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Tuesday, December 17, 2024

GRICE E SCIACCA

 MICHELE FEDERICO SCIACCA    Filosofia e Metafisica    VOLUME I    MARZORATI - EDITORE - MILANO       FILOSOFIA  E METAFISICA    I due volumi di Filosofia  e Metafisica raccolgono le  pagine più impegnate e pro-  fonde che lo Sciacca ha  scritto tra il 1945 e il 1950  e segnano il passaggio dal-  lo «Spiritualismo cristiano»  alla «Filosofia dell’integra-  lità». In essi si possono leg-  gere saggi di rilevante inte-  resse teoretico come quelli  sul concetto di metafisica e  sull’ateismo, oltre all’altro  sull'esistenza di Dio, che or-  mai si allinea tra 1 testi clas-  sici della filosofia contem-  poranea.   Lo stile avvincente e chia-  ro, il vigore del pensiero in-  sieme profondo e cristalli-  no, l’unità dell’ispirazione,  il modo proprio dell’ Auto-  re di rendere attuali e vivi  problemi di sempre, fanno  che quest'opera, sistemati-  ca senza pesantezza, sta una  lettura appassionante e pro-  ficua.    Zursarax - $. Tommaso visita S. Bo-  naventura.    OPERE COMPLETE DI MICHELE F. SCIACCA    Volumi pubblicati:  I. L'interiorità oggettiva, III edizione italiana riveduta, pag. 120,  L. 1000.    2. Come si vince a Waterloo, IV edizione riveduta, pag. 224,  L. 1200.   3. Interpretazioni rosminiane, Il edizione riveduta e aumentata,  pag. 272, L. 2000.   4. L'uomo, questo «squilibrato », V edizione, pag. 292, L. 2000.   5. Atto ed essere, IV edizione riveduta, pag. 172, L. 1400.   6-7. La filosofia oggi, 2 volumi, IV edizione riveduta e aggiornata,  pag. 980, L. 6000.   8. La filosofia morale di A. Rosmini, IV ediz. riveduta, pag. 180,  L. 1500.   9. Morte ed immortalità, II edizione, riveduta, pag. 383, L. 3500.   0. La clessidra (Il mio itinerario a Cristo), VI edizione, pag. 160,  L. 1300.   Il. In Spirito e Verità, V edizione riveduta, pag. 340, L. 2500.   12. Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico, pag. 559, L. 4500.   13-14. Filosofia e Metafisica, 2 volumi, III edizione riveduta e aumen-  tata, pag. 478, L. 4000.   15. Pascal, V edizione riveduta e aumentata, pag. 252, L. 2000.   16. Dialogo con Maurizio Blondel, pag. 160, L. 1300.   17. Così mi parlano le cose mute, pag. 114, L. 1000.    Volumi in preparazione:   18. Soren Kierkegaard e il « malessere » della cristianità.   19. La filosofia italiana, II edizione.   20. Il tempo e la libertà.   21. Il momento estetico e il valore ontologico della fantasia.  22-23. Platone, II edizione.   24. Studi sulla filosofia antica, Il edizione.   25. Chiesa cattolica e mondo moderno, II edizione.   26. Il pensiero italiano nell'età del Risorgimento, Il edizione.  27-28. Il pensiero occidentale nel suo sviluppo storico.   29. Studi sulla filosofia moderna, III edizione.   30. Le mense di Cristo.    MICHELE FEDERICO SCIACCA    FILOSOFIA  E METAFISICA    Terza edizione riveduta e aumentata    Volume I       Casa Editrice Dott. CARLO MARZORATI  MILANO — via privata Borromei, 1 B/7       Proprietà letteraria riservata       © Copyright 1962 by Marzorati - editore, Milano    Stampato in Italia - Printed in Italy  1962       Tipo-Lito P. Pasquetto - Milano    INDICE    VoLume I    Dedica  Prefazione . .  Premessa alla seconda edizione .    Nota bibliografica    INTRODUZIONE    Parte PrIMA  FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA    Car. I. - FiLosoria.    I.  2.    3.  4.    5.    Saggezza greca e saggezza biblica .   La filosofia scienza «sui generis» e sua autonomia  dalle altre scienze ‘o   Astrattezza del dialettismo antinomico   La filosofia come ricerca della verità interiore e suo  esito religioso Lee   La filosofia come sforzo di « ascesi » ed itinerario a    Dio    Cap, II. - « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA? »    I.  2.    3.    4.    La filosofia come ricerca « perennis » della verità .   La filosofia e i suoi rapporti con la sua storia e la  scienza . . .   La filosofia come . metafisica. Essenzialità della filosofia  e inessenzialità delle scienze   Ancora sulla distinzione tra filosofia e scienza .    Cap. III. - FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE .    49    5I  56    61    69    70    73  76    81    PARTE SECONDA    CONCETTO DI METAFISICA  E SUA PROBLEMATICA INTERNA    Cap, I. - LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI    I.  2.  3.    4.    « Crisi » ed essenzialità della metafisica .  Metafisica e trascendenza. Le istanze dell’interiorità    La filosofia moderna e contemporanea di fronte ai pro-  blemi della metafisica PIA    Gli esseri e l’Essere. L’Atto creatore .    