chiarita e, una volta chiarita, oltrepassata. Essa può rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse un passaggio obbligato per chi proviene dall’idealismo tra- scendentale) tra immanenza e trascendenza, non un punto d'arrivo definitivo, fondato criticamente e sondato fino tin fondo. Ma l'abbandono di ogni compromesso con l’idea lismo trascendentale, in special modo con l’attualismo del Gentile, mi ha consentito di distinguere nettamente le sue due forme fondamentali: dell’Idealismo trascendentistico ed oggettivo e dell'idealismo immanente e soggettivo, quest’ul- timo negazione della verità del primo, sopruso che il pen- siero consuma contro la Verità che lo fonda e alimenta, per cui problemi, esigenze e principî dell’Idealismo trascen- dentistico, trapiantati nel campo sterile dell'immanenza as- soluta, trovano la loro morte proprio nella soluzione imma- è Prefazione 15 nentistica. Mi è sembrato e mi sembra necessario — tenendo conto del processo di nascita, crescita e dissoluzione del pen- siero moderno — riscattare problemi, esigenze e principi dal- la illusoria soluzione immanentistica per farli rivivere nella verità dell’Idealismo trascendentista, fatto più ricco, ma- turo e critico dall'esperienza speculativa che va dal Cogito di Cartesio alle posizioni più recenti della filosofia contem- poranea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo tradizio nale di essenziale ispirazione platonico-agostiniana nel vivo della problematica della speculazione moderna non per adat- tarlo ad essa — che sarebbe ucciderlo — ma quale elemento risolutore della sua dissoluzione e soddisfacente le sue esigenze critiche. Così, a nostro avviso, la « metafisica della verità », propria dell’Idealismo oggettivo, risolve in sè le due opposte metafisiche « dell'essere » e « del pensiero », conservando al pensiero e all'essere tutta la loro validità e positività. Con ciò ritengo di rendere un buon servizio al pensiero moderno e a quello tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla filosofia, di avanzamento nella via della verità. Evidente- mente le pagine qui raccolte non presumono di avere rea- lizzato questo programma, la cui attuazione è solo all’int- zio; ma mi pare che in esse l'impostazione vi sia, ed è pure qualcosa. Ancora su un altro punto desidero richiamare l’atten- zione di chi leggerà questo libro. Spesso i miei precedenti scritti sono stati accusati (dai tomisti) di esigenzialismo: «esigenza» della metafisica e della trascendenza, ma non .ancora loro « fondazione ». Di questa critica ho tenuto conto perchè ha la sua parte di verità. Credo che ora non mi si possa più muovere e chi v’insiste (0 v’insistesse) ripete senza efficacia un luogo comune, perchè mi pare di avere abban- donato la posizione esigenziale ed essere passato alla fon- dazione razionale della metafisica e della trascendenza, pur senza sacrificare (al contrario) quell’apporto della vita spi- rituale nella sua integralità, della quale la ragione è un 16 Filosofia e Metafisica elemento essenziale ma non il solo, in cui va sempre colta e da cui non va isolata. Mi sembra che così il pensiero mo- derno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una con- clusione che non può più ignorare: la trattazione più teoretica e critica impone, nella sua razionalità autentica e concreta, la verità insopprimibile della metafisica e della trascendenza. In altri termini, chi scrive ha l ambizione di poter dimostrare che proprio la più rigorosa istanza teoretica e la più intransigente esigenza critica, se spinte fino in fondo dalla logica che governa e guida la vita dello spirito, debbono necessariamente concludere alla fondazione di una metafisica teistica, la sola vera e perciò la sola autentica- mente razionale e critica. Queste nostre conclusioni, per altri motivi, valgono anche contro quei pensatori contemporanei cristiani o cattolici che credono di poter accettare con alcune correnti odierne la svalutazione e quasi la inutilità (quando non la nocività) della ragione e di salvare ugualmente la va- lidità della ricerca filosofica facendo della filosofia dell’ « est- genza », del « cuore », della « fede », del « mistero », del « sentimento » ecc. e riducendo la metafisica alla psicologia o ad una specie di fenomenologia dell’esistenza. Le stesse conclusioni valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0 cattolici che credono basti contrapporre il pensiero tradi- zionale a quello moderno e condannare questo per avere partita vinta e instaurare un nuovo clima speculativo; op- pure che, preoccupati della razionalità (innegabile) della filosofia, sacrificano alla ragione la ricchezza della vita spi- rituale, finendo così per isterilire le capacità della ragione stessa. A noi sembra invece che la filosofia vada assunta in tutta la sua pienezza, che è la stessa della vita dello spi- rito. Crediamo che queste affermazioni siano sufficienti per distinguerci dagli esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da po- sizioni di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità innegabili con la nostra), come pure definitivamente da. ogni forma di immanentismo ed anche, infine, da un razio- Prefazione 17 nalismo che impoverisce la stessa ragione con la pretesa di garantirne la purezza e il primato. Le pagine di questo volume sono dunque impegnative: chi le ha scritte può chiedere pertanto che chi legge, prima di accettarle o respingerle, s'impegni a sua volta almeno su quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significa- tive. Chi le ha scritte si è «compromesso » e l’ha fatto in modo di « compromettere » chi le legge. Direi che le pagine sull’Esistenza di Dio in certi punti siano quasi indiscrete: vogliono entrare con violenza. E ciò perchè chi le ha pen- sate e scritte esige da chi legge una risposta. M. F. Sciacca Genova, Università, 10 luglio 1949. PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE Nell’ordinare le mie « Opere complete » pensavo di ri- stampare questo lavoro col titolo L'esistenza di Dio e d’inse- rire i restanti scritti in qualche altro volume della Collana. Ho dovuto rinunziare al progetto: non si può sopprimere un libro che ha ormai un suo posto nella filosofia contem- poranea ed ha suscitato appassionate, anche se non sempre intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una let- teratura critica di mole considerevole, alla quale si sono aggiunte le traduzioni della parte centrale in spagnolo (La existencia de Dios, Tucumdn, Richardet, 1955), francese (L’existence de Dicu, Paris, Aubier, 1951), inglese, par- ziale (in Modern Catholic Thinkers, London, Burns and Oates, 1960); ancora in spagnolo degli altri capitoli (La filo- sofia y el concepto de la filosofia, Buenos Aires, Troquel, 1955, 2° ediz., 1959) e dell’« Ateismo» (Madrid, Miracle, 1954), tradotto anche in inglese (Formville, Virginia). Ma questa seconda edizione non è una ristampa della prima; infatti, il contenuto è stato riordinato în altro modo: il breve saggio su «Il concetto cattolico di libertà di pen- siero » è il solo rimasto nell’Appendice; sono state aggiunte pagine nuove e il saggio su « L'ateismo », oltre al seguito della discussione con F. Olgiati, sicchè il libro ha dovuto essere diviso in due volumi. L’opera, anche nella veste attuale, non fa parte del corpus della « Filosofia dell’integralità », ma segna il passaggio dallo « spiritualismo cristiano » a quest'ultima posizione, di cui, 20 Filosofia e Metafisica come è noto, la prima formulazione è L'interiorità oggettiva. Essa, dunque, da un lato, presenta ancora incertezze ed im- precisioni (1 concetti di persona, interiorità oggettiva, est- stenza, realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati, elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non criticamente ri- pensati della posizione precedente, di cui tuttavia è una cri- tica. La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tema- tica rinnovata ed arricchita st trovano nei volumi posteriori; pertanto, in questa nuova edizione, a meno di non scrivere un altro libro, non mi restava che conservare la stesura di dodici anni fa, limitandomi ad una revisione della forma e ad un riordinamento delle pagine. Tuttavia, come ho detto, mi è stato possibile, servendomi di note che risalgono al 1951, inserire nella terza parte aggiunte e precisazioni senza alte- rare il contenuto dell’opera, che, com'è, segna una tappa nello sviluppo interno del mio pensiero. M. F. Sciacca Griesalp (Svizzera), luglio 1961. N.B. La terza edizione, meno qualche ritocco nella forma, riproduce la seconda, esauritasi in pochi mesi. M. F. S. NOTA BIBLIOGRAFICA Volume I Introduzione, « Giornale di Metafisica », 1, 1946. Parte I - I. Filosofia, « Humanitas », n. 1, 1946. — II. Come biso gna concepire la filosofia?, testo francese, « Revue de Synthèse», lu- glio-sett. 1947 (XXI, Nouvelle Série), testo italiano, « Humanitas », n. 5, 1947. — III. Filosofia e vita spirituale, relaz. letta al « Congreso Internacional de Filosofia Suirez y Balmes » di Barcellona, 7-12 ott. 1948, Actas, vol. II, pp. 925-929, Madrid, Instituto « Luis Vives » de Filosofia, 1949 e « Humanitas », n. 2, 1949. Parte II - I. La metafisica e i suoi problemi, « Giornale di Meta- fisica », IV-V, 1947 e « Philosophia », n. 10, 1948, Universidad Nacio- nal de Cuyo, Mendoza. — II. Discussione intorno al concetto di meta- fisica, « Giorn. di Met. », IV, 1949; III, 1950; I, 1951. — III. Cultura e trascendenza, testo francese, « Études philosophiques », numero spe- ciale, 1948; testo italiano, « Humanitas », n. 9, 1948: testo spagnolo, « Revista de Filosofia », abril-junio, 1949. — IV. Cultura e metafisica, « Humanitas », nn. 8-9, 1949. — V. Vi è una filosofia della storia?, Procedings of the tenth International Congress of Philosophy, North- Holland Publishing Company, Amsterdam, 1949, vol. I, fasc. II, pp. 989-991 e « Humanitas », n. 7, 1948. — VI. Esistenza e consistenza, « Giorn. di met. », n. 1, 1947 e « Atti del Congresso Internaz. di Filosofia », vol. II, l’Esistenzialismo, Milano, Castellani, 1948. Volume II Parte III - I. L'ateismo, nel vol. Dio nella ricerca umana, a cura di G. Ricciotti, Roma, Coletti, 1950; trad. spagnola, Madrid, Mira- cle, 1954; trad. inglese, Formville (Virginia), 1962; — II. L'esistenza di Dio, « Giorn. di Met. », nn. 1, 2, 3, 1949. APPENDICE. - Il concetto cattolico di libertà di pensiero, San Se- bastiin, 1948, a cura del Comitato delle « Conversaciones catélicas internacionales », e « Humanitas », n. 10, 1948. INTRODUZIONE Ogni guerra, per la nazione che l’ha combattuta, segna. sempre la fine di qualcosa che era e il cominciamento di qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha propor- zioni gigantesche, scaturisce da situazioni di portata mon- diale e si combatte in nome di principii la cui sconfitta o vittoria importa una nuova epoca del mondo, come quel- la che da qualche mese si è conclusa ('), essa segna la fine di ordini e di sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di ideali e di miti e nello stesso tempo l’inizio di nuove forme di vita nazionali ed internazionali, continentali ed intercon- tinentali. Anche la filosofia, che è vita concreta dello spirito (proprio per l’universalità e la necessità della verità non con- tingente ma superstorica, che è suo oggetto), tutt'altro che estranea allo scorrere del tempo e alle nuove esigenze che nascono al posto di altre che declinano o sono sommerse, si trova di fronte a nuovi compiti. Essa — proprio perchè sicura che i cangiamenti esteriori sono spesso il segno di profondi mutamenti spirituali — ha il dovere e il diritto di insediarsi, pur senza fare della politica o dell’economia, alla base dei nuovi problemi politico-economico-sociali, anche contro l’intelligenza di quanti credono che essi siano solo una pura e semplice questione di politica o di economia. Perciò la filosofia è chiamata a rimettere sul tappeto della discussione e della lotta problemi e soluzioni, ipotesi e prin- (1) Scrivevo nella primavera del 1945. 24 Filosofia e Metafisica ci pii, affinchè l’eterna verità infinita venga più profonda- mente sondata e più chiaramente configurata in nuove e sempre parziali prospettive, anch'esse incomplete come le precedenti, ma di queste meno inadeguate e più compren- sive. La storicità della filosofia è figlia della Sofia, che sto- ria non ha: la Sapienza è madre della storia e perciò anche del filosofare. Non la ricerca o il processo storico condizio- nano la verità, ma la Verità condiziona e fa che esistano e la ricerca e il processo. Una nuova rivista di filosofia (?), nel momento in cui per l’Italia e il mondo incomincia una nuova epoca, non ha bisogno di giustificare la propria ragion d'essere; spe- cialmente se si tien conto che, da noi, alcune tra le più accreditate riviste filosofiche o hanno già da alcuni anni esaurito la loro funzione e perciò rappresentano un modo di filosofare ormai al tramonto, difendono posizioni quasi sorpassate, comunque esprimono quel che alla filosofia e al- la cultura in generale è già acquisito e come tale appar- tenente alla storia; o hanno perduto i Direttori, che ad esse conferivano con la loro personalità, ben definita e ri- conosciuta, indirizzo ed autorità. In questi lunghi ed atroci anni di guerra la filosofia, co- me qualsiasi altra attività, è stata sospesa all’esito dell’im- mane conflitto. Non ha sonnecchiato o dormito; ha atteso trepidante per i destini della vita dello spirito, per l’esi- stenza stessa del diritto al pensiero, che è essenzialmente diritto alla libertà. Trepidante, ma fiduciosa nella peren- nità della vita spirituale, per cui l’uomo è uomo; perciò ha atteso pensosa e raccolta: non ha disperato e dunque ha potuto continuare a pensare. Ora la guerra è finita, ma ha lasciato impressi nei nostri occhi e nel nostro spirito gli orrori della morte; superstiti di uno sterminio senza precedenti, siamo quasi increduli di ritrovarci. Però come (2) Il «Giornale di Metafisica » (Torino, Società Editrice Internazionale), presentato dalle pagine qui ristampate. Introduzione 25 capita a quanti si ritrovano vivi dopo aver vissuto per anni sotto l'incubo della morte e tra tanti morti che assiepavano e rendevano oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi superstiti abbiamo gran desiderio, brama di vivere. Ma, per vivere veramente da uomini, è necessario che facciamo violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spiri- tuali gli istinti vitali il cui scatenarsi per eccesso di irrazio- nale valutazione ha portato l’umanità alla guerra di ster- minio, all’ebrezza atroce e crudele del sangue, l’ha de- gradata al livello zoologico. La rivolta oscura delle forze primitive ed elementari della vita animale ancora oggi, malgrado tutto, sembra ribellarsi al rispetto dei valori spi- rituali e alla disciplina di un ordine morale. Perciò noi so- steniamo (e ad oltranza difenderemo questa nostra posi- zione) che il desiderio di vivere — e con esso il genericissimo concetto di « vita» — venga qualificato come desiderio di vivere nello e per lo spirito, quasi di spirito; che lo spet- tacolo orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla furia, dalla violenza e dall’odio sia al più presto cancellato dai nostri occhi e soprattutto dai nostri cuori e dalle no- stre menti. Innumerevoli, tra i superstiti, le persone colpite, oltre che dalla guerra, dal cozzo violento e a volte brutale delle ideologie politiche. Ci sono i martoriati e i giustiziati di un partito e quelli del partito opposto; i sopravvissuti co- vano nel loro cuore rancori, odii, propositi tenaci di ven- detta; sedimenti si accumulano nelle loro coscienze; la sete di sangue vendicatore repressa e non sanata aumenta; potrà — di nuovo! — rompere gli argini e provocare nuove guerre e nuovi sanguinosi e disordinati sconvolgimenti. La corru- zione dell’organismo sociale minaccia sempre l’esistenza di una società. Ogni coscienza che non sa oggi perdonare, che non lotta contro i suoi impulsi immediati per scoprirsi ed affermarsi coscienza autentica, per vincere il gelo della ven- detta con il fuoco della carità, porta dentro di sé la pau- rosa responsabilità di un’umanità futura peggiore di quella 26 Filosofia e Metafisica di ieri. Avviare le coscienze a trovar pace nel perdono e conforto nel lavoro e nel bene è uno dei compiti alla rea- lizzazione del quale ogni forma di umana attività deve con- tribuire e più delle altre la filosofia, che, come abbiamo detto, è la vita stessa dello spirito. Si tratta di ricostruire, d’instaurare nelle anime il senso dei valori spirituali sulle rovine morali e religiose (incommensurabilmente più gravi di quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima, durante e con la guerra (*), si sono satanicamente accanite a seminare a piene mani. In questa santa battaglia di ri- marginazione delle ferite spirituali, ciascuno di noi, quale che sia il suo grado di cultura istruzione capacità, quali che siano la sua professione e il suo mestiere, i dolori e i lutti che porta dentro di sè, ha il dovere di prendere e te- nere il suo posto, di restarvi fedele come umile combattente della verità. Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo; farla trionfare a lui non compete. Ritrovare noi stessi; aver ragione del nostro individuali- smo per affermare la nostra vera personalità che è, come tale, negazione degli egoismi individuali o familiari, di clas- se o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra persona, prima di reclamarla come un diritto, dobbiamo sentirla co- me un dovere e perciò come un atto morale; ma non vi è moralità senza legge, senza una norma universalmente va- lida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi, consistere come persona. Solo l’adempimento del dovere conferisce il diritto di avere dei diritti; il diritto all’esercizio del do- vere e la dedizione all'adempimento di esso sono la condi- zione necessaria e sicura di qualsiasi altro diritto, che, senza dovere, è il diritto della forza, negatore della persona, esal- tatore dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge e ogni libertà conculca. Libertà della persona significa libertà dall'egoismo individuale e sociale dalle mille facce, o non (3) E, purtroppo, bisogna dire anche dopo la guerra. Introduzione 27 significa niente. Ricostruisce la società chi costruisce la pro- pria persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoi- smi dividono, la legge unifica; la materia rende impene- trabili, lo spirito ci fa intimi gli uni agli altri, è la via mae- stra della comunicazione nella verità; le passioni accendono passioni ed accentuano le distanze, la virtù tempera, contem- pera ed avvicina; l’interesse cristallizza le menti e raffredda i cuori, l'amore rinnova, alimenta e riscalda. Tanto sangue versato per lo scatenarsi dell’odio, della distruzione e del- l'ingiustizia non può e non deve essere stato versato per per- petuare questi flagelli, che tutti concordemente ed unanima- mente diciamo di condannare e di voler tenere lontani. Molti giovani oggi tornano dai campi di battaglia o di concentramento, dalla prigionia o dalle carceri, dai nascon- digli e dalle montagne. Quel che hanno visto soffrire e sof- ferto non lo sapremo mai: il racconto delle sofferenze mo- rali e fisiche ha poco senso per chi non ha sofferto e visto soffrire, tanta è l’intimità e la personalità del dolore, come di tutti gli umani sentimenti. Quel che è passato per le loro menti nei giorni oscuri è loro patrimonio non trasmissibile; è necessario però che diventi capitale del loro spirito, ric- chezza che produca nuova ricchezza. Lo esigono loro stessi, se è vero che hanno combattuto per un mondo migliore, se la serietà, la pensosità e spesso la serenità dei loro volti sono il segno di serietà e serenità interiori; lo esigiamo noi tutti che con e per loro vogliamo contribuire alla rinascita della vita spirituale e all’appagamento del bisogno di orien- tamento in tutti profondo ed urgente; lo esigono soprat- tutto quanti (quanti!) non sono tornati, quanti nella fossa hanno seppellito con loro tesori di affetti e di dolori, sco- nosciuti ed inconoscibili, inespressi ed inesprimibili per il mondo a cui non appartengono più, per la terra che li co- pre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non si consola con altro male; chi è caduto non vuole che la sua morte sia resa sterile da altra morte. Il chicco di grano 28 Filosofia e Metafisica che cade sulla terra è lieto di sacrificarsi nel suo germo- glio; i morti di ieri esigono da noi — e abbiamo il dovere di rispondere al loro appello — che siano tanti semi di fru- mento e non di zizzania, da cui dovrà germogliare l’uma- nità di domani, cioè dello spirito, nostra realtà dignità gran- dezza, non della materia, che, da sola, è la nostra anima- lità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio, della ferocia e della barbarie, loro, che più di tutti avreb- bero diritto a non perdonare (ammesso e non concesso che un simile diritto sia riconoscibile all'uomo), siano i pionieri di un mondo di pace e lavoro, di un’umanità che sappia trasformare il bagno di sangue, a cui è stata costretta, in un lavacro di riscatto e purificazione. Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e bisognosi di orientarsi; hanno sete di giornali, riviste, letture, pro- grammi, che, in verità, non si manca di offrir loro, tanto è in tutti il bisogno di fare e dare alcunchè. Che cosa noi offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il nostro noi migliore, il noi profondo. Li incitiamo a pensare, che è filosofare, filosofando noi stessi. Non presentiamo una filosofia bella e fatta che serve a chi l’ha fatta e non a chi non la fa da sè, ma un modo di concepirla, un metodo di filosofare, che valga come metodo di vita e di condotta. Essi tornano non con problemi astratti, ma, diciamo così, incarnati, fatti di carne ed ossa, sangue e nervi; non possiamo dare in cambio formule confezionate in serie, valide per tutti e perciò non buone in concreto per nessuno. La filosofia, che esprime pro- blemi ed -esigenze nostre, ha il dovere di essere l’espres- sione dello spirito umano e non di estraniarsi dall’uomo, che la fa essere ed è la sorgente inestinguibile della sua vita perenne. Il pensiero, come la ragione, è universale per- chè leggi universali governano la sua attività; ma il pen- siero e la ragione non esistono come enti impersonali ed astratti, bensì come pensiero e ragione degli uomini, di ogni singolo uomo. Il panlogismo astratto ed impersonale è. Introduzione 29 la negazione dell'umanità della ragione e perciò è inuma- nità e negazione della filosofia, che l’umanità dell'uomo è chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente impegna non la sola ragione, quasi staccata dal resto di sè, ma tutto se stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento più ricco e fecondo della vita spirituale, la vita stessa dello spirito. Da essa — col concorso della religione, dove trova il suo completamento — ci può venire una rigenerazione verace di tutto l’uomo e un rinnovamento profondo della vita; da essa, che, quando si scruta fino al midollo e si sco- pre come fondamentale verità e come apertura al Dio ri- velato e incarnato, non è più inutile somma di esperienze e di fatti scientifici, politici, sociali, economici ecc. ma loro conversione qualitativa su un piano diverso e ben ele- vato; dunque, è altresì atto di supremo coraggio, la filo- sofia. Filosofare è guardare in faccia noi stessi e le cose per leggervi dentro, l’occhio teso e fisso per non sbagliare, quel che noi significhiamo e le cose significano; è cercare e trovare la significanza del creato, il senso assoluto del suo contingente esistere; perciò è concludere, senza chiu- dersi in una conclusione definitiva, contro ogni aperta o ma- scherata inconcludenza del mondo, banale o sublime che sia. Una filosofia così concepita, che pone in prima linea la validità della ragione e i diritti del pensiero; che ha come suo oggetto la verità che non nasce e non muore; che, come vedremo, è filosofia della trascendenza teologica razional- mente fondata; che propugna un integrale realismo, che è assoluto spiritualismo, da un lato non teme l’accusa di psi- cologismo, di riduzione del filosofare a descrizione dei fe- nomeni psichici e fisici, ad analisi dei sentimenti o ad inti- mismo soggettivista pre o afilosofico; dall’altro, accetta la problematica che scaturisce dalla vita vissuta di ogni singolo e viene incontro a quanti portano come problemi dolori, dubbi, speranze. Dare anima e volto umano ai problemi ed alla % Filosofia e Metafisica verità, che trascende gli uomini e le età perchè alla contin- genza sovrasta, ed illuminare la vita spirituale dei singoli con la luce inestinguibile del vero; inverare il fatto, affinchè viva nell’eterna verità ed esistenziare il vero, affinchè si faccia la nostra verità umanissima: questa è la filosofia. Se moltissimi hanno lottato e molti sofferto fino al sa- crificio significa che, anche nelle ore più oscure, l'umanità non ha disperato che certi ideali superiori di vita avrebbero finito per vincere; ma non c’è speranza senza fede; gli uo- mini, dunque, hanno avuto fede. Anche la filosofia è spe ranza, quella di trovare la verità che chi filosofa cerca: chi cerca ha già scoperto la vita spirituale. Non possiede ancora il vero, ma ne è posseduto fin dall’atto che lo cerca: chi filosofa è chiamato dalla verità, ne ha la vo- cazione; non la conosce ma cerca, ha già fede in essa e nei suoi disegni, anche nonostante tutto. Anzi, proprio quando il meccanismo delle passioni sembra invincibile, ci si rifugia nell’ideale con fede profonda. L’utopia, ribellione meditata alla situazione effettuale e suo superamento, prende la spinta dal riconoscimento deciso e preciso che solo un fattore ideale può dar forza e valore ad ogni forma di vita; è fede nella perenne validità del principio, e questa fede è la molla del filosofare. Non è credenza, preconcetto e dogma- tica affermazione, ma certezza interiore, che si sforza di comunicarsi attraverso la ricerca per farsi scienza. Senza di essa la filosofia non sarebbe mai nata: le menti ed i cuori degli uomini, inerti, si sarebbero estinti nel dub- bio, senza speranza. Ragionar molto, è vero; ma anche sen- tire molto: un pensiero robusto e ferace è ad un tempo figlio della ragione e della fede. Proprio perchè ricerca e in- sieme possesso iniziale della verità, la filosofia non è scet- ticismo ed è vita rinnovatrice e promotrice di nuova vita; perchè non possesso pieno, non è dommatismo ed intransi- genza cieca, ed è amore del vero, aspirazione perenne, di- namismo spirituale sollecitato e mosso dalla verità per la Introduzione 38 scoperta della verità stessa, grido di eremita che trascina popoli interi. Filosofare, dunque, è nutrire sempre più di fede la filo- sofia, nutrirla d’interiore certezza e di razionale fiducia nel- l’essere della Verità che è anche di ciascuno di noi, il nostro immortale Ideale. L'umanità sopravvissuta alla guerra, do- po tanti crolli di idoli e miti, è innanzi tutto bisogno di fede, sete di credere; perciò anche bisogno di filosofare, di cer- care, aspirare. Così è, specie quando circostanze straordi- narie pongono di fronte a loro stessi uomini e popoli, li ri- velano nella loro interiorità profonda, in quel che è il loro consistere, che si nasconde, indomabile, al di sotto del loro fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca e così vivo calore di fede siano bene istradati, cioè siano au- tentico bisogno di filosofare e non vaga e sterile aspirazione, inconcludente andirivieni, pericolosa imboccatura di vicoli ciechi; urge mettere a frutto la fede per non sciuparla o ina- ridirla nella sfiducia, a cui segue l’indifferenza, morte dello spirito. Metterla a frutto, affinchè non si disperda in lampeg- giamenti che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in un’accensione accecante per il molto fumo, ma si componga. fiamma limpida e illuminante; affinchè non sia disordinata crescenza, ma ricchezza fondata su principî e da essi sorretta e guidata in modo da scongiurare la confusione delle lingue, il cangiar nome alle cose, il chiamar le virtù vizi e i vizi virtù, quel gran male con cui Tucidide caratterizza la mutata e corrotta società di Atene alla fine della guerra del Pelo- ponneso. Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento intellettuale e politico d’Italia fu preparato e nutrito da una fede pro- fonda e robusta, che non conobbe scoramenti e disarmò le smentite; fede saldissima nei destini della Patria divisa ed oppressa, perchè innanzi tutto fede nei valori invincibili dello spirito, negli ideali più nobili di una umanità mi- gliore, nella realtà di una legge morale che sovrasta inte- 32 Filosofia e Metafisica ressi ed egoismi, nella santità e nelle bellezze autentiche della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata da Cristo, fonte d’ogni progresso e d’ogni civiltà, in quanto sorgente e legge di salute. Antonio Rosmini e il « Rosminianesimo » (indichiamo con questo nome il movimento dello spiritua- lismo italiano della prima metà dell’Ottocento, che dal Ro- veretano ricevette l’impronta profonda) ebbero una gran fede nella verità; perciò la filosofia fiorì e gli italiani filoso- farono. Noi oggi, come i nostri progenitori di ieri, abbiamo una gran fede nei destini dell’umanità, proprio perchè ab- biamo una gran fede nei disegni della Provvidenza, pro- motrice e fecondatrice del lavoro degli uomini, suoi figli. L’anima di verità dello spiritualismo italiano dello scorso secolo non si è esaurita col risorgimento politico d’Italia: questioni di ordine pratico e non filosofico, l’avvento del positivismo prima e l’affermarsi del neohegelismo nel primo quarto del secolo nostro dopo, ne hanno interrotto il pro- cesso, anche se alcuni — e positivisti e neohegeliani — ab- biano detto o creduto in buona fede di continuarlo. Oggi è necessario liberare lo spiritualismo da alcune in- terpretazioni, che riteniamo tendenziose ed erronee e di pro- muovere nuove vedute di esso; riprendere il filo al punto in cui fu rotto per riannodarlo ai fili della nostra vita di uo- mini d’ oggi, non per ripetere o conservare, ma per conti- nuare e rinnovare: a scuola, alla vera scuola, s'impara, non si ripete. Imparare significa accrescersi ed accrescere, riela- borare e ricreare, rivivere, che è tale quando si continua e si rinnova la vita degli altri nella e con la nostra propria vita. La dipendenza spirituale c'impegna dunque dentro i limiti di un filosofare che è il loro vivente filosofare, in quanto è anche il nostro nuovo, personale, attuale filosofare; ci impegna non per quel che il passato ha di caduco ed è passato con il suo tempo, ma per quel che di perennemente vivo vi è in ogni filosofare che è stato veramente la passione di un’anima e, in questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi Introduzione 33 tutta una nazione. La tradizione è indispensabile alla filosofia, come a qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo che abbiano una storia, ma dev'essere lievito, non peso morto; tradizione rivissuta da noi, in modo che diventi il nostro noi: noi inseriti in essa ed essa in noi. * * * Ab antiquo la filosofia è definita scienza dell’essere, del- l’universale; come scienza, deve essere pura da ogni ele- mento soggettivo; come avente per oggetto l’essere, rispec- chiare l’oggettività di esso, al di sopra di ogni contingenza di spazio e tempo: la verità nella sua oggettività è co- mune a tutti gli esseri razionali e per tutti uguale in ogni epoca e luogo. Dunque, la filosofia, che tale oggettività è chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli elementi sogget- tivi, elevarsi in un’atmosfera di serenità composta e se- vera; far tacere tutti quei sentimenti che possono essere an- che individualmente certi o quelle soluzioni che si pre- sentano anche belle edificanti confortatrici, ma che non so- no, gli uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè ogget- tivamente veri; ha l’obbligo di non mescolare i propri pro- blemi e le proprie soluzioni con le circostanze contingenti di un determinato momento storico e di non fondarsi su di esse. C'è molto di vero in questo modo millenario, glorio- sissimo e nobilissimo di concepire la filosofia e l’oggetto della sua indagine. Se anche per noi la filosofia non fosse scienza dell’essere e la verità oggettiva e realissima, ante- riore ad ogni ricerca, Verità, anche se la filosofia non fos- se mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non esistessero massimi problemi, non avrebbe senso parlare di filosofia, di metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggetti- vità della verità, che è prima dopo e indipendentemente dal pensiero che la cerca e conosce, non esclude affatto la personalità del filosofare e della filosofia. È la verità, ma è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in astratto una astrat- 34 Filosofia e Metafisica ta verità, ma il singolo, questo o quel filosofo, cerca le verità, perchè sia la sug verità. Eliminare la personalità dal- la ricerca filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo o prescinderne, cioè essiccare la radice della filosofia. La pura oggettività ed universalità, che mettono in parentesi il soggetto che cerca, sente e pensa, non appartengono alla fi- losofia nè ad altra forma di umana attività. Comnoscere la verità significa sforzo di penetrazione, scoperta di quel che è verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo « specchio » tersissimo è freddo ed inerte, indifferente al- l’immagine che riflette, al suo riflettersi e al suo sparire; copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce meglio quan- to più l’amanuense si estrania da esso e pensa ad altro. Chi cerca, invece, non è indifferente alla verità — conoscere è possedere —; non pensa ad altro, ma al contrario, non pen- sa più a nient'altro. Conoscere la verità è totale partecipa- zione ad essa; eros profondo e fecondo, irresistibile, amor di possesso e d’appropriazione, di meità, direi, della verità uni- versale ed oggettiva. Che non è verità perchè mia, nè per- chè la scopro e conosco o nell’atto che la conosco; ma nel momento che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla e quando la possiedo, la ho come mia verità, come /a ve- rità che è mia e mi costituisce. Una la verità contempora- neamente presente nelle innumerevoli coscienze che furono, sono e saranno: universalissima e personalissima al tempo stesso. Non si tratta soltanto di quella soggettività che è riconosciuta alla filosofia e alle altre scienze, compresa la matematica (il Poincaré, com’è noto, distingue i matematici in due tendenze: quelli che, guidati dalla logica, procedono per lunghe analisi astratte; gli altri che, guidati dall’intuizio- ne, per sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità dei metodi, dei modi particolari di procedere nella scoperta del vero e nella sua sistemazione, ma di una soggettività più profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si trat- ta, infatti, d’intendere la filosofia come assoluta dedizione - Introduzione 35 dell’uomo intero, nell’atto che filosofa, alla verità, per cui questa — e nel momento della ricerca e in quello della sco- perta — aderisce interamente al soggetto filosofante, suona per la sua mente e per il suo cuore con determinati, parti- colarissimi accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo esalta, lo riempie di gioia, lo innova, come dice Agostino. L'uomo apre un nuovo spiraglio sull’infinita verità; e — come il pri- gioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettata- mente, è rischiarato dal sole — chi «vede» saluta e sor- ride alla luce, che è Za Luce, ma è la sua luce, perchè suo è il lavoro della ricerca, sua la gioia della scoperta, sue le ansie e le esitazioni, suoi i dubbi e le angosce, sua la pro- spettiva dalla quale si è posto per cogliere un aspetto del- l’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è madre del filosofare, ma le vedute di e su di essa son geniture del- l’umana mente; prodiga nel darsi a chi l’ama, si allegra d’esser figlia del suo figlio, il pensiero, che certo, non la par- torisce, ma, dalla verità fecondato, partorisce; tale gestazione è appunto il filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie; perciò il pensiero, che è fecondità fecondata e fecondatrice, conosce il dubbio e la speranza, il sorriso e il pianto. La verità sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e cerca; assume essa, divina, volto anima espressione umane. È l’umanità perenne della filosofia, la personalità di cui essa è gelosa. Perciò noi, contrari ad ogni forma di soggettivismo, che vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto di personale vi è nella ricerca filosofica, per la quale la verità si fa nostra senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con esso; contrari ad ogni forma d’individualismo siamo per la personalità della filosofia, in quanto nessuna forma d’im- personalismo riescirà mai ad eliminare la persona, sogget- to del filosofare; avversari di ogni riduzione della filo- sofia a pura descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora 36 Filosofia e Metafisica il problema ontologico e schierati per la centralità del pro- blema dell’essere, ci opponiamo ad una concezione pura- mente nozionale dell’essere stesso. Perciò ancora siamo con- trari ad ogni forma di svalutazione della ragione e dell’in- telletto, alla riduzione del conoscere alla pura intuizione immediata, ma lo siamo anche ad ogni intellettualismo a- stratto e geometrico razionalismo, che non tien conto del- l’umanità del filosofare, dei diritti del sentimento, delle ragioni del cuore, di quanto vi è di intuitivo nell’umano sapere. Difensori della scientificità della filosofia, non tol- leriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qual- siasi scienza particolare, nè ad alcuna forma di scientismo che precluda l’apertura del filosofare scientifico e razionale ad una verità metarazionale e superscientifica. La « Scien- za », onnipotente ed onniveggente divinità, che tutto risolve ed ogni mistero svela, è un idolo nefasto, che annulla, con paurose confusioni e gran danno, le differenze qualitative tra le varie forme di attività spirituale e sovverte la stessa natura razionale dell’uomo nel momento stesso che ne de- creta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspet- to particolare dell’esperienza, isolato dagli altri e non avente come suo scopo essenziale l’approfondimento dello spirito nella sua interiorità e nei suoi rapporti con il mondo ester- no, è ancora una forma di cosiddetta scientificità della filo- sofia che non possiamo accettare, in quanto tende a limi- tare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione unica. La co- noscenza sensibile e la scienza naturale o matematica, che pur possono rendere segnalati servigi alla speculazione, non possono assorbire o sostituire la filosofia, il cui compito prin- cipale è di far acquistare all'uomo una sempre maggiore consapevolezza di sè e della « gravità metafisica » della sua destinazione, il senso della sua esistenza e della sua auto- nomia, di dare al tempo, alla storia, il carattere di via all’e- ternità e non d’inabissare lo spirito nel divenire temporale. Introduzione 37 Soltanto così l’uomo, a mano a mano che sonda le sue pro- fondità, si eleva con tutto se stesso all’Essere, sorgente e principio dell’intelligibilità e del mistero. Perciò noi, nello stesso tempo che accettiamo il concetto della filosofia come scienza razionale e indagine metafisica, secondo una tradi- zione che ha secoli di autorità e testimonianze antichissime, e respingiamo le più recenti riduzioni di essa a psicologia, a gnoseologia pura, a metafisica del pensiero immanente, a pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a me- todologia della storia, a vana fisicità, a logicismo, ecc., ci dichiariamo pronti ad accettare quanto di vero e vitale ha il pensiero moderno e contemporaneo, solleciti di non far nostra qualsiasi posizione speculativa che pretenda di por- tarci indietro di molti secoli verso forme di realismo e d’in- tellettualismo, che è doveroso e proficuo rivedere — nell’in- teresse stesso della verità del realismo — spalla a spalla, in una lotta serrata ma sincera e non ostile, con un pensiero che da Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che im- pongono rispetto e meditazione profonda, scevra da pre- concetti e prevenzioni, senza intolleranze premeditate o dogmatismi precostituiti. Piuttosto che ritornare a quanto ha di sorpassato il passato, siamo decisi a muoverci incon- tro a quanto ha di meglio il presente: radicati nella tradi- zione, vogliamo pensare oggi per il futuro. Questa nostra maniera di concepire la filosofia ci porta a cogliere le sue ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, ap- parentemente opposti: il personale e il sociale. Non solo l'intuizione è personale, ma lo è anche il concetto, che è, diciamo così, la elaborazione scientifica dell’altra. La sua universalità è veramente tale quando include la con- cretezza dell’intuizione: universalità, difatti, non significa affatto astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è anche la mia verità espressa in un concetto universalmente valido. Concetto significa sintesi, e la sintesi è una veduta che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammen- 38 Filosofia e Metafisica tarie vedute individuali. Non vi è pertanto verità sociale, va- lida per gli altri, che non sia o non sia stata prima verità intima, personalissima di un uomo. Nè cessa di esserlo — se è davvero verità e coglie ed esprime una nota od un accento dell’umano pensiero — anche quando diventa so- ciale; anzi è tale proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti, per cui è verità, la riconosce e rifà sua, intima personale verità. Altrimenti è formula morta, informazione estrinseca, curiosità erudita, non elemento di cultura, che è vita spi- rituale. La verità « pubblica » è davvero tale quando, al tem- po stesso, è verità « privata », di ciascuno, quando ogni singolo la riconquista e possiede e vive come assoluta- mente sua. L’universalità e l’assolutezza del vero è la pre- senza dello stesso assoluto vero nelle molteplici coscienze singole, che è poi un personale esser presente di ciascuna di esse all’istessa verità. Forse in nessun’anima, come in quella del pensatore solitario, è tanto presente l’umanità di ogni tempo; forse niente è più sociale della solitudine pen- sosa ed operosa; diciamo della solitudine, non dell’isola- mento. L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è riscoperta ed accettata da un’anima, le dona e l’arricchisce. Solo così c’è commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno di noi, ogni mente, è industria di idee; altrimenti gli uo- mini commerciano e scambiano parole senza contenuto, for- mule senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono le epoche, cosiddette di decadenza della filosofia o afilosofi- che, pigre ed inerti, che vivono di rendita e nulla sanno mettere a profitto; in esse la verità ha solo l’apparenza della socialità, perchè le manca l’intima essenza, costituita dal- l'intimità e dalla personalità del vero nella sua oggettività. * * * Poco più di un anno dopo la fine della guerra ’14-18, Giovanni Gentile nel « Proemio » premesso al primo fasci- Introduzione 39 colo del « Giornale critico della filosofia italiana » così scri- veva: «oggi noi vogliamo un idealismo storico o attuale, uno spiritualismo antiplatonico e immanentista ». Molti giovani, che la guerra avevano fatto e vissuto, sfiduciati del- l’ambiente filosofico e culturale del momento, si orientarono verso la nuova rivista. Durò poco; il « Giornale » continuò a vivere, ma alcuni, giovani e anziani, cambiarono rotta e s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico o attuale, anti- platonico e immanentista, non era la filosofia che rispon- deva alle loro esigenze; infatti, di tutte le filosofie che han- no reagito al positivismo, è tra quelle che hanno fatto mag- giori concessioni alle tendenze naturalistico-empiristiche e più si è adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà spirituale, ma, per il suo fondamentale storicismo ed im- manentismo, imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nel- le forme e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso quel carattere autenticamente metafisico e religioso, essen- ziale alla filosofia, lo slancio di elevarsi, con un respiro ve- ramente universale e non mozzo, al di sopra di quella ge- nerica divinizzazione dell’umanità, a cui in fondo si ri- duce quel suo concetto di Storia o Cultura o Civiltà, col quale identifica la totalità del reale. Altri indirizzi in Italia e fuori sono contemporanea- mente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guer- ra ’39-45. Poco meno di sei anni: tutto cambiato. Filosofie che fino alla vigilia dello scoppio del conflitto e a qualche anno dopo erano studiate ed appassionatamente discusse, oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a noi, come se da esse ci dividessero secoli. Morte? No: con esse, com- preso l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo an- cora fare i conti, se vogliamo proprio dare un nuovo orienta- mento al filosofare. Misurarsi con gli avversari, con tutto il rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro, è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la nostra consistenza. Diciamo subito, sebbene il lettore abbia già capito, che 40 Filosofia e Metafisica il nostro spiritualismo è platonico, come può esserlo uno spi- ritualismo che non intende ignorare il pensiero moderno e contemporaneo nè da esso straniarsi; ed è trascendentista. Di- re per esteso come noi intendiamo il nostro spiritualismo, in che senso lo denominiamo platonico e trascendentista, qual’è l'essenza del platonismo antico e cristiano, sarebbe antici- pare in questa introduzione molte tra le pagine di questo libro e quanti volumi formeranno la nostra Filosofia del- l’integralità. Come abbiamo scritto altrove: « Noi... capo- volgiamo il principio animatore di buona parte del pensiero moderno e contemporaneo: non conquistare la posizione im- manentistica dell’attività creatrice del soggetto, ma conqui- stare — ed anche questa è dura e aspra conquista — il sen- so, che è senso della trascendenza, di essere creati, il calore spirituale di esser parte vivente della creazione. Aver sem- pre presente alla propria coscienza di essere creature, signi- fica avvertire sempre la propria esistenza come dono, gra- zia di esistere: il mondo, nella sua totalità, è un dono della grazia del Creatore. Appunto, per noi, filosofare è pensare trascendendo il nostro pensiero; è far della storia trascen- dendo la storia; è tensione dello spirito verso una Realtà che è in lui senza esser lui, che immane e trascende; è aspirazione al possesso della Verità, che non ha storia e non è filosofia, ma che fa e la storia e la filosofia ». Platone? Sì, ma anche Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platoni- smo, che è un aspetto perenne perchè essenziale e invin- cibile della filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito uma- no, che è « filosofo », perchè è aspirazione indomabile, eros inesausto della verità. Perciò la filosofia è costituzionalmente decisa tendenza alla trascendenza. Oggi, come nel periodo immediatamente anteriore alla guerra, vi è, specie nella filosofia francese e italiana, non un ritorno, ma una ripresa dell’agostinismo perenne; i proble- mi filosofici, quello religioso e dei suoi rapporti con la fi- losofia, sono posti, trattati e discussi nei termini della spi- Introduzione 41 ritualità agostiniana: questa oggi la nota attuale (che non si- gnifica di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche la nostra nota che non contrasta affatto con la ricchissima spi- ritualità tomista, di cui è da tenere gran conto, in quanto, aggiungiamo, è tutt’altro che antiplatonica ed antiagostinia- na. Agostinismo significa voler conoscere innanzi tutto due cose: Dio e l’anima, la mia anima che ama Dio e a Lui aspira. Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano; centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio che in lei parla e della consistenza dell’uomo e delle cose; senso della creazione, che si coglie come tale nell’aspira- zione perenne al Creatore e, dunque, senso profondo, inte- riore, della trascendenza. Dunque, ancora, pensiero che si coglie nell’essere, non essere che si coglie nel pensiero; perciò metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte, la persona umana non è l’individuo, che è ogni ente or- ganico, o l’io empirico, e, dall'altra, il Dio del Cristia- nesimo non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza. E’ più che sostanza, più che essenza: è Persona, Padre, Creatore, Provvidenza. La teologia razionale, che tende a scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che è esperienza interiore e teologia rivelata. Dio non è il re- siduo logico di un intellettualismo intollerante; non è Og- getto puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio di Gesù, quella « soggettività » che è Sua « natura ». Non si tema l’immanenza, perchè, se non altro, questa posizione ci met- te al di là del dilemma, più artificioso che reale, trascen- denza-immanenza; nè l’esperienza mistica fa di Dio un elemento immanente della vita dell'anima, ma Lo assu- me e ama come Voce interiore, Norma assoluta e Guida infallibile: Voce, Norma, Guida, Via trascendenti, che spi- ritualmente ricreano la creatura. Dio ancora è intelligenza che attua col pensiero gli intelligibili, ma attuandoli li vuole liberamente. Anche qui non si tema il volontarismo, per- 42 Filosofia e Metafisica chè siamo al di sopra del dilemma volontarismo-intellettua- lismo: la nostra posizione non è meramente volontaristica e meno ancora anti-intellettualistica. L'attività intellettuale — che solo certe forme d’intuizionismo hanno relegato nel formalismo e nell’astratta schematizzazione, con una re- strizione del termine intelletto tanto ingiusta quanto incre- sciosa — è anch'essa vita intensissima e spirituale sentire, che si collega con l’attività volontaria. Intelletto e volontà sono fatti per armonizzare nella distinzione e reciproca- mente integrarsi. La riflessa cautela critica dell'intelletto non smorza, ma disciplina e rende più efficaci gli slanci della volontà, come la rigorosa obiettività metafisica non si di- sgiunge dal carattere personale della ricerca filosofica. « Poe- tico » è l’intelletto, al pari della volontà. Insufficiente il primo nella sua sfera se non è integrato dall’altra, come è insufficiente la volontà che pretende di fare a meno dell’intelletto; sufficiente è la completa e concreta vita umana naturale nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra for- ma di attività. Da ultimo, il « complesso dell’uomo » ha il suo compimento nella spiritualità soprannaturale, che non altera l’umana natura, ma la solleva ad un più alto stato. Una metafisica così intesa esaurisce il contenuto della filosofia: è gnoseologia e morale, è scienza del mondo e dell’uomo singolo ed associato; è filosofia che ha il profondo senso morale e religioso di se stessa; perciò cristiana, alla quale appunto il Cristianesimo dà la consapevolezza dei li- miti della conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con la Rivelazione, la soluzione di quel che può solo cercare e sondare, ma intorno a cui non può e non potrà mai con- cludere. La filosofia è razionalità, se si vuole, « intransi- gente » razionalità; ma è atto della ragione autentica rico- noscere i suoi propri limiti; atto che include perciò stesso il riconoscimento del mistero teologico, che non è affatto, non occorre dirlo, irrazionalità o arazionalità. La ragio- ne, lume naturale, riconosce, con un atto naturale, il Introduzione 43 lume soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia, che è indagine razionale, è apertura all’Essere, vocazione alla trascendenza, che, per noi, è quella teologica. Se così non fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è spirito e non materia, che è verità e non illusione, da dove non dimentica o disprezza il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta al lume della Verità che lo trascende per indirizzarlo al suo fine, che è il Creatore, la filosofia sarebbe ozio e concupi- scenza dell’intelletto, non vita spirituale, salute dell’anima. Fede e ragione in stretta ed armonica collaborazione, senza che si armino i diritti dell’una contro quelli dell’altra; Suona filosofia, dunque, in umiltà di cuore, semplicità d’intelletto e rettitudine di volontà. Di qui scaturiscono conseguenze di vitale importanza. Innanzi tutto la filosofia è profonda consapevolezza dell’es- senziale spiritualità dell’uomo nella sua complessa ricchezza e dell’ordine del mondo; nell’uno e nell’altro caso, assenso alla verità di Dio, creatore dei due ordini, provvidenza o attività perennemente creatrice e conservatrice. Consegue che la filosofia è riconoscimento dell’essere del creato, di ogni creatura nel suo grado di essere; in questo senso è « avvia- mento » all’integrità, che è appunto riconoscimento di ogni ente nel suo grado di essere, per quel che è e significa; è « disposizione » (non diciamo realizzazione o compimento) al ritorno alla creazione genuina, messa in linea per il ri- scatto totale di essa. Pertanto filosofare è ricreazione inte- riore della verità, iniziazione religiosa, contemplazione (theo- ria) che è concentramento della totalità del creato in un punto del pensiero, da dove più potente ed irresistibile si fa lo slancio verso il Creatore; è infine — e per tutto ciò — preghiera. Da ultimo consegue che essa è essenziale moralità. Chi filosofa si mette in cammino per incontrare la verità; dun- que, nell’atto stesso, è chiamato a spogliarsi di quanto ini- 44 Filosofia e Metafisica zialmente può essere di ostacolo al raggiungimento del suo scopo e a liberarsi, a mano a mano che la ricerca procede, di quanto risulta falso o inadeguato: con ciò stesso rico- nosce che non la ricerca produce il vero, ma il vero la ri- cerca. Filosofare è pertanto itinerario di liberazione, di purificazione: lotta del vero contro il falso, del bene contro il male; dunque, è assolutamente moralità, che non è un fatto, ma un dover essere. Nel nostro caso, è la possi- bilità di riescire a vincere il falso con il vero, il male con il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza. E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia) di passare dalla possibilità di vittoria sul male e sul falso, alla reale riescita? Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta è la sua vita morale; la vittoria definitiva ne è l’esito; poichè l’esito o cessazione della lotta è al di là di essa, la trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pen- siero, cioè il potere dell’uomo; dunque la realizzazione del fine, per il cui conseguimento l’uomo lotta contro il male, non è nell’umano potere. La filosofia, intesa come asso- luta moralità, è la grande possibilità naturale di cui l’uo- mo dispone per realizzare il suo fine supremo. Impegnate tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero si fa disponibile per accogliere dall’Alto, se vengono, le energie della salvezza: l’essenziale moralità della filosofia si rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della vita morale (lotta del bene contro il male) non può trovarsi se non nella religione. In caso contrario, la morale come lot- ta eterna senza possibilità di risoluzione, come perenne dia- lettica dei due termini in contrasto, si nega come morale, in quanto si riduce ad un fatto, al fatto della lotta, che non può non essere altro e dev'essere quello che è. E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale? Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una morale autonoma nella sua possibilità di riescire, con la spe- Introduzione 45 ranza che la riescita che la trascende non le manchi e venga a colmarla, a liberarla dalla lotta, ad «assorbire la morte in vittoria ». La salvezza come fine della moralità investe nel suo punto cruciale il problema dei rapporti di filosofia e religione. PARTE PRIMA FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA CaprrroLo I FILOSOFIA I. — Saggezza greca e saggezza biblica. Secondo la tradizione, Pitagora, quasi indietreggiando umile di fronte alla maestà della divina Sapienza, per pri- mo si nomò non sapiente ma filosofo: semplicemente amico della Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è scienza di Dio, la filosofia è scienza dell’uomo. Dio « non è filosofo », dice Platone, perchè è il Sofo. Ancor prima di Pitagora e Platone, l’uomo (da Adamo caduto, primo grido di dolore e primo atto di pentimento per la verità perduta) ebbe ad accorgersi che l’amore per la Sapienza costa carissimo. Amare la verità è tendervi, che è sforzo perenne di ricerca, superamento di limiti, penetrazione di zone di ombra, vittoria sul dubbio; lo sforzo è dolore. L’uomo partorisce mella Verità le verità: prima gesta con cautela e fatica; sorveglia perchè il parto non sia aborto pre- maturo e il partorito germoglio rachitico e malaticcio; poi fa forza per rompere l’involucro che l’asconde e vorrebbe soffocarlo: non si dà alla luce senza dolore. Ed è giusto: non c’è luce di verità, per l’uomo, senza sacrificio e soffe- renza, che fanno pura la gioia del generare. Umanissima la filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia; infatti è « testimonianza » del vero. Ma non si sopportano sacrifici nè si affrontano martirii senza fede nella verità, nel dono che farà di se stessa, essa, che è posseduta solo 50 Filosofia e Metafisica da chi è suo possesso. Filosofo è chi ha fede nel ritrova- mento del vero, chi usa il dubbio positivamente, come peda- na di lancio o strumento d’acquisto; non dispera, non ten- tenna: crede, serve e muore. Socrate fu filosofo. Altro saggio d’antichissima saggezza, Salomone, nel- l’Ecclesiaste, sottolinea il tormento di spirito, a cui volonta- riamente si condanna il filosofo per amore del vero: vi- vere filosofando (non primum e poi deinde, perchè non si filosofa senza vivere, ma non si vive, in ispirito e verità, senza filosofare) è lotta perenne, fatta di conquiste e perdite, di elevazioni e cadute, di realtà ed illusioni deludenti, di speranze e disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandez- za di pensiero e miseria di peccato, è sempre alle prese con l’errore, sempre in un’ansia di ricerca che fruga il vi- sibile e l’invisibile: ora cade al livello della carne che ago- gna delizie di piaceri, ora si slancia alle cime serene e lu- minose della pura spiritualità; contraddizione vivente di sa- pienza e stoltezza, di verità ed errore, instancabile ed in- quieto viandante, che sorsa a mille sorgenti ed ha sempre più sete. Alla fine, spossato umiliato confuso confessa la propria impotenza e grida all’ausilio di una forza supe- riore alla sua; invoca il vero che tanto ha cercato, affinchè scenda sul suo cammino e gli venga incontro, mercede di tanto affanno. Deum time et mandata ejus observa; hoc est enim omnis homo (1). Perchè tanto peregrinare del viandante indomabile? Per- chè egli, dice ancora il Saggio, per la verità deve lottare con se stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che a- spira all’invisibile immutabile vero, affinchè vinca il senso cieco e corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto d’inganni e raffinatezze, di sostituire al vero le apparenze di esso. Così dirà anche Platone, che fu filosofo. La saggezza testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di de- finire l’essenza della filosofia e del filosofare. (1) Eed., XII, 5. Filosofia e concetto di filosofia 51 2. — La filosofia scienza ” sui generis” e sua autonomia dalle altre scienze. Che cos'è in concreto filosofia? È una scienza come le al- tre? È una scienza sui generis? Ha un suo oggetto e quale? Filosofia non è scienza come tutte le altre. Non lo è innanzi tutto perchè, come ben notò Aristotele, si distingue dalle scienze empiriche: essa, infatti (quando è vera filo- sofia e non tornaconto di falsi o mezzi-filosofi) non ha fini utilitari. In questo senso, filosofia, «la sapienza desi- derata per se stessa e per amore del sapere », è scienza inw- tile: non serve a niente di estrinseco o di estraneo alla ri- cerca della Verità in sè e per sè. Coloro che scherzando di- cono che la filosofia è « inutile » non si accorgono di tessere il suo più bell’elogio: inutile, e perciò libera e liberatrice. E quando avvenimenti di eccezionale portata scuotono gli uo- mini nel più profondo della loro profondità e tutto sembra irreale ed assurdo, il volgo, spregiatore del filosofo, chiede a lui la parola che illumina e salva e nella filosofia intrav- vede i calzari con cui l’umanità cammina nel tempo per secoli e secoli. Bellamente disinteressata, pura contemplazione, spassio- nata ricerca della verità va fiera della sua sublime e quasi divina inutilità. Il filosofo è come il poeta: contempla e can- ta, adoprando princìpi e formulando giudizi; « fa musica », secondo il comando che a Socrate carcerato dava in sogno la voce misteriosa (7). D'altro non si preoccupa, dice ancora Aristotele, «in quanto ha il fine in se stesso ». Proprio perchè non è scienza empirica, essa è conoscenza di tutto il reale, dello spirito e delle cose, non nella loro accidentalità, in quel che hanno di empirico, bensì nei loro princìpi e nelle loro cause. Ma ogni altra scienza particolare non cerca pur essa princìpi e cause e leggi? Sì, ma nessuna. studia «l’ente in universale », bensì « dopo averne rescisso (2) Fedone, 60 e. 52 Filosofia e Metafisica qualche parte, di questa studia gli accidenti »; solo la filo- sofia studia «l’ente in quanto ente e le sue proprietà essen- ziali » (*). Scienza dell’universale dunque e, come tale, di- stinta da ogni altra empirica. Secondo lo stesso Aristotele, non è la sola che apparten- ga alle scienze dette « speculative » (distinte dalle « poeti- che » e « pratiche »): condivide questa nobiltà con la fi- sica e la matematica. Ma non allo stesso titolo: occupa il posto più alto nella gerarchia; e i gradi sono segnati dalla purezza dell’oggetto: la fisica studia le forme, ma nella materia; la matematica anch’essa le forme, ma astratte; so- lo la filosofia le studia pure e concrete (‘). Prima di Aristo- tele, Platone aveva già stabilito una gerarchia delle scienze culminante nella filosofia o dialettica, la quale ha come og- getto le Idee in sè e per sè, senza alcun commercio col sen- sibile (*). A parte la dottrina aristotelica delle forme e la platonica delle Idee, proprie dei due filosofi, resta fermo che la filo- sofia ha come oggetto non alcunchè di empirico o sensibile, ma il meta-empirico e il soprasensibile; che è scienza disin- teressata, speculativa, il cui oggetto è l’universale, ciò che è e non appare; non è ricerca di una singola verità; non si ri- volge ad un oggetto particolare, ma a ciò che è, all’Essere. Non è scienza come le altre la filosofia anche per un motivo strettamente connesso a quanto già abbiamo veduto. Le scienze, certo, son forme dell’attività dello spirito uma- no, ma nè una nè tutte insieme sono lo spirito. Che la scienza sia spirito e lo spirito scienza, è solo un’erronea equazione di certo positivismo o neopositivismo, che non vide e non vede ancora che tra l’una e l’altra non v'è dif- ferenza di quantità, ma di qualità. Nè la filosofia è una serie o collezione di sintesi (i contributi o i risultati di ogni (3) Mer., IV, I, 1003. (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a. (5) Repubblica, 521 c-535 a. Filosofia e concetto di filosofia 53 singola scienza), perchè è sintesi originalissima, assoluta. Ec- co perchè /4 scienza, in fondo, è le scienze, mentre /z filo- sofia non è le filosofie Di qui ancora la particolarità delle scienze. Ogni sin- gola scienza conosce secondo un modo suo proprio (Pascal direbbe un suo espriò) un aspetto del reale; la filosofia invece, che ha il suo esprit inconfondibile, non s’indirizza ad un aspetto, ma a tutto il reale. Lo conosce nella sua inte- rezza? No, e qui bisogna intendersi. Vi è la conoscenza comune, che non è scientifica nè filosofica, quantunque sia il materiale sul quale lavorano e la filosofia e la scienza; vi è la conoscenza scientifica che conosce — secondo un suo metodo, suoi concetti e regole — un aspetto del reale, astraendo dagli altri; vi è la conoscenza filosofica che ten- de a conoscere il reale nella sua totalità, cioè se lo pone intero come oggetto di conoscenza, ma di esso coglie solo un aspetto, meglio lo vede da un punto di vista, ne ha una veduta parziale. Per conseguenza le scienze colgono parzialmente un aspetto parziale del reale; la filosofia co- glie parzialmente la totalità di esso. Perciò quelle hanno un’astrattezza che la filosofia non conosce, senza che ciò obblighi a concludere che i loro concetti, privi di valore co- noscitivo, ne abbiano soltanto uno pratico ed economico. Per povero che sia, un concetto è sempre una finestra sul mondo; per limitato che possa essere il conoscere scien- tifico è sempre una veduta della realtà. Vi è inoltre un problema fondamentale, in cui scienza e filosofia hanno sempre collaborato: il problema stesso della scienza. Per un altro verso le scienze sono astratte: sono cono- scenza nel senso più angusto. Lo scienziato applica un me- todo di ricerca ad un determinato fenomeno; è guidato solo dall’osservazione e dalla ragione; il sentimento è escluso. La filosofia no: è fondamentalmente razionalità concreta, la razionalità che è l’uomo intero, totale, che è ragione, volontà, sentimento, cuore. Anche quando la filosofia è pu- 54 Filosofia e Metafisica ramente nozionale, formula scarnificata, resta sempre alla pura ragione filosofica una vita che è pur presenza di uma- nità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono pro- fonde aspirazioni umane. Non così la scienza che astrae dal sentimento, dall’umanità dell’uomo, anche da ogni mo- tivo finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi mec- canica: in qualunque caso, anche se indeterministica, pre- scinde dalla finalità del reale. La filosofia invece è sem- pre teleologica: non è scienza dei fatti, ma dei valori; dun- que la sua essenza è veramente spirituale. Perciò ancora è libertà. Inoltre, la filosofia, essenziale ricerca della verità oggettiva, che è prima di essere conosciuta e tale reste- rebbe anche se mai alcun soggetto pensante la conoscesse o la cercasse, ha una sua indeclinabile soggettività: la verità universale ed oggettiva è anche la mia verità, quella che, cer- cando ed amando, faccio mia. La scienza invece astrae dal soggetto come tale per garantire quella oggettività imper- sonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’ in- commensurabile ricchezza della filosofia, quella stessa dello spirito umano filosofante, cioè amante, con tutte le sue for- ze e con tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si offre, dedica, sacrifica; quel senso umanissimo proprio del- la « pagina» filosofica, che spesso, sotto la veste frigida e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima in- tera, la vita e l’anima, inconfondibili, del pensiero specu- lativo. Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il filosofo che si accinge al terribile compito di riflettere sulla conoscenza comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare la sua vita per esaminarla profondamente, non più vissuta nella sua immediatezza, ma posta come problema, il filo- sofo, dico, s’identifica con la sua filosofia, la verità che è la sua vita. Ogni filosofo è una formula, ma la sua non è un’astrazione; è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua esistenza; la formula è la croce, su cui si crocifigge e Filosofia e concetto di filosofia 55 dalla quale perennemente rinasce. Lo scienziato, invece, po- ne un'ipotesi: questa può essere dimostrata falsa o vera, restare semplice ipotesi. Nei tre casi — tranne che l’ipo- tesi non abbia una portata metafisica e, in tal caso, o fa della filosofia con esprit filosofico e non più scienza, o fa della filosofia con esprit scientifico e non più scienza nè filosofia, ma pseudo-scienza e pseudo-filosofia — Ja sua vita resta quello che è. Per il filosofo non è così: che Dio esista o non esista, che il bene sia una realtà o un'illusione, che il mondo abbia un fine o sia il risultato di combina- zioni meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste ipotesi, impegna la sua vita interamente, importa vedere l’universo in un modo radicalmente opposto ad un altro. Lo scienziato che indaga non scommette se stesso; il filo- sofo sì, totalmente. Vi è nella filosofia un’essenza di to- talità metafisica e insieme religiosa che manca alla scienza. Si è ancora sostenuto, muovendo dalla pregiudiziale cri- tica, che la filosofia non è la scienza, in quanto questa ha dei presupposti che accetta senza renderne conto. La filosofia invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo i presupposti della scienza, ma ogni presupposto, porre in questione se stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qual- siasi altra, è essa stessa un presupposto: la si può discutere in base ad un altro; e questo in base ad un altro ancora e così via. La stessa pregiudiziale critica, affinchè abbia senso e possa essere assunta come punto di partenza del filosofare, presuppone l’oggetto della ricerca, la verità: la critica ha senso come giudizio sulla umana conoscenza della verità, non come dubbio che investa la realtà stessa del vero, altrimenti essa vien meno al suo compito e alla sua ragione d’essere, in quanto c’è critica del conoscere solo rispetto alla verità. Infatti, il problema dei limiti della conoscenza umana è tale rispetto alla verità ed è problema della validità -del conoscere solo in quanto c’è verità. La posizione critica è consapevolmente critica, solo 56 Filosofia e Metafisica in quanto col e nel suo porsi implica e riconosce la po- sitività del vero. Dunque anche la filosofia ha i suoi presupposti, quantunque sia meno dommatica della scien- Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma nessun ma- tematico, per esempio, pensa di far progressi nella sua scienza cominciando dal mettere tutto in dubbio, anche che due e due fan quattro; e se ciò mette in dubbio, non dubita del numero. Anche lo stesso modo di condurre l’ indagine filosofica implica dei presupposti. Del resto, non è solo un limite della filosofia o della scienza; lo è del pensiero umano in generale, il quale non può rendere conto di tutti i presup- posti: gli possono apparire evidenti, ma non perciò sono di- mostrabili. Vi è un metodo — scrive Pascal quasi a principio del frammento sull’Esprit géometrique — più eccellente di quello della geometria, consistente: a) nel « non usare alcun termine di cui non sia stato prima spiegato nettamente il senso »; b) nel « non affermare mai alcuna proposizione che non sia stata dimostrata con verità già conosciute; cioè, in breve, nel definire tutti i termini e nel provare tutte le pro- posizioni ». Bellissimo metodo, ma « assolutamente impos- sibile ». Di dimostrazione in dimostrazione « si arriva neces- sariamente a dei termini primitivi, che non si possono più definire e a principii così chiari che non se ne trovano altri che lo siano di più per provarli ». Se la filosofia, come ogni altra umana scienza, potesse spiegare tutti i presupposti senza presupporne alcuno, non sarebbe più filosofia, ma Sofia, la Sapienza, di fronte a cui si sgomentò Pitagora; nè l’uomo sarebbe filosofo, ma Sofo; Sofo è solo Dio, che non è filosofo. Gli uomini non hanno la capacità (ed è qui la ragion d’essere della filosofia) di costruire una qualsiasi scienza di ordine assolutamente perfetto. 3. — Astrattezza del dialettismo antinomico. Dunque, la filosofia è scienza sui generis, ma l’esser tale non significa affatto che non vi siano altre scienze, come han- Filosofia e concetto di filosofia 57 no cercato di dimostrare alcuni indirizzi filosofici contem- poranei cosiddetti idealisti. Torna il conto soffermarvisi, an- che se brevemente. Per il neohegelismo italiano, per esempio, la filosofia è scienza speculativa, il cui criterio logico, che è anche prin- cipio del reale, è il dialettismo antinomico. Perciò: l’an- tinomia dialettica è il principio di tutta la realtà; la filo- sofia ha come criterio logico lo stesso principio; dunque la filosofia, in quanto dialettica, è scienza del reale. La logica aristotelica invece (che lo Hegel e gli hegeliani chiamano « astratta » per distinguerla dalla nuova detta «concreta ») assume come princìpi logici della speculazione quelli d’iden- tità e non-contraddizione; per conseguenza muove da un cri- terio logico speculativo diverso da quello — l’opposizione dia- lettica — che è il principio del reale; dunque non può cono- scere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica «astratta», che procede per esclusione, bisogna sostituire quel- la «concreta», che fa suo il principio del dialettismo antino- mico. Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico della speculazione e il principio del reale; anzi il principio 0 la legge del reale (ciò che è reale) è lo stesso criterio logico o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza speculativa, è l’espressione perfetta di questa identità, la tra- sparenza dell’Idea. Le altre scienze non sono «scienza » in quanto assumono come principii del reale leggi determinate e fisse, che esclu- dono la contraddizione. Dunque non hanno valore cono- scitivo; astratte, si lasciano sfuggire la concretezza del reale. Scienza è solo la filosofia che è l’antinomia, la contraddizio- ne, fattasi realtà; perciò è scienza diversa dalle altre e, co- me tale, decreta la loro non-scientificità o empiricità, nel momento stesso che conferma la sua sola legittimità scien- tifica. Che la realtà presenti antinomie e contraddizioni, anche sconcertanti, è vero; ma è proprio la contraddizione che pro- 58 Filosofia e Metafisica voca il pensiero a vederci chiaro e a cogliere la radice, dove i termini opposti s'incontrano. La conoscenza, filosofica o scien- tifica che sia, è soluzione di contraddizioni, componimento di antitesi ad un livello più profondo dell’antitesi stessa. Co- me dice il Rosmini, l’universo è un grande e sacro libro aperto da Dio davanti agli occhi dell’uomo e scritto tutto di quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le risolva. Dio « col permettere che insorgano nella mente del- l’uomo delle dubbiezze, o, per dir meglio, delle difficoltà, ... riscuote l’inerzia di lui e lo provoca alla riflessione ed alla investigazione del vero» (9). La legge « fissa » non è che soluzione, diciamo così, « dinamica » della contraddizione, del dubbio e della difficoltà che han provocato la mente a comporli. Dunque, anche la legge scientifica, in questo senso, è sintesi conoscitiva, come lo è il concetto filosofico, ferme restando le differenze da noi poste sopra tra filosofia e scienza. Inoltre, se la realtà, almeno come appare, è contraddizione, ciò non significa affatto che l’essenza del reale sia l’antino- mia. Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sul- l’ultimo gradino rifiutandosi di penetrare nella radice pro- fonda del reale stesso, dove è il componimento di tutte le antinomie; è indietreggiare di fronte alla metafisica, che è appunto la filosofia; essere ancora degli empirici; è fare della filosofia una scienza empirica (sia pure sui generis) come le altre; è il residuato positivistico che l’idealismo trascenden- tale non è mai riescito a sciogliere, nonostante i suoi sforzi metafisici. Nè il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto, ma l’assolutamente concreto. Astratte son le scienze non in quanto non riconoscono l’antinomia, bensì in quanto non col- gono (nè è questo il loro scopo) la soluzione ultima, il con- creto assoluto; ed una zona di astrattezza permane, in questo senso, anche nella filosofia, quantunque essa sia lo sforzo massimo che l’umano pensiero possa fare verso il concreto assoluto, che è l’assoluto Essere e l’assoluto Vero. (6) Teodicea, n. 9. Filosofia e concetto di filosofia 59 Ancora: considerare l’antinomia come principio del reale e criterio logico di speculazione è accettare il dato, la contrad- dizione, quell’immediato che pur l’idealismo trascendentale, dallo Hegel in poi, combatte e respinge in nome del pen- siero che è mediazione. Ciò comprova che esso è ancora al di qua della filosofia, che è riflessione sul dato, la contrad- dizione, non accettazione di esso; componimento dell’anti- nomico nell’identico essenziale, cioè conquista della metafisi- cità del reale. Con ciò l’idealismo si preclude anche la strada d’indagare se la soluzione ultima che fonda ed involge le altre e pur le trascende, che chiude la serie delle antinomie — al di là della stessa conclusione metafisica pur non più bipo- larizzata dalla e nell’antitesi ma aderente alla identità del- l’essere a se stesso — sia possibile alla filosofia oppure trascen- da la sua capacità. Figlio del Kant, respinge proprio il senso profondo del criticismo; non arriva al limite massimo della conoscenza filosofica, dove il pensiero si arresta, e acconsen- tendo, si dispone a ricevere la verità suprema; al punto in cui la filosofia legittimamente e col suo assenso si apre alla reli- gione. Perciò la filosofia, così come è concepita dall’ideali- smo, fa sua, oltre che l’empiricità delle scienze, l’immedia- tezza della conoscenza comune e l’astrattezza, propria an- ch’essa della scienza, di voler ignorare o «risolvere » nel logo razionale la religione, come se l’uomo non fosse un « animale religioso» e la religione suprema verità non ridu- cibile all’ordine di quella filosofica, senza che le contraddica. Ma l’idealista (anche se non hegeliano ortodosso) ribatte che la nostra critica è ingiusta, in quanto accettare come cri- terio logico della speculazione il dialettismo antinomico non significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è l’antinomia, che la logica astratta esclude in base ai princìpi d’identità e non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concre- tezza del reale, che è sintesi degli opposti; la mediazione, cioè la riflessione filosofica, è la sintesi concreta degli opposti stessi, che, separati — ogni cosa è identica a se stessa e non 60 Filosofia e Metafisica può essere diversa da se stessa — sono l’astrattezza impu- tata alle scienze. Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per l’ideali- smo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente, cioè come elemento dialettico rispetto ad una nuova antitesi; dunque quel che è reale non è la sintesi ma l’antinomia che si sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad essa (e che è il vero principio del reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scor- nato: o conclude che vi è una sintesi assoluta ed allora il principio del reale non è più l’antinomia, ma questa sintesi suprema dove ogni antinomia si risolve, e l’idealismo dialet- tico nega se stesso; o esclude che vi sia questa sintesi e il principio del reale ed il criterio logico è la contraddizione, cioè sempre il dato, anche se retrodatato all’infinito. La me- diazione è solo provvisoria ed apparente; la riflessione sulla contraddizione, che è la filosofia, resta sempre riflessione sull’antinomia, che è il dato. Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia ad astrattezza. Identificato dialetticamente il reale con il pensiero e questo con il processo logico (« ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale »), consegue che la filo- sofia è panlogismo, cioè riduzione (o dissoluzione?) di ogni forma di attività spirituale e della realtà tutta al puro cono- scere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta ad astrarre da quanto nell’uomo non è ragione o riducibile a questa, cioè a far propria quell’astrazione che, come abbiamo detto, va imputata alle scienze. Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni — che, in verità, l’hanno inteso su molti punti a modo loro — ha voluto essere consequenziario. Spinto dal miraggio del- l’assoluta immanenza, risolve l’essere nel pensiero, il pensiero nel pensare in atto — reale non è l’oggetto del pensiero, ma il pensiero conoscente l’oggetto — l’attualità del pensiero nel mio pensiero, che non è il Pensiero ma, d’altra parte, non Filosofia e concetto di filosofia 61 è una realtà trascendente le singole persone pensanti, e ar- riva alla conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo, la filosofia, scienza sui generis, conoscenza per eccellenza e la sola rigo- rosissima, si fa assoluta soggettività; priva di un’oggettività propria, svanisce come scienza, essa che si era posta co- me la sola. Lo storicismo, infatti, conclude che la filosofia non esiste ed è metodologia della storia: « Un forte avanza- mento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo ef- fetto: che tutti gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice che la filosofia è «scienza delle cose divine»; ma Aristotele non ha scritto di storia e dunque ha fatto opera inutile e da non- filosofo ] giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e discipli- nati filosofi; e il filosofo, in generale, il purus philosophus, non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sa- pere »; l’attualismo afferma che è filosofia ogni forma di attività spirituale (pedagogia, politica, arte, religione, ecc.), mentre un seguace di esso, almeno in quell’epoca, sostiene che non c'è la filosofia come scienza a sè, ma che è la scienza: la filosofia non è una particolare forma di sapere (filosofia « astrologica »), ma l'universalità di ogni sapere, sicchè non ha un campo autonomo d’indagine. Così l’idealismo contem- poraneo, dalla filosofia come scienza sui generis, autonoma dalle altre, unica, conclude, in opposizione con le sue pre- messe, che come scienza a sè non esiste, ma è immanente ad ogni singola scienza. 4. — La filosofia come ricerca della verità interiore e suo esito religioso. Torniamo all’antica definizione della filosofia: amore del- la sapienza; dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia è Eros; ed Eros è figlio della Povertà e dell'Abbondanza; di- vino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio perchè non 62 Filosofia e Metafisica è possesso della Verità. Platone va integrato con il Cristia- nesimo; l’amore è sì aspirazione, ma è anche sovrabbon- danza e perciò non è imperfezione, ma atto di perfezione: il Dio greco, perfetto, non ama; se amasse non sarebbe Dio, in quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano, perfettissimo, è essenzialmente Amore. La perfezione o l’essenza della filosofia è la ricerca, lo sforzo di riflessione; perciò non è la Sapienza divina: Dio è la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come tale ha sempre dei limiti: sottintesi, concessioni, presupposti, ipotesi, ecc., che la riflessione non riesce mai ad esplicare interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La filosofia, che è sforzo, resta sempre aspirazione al di là del limite; perciò la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio, l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi particolari, la filosofia è sforzo di riflessione su Dio, sua meta agognata ed irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema, ma non lo sarebbe se non fosse, come tale, richiesta di solu- zione. Il platonico Eros filosofo, infatti, partorisce nel Bello, nel Bene, nell’Essere; i suoi parti sono nella verità che il filosofo, dubitando e cercando, trova, scopre dentro di sè: verità oggettiva innata. E anche qui Agostino va oltre Pla- tone: la verità abita în interiore homine, non come dato di cui si risveglia la memoria, ma come presenza peren- ne, di cui la coscienza non si accorge quando è distratta, lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è presente anche quando non è ascoltata. Che cosa stimola e guida la ricerca? La Verità non conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la vocazione; perciò la ricerca è almeno iniziale possesso del vero, a cui l’anima aspira. Che cosa sono i veri che la mente trova? Perchè la voce della verità, pur interiore a noi più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, può non essere ascoltata? E quando lo è? (7) S. Acostino, De vera religione, XXXIX, 72. Filosofia e concetto di filosofia 63 I veri che la mente scopre sono le risposte che il filosofo dà alla verità, testimonianza del suo amore; il loro insieme è il mondo ideale, il regno dello spirito, il solo veramente reale. L’unica infinita verità è conosciuta dall’uomo in alcuni dei suoi infiniti aspetti: l’uomo conosce delle verità, non la Verità; possiede il lume dell’intelligenza che, illuminandola, fa la ragione giudice delle cose di esperienza. Ogni singolo vero è concreto vero, sintesi dell’universalità dei principii e delle determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i principii in sè sono astratti, rispondiamo che è astratto e perciò irreale il puro particolare (almeno dal punto di vista specu- lativo), mentre è concreto e perciò reale il particolare illumi- nato dai principii, dove trova appunto la sua verità e con essa la sua realtà: la rinunzia della filosofia all’universalità è la rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione. Evidentemente la determinazione è limitazione e perciò noi conosciamo i veri, ma non la Verità nella sua pienezza, nè i veri quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola determinazione, nè tutte insieme possono esaurire l’infinita possibilità di conoscere che è il pensiero umano; perciò niente può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun vero, tranne la Ve- rità in sè; dunque, è fatto per Dio, perchè solo Dio, l’unum necessarium, può appagarlo. La vocazione dell’uomo è la stes- sa vocazione della filosofia; non per nulla è uomo per il pensiero. Il lume d’ intelligenza e di ragione, universale e infinito, è la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza che egli disponga della capacità di tradurla in atto; l’immagi- ne di quel che è l’assoluto Vero nella sua realtà. Per questo il filosofare è ricerca e sforzo, non la sapienza a cui aspira. D'altra parte, partecipando l’uomo della verità, porta conna- turata la molla che lo spinge ad essa, conficcata la spina che lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo che sia, è sempre infinitamente corto. È la sua grandez- za e la sua miseria; l’umana tristezza, la magnanima no- bile angoscia del filosofo e della filosofia, mestizia confortata 64 Filosofia e Metafisica dalla speranza che non può non nutrire chi veramente ama il vero ed insita nell’eroico sacrificio della ricerca indo- mabile. Perciò filosofare è moralità: implica l’impegno ini- ziale che il filosofo assume di cercare ex veritate; l’umiltà del soggetto pensante di fronte alla verità che cerca, già ama e verso la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula filosofica, un concetto speculativo è opera della mente, che con esso esprime un valore assoluto; perciò è risposta a Dio, sorgente di tutte le verità, Verità creatrice dei veri, Libertà creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che è la filosofia è dunque decisione di diventar buoni, di amare l’essere dovun- que s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca filo- sofica è la stessa legge della morale. « Non ci par degna del titolo di Sapienza quella cognizione che nulla opera sul cuore umano e che, quasi inutile peso, ingombra la mente del- l’uomo mortale senza accrescergli i beni, senza diminuirgli i mali e senza appagare o consolare almeno di non menzognera speranza, i perpetui suoi desideri » (°). Se non è così, la filosofia non è più tale: è la caduta del pensiero, di tutto l’uomo. Perciò la filosofia è ascesi, inizia- zione alla verità, come Platone dimostra in più parti dei suoi dialoghi e soprattutto in alcune pagine immortali e bellissime del Fedone. Ogni vero trovato è anche acquisto di una virtù intellettuale o pratica, norma regolatrice del nostro pensare e del nostro agire. Nè alcun vero si può trovare se lo spirito non si è disposto a trovarlo, se non è passato attraverso il difficile esercizio della purificazione. Perciò la filosofia è perfezionamento della natura umana: mortificazione, non compressione, delle sue debolezze. Non è contro la na- tura umana secondo un malinteso misticismo ascetico o un arido moralismo di astratta ragione, ma contro le sue mise- rie, affinchè sia autenticamente umana natura, e il filosofo quel libero uomo, che stupendamente Platone tratteggia nel Teeteto: libero dalle passioni e dagli inganni sensibili e per- (8) Rosmini, Teodicea, n. 4. Filosofia e concetto di filosofia 65 ciò riscattato all’autentica sensibilità; libero dalla passione della ragione, che pretende di essere il vero e si ribella di esserne scolara e perciò ricco di verace ragione e di profonda umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello razionale irragionevole. Gli è dunque essenziale l’umiltà, ra- dice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi creatura e di amare in sè il Creatore, testimonianza dell’Essere e del Bene, che cerca ed ama; di amare la propria esistenza come dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è legge d’amore, rende morali l’intelletto e la volontà ed ef- ficace l'impegno di vincere le nostre passioni e debolezze; ci dà il senso del sacrificio purificatore a cui siamo chiamati per ascendere o filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce l’umanità dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna e vigorosa la pianta. La filosofia è volontà di sacrificio: chi filosofa è consa- pevole di esser vittima della Verità. Perciò è rinunzia a quanto ostacola l’amore e il possesso interiore dell’unum ne- cessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora uma- nissima. Provocatrice di essa, la filosofia è choc, scuotimento di tutto l’essere umano, frattura con quanto non è essenziale al suo essere o è d’impedimento al raggiungimento della ve- rità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca, vuol conoscerLo, posse- derLo. La filosofia è charitas naturale, che si esercita col lume della ragione, datoci da Dio come il solo che ci faccia desi- derosi di Lui e sia condizione per conoscerLo. La Grazia, in- fatti, è data soltanto alla natura intelligente: il lume sopran- naturale al lume naturale. Ma l’uomo da solo, per filosofo che sia, sacerdote e sup- plice della verità, non riesce ad esserne veramente vittima: le miserie s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non del- l’antico — modello di condotta nella sua superiore e superba . imperturbabilità — ma del cristiano, coscienza vivente di dubbi e fede, di amore e speranza, di sacrificio e carità, pe- rennemente insoddisfatto e perennemente in attesa di rice- 66 Filosofia e Metafisica vere il dono che cerca. Egli non impersona nè la sapienza nè una determinata scienza, ma lo sforzo sublime verso la sa- pienza, l’appello perenne della creazione. Attesta la realtà dell'Essere, i limiti del pensiero, il gran benedetto e il gran maledetto da Dio, il perduto dal peccato e il riscattato dalla verità, fatto per la verità e che pure è più spesso sofisma e dubbio, negazione e distruzione. Si sacrifica in una formula, il filosofo, che può sembrare morta astrazione a chi ignora quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in essa. Sacrificio senza successo, che non vanta possessi o dominii; silenzioso, per- chè cripta che accoglie e conforta di pace la nudità del- l’anima; perciò autentico, che non rimpiange le caducità per- dute, non attende dagli uomini niente di male o di bene e conosce solo l’ansia per la verità sofferta. E quando il Bene tanto desiderato folgora la mente, il filosofo sa che non lo potrà esprimere; è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza che si dona resta inedita per tutti, tranne per colui a cui è donata. Vi è nella filosofia un’interiorità profonda, insondabile, che non si esprime e non s’insegna; perciò non s'impara come si fa ad essere filosofo (non è un mestiere): non lo saprà mai chi non lo esperimenta. 5. — La filosofia come sforzo di « ascesi » ed itinerario a Dio. Da quanto abbiamo detto filosofia risulta essere: a) amore per la Verità o per Dio, essenza di sforzo; b) possesso di veri parziali; c) ciascuno dei quali è acquisto di bene morale; d) perciò è purificazione ed ascesi, potenziamento non nega- zione dell’umanità dell’uomo; è riconquistata chiarezza del- l’autentico valore della creatura e della creazione. La sua essenza è dunque morale ed il suo fine è Dio. La filosofia ha la stessa finalità della religione. Non s’identifica con essa, ma ne ha bisogno: si ferma alla porta, bussa e chiede. Platone, forse per primo, nel Fe- Filosofia e concetto di filosofia 67 done, vide esattamente il problema e ne fissò i termini. Fi- losofia e religione, egli dice, hanno in comune il fine di li- berare l’anima dal sensibile e dalla schiavitù delle passioni, ma mentre la religione « si affida ad una divina rivelazione », la filosofia invece «segue il raziocinio ed in esso persiste ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero, del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi, e da ciò trae il suo vital nutrimento ». Ebbe torto Epicuro di eliminare dall’ideale della perfezione morale la via religiosa e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via della ricerca è la ragione, meglio il pensiero che è l’uomo nella sua inte- rezza, ma l’oggetto ultimo della ricerca speculativa è la ve- rità assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto della sua aspira- zione. La filosofia lo guida fino alle porte di Dio; è sforzo di ascesi non assunzione alla verità. L'essere assunti è un dono gra- tuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente amata; è la charitas soprannaturale che si dona alla charitas naturale, al filosofare. L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma l'apertura a Lui, come dice il Blondel. Ascendere fino ad un certo grado è in nostro potere; l'assunzione no; dunque la ragione è il dono naturale necessario, ma non sufficiente avente lo scopo preciso (ma quanto defettibile!) di spingerci alla conoscenza ed al possesso della Verità. La filosofia, « liberatrice dell’anima » (secondo un’espres- sione agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio, cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non dipende da essa: è Dio che salva; a lei compete soffrire, combattere ed amare, nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del suo problema assoluto è nella religione rivelata, nel gratuito folgorar della grazia. È la grande verità di Agostino: la fi- losofia prepara alla salvezza (moralità), non dà la salvezza (religione). Il problema della morale è filosofico, la sua solu- zione è teologica: i due ordini sono immensurabili. La fi- 68 Filosofia e Metafisica losofia, autonoma come ricerca — ritrovamento dei veri e conquista di virtù — non lo è come soluzione finale, come salvezza, acquisto dell’unum mecessarium, che costi- tuisce la sua essenza di sforzo. Una filosofia assoluta- mente autonoma è senza salvezza: amore senza speranza e senza fede; i saggi greci erano « senza speranza », come dice San Paolo. E questo perchè, scrive Pascal, « la vraie nature de l’homme, son vrai bien, et la vraie vertu, et la vraie religion, sont choses dont la connaissance est inséparable ». Significa che la religione neghi la ragione e con essa an- nulli e snaturi la natura umana? Niente affatto. La fede eleva, non uccide; Grazia non destruit naturam sed perficit et ele- vat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si legge: « Che se la ragione scorge l’uomo al limite della fede, essa a questa ancora il consegna, come a più certa guida e a più sublime maestra. — Macchè! La fede stessa lo riconduce poscia alla ragione, che diviene maestra sicura e guida infallibile quando dalla fede è confortata e sorretta ». Evitare i « due eccessi »: «esclure la raison, n’admettre que la raison », in quanto « si on soumet tout à la raison, notre religion n’aura rien de my- sterieux et de surnaturel; si on choque les principes de la raison, notre religion sera absurde et ridicule » (Pascal). La ragione si dona alla fede, perchè riabbia da essa quel che ha perduto e non ha più; e la fede è sempre generosa genitrice d’intelligenza, via di spirituale salute e di eterna beatitudine. CapritoLo II « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA? »(*) |. — La filosofia come ricerca « perennis » della verità. Domanda quanto mai imbarazzante, questa. Sì, « conce- pire » non è propriamente « definire », ma ogni « concezio- ne » porta implicita una « definizione ». Ora, è tutt'altro che facile, ancora oggi, dire « che è filosofia ». Il matematico sa da tempo che è matematica, il biologo che è biologia; noi fi- losofi non siam così fortunati, se pure quella è una fortuna: non sappiamo ancora che è filosofia — dico, non lo sap- piamo in due parole, alla spiccia, come due più due fan quattro —. Gli scienziati ridono dell’imbarazzo del filo- sofo, ma hanno torto: la filosofia non può chiudersi in una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e rifles- sione è infinito, perchè nessuna formula può esaurirne, «comprenderne », la totalità. Perciò nessuna umana ricer- ca è tanto perennis ed universale quanto quella filosofica. La filosofia come scienza del reale nella sua totalità, evi- dentemente, è scienza sui generis; nell’ordine delle scienze umane è la sola autonoma: il suo rimando — fondamentale e non accessorio, intrinseco e non estrinseco — è solo ad un sapere di ordine non più razionale e naturale, ma super-ra- (*) Il « Centre International de Synthèse » di Parigi ha pubblicato nel fasc. di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle Série) della « Revue de Synthèse » le risposte a questo tema generale proposto alla discussione, alla quale fummo gentilmente invitati a partecipare. Il testo italiano che qui si ristampa contiene qualche pagina in più di quello francese. 70 Filosofia e Metafisica zionale e soprannaturale. Nessun'altra scienza è autonoma: la storia, per esempio, ad un certo punto rimanda al problema del suo significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli, ecc.; le scienze naturali pongono invincibilmente numerosi problemi (che è il mondo? quale la sua origine? ha una fi- nalità ? che sono tempo e spazio?) che non compete ad esse risolvere. A questi e ad altri interrogativi è chiamato a ri- spondere il filosofo e, se anche lo storico o lo scienziato, non in quanto tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si può dire che la filosofia è l’unità delle singole scienze, scienza prima e ultima, in confronto alle altre che sono seconde o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia è ricerca della verità; se ricerca, non è la verità, l’ogget- to che la trascende e guida. D'altra parte, abbiamo detto che è scienza del reale nella sua totalità; perciò dobbiamo dire del reale in quanto verità. Ancora: la verità è di ordine spirituale; dunque la filosofia è scienza dello spirito che cerca — e nella ricerca è impegnato tutto l’uomo — la Verità to- tale o il Reale in sè, che fonda e fa essere ogni altra verità o reale finito; è il cammino dell’uomo, che dotato del lume d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad esso adeguato, a cui perennemente tende, senza che abbia ad osare di pre- tendervi. 2. — La filosofia e suoi rapporti con la sua storia e la scienza. Ma è tempo che rispondiamo direttamente a quel che il Centre ci ha gentilmente domandato: fornire argomenti pro o contro l'orientamento del pensiero del Cenzre stesso, il quale sostiene «une certaine conception de la philosophie dan ses rapports avec son histoire et avec la science ». Nessuno certo vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo sentiranno il bi- sogno di precisarne i termini; infatti, è necessario sapere cosa s'intenda per storia della filosofia per poter poi stabilire i rapporti tra essa e la filosofia. Precisazione anche opportuna, Filosofia e concetto di filosofia 71 se si pensa che, in Italia, per esempio, l’idealismo neohege- liano ha identificato filosofia e storia della filosofia al punto di risolvere l’una nell’altra e tutte e due nella storia della cultura, onde la filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che è lo stesso, per non esser nulla, per non avere più un oggetto proprio; se si pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili (tanto che qualche volta verrebbe voglia d’inventarsi un posi- tivista per averlo aperto e sincero avversario al posto di altri che si chiamano impropriamente «idealisti» e «spiritualisti»), ha concepito la storia della filosofia come pura esposizione «oggettiva » di sistemi e di « fatti» riguardanti la vita dei filosofi: ci ha dato compilazioni spesso filologicamente pre- gevoli, ma aventi il torto di mettere da parte la filosofia. Similmente, per stabilire i rapporti tra filosofia e scienza è altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e quali i rispettivi campi di competenza, per evitare che la fi- losofia non spinga il suo distacco dalla scienza fino al punto da negare a quest’ultima la qualifica di « scienza »; 0, al con- trario, che la scienza non pretenda ridurre la filosofia a sem- plice registratrice dei risultati scientifici; ad una particolare scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità; al- l’insieme delle scienze, come se fosse l’insieme delle specialità; alla conoscenza della natura fisica, sulla base dei contributi delle scienze particolari, come se essa dovesse restringere la sua indagine alle percezioni e alle leggi naturali, dimentica dello spirito e dei suoi problemi, cioè di se stessa, che, come ricerca filosofica, è già scoperta della realtà spirituale e, per sua in- trinseca necessità, conseguente approfondimento metafisico del suo destino. Detto ciò, credo che il nostro punto di vista appaia già chiaramente molto diverso da quello proposto dal Cenzre, il quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia come « synthèse des connaissances» «science plénière ». Se « sintesi» e «scienza plenaria» qui significano composi- 72 Filosofia e Metafisica zione o unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo accettare questa concezione della filosofia, la quale ha pro- blemi propri, estranei alle altre scienze, ad ogni singola come al loro insieme, anche se per i suoi problemi possa ricevere lumi ma non soluzioni dai ritrovati scientifici, che, nel loro complesso — il più completo e sviluppato — non esauriscono ‘e non esauriranno mai il contenuto della ricerca filosofica, la plénitude a cui essa aspira e per la realizzazione della quale tutto l’universo è insufficiente. A noi italiani, il termine Science con la maiuscola richiama il non lieto ricordo dei tempi del positivismo, quando si divinizzava la scienza, la si profetizzava risolutrice di tutti i problemi, anche morali e religiosi, con grave danno per la serietà della scienza stessa, fatta idolo da adorare, tanto che le cosidette réveries della me- tafisica facevano bella figura al confronto con le nuove réve- ries.... scientifiche. La Science, intesa come sapere assoluto e totale, non è più tale, ma idolatria e superstizione, fanatismo della scienza. Il controllo della filosofia fa sì — ed essa è chia- mata ad esercitarlo anche sopra ogni vero filosofico pretenden- te a porsi come verità totale — che ogni verità scientifica e la scienza in generale acquistino consapevolezza dei loro limiti e rinunzino ad una pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbi- traria extrapolazione e maggiorazione a volte aberrante di una verità parziale assunta a spiegazione di tutto il reale. Duplice dommatismo: di estensione — il sapere scientifico è esplicativo di ogni aspetto della realtà —; e di validità — esso è assoluto. Il controllo critico della filosofia rileva l’inconsistenza di tale dogmatismo e svuota il funesto mito illuministico dell’infal- libile scienza onnicomprensiva e della coincidenza tra pro- gresso scientifico, progresso culturale e miglioramento spiri- tuale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il più basso livello di cultura e una rudimentale coscienza morale e religiosa possono coesistere con la tecnica più progredita: nessuna scoperta o invenzione scientifica ha mai fatto pro- gredire nello spirito un solo uomo e mai ne ha elevato di un Filosofia e concetto di filosofia 73 solo millimetro la statura morale; anzi la decadenza della cultura occidentale coincide con lo sviluppo della scienza e della tecnica moderna e il suo precipitare nel fondo dell’in- cultura con il loro vertiginoso progredire. Conveniamo con il Centre che, nella successione delle filosofie, vi è « une logique interne » e che « dans le retour méme des doctrines, un progrès s'est accompli ». Ma, dire che il ritorno di dottrine filosofiche segna un progresso — oggi come domani, si può essere, senza scandalo, platonici o ari- stotelici, agostiniani o spinoziani, tomisti o hegeliani, mentre non si può essere più, per esempio, tolemaici dopo Copernico, Galilei e Keplero — significa affermare inconfutabilmente che la filosofia è una scienza diversa dalle altre, non riducibile ad alcuna di esse o al loro insieme, con problemi, soluzioni e ve- rità proprie, per cui non può essere la « science plénière » nel senso di « somma » (quanta meccanicità in questa parola!) dello scibile. Si è che, tra filosofia e scienza, prima di stabi- lire un rapporto quale che sia — anzi affinchè esso possa essere fondatamente stabilito — riteniamo sia necessario fissare una differenza non di quantità, ma di qualità. La filo- sofia, infatti, è conversione qualitativa di esperienze e di fatti quali che siano, trasposizione di essi in un piano diverso, in un ordine superiore. — La filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia e inessenzialità delle scienze. Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti a rovesciarne i termini, la concezione della filosofia proposta dal Centre e cioè: «que la synthèse des connaissances s’est constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que posaient les philosophies, depuis les origines, pour substituer peu à peu le positif à l'a priori, les vérités de la science aux imaginations ou aux réveries de la métaphysique ». Che è questa « sintesi delle conoscenze » che si propone rispondere 74 Filosofia e Metafisica alle questioni che pongono i filosofi « depuis les origines » ? Per noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari delle singole scienze che pongono domande ai filosofi, affin- ché costoro — da filosofi, con metodo filosofico e con spi- rito speculativo — rispondano. Non è la scienza chiama- ta ad esercitare un controllo sulla filosofia (e quando lo esercita, esso si rivolge alle stravaganze pseudofilosofiche o ai sofismi che non sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza, i cui principii sottopone a critica. Secondo le parole sopra ri- ferite, sembrerebbe che il compito della scienza, nei con- fronti della filosofia, sia quello di dimostrare quanto siano immaginari i filosofemi escogitati dai filosofi e fanta- stiche le loro costruzioni metafisiche, gli uni e le altre da sostituire con « verità scientifiche ». A parte tutto, è facile ribattere che le « imaginations » e le « réveries » della scienza, come comprova la sua storia, non hanno niente da invi- diare a quelle di alcuni filosofi: vi sono le « rèveries de la métaphysique » e le «réveries de la science »; ma come si avrebbe torto a dire che tutta la scienza sia fantasticheria, così si ha torto ad identificare la metafisica con la strava- ganza, quasi si trattasse di una manifestazione patologica della mente umana. Difendere la metafisica, per noi, è di- fendere l’essenza stessa della filosofia: se la metafisica fosse fantasticheria, fantasticheria sarebbe anche la filosofia; ma si può affermare dogmaticamente che le metafisiche e la ‘metafisica siano senz'altro fantasticherie? Se così, è fanta- sticheria la filosofia che, dalle origini ad oggi, è stata sem- pre metafisica; fantasiosa la ragione umana che pone, come suo bisogno fondamentale essenziale e naturale, l’esigenza insopprimibile di un sapere metafisico. Mi faccio forte del- l’autorità dello stesso Kant che, nella «Prefazione » alla prima edizione della Critica della Ragion pura rileva come i « sedicenti indifferenti » per la metafisica « finiscono per cadere sempre in affermazioni metafisiche »; e ne traggo la conseguenza legittima ed evidente: essenzialità della filosofia Filosofia e concetto di filosofia 75 e inessenzialità delle scienze. Il sapere scientifico è infor- mativo; la scienza soddisfa una curiosità intellettuale; il sapere filosofico è formativo e terribilmente impegnativo: risponde ad un bisogno totale dell’uomo totale. Si può non essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo sofia non ci si può sottrarre. L'avventura della scienza si può correre e non correre; l’avventura della filosofia è obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la richiesta essenziale della sua umanità profonda. L’uomo è naturalmente compromesso a percorrere l’itinerario della filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel mo- mento essenziale della ricerca essenziale. Di qui la «se- rietà » dell’indagine speculativa, l’intransigenza del filosofo. La filosofia è « molesta » a chi filosofa e soprattutto a quanti si adagiano nelle consuetudini e negli ordini costituiti; per- ciò rischia sempre la cicuta, mentre la scienza in ogni epoca è circondata di rispetto e protezione. Ancora: che significa « substituer peu à peu le positif à 1° priori »? Che s'intende per « positivo » e per «a prio- ri»? Positivi sono i « fatti», dicevano i positivisti; noi, me- glio, che reali sono quae facta sunt, ma tra le cose quae facta sunt vi è anche l’uomo, il pensiero, lo spirito, il quale «è positivo », ma è l’«a priori » di ogni fatto; infatti, non vi è « fatto », almeno nel senso filosofico, che non sia anche coscienza del fatto. Un fatto positivo, diceva Pascal, sono anche Dio, la Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il po- sitivismo questi « fatti»? A forza di sostituire il positivo a l’a priori, nel senso in cui i termini sono usati dai posi- tivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo, pericoloso all’esistenza stessa della scienza e misconoscitore dei diritti dello spirito. Non vi è fatto positivo senza espe- rienza nel senso più esteso della parola, ma non vi è cono- scenza intellettiva del positivo — degli enti finiti che costi- tuiscono il reale cosmico — senza un 4 priori; e il reale finito, per ciò stesso, rimanda al problema dei suoi prin- 76 Filosofia e Metafisica cipii costitutivi, cioè alla metafisica, che nessuna verità scien- tifica potrà mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la me- tafisica, anche se, per sua buona sorte, non è positivistica. 4. — Ancora sulla distinzione fra filosofia e scienza. Per il Centre, il filosofo è un gran peccatore contro la filosofia senza essere un penitente. Infatti: « Il explique le réel par l’imaginaire. Il explique le tout par une partie du réel. Il fait prédominer la tradition ou le sentiment sur la raison. Il cerche l’originalité è tout prix. Par une forme personnelle, il rend la pensée floue ou obscure. Il est poète, artiste, métaphysicien, ou mage, au lieu d’étre le pur inter- prète des résultats acquis par l’effort collectif des généra- tions pensantes ». Dato il modo come il Centre intende la filosofia, si può spiegare questa severa requisitoria contro il povero filosofo; dato il modo come la intendiamo noi sono necessari chiarimenti e precisazioni. Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti in- sieme non sono la filosofia (perisca il filosofo, ma viva la filosofia), è anche vero che, storicamente, i filosofi e i loro sistemi lo sono; pertanto, i terribili peccati dei filosofi sopra elencati, sarebbero anche della filosofia. E allora, perchè ce ne occupiamo, se essa spiega il reale con umagiazio, sa- crifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi po- trebbe assolvere il filosofo e la filosofia? Forse la scienza, che non sarebbe soggetta a questi traviamenti? E perchè, nonostante tutti i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne hanno mai potuto fare a meno, mentre, come dice ancora Pascal, possono fare a meno di tutte le scienze? Perchè quando l’uomo si trova di fronte a se stesso e al problema della sua consistenza, cioè quando veramente pensa in al- tezza e profondità (metafisicamente, appunto) non chiede risposta alla matematica, all’astronomia o ad altra scienza, ma alla filosofia? Filosofia e concetto di filosofia 77 La requisitoria di sopra è dunque da rivedere. Se il filo- sofo « spiega il reale con l’immaginario » è da riprendere subito; ma se s'intende per «immaginario » ogni principio a priori o metafisico, è da consigliare di spiegare il reale con- tingente e particolare proprio con i principii necessari ed uni- versali. Se sottomette la ragione alla tradizione e al senti- mento è da ammonire che la filosofia è ricerca razionale; ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al pari della ragione. Se è poeta ed artista non è certo filosofo, ma non è poi sì gran danno poichè anche arte e poesia, come tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero filosofo; e quanto ad essere « mago », credo che questa pa- rola siastata messa accanto all’altra di « metafisico » solo per spirito polemico, senza che risponda ad una afferma- zione positiva che si presti ad essere discussa. Se poi cerca l'originalità ad ogni costo, invece che la verità, è da con- dannare senz'altro, ma come « un originale » non come « un filosofo »; così pure se spiega il tutto con una sola parte del reale, facendo un'’illegittima maggiorazione d i un principio arziale; ma anche di ciò, come abbiamo detto, è respon- sabile la scienza, per esempio, quando presume sostituirsi alla filosofia e risolvere problemi che non le competono. Secondo il punto di vista del Centre, affinchè il filosofo non pecchi, bisogna che sia «il puro interprete dei risultati acquisiti dallo sforzo collettivo delle generazioni pensanti ». In parole mie, questa affermazione significa: « perchè il filosofo sia filosofo e non erri bisogna che smetta di fare il filosofo ». Una delle due: o egli si limita a registrare i risultati acquisiti (da chi? dalle scienze?) e non fa filo- sofia e nemmeno storia della filosofia; o « interpreta » i ri- sultati acquisiti nel senso che li ripensa, li fa propri per acqui- sire nuovi risultati, che segnano un avanzamento della ve- rità rispetto ai primi, e in tal caso è filosofo, se i suoi risultati sono filosofici e non puramente scientifici. Pecche- rei di indelicatezza dicendo che da un pezzo in Italia una 78 Filosofia e Metafisica tale concezione della filosofia si considera pacificamente sor- passata, se la mia conoscenza, credo sufficiente, della filo- sofia francese contemporanea non mi autorizzasse a dire che anche in Francia non pochi e non certo trascurabili pen- satori sono del mio stesso parere. Del resto, anche gli stessi teorici della scienza, universalmente, fondano ormai i rap- porti tra scienza e filosofia sulla base di una diversa con- cezione di quest’ultima. In due punti il Cenzre insiste sulla concezione della filo- sofia come « sforzo collettivo », come «coopération à un grand oeuvre collectif »; purtroppo, nemmeno questa volta posso trovarmi d’accordo. Se scienza e filosofia s’identifi- cassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di atti- vità da tenere ben distinte (anche se non separate), ProprlO questo è uno dei punti di distinzione: la scienza è opera sforzo collettivo, la filosofia opera di sforzo personale. Mi spiego: uno o più scienziati iniziano la loro ricerca dal punto in cui l’hanno lasciata i loro predecessori e la spingono fino ad un certo grado per lasciarla nelle mani di altri e così via; nè i successori rimettono tutto in questione, ma accet- tano, come acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ ogget- tività della verità scientifica è impersonale e perciò la scienza è sforzo collettivo, opera di collaborazione ed è bene che lo sia. Non così la verità filosofica: è oggettiva, ma non imper- sonale; è impegno totale del filosofo, è la sua (personale) verità oggettiva. Essa non può essere accettata z0ut court da un altro filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione è opera del singolo, non di più uomini. Ciò dimostra non il soggettivismo o il relativismo della verità filosofica, ma il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qual- siasi verità scientifica; prova l’assoluta spiritualità della filo- sofia, il suo carattere d’interiorità e, diciamolo pure, la sua capacità creativa: se il poeta, il filosofo, lo scrittore non cominciano da capo, non usano le parole più comuni come nuove di zecca, come se mai nessuno prima le avesse usate, Filosofia e concetto di filosofia 79 non c’è poesia, non arte, non filosofia: non c’è opera di creazione. Ogni uomo non è la sua scienza, ogni filosofo è la sua filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze insieme non sono l’umanità o spiritualità dell’uomo; la filosofia lo è, anche se non può dare la soluzione totale: al limite massimo si apre ad una verità che non è razio- nale ma superrazionale, non di ordine umano, ma divino o soprannaturale. Ciò chiarito, consentiamo col Centre nel deplorare il sog- gettivismo radicale di certa filosofia contemporanea che si perde in puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti di tormento e angoscia, specie di barocco filosofico. Ma non tutto l’esistenzialismo va condannato (per esempio, alcune forme di quello francese meritano la più attenta conside- razione) e, in qualunque caso, di esso va conservato il senso della persona umana, il richiamo all'importanza della meta- fisica che sia tale e non pura descrizione fenomenologica e, quando ce l’ha, quell’anima religiosa che ha il merito di aver contribuito a recuperare alla ricerca filosofica. Ma è tempo che concludiamo senza più oltre abusare della ospitalità che ci viene concessa. Lo facciamo come noi possiamo farlo: 4) vi è stata una rivoluzione perenne nella filosofia dovuta a Platone: non le cose sono reali, ma le Idee, e non le Idee aspirano al grado di realtà delle cose, ma queste al grado più alto di realtà delle Idee. Reale e positivo è lo spirito e la filosofia è scienza dello spirito e lo spirito è verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata dal Cristianesimo che ai concetti di reale, verità, persona, Dio ecc. ha dato ben altro significato. c) La filosofia è solo scienza che è sapere e saggezza; pertanto i « réveils reli- gieux » e le « réveries mystiques », verso cui il Centre sembra tutt'altro che tenero, sono, i primi quanto mai benefici an- che per una maggiore consapevolezza e coscienza critica della filosofia e le seconde tutt'altro che «réveries». Da ultimo, diciamo che di Scienza con la maiuscola non ne 80 Filosofia e Metafisica conosciamo nell’ordine umano: vi è solo quella di Dio. L’uomo, dice Pascal, non è capace di una scienza di ordine assolutamente perfetto, anche se, direbbe il Blondel, vi aspi- ra necessariamente ed incoercibilmente, ma sempre ineffica- cemente. Certo, la scienza deve affermare la sua verità, ma non « sa vérité souveraine », perchè qualcosa la sorpassa infi- nitamente: se è scienza naturale, la sorpassa quella filosofica; se filosofia, la Scienza di ordine extra e superfilosofico. CapitoLo III FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE Il filosofare implica due termini: la ricerca e la verità, il soggetto cercante e l'oggetto cercato. Un’analisi del con- cetto di filosofia s’identifica con quella di questi due termini. Che è ricerca? Per definire questo termine è necessario tener presente anche l’altro con cui è in rapporto intrinseco e necessario; e la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è essenzialmente, assolutamente, universalmente, necessariamente: chi cerca la verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza; dunque cerca il tutto dell’oggetto; non può non cercarlo che con il tutto del soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno di tutta la vita spirituale del cercante, che è esso stesso im- pegnato nel cercato: come realtà spirituale, e per il grado di verità o di essere che è, egli non è fuori ma dentro l'oggetto cercato, la verità. Chi cerca, dunque, cerca con’ tutto se stesso: con il corpo e con lo spirito, con i sensi e con la ragione, con l'intelligenza e con la volontà. Io cerco il positivo assoluto (l’essere-verità) con tutta la positività di cui la mia natura umana è capace. Cercare la verità o filo- sofare è perfecte quaerere: non una astrazione che opero su di me, ma una concentrazione di tutto il mio essere nel- l’atto del cercare. Verità è unità; cercarla è orientare verso 82 Filosofia e Metafisica lo stesso punto tutte le capacità e le risorse del cercante, è come raccogliere ed unificare tutti i suoi atti; dunque la filosofia come ricerca della verità è movimento di conver- genza integrale dell’uomo totale verso la verità integrale. Movimento di coesione e compattezza, genera la solidarietà di tutte le forme della vita spirituale: quale che sia la ve- rità che cerco (il bello, il bene, il vero ecc.), come verità presenta sempre gli stessi caratteri dell’immutabilità, uni- versalità e necessità; richiede pertanto lo stesso atteggia- mento spirituale; e quantunque a ciascuno di questi veri s'indirizzi una forma particolare di attività — la sensibilità al bello, la volontà al bene, l’intelligenza al vero ecc. — tutto lo spirito collabora alla sua conquista e scoperta. La filosofia come ricerca della verità è dunque la stessa vita spirituale, impegnata nella ricerca totale della verità totale. Questa la filosofia 4 parte subiecti; e a parte obsecti? Lo spirito che cerca la verità, per ciò stesso: 4) è fatto per la verità; 5) ma non è la verità, che è l’oggezto a cui è naturalmente indirizzato. Pertanto l’espressione: «lo spirito che cerca la verità cerca se stesso» non è affatto vera se significa identità del soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso che lo spirito trova ed attua tutto se stesso nella verità: non è vera nel senso dell’« immanenza », bensì in quello del- l’« interiorità ». Ma ciò conferma l’oggettività, la necessità e l’universalità del vero e cioè sempre che esso non è lo spi- rito cercante, ma il suo oggetto, dallo spirito distinto e indi- pendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità. Il reale in quanto reale è verità. Dunque l’oggetto del pen- siero è reale, ma non l’ente in senso generico, bensì l’ente in quanto è suo oggetto e dunque verità. Ma il reale come verità è il reale come intelligibile, come ciò che è vero; dun- que: realtà è verità; verità è ciò che è intelligibile; l’intelli- gibile è l’oggetto del pensiero. È la verità perenne dell’idea- lismo oggettivo: l’oggetto concepito in termini di verità 0 realtà intelligibile. Il soggetto non può essere concepito se Filosofia e concetto di filosofia 83 non in termini di pensiero; il suo oggetto non può essere pensato e conosciuto se non in termini di verità; dunque, la filosofia, a parte subiecti e a parte obiecti, si definisce come la scienza della vita spirituale. Ma a questo punto è necessario approfondire ancora il rapporto pensiero-pensante verità-pensata, gerarchico, di di- ndenza. Se lo spirito « tende », « aspira » alla verità, ne è attratto e dall’interno stimolato ad essa, significa che il suo oggetto gli è superiore; se è desiderio di verità non è essa, che è eterna ed immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè immutabile è l’aspirante al possesso del divino, che gli è interiore come riflesso della Verità in sè che lo trascende. D'altra parte, se lo spirito la cerca vuol dire che è fatto per la verità; in questo senso e per questa sua aspirazione è anch'esso qualcosa di divino: divino eros della divina verità. Da ciò consegue che non è il pensiero che pensandola la pone, ma è la verità che pone il pensiero; dunque è prima ed indipendente da esso, è anche quando non è pensata, anche se nessun pensiero la pensasse. Infatti, era prima che le menti umane fossero; e le menti umane non ci sareb- bero state se la verità non le avesse create. Ma com'è possibile una verità non pensata, se non c’è verità se non per un pensiero che la pensa? Esatto, e da ciò consegue che se la verità è eterna — madre e non figlia dei singoli veri che pensano le menti umane — essa è sempre stata, è stata sempre pensata, ma solo il Pensiero eterno ed immutabile può eternamente pen- sare l'eterna ed immutabile verità; dunque vi è il Pensiero eterno ed assoluto con cui s’identifica la Verità eterna ed as- soluta; esiste la Mente divina, il cui oggetto eterno ed im- mutabile è la verità, anzi è essa stessa la Verità eterna ed immutabile, in quanto in essa il pensiero e il suo oggetto s’identificano; esiste Dio come verità eterna ed assoluta; Dio che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere è verità, Pensiero, Mente. 84 Filosofia e Metafisica La Mente-Verità assoluta crea — la verità è feconda per se stessa — menti o spiriti fatti per la verità, ma proprio per questo le menti create non sono la verità: Dio la Mente pensante, gli spiriti le menti pensate alle quali per natura è essenziale pensare la verità loro oggetto, cercarla e sco- prirla. Nella mente creata la verità non s’identifica con essa; dunque la verità come è data alla mente creata non è la Verità come è in sè; è come verità astratta della Verità, im- magine reale di essa. Nel mio pensiero leggo la verità, come nello specchio vedo l’immagine che vi si riflette; immagine non ombra, verità partecipata e perciò conosciuta da me in maniera diversa da come è conosciuta dalla Mente di- vina; ma come verità è anch’essa assoluta. L'immagine è nello specchio; dunque la verità data alla mente finita è in essa, ma, a differenza dello specchio, la mente ha coscienza del vero che intuisce come suo oggetto; perciò è nella verità che le è interiore e la trascende. Non è la mente che giudica la verità, ma è la verità che la fa capace di giudizi veri, cioè necessari ed universali. La ve- rità è sempre divina; umana è la sua scoperta attraverso la ricerca; umano è il leggere in essa. Ecco: leggere nella verità, raccoglierla nella mente, fare che l’una sia presente all’altra; è anche un raccogliersi di tutto l’uomo, concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma rac- cogliere la verità e raccogliersi in essa è acquistare coscienza di noi in un duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che essa è in noi senza essere noi, pur essendo la profondità di noi. Dunque leggere che è filosofare: l’umano cercare e scoprire è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo sofia è l'intelligenza della verità, la mente pensante vi- vente nella sua luce. La mente non può pensare alcun oggetto se non in ter- mini di verità, di ciò che è intelligibile; dunque, quando penso secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-. rità che è in me, e non è la Verità in sè: non posso pensare Filosofia e concetto di filosofia 85 me stesso nè pensare (conoscere) il mondo se non in termini di verità. Il pensiero passa sempre per la verità quale che sia l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie nella sua verità, che è la sua realtà. Ma allora pensando io penso Dio, sempre, anche quando non Lo penso, anche quando penso che non esiste; infatti, quando penso e conosco un vero, penso e conosco quel che Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia mente fosse mente, cioè capace di pensare e conoscere. Dunque, io penso perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non faccio essere la verità, ma essa fa che io sia un essere pen- sante la verità, quella che a me è consentito pensare e conoscere, ma sempre tale che la sua presenza mi obbliga 2 trascendermi, a riconoscere che è più di me, non è da me; è dalla Verità in sè o da Dio, da cui è stata estratta per essere donata alla mente creata, intermediaria tra la crea- tura e il Creatore. La verità che è in me è la molla che mi spinge a trascendermi e a trascendere essa che pur mi trascende, mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni mente, rende insonne la mia ricerca. Se è così, la filosofia come ricerca della verità è scienza di me che cerco la Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’iden- tifica con la ricerca sulla vita spirituale finita e creata che, scoprendo in sè la presenza mediata della Verità assoluta creante, si volge alla ricerca essenziale e totale dell’Essere infinito. PARTE SECONDA CONCETTO DI METAFISICA E SUA PROBLEMATICA INTERNA CapritoLo I LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI l. — «Cris» ed essenzialità della metafisica. Una banalità dire che il concetto di metafisica è il più complesso dei concetti speculativi, se il semplicismo di alcuni pensatori moderni e contemporanei non avesse disinvolta- mente concluso che la metafisica è una pseudoscienza filo- sofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente esca- vazione critica che il pensiero, implacabile, ha perseguito da Cartesio ai nostri giorni. Chi fa questo discorso, defini- tivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di aver concluso un discorso infinito si crede in possesso di una sem- plificazione estrema del concetto di metafisica e di un ap- profondimento così totale di esso da poter affermare che metafisica non è, che è sogno — opprimente o generoso — di un particolare filosofare ormai irreparabilmente tramon- tato. Se davvero i negatori della metafisica fossero riesciti a concludere definitivamente il loro discorso, bisognerebbe considerarli metafisici così consumati da consumare senza residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da far trasparire il suo vuoto e il suo nulla: conosciuta e sondata profonda- mente è risultata nient’altro che una tenace illusione pro- dotta dal dommatismo razionale. Altri pensatori, meno im- prudenti, si sono astenuti o hanno creduto di astenersi dalla metafisica: non posizione antimetafisica, ma ameta- % Filosofia e Metafisica fisica, d’indifferenza o di agnosticismo. Ma gli uni e gli altri si sono addossati la responsabilità — conseguenza in- vincibile della loro posizione — di considerare il problema metafisico come non essenziale e necessario — e perciò acci- dentale e contingente — alla filosofia. Infatti, se è possibile filosofia senza metafisica, questa non risulta essenziale alla prima: solo per accidente, contingentemente e quasi per una sua prolungata immaturità, la filosofia per millenni ha con- siderato fondamentale e ad essa connaturato il problema metafisico. Libera ormai di questa pesante ed inutile sopra- struttura, ha finalmente scoperto, nella sua piena maturità «critica » e « problematica » che il suo fondamento essen- ziale è altrove. Evidentemente per gli anti e gli a-metafisici non si tratta di affermare che alla filosofia non è essenziale questa o quella soluzione del problema della metafisica, ma di concludere che non le è essenziale la metafisica tour court. Alla filosofia è essenziale, per esempio, il problema politico o quello del- l’arte o dell’economia, che l’umanità non potrà non porsi fino a quando penserà, ma non le è affatto essenziale il pro- blema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi, da quando gli si è dimostrato che la metafisica non è, non è scienza e non è vera filosofia, di diritto e di fatto non ci dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è perchè egli, oltre che di ragione, è dotato di « immagina- zione »; per maturo che sia, conserva sempre un grado irri- ducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè non riesce mai a guarire dalla sua tendenza ad astrarre. Ma proprio ciò prova come la metafisica sia il prodotto di attività inferiori e come la sua storia si possa identificare con quella degli errori dell’immaginazione e del dommatismo della ragione astratta, ridurre magari ad un capitolo della psicopatologia. In breve, si afferma: a) si può (si deve) porre e risolvere il problema dell’arte o quello della economia o qualsiasi altro, senza che sia affatto necessario preoccuparsi della soluzione del . Concetto di metafisica 9I problema di quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo ha più interesse a sapere quale sia la forma politica più giusta o meno ingiusta o se l’arte sia un'attività alogica o logica, anzichè conoscere che cosa egli sia, donde venga, che ci stia a fare nel mondo, dove vada. Questi sono i pro- blemi inessenziali e non necessari, senza dei quali, e meglio, si fa — sempre concretamente, seriamente e con mente sana — della vera filosofia, poniamo, intorno alla repub- blica o alla monarchia, all’utile o al piacere! Antimetafisici e a-metafisici hanno sempre lamentato le aberrazioni della metafisica e si può dar loro ragione quando si tratta, per esempio, di certe metafisiche idealistiche o materialistiche, ma credo che non sia stato deplorato abbastanza il dilettan- tismo vacuo dell’antimetafisica moderna e contemporanea. Infatti, solo per aberrazione o errore della mente (da al- cuni amato e vagheggiato con lunghi pensieri) si può ne- gare che l’esigenza metafisica sia naturale, essenziale e uni- versale. Già Kant nella Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura osserva che «i sedicenti indifferenti finiscono per cadere sempre in affermazioni metafisiche »; e il Gentile — il solo dei neohegeliani italiani contemporanei che abbia avuto mente di filosofo — rileva (La riforma della dialettica hegeliana, Messina, 1923, II edizione, p. 110) che «c’è un momento immancabile nello sviluppo ideale dello spirito umano, che potrebbe dirsi il principio eterno della filosofia: quel momento in cui il contrasto della morte con la vita, la differenza tra il non essere e l’essere, spinge l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere? ». Questa domanda, che è la posizione più efficace del problema metafisico, «suona nei secoli, e riassume tutta la storia del pensiero umano » (ici, p. 114). Perciò Aristotele, che di essa ha dato la formulazione più profonda e più sem- plice, pone a fondamento di tutte le scienze il problema che si aggira « intorno all’ente in quanto ente» (#e9ì 705 4 + ” ovtos dv). 92 Filosofia e Metafisica Il problema metafisico si presenta così essenziale al pen- siero (e perciò alla filosofia) da fare osservare da qualche studioso che, in fondo, tutti ammettono un concetto del reale, anche coloro che negano la metafisica e si dichiarano antimetafisici: tutti consideriamo realtà, ha scritto recente- mente Mons. Olgiati in un articolo chiarificatore (Il con- cetto di metafisica, in « Riv. di filos. neosc. », fasc. IV, 1945, p- 226) quel che è in qualche modo, cioè che non è il puro nulla; e perciò tutti concordiamo che qualcosa di reale c’è (ivi, p. 228). Dunque, « persino i negatori della razionalità del reale, come altresì i negatori della metafisica, fondano le loro dottrine, e le vivificano in ogni momento di esse, su un loro concetto di realtà » (01, p. 232). Se ogni sistema ha un suo concetto della realtà in quanto realtà e « non può non averlo, sotto pena di venire escluso dal mondo filoso- fico » e se tale concetto lo hanno tutti (chi dice, per esempio, che la realtà è storia, concepisce la realtà come storia; chi tutto riduce a problematicità, definisce la realtà come proble- maticità), « ne risulta che ogni filosofo ha una sua meta- fisica, non essendo quest’ultima null’altro se non la scienza che studia la realtà în quanto realtà » (p. 242). Se fosse vero quello che scrive Mons. Olgiati — e vorrem- mo che lo fosse — non si dovrebbe parlare, ormai da tempo non breve, di una crisi della metafisica in generale, nè di posi- zioni negatrici di essa, ma soltanto della crisi della classica metafisica dell’essere e del conseguente succedersi di altre concezioni del reale in quanto reale, cioè di metafisiche diverse da quella e tra loro. A noi sembra invece che nel pensiero moderno e contemporaneo vi sia un vero e proprio rifiuto e mépris della metafisica (non di questa o di quel- la) e chi nega la metafisica sic et simpliciter e si dichiara antimetafisico lo sia effettivamente e non che voglia dire soltanto: «io nego la metafisica dell’essere o quella del pensiero o altra che sia, ma sono ugualmente metafisico, Concetto di metafisica 93 in quanto concepisco la realtà in un certo modo». Chi, per esempio, dice che il reale è il divenire storico o la pura problematicità, nega che esiste un principio assoluto, che al di là del mondo «fisico» — nel senso di « questo » no- stro mondo — vi sia alcunchè, come pure nega che in « que- sto» mondo vi siano enti o sostanze che soztostanno alla pura fenomenicità. Dal punto di vista dell’Olgiati, invece, la polemica antimetafisica, dal Kant e dallo Hegel in poi, sarebbe puramente apparente; in realtà si tratterebbe di una serrata discussione tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi diversi di concepire la realtà in quanto realtà. Al contrario, si tratta di posizioni (se siano da considerare filosofiche o no è altro discorso), le quali negano decisamente ogni prin- cipio assoluto, qualcosa al di là del nostro mondo o al di qua o al di sotto di quel che il divenire manifesta nel suo divenire; ammesso pure che è, negano che sia conoscibile e dunque negano la possibilità di una metafisica come scien- za, cioè la validità di una risposta filosofica quale che sia alla domanda di che cosa è il reale in quanto reale. E questo è negare senz'altro che vi è una metafisica e non un sem- plice contrasto su che cosa è realtà per il fatto che si nega l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale che sia. Noi crediamo, dunque, che il problema vada impostato in altro modo e precisamente: 4) la filosofia come pura pro- blematicità o si risolve nella contraddizione in termini di con- siderare il problema come soluzione — la soluzione del problema è porre e chiarire il problema stesso —; o, nel porre i problemi, porta in sè invincibilmente l’esigenza e gli elementi reali della soluzione, cioè delle risposte per cui i problemi han senso e trascendono lo stesso problematiz- zare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è necessario un principio assoluto, che la ricerca può scoprire ma non creare; la guida, trascendendola, anche come ri- cerca dello stesso principio assoluto. In tal modo, la filosofia 94 Filosofia e Metafisica come problematicità rivela essa stessa, intrinsecamente, l’esi- genza metafisica (e non solo l’esigenza) del principio pri- mo ed assoluto del sapere. 5) Similmente la filosofia come storicismo assoluto o divenire perenne, o si risolve nella contraddizione in termini di considerare l’essere come dive- nire, oppure, nel momento stesso di porre il problema del divenire, sporge all’essere che il divenire fonda e trascende: fa scaturire irresistibilmente l’esigenza di un principio (e non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del divenire stesso e della storia, che non è storico nè dive- niente. La filosofia del divenire, quale richiesta intrinseca al suo stesso dinamismo, pone anch'essa l’istanza metafisica. c) Da ultimo, le filosofie immanentistiche in generale, pur non potendosi dire tutte anti o ametafisiche, quando hanno perseguito e sviluppato fino in fondo il principio o demone dell’immanenza, solo arbitrariamente (e dunque non razio- nalmente) possono concludere per la sua verità, in quanto qualunque sforzo, il più impegnato e critico, di autosuffi- cienza della natura e dell’uomo non è sufficiente a vincere la consapevolezza della nostra insufficienza e della contingenza del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ric- chezza del nostro spirito e una sua detonalizzazione — so- lo una concezione non razionale e non razionalmente giu- stificabile dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque astratta — ci possono convincere della nostra autosufficienza ed adeguazione alla natura, che, a questo prezzo, è la no- stra degradazione al finito senza aspirazione d’infinito, ad un destino puramente terreno, cioè di nulla. È come se per dimostrare che gli uccelli non son fatti per volare, taglias- simo loro le ali; ma anche in questo caso, l’impedimento in- naturale non spengerebbe in essi il desiderio istintivo del volo. L'esigenza della trascendenza, nell'uomo, è indomabile; in lui sono tutti i dati sufficienti e necessari per dimostrarne l’esistenza. Non tener conto di ciò è mettere al posto del- . l’uomo reale e concreto una sua figurazione immaginaria o Concetto di Metafisica 95 un’astrazione; infatti l’immanentismo assoluto è proprio esso frutto della immaginazione e dell’astrazione. In questo sen- so, conveniamo con mons. Olgiati che anche — soprattutto — l’indagine intorno a che cos'è la realtà in quanto realtà è concreta come ricerca del principio essenziale del reale, che non può farsi con procedimento astrattivo, nè per enu- merazione (p. 229). Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una prima con- clusione: non ogni negazione della metafisica, anche la più decisa, è sempre un’affermazione metafisica, secondo la tesi dell’Olgiati; ma qualsiasi posizione anti o ametafisica porta in sè immanente, intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile ed ineliminabile della metafisica; e se non vede gli elementi validi a soddisfarla, ciò prova che è anti o ametafisica per difetto di approfondimento critico della natura del pensiero e del reale. Così non poche posizioni speculative ci si pre- sentano, non come tante diverse antimetafisiche pur meta- fisiche, bensì come tanti sforzi inani o inefficaci — meglio come un solo sforzo che muove da diversi punti di vista — di abolire la metafisica, che rinasce, invece, dalla sua stessa negazione, invincibilmente. I tentativi antimetafisici ci ri- sultano, dunque, essi stessi, tante prove della ineliminabilità dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti e l’ametafisica non possono e non potranno mai escludere la possibilità della metafisica, la quale è possibilità assoluta, il risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica. E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo accennato: quando dite all'uomo: «tutto è problema », risponde: « sarà vero, ma io son fatto per la soluzione »; « tutto è qui », confessa: « ed in me è reale e naturale l’ aspirazione all’al di là »; « tut- to l'universo è tuo », aggiunge: «ed io sono più dell’uni- verso e vi è troppa dignità in me per potermene acconten- tare; anche se tutto l’universo fosse mio non basterebbe perchè fossi me stesso e in me stesso capissi fino in fondo »; « tutto è relativo », obietta: « ed io sento di esser fatto per l’assoluto, % Filosofia e Metafisica so di avere in me stesso una presenza di assoluto »; « tutto è divenire », protesta: «la mia vocazione è l’essere perchè l’essere è la mia radice, il principio del mio pensare, il de- stino della mia esistenza ». Il discorso sul finito non si con- chiude mai su se stesso, ma rompe e dilaga, come la prima- vera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino il discorso sul Nulla sottintende sempre un silenzioso e per- ciò interiore, appassionato e cocente discorso sull’Essere: chi dice: « nulla è di ciò che è », intende dire: « solo l’eterno è reale ». L’assoluto nihilismo è una disperata ma potente apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi, piuttosto che con- siderare metafisiche anche le filosofie antimetafisiche, pre- feriamo considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano nelle loro istanze antimetafisiche delle filosofie, in quanto, dove manca metafisica, manca filosofia, che è indagine sul- l’essenza della realtà in quanto realtà, ricerca del principio assoluto, risposta ai problemi che investono la nostra ori- gine, il senso supremo e autentico della nostra vita, il destino della nostra esistenza. 2. — Metafisica e trascendenza. Le istanze della interionità. Questo discorso sottintende una equazione: metafisica uguale trascendenza, perchè tale è anche la filosofia. Se filo- sofare è cercare, l'oggetto della ricerca trascende la ricerca stessa; se filosofia è scoperta del principio assoluto, questo fonda e condiziona ogni filosofare e perciò trascende il pen- siero che indaga e desidera scoprire; se filosofare è inappaga- mento del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso, è già trascendenza implicita e aspirazione esplicita ad una realtà da e per cui è tutto ciò che è ('). Perciò alla meta- (1) L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in « Salesianum », genn.-marzo 1948) trova questa mia definizione della metafisica « inadeguata perchè si ferma soltanto sull’esigenza della trascendenza, la quale costituisce certamente l'elemento riso- lutivo e il punto di arrivo di ogni metafisica autentica, ma non è tutta la metafisica ». Esatto, purchè si tenga fermo che non vi è metafisica senza tra- Concetto di metafisica 97 fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-uni- versale e una relativa-particolare, di cui la prima è il fon- damento. Di qui la distinzione tra il sapere assoluto e un sapere relativo, il primo condizionante ogni altro sapere, che da esso dipende. Parmenide per primo (« padre nostro » lo chiama Platone), in maniera chiara ed esplicita, distinse la realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli enti molteplici, il mondo dell’Essere puro dal nostro conta- minato dal non-essere, questo condizionato dall’altro, infe- riore. La prima decisa affermazione del reale assoluto compor- ta, dunque, il « ridimensionamento » del reale relativo, cioè è nata dalla constatazione della contingenza e perciò della in- sufficienza di « questo » mondo e dunque dalla necessità del pensiero di trascendersi in un principio assoluto, fondamento di ogni reale e di ogni sapere. Parmenide è la prima rivela- zione, in sede filosofica, del pensiero a se stesso, l'esplicita consapevolezza che la filosofia o il pensiero ha come suo oggetto di naturale aspirazione un oggetto assoluto. Platone raccolse l’eredità della netta distinzione tra « fisico » e « me- tafisico », tra il « sensibile » e l’«Idea » o forma universale di ogni realtà particolare, tra le Idee che essenzialmente sono ( 6vttws dvra ) sempre identiche a se stesse ( dei abtà x27 aòtà pévovta) e i sensibili che sempre divengono e mai non sono. Stabilì una gerarchia ancora più decisa: il « metafisi- co » sovrasta il « fisico », come ciò che è assolutamente ciò che è relativamente e condizionatamente, come l’eterno il temporale; e sulla base di questa gerarchia fissò il fine del- l’anima umana nella « aspirazione » al reale in sè, nell’Eros per il suo destino ultraterreno, nella contemplazione dell’e- terno Essere. Aristotele si propose di stabilire una relazione ontologica tra i due mondi, ma co nservò il platonismo del principio assoluto della scienza universale dell'ente in quan- scendenza, se metafisica significa ricerca di ciò che è « al di là della fisica ». In questo senso la trascendenza gon è solo « punto di arrivo », ma è anche implicita inizialmente nel punto di partenza. 98 Filosofia e Metafisica to ente, fondamento di ogni particolare sapere. Noi crediamo che questa distinzione tra il relativo e l’assoluto trascen- dente sia essenziale ad ogni costruzione filosofica avente un nucleo metafisico per cui, e solo per esso, merita il nome di concezione filosofica del reale. Ecco perchè, ad esempio, quasi a giudizio unanime, le filosofie dette postaristoteliche segnano la decadenza del pensiero classico: la dualità di « fisico » e «metafisico » vi diventa secondaria, la meta- fisica è fatta rientrare nella fisica e il principio è identificato, in un monismo opaco, con la realtà naturale. Le ali di Eros si chiudono sull’afflitta anche se rassegnata saggezza di un mondo finito, accettato con l’indifferenza che detta l’amor fati, ma senza la serenità del convincimento persuaso. Per lo stesso motivo facciamo cominciare col « terminismo » di Occam la decadenza della Scolastica. La carenza metafi- sica, in qualunque epoca del pensiero, si presenta come il dissolvente della filosofia, quasi che il sopravvalutare il sensibile e il bloccarsi nell’esperienza siano i pesi mortificanti la potenza del pensiero, per sua natura doviziosamente ge- neroso di metafisici slanci. Al contrario consideriamo Plotino come l’ultima grande affermazione della Grecia immortale e i grandi pensatori della Patristica e della Scolastica come i rappresentanti genuini della filosofia cristiana. Le epoche veramente filosofiche sono quelle dei grandi metafisici. Con ciò abbiamo segnato la condanna, sia pure parziale, della speculazione del nostro tempo. Noi dunque riteniamo che vi sia un platonismo essen- ziale e perenne che è l’anima stessa di ogni vera metafisica: l'aspirazione al di lè del fisico (trans-physica), divino Eros, che è sete d’immortalità dell'anima nella contemplazione beatificante dell’Essere assoluto eterno; platonismo essenzia- le che importa distinzione e dualità di mondi: « questo » e «l’altro» in un rapporto di relativo e assoluto, di contin- gente e necessario, di temporale ed eterno. Platonismo, che è nostro, se trasposto nei termini agostiniani di una meta- Concetto di metafisica 99 fisica dell'esperienza interiore focalizzata nel dialogo pe- renne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo con la Verità che è; interiorità che non abolisce il mondo, anzi, dal di dentro, lo riconquista nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt sono prova e testi- monianza. Agostino, dunque, arricchito dalla tradizione del , miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bo- naventura. A noi sembra che l’istanza agostiniana, in una discussione intorno al concetto di metafisica coincidente con quello di filosofia, specie nello stato attuale, sia particolarmente signi- ficativa. La metafisica classica, platonica e aristotelica, è an- cora cosmologia e con l’idea cosmologica identifica, in fon- do, l’idea teologica: il Demiurgo e il Motore immobile sono i due principii del cosmo fisico, il primo, Artefice divino, mediatore tra le Idee e la materia, l’altro, Causa prima del movimento. È una metafisica al servizio della natura fisica e dell’uomo solo in quanto uno degli enti naturali; metafi- sica, dunque, come scienza della natura, con cui Aristotele identifica la realtà in quanto realtà: l’« al di là » del mondo è sempre un « mondo » e non lo Spirito creante. In esso manca il problema dell’uomo in quanto uomo, così come lo si conce- pisce e lo si pone dal Cristianesimo in poi con quell’interesse quasi totalitario e quella sensibilità acutissima con cui oggi è vissuto dal mondo moderno e contemporaneo, al quale nessuno, credo, vorrà negare il diritto di cominciare, come dice E. Le Roy, il discorso dall’uomo, che è una delle realtà quae facta sunt. Dall’uomo appunto ha cominciato Agostino il suo discorso metafisico e si è accorto che, quale che sia il pro- blema, la soluzione si trova sempre nella Verità che è e nel- l’Essere che è la Verità. Questo senso d’interiorità profonda- mente umana di ogni problema filosofico non va perduto: in esso riponiamo principalmente l’avvenire della metafisica. Anche la storia della filosofia crediamo che su questo punto ci dia ragione. La metafisica, come scienza prima della 100 Filosofia e Metafisica natura o ricerca dei principii primi del mondo fisico, fino alla scoperta della scienza moderna, non distingueva netta- mente i due mondi; essa aveva ereditato il carattere natura- listico della metafisica aristotelica, per la quale anche i pro- blemi di Dio (teologia razionale) e dell’immortalità dell’ani- ma (psicologia razionale) si pongono sul terreno della natura fisica. Di qui gli inevitabili conflitti e i tentativi d’identifi- care la visione «scientifica » con la visione « metafisica » della realtà. La critica kantiana della metafisica è la critica della concezione scientifico-metafisica del razionalismo da Cartesio al Wolff e tende a distinguere la « teoria della scien- za » (Critica della ragion pura) dalla « teoria della morale » (Critica della ragion pratica), dove è legittimo porsi i pro- blemi della metafisica. La reazione positivistica e neokan- tiana, contro la metafisica dell’idealismo tedesco del primo Ottocento, è giustificata dagli arbitri di quella « filosofia della natura », cioè di una costruzione aprioristica (e in que- sto senso metafisica) della scienza. La metafisica dell’espe- rienza interiore, di tipo platonico-agostiniano, a noi sembra che non si presti a questi equivoci: per essa il principio as- soluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo stesso del pensiero; dall’escavazione dell’uomo nell’uomo; dalla presenza implicita della verità alla mente; dal conflitto della vita morale che sta alla base di tutta la nostra vita spirituale e la cui soluzione rimanda razionalmente alla trascendenza; dalla costituzione stessa del pensiero che è capace di verità, in quanto la verità, che lo fonda e trascende, è la sua vita interiore, senza di cui non sarebbe pensiero e sarebbe morte. Contro queste istanze metafisiche non c’è scienza o « critica » che valgano, in quanto e la scienza e la critica, le più svi- luppate e intransigenti, ne riconoscono la legittimità, che può essere solo negata — e perciò anche questa negazione è pur essa conferma — da un atto non razionale e dunque non scientifico, non critico e, in definitiva, non filosofico. Si consideri ancora che, da quando scienza e filosofia, Concetto di metafisica 101 fisica e metafisica, pur non ignorandosi, seguono metodi pro- pri e si pongono problemi diversi o almeno da punti di vi- sta differenti, per cui l’oggetto proprio dell’una è diverso da quello dell’altra, l’attenzione della filosofia si è concentrata sull’uomo e su quelle che sono le forme della sua attività. La storia, l’estetica, la politica, l’economia; le scienze morali in generale, considerate speculativamente, sono oggi i problemi vivi della filosofia. È vero che essi, proprio perchè posti come problemi filosofici, importano sempre una visione totale della realtà, ma il reale fisico, in quanto tale, interessa subordi- natamente al reale umano e nei limiti in cui contribuisce alla soluzione dei problemi dell’uomo. Le costruzioni metafisi- che, nel senso di filosofia della natura, si debbono più agli RASTA che ai filosofi veri e propri. Di questa esi- genza, che possiamo chiamare « umanistica », una costru- zione metafisica, oggi, non può non tener conto. Non che il mondo così detto fisico non debba interessarla, quasi fosse apparenza illusoria ed opaca materia, sorda alla luce del pensiero; tutt'altro: la metafisica non può non essere che la scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà. Vogliamo dire che l’uomo interessa all'uomo più di ogni altra cosa e una presa di contatto della metafisica con il reale-uomo ri- porta i suoi problemi a quella interiorità, che è sempre stata l'ispirazione fondamentale della ricerca speculativa, e rende la metafisica stessa aderente al problema-uomo — ai pro- blemi del donde vengo, chi sono e dove vado — la cui solu- zione, in definitiva, sta alla base di quella del significato e del valore del mondo in generale. Da questo punto di vista possiamo dare in parte ragione al Carlini, il quale tenendo presente una determinata concezione della metafisica, consi- dera tutta la metafisica scienza naturalistica che indaga in- torno al principio del mondo, quasi una continuazione del- la fisica, scienza dell’« essere » contrapposto allo « spirito ». Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica, come sembra pensare il Carlini, in quanto vi può essere (e 102 Filosofia e Metafisica vi è nella storia della filosofia) una metafisica dell’esperienza interiore, dove «essere » e « spirito » non si contrappongo- no, dove resta primo il concetto del cos'è il reale in quanto reale, ma dove il reale non è più naturalisticamente inteso. In questa metafisica, che è ancora scienza che non sta con- tenta al come, il problema del propter quid importa l’im- pegno totale dell’uomo e la partecipazione sua e delle cose ad un comune destino, per cui il problema metafisico è innanzi tutto problema dell’uomo in quanto uomo. L’in- tus legere (intelligere) che è la filosofia o la metafisica non è solo un leggere nell’inzus delle cose, ma è — in- nanzi tutto — un leggere nel nostro intus, in interiore homine; solo quando questa pagina sarà decifrata e chia- ra, sarà possibile leggere, « metafisicamente » e non « scien- tificamente », anche il libro della natura, decifrarlo e chiarirlo. Possiamo, dunque, convenire anche con lo Hei- degger (senza accettare le conseguenze che egli ne trae) che la metafisica è sì questione sul senso dell’essere « nel suo insieme e in quanto tale », ma che l’ontologia è vincolata all’antropologia: l’uomo che indaga è egli stesso oggetto primo della sua indagine, il ricercatore è incluso nella sua ricerca. « Ogni domanda metafisica racchiude la problema- ticità della metafisica nella sua totalità », ma « nessuna do- manda metafisica può porsi se non è posto in questione — come tale — colui, che fa la domanda, se non diventa dun- que domanda egli stesso ». (Was ist Metaphysik?, trad. it. Milano, Bocca, 1942, p. 55). Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non sono nè anti nè a-metafisici e ripongono sul tappeto della più viva discussione filosofica il problema della metafisica, pur ac- cettando la posizione classica del problema stesso, ne accen- tuano l’aspetto umano, spirituale, interioristico. Non si tratta d’indulgere ad una moda, come se quel che è stata verità una volta non lo sia più, secondo la tesi di un relativismo storicistico negatore della verità e della filosofia, ma di Concetto di Metafisica 103 cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che co-. stituiscono l’anima dell’indagine metafisica e impediscono che essa si presenti sotto l’aspetto (che è un aspetto) di scienza puramente naturalistica, anzichè sotto l’altro, che le è più proprio ed essenziale, di ricerca interiore dell’! di /à dello spirito umano, senza di cui non sarebbero nè l’uomo nè le cose e lo spirito stesso sarebbe materialità, passività e morte. Perciò noi ci siamo principalmente preoccupati di cogliere la costante ed insopprimibile esigenza metafisica, anche nei sistemi anti o ametafisici, sia per provare la essenzialità ed universalità del problema, costitutivo della stessa filosofia, sia per dimostrare, conseguentemente, come nessuna nega- zione della metafisica possa negare se non altro la possibilità della metafisica stessa, essendo essa il primo iniziale che muove ogni indagine speculativa e la sua realizzazione la speranza suprema e dunque il fine del pensiero. Aderire alle istanze della filosofia moderna e contemporanea ci sembra una condizione indispensabile di ogni concreto filosofare; nel nostro caso, per porre concretamente e criticamente il problema della metafisica. Le critiche e le accuse, quando non sono dettate da superficialità, incomprensione o sordità costituzionale per certi problemi, servono a chiarire altri aspetti della questione e consentono al metafisico di riporsi il problema con maggiore consapevolezza, di vederlo in quella complessità di momenti, che impedisce una visione par- ziale e non integrale di esso e perciò astratta o unilaterale. L’antimetafisica che quasi senza soste e a volte con accani- mento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo del- l’illuminismo anglo-francese, risponde anch'essa ad un’esigen- za del pensiero. Essa impone, da un lato, la difesa ad ol- tranza della metafisica in nome del diritto alla vita del- la filosofia e, dall’altro, il dovere, per il metafisico, di riporsi il problema in modo che l’istanza metafisica esca vittoriosa dalle apparenti sconfitte, scaturisca dalle stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici aspetti, sic- 104 Filosofia e Metafisica chè la sua risposta, più ricca e complessa, comprenda in sè le esigenze che sembrava escludere e che, solo apparen- temente, per un errore di prospettiva, si erano poste contro la metafisica, mentre, in realtà, la loro era opposizione ad una determinata soluzione del problema metafisico, la quale trova in quelle critiche non la negazione della sua verità, ma lo stimolo per arricchirla in una più comprensiva. Quel che è stato una volta verità, verità sarà sempre, ma è del- l'essenza della verità la vita e lo sviluppo fecondo, il cre- scere continuamente di e su se stessa, in modo da conqui- starsi sempre più come verità. Perciò noi accettiamo l’istanza critica del divenire e dello sviluppo dello spirito, proprio per dimostrare come non vi è verità che muoia e verità che nasca per morire ancora, problema che si ponga per restare sempre problema, esasperatamente tale, ma che vi è ve- rità perenne che perennemente è vera, oggi più compren- siva di ieri, perchè più matura e sviluppata. Ora è evi- dente che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese, la critica kantiana della metafisica del razionalismo moder- no, la metafisica cosiddetta del pensiero o della mente del- l’idealismo tedesco e del neohegelismo italiano, le molte me- tafisiche contemporanee dell’intuizione, dell’azione, della vo- lontà, della vita ecc., come pure le stesse negazioni radicali di ogni metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro sterile (agli effetti dell’avanzamento della questione) pole- mica contro la classica metafisica dell’essere o della verità trascendente o dell’oggettivismo o dell’intellettualismo, ma in quell’aspetto fecondo di positività che esse hanno e cioè: nell’avere rilevato esigenze nuove, nuove prospettive, di cui la metafisica, come la scienza del che cos'è la realtà in quanto realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la risposta sia dav- vero comprensiva, direi, assorbente, di tutte le diverse istanze, in quel che hanno di vero, e di esse l’inveramento concreto (?). (2) Di qui la nostra concordia discors (che crediamo sia una forma di colla- borazione feconda nella comune battaglia contro le negazioni della metafisica) con la Neoscolastica dell’Università Cattolica di Milano e, in special modo, Concetto di Metafisica 105 3. —- La filosofia moderna e contemporanea di fronte ai pro- blemi della metafisica. Al principio di questo capitolo abbiamo rilevato la com- plessità di sensi e problemi del termine metafisica, diffi- cilmente includibili in una veduta comprensiva ed armoniz- zante di tutti: non di rado si dà la preferenza ad un senso o ad un altro, ad uno o ad un altro problema. La meta- fisica è conoscenza astratta, o la più concreta? è opera esclu- siva della ragione e perciò pura costruzione 4 priori? è sco- perta delle regole fondamentali del pensiero e perciò valide per ogni scienza sia fisica che morale? E potremmo ancora continuare. Ma ci sembra che tutti, metafisici e non metafi- sici, siano d’accordo che essa, come la definì Aristotele, è Za con Mons. Olgiati. Nella sua prolusione al corso di metafisica dal titolo Come si pone oggi il problema della metafisica (in «Riv. di filos. neosc. », n. 1, 1922) l° Olgiati, in fondo, riafferma che la sola vera è quelia dell'essere nella forma aristotelico-tomista, la quale, dunque resta come l’unica, intatta ed intan- gibile. Il lungo discorso della filosofia moderna non la interessa affatto, perchè questa, fenomenistica, considera fenomeno il reale in quanto reale e non col- pisce, in fondo, la concezione del reale in quanto essere; dall’altro, la metafi- sica del vero ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata. A noi sembra che, anche ammesso e non concesso che tutto il pensiero da Cartesio in poi sia fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema della meta- fisica posto « oggi », di vederc quali istanze la metafisica fenomenistica ponga contro (o a differenza di) quella dell'essere e se questa non sia chiamata a tenerne conto se vuol parlare un linguaggio significante per la filosofia moderna e contemporanea. « Tenerne conto » non significa affatto rinunzia a quel che è la sua verità, ma dimostrazione della sua fecondità e vita perenne nell’unico modo in cui si può provare: che essa è capace di sviluppo, di dispiegarsi come verità comprensiva di esigenze diverse, di essere sufficiente a risolverle ed aperta a nuovi punti di vista che, arricchendola e quasi rivclandola sempre meglio a se stessa, la confermano come verità di ieri e di oggi e non soltanto di un « ieri », che « oggi » può non interamente soddisfare. Per quanto qui è detto (e soprattutto per quanto si legge in molti punti di questo volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a me e agli altri collaboratori del « Giornale di Metafisica », che nessuno di noi « si preoccupa del problema critico, come se la metafisica non fosse mai stata messa in discussione » (« Rivista di Filosofia », genn. 1948, p, 97). Precisa- mente il contrario: in tutti noi è vivissima tale preoccupazione e il nostro è un dialogo costante con il problema critico. Anzi, per quanto mi riguarda, debbo dire che, se un qualche interesse ha la mia posizione speculativa, è precisamente quello che cerca di dimostrare come, proprio dalla stessa istanza critica, si arrivi ad una soluzione positiva e razionale dei problemi della metafisica. 106 Filosofia e Metafisica quosopia 736, la scienza dei principii primi. Così intesa ebbe l’ultima grande sistemazione scolastica dal Wolff con la duplice divisione in metafisica generale od ontologia (scienza dei principii primi in generale e dell'essere in quanto essere) e metafisica speciale o scienza degli esseri (scienza dell'anima — psicologia razionale —; filosofia della natura — cosmologia razionale —; esistenza di Dio e suoi attributi — teologia razionale e teodicea). In verità il problema primo è proprio l’ultimo in quanto la soluzione di esso, in un senso o nell’altro, condiziona quella degli altri problemi, anche quando quello è posto e risolto alla fine: la teoria della conoscenza (problema del fondamento critico del sa- pere), la teoria dell’essere, come pure il problema dell’im- mortalità dell'anima, rimandano al problema dell’Assoluto, di Dio, principio primo di ogni conoscenza e di ogni essere. Di fronte a questi problemi quali sono le posizioni fonda- mentali della filosofia moderna e contemporanea? Cartesio, da cui si fa comunemente cominciare il pen- siero moderno, nella Prefazione ai Principes, la considera «la racine » dell’albero della scienza, avente però come og- getto enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per mezzo della « ragione naturale » (Méditazions, Epitre dédi- catoire). La metafisica si distingue così dalla fisica, dalla ma- tematica ed anche dalla morale e si presenta come teologia e psicologia razionali. Cartesio, in fondo, rivendica, anche se ancora non in maniera netta e decisa, l'autonomia delle scienze fisico-matematiche e quella della morale. « Imma- teriali » gli oggetti della metafisica: dunque, non spaziali e non sensibili come dirà Malebranche (Enzréziens, I): c'è, in fondo, in Cartesio — e di più in alcuni cartesiani — un'istanza platonica. D'altra parte, la certezza interiore del Cogito è criterio assoluto di verità: realtà spirituale e realtà naturale restano nettamente distinte e con la dualità sorge il problema del loro rapporto. Dunque, ancora, platonismo. Pure sulla linea platonico-agostiniana o neoplatonica è la Concetto dî metafisica 107 soluzione del problema testè indicato: la occasionalistica e la spinoziana, l’una e l’altra però, a differenza di Car- tesio, non escludenti l’etica. Si consideri che il problema della relazione tra le due res è imposto dall’ente-uomo dove si trova concretamente realizzata. Ormai la metafisica non è più sol- tanto ontologia e poco si preoccupa del reale fisico o natu- rale (il mondo, per Malebranche, è quasi superfluo ed è un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma soprattutto cono- scenza ed etica, determinazione delle modalità del conoscere e del volere. Il Leibniz sistemò diverse istanze del raziona- lismo cartesiano e spinoziano e il Wolff fece di quella me- tafisica la nota divisione scolastica. La crisi della metafisica razionalistica comincia con la critica della conoscenza — con la gnoseologia nel senso moderno del termine — dell’empirismo inglese. Il bersaglio è preciso: il principio assoluto del sapere così come il ra- zionalismo lo andava sistemando. La risposta è radicale: ogni realtà oggettiva o assoluta, che la metafisica presup- pone, se non si risolve (dissolve) nell’esperienza sensibile, è un inconoscibile o una credenza. Leibniz cerca di correre ai ripari: alla critica lockiana dell’innatismo contrappone il con- cetto di virtualità, al nominalismo la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a costruire una me- tafisica monadistica. Infatti, ogni forma di empirismo è sempre rivendicazione del concreto individuale, degli enti particolari; inoltre, come tale, implica sul terreno gno- seologico la risoluzione di ogni realtà oggettiva nella per- cezione soggettiva. La realtà si pluralizza in infinite sostan- ze, in points métaphysiques, in points de substance. Ciò ac- cade non solo per Leibniz, che al posto dell’unica sostanza dello Spinoza, mette un universo di monadi, ma anche per Berkeley, per il quale l’universo è costituito di sostanze per- cepienti. Si consideri che il Berkeley assolve, dentro l’em- pirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz contro 108 Filosofia e Metafisica di esso, in nome degli stessi interessi: la realtà degli spiriti e di Dio. Il sostanzialismo spiritualistico del Berkeley s’in- tende meglio come critica dell’empirismo e in rapporto al monadismo spiritualistico del Leibniz. Contro l’uno e l’al- tro, colpendo alla radice il principio del razionalismo (il cogito), Hume nega che vi sia una sostanza pensante meta- fisicamente concepita come sostanza in sè sussistente. Così l’oggetto della metafisica, come mondo naturale e spiri- tuale, come essenza dell’essere e come principio assoluto del conoscere, si dissolve, attraverso un processo che va dal Cogito di Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà, tutta la realtà, è soltanto l’attività presente e momentanea del percepire o dell’apparire. Quasi contemporaneamente gli ideologi francesi del se- colo XVIII (« l’àge barbare de la philosophie », come scrive il Lachelier) intendono il termine metafisica nel suo signifi cato deteriore di inutile logomachia, di vano ed oscuro filo- sofare (« le roman de la nature » come la definisce Voltaire nell’articolo ironico « Métaphysique » che si legge nel suo Dictionnaire philosophique). Ignoranti com’erano del Medio- evo, coinvolgono nella stessa condanna la grande metafisica della Scolastica e le sottigliezze fatue della decadenza della Scolastica stessa e del tardivo aristotelismo averroista, conti- nuando la polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è in special modo propria dei filosofi-scienziati del secolo XVII e alla quale erano rimasti tutt'altro che estranei sia il ma- terialista Hobbes che Cartesio e Spinoza. All’antica metafi- sica « teologica » ed astratta contrappongono la loro, intesa, in opposizione alla fisica (e qui sono cartesiani) come scienza dello spirito, delle idee e della loro origine. Così il Condillac considera (nell’Inzroduction dell’Essai sur l'origine des con- naissences humaines) «bonne métaphysique » la sua teoria dell’origine delle idee e dei principi della conoscenza umana; e il Destutt de Tracy distingue «l’ancienne métaphysique théologique » dalla « moderne métaphysique philosophique Concetto di metafisica 109 ou l’idéologie ». Metafisica, in breve, è conoscenza dei prin- cipii generali di un'arte (un poeta o un musico, che vogliono rendersi conto dei principii della loro arte, ne fanno la meta- fisica) e di una particolare scienza o di quanto non è oggetto dei sensi esterni come le «operazioni e facoltà dello spirito », quali le sensazioni, la memoria, la volontà, ecc. D’Alembert, nel celebre Discours préliminaire de l’En- cyclopedie, poteva scrivere che Locke «créa la métaphysi- que ». Così la definizione cartesiana di metafisica (scienza degli oggetti immateriali) e l’opposizione di essa alla fisica, la critica lockiana del concetto di sostanza e la posizione critica del problema della conoscenza, la negazione humiana della realtà della sostanza estesa e pensante, l’identifi- cazione del concetto di « natura » con quello di materia, il senso della concretezza del particolare e della positività della ricerca scientifica, confermano sempre più la netta distin- zione della realtà in due aspetti: quello naturale o fisico, oggetto della scienza, sistemato nella concezione meccani- cistica e deterministica e l’altro umano o « spirituale », 0g- getto della filosofia vera e propria, intesa come analisi delle facoltà e dei fenomeni psichici, teoria della conoscenza, mora- le, psicologia. Con tale analisi viene identificata la metafisica, la quale non si distingue dalla « gnoseologia » o dall’« ideolo- gia », intesa come «ricerca sulle facoltà della natura uma- na », limitata all’indagine dell’origine delle idee, dell’og- getto e dei limiti del conoscere. È superfluo avvertire che la soluzione del problema gnoseologico condiziona quella della possibilità della scienza della natura o meglio della scienza in generale; ma conta notare come l’oggetto della metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo nell’insieme delle sue facoltà (sensoriali, intellettive e volitive) e come il pro- blema metafisico si ponga non nei termini di che cosa è il reale in quanto reale, ma in quelli di che cosa è l’incondi- zionato che tutto condiziona. Kant, quando la lettura dello Hume lo pose di fronte a questo problema, sospese la meta- 110 Filosofia e Metafisica fisica razionalistica leibniziano-wolffiana e si chiese: è pos- sibile una metafisica come scienza? Non vi ha dubbio che Kant, nel porsi questa domanda intorno al problema che restò centrale in tutti i suoi inte- ressi di pensatore, si proponesse sinceramente di ricostruire l’edificio della metafisica sulla base dell’esigenza «critica », che gli aveva fatto sospendere la costruzione « dogmatica » del razionalismo. Così il suo primo problema no-n è quello di una «teoria » della conoscenza, ma della «critica » del conoscere in generale per accertare i mezzi di cui la ra- gione dispone per costruire la metafisica. L'indagine critica lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due aspetti della questione da tener distinti: 4) vi è un problema della metafisica « come filosofia dei fondamenti primi della conoscenza » che s’identifica con la stessa critica, cioè con la fondazione assoluta dei mezzi del conoscere e non con quello della metafisica nel senso tradizionale, per la fondazione della quale quei fondamenti dovrebbero essere strumenti; 5) vi è un altro problema della metafisica come compren- siva di tutta la conoscenza, vera o apparente, che appartiene alla Ragione pura e costituisce, non una scienza nel senso della prima, ma una « scienza dei limiti della ragione uma- na ». Non tener distinti questi due aspetti del problema ed applicare le forme del conoscere valide per la conoscenza del sensibile agli oggetti in sè, è mettersi sulla via dell’er- rore e dei paralogismi creando un sapere illusorio che si avvolge nelle insolubili antinomie della dialettica. A_ questo punto, alla domanda, « che cosa è il reale in quanto reale », Kant dà una duplice risposta: 4) come reale fenomenico è il « contenuto » della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni dello spazio e del tempo e le categorie dell'intelletto sono le « forme » trascendentali, valide solo per quel contenuto e come principii necessari universali e assoluti per costruire la scienza matematica e fisica. Con questa risposta Kant vuole risolvere il problema della metafisica intesa come Concetto di metafisica 11} scienza dei principi primi del sapere, dentro i limiti di un sapere come conoscenza del sensibile e del fenomenico; e con ciò conclude il problema del valore del pensiero e dell’analisi della conoscenza umana posto da Cartesio e Locke e lasciato in eredità a tutto il razionalismo e a tutto l’empirismo moderno. 3) Come reale assoluto o cosa in sè è il « con- tenuto » di una forma che non può essere alcuna di quelle dell’intuizione e dell’intelletto, valide solo per il fenome- nico (non ci sembra, dunque, che si possa sostenere che, per Kant, la realtà sia soltanto fenomeno), ma di un’al- tra forma valida per un sapere o per una scienza che non è la matematica e la fisica. Tale scienza è appunto la morale, di cui i problemi della wolffiana metafisica speciale o degli esseri sono i postulati indispensabili. Kant, dunque, non dice che non è possibile una metafisica co- me scienza in generale, ma solo come scienza nel senso di quella della natura fisico-fenomenica e ciò vale come Pro- legomeni necessari di ogni futura metafisica che si presenti come scienza — senza escludere, anzi includendo, che è pos- sibile una metafisica sul terreno della morale. Ma egli, le- gato al concetto di trascendentalità delle forme a priori come pure funzioni o condizioni del conoscere e preoccupato di fondare una morale autonoma, non potè dare tale metafi- sica, ma solo indicare gli oggetti di essa come pure esi- genze e postulati. Tuttavia, crediamo non vi sia dubbio che sia questa l’istanza del Kant, il quale, infatti, non potè mai scrivere nonostante vi si sia provato — esistono frammenti di questi tentativi — una metafisica della natura, per il motivo che questa era già stata risolta nella stessa critica, mentre potè scrivere la Fondazione della metafisica dei costumi e la Metafisica dei costumi. Di lui resta l'insegnamento, da met- tere a profitto sulla linea della metafisica classica (non inten- diamo con questo termine solo le metafisiche di tipo aristo- telico), che la metafisica è una scienza indipendente dalle altre, le cui « Idee » rivelano la loro efficacia, ineliminabile 112 Filosofia e Metafisica ed insostituibile, n ella costituzione del mondo morale o, come noi diciamo più comprensivamente ed esattamente, della « vi- ta spirituale »; « Idee » che la « ragione pura », nel senso kan- tiano, pensa (noumeniche), stabilendo con ciò stesso una di- stinzione tra il regno dello spirito e quello della natura, alla cui conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha riportato la metafisica al suo oggetto proprio e ha fatto dei suoi problemi le questioni essenziali e fondamentali del- l’uomo. Egli approfondisce («critica ») il senso cartesiano della metafisica considerandola un modo speciale di pensa- re: i suoi oggetti sono «immateriali » e perciò le eventuali conoscenze, che di essi la ragione può avere, devono essere assolutamente 4 priori senza ricorso ai dati della esperienza nè alle intuizioni spazio-temporali. Tali oggetti così intesi sono « pensati », ma non conosciuti secondo le categorie della scienza che è solo scienza (critica della metafisica razionali- stica), ma ciò non impedisce che possano, debbano essere pensati e conosciuti come condizioni indispensabili ed asso- lute della «scienza » dei costumi (f). L’idealismo trascendentale post-kantiano accolse l’istanza critica quasi esclusivamente nel senso della metafisica « come scienza dei fondamenti primi della conoscenza » e considerò principio assoluto il concetto dell’attività creatrice dello spi- rito. Di qui una duplice «interpretazione » di Kant e un duplice sviluppo: @) la metafisica s’identifica senz'altro con la dottrina della scienza; 5) le forme 4 priori non sono soltanto funzioni con cui il soggetto «costruisce » l’esperienza: il soggetto «crea», con la sua attività, forme e contenuto. Così la metafisica s’identifica con il sapere e il soggetto « funzionale » di Kant si trasforma nel Soggetto come en- tità metafisica e teologica: l’Ich denke diventa Ichheit. Du- plice arbitrio, anche dal punto di vista kantiano. E’ qui — e non nei pensatori anteriori, soprattutto in alcuni razio- (3) Altre considerazioni critiche sul problema della metafisica in Kant si trovano soprattutto nella Parte III di quest'opera. Concetto di metafisica 113 nalisti — un senso della metafisica opposto a quello di Ari- stotele: non la scienza dell’ente in quanto ente, ma la scienza della scienza in quanto scienza. Questo non è più Kant, ma una forma di «kantismo » che riporta il problema della metafisica alla posizione prekantiana, quale si riscontra nel- l’empirismo inglese e in alcuni ideologi francesi del secolo XVIII. A noi sembra che l’idealismo empirico sia il padre dell’idealismo trascendentale — tramite un’interpretazione non-kantiana di Kant: — l’esse est percipi è trasformato nell’esse est percipere, dove il percipere è l’assoluto spirito che pone se stesso e il non-io. La posizione kantiana di uno spostamento della metafisica dalla fisica al mondo morale è di nuovo perduta e la metafisica ritorna ad essere « filo- sofia della natura », cosmologia, di cui il principio creatore è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa natura senza mai più potersi riconquistare nella sua interiorità spirituale. Il na- turalismo neoplatonico (Hegel) e il «riscoperto » Spinoza ritornano nella formula del Deus sive natura, dove Dio è il trascendentale e la natura la sua posizione, con la quale l’Io creante s’identifica (immanentismo). Così l’idealismo riporta lametafisica sul terreno della scienza della natura e costruisce una nuova metafisica « dogmatica » nel senso kantiano come quella del razionalismo, con la differenza che in esso l’«esse- re» è risolto completamente nel «pensiero» creatore. Di qui l'opposizione della «metafisica del pensiero» alla « metafisica dell’essere », di una filosofia della verità che è tutta nel suo processo storico o filosofia dello spirito — dove però lo spirito non si coglie mai come tale, ma sempre nella sua media- zione con il non-io, cioè nel suo farsi natura, esteriorizzarsi, non essere se stesso — alla « dogmatica » filosofia della verità immobile. Il soggetto non è più problema, ma principio as- soluto che tutto spiega: resta estraneo alla ricerca metafisica, che così gli si fa estrinseca, « materiale ». La realtà prima e ultima è il pensiero, che si fa tutto senza essere mai pro- 114 Filosofia e Metafisica priamente se stesso, che nega ogni antecedente ontologico senza riescire a conquistare la sua autentica soggettività. Compiuto con il Fichte il « salto » dall’Io funzionale al- l’Io entità metafisica, l’idealismo trascendentale elimina la distinzione kantiana di fenomeno e cosa in sè, di mondo della natura e di mondo morale, annullando con ciò stesso i termini in cui Kant aveva posto il problema della metafi- sica: cade la distinzione tra scienza dell’assoluto e cono- scenza del fenomenico e la metafisica viene identificata con la stessa teoria critica del conoscere. Razionale e reale si adeguano: la Ragione ha la capacità di penetrare tutto il reale, in quanto il reale è lo stesso dispiegarsi della Ragione. La metafisica della natura s’identifica con quella del pen- siero, dato che il principio del dialettismo antinomico è il fondamento assoluto dell’una e dell’altro. Ogni aspetto del reale non è che un momento del processo dialettico: i dati dell’esperienza sono risolti nel divenire dello spirito e questo è nella concretezza delle sue determinazioni. Costruzione aprioristica e fantastica della natura, disso- luzione della realtà e degli enti nel processo dialettico della Ragione e di questa nelle sue transeunti determi- nazioni, dommatismo e teologismo deteriori determinarono la decadenza della « metafisica del pensiero » e provocarono una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua la distinzione kantiana di fisica e metafisica, di fenomeno e cosa in sè; Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e della religione, rivendica il concetto di «esistenza » o di « singolarità » e alla dialettica del passaggio contrappone quella del « salto », alla « ragione » l°« assurdo » della fede; Feuerbach e Marx rivalutano il concreto, il particolare o finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel mondo dei fatti; il Neokantismo lancia il grido di Keine Metaphystk mehr contro la metafisica intesa nel suo senso deteriore e affianca la posizione positivistica, imbaldanzita dai successi delle scien- ze sperimentali. Comte considera « abstrait » l’« état méta- Concetto di metafisica 115 physique », ormai definitivamente superato al pari di quello teologico (naturalmente poi egli fa, per suo conto, della me- tafisica concependo la filosofia come sistema delle scienze e della pseudo-teologia), mentre Sully Prudhomme (Que sais-je?, p. 51) scrive: «Il n'y a de métaphysique dans l’ètre que l’inconcevable. La métaphysique commence où la clarté finit ». Quando l’idealismo hegeliano ai principi del secolo rinasce in Italia, la metafisica del pensiero viene rigettata da un epigono formatosi nell’ambiente positivistico e negli studi marxisti e accettata dal Gentile, attraverso una « riforma » della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spa- venta), come metafisica dell’atto del pensiero pensante, anti- tetica a quella oggettivistica dell’essere. In tutta questa reazione violenta contro la metafisica, escluso il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce con- tro la metafisica di tipo hegeliano, identificata con la meta- fisica senz'altro — solo arbitrariamente la condanna è stata estesa alla metafisica come tale; 2) si rivendica, da un lato, la realtà, il senso e il valore dell’esistente o singolo contro la « ragione speculativa » e di fronte all’assurdo e allo « scan- dalo » della fede religiosa (esistenzialismo teologico e tra- scendente) o come valore in se stesso, il cui avvenire è nel- l'umanità (esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dal- l’altro, il concetto di scienza nel senso moderno, costruita con metodo sperimentale e non aprioristicamente. Purtroppo l’identificazione della metafisica con quella di tipo idealisti- co; il prevalere degli interessi pratico-scientifici; l’estensione arbitraria di metodi e leggi valevoli per il mondo fisico an- che alla spiegazione del mondo dello spirito; il convinci- mento derivante da un’interpretazione unilaterale della Cri- tica che, dopo Kant, non era più possibile — e nemmeno se- rio! — tentare di ricostruire una metafisica; il perdurare del senso dispregiativo ormai tradizionale dato a questa pa- rola nel secolo XVII e più ancora nel XVIII contribuirono a far decretare una condanna della metafisica, che apparen- 116 Filosofia e Metafisica temente — quanta superficialità anche in pensatori di non me- diocre levatura! — è potuta sembrare definitiva. Quasi inesi- stente, d’altra parte, l’influenza della filosofia rosminiana fuori d’Italia e pure da noi limitata, scarsa di sviluppi specu- lativi, prima ostacolata per motivi politico-teologici e poi ar- restata dal prevalere del positivismo o interpretata kantiana- mente, idealisticamente e immanentisticamente sia dal pri- mo (Spaventa) che dal secondo (Gentile) hegelismo. Eppure il Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rap- presenta ancor oggi — e non solo in Italia — la più vigo- rosa riscossa della metafisica tradizionale, non ripetuta, ma ripensata a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia aspetta ancora di entrare nel vivo del pensiero mondiale. Com'è noto la reazione idealistica contro il positivismo, altra età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di rivendicare i valori spirituali e di restituire la filosofia ai suoi problemi e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico di quella classica, sia di tipo platonico che aristotelico. Per il Bergson metafisica è un modo speciale di conoscere e cioè il mezzo « de posséder une réalité absolument au lieu de la connaître relativement, de se placer en elle au lieu d’adop- ter des points de vue sur elle, d’en avoir l’intuition au lieu d’en faire l’analyse, enfin de la saisir en dehors de toute ex- pression, traduction ou représentation symbolique » (Intro- duction è la métaphysique, in « Revue de métaph. et de mor. », I, 1903). In breve, per il Bergson — a parte che egli attribuisce questa capacità all’intuizione che contrappone al pensiero discorsivo — la metafisica è conoscenza assoluta, ultima. Egli riconosce che il suo oggetto è l’essenza in- terna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui delle immo- bili leggi delle scienze) nell’intimo della creatività « indi- viduale » degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-. chelier (Vocabulaire technique et critique de la philos., IV Concetto di metafisica 117 ediz., vol. I, p. 456) si augura che la metafisica possa ridiven- tare «la science de l’étre, dans le double sens d’existence en général et de totalité des existences », ma alla « nouvelle condition » che la chiave di questa scienza sia cercata « dans la logique interne de la pensée» precisando che Dio e il nostro possibile destino fuori di questo mondo non sono og- getti di scienza, ma di fede. Il Gentile (op. cit., p- 123), nei primi anni del nostro secolo, può scrivere 2a «oggi i vecchi nemici di essa [ della metafisica ] cercano di scusare e di attenuare le loro critiche di una volta... Oggi lo storico della filosofia può parlare della metafisica classica, ossia della filosofia vera e propria di tutti i tempi, con la certezza di toccare una corda che risuoni nell’animo dei suoi ascolta- tori ». E anche per lui metafisica è « spingersi al di là del fenomeno e fissare l’occhio nel reale» (i22). Vi è in questi ed in altri pensatori un’istanza comune: la metafisica si giustifica come rivendicazione di quei valori spirituali (conoscitivi, morali ed anche religiosi) che nessuna scienza sperimentale può mai cogliere. Si tratta di una ri- valutazione dei valori umani (tipica della Wertmetaphysik del Windelband e del Rickert) sul terreno stesso dell’umanità e della storia, @/ di Îè delle schematizzazioni della scienza naturalistica. Di qui la netta distinzione tra scienza e meta- fisica: la prima non può condurre alla seconda e questa, come scrive il Liard (La science positive et la métaphysique, P. III, c. VII), « ne peut fournir à la science un point de départ et des principes régulateurs ». « Après les phénomè- nes, nous voulons connaître l’absolu; après les conditions nous demandons la raison de l’existence. La métaphysique serait la détermination de cet absolu, la découverte de cette raison » (ivi, Avant propos). Dunque « volontà » e perciò esigenza di conoscere l’assoluto; domanda, e perciò ancora esigenza, della ragione dell’esistenza. L’idealismo aveva ri- sposto dopo Kant, ma « interpretandolo », a queste esigenze con la nuova metafisica del pensiero, sul terreno dell’imma- 118 Filosofia e Metafisica nenza assoluta, ma senza appagare quella « volontà » di as- soluto nè soddisfare quella « domanda » di ragione dell’esi- stenza. Siamo arrivati, ci sembra, al punto cruciale, in seno al siero moderno e contemporaneo del problema della metafi- sica. Si riconosce l’insopprimibilità per l’uomo e dunque per il pensiero dei suoi problemi; per conseguenza che bisogna rispondere, che non si può non rispondere: rispondere è una « necessità interna» del pensiero, direbbe Lachelier. Ora l’immanentismo, sotto qualunque forma si presenti, è dav- vero una (/a) risposta a queste esigenze di « assoluto » e di «ragione » dell’esistenza, o non piuttosto l’assolutizzazione della ragione o del pensiero e la negazione di ogni ragione dell’esistenza? Nell’« assoluto pensiero » immanente e per- ciò circoscritto alla natura c'è una contraddizione nei ter- mini: il pensiero pone, intrinsecamente, l'esigenza dell’as- soluto e esso stesso si pone assoluto. O l’esigenza non c’è e il pensiero è l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e il pensiero non è l’assoluto, ma fondamentale, invincibile, universale esi- genza dell’assoluto; ed è qui, e non nel pensiero, la « ra- gione » dell’esistenza. Questo ci sembra il primo risultato positivo del travaglio della speculazione da Cartesio ai no- sti giorni: il riconoscimento razionale — e dunque critico del- la critica più rigorosa ed intransigente — che l'assoluto oltre- passa il pensiero di cui è pure il fondamento e il fine, la sua ragione prima ed ultima, la ragione dell’esistenza come tale. L’immanentismo non è una risposta alla metafisica, ma l’as- sunzione a principio assoluto di un elemento (il pensiero uma- no) che è invece richiesta di assoluto e che, solo in quanto tale, pone il problema di una metafisica come «sforzo», dice James, « unusually obstinate » di pensare «chiaro e conseguente- mente », soprattutto « consistently », come bisogno di una Durchbildung energica del nostro Lebdenskreis (Eucken). Dunque, il travaglio del pensiero moderno c’insegna, contro’ Concetto di metafisica 119 le sue premesse ma in armonia con le sue ultime conclusioni, che non vi è metafisica autentica dove non vi è trascendenza (l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i tentativi odierni di immanenza e super-immanenza contrastano con le con- clusioni stesse di quel pensiero moderno o critico a cui si richiamano e perciò sono essi delle sopravvivenze; 5) il pro- blema dell’assoluto come fondamento del sapere e del vo- lere si pone innanzi tutto, anche se non esclusivamente, come problema della ragione dell’esistenza umana, valida non per l’umanità in generale, bensì per ogni singolo uomo, cioè come problema dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non dell’« altro» mondo, come problema dell’a/ di lè dell’uomo (e perciò anche come suo destino) e non in un senso soltanto naturalistico dell’al di lì del mondo fisico. Se non vi è una metafisica cristiana, vi è un modo cristiano d’intendere la metafisica; il Cristianesimo non è una cosmologia, ma in- nanzi tutto, civitas hominis, qui, Civitas Dei, « al di là ».. Questo modo d’intendere la metafisica non è soltanto no- stro ma predominante da quando la più recente filosofia con- temporanea si è posto il problema con insistenza e in termini espliciti; da quando metafisica ed ontologia non sono più solo « ricordate » come mere parole cadute in disuso ed ar- chiviate. Un ritorno della metafisica non solo come esigenza ma come dimostrazione della trascendenza, ricerca di un as- soluto come principio dell’esistenza è la posizione più vitale di una parte del pensiero odierno, che non segna un salto in- dietro nel processo della filosofia, ma è la continuazione del pensiero moderno, le cui conclusioni autorizzano la più pro- fonda revisione delle sue premesse. Noi diciamo dunque che la vera conquista del pensiero moderno, non è il principio della « creatività » dello spirito e conseguentemente dell’im- manenza, ma la riconquista, attraverso il processo critico, della sua «creaturalità » e perciò della trascendenza, risco- perta nel suo autentico significato spirituale datole dal pen- siero cristiano, che venne ad arricchire ed anche a trasfor- 120 Filosofia e Metafisica mare quello cosmologico e naturalistico, proprio della me- tafisica greca. 4. — Gli esseri e l’Essere. L’ Atto creatore. La creaturalità — il sentirsi creature — è l’atto primor- diale della coscienza: nel momento stesso che avverto an- che confusamente di essere, avverto che non sono da me, che sono «esistente », cioè da altri; avverto, dunque, attra- verso i limiti del mio essere, che un (/") « essere » non limi- tato, mi ha fatto «esistere ». La presenza di me a me stesso importa la « presenza » mediata analogica in me dell’Es- sere, senza della quale non avvertirei il mio limite (e dun- que l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di essere. Io-so- di-essere (cogito ergo sum) in quanto la presenza dell’essere in me, l’idea dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè fa che io sia un essere pensante. Penso perchè mi è data l’idea dell’essere (non che il pensiero la ricavi per astrazione o per altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda l’essere, ma l’es- sere fonda me pensante, donandosi come idea o oggetto. Io sono innato a me stesso nel senso che l’idea dell’essere per cui il pensiero pensa e ad esso è data è quella per cui acquisto coscienza del mio essere che è dall’Essere: «pen- so » perchè « sono stato pensato »; e siccome non mi è dato l’essere assoluto — se così fosse, me lo sarei dato io stesso in quanto è dell’assoluto essere principio di se stesso — con quella del mio essere, ho coscienza del limite e perciò dell’Es- sere da cui sono io, essenza spirituale incarnata in un corpo, esi- stente concretamente, questa essenza qui. Il pensiero — che è tale per la presenza della verità — avverte una duplice presen- za di essere: dell’essere (il mio) contingente, che, come tale, è dall’Essere necessario che trascende il mio essere come l’as- soluto il relativo, e il pensiero come il reale il possibile. L'atto del pensare importa una duplice ontologia: realtà degli es- Concetto di metafisica 121 seri e realtà dell'Essere, come importa l’intuito fondamen- tale della verità, fondante il pensare. Vi è dunque l’essere come idea, gli esseri come esistenti, finiti e relativi, l’Essere come esistente infinito e assoluto: il principio primo del sapere; gli oggetti reali conoscibili tramite l’esperienza sensibile, il Soggetto realissimo, fine di ogni conoscenza, ma, come tale, aspirazione infinita mai appagata nell’ordine umano e naturale. Ma aspirazione ben fondata, in quanto l’Essere realissimo non è una possibilità, una pura Idea della ragione o un dover essere, ma è, esiste, come attestano il mio esistere e il mio pensare. Infatti, il mio esistere da — la mia creaturalità — importa l’esistenza del 44 cui io sono, cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il mio pensare, che è tale per la presenza della verità che non è la Verità in sè, importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207 costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di intelligenza per mezzo dell’« astrazione originaria » coincidente con l’atto creativo. D'altra parte, l’essere io come gli altri esseri, una essenza esistenziata — questa qui — importa che sono un essere singolo, persona; dunque l’Essere che mi ha creato — mi ha fatto e mi fa esistere — non può essere un gd, un essere impersonale, ma è anch’Egli Ego, Persona, l’Altro assoluto, la Persona assoluta da cui sono. Nel momento stesso che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è riconoscere che Dio è; sapermi è, dunque, cogliere la mia realtà ontolo- gica e con essa la sua radice; è ancora, come atto di « rico- noscimento », un sapere che è supremo atto morale. Sapermi da è volermi per: conosco che esisto da Dio e voglio esi- stere per Lui: essere da e per l’Essere. Perciò l'oggetto del mio pensare è infinito come infinita è la presenza della ve- rità in me, che nessun essere creato adegua; del pari infinito è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua forma, che nessun essere voluto compie e appaga. Se in ogni mio atto di pensiero e in ogni volizione io non so che Dio 122 Filosofia e Metafisica esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè desidero co- noscerlo anche quando conosco e desidero altro, non so, disconosco e dunque igroro. Perduto il senso creaturale, ho perduto il senso di me stesso e di ogni realtà: è la caduta del mio essere nel nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stes- so e perciò al mio pensiero, per cui la presenza di Dio resta muta nell’assenza di me a me stesso. In questa metafisica — di necessità appena accennata — il concetto fondamentale è quello di creazione, non presup- posto ma razionalmente dimostrato: ogni cosa che esiste e non ha in se stessa il principio del suo esistere, rimanda al principio che l’ha prodotta; siccome le cose create sono esseri viventi e pensanti secondo un ordine loro intrinseco, il Principio primo non può che essere l’Intelligenza su- prema, la quale — siccome ha voluto creare — è anche suprema Volontà; dunque, Intelligenza che è Persona. Il concetto di Ens realissimum non basta per una metafisica che vuol tener conto della teologia cristiana. La creazione è dunque l’atto primo assoluto fondante la esistenza degli esseri, l’atto supremo dell’esistere degli esistenti. Aristotele ha definito la metafisica ocopia zowtn, la scienza dell’év n 6v, dell’ente in quanto ente, cioè la scienza degli elementi e delle condizioni dell’esistenza in generale (ogni essere è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla causa efficiente e dalla causa finale), ma l’Essere o Dio è la condizione suprema dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze (4) Anzi, per Aristotele, l'oggetto della metafisica è soltanto l’ente divino e perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con la puiocopla deodoyix. Ma si tratta — come ha dimostrato lo Jaeger — di due fasi del suo pensiero. S. Tom- maso intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore, fine ultimo, principio e giudice della morale; immortalità dell’anima indivi- duale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è identico a quello della teologia (differi- scono nel modo di conoscere). Di qui la definizione di S. Tommaso: aliqua scientia adquisita est circa res divinas scilicet scientia metaphysica (S. T., II, 2, IX, 2 ob. 2). Concetto di metafisica 123 concretamente esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere è ogni cosa, ma appunto è qualche cosa avente una certa natura, qua- lità, quantità, ecc. Accettiamo la definizione che il reale - individuo è una essenza esistente, cioè avente certi carat- teri; ma, come sappiamo, per Aristotele, non vi è scienza del reale individuale, in quanto la scienza è dell’universale. La razionalità è dell’essenza desistenzializzata e non del- l'essenza esistenziata, per cui alla scienza o conoscenza di tipo aristotelico l’esistente è indifferente: suo oggetto sono le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è mia e di altri, ma io non sono pura essenza, bensì essenza mia, singola, concretamente esistente. La scienza aristotelica trova nel singolo il suo limite esistenziale, lascia aperto il pro- blema dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo, la metafisica di Aristotele, dei due principi del reale — forma e materia — guarda più alla prima che alla seconda, all’es- senza pura anzichè all’essenza che esiste, meglio, alle sin- gole essenze che esistono; ma a me, essere esistente, im- porta la mia essenza esistente. Pertanto, il problema della metafisica come scienza degli esseri, cioè di chi e che cosa è l’esistente in quanto tale, ci sembra quello del supremo atto di esistere, del principio primo dell’esistenza individuale, cioè l’atto di creazione. Io sono un’essenza-esistente: lio sozo — il fatto che esi- sto — pone il problema del mio esistere, pone me stesso come problema. Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato; se mi ha pensato, sono da una sua idea; dunque il Qualcuno è Intelligenza; se mi ha fatto esistere, mi ha voluto, dun- que è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole e mi ama ancora per il fatto che continuo ad esistere. Jo sono un'idea di Dio, voluta da Dio; tutti gli esseri sono idee di Dio, volute da Dio: pensate e volute una per una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e vo- 124 Filosofia e Metafisica luta da Dio. Il reale in quanto reale è verità (ens e: verum convertuntur, in un senso qui differentissimo da quello dello Hegel), secondo l’immortale scoperta di Platone, che ab- biamo fatto nostra attraverso la trasposizione di Agostino e il ripensamento del Rosmini. Idea (verità) qui significa singolarità: Dio crea i singoli come singoli e ciascuno di essi conosce e vuole come singolo. Le idee divine non sono i no- stri concetti astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, fac- tivae rerum. La conoscenza discorsiva 0 per concetti non esprime questa singolarità, ma solo un elemento dell’esistenza concreta, la quale è espressa da quelle forme superiori di conoscenza, che pur la includono, come per esempio l’at- to morale, in cui la relazione è da persona a persona, da esistente ad esistente; che è tale solo per la presenza del supremo atto di esistere, per cui il singolo è singolo e rico- nosce l’altro come altro. Questa consapevolezza non dà però il possesso dell’atto supremo dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta solo l’esistenza e accende nella creatura il desiderio del pos- sesso: la conoscenza dell’atto supremo di ogni esistente è il limite assoluto della metafisica. Qui la filosofia si ferma e si apre alla religione, come quella che ha scoperto l’uomo all'uomo, gli ha rivelato la radice del suo essere, il significato del suo vivere, la finalità del suo pensare e del suo volere. Questa filosofia è metafisica sic et sim- pliciter, che non contrasta, come crede lo Scheler, con la religione, ma ne è la preparazione razionale. È vero, come dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto che l’esistente non trova in sè ma sopra di sè l’atto del suo esistere, scopre le mie possibilità, il mio destino, ma non nel senso della finitezza « inesorabile » e della « nullità » (Nichtheit), in cui tutto il mondo resta «sprofondato» (herabgesunken), bensì nell’altro della. mia possibilità su- prema di poter essere tutto il mio essere nella suprema aper- tura all’Essere. L’In-der-Welt-scin è essere-nel-mondo, ma Concetto di metafisica 125 per essere-per-Dio. Proprio la finitezza implica il riferimento all'infinito: non « chiude » ma «apre » l’orizzonte. Non dal nulla nasce l’essere, ma dall’Essere nasce il mio essere, per cui il problema dell’essere concreto « gettato nel mon- do », non pone quello del nulla, ma l’altro dell’Essere asso- luto. Freiheit zum Tode: Sein zum Tode, certamente; ma in quanto la morte, direbbe Platone, è passaggio all’evi- denza di quell’ordine (il vero) ontologico, che, qui, l’uomo non può mai cogliere con le sue sole forze. Realtà è verità: io sono una verità di Dio e perciò so- no qualcuno che è e non nulla. Dio è l’Essere Verità creante, Logos, e ha fatto che io fossi, pensandomi e volendomi; Verità illuminante e perciò ha voluto darmi il lume della intelligenza e della ragione, affinchè di Lui leg- gessi l’orma in tutte le cose e soprattutto ne ascoltassi la presenza in me, Lo volessi sempre senza mai interamente pos- sederLo. Non posso strappare il mio essere dalla sua radice, staccarlo dalla sorgente; dunque sono attratto irresistibil- mente 4/ di lè: ogni uomo è per natura metafisico. La ve- rità, dice Agostino (De vera relig., XXX I, n. 66), è quella quae ostendit quod est: per quel che io sono, sono vero. La verità assoluta è l’Assoluto Essere, verità creatrice a cui le cose sono simili: in quantum similia... in tantum sunt (tvî). Io ho dell’essere o del vero, non sozo l’essere o il vero, ma appunto perchè ho e non sono, sono per l’Essere o il Vero. Il possesso della verità non è il mio stato attuale, ma la mia finalità ultima, che l’intelligenza e la ragione mi indicano, ma che non bastano per farmela conseguire. Nello stato attuale debbo cercare o amare — perfecte quaerere — ciò a cui tendo, ed oltrepassarmi. CapitoLo II DISCUSSIONE INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA |. — Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni. In un lunghissimo articolo di più che 60 pagine, I! con- cetto di Metafisica e lo Spiritualismo cristiano, pubblicato nella « Rivista di filosofia nescolastica » (1, 1949), il Rev.mo Mons. F. Olgiati, traendo lo spunto dal fascicolo (IV-V, 1947), che questa Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto in Italia e al- l’Estero sotto il nome, del quale sono responsabile, di « Spi- ritualismo cristiano ». Naturalmente terrò presenti in questa risposta solo le obiezioni che mi riguardano direttamente e di esse in spe- cial modo quelle che toccano l’essenziale. Debbo ancora dire che, alcune di esse hanno già avuto risposta, spero chiaritiva, in molte pagine raccolte in questo volume. Ciò mi obbliga a non dilungarmi oltre il necessario, sia per- chè i punti della discussione si possono precisare e chiarire brevemente, sia per non ripetermi. Premesso qualche rilievo, accennerò ad alcune questioni marginali; m’intratterrò da ultimo su quattro punti essenziali. Monsignor Olgiati riconosce onestamente che la posi- zione metafisica che io difendo e sostengo rappresenta « un così largo e diffuso indirizzo di idee » che, se dovesse valere Concetto di Metafisica 127 il criterio della maggioranza, Aristotele e S. Tommaso « non raccoglierebbero oggi se non pochi voti »; e aggiunge: « For- tunatamente nel campo nostro non contano le adesioni, ma le ragioni » (p. 18). Mi permetto domandare a Mons. Olgiati: e che pensiamo delle ragioni senza adesioni? fino a che punto valgono? la verità è sterile o è feconda? le adesioni, guan- tunque da sole non costituiscano la verità di un princi- pio, non sono indicative della sua presa e della sua forza? Si aggiunga che queste adesioni non mancano da oggi, ma ormai da secoli. Quanto nel pensiero moderno, dall’Uma- nesimo in poi, ancora continua efficacemente il pensiero tradizionale ed ha avuto influsso nel corso della civiltà, è platonico-agostiniano: così Ficino ed il neoplatonismo fio- rentino, Cusano e Campanella, Malebranche e Pascal, Vico e Rosmini, Gratry e Blondel ecc. ecc. Si faccia eccezione di Suarez e di Balmes ed oggi di qualche studioso di primo piano e mi si dica quale è stata ed è l’influenza feconda e fecondatrice del tomismo negli ultimi sette secoli del pensiero occidentale. Ho detto del tomismo, non di S. Tom- maso, che è operante anche nella tradizione, diciamo co- sì, agostiniana, come Agostino è profondamente operante nel pensiero del Santo di Aquino, secondo che hanno dimo- strato gli spiritualisti cristiani e non pochi eminenti to- misti. Sarei quasi tentato di dire che il tomismo, almeno storicamente, sia in buona parte responsabile della poca efficacia di S. Tommaso. Ecco perchè io non metterei così insieme, quasi due fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate se non altro per non compromettere quest’ultimo addossan- dogli indiscriminatamente alcune responsabilità non sue. 2. — Questioni marginali. Ed ora qualche accenno a questioni marginali. a) Mons. Olgiati nel suo articolo ritiene indispensabile innanzi tutto richiamare il concetto di metafisica « sia come 128 Filosofia e Metafisica è inteso da Zui secondo i principî della filosofia classica », sia come è inteso da me (p. 4). E il mio, che si appoggia a Platone ed Agostino senza affatto trascurare Aristotele e S. Tommaso, non è inteso secondo i principî della filo- sofia classica? o i principî della filosofia classica sono quelli di Aristotele, soli soli, senza che si possa mutare una vir- gola, monopolio della Neoscolastica di Milano? b) Secondo Mons. Olgiati, io (e il Blondel) non ho il «concetto del concetto »; ma come avrei potuto formulare lo stesso tema: « Che cosa è metafisica » (cioè qual'è il con- cetto della metafisica), se questo ben dell’intelletto mi fosse mancato? Il concetto del concetto non è mai mancato a nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate scoprisse il concetto: si tratta solo di intenderlo in maniera astratta o concreta. Nè io nè Blondel neghiamo il valore della ragione o dell’intelletto, senza di cui l’uomo cesserebbe di essere uomo, la filosofia filosofia e il pensiero pensiero. E ciò ho detto e ridetto in ogni circostanza, perchè questo ritornello mi è stato cantato altre volte; altrettante è stato da me detto e ripetuto che dalla ragione non si può prescindere e che il problema primo è quello della verità senza di cui non c’è neppure carità. Credo superfluo insistere su questo punto, non senza però cogliere l’occasione di dire che è mio desi- derio che venga tenuta distinta la mia posizione, quale che sia, da quella del Blondel. Che io abbia simpatia per il pen- satore francese è vero; che il Blondel abbia contribuito a formarmi intellettualmente e da me sia stato difeso a vi- so aperto da fraintendimenti ed accuse infondate, è anche vero; ma che io l’accetti in pieno e sia blondeliano è asso- lutamente gratuito. Perciò non comprendo come l’Olgiati possa scrivere che rispetto al Blondel io sia «ancora nel periodo del primo entusiasmo » (p. 61). Niente affatto: non « primo » perchè l’influenza diretta ed evidente del Blondel c'è già nelle Linee di uno spiritualismo critico di tredici anni or sono (1936); nè « entusiasmo » (ma che Mons. Ol- Concetto di metafisica 129 giati pensasse al suo per Aristotele?) perchè non ho entu- siasmo per nessuno, ma solo per la Verità e dunque per ogni pensatore, quale che sia, per quel tanto di verità che contiene. Ed è per quel tanto di verità in essa contenuta che ho difeso la filosofia blondeliana in più di una cir- costanza ed ho polemizzato contro quanti Blondel hanno spesso criticato senza neppure leggerlo. La verità va rispet tata dovunque s’incontri per il fatto che è verità. E credo che Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere in vista quel poco di verità che contiene lo Spiritualismo cristiano degli altri e mio, quel minimum comune, fondamento per inten- derci anche attraverso la discussione e i dissensi. I casi sono due: o lo Spiritualismo cristiano ha una sua verità ed è bene partire da questo consenso fondamentale; o non ne ha alcuna ed allora è inutile discuterlo. c) In un punto del suo articolo (p. 38) l’Olgiati scrive che io posso replicargli che « non afferra » la mia «idea precisa colui che mi muove simili critiche ». Sono costretto a dirgli, dopo aver letto attentamente il suo articolo, che egli ha pro- prio ragione: le sue critiche mi sembrano provare che non abbia afferrato la mia idea precisa. E lo dimostrerò repli- cando sui punti essenziali, oggetto di questo nostro dibattito. 