Car. II. - ÎDISCUSSIONE INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA.    I.  2.  3.    PN »    Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni .  Questioni marginali .    Se hanno una metafisica anche le filosofie che la  negano    . Metafisica e trascendenza ‘i  . L’interiorità come l’opposto dell’immanenza .    Ultime precisazioni .    . Replica ad una replica .  . Ultima replica    Car. III. - CULTURA E TRASCENDENZA    Cap. IV. - CULTURA E METAFISICA    Cap. V. - Vi È UNA FILOSOFIA DELLA STORIA?    Car. VI. - ESISTENZA E CONSISTENZA    I.  2.    o n da w    L’esistenzialismo o la rivolta contro l'essenza .    L’incontraddittorietà dell’essenza e il problema è della  metafisica LL. ‘o    . Critica dell’esistenzialismo   . Esistenza e consistenza .   . L'essere e il problema teologico .  . Conclusione    pag. 89    105    170  179       Indice 7  VoLume II  PartE TERZA  ATEISMO E TEISMO  Sezione Prima  L’ATEISMO  Cap. I. - PRELIMINARI E POSIZIONE DEL PROBLEMA.  I. Limiti, scopo e difficoltà dell'indagine . . . . pag. 7  2. Abuso del termine ateismo. . . . . . ‘ » 9  Cap. II. - L’ATEISMO PRATICO.  1. Di alcune sue forme . . . ....0.0.» 15  2. L’inconsistenza dell’ateismo pratico . . . . . » 22  Cap. III. - L’ATEISMO TEORETICO.  1. Schema delle sue principali forme . . . . . n» 25  2. L’ateismo assoluto o dommatico . . . . +.» 26  3. L’agnosticismo . . . 0 .. » 29  4. Il fideismo come forma di agnosticismo . .. » 38  5. Il deismo . o . . ..0.0.0.. <. » 41  6. Monismo e panteismo . . . . . . <- . » 4  7. L’umanesimo ateo... ... . . . n 60  Cap. IV. - CRITICA CONCLUSIVA DELL’ATEISMO . . . » 70  Parte TERZA  ATEISMO E TEISMO  SEZIONE SECONDA  L'ESISTENZA DI DIO  Car. I. - POSIZIONE DEL PROBLEMA E I € DATI REALI ©) DEL-  L'IPOTESI « DIO ».  1. Definizione nominale di Dio e fondamento razionale  dell'ipotesi . . . . pag. 79  2. Di quale Essere si vuole dimostrare l'esistenza quando  si pone l’ipotesi « Dio»... . .... » 84  3. L'esistenza di Dio non ci è nota « quoad nos» . . » 87  4. Da quale dato reale è conveniente partire per provare  la verità dell'ipotesi « Dio» . . .. » 88    Indice    . Importanza dei « dati » psicologici » nella dimostrazione    dell’ipotesi « Dio » .    . La pregiudiziale critica da cui muove il problema del-    l’esistenza di Dio    . La realtà spirituale punto di partenza della dimostra.    zione dell’ipotesi « Dio »    Cap. II. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA « VITA DELLO SPIRITO ”:    2) DALLA VERITÀ.  Impostazione dei termini del problema    Gli elementi del giudizio e il problema della sua va-  lidità    I principî del giudizio non sono « posti » dalla ragione  nè indotti dall’esperienza esterna    Ragione e intelligenza: l’intuito fondamentale dei prin    cipî del giudizio  Il problema dell’origine dei principi del giudizio:    risposte fondamentali    Indubitabilità ed indistruttibilità della < verità dei prin-  cipî del giudizio    Elementi e formulazione della prova « dalla verità »  In interiore homine habitat veritas .    Cap. III. - CHIARIMENTI E COROLLARI DELLA PROVA « DALLA    7.    VERITÀ ».    . Dio Primo Vero assoluto Ln  . Il principio di causa e le due forme di astrazione .    x    . La verità presente alla mente è appartenenza di Dio    senza essere Dio    . Critica costruttiva del principio di causa .  . Il non senso dell’ateismo    La presenza di Dio e il dinamismo del pensiero. « Ve-  ritas » e «ratio » . .    Partecipazione iniziale e finale .    Cap. IV - LE IDEE.    Le Idee come oggetto della mente. Critica dell’a priori  di Kant . . .    Pag.    92    95    %    107    115    118    120    126    128  135    138    149    153  156    162       Indice 9  2. L’Idea nell’empirismo inglese . . . . . . . pag. 167  3. Ancora di Kant e Rosmini. Sinteticità del conoscere e  validità del giudizio... . .. 0...» 170  Cap. V. - LA QUESTIONE DELL’ONTOLOGISMO.  l. Critica e precisazioni . . . . . . . » 177  2. Conoscersi ed essere conosciuti. . . . . . » 180  Cap. VI. - LA DIMOSTRAZIONE DALLA « VITA DELLO SPIRITO »:  b) DALLA VITA MORALE E DAL DESIDERIO NATURALE  DI BEATITUDINE.  I. Contraddittorietà dello scetticismo . . . . . . » 182  2. La prova dalla vita morale... . . .. . » 184  3. La prova dal desiderio naturale di beatitudine. . . » 186  Cap. VII. - BREVI CONSIDERAZIONI SUGLI ARGOMENTI ONTOLO-  GICO E COSMOLOGICO.  I. La prova ontologica . . . » 194  2. La prova cosmologica . . . » 203  Cap. VIII. - L’IPOTESI PROIBITA . «+.» 212  Cap. IX. - RAGIONE E FEDE NELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESI-  STENZA DI DIO. 0... » 219  Cap. X. - LA CONVERGENZA TOTALE . . . . ... » 225  APPENDICE. - ÎL CONCETTO CATTOLICO DI LIBERTÀ DI PENSIERO » 239  INDICE DEI NOMI . » 247    Ai mici giovani dell'Università    di Genova e di Pavia       L’ illustrazione è opera del pittore fiorentino  Primo Conti.    La caravella dalle vele crociate, che attraversa le  Colonne d’ Ercole, simboleggia l'aspetto essenziale  della filosofia dello Sciacca: non vi sono ostacoli  per il pensiero umano, nè barriere invalicabili, se  esso cammina e procede sorretto dalla fede nella    verità di Cristo.    PREFAZIONE    I più impegnativi e sistematici scritti raccolti în questo  volume sono il «condensato » dei due corsi universitari di  Filosofia teoretica, da me tenuti negli anni 1947-48 e I 948-49  nell'Università di Genova, elaborazione di idee maturate  nell'ultimo corso professato nell'Università di Pavia. La le-  zione — almeno per me — è la forma più efficace di comu-  nicazione e di silenziosa collaborazione: è sempre stato ben  poco quel che ho insegnato al confronto di quanto ho appreso  insegnando. Perciò ogni anno il debito verso i miei Scolari  aumenta: il giorno in cui si stabilizzerà, avrò esaurito la mia  capacità d'imparare insegnando e sarà giustizia e onestà che  scenda dalla cattedra. È dunque per un motivo intrinseco  (e direi in segno di riconoscenza) che il volume è dedicato  ai mici Giovani di Genova e Pavia. Ma ve n'è ancora un  altro: alcuni di Loro sono già docenti, studiosi e scrittori  di filosofia. Per il saggio sull’Esistenza di Dio, nella fase di  elaborazione e in quella di revisione, ho chiesto il loro  ausilio, datomi attraverso il dialogo e anche con precise  obiezioni scritte, di cui ho tenuto conto. Di ciò ringrazio  i Proff. Antonelli, Caracciolo, Crippa, Prini e Scotuzzi,  tutti già mici scolari del Portico pavese edoggi mici colla-  boratori nella lieta fatica delle ore riscattate e affidate alla  perennità dello spirito.   Così, dopo i Problemi di filosofia, ormai lontani, pub-  blico ancora una raccolta di saggi teoretici. Credo che l’or-  ganicità del volume non abbisogna di essere giustificata:    14 Filosofia e Metafisica       l’unità dell’ispirazione (almeno questo è il mio avviso)  trapela dalla prima all'ultima pagina; le idee fondamentali  che lo sostanziano, sempre presenti, tornano con una inst-  stenza martellante. Ma, come che sia di ciò, resta il fatto  che pubblico ancora una raccolta di saggi teoretici, invece  di quella Filosofia dell’integralità, che prometto da alcuni  anni e la cui pubblicazione non ritengo prossima. Il senso  di responsabilità mi obbliga manzonianamente a pensarci  sopra, a meditare ancora su quella che considero la siste-  mazione definitiva del mio pensiero, per minima che potrà  essere la sua importanza.   Ma, in mancanza diciamo pure di meglio, anche le pa-  gine qui raccolte forse significano qualcosa.   Innanzitutto ho cercato di eliminare un equivoco, a cui  i miei precedenti scritti potevano prestarsi: non dall’imma-  nenza alla trascendenza, ma dalla presenza in noi di qual-  cosa che ci orienta ed oltrep assa alla Trascendenza in sè:  da Dio come è presente alla nostra mente a Dio in sè nella  sua Realtà assoluta e nel suo Mistero impenetrabile. La  prima posizione, per la sua equivocità, andava definiti-  vamente chiarita e, una volta chiarita, oltrepassata. Essa  può rappresentare un temporaneo stadio intermedio (forse  un passaggio obbligato per chi proviene dall’idealismo tra-  scendentale) tra immanenza e trascendenza, non un punto  d'arrivo definitivo, fondato criticamente e sondato fino tin  fondo. Ma l'abbandono di ogni compromesso con l’idea  lismo trascendentale, in special modo con l’attualismo del  Gentile, mi ha consentito di distinguere nettamente le sue  due forme fondamentali: dell’Idealismo trascendentistico ed  oggettivo e dell'idealismo immanente e soggettivo, quest’ul-  timo negazione della verità del primo, sopruso che il pen-  siero consuma contro la Verità che lo fonda e alimenta,  per cui problemi, esigenze e principî dell’Idealismo trascen-  dentistico, trapiantati nel campo sterile dell'immanenza as-  soluta, trovano la loro morte proprio nella soluzione imma- è    Prefazione 15       nentistica. Mi è sembrato e mi sembra necessario — tenendo  conto del processo di nascita, crescita e dissoluzione del pen-  siero moderno — riscattare problemi, esigenze e principi dal-  la illusoria soluzione immanentistica per farli rivivere nella  verità dell’Idealismo trascendentista, fatto più ricco, ma-  turo e critico dall'esperienza speculativa che va dal Cogito  di Cartesio alle posizioni più recenti della filosofia contem-  poranea. Si tratta, in breve, d’inserire