3. — Se hanno una metafisica anche le filosofie che la negano. Il primo punto di dissenso, pur non così radicale come crede l’Olgiati, concerne i concetti di filosofia e metafisica. Per Mons. Olgiati, vi è una metafisica iniziale presente in ogni filosofia, quale che sia: non c’è filosofo che possa filosofare senza avere, sia pure implicitamente, una sua con- cezione del reale, cioè senza avere risposto alla domanda metafisica di che cosa è la realtà in quanto realtà; ma chi ha una concezione del reale quale che sia, ha una sua meta- fisica; dunque non c’è filosofo o filosofia — anche quei filo- sofi e quelle filosofie che si dicono antimetafisiche — che non 130 Filosofia e Metafisica nutra nel suo seno una metafisica, altrimenti « non potrebbe mai aspirare ad una spiegazione filosofica della realtà » (p. 5). Questo il punto di vista di Mons. Olgiati, il quale certa- mente si meraviglierà che io dica di essere d’accordo con lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia tale, la quale non sia metafisica, come vado ripetendo da anni, dal Pro- gramma metafisico, redatto assieme all’Aliotta, della Rivista «Logos» del 1937, alla Necessità di una coscienza meta- fisica, articolo pubblicato nello stesso « Logos» (1939) e ri- prodotto e discusso in quell'epoca da una decina di riviste. E allora, dov'è il dissenso? Ecco: per me oggi è diffusa, e purtroppo anche accreditata, la pretesa che si possa fare filosofia abolendo la metafisica, cioè esimendosi dal rispon- dere alla domanda considerata inutile o inesistente, di che cosa è la realtà in quanto realtà. L’Olgiati è pronto a ribat- tere: «ma questa non è filosofia ». Appunto: è proprio quello che ho detto anch'io nell’articolo che si discute come altrove, e qui ripeto. È proprio qui la crisi della metafisica o della filosofia: non nell’avere anche inconsapevolmente una quale che sia concezione della realtà in quanto realtà, ma nel rinunziare consapevolmente a questo problema e pretendere di fare ugualmente filosofia e di spacciare per vera quella che abolisce o ignora il problema metafisico. La crisi di una disciplina è manifesta quando si nega il suo oggetto proprio e ad essa essenziale perchè di essa costi- tutivo e si continua a dire che, anche così negata nella sua es- senza, è ancora viva come quella disciplina. Nel caso nostro si dice che è filosofia « la non filosofia », cioè il suo contrario; è come dire che è falso il vero ed è vero il falso. Quando nego che queste « filosofie » hanno una metafisica, contro l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene il contrario, e con ciò che siano filosofie, voglio chiarire un equivoco dan- nosissimo e richiamare l’attenzione di questi cosiddetti filo- sofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e a me: « prescin- dete pure dalla metafisica ma non parlate più di filosofia in Concetto di metafisica 131 quanto questa cumincia con la domanda metafisica; voi do- vete ancora incominciare a filosofare, anche se vi chiamate filosofi o anche se la gente ignara e volgare vi considera tali ». Vorrei che Mons. Olgiati fosse d’accordo su questi punti — e non può non esserlo perchè l’accordo c’è: una pura descrizione fenomenologica o empiricamente psicologista è metafisica o filosofia? No di certo, perchè non pone nè sottintende il problema metafisico; eppure quante di queste descrizioni oggi si dicono filosofie e passano per tali? Una pura ricerca metodologica, scientifica o storicista, è metafi- sica? I metodologi non dicono che il reale, in quanto reale, è il fatto storico o altro, ma in altro modo e cioè: « noi ci interessiamo solo del fatto, del fenomeno, dell’evento senza preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia un reale o no»; ed aggiungono che questa è filosofia. Io dico di no, che non lo è, appunto perchè manca di una metafisica e non si pone il problema metafisico. Evidentemente la filosofia incomincia (e perciò non è scienza, nè storia, nè economia, nè altro, quantunque questi problemi possano — debbano — essere posti filosoficamente come problemi del valore e del senso ultimo — metafisico — della scienza, della storia ecc.), quando non ci si ferma al fatto e alla descrizione di esso, ma si va al di là, se ne cerca metafisicamente la intelligibilità pro- fonda, la sua verità nella verità. Riassumendo: Mons. Olgiati vuole mettere i cosiddetti anti o ametafisici con le spalle al muro, così: se fate della filosofia, non potete sfuggire alla domanda metafisica di che cosa è il reale in quanto reale, perchè tale domanda è essen- ziale ad ogni filosofare; pertanto, quando negate la meta- fisica, siete in contraddizione con voi stessi, perchè la filo- sofia, ogni filosofia, ne contiene una ineliminabile; io invece voglio dimostrare loro che chiamano filosofia quella che non è tale. E su questo punto mi pare di aver ragione: a chi abolisce il problema metafisico e la domanda di che cosa è la realtà in quanto realtà, non si può dire che sia in con- 132 Filosofia e Metafisica traddizione, ma gli si deve dire: quella che voi chiamate filosofia non è filosofia, perchè chi fa a meno della meta- fisica fa a meno della filosofia; voi spacciate per genuina una merce falsa. Che siano in contraddizione glielo con- cedono subito all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede infatti l’Olgiati che i «filosofi » dell’assurdo e del nulla temano di essere in contraddizione, loro che ormai hanno paura dell’essere e della verità? Gli dicono che appunto la loro è una metafisica della contraddizione e del nulla e 1’Ol- giati dovrà acconsentire che anche questa è una metafisica, cioè che è metafisica la negazione dei due elementi essen- ziali di ogni metafisica: l’essere e la razionalità. L’Olgiati si meraviglia come non riesca a capacitarmi che « filosofia senza metafisica è un assurdo » (p. 6); mi consenta che io mi meravigli come egli non si accorga che sono perfetta- mente d’accordo con lui. Ma io aggiungo che oggi si pre- tende di fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimo- strare che tante cosiddette « filosofie » odierne, più che con- tradditorie ed assurde perchè si dicono antimetafisiche men- tre una metafisica ce l’hanno, non sono filosofie affatto perchè di fatto rinunziano ad averne una. Aggiungevo però: pur privi di una metafisica, come posizioni di un pensiero quale che sia, portano in loro « immanente, intrinsecamente, l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile della metafisica ». E questo perchè si può sospendere la risposta alla domanda metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che pensi, non si può sopprimere la sua esigenza. Mi pare che la mia critica sia più efficace: negare ad ogni filosofia che rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di con- siderarsi tale e d’altra parte costringerla a riconoscere nello stesso tempo che pure ad essa, come ad ogni posizione di pensiero, è intrinseca l’esigenza metafisica, che si può mi- sconoscere solo per difetto di approfondimento critico. Ma si è che Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di « esigenza », quasi questa parola sia una sgrammaticatura insopportabile dalla correttezza dei linguaggio filosofico. Concetto. di metafisica 133 4. — Metafisica e trascendenza. L’Olgiati è rimasto quasi scandalizzato — qualche tomi- sta, com’egli informa, di occhi evidentemente molto delicati, si è meravigliato come io abbia potuto prendere simili ab- bagli — della mia affermazione che « metafisica è uguale tra- scendenza »; d’altra parte, io accetto la definizione aristote- lica della metafisica come « scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà ». Il mio critico obietta: tra le due tesi c'è contraddizione (p. 30); poi si avvede che, almeno per me, contraddizione così grossolana non c’è e si sforza di intendere meglio il mio punto di vista. Io non vedo, se mi si fa dire quello che dico, dove sia mai la contraddi- zione. L'equazione da me affermata e chiarita di metafisica e trascendenza non può essere intesa alla maniera dell’Olgiati e cioè: «bisognerebbe concludere che la metafisica non è la scienza dell’ente in quanto ente, perchè non ogni ente è il Trascendente » (p. 30). E’ evidente; ma con simili in- terpretazioni la discussione non farà mai un passo apprez- zabile. La mia affermazione significa solo questo: se meta- fisica è scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà essa porta implicito il problema del fondamento primo incon- dizionato del reale, e dunque è implicitamente trascen- denza, in quanto il fondamento del reale non può essere immanente al reale stesso e della sua stessa natura perchè, in tal caso, sarebbe ancora un elemento del reale e non il fondamento primo di esso. Le soluzioni immanentistiche pertanto sono apparentemente metafisiche, in questo senso: se il fondamento primo del reale, che è anche la sua finalità ultima, è immanente e della sua stessa natura, noi ancora ci poniamo il problema della « fisica » e non quello della « me- tafisica », che significa transphysica, cioè scienza dell’al di là della fisica e dunque trascendente il reale dell’ordine natu- rale. Con ciò volevo dimostrare che le filosofie immanen- tistiche, appunto perchè tali, quando si pongono il problema 134 Filosofia e- Metafisica metafisico, in realtà non pongono questo problema, ma, es- sendo immanentistiche, ripongono come problema metafi- sico ancora quello « fisico », risolvendo così (cioè dissol- vendo, negando) la metafisica nella gnoseologia, nella scien- za. Detto ciò, è chiaro che non bisogna ridurre tutta la metafisica alla trascendenza, nè confondere il concetto di « filosofia » con quello di « metafisica », ma è anche evi- dente che non c’è metafisica vera che non concluda razio- nalmente alla trascendenza del Principio primo della realtà, nè c’è filosofia ove manchi metafisica, che è la sua essen- zialità, in quanto condiziona ogni altro problema filosofico. Che poi la mia « trascendenza » (p. 32) me la concedono tutti (da Spinoza a Hegel, ad altri), non ci credo affatto, o meglio me la concederebbero se essa fosse come la intende il mio critico, con un fraintendimento che mi ha sorpreso. Mons. Olgiati mi ammonisce che « per avere una trascen- denza compatibile con uno spiritualismo cristiano... occorre che tale principio assoluto sia essenzialmente diverso dal dato e dalla totalità del dato stesso » (p. 32). E chi ha mai detto diversamente? Nel passo che egli cita, infatti, parlo di oggetto della ricerca che trascende la ricerca stessa e se la trascende non dipende da essa ed è di altra natura; di un principio assoluto che fonda e condiziona il mio ed ogni filosofare e perciò trascende il pensiero e se lo trascende è di natura diversa dal pensiero e dalla totalità di tutto l’or- dine naturale ed umano. Ed è questa la trascendenza che mi concederebbero Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che l’Olgiati interpreta tutto il mio passo immanentisticamente. Un momento: non mi ha poco prima, se non ricordo male, rimproverato che metafisica per me è uguale a trascendenza? Dunque, secondo il mio illustre contradditore, io dico che metafisica è trascendenza e poi riduco la trascendenza alla immanenza. Prego Mons. Olgiati di non muovermi obie- zioni tra loro contraddittorie. Chiariti questi punti essenziali, Concetto di metafisica 135 posso risparmiarmi di rispondere alle altre intorno allo stesso argomento, che ne sono la conseguenza. A conclusione di questa parte del suo articolo l’Olgiati mi fa due domande perentorie: 1) « E’ vero o non è vero che ogni pensatore ha di fatto e non può non avere un concetto di realtà, il quale influenza ogni concetto del si- stema? » (p. 35). Mi pare di aver risposto sopra abbastanza chiaramente e di aver dimostrato come vi siano delle cosid- dette filosofie che di fatto aboliscono il problema della me- tafisica. 2) «E’ vero o non è vero che il problema della trascendenza non è il prius, ma si collega al problema del concetto di realtà in quanto realtà? » (p. 36). Ho risposto già anche a questa domanda, chiarendo in che senso per me metafisica sia uguale a trascendenza. Non è questione di prius nè di posterius, ma di insidenza del concetto di trascendenza nella stessa domanda metafisica. Se metafisica è, in fin dei conti, ricerca del principio primo del reale, cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso la metafisica è implicitamente ricerca del principio trascen- dente del reale stesso, in quanto l’immanenza del principio fa di questo un elemento o la totalità degli elementi del reale naturale e come tale non più transfisico. In questo senso, le soluzioni immanentistiche del problema essenziale della me- tafisica, cioè del principio primo, sono metafisiche solo ap- parentemente, in quanto, se il principio non è transfisico, se non trascende, non è ancora il cercato principio primo del reale, ma il reale stesso posto come principio di sè a se stesso. Soluzione erronea e dunque apparente, perchè l’er- rore non è reale ed è reale solo la verità. E la verità della metafisica è la trascendenza, senza che ciò signifi- chi che tutti i problemi della metafisica stessa si ridu- cano a quello della trascendenza, quantunque resti vero e dimostrato che il problema del principio primo li subordini tutti. Quanto all’altro avvertimento di Mons. Olgiati che l’esi- 136 Filosofia e Metafisica genza non basta perchè non è dimostrativa (evidentemente) ed è necessaria la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio quando egli scri- veva queste sue critiche, avevo già redatto il mio studio sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel « Giornale di me- tafisica ». Se l’Olgiati avesse tenuto presente, oltre all’arti- colo sulla metafisica, altri miei lavori, credo che le sue obiezioni avrebbero avuto un’altra impostazione e parecchie di esse le avrebbe risparmiate a lui e a me. 5. — L'interiorità come l'opposto dell’immanenza. Più gravi fraintendimenti son costretto a lamentare a proposito delle obiezioni che Mons. Olgiati muove al con- cetto di interiorità, considerato in rapporto alla metafisica. Egli parla di « esigenza » dell’interiorità (pp. 4, 36 e passim); dell’interiorità come « aspirazione », « anelito » ecc. (p. 34); ma l’interiorità è molto di più e di diverso: è presenza e vita della verità in me. Evidentemente io parlo di « metafisica dell’esperienza interiore » nel senso agostiniano dei termini; e dunque qui non si tratta di origine psicologica della ricerca filosofica nè di cose simili, bensì di una metafisica che muove dal dato reale più ricco ed eminente nell’ordine della natura, che è la vita spirituale; ed è proprio dall’analisi del dato reale-uomo (o dati reali sono solo le cose? forse l’esperienza interiore non è altrettanto esperienza e più valida di quella esteriore ?) che scaturiscono la trascendenza e la dimostrazione dell’esi- stenza di Dio in termini di assoluto rigore razionale. La meta- fisica è scienza della realtà in quanto realtà; tra gli enti reali c'è l’uomo che è spirito e lo spirito è realtà; dunque perchè non posso prendere le mosse dall’uomo inteso come realtà spirituale e dallo spirito come interiorità nel senso agostinia- no? L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi « metafi- sica uguale trascendenza con l’altra di una metafisica in- Concetto di metafisica 137 teriore (ossia di una metafisica uguale immanenza) ...» (p. 37). Sfido che non lo vede se mi scrive che interiorità è uguale ad immanenza; ma che colpa ho io se lui non vede? Proprio l’opposto, infatti: l’immanenza è la negazione dell’interiorità, la quale, intesa correttamente, importa la trascendenza non fondata su dati puramente psicologici, ma sul dato reale che è lo spirito; non sui sassi e le zucche, per usare i termini adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo una domanda precisa: l’interiorità di Agostino è trascendenza o è imma- nenza? Se è trascendenza, la mia è trascendenza e la sua obiezione non riguarda il mio modo di concepire l’inte- riorità; se invece per lui è immanenza, ebbene, con tutto il rispetto che ho per la sua autorità, resto con Agostino, si- curo di non rischiare l’immanenza e lascio a Mons. Olgiati la responsabilità delle sue gravi affermazioni. La verità è che l’Olgiati tiene presente l’interiorità così come è intesa dal pensiero moderno e contemporaneo. Infatti, a pag. 43 egli scrive: « la metafisica classica, ben lungi dallo svaloriz- zare l’interiorità o dal trascurarne le esigenze, è la sola che salva l’una e può appagare le altre mentre, sotto le appa- renze mendaci dell’interiorità, la filosofia moderna e con- temporanea è orientata verso l’esteriorizzazione ». D'accordo: la filosofia moderna, che ha creduto di approfondire l’in- teriorità riducendola all’immanenza, ha negato l’interiorità autentica, la ha esteriorizzata. E non è stato e non è ancora oggi proprio questo il mio sforzo, quello di recuperare, con- tro la mendace interiorità del pensiero moderno, la verace interiorità agostiniana? Proprio su questo punto ho manife- stato il mio aperto dissenso con l'illustre amico Carlini, a proposito di una discussione intorno al Vico tra lui e il pro- fessor F. Amerio (« Giornale di metafisica » nn. 5-6, 1948). Sono costretto a riportare alcuni passi che mi sembrano la più soddisfacente risposta a quanto mi obietta Mons. Ol- giati: « Vi è qui un problema storico e uno teoretico, distinti evidentemente, ma non separati e separabili: 1) tutto il pen- 138 Filosofia e Metafisica siero medioevale-scolastico è irretito nella metafisica greca (aristotelica) e nel carattere cosmologico di quest’ultima? Evi- dentemente no, e il Carlini, maestro di storia della filosofia, lo sa meglio di noi; nello stesso S. Tommaso vi è più di Agostino che di Aristotele, più di metafisica cristiana che greca, più senso d’interiorità di quanto non sembri a prima vista... 2) Aggiungo ancora — ed il Carlini si scandalizzerà — che il pensiero moderno, pur combattendo la Scolastica, ha ereditato dalla Scolastica proprio l’aspetto di essa più lon- tano da quell’interiorità che tanto sta a cuore al Carlini e a me, cioè il suo cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gen- tile che la trascendentalità idealistica è condannata all’este- riorità, a disperdersi nel mondo, a negarsi come inte- riorità? che lo storicismo idealista è, in ultima analisi, po- sitivismo ed anche empirismo, dove quel che non si salva è proprio l’interiorità dello spirito ?... È qui il punto della que- stione: l’idealismo immanentista ha decapitato l’interiorità cristiana; ne ha accettato il lato, diciamo così, immanenti- stico, ma l’ha privata della trascendenza che le è essenziale, del trascende et te ipsum, che è il suo principio e il suo fine e senza di cui cessa di essere interiorità autentica e si perde nella scientificità, nella storicità, cioè nell’empiria. Su que- sto punto noi non possiamo non essere che critici intransi- genti del pensiero moderno proprio per recuperare quell’in- teriorità che esso ha finito per perdere » (Sciacca, Il pen- siero moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi per- metta ancora l’Olgiati di rimandarlo anche al vol. I del mio S. Agostino (Brescia, Morcelliana) per risparmiargli la fa- tica di continuare a portare vasi a Samo. E giacchè siamo su questo tema, desidero pregarlo di non rimproverare più, almeno chi scrive, che lo Spiritualismo cri- stiano si ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito che questa obiezione (parlo sempre soltanto di me), fino a qual- che anno fa, mi poteva essere mossa; oggi non più. Se la mia Concetto di metafisica 139 personale posizione, quale che sia la sua minima importanza, ha un significato nella filosofia contemporanea e soprattutto dentro lo Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini, è precisamente quella di aver tentato di oltrepassare la posi- zione esigenziale: i miei ultimi scritti credo che non lascino più dubbi a questo proposito. Desidererei che Mons. Olgiati o altri ne tenessero conto. L'ultimo argomento dall’Olgiati discusso riguarda «il progresso a proposito del concetto stesso di metafisica » (p. 9). A questo proposito possiamo essere brevi. In tutto il mio studio, come ha rilevato lo stesso Olgiati, ho tenuto fermo il concetto aristotelico, che è anche platonico, della metafisica come scienza della realtà in quanto realtà: questo il concetto di metafisica e non c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente. Su questo punto l’Olgiati concede (p. 58) che «è certo che nella storia della metafisica classica S. Agostino e S. Tom- maso non sono puramente e semplicemente ripetitori di Ari- stotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in qual modo! Chi non sa che è tollerabile parlare di S. Agostino, come del Pla- tone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele cri- stiano, solo a patto di riconoscere nei due nostri pensatori uno spirito essenzialmente diverso e non paragonabile a quello dei due pensatori greci? Potrebbe quindi sembrare che la storia deponga a gran voce contro di me. Anche per- chè, prescindendo da ciò che io penso a proposito della inte- riorità cristiana in metafisica e delle tesi di Armando Car- lini, è indubitato che dai principî della metafisica greca i grandi filosofi cristiani hanno saputo far sgorgare conse- guenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene non vi aveva intuito. Il problema del male e il concetto filo- sofico di creazione, nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate, se- gnano sviluppi e progressi d’indole metafisica... ». Dunque per la riduzione del concetto di realtà al concetto di ente progresso c’è stato e ci potrà essere ancora, senza che ciò 140 Filosofia e Metafisica faccia che non sia verità quello che di verità si è scoperto. È evidente che questo non significa progresso del concetto di metafisica, di cui non c’è progresso, come non ce n'è, per esempio, del principio di contraddizione. Mi pare però che subito dopo l’Olgiati confonda i due problemi del con- cetto di metafisica — senza progresso, una volta scoperto — e della metafisica aristotelica, quando scrive: «come non pro- gredisce la definizione di triangolo o di circolo, quando un matematico scopre un nuovo teorema a proposito dell’uno o dell’altro, pur essendo tale teorema contenuto nel con- cetto di quelle due figure geometriche, così non si può par- lare di progresso nel concetto di metafisica, quando, ad esem- pio, si vede che il concetto di ente in quanto ente, nel caso di un rapporto di non identità tra essenza ed essere, conduce mediante un ragionamento ad ammettere la creazione... » (p. 58). Che il concetto di creazione non importi progresso. nel puro concetto della metafisica è vero; ma qui si tratta di sapere se non ne ha importato nella concezione metafisica aristotelica. È stata tale rivoluzione il concetto di creazione, che non si vede affatto come possa reggere l’esempio del triangolo o del circolo. Teniamo distinti i due problemi ed il progresso della metafisica da Aristotele a quella di Ago- stino e Tommaso è innegabile ed immenso. 6. — Ultime precisazioni. Mons. Olgiati a pag. 43 scrive: «lo Sciacca... ha rac- comandato di non compromettere la realtà spirituale per amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristote- lica, della filosofia come cosmologia, ossia per amore di una metafisica pagana ed il Carlini aderisce toto corde a tale preoccupazione. Ma che importa se la scienza dell’ente in quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè nè pagana nè cristiana; è umana. Che la sua scoperta sia dovuta ad un pagano nulla toglie al suo valore, il quale non ha nes- Concetto di metafisica 141 sun rapporto col paganesimo. A noi sembra che non è lecito qualificare come naturalistica la metafisica aristotelica. Non ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era quello di un santo medievale come lo era quello di S. Tom- maso ». Tutto quello che non sembra preoccupare ed inte- ressare Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltis- simo. Precisiamo il nostro punto di vista: quando il Car- lini ed io parliamo di « metafisica pagana » e qualifichiamo come « naturalistica » quella di Aristotele, intendiamo dire che, dopo il Cristianesimo, quella concezione metafisica — non diciamo il concetto di metafisica — va integrata: si tratta non di abbandonarla, ma di completarla, come ha fatto S. Tommaso. Evidentemente in questo completamento i termini assumono un significato che, senza tradire quello che dà ad essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il Gilson è di questa opinione). Per esempio: di fronte al concetto di creazione, che è il problema esistenziale per eccellenza, l’aristotelismo può restare aristotelismo nella lettera e nello spirito? Altro esem- pio: il Dio di Aristotele è fine totale come lo è il Dio crea- tore del Cristianesimo? Non mi obietti Mons. Olgiati che qui entriamo nelle verità rivelate e usciamo dal campo strettamente filosofico; gli rispondo subito (e credo di essere tomista) che fede e filosofia, senza confondersi, non possono restare estranee l’una all’altra, almeno per uno spiritualismo che ci tiene a qualificarsi cristiano. Il Dio creatore per amore, insegnato dalla fede, è una verità recuperabile dalla ragione; ed una volta recuperata porta una rivoluzione metafisica, che è appunto quella appor- tata prima da Agostino nella metafisica dei cosidetti « Plato- nici » e poi da S. Tommaso in quella di Aristotele. Ecco per- chè il Carlini ed io chiamiamo cosmologica e naturalistica la metafisica greca di Aristotele come di Platone, e teolo- gica e spiritualistica quella di Agostino e Tommaso (quali che siano poi le differenze tra i due pensatori) ed ogni altra che voglia essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo 142 Filosofia e Metafisica — e certamente Mons. Olgiati lo sa meglio di me — che molti tomisti oggi sono orientati a mettere in luce l’originalità di S. Tommaso rispetto ad Aristotele, a rilevare più gli appro- fondimenti e gli avanzamenti anzichè le identità. La Neo- scolastica italiana ci tiene proprio tanto a restare ferma ad un S. Tommaso abbarbicato tutto allo Stagirita e ad addos- sare al gran Santo le responsabilità della filosofia aristotelica; a restare in un isolamento — anche rispetto a tutte le altre correnti di pensiero cristiano-cattolico, tomista o no — che comincia a diventare molto (troppo) significativo ? Parrebbe di sì, se Mons. Olgiati, con una espressione che mi ha tur- bato, arriva a dire che « neppure gli stessi nobilissimi com- piti dell’apostolato » (p. 63) smuoveranno la Neoscolastica che egli rappresenta. E a che cosa la Neoscolastica non vuole rinunziare? Ecco: al « primato della Luce che è Vita, ma che è Vita appunto perchè è Verità e Luce». Certo; ma questa Luce, che è Vita perchè la Vita è Verità e Luce non è più Aristotele; e se Aristotele leggesse queste parole o le intenderebbe a modo suo, paganamente e naturalisticamente, o vi capirebbe poco o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e lo trova nella intimità dell'anima (spiritualismo cristiano), nell’interiorità dello spirito, senza che ciò significhi abolire la natura, il concetto, la ragione. Nello spirito la cerca anche S. Tom- maso, che è cristiano prima di essere aristotelico. Concludo con il Gilson: S. Tommaso «on l’a beaucoup commenté, mais fort peu suivi. La seule manière de le suivre vraiment serait de refaire son oeuvre telle que lui-mème la ferait aujourd’hui à partir de mémes principes et d’aller plus loin que lui dans le méme sens et sur la voie mème qu'il a Jadis ouverte » (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948, pa- gine 321-322). Non è questo un compito molto più proficuo che ripetere S. Tommaso invece di farlo avanzare e di- fendere lo spirito cosmologistico e naturalistico della me- tafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a scuola, Concetto di metafisica 143 il Gilson e il Blondel, tomisti come De Finance e tanti altri, la Neoscolastica di Lovanio e gli spiritualisti cristiani italiani, tutti a scuola: da chi? Evidentemente alla scuola dei grandi pensatori classici e cristiani, di Platone e Aristotele, di Ago- stino e Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare nella scuola dove già sono stati e nella quale desiderano rimanere. 7. — Replica ad una replica. Nel fasc. IV, 1949, della « Rivista di filosofia neoscola- stica » (pp. 401-443), Mons. Olgiati replica alle risposte del Carlini e mia. Lo ringrazio della considerazione in cui ha voluto tenere le mie pagine e di quanto scrive in questa sua replica, alla quale rispondo brevemente, evitando ogni accento polemico e limitandomi ad alcuni chiarimenti e pre- cisazioni. Riconosco subito, che Mons. Olgiati fa delle concessioni: « E quanto, dal punto di vista storico, si dice che l’amimus di Aristotele era volto al mondo, all’empiria, alla realtà spe- rimentale, dalla quale assurgeva, come a spiegazione finali- stica, all’Atto puro, da lui riguardato in rapporto col mon- do, non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini, come lo Sciacca, hanno perfettamente ragione » (pag. 406). E aggiunge che questo, più che Aristotele filosofo, è lo scienziato, quello che « anche quando... parla del mondo intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo sensibile, all’espe- rienza, ossia, come io direi, con preoccupazioni empiriche » (iv:). Resta da vedere fino a che punto l’Aristotele « scien- ziato » influenzi Aristotele « filosofo » e lo condizioni; se il filosofo, almeno un filosofo che oggi si dice « cristiano », non debba proprio fare all’inverso, cioè: anche quando parla del sensibile farlo con l’occhio volto sempre all’intelligibile e cioè, direi io, «con preoccupazioni non empiriche »; così come fa Platone, che pure non è cristiano, anche se l’Acri ha voluto farne il pagano profeta di Cristo. 144 . +» . Filosofia e Metafisica L’Olgiati pensa che Aristotele, partendo dal sensibile, «ci ha invitato a riguardar quella realtà sensibile o speri- mentata, ma solo in quanto realtà. Ossia contro tutti co- loro — Hume e Kant compresi — che avrebbero dichiarato l'impossibilità di superare con i nostri concetti l’esperienza, Aristotele ci ha insegnato — mediante la sua metafisica — concetti e leggi, che, quanto alla loro origine, hanno le radici nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e non possono non verificarsi in ogni realtà ed in ogni mo- mento di qualsiasi realtà, anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile » (p. 407). Dubito che, se tutti i concetti e le leggi hanno, quanto alla loro origine, le radici nella esperienza, possano poi verificarsi, quanto al valore, in ogni realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile; credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e le leggi hanno aristotelicamente le radici nell’esperienza, avrebbero qual- cosa da dire proprio intorno alla possibilità di oltrepassare coi nostri concetti l’esperienza stessa; tranne che non si di- mostri che tutta la critica della conoscenza e il concetto critico di esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni stiano a provare soltanto che il pensiero moderno di quella metafisica ha capito niente o pochissimo; che è come dire che quattro-cinque secoli di filosofia, su un problema fon- damentalissimo, non contano affatto. Credo, invece, che, a questo proposito, vadano poste due precise domande: 1) quell’« origine » (l’esperienza sensibile) rende davvero pos- sibile che, in quanto al « valore », concetti e leggi si verifi- chino universalmente, anche in una realtà insperimentata ed insperimentabile, oppure proprio qualche principio, che non ha radice nell’esperienza sensibile, rende proprio es- so possibile la formulazione dei concetti e ne garantisce il valore? 2) La posizione aristotelica, al cui insegnamen- to Mons. Olgiati ci incita, non è forse almeno in parte responsabile di quella critica della metafisica, a cui il pen- siero moderno è stato gradualmente portato? In altri ter- Concetto di metafisica 145 mini, è da chiedersi se il pensiero moderno non sia un ari- stotelismo critico, cioè un giudizio su Aristotele o un appro- fondimento spinto fino alla negazione della possibilità di una metafisica come scienza, se aristotelicamente impostata. Oppure ancora così: il razionalismo e l’empirismo moder- ni come il criticismo kantiano concludono col « sospendere » la metafisica, in quanto si allontanano da Aristotele e l’in- tendono male o non l’intendono affatto, oppure in quanto ereditano proprio la mentalità «scientifica » del « filoso- fo» Aristotele e sue preoccupazioni empiristiche che, quanto sembra, non lo abbandonano mai, anche quando costr uisce la sua metafisica come scienza dei principi pri- mi del mondo fisico, che si continua in quello celeste e cul- mina nel Motore Immobile? L’Olgiati riconosce ancora che il Carlini ed io abbiamo ragione («è verissimo ») di sostenere che S. Tommaso non è Aristotele, perchè c'è di mezzo il Cristianesimo e « l’uti- lizzazione di S. Agostino. Son lieto di rilevare quest'altro pun- to di accordo con il mio illustre contraddittore (stiamo in- fatti discutendo da circa un anno), il quale così continua: «La creazione implicava per lui [S. Tommaso] l’impos- sibilità di ripetere a riguardo delle forme la parola citata dagli « Analitici » res ita est et non potest aliter se habere: no, avrebbero potuto essere diverse, se Dio, Libertà assoluta, le avesse create diverse » (p. 407). Mi domando se il con- cetto di creazione implichi soltanto questo o una vera e propria rivoluzione metafisica; ma basta solo quel « Dio Libertà assoluta ». Ora, se le cose stanno come anche l’O. riconosce, che resta della «costruzione » metafisica aristo- telica? Il concetto di metafisica, scienza della realtà in quanto realtà? Ma concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica, resta da vedere se quella che egli costruisce sia vera e fino a che punto, se identica a quella di S. Tommaso e defi- nitiva. Non mi pare che l’O. stesso sostenga questa tesi, in quanto ammette tra la metafisica aristotelica e quella 146 Filosofia e Metafisica tomista differenze profonde. E questo non è progresso? Perchè allora mi ribatte quando parlo, e non in senso stori- cistico, di progresso in metafisica? L’O. precisa ancora: « L’animus di S. Tommaso non è più indirizzato verso l’em- piria; meglio, studia anche la realtà fisica, ma con ben altra preoccupazione che non Aristotele, e cioè con un orienta- mento metafisico » (p. 408). Se l’animus di S. Tommaso non è più indirizzato verso l’empiria, si ammette che lo sia quello di Aristotele; se studia la realtà fisica con ben altra preoccupazione di quella dello Stagirita « e cioè con un orien- tamento metafisico », significa ancora, proprio secondo l’O., che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è me- tafisico, ma, come sosteniamo il Carlini ed io, cosmologico e naturalistico, cioè scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son grato a Mons. Olgiati delle differenze che egli segna tra Ari- stotele e S. Tommaso, le quali confermano autorevolmente il mio punto di vista. Ma tre righe più sotto si legge: « Fe- dele ad Aristotele, egli [S. Tommaso] non perde mai il con- tatto con la realtà: nella realtà sta il suo punto di partenza, la via da lui percorsa e il punto d’arrivo ». Quale realtà? quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che vuol dire che l’animus del grande Dottore non è più indirizzato verso l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento metafisico? Francamente su questo punto vorrei vederci chiaro e perciò semplifico la questione: i concetti di « crea- zione », della realtà come verità, di « spirito », di « libertà », ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo e utilizzati da Sant'Agostino, una volta introdotti da S. Tommaso nella costruzione metafisica di Aristotele, la lasciano sostanzial- mente intatta sì o no? Se tali concetti sono operanti nella metafisica tomista, come in quella di ogni pensatore cri- stiano, non v'è dubbio che essa non è quella aristotelica e non lo è sostanzialmente; altrimenti bisogna ammet- tere — l’O. sembra contrario — che il Cristianesimo e Concetto di metafisica 147 l'utilizzazione di Agostino siano puramente accidentali e la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente identica a quella di Aristotele. Qui non si fa questione del « concetto » o della definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica di Aristotele; infatti, non basta dire che il concetto di me- tafisica è identico nei due pensatori, nè che vi è accordo circa il concetto della realtà in quanto ente. È da questo punto che comincia la questione: che è realtà? che è ente? Ora i concetti di realtà e di ente che elabora Aristotele sono quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione metafisica dei due pensatori è identica o no? i concetti di analogia, potenza, atto, Motore immobile o Dio sono identici nelle due me- tafisiche o no? Se l’O. risponde di sì mi permetta di do- mandargli dove e in che modo S. Tommaso utilizza S. Ago- stino e il Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto rispetto allo Stagirita. Se risponde di no deve concedermi che, pur sulla base del concetto aristotelico di metafisica, la metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e diversissima cosa da quella aristotelica, e che, come sostengo, è naturalistico-cosmologica e come tale (non se ne scanda- lizzi) panteistica. Pertanto, potenza ed atto, Motore immo- bile ecc. in S. Tommaso hanno ben altro senso, sono pre- gnanti di un arimus che non ha niente a che vedere con quello della metafisica dello «scienziato » Aristotele. Ma pare che l’O. voglia limitarsi al puro concetto di metafisica. In tal caso, però, si ferma alla definizione gene- rale senza entrare a considerare una costruzione metafisica concreta, cioè una concezione del reale e dell’ente ed è costretto a limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto aristotelico-tomista è della metafisica come scienza della realtà in quanto realtà. E poi? L’O. mi obietta: « Il Prof. Carlini è logico perchè mi respinge tale concezione del reale. Invece il Prof. Sciacca dice di ammetterla e poi mi ostracizza come naturalistica la metafisica costruita su quelle fondamenta » (423). Credo di essere « logico » anch'io — non 148 Filosofia e Metafisica come il diavolo dantesco, spero —: accettata quella definizio- ne della realtà in quanto ente, resta da costruire la metafisica ed io ostracizzo come naturalistica quella aristotelica; altro è accettare la definizione della metafisica, altro, mi pare, è (o sbaglio?) accettare una determinata costruzione metafisica. Non accetto quella aristotelica — e desidererei sapere se S. Tommaso l’accetta così com'è — appunto perchè naturalistica e perciò lontana da una metafisica che tenga conto del Cri- stianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande da me poste non trovo una sola risposta precisa in tutto l’articolo di Mons. Olgiati. Infatti, rispondendo al Carlini, egli dice che S. Tommaso, « qualsiasi questione affrontasse... la pro- spettava metafisicamente »; e così esemplifica: « discusse il problema della libertà umana, ma non fu ad un argo- mento psicologico (l’attestazione della coscienza), nè all’ar- gomento morale (l'impossibilità di un'attività etica qualora non fossimo autodeterminatori) che egli si rivolge, quanto alla prova metafisica, sviluppata unicamente in funzione del concetto di ente. Discusse il problema di Dio: m a non fu al consenso dei popoli e della storia, non alle aspirazioni del- l’animo nostro, alle esigenze proclamate dalla morale od alla vita che egli si indirizzò per le sue vie, bensì ad un ente constatato ed alle leggi dell’ente. Persino la teologia di S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se non dall’ela- borazione del dato dogmatico in funzione della metafisica dell’ente? » (p. 409). Mi permetto osservare: ha ragione S. Tommaso di rivolgersi a prove metafisiche, ma, se mette da parte l’argomento psicologico, quello morale, le esigenze della vita ecc. ha torto, perchè anche questi sono argomenti che hanno il loro peso, e la convergenza degli argomenti è un argomento probativo; ha ancora torto perchè questi ar- gomenti, se approfonditi, hanno anch'essi una portata meta- fisica; anche la vita psicologica e morale sono esperienza (lo è la spiritualità nella sua totalità ed integralità) e vi è me-. tafisica dell’esperienza interiore, dalla quale, a mio avviso, de- Concetto di Metafisica 149 vono passare quelle « vie » che dimostrano l’esistenza di Dio. Inoltre, concesso che S. Tommaso abbia elaborato tutti i pro- blemi in funzione del concetto di ente e della metafisica del- l'ente, resta da precisare se la sua concezione metafisica sia quella di Aristotele; ammesso che lo sia, da spiegare come egli abbia fatto a trarre fuori da essa un concetto di «li- bertà », delle prove dell’ « esistenza di Dio » e persino una « teologia » che traducono tutta la profondità e l'originalità di significato che questi termini hanno nel Cristianesimo. Questo punto non lo vedo chiaro e desidererei precisazioni ben fondate. Ancora una domanda: Mons. Olgiati a più riprese, nel- l’articolo che discutiamo e in quello precedente, dice che S. Tommaso non rinnega ma completa Agostino (p. 419); che non si può comprendere il significato della parola es- senza, che pure è indispensabile per dichiarare cos'è l’ente, se non si « esulta » prima dinanzi alla « bellezza fulgente » del concetto agostiniano della realtà come verttas; aggiunge che S. Tommaso non ripete Aristotele; che utilizza il Cristia- nesimo (per es. il concetto di creazione ecc.) ed Agostino. Desidererei che egli mi dicesse non così, in generale, ma con- cretamente come S. Tommaso completa, senza rinnegarlo, S. Agostino nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se accetta il concetto agostiniano della realtà come veritas « in- teriore »j che cosa accetta della metafisica di Aristotele e do- ve la modifica profondamente, cioè in quali tesi non è aristo- telico; se la sua metafisica, con la introduzione di concetti cristiani ed agostiniani, mancanti in Aristotele, si possa chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo spirito profondo. Credo che un chiarimento preciso su que- sti punti sarebbe molto utile, soprattutto a me; e lo dico sinceramente. Il lettore forse non si sarà ancora accorto che fino ad ora non ho risposto, tranne che in un punto, alla parte del- l’articolo dell'O. che mi riguarda direttamente, bensì all’al- 150 Filosofia e Metafisica tra diretta al Carlini; ma i punti toccati interessano anche me e perciò ho creduto opportuno occuparmene. D'altra parte, il modo d’intendere e di valutare la me- tafisica di Aristotele come la questione dei suoi rapporti con quella di S. Tommaso sono i punti in cui il Carlini ed io concordiamo quasi del tutto, se si eccettua qualche giu- dizio carliniano sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io, in alcuni punti fondamentali, dissentiamo profondamente, come lo stesso Olgiati ha qua e là rilevato e come si può vedere dalla stessa risposta del Carlini all’Olgiati, dove il mio illustre amico ne ha anche per me. Ma è bene che io qui mi limiti a rispondere solo a Mons. Olgiati, altrimenti si finisce davvero per confondere le lingue; e poi, contro due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole! All’amico Carlini ri- sponderò a parte nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘): i dissensi in famiglia — e credo che siano forti — è bene che ce li discutiamo tra noi con il garbo e la serenità che si con- viene tra amici e che del resto, malgrado qualche espressione vivace da ambo le parti, sono stati conservati anche nel di- battito con Mons. Olgiati. Che il dissenso con il Carlini sia rilevante appare subito da queste mie affermazioni categoriche: ritengo, anche dopo la critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo la critica al massimo delle sue possibilità, 1) che si possa fondare una metafisica, con cui identifico la filosofia nel senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa metafisica sia quella della verità (dunque punto di partenza è l’uomo nella sua integralità), di cui Agostino è il maestro, ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella linea della metafisica classica. Non esssermi stato riconosciuto ciò dall’Olgiati è la cosa — lo dico con tutta sincerità — che più di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare {non « gridare », come dice l’O.) di essere stato frainteso; ma torniamo alla discussione vera e propria. (1) La risposta è stata data indirettamente in altra occasione. Concetto di metafisica I5Ì Mons. Olgiati dubita che io abbia avuto tra mano (« se il prof. Sciacca prenderà tra le mani» p. 421) il volume che l’Università Cattolica pubblicò nel ’31 in occasione del centenario agostiniano. Lo rassicuro subito: nel mio S. Ago- stino (volume I), da poco pubblicato, lo cito una ventina di volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta, prego io l’Ol- giati di « prendere tra le mani » questo mio volume e di leg- gerlo con un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel Convegno di Gallarate del ’46, come presentatore del tema « Agostinismo e tomismo » sostenni, tenendo presente il Ma- snovo, la tesi della concordanza o almeno della non antiteticità dei due grandi pensatori (« Atti del II Convegno dei filosofi cristiani di Gallarate », Milano, 1947). Ma lasciamo questo punto secondario anche per evitare di continuare a consi- gliarci, l’O. a me ed io a lui, la lettura di libri che cono- sciamo benissimo. L’Olgiati si mostra ancora preoccupato della mia affer- mazione: «l’ontologia è vincolata all’antropologia », in quanto crede che essa apra le porte al relativismo; e aggiun- ge: «È il valore di assolutezza della verità — tesi primale di S. Tommaso, di S. Agostino — che ci sta a cuore» (pag. 423). A me invece, secondo l’O., starebbe a cuore il soggettivismo e il relativismo della verità; a me che da quasi quindici anni combatto l’uno e l’altro; distinguo — e ciò fa arrabbiare persino il mio amico Carlini — tra « idealismo spurio » (soggettivo) ed «idealismo autentico » (oggettivo) e contrappongo energicamente alla tesi della « verità come sviluppo » l’altra della «verità come scoperta », ecc. Ma tant'è, a me starebbe a cuore non il valore oggettivo della verità, ma un assurdo Cristianesimo «colorito di relativi smo » (pag. 432). Se così fosse non avrei capito niente di Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei ancor testa e piedi nel soggettivismo idealista. Evidentemente le parole «l’ontologia è vincolata all’antropologia » vanno intese diver- 152 Filosofia e Metafisica samente da come le intende l’O. che, chissà perchè, quando mi fa l’onore di discutermi, interpreta le mie espressioni in senso idealistico e mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco, infatti, come intende quell’affermazione: «Il nostro sapere sarebbe fatalmente relazivo al soggetto; noi non potremmo conoscere se non ciò che appare all'uomo in quanto uomo; ossia il relativismo si imporrebbe e non vi sarebbe nessuna verità di valore assoluto » (p. 423). Questo è inventare e non criticare, per il gusto di far passare tutti da « fenomenisti », tranne Mons. O., unico interprete di S. Tommaso aristotelico. Io dico perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della cono- scenza umana non è dato dal soggetto ma dall’oggetto, cioè dalla verità che è presente (inzeriore) alla mente e per- ciò è sempre verità di un soggetto pensante, senza che ciò significhi che è ad esso relativa. Ma il soggetto pensante è l’uomo; dunque egli è il soggetto del filosofare, avente co- me oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante: non è il pensiero che fa essere (pone) la verità, ma è la verità che fa che il pensiero pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa, 1) non vedo dove stia il relativismo, in quanto 2) la mia espressione « l’ontologia è vincolata all’antropologia » signi- fica precisamente: l’ontologia è vincolata all'uomo in quan- to soggetto di una verità oggettivamente valida, di cui ha profonda interiore esperienza. «Se noi siamo chiusi nel- l'antropologia, siamo e resteremo incatenati nella esperien- za» (p. 425). Desidero (posso sperare di riescirvi?) tran- quillizzare l’Olgiati che #07 restiamo chiusi nel carcere del- l'antropologia perchè è presente alla mente dell’uomo la ve- rità che lo spinge a trascendersi fino a quando non abbia trovato pace nella Verità, che è Dio; che mon siamo e 207 resteremo incatenati nell’esperienza appunto perchè quella in- teriore è esperienza della verità oggettiva. Ho i miei dubbi che questi pericoli li corra Aristotele con quelle sue «preoccupazio- ni empiriche » e con quel suo star «sempre volto al mondo Concetto di metafisica 153 sensibile, all’esperienza », dove «concetti e leggi... hanno le radici »; e con Aristotele Mons. Olgiati. Noi diciamo, in- vece, che il pensiero umano ha le sue «radici » nella verità che gli è interiore (esperienza, dunque, ma non la sensibile, almeno in questo caso) e che tale verità ha il suo Prin- cipio ultimo, la Radice assoluta, in Dio. Perciò, non è vero, come dice l’O., che io « protesti di essere nello spirito » del- l’aristotelismo e del tomismo, se per tomismo s’intende l’ari- stoteliimo di Aristotele; al contrario, non vi tengo affatto ad essere nello « spirito » dell’aristotelismo, e rifiuto il Mo- tore immobile di Aristotele, se lo si vuol far passare per il Dio creatore cristiano. Desidererei sapere se anche S. Tom- maso, per l’O., sia proprio nello « spirito » dell’aristotelismo e se il suo Dio sia il Motore immobile aristotelico. Di passaggio rilevo un’altra espressione: « Tuttavia dire spiritualità è dire, almeno almeno, potenzialità della concet- tualizzazione » (p. 427); ma la spiritualità, nel senso pre- gnante e profondo, è una verità cristiana, ignota al pen- siero greco. E l’attività dello spirito è solo potenzialità della concettualizzazione? Per Aristotele sì, ma per la filosofia cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me la piglio con «una scienza puramente nozionale e di astratti ed esangui rapporti o balletti logici». Se si identifica la spiritualità con la concettualizzazione o con quella che Platone chia- ma la È:zvorx, sono costretto a mantenere il mio punto di vista e a contrapporvi una spiritualità più ricca e con- creta, la vénets, che del resto non nega affatto il valore del concetto ed è sempre molto meno della spiritualità cri- stiana. Non credo che sia necessario insistere nel chiarire l’altra mia espressione « metafisica uguale trascendenza » dopo quanto ho detto in proposito nelle pagine precedenti; nè mi sembra che quanto ora aggiunge l’O. mi costringa a ritor- nare sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia posizione non è sufficiente per arrivare alla trascendenza, 154 Filosofia e Metafisica come non lo è quella dello Hegel, che resta nell’immanen- tismo (p. 435). Debbo anche questa volta ripetere che io sono ben lontano dalla posizione idealistica, in cui l’O. mi vuol cacciare a qualunque costo. Passando ad altro argomento, non credo che io abbia «confuso » (addirittura!) «immanenza » con «immanenti- smo » (p. 436), ma ho semplicemente usato il termine im- manenza nel senso di immanentismo, come spesso fanno anche gli immanentisti. Perciò escludo che interiorità sia uguale ad immanenza e preferisco, appunto per evitare « con- fusione », parlare di « presenza » od «interiorità » della ve- rità, anzichè di immanenza, termine ormai compromesso. Che sia così, lo dimostra proprio il fatto, ricordato dall’Ol- giati, che per avere parlato di « méthode d’immanence » i filosofi dell’azione, quelli non modernisti, si son visti ac- cusare di immanentismo e si son tirate addosso una se- quela di obiezioni e polemiche non di rado ingiuste e infondate. Mons. Olgiati osserva ancora: «se metafisica significa scienza della realtà in quanto realtà, la realtà interiore io non la posso, in un primo momento, riguardare in quanto interiore, ma solo in quanto realtà ed allora avrà i concetti e le leggi valide per ogni qualsiasi realtà e non solo per la realtà interiore. A questa difficoltà il prof. Sciacca non ha risposto » (p. 437). La risposta, invece, è data da un buon numero di miei scritti e la dà indirettamente lo stesso O. a p. 438: «E quando il pensatore d’Ippona mi dice che la realtà è veritas ontologica, è raggio che m’invita a conoscere il Sole, mi dà un concetto che vale per ogni realtà, anche per quella che Platone disprezzava come fenomenica, an- che per la realtà della natura ». Da ultimo l’O. torna an- cora sulla questione del « progresso in metafisica »; e, in fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne sia stato. Queste le sue parole: «E questo atteggiamento doveroso ci mostra, sì, in ogni sistema ed in ogni indirizzo una con- Concetto di metafisica 155 quista nuova, la quale però mon segna necessariamente un progresso in metafisica, ma può realizzare progressi in altri campi, sia della filosofia come della scienza, come della storia » (p. 439). In tutti i campi, sì, si può parlare di pro- gresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a san Tommaso, tutta compiuta. Non che la metafisica escluda come tale il progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san Tommaso, il quale «implica e supera le conquiste platoni- che ed agostiniane » (p. 424); dopo non più. E perchè? Perchè mai, se delle conquiste, come quelle precedenti a S. Tommaso, hanno potuto essere implicate e superate, a detta dell’O., nella metafisica tomista, le conquiste di que- sta non possono poi essere ulteriormente implicate e supe- rate? Così quella verità metafisica resta là senza progresso, come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto, come di- cono i tomisti, mentre noi diciamo che di perenne vi è solo il filosofare come progressiva e sempre perenne sco- perta della verità inesauribile. Perciò noi ripetiamo all’O. che non facciamo la glorificazione e l’esaltazione di nessuno, nè di Platone, nè di Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel, ma solo li consideriamo, pur con le loro differenze (e chi potrebbe negarle?) uniti in un animus di filosofare affine al nostro e che non è l’arimus o lo spirito del filosofare aristotelico per il motivo semplicissimo che è quello cri- stiano. Io mi sono occupato di questi pensatori e battuto affinchè siano ben intesi e non fraintesi, senza omettere di rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro manchevolezze e insufficienze o punti oscuri da chiarire. Certo il concetto agostiniano di veritas non è quello blon- deliano di vita, ma credo che i due concetti non si esclu- dano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e nel- la verità oggettiva e non si penetra la verità oggettiva, che è fonte di vita spirituale, se non vivendola. E se l’O. dice che non è così, mi scusi, ma mi vengono subito in mente la «scienza puramente nozionale » e i «balletti lo- 156 Filosofia e Metafisica gici », a costo di sentirmi ripetere che mi manca «il con- cetto del concetto ». 