l’idealismo tradizio  nale di essenziale ispirazione platonico-agostiniana nel vivo  della problematica della speculazione moderna non per adat-  tarlo ad essa — che sarebbe ucciderlo — ma quale elemento  risolutore della sua dissoluzione e soddisfacente le sue esigenze  critiche. Così, a nostro avviso, la « metafisica della verità »,  propria dell’Idealismo oggettivo, risolve in sè le due opposte  metafisiche « dell'essere » e « del pensiero », conservando al  pensiero e all'essere tutta la loro validità e positività. Con ciò  ritengo di rendere un buon servizio al pensiero moderno e a  quello tradizionale; un buon servizio, quale si addice alla  filosofia, di avanzamento nella via della verità. Evidente-  mente le pagine qui raccolte non presumono di avere rea-  lizzato questo programma, la cui attuazione è solo all’int-  zio; ma mi pare che in esse l'impostazione vi sia, ed è pure  qualcosa.   Ancora su un altro punto desidero richiamare l’atten-  zione di chi leggerà questo libro. Spesso i miei precedenti  scritti sono stati accusati (dai tomisti) di esigenzialismo:  «esigenza» della metafisica e della trascendenza, ma non  .ancora loro « fondazione ». Di questa critica ho tenuto conto  perchè ha la sua parte di verità. Credo che ora non mi si  possa più muovere e chi v’insiste (0 v’insistesse) ripete senza  efficacia un luogo comune, perchè mi pare di avere abban-  donato la posizione esigenziale ed essere passato alla fon-  dazione razionale della metafisica e della trascendenza, pur  senza sacrificare (al contrario) quell’apporto della vita spi-  rituale nella sua integralità, della quale la ragione è un    16 Filosofia e Metafisica       elemento essenziale ma non il solo, in cui va sempre colta  e da cui non va isolata. Mi sembra che così il pensiero mo-  derno sia invitato ad acquistare consapevolezza di una con-  clusione che non può più ignorare: la trattazione più  teoretica e critica impone, nella sua razionalità autentica e  concreta, la verità insopprimibile della metafisica e della  trascendenza. In altri termini, chi scrive ha l ambizione di  poter dimostrare che proprio la più rigorosa istanza teoretica  e la più intransigente esigenza critica, se spinte fino in  fondo dalla logica che governa e guida la vita dello spirito,  debbono necessariamente concludere alla fondazione di una  metafisica teistica, la sola vera e perciò la sola autentica-  mente razionale e critica. Queste nostre conclusioni, per altri  motivi, valgono anche contro quei pensatori contemporanei  cristiani o cattolici che credono di poter accettare con alcune  correnti odierne la svalutazione e quasi la inutilità (quando  non la nocività) della ragione e di salvare ugualmente la va-  lidità della ricerca filosofica facendo della filosofia dell’ « est-  genza », del « cuore », della « fede », del « mistero », del  « sentimento » ecc. e riducendo la metafisica alla psicologia  o ad una specie di fenomenologia dell’esistenza. Le stesse  conclusioni valgono ancora contro altri studiosi cristiani 0  cattolici che credono basti contrapporre il pensiero tradi-  zionale a quello moderno e condannare questo per avere  partita vinta e instaurare un nuovo clima speculativo; op-  pure che, preoccupati della razionalità (innegabile) della  filosofia, sacrificano alla ragione la ricchezza della vita spi-  rituale, finendo così per isterilire le capacità della ragione  stessa. A noi sembra invece che la filosofia vada assunta  in tutta la sua pienezza, che è la stessa della vita dello spi-  rito. Crediamo che queste affermazioni siano sufficienti per  distinguerci dagli esigenzialisti e dai psicologisti (cioè da po-  sizioni di pensatori francesi ed italiani che hanno affinità  innegabili con la nostra), come pure definitivamente da.  ogni forma di immanentismo ed anche, infine, da un razio-    Prefazione 17       nalismo che impoverisce la stessa ragione con la pretesa di  garantirne la purezza e il primato.   Le pagine di questo volume sono dunque impegnative:  chi le ha scritte può chiedere pertanto che chi legge, prima  di accettarle o respingerle, s'impegni a sua volta almeno su  quelle dei saggi della parte centrale, forse le più significa-  tive. Chi le ha scritte si è «compromesso » e l’ha fatto in  modo di « compromettere » chi le legge. Direi che le pagine  sull’Esistenza di Dio in certi punti siano quasi indiscrete:  vogliono entrare con violenza. E ciò perchè chi le ha pen-  sate e scritte esige da chi legge una risposta.    M. F. Sciacca    Genova, Università, 10 luglio 1949.    PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE    Nell’ordinare le mie « Opere complete » pensavo di ri-  stampare questo lavoro col titolo L'esistenza di Dio e d’inse-  rire i restanti scritti in qualche altro volume della Collana.  Ho dovuto rinunziare al progetto: non si può sopprimere  un libro che ha ormai un suo posto nella filosofia contem-  poranea ed ha suscitato appassionate, anche se non sempre  intelligenti, discussioni, che hanno dato corpo ad una let-  teratura critica di mole considerevole, alla quale si sono  aggiunte le traduzioni della parte centrale in spagnolo (La  existencia de Dios, Tucumdn, Richardet, 1955), francese  (L’existence de Dicu, Paris, Aubier, 1951), inglese, par-  ziale (in Modern Catholic Thinkers, London, Burns and  Oates, 1960); ancora in spagnolo degli altri capitoli (La filo-  sofia y el concepto de la filosofia, Buenos Aires, Troquel,  1955, 2° ediz., 1959) e dell’« Ateismo» (Madrid, Miracle,  1954), tradotto anche in inglese (Formville, Virginia).   Ma questa seconda edizione non è una ristampa della  prima; infatti, il contenuto è stato riordinato în altro modo:  il breve saggio su «Il concetto cattolico di libertà di pen-  siero » è il solo rimasto nell’Appendice; sono state aggiunte  pagine nuove e il saggio su « L'ateismo », oltre al seguito  della discussione con F. Olgiati, sicchè il libro ha dovuto  essere diviso in due volumi.   L’opera, anche nella veste attuale, non fa parte del corpus  della « Filosofia dell’integralità », ma segna il passaggio dallo    « spiritualismo cristiano » a quest'ultima posizione, di cui,    20 Filosofia e Metafisica       come è noto, la prima formulazione è L'interiorità oggettiva.  Essa, dunque, da un lato, presenta ancora incertezze ed im-  precisioni (1 concetti di persona, interiorità oggettiva, est-  stenza, realtà ecc. non sono del tutto approfonditi, precisati,  elaborati) e, dall'altro, conserva motivi non criticamente ri-  pensati della posizione precedente, di cui tuttavia è una cri-  tica. La sua revisione profonda e lo sviluppo della sua tema-  tica rinnovata ed arricchita st trovano nei volumi posteriori;  pertanto, in questa nuova edizione, a meno di non scrivere  un altro libro, non mi restava che conservare la stesura di  dodici anni fa, limitandomi ad una revisione della forma e  ad un riordinamento delle pagine. Tuttavia, come ho detto,  mi è stato possibile, servendomi di note che risalgono al 1951,  inserire nella terza parte aggiunte e precisazioni senza alte-  rare il contenuto dell’opera, che, com'è, segna una tappa nello  sviluppo interno del mio pensiero.    M. F. Sciacca  Griesalp (Svizzera), luglio 1961.    N.B. La terza edizione, meno qualche ritocco nella forma,  riproduce la seconda, esauritasi in pochi mesi.    M. F. S.    NOTA BIBLIOGRAFICA    Volume I  Introduzione, « Giornale di Metafisica », 1, 1946.    Parte I - I. Filosofia, « Humanitas », n. 1, 1946. — II. Come biso  gna concepire la filosofia?, testo francese, « Revue de Synthèse», lu-  glio-sett. 1947 (XXI, Nouvelle Série), testo italiano, « Humanitas »,  n. 5, 1947. — III. Filosofia e vita spirituale, relaz. letta al « Congreso  Internacional de Filosofia Suirez y Balmes » di Barcellona, 7-12 ott.  1948, Actas, vol. II, pp. 925-929, Madrid, Instituto « Luis Vives » de  Filosofia, 1949 e « Humanitas », n. 2, 1949.    Parte II - I. La metafisica e i suoi problemi, « Giornale di Meta-  fisica », IV-V, 1947 e « Philosophia », n. 10, 1948, Universidad Nacio-  nal de Cuyo, Mendoza. — II. Discussione intorno al concetto di meta-  fisica, « Giorn. di Met. », IV, 1949; III, 1950; I, 1951. — III. Cultura  e trascendenza, testo francese, « Études philosophiques », numero spe-  ciale, 1948; testo italiano, « Humanitas », n. 9, 1948: testo spagnolo,  « Revista de Filosofia », abril-junio, 1949. — IV. Cultura e metafisica,  « Humanitas », nn. 8-9, 1949. — V. Vi è una filosofia della storia?,  Procedings of the tenth International Congress of Philosophy, North-  Holland Publishing Company, Amsterdam, 1949, vol. I, fasc. II, pp.  989-991 e « Humanitas », n. 7, 1948. — VI. Esistenza e consistenza,  « Giorn. di met. », n. 1, 1947 e « Atti del Congresso Internaz. di  Filosofia », vol. II, l’Esistenzialismo, Milano, Castellani, 1948.    Volume II    Parte III - I. L'ateismo, nel vol. Dio nella ricerca umana, a cura  di G. Ricciotti, Roma, Coletti, 1950; trad. spagnola, Madrid, Mira-  cle, 1954; trad. inglese, Formville (Virginia), 1962; — II. L'esistenza  di Dio, « Giorn. di Met. », nn. 1, 2, 3, 1949.    APPENDICE. - Il concetto cattolico di libertà di pensiero, San Se-  bastiin, 1948, a cura del Comitato delle « Conversaciones catélicas  internacionales », e « Humanitas », n. 10, 1948.    INTRODUZIONE    Ogni guerra, per la nazione che l’ha combattuta, segna.  sempre la fine di qualcosa che era e il cominciamento di  qualcos'altro di nuovo. Quando poi una guerra ha propor-  zioni gigantesche, scaturisce da situazioni di portata mon-  diale e si combatte in nome di principii la cui sconfitta  o vittoria importa una nuova epoca del mondo, come quel-  la che da qualche mese si è conclusa ('), essa segna la fine di  ordini e di sistemi politici, sociali ed economici, il crollo di  ideali e di miti e nello stesso tempo l’inizio di nuove forme  di vita nazionali ed internazionali, continentali ed intercon-  tinentali. Anche la filosofia, che è vita concreta dello spirito  (proprio per l’universalità e la necessità della verità non con-  tingente ma superstorica, che è suo oggetto), tutt'altro che  estranea allo scorrere del tempo e alle nuove esigenze che  nascono al posto di altre che declinano o sono sommerse,  si trova di fronte a nuovi compiti. Essa — proprio perchè  sicura che i cangiamenti esteriori sono spesso il segno di  profondi mutamenti spirituali — ha il dovere e il diritto di  insediarsi, pur senza fare della politica o dell’economia, alla  base dei nuovi problemi politico-economico-sociali, anche  contro l’intelligenza di quanti credono che essi siano solo  una pura e semplice questione di politica o di economia.  Perciò la filosofia è chiamata a rimettere sul tappeto della  discussione e della lotta problemi e soluzioni, ipotesi e prin-    (1) Scrivevo nella primavera del 1945.    24 Filosofia e Metafisica       ci pii, affinchè l’eterna verità infinita venga più profonda-  mente sondata e più chiaramente configurata in nuove e  sempre parziali prospettive, anch'esse incomplete come le  precedenti, ma di queste meno inadeguate e più compren-  sive. La storicità della filosofia è figlia della Sofia, che sto-  ria non ha: la Sapienza è madre della storia e perciò anche  del filosofare. Non la ricerca o il processo storico condizio-  nano la verità, ma la Verità condiziona e fa che esistano e  la ricerca e il processo.   Una nuova rivista di filosofia (?), nel momento in cui  per l’Italia e il mondo incomincia una nuova epoca, non  ha bisogno di giustificare la propria ragion d'essere; spe-  cialmente se si tien conto che, da noi, alcune tra le più  accreditate riviste filosofiche o hanno già da alcuni anni  esaurito la loro funzione e perciò rappresentano un modo  di filosofare ormai al tramonto, difendono posizioni quasi  sorpassate, comunque esprimono quel che alla filosofia e al-  la cultura in generale è già acquisito e come tale appar-  tenente alla storia; o hanno perduto i Direttori, che ad  esse conferivano con la loro personalità, ben definita e ri-  conosciuta, indirizzo ed autorità.   In questi lunghi ed atroci anni di guerra la filosofia, co-  me qualsiasi altra attività, è stata sospesa all’esito dell’im-  mane conflitto. Non ha sonnecchiato o dormito; ha atteso  trepidante per i destini della vita dello spirito, per l’esi-  stenza stessa del diritto al pensiero, che è essenzialmente  diritto alla libertà. Trepidante, ma fiduciosa nella peren-  nità della vita spirituale, per cui l’uomo è uomo; perciò  ha atteso pensosa e raccolta: non ha disperato e dunque  ha potuto continuare a pensare. Ora la guerra è finita, ma  ha lasciato impressi nei nostri occhi e nel nostro spirito  gli orrori della morte; superstiti di uno sterminio senza  precedenti, siamo quasi increduli di ritrovarci. Però come    (2) Il «Giornale di Metafisica » (Torino, Società Editrice Internazionale),  presentato dalle pagine qui ristampate.    Introduzione 25       capita a quanti si ritrovano vivi dopo aver vissuto per anni  sotto l'incubo della morte e tra tanti morti che assiepavano  e rendevano oscura e quasi invisibile la linea della vita, noi  superstiti abbiamo gran desiderio, brama di vivere. Ma, per  vivere veramente da uomini, è necessario che facciamo  violenza a noi stessi, che sottomettiamo ai valori spiri-  tuali gli istinti vitali il cui scatenarsi per eccesso di irrazio-  nale valutazione ha portato l’umanità alla guerra di ster-  minio, all’ebrezza atroce e crudele del sangue, l’ha de-  gradata al livello zoologico. La rivolta oscura delle forze  primitive ed elementari della vita animale ancora oggi,  malgrado tutto, sembra ribellarsi al rispetto dei valori spi-  rituali e alla disciplina di un ordine morale. Perciò noi so-  steniamo (e ad oltranza difenderemo questa nostra posi-  zione) che il desiderio di vivere — e con esso il genericissimo  concetto di « vita» — venga qualificato come desiderio di  vivere nello e