8. — Ultima replica. Sotto il titolo « A conclusione d’una polemica » (« Riv. di Filos. neosc. », IV, 1950, pp. 356-364), Mons. Olgiati ha risposto alla mia ultima nota, concludendo la discussione (tale per me è stata e non una polemica) che s'è svolta tra lui da una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la posizione carliniana molto distante dalla mia. Anche da me con queste poche righe la discussione è considerata conclusa. La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia precedente, ma ripete cose che egli aveva già detto ed io controbattuto. Gli avevo posto domande precise sui rap- porti tra Aristotele e San Tommaso e le loro costruzioni metafisiche, come su quelli tra Agostino e Tommaso. Mons. Olgiati ripete ancora che «la costruzione metafisica com- pleta è certo diversa in Aristotele e in San Tommaso », ma non mi dice se, poste queste diversità, per me profonde, quella tomista si possa dire, e fino a che punto, aristotelica; ripete che il tomismo completa la definizione platonico-ago- stiniana del reale, ma non mi dice se con questo comple- tamento siano conservate le tesi essenzialissime per cui l’ago- stinismo è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Ro- smini; e potrei continuare. In compenso, oltre a volermi insegnare alcune cose di cui, per la verità, ho discusso in alcuni mici libri proprio alla maniera dell’Olgiati anche, se non con la sua compe- tenza — coincidenza di idee che l’O. non sembra gradire — dichiara di aver trovato nella mia risposta «la chiave per spiegare le difficoltà » che c’'impediscono d’intenderci sul concetto di realtà. Ed eccola, questa chiave: io nasconderei sotto il mio agostinismo « un concetto di realtà che non è nella linea della metafisica classica, bensì in quella dell'innatismo Concetto di metafisica 157 razionalista » (p. 361); e per due fittissime pagine continua a svolgere questa sua interpretazione-chiave per concludere opponendo la concezione della r'eritas agostiniana alla mia, che riduce «la realtà in quanto realtà al contenuto del- l’idea » e va a finire difilato nel « fenomenismo raziona- lista » (p. 363). Lo dicevo io che, volente o nolente, sarei dovuto andare nel « fenomenismo », le « malebolge » a cui l’O. condanna tutti quelli che non la pensano come lui. In quali miei scritti di questi ultimi anni l’Olgiati abbia letto queste cose, lo ignoro; il passo che riferisce dalla mia precedente risposta va inteso all’opposto da come egli lo intende. Non confuto la sorprendente interpretazione, come non confuterei un critico che dicesse che io sono spenceriano, marxista o che so io; d’altra parte, dovrei riesporre quanto ho già scritto, tra l’altro, nel mio primo volume su S. Agostino e in Filosofia e metafisica (*), cosa superflua. Bisogna riconoscere che Mons. Olgiati presenta la sua interpretazione in forma molto dubitativa: « posso sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere eventualmente, il mio errore, del quale — 4 priori — se fosse tale, chiedo scusa all’egregio amico » (p. 361). Mi permetto dirgli che si è proprio sbagliato e sinceramente non riesco a comprendere come abbia potuto interpretare il mio concetto di realtà, clas- sicamente agostiniano, nella linea dell’innatismo razionali- sta, da me ripetutamente confutato, e credo in modo che dovrebbe riscuotere anche l’approvazione dell’Olgiati. Concludo questa discussione con una battuta scherzosa, come si conviene tra amici, anche quando non s'intendono: trà darsi che, come scrive l’Olgiati, vi sia qualcuno che voglia fare delle nuove scoperte nella conoscenza dell’Africa svolgendo indagini in America; temo però, da parte mia, che egli legga alla rovescia quanto vado scrivendo, comin- (2) Quest'opera era stata pubblicata nel lasso di tempo tra le due ultime battute della discussione. 158 Filosofia e Metafisica ciando dall’ultima sillaba dell’ultima pagina, come raccon- tano facesse Pico della Mirandola nel ripetere un testo per dar prova della sua memoria. Solo così egli può scoprire in me non so quale «innatismo » o « fenomenismo razio- nalista » e farmi esplorare l’Africa in America. Carrtoto III CULTURA E TRASCENDENZA Il problema della cultura e del rispetto delle culture, oggi, si presenta piuttosto come problema della « crisi », profonda, della prima e di quella, minacciosa, del rispetto delle cul- ture. A nostro avviso, questa duplice crisi (le culture in crisi sono sempre intolleranti ed intransigenti: la crisi è un po’ decadenza e il pericolo del crollo rende spesso dommatici), è la conseguenza di un’altra ben più profonda, di portata metafisica, della crisi della trascendenza. In altri termini, la crisi di una cultura è l’aspetto appariscente — ed in questo senso superficiale — di quella dei suoi radicali fondamenti metafisici, che spesso si perdono di vista e non si consi- derano. Per esempio, quella della cultura greca espressa dalla « sofistica » fu indubbiamente la crisi della metafisica cosi- detta presocratica e specialmente delle due sue più alte posi- zioni, di Parmenide ed Eraclito; l’altra, rappresentata dalle filosofie dette postaristoteliche, fu crisi della metafisica pla- tonica ed aristotelica. La crisi del pensiero moderno, nel suo ormai secolare sviluppo attraverso molteplici crisi dentro la crisi, lo è della metafisica cristiana patristico-scolastica. Se ben si osserva, le tre forme di crisi che abbiamo addotto ad esempio, pur nelle loro notevolissime differenze e diver- sità, hanno un carattere comune che sorprende. Infatti, sia la sofistica come le filosofie postaristoteliche e quelle dal Ri- nascimento in poi — malgrado, com'è noto, non manchino 160 Filosofia e Metafisica metafisiche della trascendenza, in questo senso dette « anti- moderne », reazionarie, conservatrici o tradizionali — sono posizioni filosofiche d’immanenza, preoccupate di giustificare la realtà fisica e quella umana, come anche il loro valore e significato, immanentisticamente, cioè da e con se stesse, senza ricorso ad una Realtà trascendente di ordine super - fisico e super-umano. Trascendenza significa dualità, imma- nenza, monismo: la prima fonda «questa» realtà — gli uomini e il mondo in cui vivono — su di un’ « altra » che trascende questo mondo; la seconda fonda « questo » nostro mondo su se stesso, cioè afferma che la realtà umana e naturale si origina, si regge secondo sue leggi immanenti, e si giustifica da sè ed in se stessa. La posizione dell’imma- nenza, anche se si presenta come metafisica, a nostro av- viso, è sempre una posizione antimetafisica, oppure, se lo si preferisce, trova il suo sviluppo coerente ed ultimo nella ne- gazione della metafisica, la quale, infatti, importa, affinchè sia tale e non pseudo-metafisica, una concezione dualistica della realtà: «questa » (fisica) e un’ «altra» che la tra- scende e la fonda. Metafisica significa trans-physica, scienza dell’2/ di là, che, come tale, trascende quel che è « di qua »; di un «lassù » 44/ quale il « quaggiù » dipende e nel quale ha il suo fondamento, il suo significato e il suo fine. Natu- ralmente noi, oggi (lo accenniamo di passaggio), dopo il Cri- stianesimo e lo stesso svolgimento del pensiero moderno, non possiamo più concepire questo « al di là » in senso pu- ramente o prevalentemente naturalistico o cosmologico, ma lo pensiamo come l’assoluta Realtà spirituale, da cui la no- stra dipende, come l’ « Al di là » interiore e trascendente. Al contrario, per le filosofie immanentistiche — e come tali non-metafisiche perchè non-dualistiche — quella realtà che è l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se stessa: l’unica umana è la realtà storica, la cui espressione più alta ed assoluta è stata, a volta a volta, identificata con l’attività morale (mo- ralismo) o l’artistica (estetismo), con la filosofia (panfiloso- Concetto di metafisica 161 fismo) o con l’attività politica (politicismo), con quella eco- nomica (materialismo storico), con la storia nel suo com- plesso (storicismo) o con le varie culture (culturalismo); in qualunque caso con un valore puramente umano, mondano, terrestre, laico, areligioso, finito e relativo, che in tal modo è stato assolutizzato. Mondanismo e areligiosità sono ap- punto i caratteri della « cultura » moderna e contemporanea in generale, che pertanto, per quel che sopra è stato detto, si presenta come antimetafisica ed antidualista e perciò anti- trascendentista. In questi caratteri va cercata, per noi, la causa profonda della crisi della cultura del nostro come di tutti i tempi, che perciò è crisi della metafisica e della tra- scendenza teologica; in una parola, crisi di fondamento, di un fondamento assoluto del pensiero, in quanto il pen- siero umano, limitato e relativo per sua natura anche se assoluto nei suoi limiti, non può essere fondamento di se stesso, non può autofondarsi, perchè non può autoautenti- carsi: la sua autenticazione è nel pensiero, nella Verità assoluta, che lo fonda, gli è interiore, ma, come fondante e assoluta, lo trascende. Una delle conseguenze più deprecabili, perchè dannosis- sima dell’immanentismo della filosofia e della cultura mo- derna è l’incomprensione e perciò la mancanza di rispetto tra le varie culture. Negata la Verità assoluta e trascendente — dico una verità oggettiva che misuri il pensiero e non ne è misurata, produca il pensiero e non ne è prodotta, indi- pendente ed anteriore e non da esso creata attraverso la ricerca — € fatta la verità di un prodotto e non una scoperta della ri- cerca stessa, un risultato storico e perciò contingente, non è più possibile evitare il soggettivismo della verità. Inconsistente la distinzione tra «io empirico » ed « Io trascendentale » : l’Io trascendentale è sempre il pensiero dell’ordine naturale ed umano (storico) e perciò mutevole e finito e, come tale, in- sufficiente a fondare se stesso: considerarlo ingiustificata- mente fondamento di se stesso, autosufficiente, è privarlo 162 Filosofia e Metafisica del suo fondamento assoluto: il soggettivismo e il relati- vismo risultano ugualmente inevitabili. L’aforisma prota- goreo (« l’uomo è la misura di tutte le cose ») inteso, empi- ricamente, nel senso dell’uomo singolo e particolare, o idealisticamente, nel senso dell’umanità in universale, non perde il suo essenziale soggettivismo, perchè è sempre l’asso- lutizzazione fittizia ed arbitraria di un relativo. Di qui il carattere prevalentemente soggettivo delle dottrine, la pretesa di ciascuna d’identificarsi con la verità assoluta, il porsi di ogni punto di vista, non come una prospettiva parziale, ma come l’adeguazione della verità totale. Noi non diciamo che i valori relativi e i punti di vista parziali non abbiano alcun valore, ma diciamo che, solo arbitrariamente e per irra- zionale estrapolazione, possono essere identificati ciascuno con il valore o con la verità assoluta. In tal caso il rispetto che si deve a ciascun valore si trasforma, una volta che lo si assolutizza in fanatismo intollerante. Impossibili, per conse- guenza, la cooperazione delle culture e il loro rispetto reci- proco come l’avvicinamento, perchè manca il fondamento comune di una verità oggettiva, la sola che possa rendere possibile, pur nella diversità dei vari punti di vista, l’incontro di esse, il loro interpretarsi e penetrarsi vicendevolmente, il loro cooperare fruttuosamente in vista dell’unica verità. Si è venuta a creare una miriade di culture, ciascuna « stato a sè », sovrana, che perseguita l’altra, e la esclude. Ciascun pen- satore identifica la verità con se stesso, si fa egli stesso la verità e da questa condizione di « pontefice massimo » lan- cia scomuniche contro l’« eretico » che la pensa diversamente. Così siamo diventati tutti pontefici e tutti eretici nello stesso tempo: dommatismo assoluto e insieme assoluto scetticismo. Quando si nega l’esistenza di una verità asso- luta — e non è tale se non è trascendente il nostro pensiero — non c'è più possibilità d’intendersi perchè manca un punto di riferimento assoluto da noi indipendente anche se a noi interiore, e non vi è più rispetto e tolleranza. È una Concetto di metafisica 163 questione di umiltà: sentirci non i creatori della verità, ma gli umili servitori di essa, legati dal comune amore per la verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo in questo amore comune, unico stimolante ed unico fine, le culture possono trovare il loro punto d'incontro, la loro compenetrazione, come tanti punti di vista sollecitati dalla stessa aspirazione, tendente all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di mora- lità radicale, metafisico anch’esso, ma non vi è moralità autentica dell’uomo (e dunque anche della cultura che è mondo umano) senza trascendenza teologica, senza metafi- sica nel senso di sopra precisato e chiarito. Oltre che di umiltà, è anche questione di onestà, chiarezza filosofica: riconoscere che i valori metafisici e la metafisica come tale non possono essere frammenti di esperienza umana per se stessi non assoluti, elevati al grado dell’assoluto e con esso identificabili. In questo senso, pur conservando la profonda umanità della filosofia e della verità, è necessario correggere ogni forma di pseudo-metafisica antropomorfica e chiamare le cose con il loro nome: relativo quel che è relativo, e asso luto quel che è assoluto. Non vi è dubbio che cultura è la capacità dell’uomo alla libera attività: dove manca questa libertà non vi è cul- tura; decade o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spi- rituale: la schiavitù, come negazione della libertà, trova la sua condanna nella sua « incultura ». Perciò, in questo senso, è vero che il progresso della cultura è progresso morale, in quanto la libertà spirituale sta a fondamento dell’uno e del- l’altro; ma è anche vero che, sulla base dell’immanenza, non vi è libertà — e dunque non più moralità e cultura — in quanto si limita, usandogli violenza, il fine dell’uomo al- l’angusto spazio terreno e al breve tempo storico (tutto lo spazio è sempre angusto e tutto il tempo è sempre breve), snaturando le sue aspirazioni fondamentali, reali, naturali e sempre attuali; e in quanto si viene a negare il fondamento stesso della libertà, che è autentica nel riconoscimento dei 164 Filosofia e Metafisica suoi limiti (della trascendenza che la fonda e garantisce) e non nell’illimitatezza indefinibile dell’arbitrio, in cui tutto diventa lecito, perchè manca il limite della trascendenza, come avviene in ogni filosofia immanentista. Di qui possiamo trarre due ordini di considerazioni: 1) Non vi è cultura (perchè decade in forme decaden- tistiche, bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo e alla storia — immanentismo e umanesimo assoluti e come tali astratti —-; se un misticismo eccessivo e perciò nihilista cancella il tempo e nega la storia (apocalitticismo). In altri termini, non vi è cultura dove tutto è tempo (negazione del- l'eterno o di Dio) o dove si nega il tempo — negazione della storia e dei valori umani. Per conseguenza, la condizione della cultura risulta essere ancora la concezione dualistica di « questo » mondo e dell’« altro », del mondo dell’uomo e del Regno di Dio. Dove e ogni qualvolta si rompe questo equilibrio, vien meno la condizione che rende possibile la cultura e le sue forme. La cultura moderna ha cercato di abolire l’ultratemporale (il metastorico) ed ha segnato con ciò la decadenza della cultura occidentale, diventata culturali- smo soggettivo, caotico e ormai infecondo. Per un motivo opposto non vi è stata e non vi è una cultura russa: non vi è stata per la duplice tendenza apocalittica e nihilista (prima prevalentemente religiosa ed oggi assolutamente atea), che porta fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è assorbito nel problema finale del mondo, storico o metasto- rico che sia, vede nella cultura un ostacolo e non una zia attraverso cui si conquista il fine ultraterreno, si purifica e si riscatta l’attività mondana dello spirito. La Russia, in questo senso, quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente; nell’uno e nell’altro caso un misticismo apocalittico, che nega il mondo umano. L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra soddisfatto della sola cultura, risolve l’essenza della vita spi- rituale nella storia: la cultura è la salvezza. Oggi quest’ap- Concetto -di metafisica 165 x pagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e perciò l'Occidente è malcontento, isterico, decadente, sofi- stico. Gli è rimasto un simbolismo della cultura, senza una vera cultura reale, ontologica, metafisica. Ciò è in certo senso l’autocondanna dell’immanentismo, anima del mondo mo- derno, e l’indizio dell’ansia di escire dalla zona « mediocre » di una cultura che si è sganciata dall’eterno (da Dio) per tuffarsi tutta nella storia, cioè per ricadere pesantemente su se stessa, afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di slanci metafisici. L’Occidente moderno ha voluto risolvere l’eterno nel tempo, l’essere nel divenire, la trascendenza nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo, anticulturalistico, ha preteso negare il tempo, la storia, l’uomo in una eternità astratta, in un misticismo religioso antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il dualismo ontologico è distrutto: assoluto umanesimo è nega- zione di Dio e perciò anche dell’uomo; assoluto teologismo è negazione dell’uomo e perciò anche di Dio: due forme di monismo opposte ma approdanti allo stesso risultato. Entrambe sono atee e inumane. 2) L'altra considerazione, non meno rilevante della prima, riguarda la struttura radicale di quella che comu- nemente si chiama «civiltà occidentale »; «radicale » per- chè sta proprio alla radice, alle sue origini greco-cristiane. La concezione greca della vita, quella della migliore ed au- tentica grecità, è dualistica: vi è una realtà fisica ed una realtà metafisica che trascende la prima, « questo » mondo e l’« altro». Platone e il platonismo sono l’espressione più alta e significativa del mondo classico. Dualistica è anche la concezione giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato, senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi reali nel loro in- trinseco rapporto. Dualistica è ancora la concezione cri- stiana: il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo del- l’uomo e il Regno di Dio, « questa » vita e l’« altra », anzi questa vita per l’altra, l’uomo per Dio. Concezione dualistica, 166 Filosofia e Metafisica non solo, ma anche gerarchica: il «quaggiù» guidato, orientato, subordinato al «lassù »: due realtà, l'una dipen- dente dall’altra. Ciò spiega perchè la Rivelazione cristiana, pur nella sua assoluta originalità rispetto alla concezione greca e romana della vita, abbia visto, in un primo tempo, nel pensiero greco il suo precedente e la sua base naturale e, in un secondo tempo, abbia potuto realizzare la gran- diosa trasposizione in termini di filosofia cristiana prima del platonismo (Agostino) e poi dell’aristotelismo (S. Tommaso); così pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della concezione giuridica di Roma. Il fondamento dualistico, co- mune alla verità razionale e alla Verità rivelata, rese pos- sibile l’incontro e la loro continuità. Grecità, Romanità e Cristianesimo sono i tre elementi costitutivi della civiltà occidentale (europea); dunque la struttura autentica, la fisio- nomia essenziale di essa è dualistica. L'esigenza immanenti- stica non le è propria, anche se non completamente estranea. Essa è tipica della civiltà germanica, che non è propria- mente una forma di civiltà occidentale: la Germania non è mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la strut- tura della sua civiltà, dallo spirito della grecità, nè da quello della romanità e del Cristianesimo; infatti, è la terra del monismo e del panteismo: monistiche e panteistiche la sua filosofia, la sua mistica, la sua letteratura. L’immanentismo, caratteristico del pensiero moderno e contemporaneo, è pe- netrato anche nella civiltà occidentale, fortemente influen- zata dalla cultura tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla trascendenza l’im- manenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente abolito Dio: «Dio è morto », conclude Nietzsche, «e l’abbiamo ucciso noi ». In un primo tempo lo ha surrogato con l’uomo, capovolgendo i termini del dogma cristologico: non Dio Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la ragione (Hegel) o uno dei tanti valori umani: l’arte, la morale, l'economia, la politica ecc.; in un secondo tempo, ai nostri giorni, per- Concetto di metafisica 167 duta la fiducia nell’assolutezza dei valori umani (com’era inevitabile una volta negata la concezione metafisica duali- stica) senza riacquistare la certezza dell’esistenza dell’As- soluto trascendente, ha perduto ogni fiducia ed ha con- cluso che non esistono valori, dato che non vi è di essi un fondamento assoluto nè divino nè umano. Fatalmente l’im- manentismo, perduto Dio, doveva perdere anche il concetto dell’uomo come persona (il nazismo o altre forme politiche simili). I due elementi fondamentali della civiltà occidentale risultano negati e così con essi la civiltà che avevano pro- dotto e fecondato (1). Di derivazione germanica, immanentista — e non della genuina civiltà occidentale — è il bolscevismo russo. Il co- siddetto marxismo o materialismo dialettico o storico, im- portato in Russia, ha subìto una notevole trasformazione a contatto con l’«incultura» di quel Paese, cioè con l’opi- nione negativa che gli scrittori più qualificati avevano sempre avuto della cultura, come di qualcosa di mediocre, di un ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspet- tazione del fine assoluto. Il misticismo russo, con il bol- scevismo, da religioso si è fatto ateo, il fine assoluto dal cielo si è spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica e nihilista è rimasta intatta. In un certo senso il bolscevi- smo è la coerenza spietata e brutale dell’immanentismo: è l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un «al di là» e se vi è solo un « quaggiù », se non c’èdualità e trascen- denza, l’assolutamente assoluto è il « quaggiù », tanto as- soluto da costituire il fine ultimo, di fronte al quale ogni cultura (in prima linea quella occidentale, dualistica e perciò nemica), ogni forma di vita diversa da quella della nuova (1) Dico di passaggio che una cultura, la quale esprime una concezione immanentistica della vita, è condannata, proprio perchè manca della trascen- denza, ad identificarsi con la « politicità » nel senso più vasto del termine e dunque a materializzarsi e a sboccare nella violenza, che è la negazione della libertà e perciò della cultura. 168 Filosofia e Metafisica apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni valore devono essere sacrificati, annullati. Così il nihilismo religioso russo, l’« in- cultura » e l’« antistoria », che negava il mondo rispetto al fine (Dio), oggi, sotto l’influenza dell’immanentismo (della sua antitesi), si è fatto immanentista, restando sempre nihi- lismo a carattere mistico; assolutizza il mondo al punto da negarlo come mondo, da proiettarlo in un fine assoluto che è come un mondo al di là di quello storico e di questo negatore, nega la cultura da cui è nato nella sua nuova forma di « incultura ». L'immanentismo germanico aveva concluso « Dio è morto », prima che con il Nietzsche con lo Hegel, il cui Dio è il Gost im Werden, il « Dio che si fa», e Marx deriva da Hegel; « se Dio è morto », argomenta il bolsce- vismo, anche « l’uomo è morto », è nulla rispetto al suo fine, l’Uomo assoluto di domani, l’uomo del millenarismo ateo. Ci sembra ormai evidente che l’immanentismo, germa- nico e russo (pur così diversi: l’uno nega Dio per il mondo e l’altro lo stesso mondo per un mondo nuovo di un do- mani assoluto), per il fatto che è immanentismo, è la mi- naccia più grave, la morte, della civiltà occidentale, la cui radicale struttura, come abbiamo detto, è la dualità, la tra- scendenza, la metafisica nel senso vero del termine. Natu- ralmente la crisi ci ha pure insegnato qualcosa: che la trascendenza è una verità interiore e non di ordine esterno e naturalistico (l’interiorità della verità è quanto va conser- vato dell’immanentismo, ma l’interiorità non è immanenza) e che, d’altra parte, essa non va mondanizzata o annacquata in un umanesimo troppo umano o in un culturalismo che è adorazione della cultura; ed è quel che ha di positivo 1°« in- cultura » russa. Non dobbiamo respingere questi insegna- menti, ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero della civiltà occidentale, la quale può superare la crisi e salvarsi soltanto con la restaurazione di quella metafisica dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che co- stituisce la sua essenza primale. O tale restaurazione e fedeltà ’ Concetto di metafisica 169 saranno il « piano Marshall », ben più importante di quello economico, della cultura occidentale, o anche per noi, inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per sempre sep- pellito. Sarà allora possibile realizzare il più olimpico ri- spetto delle culture per il semplice motivo che nel mondo non vi sarà più cultura (7). (2) Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla cultura anglosassone, ma il discorso sarebbe stato necessariamente troppo lungo e forse più « scandaloso » di quello che qui ho fatto. CapitoLo IV CULTURA E METAFISICA Il titolo di queste pagine può sembrare curioso; e certo, di primo acchito, non si vede un nesso preciso tra « cultura » € « metafisica ». Avvertiamo subito che qui il termine « me- tafisica » è usato nel suo significato più pieno e precisa- mente di ricerca del principio primo e del fine ultimo di ciò che è in quanto è. Per conseguenza, tutto quanto è nel- l'ordine umano e naturale involge il problema metafisico, in quanto implica quello del suo principio e della sua fi- nalità, dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra, ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi sia un problema metafisico della cultura, come di ogni altra forma di at- tività dello spirito umano. Vi è per l’uomo un problema massimo che tutti gli altri condiziona, orienta ed unifica: quello che è l’uomo a se stesso, il problema di sè che l’uomo pone a se ste sso: della sua destinazione, del senso totale, integrale ed assoluto della sua esistenza. Questo problema, sottostante anche se im: plicitamente ed inconsapevolmente ad ogni ricerca, costi- tuisce l’umanità profonda di tutto ciò che è umano, l’u- manità essenziale della scienza e dell’arte, della attività conoscitiva come di quella morale ecc.; dunque anche della cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un valore di immortalità: ne fa un momento, con gli altri concorrente e solidale, del processo di conquista che l’uomo fa di se stesso nella realizzazione della sua finalità trascen- Concetto di metafisica 171 dente il processo stesso. In questo senso tutto ciò che è, è vero ed è valido di una verità e di una validità sua, ma che sporge e tende verso il Valore e la Verità che sono il suo fondamento e il suo fine, e dunque il suo significato ultimo o metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno e, col tempo, ogni opera e pensiero dell’uomo. E la cultura è opera dell’uomo; ma egli non ne intende il significato profondo fino a quando non la giudica per il contributo che essa porta alla soluzione del problema della sua verità di uomo, che è presente nella stessa cultura, perchè dove vi è pensiero ed opera di uomini vi è quel problema, così con- naturale ed essenziale allo spirito umano. Una cultura fine a se stessa — la cultura per la cultura — non è più tale, ma culturalismo: superstizione e mon- dana idolatria, mito e non realtà; è i! fazto, non il valore della cultura, che, se si limita al valore o al fine di se stessa, si assolutizza e con ciò stesso si nega nella sua validità essen- ziale. Opera dell’uomo, la cultura porta, ad essa immanente, il problema metafisico dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo prin- cipio e fine di se stesso? Rispondere affermativamente (im- manentismo) è assolutizzare l’uomo, divinizzarlo; è negarlo, dire quello che non è; è definire il suo non-essere e negare il suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa di tutto ciò che pensa e fa e che, in ciò che pensa e fa, attua come suo fine, tutto l’uomo che è, ma che non è principio primo e incondizionato di ciò che pensa e fa (del suo essere) e che, realizzando tutto l’uomo che è, attua un fine che non è fine a se stesso, ma la condizione affinchè possa realizzare la sua finalità suprema trascendente l’ordine del tempo, è dire la verità metafisica dell’uomo, cioè rispondere adegua- tamente al problema non solo dell’essere o della verità umana, ma anche a quello dell’Essere o della Verità che è fonda- mento e finalità trascendente del suo essere e della sua ve- rità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il fine della sua intelligibilità metafisica, è sopprimere il pro- 172 Filosofia e Metafisica blema metafisico e con esso ridurre, contro l’ordine del pen- siero e della natura umana in generale — e dunque con un atto irrazionale — il problema del suo destino e del signi- ficato assoluto della sua vita al problema del suo destino con- tingente e della sua significanza storica. Ma così non si ri- solve il problema-uomo, ma si immagina il mito-uomo e in questa miticità ogni pensiero ed opera sua son mito. Mito anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta fina- lità di sè a se stessa, pura temporalità, ogni forma di cul- tura si pone autonoma incondizionata assoluta e nega le altre: la collaborazione delle culture si risolve nel con- flitto e nell’incomprensione tra le varie culture. La super- stizione della cultura, principio e fine a se stessa ed assoluta come l’uomo che ne è l’artefice, porta inevitabilmente al fanatismo e con ciò all’urto tra le culture, all’incomunicabi- lità: cessa il colloquio. Questa conseguenza è fatale: negare la realtà trascen- dente del Principio assoluto fondante l’uomo ed ogni ente e dell’uomo e di ogni ente finalità suprema — cioè il pro- blema primo e ultimo della metafisica, connaturale alla realtà umana — è negare l’uomo ed ogni cosa e perciò ogni pensiero ed opera sua; è degradare dall’ordine della ragione a quello della irrazionalità passionale; negare l’origine di- vina dell’uomo e la sua finalità soprannaturale e con ciò stesso fare della realtà spirituale una cosa tra le cose, fuori del suo ordine, contro il suo ordine, contro ogni ordine. L’uomo divinizzato è feticcio; ed è primitivismo raffinato e sottile — direi sofisticato — ogni forma d’immanentismo; è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri ogni forma di cultura, per raffinata e scaltrita, che di quell’immanentismo è espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sa- pere la verità del suo esistere, del suo pensare e volere, e la cultura si fa l’espressione di questa colpevole inconsa- pevolezza. Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che, dal nostro Concetto di Metafisica 173 punto di vista, non basta dire «che cosa è» cultura — è ancora problema di conoscenza — ma è necessario, defi- nitone il concetto, indagare sulla sua verità profonda, cioè dire qual’è il suo senso ultimo, il fondamento e il fine assoluto; ed è questo il problema metafisico della cultura. Ma è evidente che la soluzione di questo problema può essere data ed è data dalla soluzione del problema-uomo: risolto il problema del principio e del fine dell’uomo è implicitamente risolto l’altro del principio e del fine di tutto ciò che è umano, conformemente, univocamente, alla soluzione del primo problema. Per conseguenza, il senso o la verità di tutto ciò che è umano è identico al senso o alla verità dell’ uomo; e se l’uomo ha il suo senso o la sua verità nel Principio che lo fonda, lo fa essere, orienta e stimola e in esso pure il suo fine assoluto, consegue che ogni cosa dell’uomo ha senso e verità in quel Principio e in quel Fine. Il Vico su questo punto vide esattissimo: la verità della storia (del mondo umano) trascende la storia. Vi è un du- plice problema che investe lo stesso oggetto d’indagine: dell’accertamento del fatto o dell’avvenimento e dell’invera- mento di esso: accertare è constatare e documentare; inve- rare è spiegarne il significato, scire per causas. Ora l’uomo è causa della storia e perciò di essa ha scienza, ma non è principio di sè a se stesso; dunque, come egli trova il senso (la verità) di sè al di là di se stesso, nel Principio assoluto o Dio che lo crea uomo, così la storia, che è la sua opera o il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la sua verità) al di là di essa, al di là del tempo e di ogni tempo, nell’ordine eterno che la fonda e la guida ed essa imperfettamente ripro- duce affinchè l’uomo, attraverso la storia stessa ma oltre la storia, realizzi il suo destino, da cui tutto trae senso, super- storico ed extratemporale. In questa metafisicità immanente in ogni pensiero ed opera umana, che è la metafisicità immanente e naturale dell’uomo nella pienezza della sua 174 Filosofia e Metafisica realtà spirituale, è anche il senso profondo della cultura. Perciò noi nel segnare i limiti del culturalismo (la cultura fine a se stessa ed essa stessa il tutto) e nel denunziare la sua insignificanza sostanziale — sono i limiti di un uma- nesimo che fa della cultura, dell’uomo e della sua opera in generale l’assoluto dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e finalità — richiamiamo l’attenzione sulla presenza del pro- blema metafisico al problema della cultura (quel proble- ma è presente all'uomo in quanto tale e in ogni forma della sua attività) e concludiamo che non è possibile porre il problema della cultura e del suo significato senza porre l’altro del significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che è, abbiamo visto, il problema metafisico nel senso che noi diamo a questa parola, cioè della intelligibilità suprema del- la realtà umana e dunque anche della cultura, che è opera dell’uomo. * * * Della nostra cultura attuale, nel suo ultimo libro (L'uomo e la cultura, Firenze, « La Nuova Italia », 1947), Huizinga scrive: « più ricca e possente che non mai, ma le manca un genuino stile, le manca una fede unitaria, le manca l’intima fiducia della sua propria durevolezza, le manca la misura della sua verità, le manca, infine, l’armonia, la dignità e la divina quiete ». Vi è del vero — e in duplice senso — in questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca, ricchissima di motivi, interessante anche nei suoi aspetti più sconcertanti, nelle sue contraddizioni, nella sua consapevolez- za critica esasperata, nel suo stesso scetticismo; interessante soprattutto perchè ricca di esperienza di vita, per cui — nelle sue manifestazioni migliori — non è pura esperienza cultu- ralistica, ma vita vissuta che si esprime in forme culturali; 5) ma è altrettanto vero che le manca una norma interiore, costitutiva della sua struttura, quasi la sua interna e salda armatura. Dell’esistenza priva di un senso assoluto e di una finalità suprema — e perciò dispersa, frammentaria e come Concetto di metafisica 175 sparpagliata — la cultura ripete il frammentarismo e l’insi- gnificanza, la mancanza di fede e della misura della sua verità. Privata la vita della sua norma, cioè del suo essere e del suo consistere, anche la cultura è privata di consistenza, mancante della norma che la orienta ed unifica, la fa con- vergente verso un fine, la cui realizzazione è la sua verità, che, misurandola, le dà significato e scopo, appunto perchè essa può commisurarsi fiduciosa alla verità che le è pre- sente, ma che in essa non si esaurisce. Quando la vita espri- me la sua verità, il suo essere, la verità e l’essere che la ra- dicano nella Verità e nell’Essere, anche la cultura è espres- sione essenziale e sostanziosa, unitaria e vera, della verità e dell’essere della vita; anche essa si sostanzia della stessa intelli- gibilità metafisica che chiarifica il destino dell’uomo e il senso della storia. Il Medioevo espresse meravigliosamente questo ideale di vita e di cultura: consapevolezza, in un’armonica ed inscin- dibile simbiosi di ragione e fede, del destino dell’uomo come fiduciosa realizzazione di una finalità trascendente, come convergenza e solidarietà in Dio di tutte le energie della vita nel loro dinamismo integrale. Il migliore Rinascimento, sen- za negare questa concezione cristiana dell’esistenza, espresse il suo ideale di cultura nella serena ed armoniosa operosità umana tesa a realizzare unitariamente i valori della bellezza, della dignità della persona, della scienza come conquista del mondo, per cui quel di divino che l’uomo e la natura esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza della loro origine da Dio e della loro finalità in Lui. Il pen- siero moderno, sviluppando fermenti ed elementi impliciti nello stesso Rinascimento, ha rotto questa armonia e del mon- do umano e naturale ha fatto tutta la realtà, avente in se stessa il suo principio e il suo fine e perciò autosufficiente : fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possi- bilità dell’uomo, artefice incondizionato del proprio destino e del suo mondo. Per circa tre secoli la cultura occidentale 176 Filosofia e Metafisica ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il senso della trascendenza e la coscienza religiosa per conquistare quello della immanenza e su di esso costruire, al posto della religione il cui oggetto è Dio, la superstizione dell’uomo as- soluto principio e fine di se stesso. Così l’uomo è stato ade- guato alla realtà naturale e chiuso nella finitezza dell’espe- rienza: costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero, principio e fine metafisico del reale, ha finito per perdere il vero concetto di metafisica e rinunziare alla metafisica stessa. La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attra- verso un processo di autocritica, si è gradualmente sfaldata; in tal modo egli è rimasto privo di una fede e di un destino tra- scendente, privo di una fede e di un destino immanente. La perdita della metafisica si è conclusa fatalmente nella per- dita della realtà e della verità dell’uomo e, per conseguenza, nella perdita della fede e della serietà della cultura. Invano si è cercato trovare la verità dell’uomo e delia cultura in uno dei valori mondani arbitrariamente assolu- tizzato (nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il materialismo storico — ultima e legittima conseguenza del- l'immanentismo — cerca di trovare l’unità e la verità dell’uo- mo e della cultura nel valore economico-politico-sociale. Quella che oggi si chiama la crisi dell’uomo e della cultura è la conseguenza del fallimento delle precedenti forme cul- turali a carattere immanentistico: non è in crisi una forma culturale immanentista, questa o quella, ma è in crisi l’im- manentismo come tale. Perciò qualunque forma culturale im- manentista, espressione della fede orgogliosa e superstiziosa nei poteri dell’uomo, è essa stessa espressione della crisi e non di essa risolutrice; è ancora, anche se del presente, espressione di una cultura del passato, che la crisi del pre- sente, che è la sua crisi, nel suo travaglio si sforza di oltre- passare perchè rivelatasi fallace. Similmente l’uomo e la cultura non possono rinvenire la loro verità nel mito funesto . ed esclusivista del nazionalismo, dissolvente dei concetti stessi Concetto di metafisica 177 di uomo e cultura e fatalmente avviato all’urto delle culture nazionaliste, cioè alla guerra. La Kultur tedesca dell’imme- diato passato e la «cultura» sovietica dell’oscuro presente ci sono di ammaestramento e di ammonimento. Una conclusione scende legittima ed inoppugnabile dalle nostre premesse ed argomentazioni: l’uomo non è il crea- tore della sua verità nè l’artefice del suo destino; la verità e il destino dell’uomo trascendono il mondo umano e na- turale, traggono origine e realizzano il loro fine al di là e al di sopra di esso. Solo in Dio l’uomo autentica la verità della sua vita; solo nella trascendenza teologica rinviene l’intelligibilità metafisica del suo essere: qui la sua unità, la verità della verità che egli è. Solo esprimendo questa realtà umana la cultura può ritrovare unità e fede, verità e consi- stenza, cioè la sua norma e il suo significato. Eliot ha scritto che una cultura presuppone una religione ed è vera se è vera la religione su cui si fonda. Ora non vi è religione senza Dio: le religioni del progresso, della scienza, dell’umanità, della libertà, del collettivismo ecc., adorano un Dio che non è tale e perciò son forme di ido- latria: il mondo moderno è idolatra, di religioni false e dunque di false forme di cultura. Religione è fede nell’Es- sere trascendente e creatore, principio e fine di ogni cosa esistente. Non solo per l'Occidente, ma per ogni uomo che ne viene a contatto, questa religione e questa fede non pos- sono non essere che la religione e la fede cristiane, perchè il Cristianesimo è l’unica religione vera; dunque solo una cultura cristiana è vera. E se la cultura occidentale ha an- cora una sua verità e, tra tanti segni di sbandamento e disintegrazione, riesce ad avere una sua certa unità e a valere più di altre forme culturali, lo si deve al fatto inne- gabile che, pur tra tanto laicismo, è sempre una cultura cristiana. Ancora oggi i popoli dell’Occidente respirano e vi- vono in un’atmosfera cristiana, anche se viziata e corrotta. Nessuno potrebbe parlare di « persona », « libertà », « amo- 178 Filosofia e Metafisica re» e «carità» se il Cristianesimo non avesse insegnato questi concetti e se ancora oggi, pur tra tanti travisamenti, non fossero presenti alla coscienza occidentale. A questo punto ci sembra che si presenti un dilemma perentorio: o la cultura esprime la verità dell’uomo, quel- la da noi sopra indicata: il senso assoluto o la intellegi- bilità metafisica del suo essere, ed ha la sua verità; o ne è l’espressione sofisticata e allora, espressione di una falsifica- zione della natura umana, è altrettanto falsa. Ma una cultura che esprime la verità dell’uomo è sempre conforme alla verità cristiana, in quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio del Cristianesimo. La cultura è sempre l’espressione più alta della civilità e non c'è civiltà più alta di quella cristiana: quanto non è cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile. Come segno di una civiltà non esteriore la cultura ha una funzione altissima e dinamica: informare dei suoi valori il mondo che necessariamente è fuori di essa; è questa la sua finalità sociale. Una cultura sociale in senso diverso, nel senso del collettivismo marxista, è la cultura dell’incultura, senza senso. CaritoLo V VI E’ UNA FILOSOFIA DELLA STORIA? L'espressione « filosofia della storia » — e naturalmente anche il problema — è recente: che io sappia, per primo, la usò il Voltaire e, successivamente, lo Herder la intro- dusse in Germania. Ha dunque appena due secoli di vita; e di vita molto contrastata. Non è senza significato che si sia cominciato a pen- sare ad una « filosofia della storia » nell’età dell’Illumini- smo, considerata comunemente come l’età dell’anti-storia; forse proprio perchè antistorico, per primo l’Illuminismo pensò ad una filosofia della storia. Il secolo dei lumi aveva un suo programma da realizzare: il regno dell’uomo sulla terra, da instaurare con la sola ragione, autonoma, asso- luta, cioè indipendente da qualsiasi principio superrazio- nale, trascendente l’ordine della natura umana e fisica. Come la scienza si era costituita autonoma, così ogni altra forma di attività (il diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni altro settore dello scibile dovevano costituirsi separati dalla religione e, in generale, da ogni teologia, il cui contenuto non si risolvesse perfettamente nell’ambito dell’umana ra- gione. Si pensò dunque a una «filosofia della storia », cioè a una spiegazione puramente razionale del cosmo umano, a una sistemazione di esso sulla base di un certo numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non aveva forse l’« oscurantismo » medioevale accettato la con- 180 Filosofia e Metafisica cezione agostiniana della storia, secondo le grandi e mae- stose linee del De civitate Dei? Ebbene, questa di Agostino e del pensiero cristiano posteriore non è « filosofia », ma «teologia » della storia, cioè la storia del mondo umano interpretata e spiegata sui dati della Rivelazione, per cui la « storia terrena » trova la sua spiegazione e il suo signifi- cato non in se stessa, ma nella «storia sacra» e nell’or- dine soprannaturale. Anche la storia bisognava separare dalla religione; dunque non la storia spiegata teologicamente (super-razionalmente), ma filosoficamente, dentro l’ordine della ragione. Ma si possono ricondurre i fenomeni storici ad un piccolo numero di princìpi direttivi essenziali ed irriducibili? Si può costruire il « sistema» della storia? Lo Illuminismo non sembra che sia stato di questa opinione e: o condannò la storia mondo oscuro ed irrazionale delle passioni, o non oltrepassò la concezione di essa come or- dine cronologico (d’Alembert). Non così in Germania dove, a cominciare dallo Herder, fin dagli albori del romantici- smo, la «filosofia della storia » ebbe ben altra fortuna ed elaborazione. Nacquero in quel periodo le sue sorelle, le molte « filosofie »: della religione, del diritto, dell’arte ed ultima, col d’Ampère, delle scienze. È evidente che proprio la nascita di tante « filosofie » segna l’agonia e poi la morte, anche se apparente e transitoria, della «filosofia ». Se la storia, la religione, il diritto, l’arte, le scienze, ecc. hanno ciascuna una sua filosofia, che resta alla filosofia come suo oggetto proprio e problema irriducibile? Il sorgere di tutte ueste filosofie è l’effetto e insieme la causa della «crisi » della filosofia, della sua dissoluzione. Evidentemente per filosofia cominciava ad intendersi qualcosa di ben diverso da prima. Infatti basta porsi il problema di una «filosofia della storia » per ritenere almeno possibile una scienza del par- ticolare, del singolo, del contingente. Tale possibilità è esclusa dalla filosofia classica, greca e cristiana; perciò il Concetto di metafisica 181 pensiero antico e quello cristiano non si posero mai il pro- blema di una filosofia della storia, quantunque il Cristia- nesimo abbia posto in prima linea proprio il problema della storia. Evidentemente grecità e Cristianesimo hanno un con- cetto di filosofia ed un concetto di storia tali da escludere che vi possa essere filosofia che sia filosofia della storia e storia che possa essere tutta esplicata con e in un sistema di prin- cipi, di leggi, di categorie. Per Aristotele, infatti, la filosofia è sapere razionale o scienza (Mez. I, 1; 993 b, 21) avente per oggetto l’universale e per strumento la ragione; la storia è invece ammasso di documenti, pura raccolta generale di fatti da distinguere dal lavoro di spiegazione o di sistema- zione e dai trattati teoretici. « Phslosophia individua di- mittit », dice F. Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II, I, 4) e come tale essa si oppone alla storia che « proprie individuorum est, quae circumscribuntur loco et tempore » (ivi, II, 1, 2). La storia è conoscenza dell’individuale ed ha come strumento essenziale la memoria; la filosofia lo è del- l’universale ed ha come strumento specifico la ragione; dun- que la filosofia si oppone alla storia; una filosofia della storia è una contraddizione nei termini, in quanto si assegna alla filosofia un oggetto che non le è proprio, è l’opposto (l’individuale) del suo (l’universale), e si applica il suo stru- mento (la ragione) ad un oggetto per il quale è adatto un altro (la memoria). La filosofia, continua Bacone (:24, II, I, 4), «neque impressiones primas individuorum, sed no- ziones ab illis abstractas, complectitur »; la storia invece è proprio conoscenza delle « impressiones primas individuo- rum ». Dunque il dato storico e il dato teorico, storia e teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto i dati di fatto nella loro singolarità, particolarità e contingenza; l’al- tra le relazioni costanti e generali, su cui si applica la ra- gione. Sono possibili relazioni costanti e generali nei fatti storici? È possibile una scienza della storia? Alcuni moderni hanno parlato e parlano ancora di filosofia della storia, ma 182 Filosofia e Metafisica evidentemente intendono storia e filosofia in maniera, come dicono, « moderna ». Il pensiero moderno, a differenza di quello greco e me- dioevale, manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il particolare, il concreto: per il concreto fisico e il concreto umano; perciò le scienze naturali e la storia sono una sua conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un immenso sviluppo e sono state scientificamente sistemate assieme ‘alla cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero moderno è stato ed è ancor oggi prevalentemente « questo mondo », « questa terra » ed i loro fatti concreti; non per nulla con Occam incomincia quella che si chiama la de- cadenza della Scolastica. È evidente che la filosofia, gradual- mente, doveva essere portata o costretta a porsi come suoi problemi quelli del concreto, cioè dei fatti di questo mondo, naturali ed umani. E solo dei fatti; dunque non più ricerca dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dap- prima, la rivolta contro la metafisica tradizionale e poi contro la metafisica senz’altro; la sostituzione della « metafisica dell’essere » con la « metafisica del pensiero » o della mente; di qui la metafisica del pensiero intesa come costruzione delle scienze della natura (positivismo). In tal modo, da un lato, la filosofia è venuta ad identificarsi con le singole scienze umane o naturali, e, dall’altro, il concetto di storia, il cui oggetto è il concreto o il particolare per eccellenza, ha assunto un’importanza quasi assoluta. Di conseguenza la filosofia ha cessato di essere una scienza autonoma e si è trasformata in metodologia: o delle scienze (positivismo) o dell’attività spirituale umana (idealismo) o della storia senz'altro (storicismo); ha cessato di essere filosofia dal giorno che la sedusse il demone dell’immanentismo e volle farsi mondana, antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se stessa e si snaturò. Ma anche così, per limitarci al nostro problema, è pos- Concetto di metafisica 183 sibile una filosofia della storia? Non propriamente il Vico ma lo Hegel credette di sì, di poter dare una spiegazione razionale totale della storia e dello spirito umano nei mo- menti del suo divenire: per lo Hegel, la ragione può spie- gare (e spiega), sistemare (e sistema) tutto il reale fisico ed umano, la storia senz’altro, senza residui. Ma la storia è storia dell’Idea, storia dell’Assoluto: è l’autorivelazione di esso, che, attraverso il processo dialettico, chiude il cir- colo su se stesso. Da questa storia resta fuori, al principio e alla fine del processo, proprio... la storia! La Ragione hege- liana, il Dio immanente creatore, si sostituisce alla creatura e la nega come tale: la pone e la nega, la risolve (dissolve) in sè: il concreto, il singolo, il particolare, nel dialettismo antinomico hegeliano, è il non-reale, il non-razionale, il non- vero, lo strumento caduco di cui l’Idea si serve e che la stessa Idea sopprime. La storia è la storia dell’Idea, non degli uomini singoli e delle cose; quella di Hegel è una filosofia della storia che nega proprio la storia. Ecco perchè il positivi- smo che, nonostante tutto ebbe vivo il senso della storia, è stato anti-hegeliano; e un contemporaneo epigono italiano dello Hegel, rimasto, in fondo, positivista anche lui, ha ne- gato che vi sia una «filosofia della storia» ed ha identi- ficato con la storia la filosofia. In tal modo, il positivismo e uesta forma di storicismo empiristico hanno costruito o una «filosofia della storia » senza filosofia (il positivismo) © una storia che dice di identificarsi con la filosofia solo per- chè ha ridotto questa a metodologia dell’altra, cioè perchè in partenza la nega come filosofia. Già lo Schopenhauer ave- va negato che vi possa essere filosofia della storia (!). (1) « La storia è una conoscenza senza essere una scienza, in quanto in nes- sun modo essa conosce il particolare per mezzo dell’universale, ma deve attin- gere immediatamente il fatto individuale, e, per così dire, è condannata a stri- sciare sul terreno dell'esperienza... Se la storia non ha propriamente per oggetto che il particolare, il fatto individuale e lo ritiene la sola realtà, essa è tutto l'opposto e l’antitesi della filosofia, che considera Je cose dal punto di vista più generale ed ha per oggetto specifico quei princìpi, sempre identici attraverso tutti i casi particolari » (Die Welt als Wille und Vorst., vol. II, cap. 37). 184 Filosofia e Metafisica Dunque, proprio il fallito tentativo del pensiero moderno di costruire una filosofia o scienza della storia (cioè il ten- tativo di spiegare tutto l’uomo senza Dio) dimostra come una filosofia della storia in questo senso sia impossibile e fa attuale, esso, antiteologico, la concezione della storia di Agostino e della filosofia cristiana; attuale, ma dopo la con- cezione che della storia ha avuto il pensiero moderno, la quale non va negata ma assunta come problema della filo- sofia, come il problema dell’uomo, del suo significato e del suo destino. Posto ciò, esiste il problema della storia (del singolo, del- l’uomo concreto) nel pensiero aristotelico e nell’aristoteli- smo? Non sembra. Se l’oggetto della storia è il particolare, il concreto, il contingente non risolvibile, come tale, nelle leggi che pur lo governano; se i fatti umani sono contin- genti in se stessi, cioè di una contingenza obiettiva, asso- luta; e se, d’altra parte, l’oggetto della filosofia è l’univer- sale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non c’è nemmeno problema da questo punto di vista, in quanto non si può porre il problema di quali siano le leggi razionali, universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti, per Aristotele, come per Platone e per il pensiero greco in generale, della storia non c’è scienza e non c’è neppure problema specula- tuvo: è il mondo del sensibile, del passionale, dell’arazionale. Il singolo come singolo ed il fatto umano nella sua concre- tezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia; il singolo è inoggettivabile. Perciò nella concezione greca la storia non ha progresso nè svolgimento: è circolo, eterno ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze, non quello degli individui. Gli uomini tendono a Dio, ma restano sempre fuori di Lui, come Egli è estraneo a loro ed alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno; son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla ananche, e preci- pitano nella notte inesplorabile della morte. Il Cristianesimo Concetto di metafisica 185. gettò luce su questa concezione della vita, serena per la sag- gezza della disperazione e attaccata alla gioia di vivere per lo sconsolato convincimento che la vita e la morte non hanno in loro nulla che veramente persuada, con il con- cetto di creazione che spiega appunto le origini da Dio della storia e dell’uomo. E pur essendo il concetto di creazione anche una verità di ragione, esso entrò nel mondo con la Parola soprarazionale. Per la filosofia nasce a questo punto un problema fonda- mentale: se oggetto della ragione sono le essenze universali desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli uomini (quell’essenza singola che è ogni singolo), l’uomo e la sua vicenda — la sua origine, la sua vita, il suo dolore, il suo bene e il suo male, la sua morte — restano fuori della filo- sofia, sono il limite della ragione. Accettare questa conclu- sione sarebbe cancellare la storia e gli uomini, come, in fon- do, li cancella il pensiero greco ed ogni filosofia della pura ragione nozionale, sia il razionalismo di tipo plotiniano o spinoziano, sia quello di tipo hegeliano. Pertanto, una filo- sofia che considera razionali solo le essenze universali si trova di fronte, imponente, ineliminabile ed inesorabile, il problema della storia, cioè il problema dell’uomo. Può la filosofia risolverlo? Lo ha tentato con la filosofia della storia, ma, come ab- biamo visto, il tentativo è naufragato: ha soppresso la filo- sofia (positivismo) o ha soppresso la storia (Hegel) nel mo- mento stesso che tentava di ridurla a razionalità; pertanto l’uomo o la storia nella sua integralità non può essere spie- gato dalla sola filosofia. Ma fino a che punto può essa spiegarlo ? Indubbiamente vi è nella storia una relativa razionalità e precisamente quella che deriva dalle leggi eterne della matura umana e dalle connessioni causali derivanti dal con- tatto di questa con l’ambiente che la circonda. Ma, tale razionalità, ben lungi dal rendere interamente razionale 186 Filosofia e Metafisica la storia, si lascia ancora sfuggire proprio quel singolare concreto che esige spiegazione. La storia è veramente com- prensibile e persuasivamente spiegata solo quando spiega, in maniera non contraddicente la ragione e le esigenze fon- damentali e sempre attuali dello spirito umano, il significato ed il destino di ogni singolo uomo e, con esso, quello del- l’umanità globale del passato, del presente e del futuro. Quale dialettica governa il mondo? Quale il piano della storia? Hegel rispose: è l’autorivelazione dell’Assoluto. Ma ciò non spiega la storia, bensì afferma che essa è stru- mento dell’Idea e con ciò le nega ogni significato e realtà; con ciò si cancellano, senza risolverli, il problema del male, del dolore, della morte ecc. La « filosofia della storia » non può dunque pretendere di spiegare il piano della storia stessa. Ogni tentativo in questo senso è una pretesa infondata della ragione iperbolica: giustamente A. Franchi (Ultima critica, p- 190) chiama la filosofia della storia « vanità della vanità ». Ma il suo fallimento non lo è della filosofia; anzi è il recupero della sua autenticità. La filosofia si incontra con il problema dell’uomo, del singolare concreto: il problema le nasce dal di dentro e le è essenziale. Ma, come abbiamo accennato, non lo è ad una filosofia delle pure essenze, che identifica la razionalità con la ragione di tipo aristotelico, puramente intellettualistica e nozionale. Per una ragione delle essenze, dell’eidezica, il singolare, la storia, l’uomo in carne ed ossa, l’esistente, sono indifferenti. Essa si chiude nelle essenze e chiude in parentesi il concreto. Ma questa ragione non è tutta la ragione, che non è tutto il pensiero vivente, l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito che è insieme ed inscindibilmente essere sentire conoscere volere. Per lo spi- rito concreto la storia è la sua storia; il significato e il de- stino della storia sono il suo significato e destino. Il proble- ma scaturisce dal suo dinamismo interiore, gli è intero: è il problema della sua stessa interiorità. Il problema specu- lativo della verità manifesta la sua solidarietà con quellò Concetto di metafisica 187 pratico del destino umano; nasce il problema ultimo della loro unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo av- viarne la soluzione integrale, che è quella della storia inte- grale, cioè può cercare a quali condizioni è possibile quella unità. È il problema dell’adazzamento del nostro essere con- creto alla sua finalità interiore e trascendente, che è l’Essere. Tale adattamento è atto razionale della ragione vivente e concreta, con cui ricorosce (e dunque è anche atto volon- tario) che la dinamica del pensiero è orientata all’Essere che la trascende e che la soluzione del problema della vita e del destino dell’uomo o della storia trascende l’ordine ra- zionale umano e naturale; dunque l’atto con cui la ragione riconosce che il piano della storia è divino, è atto razionale e perciò razionale è il passaggio dalla « filosofia » alla « teo- logia » della storia. A questo punto si rivela chiara ed evi- dente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il si- gnificato della storia è nella Parola rivelata ed incarnata, in Cristo. È la soluzione di Agostino, la cui teologia della sto- ria, punteggiata dai momenti della creazione, del peccato originale, dell’Incarnazione, della Redenzione attraverso la Croce, del dolore come conseguenza del peccato, del gran Sabato nella fine dei tempi, resta e resterà sempre, nelle sue linee maestre, la verità perenne sul problema della sto- ria. E, se verità, sempre attuale; più che mai oggi dopo che il pensiero moderno ci ha educati all’interiorità della ricerca e della verità. Ma deve essere una interiorità auten- tica: quella che « attesta » e non che « pone » Dio. Nella trascendenza teologica è il senso della storia e dell’uomo: « Beau de voir par les yeux de la foi l’histoire d’Hérode, de César... Qu'il est beau de voir, par les yeux de la foi, Darius et Cyrus, Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir, sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile! » (Pascal). CapritoLo VI ESISTENZA E CONSISTENZA I. — L'esistenzialismo o la rivolta contro l'essenza. Il primo dei due termini è antico quanto la filosofia: occupa un posto primissimo tra i termini tecnici, già appro- fondito e direi scavato in mille guise, codificato. Il secondo non è tecnico, non ha una tradizione speculativa, manca nei dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede filosofica, un problema la cui soluzione totale e unica spetta alla religione. Il primo ha un antico e glorioso passato, ma di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro; infatti, per noi, il problema dell’esistenza trova autentico chiarimento e soluzione ultima — ad esso interiore ed es- senziale — nel determinare quale sia la « consistenza » del- l’« esistenza » stessa. I termini «esistere », «esistenza», «esistente», « esi stenziale » hanno una risonanza infinita. Che cosa, infatti, non appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filo- sofie sono state esistenziali: o hanno trattato dell’esistenza o speculato su di essa, ma proprio questa constatazione, che del resto va presa entro certi limiti, impone il problema non della riduzione di tutta la storia del pensiero all’esisten- zialismo o quello di una interpretazione unilaterale di essa, bensì l’altro, meno grossolano in quanto sa distinguere, del perchè solo da circa un trentennio vi sia una filosofia detta « esistenzialista » o almeno che si dichiara esplicitamente Concetto di metafisica 189 tale. Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si presenta con una sua peculiarità in quel che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo sofica del concetto di esistente, di una filosofia quasi galva- nizzata totalmente da questo problema, posto in termini nuovi; in breve, di un particolar modo di concepire l’esi- stenza. Il movimento in questione non si caratterizza come filosofia dell’esistenza, ma come quella determinata conce- zione di esso, che si chiama appunto esistenzialismo. L’esistenzialismo è una posizione di pensiero; ogni posi- zione di pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta è decisione dichiarata di dire di no a qualcosa o a qualcuno. Ma è anche dire di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si riconosce più tale è l’affermazione di un altro, considerato valore. A che l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto (che è tutto) la ragione speculativa può conoscere e com- prendere, chiudere nell’orizzonte della pura razionalità. E quel che resta fuori? Il « conoscere oggettivo » e la « ragione speculativa » o lo negano, o non se ne curano. Comincia l’as- sedio alla fortezza della razionalità pura; l’esistenza concreta preme contro i bastioni della filosofia speculativa; preme ed attacca, pone istanze, formula domande, mette in questione tutto il formidabile e massiccio castello, pietra per pietra. L'’esistente che dice di no ed interroga si pronuncia sulla Conoscenza o Ragione. I termini del rapporto filosofia spe- culativa-esistente sono capovolti: non si tratta più di sapere che cosa la Ragione pensi dell’esistenza, ma che cosa l’esi- stenza della Ragione; anzi, giacchè l’esistenza è ancora un termine astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della filosofia speculativa. Non più la ragione rende problematico l’esistente, ma l’esistente problematica la Ragione; quel che per quest’ultima era un non-problema — l'esistente, l’acci- 190 Filosofia e Metafisica dentale che non importa all'essenza intelligibile — è ora po- sto come il problema assoluto, che la filosofia speculativa è costretta a riconoscere come proprio limite. Essa perciò è chiamata non a risolvere un problema per essa insolubile perchè non razionale, ma a chiarirlo sempre più come pro- blema, ad esasperarlo quasi scavandone la radicale proble- maticità insormontabile; e con ciò, in pari tempo, la ra- gione si fa essa stessa problematica di fronte alla irriduci- bilità o non razionalità dell’esistente. In questo porre l’esi- stente come interrogante la Ragione e come colui che dice quel che ne pensa, credo risieda la caratteristica fondamen- tale di ogni vera filosofia esistenzialistica, ammesso che sia possibile una tale « filosofia » nel senso che, come pura filo- sofia, possa risolvere integralmente il problema, quel com- plesso di problemi che è l'esistente. 2. — L'incontraddittorietà dell'essenza e il problema della metafisica. Ens dicitur multipliciter, scrive S. Tommaso sulla scorta di Aristotele. Vedere l’esperienza molteplice sotto l’aspetto il più universale significa considerarla sotto la categoria del- l’ente, il quale non è solo l’ens rationis, ma precisamente il quid, essenziale ed ineliminabile, per cui il reale è reale e senza di cui il reale non è reale. Ente è id cui competit esse e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma ad ogni ente del mondo dell’esperienza, ad ogni reale, al reale hic es nunc, che l'Ente fa esistere, pone con una sua essenza. «Fa esistere », «pone»; dunque all’esse compete anche l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma è proprio l’espe- rienza molteplice che sembra smentire l’essere dell’esse o dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno stato ad un altro, in una successione di stati diversi, per cui questo ente diviene non questo ente. L'esperienza, ha osservato Aristo- tele, e prima di lui Platone e Parmenide, come divenire da Concetto di metafisica 191 questo a non questo, è esperienza di contrari. Ma non per ciò è contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nel- l’esperienza è testimonianza della identità dell’ente a se stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento da questo ente a non questo ente senza l’unità e la permanenza del- l’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. È questo ente che è contrario al ron questo ente, ma l’ente, sia del questo che non questo, è sempre lo stesso identico ente. Se l’ente potesse divenire il non-ente, ogni ente diverrebbe la negazione di se stesso e non vi sarebbero più nè enti nè que- sto ente che diviene non questo ente. Se tra ente e non-ente vi fosse rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che investe la stessa essenza dell’ente per cui l’antitesi s’irradica nella sua essenzialità) non vi sarebbe più possibilità di sta- bilire i termini di una qualsiasi antitesi; infatti è possibile un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo ente e non questo ente in quanto permane l’ente, sempre identico a se stesso, che da questo diviene non questo. In altri termini, il principio di identità, piuttosto che negare il divenire dell’esperienza molteplice, è quello che ne giustifica e ne spiega il dinamismo, facendo che i contrari siano mo- menti dell’ente, senza che la contraddizione infirmi l’ente in se stesso, cioè quella sua positività essenziale e perma- nente, la quale sola rende possibile il divenire e nello stesso. tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente uno e ciò che di- viene dell'ente uno è quel che può diventare o disparire ( cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto ( xwpic tic 70ò broxerpevov 0I0PÀg ). Non sempre noi facciamo un uso preciso dei termini «esistenza » ed «esistente », anzi tendiamo spesso ad iden- tificarli; ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come tale non è oggetto di esperienza sensibile: proprietà co- mune a tutti gli esseri, è una nozione astratta. L'esistenza non esiste; esistono gli esistenti, cioè quanti esseri hanno 192 Filosofia e Metafisica l'esistenza a tutti comune dal loro atto di esistere o atto per il quale un essere è, atto assolutamente primitivo e fon- damentale, come scrive il Gilson (Les limites existentielles de la philosophie), a cui tutto va rapportato e condizionato, non solo ciò che un essere è o fa, ma anche tutta la conoscenza che possiamo averne. L'atto di esistere fa che ogni essere sia e, per il fatto che è, sia conosciuto; non è una proprietà dell’essere, ma tutte le trascende in quanto tutte le condi- ziona. L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per il suo atto di esistere, dove l’esistere non è una delle tante sue proprietà, ma la dimensione immensurabile per cui l’es- sere che è, è ciò che è. La definizione dell’essere così for- mulata implica due elementi logicamente distinguibili, ma metafisicamente indissolubili. Vi è una ontologia e vi è un’eidetica dell’essere: per l’ontologia l’essere è «ciò #1 quale è », ciò che, per il suo atto esistenziale, esiste; per la eidetica l’essere non è «ciò il quale è», ma oggetto da conoscere, cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui è da dire che cosa è, di cui va definita l’essenza. Ora, per tale definizione, la riflessione filosofica prescinde dall’atto esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto es- sere e delle sue proprietà in quanto essere. L'esistenza o la non esistenza di un essere o dell’essere in generale lascia indifferente la eidetica, in quanto l’essere concettuale, a pre- scindere che l’essere esista o no, è solo la sua essenzialità. L'essere è considerato nella sua possibilità pura di cui l’esi- stenza non è una necessità intrinseca, ma come un comple- mentum, superfluo per definirla, anzi ostacolo alla sua tra- sparente intelligibilità. La filosofia non è forse filosofia prima o metafisica, scienza dell’essere in quanto essere? Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e non solo di quello dell’eidetica. Ora l’essere in senso ontologico è l’es- sere che è, che esiste in virtù del suo atto esistenziale, l’es- sere reale (non l’essere possibile), il cui fondamento assolutò Concetto di metafisica 193 l’atto dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica l’essere reale, l’essenza esistenzializzata, il cui esserci c'è per l’atto di esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è scienza dell’esistere come tale? Non c’è di esso scienza eide- tica, in quanto l’atto per cui un ente è o esiste non è oggetto concettuale; l’esistente in questo senso è inoggettivabile. L’es- sere in senso ontologico è soggetto (oggetto è il concetto o la forma o l’essenza), il quale non si oggettiva, se oggetti vato cessa di essere soggetto; come soggetto, è eidetica- mente inassimilabile. D'altra parte, il ciò che è o ente, è « ciò #1 guale è » come un che cosa che è: l’esistere non è l’insignificante esistenza di nulla, ma il significante esistere di qualcosa, l’esistenziarsi di un’essenza; perciò il problema dell’esistere non va posto come problema della pura esistenza, ma dell’esistenza di un quid. Dunque «ciò il quale è », è ed esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere: non vi è esi- stente che non sia l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza. L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo senso più pieno, è sintesi di essenza ed esistenza, è l’essenza concretamente attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è particolare e contingente, ma con una sua essenziale strut- tura, senza della quale sarebbe impossibile ogni riduzione cidetica, la quale ne coglie l’essenza desistenzializzata e fa che il reale sia concettualizzabile. In questo senso l’eidetica è la verità del reale, quella che lo definisce nella sua essenza, lo «raccoglie » nel suo ordine, lo fa oggetto di ragione e dun- que di conoscenza filosofica. La definizione aristotelica della metafisica come scienza dell'ente in quanto ente — dove scienza significa intelligibilità dell’ente stesso o definizione della sua essenza desistenzializzata — può, su questo punto, concordare con l’altra platonica della metafisica come scienza dell'ente in quanto verità, cioè di quel che può essere ed è oggetto dell’intelletto. Ma nè la definizione di Aristotele nè quella di Platone esauriscono il problema della metafisica, in © 02 194 Filosofia e Metafisica quanto l’oggetto di essa non è l’essenza, ma l’essenza-esi- stente, non il concetto oggettivabile, ma il soggetto come soggetto, cioè come essenza esistente, inoggettivabile in quan- to esistente, includente l’atto di esistere, fondamento asso- luto di ogni essere reale. Evidentemente la posizione di Ari- stotele va integrata e sorpassata: è vero che lo Stagirita sem- bra interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste, ma in realtà la sua metafisica si comporta come se il pro- blema dell’esistenza di ciò che esiste non si abbia a porre. Naturalista, Aristotele parte dal concreto; metafisico, sembra dimenticarsi della pluralità degli individui viventi e dive- nienti e rifugiarsi nell’essenza immutabile, una ed identica a se stessa. Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità che non va perduta, comune a Platone e ad Aristotele: una inclinazione naturale spinge il pensiero a ciò che è puro e semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità delle cose, al distacco dall’accidentale diveniente, condizione per cogliere ed intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso specu- lativo che manca o almeno è diverso in Aristotele: inten- dere ciò che una cosa è, coglierne l’essenza, è penetrare la sua intimità, la verità definitiva che l’esistenza manifesta. Se poi questo linguaggio platonico lo traduciamo in quello del platonismo cristiano di Agostino, in cui la intimità si traduce nei termini della interiorità e la verità in quelli del vero come forza operante, attiva e creatrice e ancora uni- ficante, il concetto di essenza si arricchisce di un significato dinamico e, come verità, si traduce nei termini della spi- ritualità. L’essere concreto è determinazione esistenziale della sua unità vivente nella sua unità reale. Ma a questo punto si può domandare: il problema della metafisica è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il necessario, l’accidentale e non l’essenziale? Chi formula que- sta domanda dimentica che l’atto di esistere fonda ogni essere reale e che l’esistente non è solo contingenza ed acci- Concetto di metafisica 195 dente, ma è l’esistere di una essenza. Il reale mi si presenta come insieme di soggetti, cioè di essenze universali deter- minate in esistenze particolari. L'oggetto della metafisica è l’esistente nella pienezza dei suoi elementi, di cui l’essenza è intelligibile; dunque, una metafisica che, per intenderci, possiamo chiamare esistenziale, non può non porsi questo problema, in quanto il problema dell’eidetica o dell’essenza porta immanente, costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto di esistere, per il quale è tutto ciò che è. Questo discorso, condotto con un uso di termini che riteniamo tecnico, è tut- tavia bisognoso di ulteriori precisazioni. Esistere è manifestarsi, esserci, ma è presenza di qualche cosa, di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza en- tra nel mondo, si consolida, per dir così, in un hic et nunc, i cui mutamenti sono non nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò, se è vero che l'esistente o il soggettivo è l’« incarnazione » di un'essenza, è anche vero che fo non sono il mio corpo, in quanto esso ritiene l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque io che esisto, mi manifesto, per il corpo, sono più del mio corpo, più del mio esistere, perchè sono essenza che esi- ste. In questo senso l’esistente, non l’esistenza, che è una notazione universale, si distingue dall’essenza, che è concet- tuale e non sensibile e a cui si unisce qualcosa che la determi- na. L’essenza senza esistenza è universale, l'esistente è partico- lare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza è quo quid est: il nunc diveniente non ci sarebbe senza il nunc permanente, che, a sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di esistere. Ciò prova, non solo che il divenire postula l’essere, ma che il divenire stesso ha un suo essere formale per cui è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determi- nato, ma, perchè vi sia la determinazione, è necessaria l’es- senza da determinare e perchè l’essenza non sia puro pos- sibile, è necessaria la determinazione esistenziale. Ciò non dovrebbe dimenticare nessuna filosofia che si dice esistenzia- lista od esistenziale (due cose molto diverse) la quale, quando 1% Filosofia e Metafisica si pone l’esistente come problema e lo contrappone alla pura essenza, dovrebbe ricordarsi del nunc permanente che sot- tostà al r4nc diveniente e porsi dunque sempre come onto- logia e non come pura descrittiva degli elementi esisten- ziali, quasi che l’esistente sia pura particolarità senza uni- versalità. Una filosofia del solo esistente, cioè del solo aspetto particolare dell’ente, non ha senso, non è filosofia (sarà de- scrizione empirica o fenomenistica o anche fenomenologica) e non è nemmeno riflessione sull’esistente reale in quanto astrae dall’essenza per cui l’esistente è. In questo senso fa dell’esistente un’astrazione. L'espressione di Heidegger che l’essenza della realtà uma- na consiste nella sua esistenza (das Wesen des Daseins ltegt in seiner Existenz), intesa nel senso che l’esistenza è priva di essenza, non ha senso; e non lo ha perchè non si capisce più che cosa esista: l’esistenza senza essenza vanisce, è una pura « possibilità », un’astrazione. Il suo manifestarsi è il manifestarsi del suo nulla e, come tale, un niente di manife- stazione e dunque anche un niente di esistenza. Gli esisten- zialisti dicono che è pura libertà e temporalità, intesa la pri- ma come l’atto della pura costituzione dell’essere dell’esi- stenza. La libertà, in tal modo, non « appartiene » all’esistente, lo « costituisce »: è della libertà dare la propria natura a se stessa e con ciò farsi essenza. Dunque, precede l’essenza: noi stessi costituiamo il nostro essere, siamo come ci affermiamo. Qui c'è un'equazione: l’esistenza come pura possibilità è pura libertà; ma la libertà come pura possibilità è libertà di nien- te perchè è il nulla di libertà. Concediamo che sia e che siamo come noi stessi ci affermiamo. Ebbene, che significa io « sono » come mi affermo, « mi do un’essenza » ? che sono io a farmi uomo, liberamente? che potrei anche non farmi uomo? Parole senza senso. Se mi potessi liberamente fare uomo, non mi farei uomo per il semplice fatto che sarei Dio! E neppure Dio, dato che posso anche farmi « libera- mente » non-uomo; e Dio non può fare che un uomo non Concetto di metafisica 197 sia uomo, appunto perchè è libertà autentica e non l’Assur- do. Esistenza e libertà, come sono concepite dall’esistenziali- smo, sono esistenza assurda e libertà assurda. Inoltre, se « noi siamo come ci affermiamo » significa che l’esistenza come possibilità o libertà dà a se stessa le sue specificazioni, cioè la sua essenza, qui « essenza » evidentemente vuol dire altro da quel che è il senso tecnico del termine e cioè: l’esistenza ora si dà una determinazione, ora un’altra essendo infinita possibilità. In tal modo, l’essenza è essa il particolare, la de- terminazione, e l’esistenza, possibilità infinita, l’universale: si sono cambiate le carte in tavola e si crede di aver vinto la partita. Ma ogni determinazione è contingente; come tale non è essenza; per conseguenza l’esistenza, anche determi- nandosi, non si essenzializza e dunque resta vuota; si nega sempre come esistenza, non esiste perchè non è. E che sia così appare chiaro dall’altra equazione esistenzialista di esi- stenza e temporalità: il divenire temporale s’identifica con l’esistenza, che non è altro che il suo processo temporale; dun- que l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è come dire: l'essenza dell’esistenza e la sua contingenza, cioè il suo stesso esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così tornia- mo sempre allo stesso punto dell’esistenza che non è, che è il nulla di essere. Giustamente osserva il Maritain nel suo Court traité de l’existence et de l’existant (p. 12): se voi « suppri- mez l’essence, ou ce que pose l’esse, vous supprimez du méme coup l’existence ou l’esse, ces deux notions sont cor- rélatives et inséparables, et un tel existentialisme se dévore lui-méme » ('*). Esasperare l’antinomia di essenza ed esi- stenza, al punto da rendere l’una esclusiva dell’altra, è ste- (1) Nella stessa pagina il Maritain distingue tra « esistenzialismo autentico », che « affirme la primauté de l’existence, mais comme impliquant et sauvant les essences ou natures, et comme manifestant une supréme victoire de l’in- telligence et de l’intelligibilité »; ed «esistenzialiimo apocrifo », quello di oggi, il quale « affirme la primauté de l'existence, mais comme détruisant ou supprimant les essences ou natures, et comme manifestant une supréme défaite de l’intelligence et de l’intelligibilité ». Un’ontologia completa, osserva il Girson 198 Filosofia e Metafisica rilizzarle entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kier- kegaard, a volte, è l’astrazione di un’astrazione. A chiarire meglio questo punto soccorre la considerazione dei termini nel loro rapporto e distinti nel loro uso metafi- sico e logico. L'essenza (0dcia ) è ciò per cui un essere è quello che è. Metafisicamente è ciò che forma il fondo dell’essere; lo- gicamente o concettualmente è l’insieme delle determina- zioni che definiscono un oggetto di pensiero (Ar., Met., VII, 7, 1032b). Ci sembra evidente che il significato metafisico non esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto è vero che essa, così intesa, da alcuni pensatori è posta nell’universale, da altri nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il fondo dell’essere, per ciò stesso, non è tutto l’essere sia perchè esclude gli accidenti, sia — e questo è più impor- tante — perchè l’essere metafisico importa l’atto di esi- stere, è l’essere che è. In questo senso l’essere è il fatto di essere o esistenza: esiste — altrimenti non potrebbe esi- stere un solo momento — per l’essere, ma è un fatto di essere «in quanto è atto di esistere ». Evidentemente l’ente finito riceve tutto quello che ha di reale e di vero dell’Ens reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il solo la cui essenza implica necessariamente l’esistenza: Ens ex cujus essentia sequitur existentia, secondo la definizione che il Leibniz ha dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini, solo l’Ens reglis- simum è l’Ente concreto, essendo gli altri esseri « astratti » da Lui e postulanti il principio che li fa essere, per cui di ogni altro ente si può dire: ens ex cujus existentia sequitur essentia). In breve, non vi è essere reale che non sia esi- stente: esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente da altro, gli esseri finiti; ma nell’uno e nell’altro caso l’essere e (L'étre et l’essence, Paris, Vrin, 1948, p. 234) non può concepire l'esistenza come tale, nè eliminarla. « Une philosophie qui ne renonce pas au titre de sa- gesse devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui . de la réalité » (ivi). Concetto di metafisica 199 l’esistenza sono il fatto di essere, dove essere ed esistere non si oppongono. A definir l’esistenza non basta la sua astua- lità, ma è necessaria la permanenza, in quanto nel pas- saggio, come abbiamo detto, da «questo ente » a « non- questo - ente » permane l’essenza. Perciò essere-esistenza, co- me il fatto di essere, non solo si oppongono all’essenza (co- me il fatto di essere alla natura dell'essere), ma anche (nota il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al nulla, come l’affermazione alla negazione. Infatti, se af- fermo che un essere è, non posso nello stesso tempo af- fermare che non è. È, come sappiamo, l’identità, scatu- riente dagli stessi contrari dell’esperienza. Da quanto abbiamo detto si conclude: 4) l'esistente non è il mero particolare, ma è l’essere determinato e, come tale, reale, in quanto l’atto di esistere lo fa reale; 4) come essere determinato è universale esistente e dunque permanente nelle sue mutazioni; c) come ente che è, importa l’esistenza, in sè e da sè (Dio), da altro (enti finiti); 4) l’ente così con- cepito (essere esistente o essenza determinata) è l’oggetto della metafisica, la quale, da un lato lo intende come essenza o concetto (eidetica), non più come esistente bensì come es- senza desistenzializzata e, dall’altro, risale dall’ente che è all'atto di esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale; e) di fronte a questo problema, la metafisica non cerca più di definire il reale, di coglierne l’essenza o il concetto, per cui il reale è giudicato, compito assolto dall’eidetica, ma si sforza di cogliere il reale che è insieme nunc perma- nente e nunc diveniente, essere esistenziale; f) in quest’ul- timo punto la metafisica si pone il problema supremo dell’atto dell’esistere, il problema della « consistenza » del- l’esistenza ed è metafisica esistenziale, cioè che non si appaga più della razionalità della pura forma, ma, senza prescindere da essa, si sforza di cogliere l’essere come reale, di ri- spondere non più alle esigenze della sola ragione, ma a quelle dell’esistenza concreta, alle istanze che l’essere esi- 200 Filosofia e Metafisica stente — in quanto essere e in quanto esistente — pone co- me universalità determinata o come particolare esistere di un'essenza universale; cioè pone come soggetto integrale, completo. Può rispondere la metafisica a questo problema? Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile del soggetto? Col problema dell’esistenza, così impostato, in che rapporto sta quello che oggi si chiama l’esistenzialismo ? Contro quale concezione dell’esistenza o filosofia esso protesta? Cerchiamo prima di rispondere a queste ultime domande. 3. — Critica dell’esistenzialismo. L'’esistenzialismo — quali che siano le sue forme — è una filosofia dell’esistenza o meglio dell’esistente e vuol essere una metafisica esistenziale, cioè si pone come problema non l’essere in quanto essenza od oggetto, ma in quanto sog- getto, singolarità e soggettività; per contro non è una filo- sofia della pura forma, dell’essenza desistenzializzata, ogget- tiva e concettuale. Esso dunque, contrappone la filosofia detta « esistenziale » a quella detta « speculativa » o « essen- zialista » come contrapposizione dell’essenza all’esistente, del- l’oggetto al soggetto, dell’universale astratto al singolare con- creto. In questa contrapposizione chiede alla filosofia spe- culativa o concettuale di dare una risposta — se può — alle istanze del soggetto, al grido del singolo, come oggi si dice per drammatizzare il problema e colorirlo con il linguaggio della poesia. Perciò l’esistenzialismo è la rivolta contro la filosofia dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione cristallina che ordina e sistema forme, contro l’eidetica e qual- siasi aspetto della realtà spirituale che si presenti nei ter- mini della razionalità pura, conclusa, definitiva e definiti vamente definiente. È contro la scienza che, pur definendosi conoscenza del fatto concreto, prescinde, come pura conoscenza scientifica, dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto che si può avere © Concetto di metafisica 201 una descrizione scientifica della natura, senza che mai si ponga, dice Eddington, la questione di attribuire all’universo fisico quella proprietà misteriosa che si chiama « esistenza »; d’altra parte, si costruiscono ontologie, senza che il concetto di esistenza vi abbia importanza alcuna. Sembra che corri- sponda ad una esigenza naturale e spontanea della ragione assimilare le essenze e classificarle, eliminare l’esistenza, osta- colo alla concettualizzazione del reale. Da Parmenide in poi, ogni filosofia è come se abbia avuto sempre inizio dalla paura dell’esistenza e riposto la saggezza nella liberazione da essa: riposare nella pura essenza, in un cielo immobile di forme assolute nella dimenticanza totale dell’esistenza inintelligibile. La filosofia è nata come svalutazione dell’esi- stente molteplice contingente e rifugio nella contemplazione dell'essere in sè. L’esistente è il non-essere; l’esistente, per la ragione, non è. In questo senso, la filosofia si è preoccu- pata più della felicità della ragione che di quella dell’uomo pretendendo, nello stesso tempo, di far coincidere perfetta- mente la felicità di quest’ultimo con quella della prima. Ma, intelligibile o no (ed è qui una delle ragioni dell’esi- stenzialismo) l’ineliminabile problema dell’esistenza s’im- pone in ogni forma di attività spirituale, scientifica od arti- stica, filosofica o religiosa; soprattutto s'impone per la meta-. fisica, in quanto s'inserisce profondamente nella sua stessa struttura. La metafisica come eidetica non può non seguire l'inclinazione naturale della ragione di stabilire, in base al principio di contraddizione, rapporti tra le essenze e le loro. proprietà; non può non desistenzializzare l’essere, renderlo esistenzialmente neutro al punto che sia indifferente al suo concetto l’esistere o il non esistere, tanto da definirlo come ciò che è identico a se stesso. Ma d’altra parte non può non tener conto degli esistenti, della relazione tra un esistente e un altro, non più trasparente, come nel caso delle essenze, in quanto, nelle questioni di fatto, è possibile il contrario. senza che implichi contraddizione, a differenza che nelle 202 Filosofia e Metafisica relazioni tra le idee, .che il solo principio di contraddizione basta a giustificare; e soprattutto non tener conto del pro- blema fondamentale dell’esistere per cui l’esistente è tale. Tra l’essere come pura essenza e l’essere esistenziale non solo sembra stabilirsi un’opposizione, ma addirittura instaurarsi un conflitto: l’uno diventa la negazione dell’altro. È l’astrat- tezza di una metafisica come pura eidetica, o di una filo- sofia che riduce l’essere alla sola esistenza. Infatti nel primo caso, la metafisica non può definire nemmeno l’essere come essere. Platone avvertì chiaramente la difficoltà nella teorica dei Generi supremi del Sofista (come nel Parmenide aveva avvertito le aporie del rapporto tra l’év e i ro), dove rileva che il Medesimo (taòdtov) è an- che il Diverso (èresov ) in quanto, proprio perchè è il « me- desimo », è «diverso» da ogni altra cosa. D'altra parte, «come osserva ancora acutamente il Gilson, «l’étre ne peut se réduire à l’identique sans se dévolouer lui méme en tant qu’étre, car è partir du moment où cette réduction s’opère, il dépend du ”’ mèéme” comme de sa condition, et, par con- séquent, il s’y subordonne comme la conséquence au prin- cipe ». L'essere non è più la nozione prima, ma come prin- cipio intelligibile si subordina ad un altro anteriore che intel- ligibile non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là del- l’essere (come Platone vi aveva posto il Bene), al di sopra di ogni razionalità, trascendente ogni forma di conoscenza; in tal modo l’essere soffre esso stesso della inconcettualiz- zabilità dell’esistenza. Sono i limiti esistenziali che l’esisten- zialismo pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere identico a se stesso. Tali limiti, fin dalle origini, l’esistenzialismo fece valere contro la Ragione hegeliana, contro la dialettica dei «tre stomaci », come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia trascurato di interessarsi dell’esistenza; anzi il Dasein è per lui un momento ideale della dialettica, la quarta categoria della logica dopo l'essere, il non-essere e il divenire; ma- Concetto di metafisica 203 per Kierkegaard è proprio nell’onnivora dialettica il peccato d’origine della hegeliana filosofia speculativa. Niente, per lo Hegel, è al di sopra o al di fuori della Ragione univer- sale, la quale adegua interamente e perfettamente il reale. La conoscenza è la Ragione, che è il Sapere, il frutto del- l’albero della conoscenza del bene e del male (come scrive lo stesso Hegel nei Vorlesungen tiber die Geschichte der Philosophie), il principio generale di ogni filosofia. La legge della hegeliana Ragione è quella del serpente, che provocò la caduta di Adamo: tutta la sua realtà è la storia. La ragione non è fatta per servire l’uomo, ma per assoggettarlo, come la Storia non è fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia. Anche nei contemporanei epigoni dello storicismo questo concetto negatore della persona è stato gelosamente conser- vato, anzi « umanisticamente » perfezionato. Lo Hegel parla spesso di esistenza (Dascin) ed anche di esistente (Seiende), proprio negli stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla Heidegger, cioè di un essere finito, gettato, abbandonato, ma gli nega qualunque diritto in sede filosofica: la filosofia dell’Idea, come tale, non riconosce il « finito come essere vero ». I lamenti e le grida dell’io sono sterili pianti senti- mentali, di cui l’Io non può tener conto se non come del negativo, di fronte a cui lo Spirito non indietreggia, anzi vi s’installa dentro, in quanto conquista la sua verità proprio nell’assoluta negatività, la sua vita inserendosi dentro la « ir- realità » della morte. Lo Spirito che si colloca nel negativo, come si legge nelle prime pagine della Phénomenologie des Geistes « trasforma il nulla in essere ». È precisamente con- tro questo « potere magico » (Zauderkraft) di risolvere vio- lentemente — e dunque di dissolverlo — l’esistente-negativo nello Spirito-Positivo che si ribella la filosofia esistenziale. Essa protesta che non vi è risoluzione dell’esistente nel Po- sitivo assoluto, che l’esistente ha il diritto d’interrogare la filosofia speculativa e di gridarle in faccia le sue sofferenze; che non vi sono « passaggi » dialettici, ma « salti » scanda- 204 Filosofia e Metafisica lizzanti la ragione. L’infelicità e il dolore dei personaggi del- la tragedia greca non sono «intelligibili », come dice lo Hegel, in quanto la necessità di ciò che loro accade appare co- me la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra di ogni razionalità, permangono infelicità e dolore incomprensibili per la ragione, per essa « non veri », ma non perciò « non reali ». Di qui la rivolta di Kierkegaard, la rivolta dell’« an- goscia » contro la « ragione speculativa », il mo dell’esistente contro il sì assorbente dell’Idea. L’esistente mette in di- scussione la filosofia e cita in giudizio l’onnicomprensiva conoscenza razionale, affinchè si rassegni ad ascoltare che cosa pensi di essa, per dirle che si rifiuta d’ « immagi- narsi felice » come richiede la Ragione universale; che non intende, imaginandosi tale, di diventare un mito; che si appella, malgrado la ragione, all’Assurdo. Obiezione fon- damentale questa dell’esistente: la ragione non si trova sulla stessa linea della realtà, costruisce un uomo che non è l’uo- mo, per cui la categoria del pensare risulta diversa da quella del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed implorante; per il singolo è un mito la ragione universale e soddisfatta. È un mito la Ragione — l’Idea o l’Essenza — o è un mito l’esistenza, il mondo delle cose e degli uomini? Una risposta che riconoscesse la miticità di uno di questi due mondi non sarebbe tale, ma la catastrofe definitiva, un decreto oscuro e silenzioso di morte. In questo conflitto tra filosofia speculativa ed esisten- ziale, che abbiamo colto all’origine (quantunque esso non nasca con la polemica anti-hegeliana di Kierkegaard, ma abbia natali più vetusti e non meno nobili, almeno nella po- lemica Abelardo-S. Bernardo — dei dialettici e degli anti- dialettici — e poi in quella Pascal-Descartes e, sotto certi aspetti, nelle altre Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone delle istanze che meritano la migliore attenzione, anche perchè esse servono a riportare in primo piano quella metafisica che sembrava Concetto di metafisica 205 morta e sepolta e lo sembra ancora oggi ad alcuni superfi- ciali pseudo-filosofi italiani e anglo-americani; a ridare di- gnità filosofica e senso teologico a quella trascendenza che l'immanentismo aveva creduto di aver definitivamente dis- solto; a chiarire, su basi rinnovate, i rapporti tra filosofia e religione e a cercare nella morale — che è pratica ed è teoria, azione e pensiero — la soluzione dei problemi della metafisica stessa. Perciò noi che abbiamo criticato, a volte anche aspra- mente e continueremo a criticare certi atteggiamenti sterili, di maniera, pseudo-filosofici e decadentisti di cui abbonda la letteratura esistenzialista, siamo pronti a riconoscere l’impor- tanza che ha l’esistenzialismo come momento della filosofia contemporanea; ma prima di accennare al nostro punto di vista sul tema del nostro discorso, riteniamo necessario pre- cisare alcuni punti dentro l’esistenzialismo stesso. Innanzi tutto esso deve decidersi se vuole essere una filo- sofia dell’esistente o una filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff, nelle Cinque meditazioni, ha già osservato che, a differenza della kierkegaardiana, quelle di Heidegger e di Jaspers so- no filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Chemine- ments et Carrefours) lamenta che la fenomenologia esisten- ziale « sous la responsabilité d’un Gabriel Marcel, d’un Hei- degger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre ui lui rend la terre ferme: l’existant s’efface et cède la place à l’Existence »; più recentemente il Fondane (Le lundi exi- stentiel et le dimanche de l’histoire) afferma che una filo- sofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai una filo- sofia esistenziale, «car c’est précisément è l’existant seul qu'il appartient de faire connaître son point de vue; à lui de decider ce qui est negatif et ce qui est positif... ». La di- stinzione è esatta e fondamentale: una filosofia dell’Esi- stenza non è una filosofia esistenziale, in quanto l’esistenza è ancora un astratto, una nozione concettuale; una filosofia