per lo spirito, quasi di spirito; che lo spet-  tacolo orrendo e disumano di un mondo sconvolto dalla  furia, dalla violenza e dall’odio sia al più presto cancellato  dai nostri occhi e soprattutto dai nostri cuori e dalle no-  stre menti. Innumerevoli, tra i superstiti, le persone colpite,  oltre che dalla guerra, dal cozzo violento e a volte brutale  delle ideologie politiche. Ci sono i martoriati e i giustiziati  di un partito e quelli del partito opposto; i sopravvissuti co-  vano nel loro cuore rancori, odii, propositi tenaci di ven-  detta; sedimenti si accumulano nelle loro coscienze; la sete  di sangue vendicatore repressa e non sanata aumenta; potrà  — di nuovo! — rompere gli argini e provocare nuove guerre  e nuovi sanguinosi e disordinati sconvolgimenti. La corru-  zione dell’organismo sociale minaccia sempre l’esistenza di  una società. Ogni coscienza che non sa oggi perdonare, che  non lotta contro i suoi impulsi immediati per scoprirsi ed  affermarsi coscienza autentica, per vincere il gelo della ven-  detta con il fuoco della carità, porta dentro di sé la pau-  rosa responsabilità di un’umanità futura peggiore di quella    26 Filosofia e Metafisica       di ieri. Avviare le coscienze a trovar pace nel perdono e  conforto nel lavoro e nel bene è uno dei compiti alla rea-  lizzazione del quale ogni forma di umana attività deve con-  tribuire e più delle altre la filosofia, che, come abbiamo  detto, è la vita stessa dello spirito. Si tratta di ricostruire,  d’instaurare nelle anime il senso dei valori spirituali sulle  rovine morali e religiose (incommensurabilmente più gravi  di quelle materiali), che ideologie politiche e sociali prima,  durante e con la guerra (*), si sono satanicamente accanite  a seminare a piene mani. In questa santa battaglia di ri-  marginazione delle ferite spirituali, ciascuno di noi, quale  che sia il suo grado di cultura istruzione capacità, quali  che siano la sua professione e il suo mestiere, i dolori e i  lutti che porta dentro di sè, ha il dovere di prendere e te-  nere il suo posto, di restarvi fedele come umile combattente  della verità. Combattere per la verità è l’ufficio dell’uomo;  farla trionfare a lui non compete.   Ritrovare noi stessi; aver ragione del nostro individuali-  smo per affermare la nostra vera personalità che è, come  tale, negazione degli egoismi individuali o familiari, di clas-  se o di nazione. La difesa e la garanzia della nostra persona,  prima di reclamarla come un diritto, dobbiamo sentirla co-  me un dovere e perciò come un atto morale; ma non vi  è moralità senza legge, senza una norma universalmente va-  lida. Ubbidire alla legge è costruirsi, affermarsi, consistere  come persona. Solo l’adempimento del dovere conferisce  il diritto di avere dei diritti; il diritto all’esercizio del do-  vere e la dedizione all'adempimento di esso sono la condi-  zione necessaria e sicura di qualsiasi altro diritto, che, senza  dovere, è il diritto della forza, negatore della persona, esal-  tatore dell’individualismo titanico, che ogni diritto sommerge  e ogni libertà conculca. Libertà della persona significa libertà  dall'egoismo individuale e sociale dalle mille facce, o non    (3) E, purtroppo, bisogna dire anche dopo la guerra.    Introduzione 27       significa niente. Ricostruisce la società chi costruisce la pro-  pria persona non solo per sè, ma per tutti. Gli egoi-  smi dividono, la legge unifica; la materia rende impene-  trabili, lo spirito ci fa intimi gli uni agli altri, è la via mae-  stra della comunicazione nella verità; le passioni accendono  passioni ed accentuano le distanze, la virtù tempera, contem-  pera ed avvicina; l’interesse cristallizza le menti e raffredda  i cuori, l'amore rinnova, alimenta e riscalda. Tanto sangue  versato per lo scatenarsi dell’odio, della distruzione e del-  l'ingiustizia non può e non deve essere stato versato per per-  petuare questi flagelli, che tutti concordemente ed unanima-  mente diciamo di condannare e di voler tenere lontani.  