esistenziale non può non essere che filosofia dell’esistente. Resta a vedere fino a che punto essa sia possibile, in quanto 206 Filosofia e Metafisica filosofia; se quella che la Bespaloff giudica una « manovra » insidiosa della fenomenologia esistenziale di Marcel, Heideg- ger e Jaspers, non sia invece una necessità intrinseca alla filosofia, che, in quanto tale, è bisognosa della « terre fer- me ». Resta confermato, per ora, che una filosofia esisten- ziale non può essere che filosofia dell’esistente, ma per- mane ancora aperto il problema se non sia costretta ad oltre- passare se stessa. Già come ausilio alla risposta ci soccorre la seguente consi- derazione. Filosofia dell’esistente, colto soltanto nella sua finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così concepito è ancora il negativo, il nulla? È il niente che « po- ne » il positivo? In tal caso, si è negata la positività del- l'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La stessa obiezione che si può muovere allo Hegel — il Non- Essere come Non-Essere non può costituire termine di an- titesi (se ne accorse Platone nel Sofista, dove stabilì la zoweviz tra l’Essere e il Non-Essere) — si può ritorcere contro l’esistenzialismo: dell’esistente come negativo non c’è discorso, per il fatto che è negativo. Di qui la necessità di tener fermo quanto abbiamo chiarito precedentemente: l’esi- stere è l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si può prescindere, altrimenti si prescinde... dall’esistente stes- so! Di qui l’altra necessità di non poter fare a meno della filosofia speculativa, anche se questa non può bastare. Kier- kegaard alla dialettica hegeliana, la quale conclude al « non riconoscimento del finito come essere vero », oppone l’ango- scia e dice che essa precede la logica, il particolare l’uni- versale, l’esistente l’Esistenza. Ma a chi si appella l’angoscia se la ragion vien dopo o non viene mai o è venuta prima e non ha saputo rispondere? A chi grida? L’esistente inter- roga la ragione e dice quel che pensa di essa: benissimo; ma con che cosa l’esistente interroga la ragione e dice quel che ne pensa, se non... con la ragione? Dunque è la ragione che interroga se stessa intorno al problema dell’esistente. Concetto di metafisica 207 x . Scartata la ragione, la filosofia non è più tenuta a rispon- dere ed è inutile quanto ingiusto protestare contro di essa. Non la ragione deve. pronunziarsi sull’esistente, ma l’esi- stente sulla ragione, dicono gli esistenzialisti. Per dire che cosa? Che la ragione non deve sopprimere l’esistente, non assoggettarlo, non imporgli d’ « imaginarsi felice »? Queste giuste richieste possono significare solo due cose: @) porre un limite alla ragione; 5) svalutare fino alla negazione la ra- gione stessa. Nel primo caso, non c’è da porre un limite alla ragione, in quanto è essa stessa che riconosce il suo li- mite esistenziale e tale atto di riconoscimento è sempre ra- zionale. Dunque, non si tratta di una presa di posizione contro la ragione, ma di una posizione della ragione di fronte all’ esistente, di un suo atto di sufficienza (positivo e razionale) non autosufficiente. Non reazione dell’ esi- stente alla ragione, ma presa di posizione originale dell’esi- stente, che è ancora presa di posizione della ragione di fronte ad un problema che non le contraddice e reclama risposta. Nel secondo caso, così frequente in quelle forme di esisten- zialismo esasperatamente irrazionalista, pronunziato il giu- dizio il più negativo sulla ragione, che resta da fare all’esi- stente? Non ha più nemmeno la soddisfazione di dispe- rarsi, perchè niente ha più senso. Si pone come problema eterno eternamente insolubile, che ne accumula altri infiniti, tutti del pari eterni ed insolubili; la problematicità assoluta adegua così l’umano sapere. Ma il senso della filosofia ha perduto ogni senso: all’inizio non è più il problema (am- messo e non concesso che all’inizio non sia la verità, oscura quanto si voglia, per cui è vero, come dice Agostino, che ogni uomo cerca quel che sa) e alla fine la soluzione, ma il problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito come problema, per cui il compito della ricerca è quello di «concludere » ad un problema che, nella conclusione, è più problema, più problematico di quanto non lo fosse in principio. Ma questo è dare il problema per soluzione, con- 208 Filosofia e Metafisica fondere le lingue, anche se a volte con una perspicacia c un impegno degni di miglior causa. Così l’ultima parola della filosofia sarebbe la problematicità per la problema- ticità, che, ad esser chiari anche se non perspicaci, significa l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo per eccellenza, non risparmia alcuna critica rimprovero con- danna alla « iniqua logica », alla « pigra e vile » ragione, a quanti si sottomettono alla sua « ontosa schiavitù ». Ma, a questo punto, la ragione e la logica possono tranquilla- mente obiettare: «se come voi dite (Exercitia spiritualia) quel che più importa si ritrova al di là del limite del com- prensibile e dell’esplicabile, vale a dire al di là dei limiti di ciò che può essere comunicato con la parola, perchè ci rimproverate? Quel che voi cercate non ci appartiene; ci rivolgete una domanda che dovreste indirizzare ad altri. Potete farlo, ma solo in quanto la ”’ vile ’’ragione e la ”’ ini- qua” logica vi autorizzano a ciò »; ma l’esistenzialismo irra- zionalista respinge proprio questa autorizzazione. Non gli resta che il fideismo assoluto, una posizione che non è filo- sofica nè religiosa; o l’assoluto scetticismo, non come posi- zione speculativa, ma come puro stato psicologico, tanto angosciante quanto sterile. Oppure, accettata la frattura fra il momento morale e quello teoretico, concludere che la logica non è essenziale alla filosofia, che deve « attraver- sarla »; che la filosofia è « edificante » e non vi sono di va- lide che le filosofie edificanti; ma edificano solo le filosofie edificate sulla e con la ragione, anche se non soltanto su e con essa. Kierkegaard dice che l’angoscia rivela il nulla dell’esi- stente; dunque non lo rivela, tranne che l’esistente non s’iden- tifichi col nulla e allora non c’è problema: l'angoscia che rivela il nulla rivela anche il nulla di questo nulla. Inter- rogata, non potrebbe dare altra risposta; interrogante, non ha senso che interroghi sulla negatività dell’esistente: solo l'esistente come positivo reclama spiegazione. Quando l’an: Concetto di metafisica 209 goscia svela il nulla dell’esistente, che la ragione dissi- mula («l’imaginarsi felice ») non pone un problema o un limite alla ragione, ma... dà ragione alla ragione di disin- teressarsi di lui. Il niente esistenziale se si pone come niente dell’esistente è la soppressione più rigorosa del singolo che mai ha neppur tentato alcuna filosofia speculativa. Non al- lora il nulla dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente, la félure, direbbe Le Senne; ma il nulla mell’esistente im- plica la sua positività, allo stesso modo che il male, come negatività o privazione, è concepibile rispetto a qualcosa che è. Positivo è l’essere, guesto essere, il cui « nulla » la privazione di un grado più pieno di realtà; dunque l’esi- stente è, è un essere, il cui non-essere o nulla è la man- canza di quel che non ha. Evidentemente la sua insuffi- cienza gli pone il problema (di qui l’« irrequietezza » e l’« in- quietudine ») della sua sufficienza, la sua incompiutezza l’esi- genza naturale essenziale ed universale della sua compiu- tezza. Questa negatività ha un senso in quanto è l’aspira- zione di una positività al suo compimento, ad un più di essere del suo stesso essere — non ad essere un altro essere — ricerca della consistenza dell’esistente. Non si vede perchè quest’ultimo, che tale esigenza ha avvertito più o meno chiaramente da quando la filosofia è filosofia, debba scio- gliersi in lacrime, affliggersi in interminabili ed angoscianti lai, piuttosto che riflettere seriamente su se stesso secondo le buone regole del pensiero e della ricerca speculativa: oggi certo esistenzialismo è diventato una specie di nevrastenia filosofica. O forse si vede, ma per motivi che contraddicono all’esistenzialismo stesso: perchè posto l’esistente come nega- tivo o votato al destino del nulla, implicitamente l’esisten- zialismo accetta la posizione hegeliana del non riconosci- mento del finito come essere vero; e perchè la filosofia, in un’epoca come la nostra di spiriti decadenti, ha amato com- promettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se stesso compromesso e forse ormai di maniera. 210 Filosofia e Metafisica Ciò non nega, anzi conferma, il merito dell’esistenziali- smo di avere richiamato l’attenzione sul problema dell’esi- stente, interno ed essenziale alla ricerca filosofica. L’ideali- smo, se, da un lato dissolve il singolo nell’onnivoro Scggetto trascendentale o nella Storia, dall’altro, pone il soggetto stesso come principio di spiegazione e non come problema, ma con ciò sopprime ab initio il problema dell'esistente. Alla radice, l’idealismo è una evasione dal limite esisten- ziale; perciò è anche un’evasione dall’interiorità: il sog- getto è sempre cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascen- dentalità idealistica è essenzialmente mediazione); perciò l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il problema del- l’esistente, posto il soggetto come principio di spiegazione e non come esso stesso problema, « mostro » direbbe Pascal, tutto è risolto e pacificamente spiegato. Il limite della ragione è soppresso alla radice: tutto è incluso nella trasparenza della Idea e nel cerchio magico della dialettica infallibile. Non c’è motivo che il soggetto si trascenda: risolto il problema che l’uomo è a se stesso, che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora la natura, ma l’uomo interessa infinitamente più all’uomo). Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la Scienza, Dio è la Storia, ecc. Ponete, invece, il soggetto, il singolo, l’esi- stente, l’uomo, l’insufficiente, inquieto e irrequieto uomo come problema e la trascendenza scoppia fuori come la far- falla dalla crisalide. L’esistenzialismo, contro una tradizione filosofica imponente e agguerrita, l’ha posto; e la trascen- denza è stata richiamata dall’esilio. Ma esso non ha dimen- ticato di essere, malgrado tutto, figlio dell’idealismo trascen- dentale e di Nietzsche ed ha finito almeno una parte di esso, quella meno direttamente figlia di Agostino, Pascal, Kierkegaard, Dostojewski, con il laicizzare la trascendenza, col porla come un limite immanente posto dal soggetto stesso, non accorgendosi che così dà per risolto il problema del soggetto, dell’esistente, e ricade nella stessa posizione dei- Concetto di metafisica 211 l’hegelismo (?). Recentemente il Camus (Remarque sur la révolte) ha distinto la sua trascendenza «orizzontale » da quella « verticale » o di Dio, che egli esclude; vedremo tra non molto come un esistenzialismo che si rifiuti di aprirsi alla trascendenza teologica non abbia significato. Nella ri- volta contro la Ragione, ammesso per un momento e non concesso che sia necessaria questa ribellione, c'è indubbia- (2) Bisogna tener presente che Îla protesta kierkegaardiana in nome del- l'esistente o del singolo contro la Ragione universale dello Hegel, non restò, fin d'allora, isolata. Contro l’Idea hegeliana, la concreta realtà della natura (gli uomini e le cose, gli esistenti particolari) è rivendicata dal Feuerbach e dal Marx. Le istanze kierkegaardiane, mosse da esigenze etico-religiose, sono la pro- testa della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del Feuerbach e del Marx, mosse da bisogni di ordine naturalistico-economico, in nome di un umanesimo depotenziato a felicità terrena, sono la protesta del contingente per un immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le due forme principali di esistenzialismo — teologico e laico — che oggi si riscontrano nella filosofia contemporanea si ritrovano alle origini della polemica antihegeliana, o più esattamente di hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello hegelismo in opposizione ad altri. Hanno in comune l’istanza della rivalutazione dell’esi- stente o del particolare; si dividono sulla questione del fine da assegnargli, cioè sul problema della consistenza. Ciò importa fin dalle origini un rapporto equivoco tra marxismo ed esistenzialismo, oggi diventato abbastanza palese. La questione è complessa e non è qui il luogo di trattarla adeguatamente; ma è opportuno, anche nei limiti del nostro tema, qualche chiarimento. Porre il problema dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il soggetto posto di fronte a se stesso come un problema da spiegare, rimanda ad altro, pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo ha assunto due posizioni fondamentali: 4) l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro (trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio della religione, ma il limite dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua fini- tudine (trascendenza esistenziale). Per il marxismo l’altro dall’esistente è l’altro uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo, per Feuerbach, è fine a se stesso e il suo fine è la propria felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in quanto ha un #, un d/tro con cui entra in rapporto acquistando coscienza della pro- pria umanità: l’io è tanto più se stesso quanto più partecipa, nel rapporto con l'altro, dell'umanità che è presente in lui. Anche per il Marx l'altro dall’io è l’altro uomo: l’uomo è l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta marxista francese contemporaneo. La solidarietà dei lavoratori è l'umanità di Marx: ogni lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila alla « clas- se », alla « massa » dei « compagni ». Il « rovesciamento della prassi », con la con- seguente eliminazione del capitale privato e l'avvento dello Stato socialista, renderà reale quella condizione di « felicità collettiva » nella quale l’uomo è tutto per l’uo- mo. La struttura economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta, per Marx, come è noto, non di intendere il processo storico, ma di cambiarlo con la «rivoluzione »: la filosofia non deve più limitarsi ad «interpretare il mondo »; « ora si tratta di cambiarlo ») la nuova società non più afflitta dalle 212 Filosofia e Metafisica mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto nella cui aspirazione l’esistente «consiste », in cui si riassume, si ricapitola in una presenza totale. Di fronte a questa consa- pevolezza :/ resto è un niente, che l’esistente può, si sente di sacrificare; ma c’è il sacrificio del resto, solo in quanto bb ® . . c'è il Tutto che chiama. Bisogna vedere le cose alla luce della morte, come dice Platone; ma la morte non è la notte sovrastrutture della morale e della religione borghesi. — Nella prima posizione esistenzialista c'è una trascendenza autentica; nella seconda una pseudo-trascen- denza; nella posizione marxista l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima sono, da questo aspetto, incommensurabili; la seconda c la terza differiscono in quanto l’una si rifiuta di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude di poter salvare ancora i valori morali e una certa vaga religiosità. Nel loro rap- porto vi è un duplice equivoco: 4) da parte del marxismo quello di credere di poter risolvere il problema dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone l’esi- stente-uomo in quanto tale) solo con la « giustizia sociale » identificata con la struttura economica, senza tener conto dell’infinita ricchezza delle esigenze dello spirito, per soddisfare una sola delle quali ogni uomo, se veramente posto di fronte a se stesso, sarebbe disposto ad accettare la più pesante schiavitù econo- mica; è) da parte dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di avere rotto il cerchio della dialettica hegeliana conservando la pregiudiziale immanentista e di salvare quei valori che il marxismo rigetta accettando la stessa pregiudiziale. Indubbiamente il marxismo è più coerente: se c’è immanenza, sia radicale; « liberiamo » l’uomo da ogni norma che lo trascende e soprattutto da Dio. E’ evidente che l’esistenzialismo della trascendenza non teologica lo è a metà: porta in prima linea il problema dell'esistente e poi si rifiuta di seguire il filo della ricerca fino al punto a cui mette capo, cioè alla trascendenza teologica. Permane però il pericolo di approdare. Di ciò si sono già accorti i marxisti integrali e denunziano (vedi la costante polemica nella rivista comunista fran- cese La Pensèc) l'equivoco di un esistenzialismo marxista: l’esistenzialismo, anche se si proclama ateo, è sempre un forma di misticismo: gli appelli della ‘persona umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad un qualunque Dio che li possa ricevere; dunque esso non può essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le alimenta, le « superstizioni » religiose, le evasioni illudenti dal terreno mondo degli uomini. Il marxismo, invece, è il vero « umanesimo », anzi è il solo che sia tale, perchè il solo che punta sull’esistente, lo completa nella legge umana del lavoro e l’appaga nella felicità terrena. Ma è proprio qui che si rivela l’equivoco di un marxismo come filosofia dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette sovrastrutture e ridotto alla sola struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (im- miserimento) della persona umana, l’esistente così concepito costituisce un pro- blema? Perchè l’uomo diventi problema — insieme di problemi — fino al punto da mettere la ragione in stato d’accusa e di gridare in faccia alla logica che egli ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre delle istanze che lo oltrepassano — che oltrepassano l’uomo in generale — che, dunque, si pongono al di là e al di sopra della società, della storia, dell'economia, della terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti nell’ambito del’ soggetto stesso o della classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente Concetto di metafisica 213 oscura senza fondo solo in quanto la illumina la speranza dell’ immortalità e la gloria in Dio. Il sacrificio « del re- sto » per l’ Eterno è il disincanto dal contingente molte- plice, la garanzia assoluta dalle illusioni deludenti. Nella negazione «del resto» è implicata l’affermazione di un Valore assoluto, la trascendenza al soggetto, quella « verti- cale », la sola per cui trascendo la piccola grande storia della x così com’è posto dall’esistenzialismo contemporaneo e come è stato sempre posto nei suoi remoti o prossimi antecedenti storici. L’economismo e l’immanentismo marxista sopprimono alla radice il problema della persona e la persona come problema; tutto vi è risolto come nella dialettica dello Hegel. Sopprimono la persona senz'altro. E qui è necessaria un’altra considerazione. L’esistenzialismo si proclama filosofia dell'esistente, ma lo coglie nella sua nega- tività, in quel che ha di non-essere, quando non lo identifica addirittura col nulla; esso strappa l’esistente alle fauci della dialettica della Ragione universale per porlo di fronte al suo nulla, mutolo nell’angoscia di un peso enorme di problemi. In questo senso, l’esistenzialiimo è la filosofia del non-esistente, in quanto l'esistente è positività, sostanza; è la filosofia del fallimento dell’uomo. Il mondo moderno, così impregnato di umanesimo laico e cristiano, non si ras- segnerà mai a questa svalutazione della persona, alla sconfitta dell’uomo e in partenza vi si oppone. Da questo punto di vista l’esistenzialismo è « anti-moder- no », anche se dopo tante esaltazioni della mondanità e della vita esso sia stato buon correttivo, quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni del dente avvelenato dell’ironia; il ripiegamento sul momento della riflessione sia pure smorzata da un permanente stato « poetico ». Il marxismo, da parte sua, filo- sofia dell'uomo per l’uomo, dell’uomo che si colma sulla terra, spinto dalla logica inesorabile del materialismo dialettico, conclude all’annullamento della persona nella opacità compatta e spessa della « massa » e nell’onnipresenza dello Stato. Conserva la più rigorosa « mondanità », ma proprio perchè rigorosa, di- mezzata dell’altra metà, da quella che sporge fuori e al di sopra di questo mondo. Due filosofie dell’esistente che concludono alla sua nientificazione, che colgono l’esistente nella sua negatività, nell’involucro esterno e vuoto perchè mancante del pieno della « consistenza ». « Contemporaneo », invece, il Cristia- nesimo, non contraddice alle esigenze fondamentali dello spirito: positività questa vita, positivo l’esistente tanto che si salva nell'altra vita. E' la sola « mondanità » significante. Vi è nell’esistenzialismo un aristotelismo alla rovescia: quel che conta è l’esistente, l’individuo, ma l'esistente non è reale, è il negativo. E’ un agostinismo antiagostiniano: l’uomo è finito, misero, infelice, ma senza spe- ranza: non si redime, accetta il suo destino. Aristotelismo antiaristotelico e pla- tonismo antiplatonico il marxismo: reale è l'individuo, ma è reale nella com- pattezza della massa, quale dente della macchina statale o del Partito. La cordi- zione presente dell’uomo è proiettata in quel che sarà, la sua felicità è in un futuro immancabile, ma questo futuro e questa felicità non sono in un dltro mondo. Conobbe ed insegnò la verità S. Francesco nella lode di tutte le crea- ture, beni positivi in quanto creature dell'Amore divino e assetate d’amore per il Creatore. L'alternativa immanentistica, o Dio o io, o c'è Dio e io sono nulla o non c’è Dio ed io sono tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è; io sono innovatore perchè in Lui m’innovo. 214 Filosofia e Metafisica mia anima, tutta la storia. Dopo tanta orgia di immanenza, dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti e perciò steri- lizzanti della vita spirituale, dopo tanti universali mondani — dell’economia e dell’arte, della storia e della politica — la «trascendenza » e la «solitudine » esistenzialista sono state, se non altro, un energico richiamo e un salutare ri- sveglio. Ma niente più di questo, in quanto l’uomo non è soltanto singolarità, ma anche universalità di essenza, di ra- gione, di verità. Prima di essere singolo è uomo e non è singolo se non è uomo. La sua verità è anche verità degli altri, deve esserlo: è la sua responsabilità suprema; e la verità è ricchezza e la ricchezza del signore è generosa ed umile: accetta i doni e li ricambia. Nella verità, che è mia perchè di altri, gli uomini realizzano l’unica consistente ed indissolubile solidarietà. L'affermazione di un valore non è mai individuale: chi si sacrifica per esso, si sacrifica per l'umanità intera. Nell’essenza della singolarità e di essa costitutive vi sono una universalità ed una solidarietà me- tafisiche. 4. — Esistenza e consistenza. Al punto in cui abbiamo condotto il nostro discorso, una prima conclusione appare evidente: non si tratta di negare la filosofia — o è anche razionalità o non è — ma di vedere come essa possa e debba giustificare l’ esistente, se e come possa avviare il problema alla sua adeguata solu- zione. Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que ste pagine: il punto di partenza della filosofia non può es- sere che la ricerca razionale ed è esigenza naturale della ragione e dunque dell’uomo cogliere la razionalità del reale; e la razionalità filosofica, il conoscere, è il concetto, l’uni- versale. Basta all’uomo la razionalità? Meglio: esaurisce essa la problematica filosofica? No, tranne che per un raziona- lismo assorbente, astrattizzante, cieco di un occhio. Pascal. Concetto di metafisica 215 lo obiettò a Cartesio (se a torto o a ragione qui non im- porta stabilire): «il cuore ha delle ragioni, che la ragione non conosce »; « l’ultimo atto della ragione è di riconoscere che molte cose la oltrepassano ». Non ho accostati a caso i due frammenti, ma in quanto l’uno non può stare senza l’altro: la ragione non conosce le ragioni del cuore, ma conosce (« riconosce ») che ci sono e la oltrepassano. Il pro- blema delle ragioni del cuore è posto dunque dalla stessa ragione, è razionale come problema, anche se la soluzione è super-razionale, e, come tale, non irrazionale, non contrad- dicente la ragione. Le pascaliane ragioni del cuore -— prima che pascaliane, agostiniane, e dopo rosminiane e oggi blon- deliane — sono le ragioni dell’esistente, del singolo, del sog- getto hic et nunc. Esse sorgono, dunque, indomabili senza che il conoscere razionale possa pienamente rispondere, ma senza poter fare a meno di esso e sulla base di questo stesso conoscere; irrompono assetate di risposta, quando ogni inse- gnamento è finito, ma sempre dalle pagine del libro aperto della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato integrale e nel suo destino assoluto si pone al limite della filosofia e come suo limite, ma non contro la filosofia; si pone e con sè pone la filosofia come « apertura » alla reli- gione. Vi è allora una «filosofia esistenziale »? Sì, come problema dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso; no, come soluzione integrale, totalitaria e unitaria: filosofia esistenziale, ma il cui fondamento, iniziale e finale, è teolo- gico, perchè teologica è la soluzione assoluta del problema dell’esistente. Nato dalla ricerca filosofica, sulla guida di essa e del sapere speculativo, illuminato dall’intelligenza e dalla ragione, per cui l’uomo è uomo, esso non può sommergermi nella disperazione e nell’angoscia infeconde ed incompren- sibili, bensì m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel senso autentico della mia esistenza; al di sopra di me stesso, scopre la mia consistenza. Nato dalle viscere più profonde della ragione e dell’intelligenza non mi getta a morire nel 216 Filosofia e Metafisica nulla, ma mi raccoglie integralmente nella realtà della mia vita. Pascal all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di approfondire queste anticipate, ma non inaspettate conclu- sioni. Io ho quel che sono: l'avere adegua la mia esistenza e l’essere la mia consistenza. Non posso avere senza essere, non posso essere soggetto senza avere; e 4 chi ha sarà dato. Signi- fica che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il mio essere è fatto da e per l’Essere, che la mia positività limi- tata, che in questo limite o mancanza è negatività, tende alla Positività assoluta. È in ciascuno di noi una realtà essen- ziale; di essa abbiamo coscienza, che è la nostra autoco- scienza. Consapevolezza di consistere, oltre che di esistere, coscienza che siamo una realtà distinta dai nostri atti, che la persona non è soltanto le sue azioni o le sue cognizioni. L’agostiniano e tomistico intelligimus nos intelligere non prova soltanto che il realismo dei due pensatori è tutt'altro che ingenuo, ma che «intelligiamo » il nostro stesso inzel- ligere; lo penetriamo così profondamente al punto da com- prendere che il nostro comprendere (conoscere) non com- prende (« non conclude ») tutta l’essenzialità del roi e sfocia nell’interiore sapere; che il Sapere assoluto ci origina, ci guida, ci conclude e sempre ci oltrepassa. L’autocoscienza è censapevolezza del limite, ma come consapevolezza è già al di là di esso. Il problema di Dio è di diritto quello dell’ul- timo fine: la scienza è tendenzialmente sapienza: intenzio- nalmente il problema dell’universo è considerato sempre in vista del problema della vita. Smarrire il senso del fine è votarsi al non-senso della fine, è rinunziare alla « consisten- za » per consegnare l’« esistenza » alla morte. Sed ego co- nabar ad te et repellebar ab te, ut saperem mortem. Tendere a Dio è sapere la vita, per Agostino; essere allontanati da Lui o allontanarsene è sapere la morte. Ut saperem mortem, affinchè conoscessi la morte, perdessi la mia consistenza, fa- cessi esperienza del nulla del mio esistere una volta privato del Concetto di metafisica 217 mio consistere, che è durare perenne, durare, senza riposo o stanchezza, nel tendere all’Essere per cui esisto e sono; è la libertà della mia vocazione essenziale; il mio volere to- tale, il senso assoluto del mio. contingente esistere. L’esi- stente esiste el tempo, ma non è del tempo: re-siste al giorno che passa e alla notte che copre le cose del giorno (oppone il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè il suo stare è garantito e sorretto da un fine; per cui la tem- porancità si conserva nella temporalità e il tempo volge alla eternità intemporale. L’esistente è persistente ed è persona — questa e non un’altra — perchè persiste; e persiste in quanto consiste. Il mutamento di «questo ente » in « non questo ente » è il manifestarsi di un ente, la temporaneità di una sostanza che dura nella temporalità, la contradditorietà che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere permanente. Il durare dell’esistente implica, dunque, suc- cessione, sviluppo. L’esistente non è perfetto ma perfetti- bile, dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua attuazione. La sua incompiutezza pone il problema del suo compimento e nello stesso tempo attesta l’Incondizionato (omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula che è comune ad Agostino e a Tommaso). L’esistente è in ogni momento la sua consistenza, ma in ogni momento, n07 è mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infi- nita, perchè è un’aspirazione totale. Interiorità di sè a sè, come tale, .è interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, pe- renne sforzo d’interiorizzazione, di conquista di sè nel- l’Altro. La soggettività profonda non è un dato, ma il rea- lizzarsi di se stessa, la conquista di sè nell’abbandono a Dio. La povertà del soggetto, infinitamente arricchentesi ed infi- nitamente povera, è la sua ricchezza autentica. 5. — L'essere e il problema teologico. L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là dell’essere, è tuttavia nella linea dell’essere ed omogeneo con esso. L'’esi- 218 Filosofia e Metafisica stere, infatti, è l’«atto proprio » di «ciò che è»; è la ra- dice dell’essere. « Le nom méme d’essenzia que dérive de l’esse, traduit le fait que l’essence constitue le point d’effleu- rement, sur le plan de l’étre objectif et concevable, de l’acte premier en vertu duquel ce qui est, est, ou existe ». Così ancora il Gilson da noi seguito su questo punto, che ha posto bene in luce i limiti esistenziali della filosofia, fa- cendo, tra l’altro, notare come le nozioni di causa finale ed anche di causa efficiente si rendono indispensabili allorchè si pongono i problemi di esistenza. Infatti, in un certo senso, il punto di vista della finalità resta esteriore all’ordine della chiarificazione razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte, il solo che spieghi il senso di un essere e di ogni essere. Si- milmente nella causalità efficiente, la natura della causa spiega l’essenza del suo effetto, ma non la sua esistenza. Il pensiero analitico non può non spiegare da questo esi- stente l’apparizione di un altro esistente: se l’effetto fosse identico alla causa, non se ne distinguerebbe e non sarebbe. Dalla causa all’effetto vi è sempre una specie di creazione ex nihilo, « dove qualcosa sembra sorgere spontaneamente dal nulla ». Problemi interni al pensiero filosofico; problemi ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le que- stioni della provenienza (donde viene) e della destinazione (dove va) dell’uomo. È necessario che, a questo punto, la filosofia entri in conflitto con l’esistente che le pone dei problemi non rien- tranti nell’ordine della pura conoscenza scientifica o ra- zionale? Il conflitto c’è stato tante volte: la filosofia ha negato l’esistente e i suoi diritti; o l’esistente ha giudicato in blocco la filosofia come «non degna di un’ora di fa- tica ». Conflitto che, in verità, non ha ragione di essere e porta in sè gli elementi per essere composto. Infatti, nè l’esistente può fare a meno della filosofia, nè la ragione speculativa può sopprimere l’esistente, in quanto il soggetto indomabile sbuca sempre fuori anche dal più fitto tessuto Concetto di metafisica 219 di sillogismi e dalla più rigorosa ed indifferente analisi di essenze concettuali. La filosofia non può comportarsi come se l’esistente non esistesse per i problemi interni che esso le pone e per gli ostacoli che incontra nell’esplicazione della nozione pura dell’essere. D'altra parte, l’esistente, se non può vivere con la sola filosofia, non può del pari vivere senza di essa. Le istanze che egli pone alla ragione e gli appelli che le indirizza sono, in fondo, le istanze che la ragione pone a se stessa. Dunque, vani ed ingiustificati i rimpro- veri rivolti ad una ragione, la quale riconosce i suoi limiti esi- stenziali. È la ragione stessa che guida l’ esistente, che al punto limite lo convince a mettersi assieme in cammino per un’al- tra via, non contraddicente la ragione, ma che la oltrepassa e segue metodi che non sono più quelli della pura ricerca razionale. Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra la ragione e l’esistente, la buona ragione e l'esistente che non rinuncia al lume che lo costituisce, si uniscono nell’apertura alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva, una problematica religiosa; una fenomenologia esistenzialista è, costitutivamente, di carattere religioso. Pertanto, a nostro avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta religiosa che il Cristianesimo dà del problema dell’esistenza, è senza senso, estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente a se stesso. Si tenga presente che ogni qual volta la filosofia speculativa ha cercato o preteso di dare da sola una risposta al- l'esistente e ai suoi problemi, ha concluso, inesorabile, per la loro soppressione. I tipi di saggezza platonico, anche se fino ad un certo punto, epicureo, stoico, neoplatonico, spino- ziano ecc., concludono tutti che è saggezza la liberazione dall'esistenza: è saggio chi « ascende », dalla zona dell’esi- stere, all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Ri- sponde invece diversamente una filosofia della persona la quale non può essere che cristiana: non sopprimendo questi problemi, ma autenticandoli. Essere non è solo l’essenza, anche se il termine è spesso 220 Filosofia e Metafisica usato per indicare l’essenza; essere è essenza ed esistenza. Identificare l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’es- senza, o con la sola essenza esclusiva dell’esistenza, è negarlo. Una filosofia puramente essenzialista deve concludere che l'essenza non esiste e dunque negare il reale (è la conclu- sione di un platonismo spinto agli estremi, alla quale non sfugge, malgrado tutto, Aristotele); allo stesso modo una filosofia puramente esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una possibilità vuota, deve concludere con la negazione dell’esi- stenza stessa. L’originalità del reale o dell'essere è precisa- mente nella unione di essenza ed esistenza: non il puro con- cetto nè il puro esistere sono l’equivalente del reale. L’esisten- zialismo ha fatto ben comprendere l’insufficienza del puro es- senzialismo, ma, l'insufficienza dello stesso esistenzialismo ci ha fatto ancor più avvertiti che non si può prescindere dal- l’essenza: essenza ed esistenza costituiscono la struttura del reale. L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che pertanto va ricavata dall’esse; di qui il primato dell’esistenza non sull’essere, ma sull'essenza zmell’essere. Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica, scienza del concetto o dell’essenza, come tale, riconosce che, al di là dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualiz- zabile. Per conseguenza, per cogliere il reale, non si può partire dalla pura ragione; è necessario muovere dall’uomo, che è già cogliere il reale immediatamente, cogliere me reale nell’atto di acquistarne coscienza. L’autocoscienza in questo senso è giudizio esistenziale immediato, l’atto sin- tetico che coglie unitariamente la dualità interna della struttura del reale. Ma ecco dal dato reale, che è il mio essere, nascere un altro problema: quello dell’esistere del mio essere. Qui il problema dell’atto di esistere (actus essendi) si pone come richiesta di sapere se io sono il principio di esso, cioè come problema del suo fondamento assoluto. Se fossi il principio del mio esistere, sarei il creatore del mio essere e l’atto di esistere del mio essere s’identificherebbe Concetto di metafisica 221 con l’Atto assoluto dell’esistere che fa essere ogni ente che è: la mia essenza sarebbe identica alla mia esistenza. Ma io non sono il creatore di me stesso; dunque l’atto autoco- sciente con cui colgo immediatamente il mio essere nella sua struttura di esistenza ed essenza, pone il problema del principio del mio essere stesso: è il problema assoluto della metafisica, il problema teologico o dell’esistenza di Dio, il supremo Esistente. Il principio della Creazione è indispen- sabile all’ontologia, che dall’interno è orientata verso la teologia. Su questo punto la metafisica non essenzialista di S. Tommaso sopravanza infinitamente quella essenzialista di Aristotele. Bisogna pertanto distinguere il problema degli esseri già costituiti (come sono) dal problema della loro origine primale o della loro costituzione stessa, che è il problema dell’esistenza di Dio o del principio assoluto del reale, della sua suprema intelligibilità metafisica. Dio l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che l’esistenza sia nel- l'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò questo pro- blema; la metafisica cristiana, in questo senso, è una « rivolu- zione » rispetto a quella aristotelica. Questo punto è fonda- mentale: per una metafisica dell’essenza, il problema del- l’esistenza del reale non si pone; non ha senso porlo; e perciò non ha senso porre neppure il problema dell’esi- stenza di Dio. L’ontologismo, a rigor di termini, non lo pone: vedere le idee in Dio rende superfluo il mondo reale. Questa posizione si può spingere a conclusioni che, in fondo, le si oppongono ma da essa derivano: l’esistenza non è per- fezione e non aggiunge niente all’essenza; dunque, non solo dall’essenza di Dio non si può ricavare l’esistenza, ma Dio basta soltanto pensarlo. È la posizione kantiana del- l’agnosticismo metafisico e della pura noumenicità della Cosa in sè (l’ontologismo critico del Carabellese è la for- mulazione rigorosa di essa). L’esistenzialismo immanentista, figlio dell’idealismo trascendentale, ha eliminato il problema metafisico dell’Atto supremo di esistere ed ha considerato 222 Filosofia e Metafisica l’esistenza come pura possibilità o libertà; così l’ha pri- vata anche dell’essenza. La conclusione è inevitabile; l’esi- stenza resta sospesa a se stessa, senza fondamento, vuota nel vuoto, insignificante nulla. Tali affermazioni assurde confermano che il problema del reale va posto come pro- blema del reale autentico che è essenza ed esistenza, il qua- le pone, per la spiegazione metafisica, il principio del suo esistere, cioè il problema teologico. E la soluzione teologica del problema dell'esistente la filo- sofia se la trova interna e ad essa essenziale. Metafisica per definizione — per sua natura — la filosofia non può essere che scienza dell’essere o della verità, nel senso più esten- sivo ed universale del termine. Ma, come abbiamo già ac- cennato col Gilson, ogni essenza è l’essenza di un atto, del- l’atto dell’esistere; d’altra parte, è evidente che, senza l’essen- za, l’esistenza mancherebbe della sua razionalità; dunque, in una ontologia esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile, il possibile che è per l’atto dell’esistere. (Un esame della dot- trina del Rosmini della insessione delle forme dell’essere sa- rebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad eccezione di Gabriel Marcel, non sembra vogliano saperne di ontologia, quan- tunque facciano molto uso del termine; si fermano al di qua dell’essere, alla descrizione dell’esistenza e si rifiutano di obbiettivare l’essere, come se ciò compromettesse la sua esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai l’esistenzia- lismo debba rifiutare un’ontologia esistenziale, la quale ri- conosce il primato dell’esistere e, per un'esigenza interna della filosofia e perchè l’esistere stesso possa avere un signi- ficato comprensibile sia pure come problema, accetta l’es- senza come costitutiva dell’esistenza. Un esistenzialismo che rigetta questa conclusione conserva ancora una nozione negativa dell’esistente e distrugge in partenza il proble- ma che lo giustifica come posizione di pensiero. L'atto di. esistere non può essere considerato fuori dell’ordine dell’es- Concetto di metafisica 223 senza che lo determina; d'altra parte di un’ontologia esisten- ziale, di un universo di atti di esistere, la sola filosofia è in- sufficiente a risolvere tutti i problemi esistenziali che essa ne. Una filosofia che reclama questa pretesa è la pseudo-filo- sofia della ragione non autentica, e tale in quanto si arroga compiti che la sorpassano; è la filosofia del razionalismo assoluto, della religione della ragione, cioè una pseudo-reli- gione. L’esistente nella sua originarietà resta il problema in- terno della filosofia, quello che la apre alla trascendenza; un universo di atti di esistere è già, come tale, dipendente dal supremo Esistente. L’esistere, come abbiamo visto, importa sempre un qualcosa di nuovo, una creazione ex mnihilo, il cui esserci è l’«evidenza sensibile » del Creatore. Filosofia e religione, come scrive il Masnovo (La filosofia verso la religione), non hanno lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo stesso termine reale di conoscenza — l’Essere unico, sorgente di tutte le cose — il cui svolgimento è diverso nella ragione e nell’atto di fede, senza che l’una contraddica all’altro. 6. — Conclusione. Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se stesso, la persona alla persona. I concetti dell’uomo figlio di Dio, creatura; della dignità non-abdicabile ed insopprimibile del singolo; del conflitto morale tra il bene e il male, al cui esito è legata la perdizione o la salvezza; della libertà e del peccato, diedero un senso dell’esistenza che — se il pensiero greco aveva in parte preparato — giungeva del tutto nuovo. La vita come dramma interiore, attrice di una lotta morale impe- gnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo; nessuna concezione incentra la riflessione filosofica sull’e- sistente e i problemi esistenziali quanto quella cristiana. Tutta la filosofia agostiniana punta diritta sull’esistente e i suoi problemi: pochi pensatori hanno problematizzato co- me Agostino l’esistente e vissuto con tanta intensità il dram- 224 Filosofia e Metafisica ma interiore dell’uomo. Se in S. Tommaso il senso della in- teriorità è men vivo, il dramma della persona è vissuto al- trettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa. Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due grandi, ha scoperto nella forma morale dell’essere il punto di unione dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale determinato; la morale rosminiana è una soluzione da tener presente dei problemi dell’ontologia esistenziale, la cui con- clusione è ancora quella di Agostino e Tommaso. Oggi la concezione dell’uomo come dramma, del soggetto come pro- blema da spiegare e non come principio di spiegazione, è tornata alla ribalta della discussione filosofica; al dramma si è cercato di togliere ogni carattere teologico e si è ten- tato risolverlo nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone il suo problema e lo risolve da sè; ogni altra soluzione è fittizia ed illusoria. È la conclusione di ogni forma d’imma- nentismo, il dogma della filosofia marxista. L’uomo il suo problema lo risolve da sè: non c’è posto per il superfluo, l'inutile della trascendenza. L’uomo deve sacrificarsi all’uo- mo (individuo, famiglia, società, Stato): è contrario alla sua natura sacrificarsi a qualcosa che non sia umano, che lo trascenda. L’immanentismo, di qualsiasi specie o sottospecie, si rivolta a Dio, gli dice di no. Dunque dice di no a Qual- cuno: altrimenti a chi direbbe di no e a chi si ribellerebbe? Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di ribellione di una parte cospicua del pensiero moderno, la sua alta protesta con- tro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribel- larono a Giove, nell’atto stesso, riconobbero la esistenza di Giove, tanto da tentarne l’offesa e da sperimentare la po- tenza della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da meno, ma siccome si è rivoltato al Dio di Cristo, ha sperimentato l’infinità del suo Amore. La rivolta contro la metafisica, portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle deviazioni acritiche, non può non risolversi che in una con- sapevolezza invincibile dell’esistenza di Dio, la quale è in- Concetto di metafisica 225 sita al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al vertice del conoscere razionale, pone ancora il suo proble- ma, quello della sua destinazione. Con esso è tutto il co- noscere razionale che chiede la sua autenticazione in un sapere che trascende la ragione senza contrastarle. L’esi- stente scopre la sua consistenza: l’esistenza degli esseri ri- manda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una «contingenza ini- ziale », come dice il Blondel, che li accompagna nel loro processo evolutivo e costitutivo. Cercare la loro consistenza in quel che hanno di fatto in un dato momento è cercarla — per mai trovarla — nel loro aspetto esterno e non nel loro ordine interno, nella zorma interna che li trascende, la quale « costi- tuisce la vivente e secreta armatura degli esseri in cerca della loro vera e completa realizzazione » (L'’Etre et les étres). L'es- sere-persona è capace di autosufficienza, di realizzazione com- pleta e totale? Può erigersi ad Assoluto come singolo o come collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e ca- pace di conoscere, al limite del suo conoscere, pone se stesso come problema; ed è questo l’atto ultimo della ragione, conte- nente tutti i dati per la soluzione del problema dell’esi- stenza dell’Esistente assoluto. All’estremo di tutte le sue possibilità, al massimo della soddisfazione dei suoi bisogni, è ancora bisogno, grida, come dice Hello, «io ho bisogno ». Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha tutto. Sco- pre al limite di ogni possibile ricerca, con la convalida e la garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine che lo trascende, di tendere ad un perfezionamento che lo oltrepassa. Il ne varietur della religione costituisce la pedana di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, per- chè la fede religiosa non è cieca, nè è un’avventura da anima romantica. Senza essere «una passione inutile », come lo definisce banalmente Sartre, l’uomo è amore per l’Esisten- te, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto di essere per sè è perpetuo progetto di fondarsi da sè ed è perpetuo fal- 226 Filosofia e Metafisica limento di esso, perchè è progetto contro la consistenza dell’uomo, congiura che egli ordisce ai danni di se stesso, della sua vocazione naturale, essenziale ed universale. La tendenza all’Altro è invincibile ed è tendenza a Dio. L’esi- stere nel mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il fine di ogni soggetto. La consistenza della persona è nel rap- porto con l’Essere assoluto. Aspirazione a Dio con tutti noi stessi è consapevolezza, con tutti noi stessi, di essere inca- paci da soli di attingerLo; la nostra « generosità » autentica, « coraggiosa ed insaziabile », come la chiama il Blondel, che l’iniziativa di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà premiare. Ma dipende da noi farci simili al cristallo, secondo la magnifica espressione di Caterina Mansfield, affinchè la luce di Cristo brilli attraverso di noi. « Dio si conosce me- glio ignorandolo », secondo la formula della teologia mi- stica fatta propria da S. Tommaso, ma inconosciuto nella sua essenza, è da noi conosciuto come e in quanto incognito. La consistenza degli esseri ci è dunque risultata risie- dere, seguendo il dinamismo interno del pensiero e senza rinunziare o condannare il conoscere razionale, nel loro rap- porto con Dio, al limite dei limiti, in un fine senza fine. L'ultima parola della ragione è la prima della religione: l'estremo appello dell’esistente-consistente non va rivolto alla ragione, ma, sul fondamento della ragione, a Dio. Dunque, a rigor di termini, non vi è una «filosofia esistenzialista », nel senso di una filosofia della pura esistenza, ma una filo- sofia, come tale razionale, che pone il problema dell’esi- stente a faccia a faccia con la soluzione teistica, che apre alla fede religiosa; una filosofia, che, perchè tale, è meta- fisica. L’esistente, nell’atto stesso d’interrogare la ragione e problematizzarla, riceve da essa l’indicazione della via da seguire. Non c’è materia per drammatizzare o vilipenderla; c'è il più saldo fondamento per sperare con il suo assenso. L'esistenzialismo è ingiusto verso la ragione per due mo- tivi: 4) perchè essa indica la strada per la soluzione del pro- Concetto di metafisica 227 blema dell’esistente; 4) perchè una volta che esso pone la ragione stessa come problema, dato che la filosofia è per sua natura imprescindibile razionalità, invano si arrovella a mettere insieme una «filosofia » esistenziale. (Ecco per- chè gli esistenzialisti son capaci di profonde e sottili analisi psicologiche — « moralisti» —, ma non di indagini filo- sofiche vere e proprie). L’esistenzialismo è la «crisi» della filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle altrove, all’Altro, che è il Qui, che la ragione stessa riconosce al suo limite; l'istanza esistenziale ritorna sempre come istanza religiosa. L’interrogazione dell’esistente è quella che la ragione fa a se stessa di fronte al problema esistenziale, il suo « con- vergere » in Dio; dunque ancora filosofia con soluzione tei- stica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non rende estranea la ragione al problema dell’esistente, la fa convinta dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con la natura della ragione stessa. L’esistente « inesistente » nel- l’ordine del conoscere razionale, ma «esistente » come pro- blema-limite della ragione, « inesiste » come soluzione nel- l’ordine teologico, in quanto la spiegazione e la autentica- zione di ogni atto di esistere è nel supremo Esistente. La ragione non spiega tutto l’esistente, ma gli spiega come e dove spiegarsi: è sempre la luce dell’esistente, la sua intel- ligenza, che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza mettere il cervello al servizio della nostra umanità la più profonda ed essenziale (*). (3) Il P. D'Amore in una breve nota pubblicata nella rivista « Sapienza » (n. 1, 1948, p. 132), a proposito di queste pagine, mi osserva che, senza riescirvi, io mi sforzo « di completare la Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo, cioè con il problema posto dagli esistenzialisti, non con la soluzione che essi danno ». E aggiunge: « Egli crede che il problema dell’esi- stenza com’è posto e risolto da Aristotele e da S. Tommaso sia di natura total- mente astratta e resti nel puro campo dell’astrazione, della essenza o concetto» dell’ente come ente, formando così una eidetica, una metafisica cioè delle pure essenze ». Francamente non riesco a spiegarmi come P. D'Amore, pur sempre attento e, verso di me, benevolo lettore, abbia potuto farmi questi rilievi. Sarebbe da parte mia uno sforzo davvero inintelligente quello di e completare la metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo », in quanto 228 Filosofia e Metafisica questo problema non avrebbe senso e perchè la metafisica della migliore scola- stica per me pone il problema dell’esistenza in termini più veri e speculativa- mente più vigorosi che non l’esistenzialismo. La mia posizione è chiara: l’essere non è riducibile nè alla pura essenza nè alla pura esistenza, in quanto la sua struttura è duplice. Inoltre io non dico affatto che quella di S. Tommaso è una metafisica delle pure essenze; anzi proprio il contrario: è una metafisica dell’esistenza; e su questo punto ho insistito nel distinguere la metafisica aristo- telica da quella tomista; o forse P. D'Amore vuole identificare S. Tommaso con Aristotele, a tutto svantaggio del primo?
Tuesday, December 17, 2024
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