Molti giovani oggi tornano dai campi di battaglia o di  concentramento, dalla prigionia o dalle carceri, dai nascon-  digli e dalle montagne. Quel che hanno visto soffrire e sof-  ferto non lo sapremo mai: il racconto delle sofferenze mo-  rali e fisiche ha poco senso per chi non ha sofferto e visto  soffrire, tanta è l’intimità e la personalità del dolore, come  di tutti gli umani sentimenti. Quel che è passato per le loro  menti nei giorni oscuri è loro patrimonio non trasmissibile;  è necessario però che diventi capitale del loro spirito, ric-  chezza che produca nuova ricchezza. Lo esigono loro stessi,  se è vero che hanno combattuto per un mondo migliore,  se la serietà, la pensosità e spesso la serenità dei loro volti  sono il segno di serietà e serenità interiori; lo esigiamo noi  tutti che con e per loro vogliamo contribuire alla rinascita  della vita spirituale e all’appagamento del bisogno di orien-  tamento in tutti profondo ed urgente; lo esigono soprat-  tutto quanti (quanti!) non sono tornati, quanti nella fossa  hanno seppellito con loro tesori di affetti e di dolori, sco-  nosciuti ed inconoscibili, inespressi ed inesprimibili per il  mondo a cui non appartengono più, per la terra che li co-  pre, ma non li possiede. Chi ha sofferto per il male non  si consola con altro male; chi è caduto non vuole che la sua  morte sia resa sterile da altra morte. Il chicco di grano    28 Filosofia e Metafisica       che cade sulla terra è lieto di sacrificarsi nel suo germo-  glio; i morti di ieri esigono da noi — e abbiamo il dovere  di rispondere al loro appello — che siano tanti semi di fru-  mento e non di zizzania, da cui dovrà germogliare l’uma-  nità di domani, cioè dello spirito, nostra realtà dignità gran-  dezza, non della materia, che, da sola, è la nostra anima-  lità ed effettuale miseria; esigono cioè che, vittime dell’odio,  della ferocia e della barbarie, loro, che più di tutti avreb-  bero diritto a non perdonare (ammesso e non concesso che  un simile diritto sia riconoscibile all'uomo), siano i pionieri  di un mondo di pace e lavoro, di un’umanità che sappia  trasformare il bagno di sangue, a cui è stata costretta, in  un lavacro di riscatto e purificazione.   Tornano, dunque, i giovani seri, pensosi e bisognosi di  orientarsi; hanno sete di giornali, riviste, letture, pro-  grammi, che, in verità, non si manca di offrir loro, tanto  è in tutti il bisogno di fare e dare alcunchè. Che cosa noi  offriamo loro? Il pensiero, che è tutto il nostro noi migliore,  il noi profondo. Li incitiamo a pensare, che è filosofare,  filosofando noi stessi. Non presentiamo una filosofia bella  e fatta che serve a chi l’ha fatta e non a chi non la fa da  sè, ma un modo di concepirla, un metodo di filosofare, che  valga come metodo di vita e di condotta. Essi tornano non  con problemi astratti, ma, diciamo così, incarnati, fatti di  carne ed ossa, sangue e nervi; non possiamo dare in cambio  formule confezionate in serie, valide per tutti e perciò non  buone in concreto per nessuno. La filosofia, che esprime pro-  blemi ed -esigenze nostre, ha il dovere di essere l’espres-  sione dello spirito umano e non di estraniarsi dall’uomo,  che la fa essere ed è la sorgente inestinguibile della sua vita  perenne. Il pensiero, come la ragione, è universale per-  chè leggi universali governano la sua attività; ma il pen-  siero e la ragione non esistono come enti impersonali ed  astratti, bensì come pensiero e ragione degli uomini, di  ogni singolo uomo. Il panlogismo astratto ed impersonale è.    Introduzione 29       la negazione dell'umanità della ragione e perciò è inuma-  nità e negazione della filosofia, che l’umanità dell'uomo è  chiamata ad esprimere. Chi filosofa veramente impegna non  la sola ragione, quasi staccata dal resto di sè, ma tutto se  stesso; perciò la filosofia, a parte la religione, è il momento  più ricco e fecondo della vita spirituale, la vita stessa dello  spirito. Da essa — col concorso della religione, dove trova  il suo completamento — ci può venire una rigenerazione  verace di tutto l’uomo e un rinnovamento profondo della  vita; da essa, che, quando si scruta fino al midollo e si sco-  pre come fondamentale verità e come apertura al Dio ri-  velato e incarnato, non è più inutile somma di esperienze  e di fatti scientifici, politici, sociali, economici ecc. ma  loro conversione qualitativa su un piano diverso e ben ele-  vato; dunque, è altresì atto di supremo coraggio, la filo-  sofia. Filosofare è guardare in faccia noi stessi e le cose  per leggervi dentro, l’occhio teso e fisso per non sbagliare,  quel che noi significhiamo e le cose significano; è cercare  e trovare la significanza del creato, il senso assoluto del  suo contingente esistere; perciò è concludere, senza chiu-  dersi in una conclusione definitiva, contro ogni aperta o ma-  scherata inconcludenza del mondo, banale o sublime che sia.   Una filosofia così concepita, che pone in prima linea la  validità della ragione e i diritti del pensiero; che ha come  suo oggetto la verità che non nasce e non muore; che, come  vedremo, è filosofia della trascendenza teologica razional-  mente fondata; che propugna un integrale realismo, che è  assoluto spiritualismo, da un lato non teme l’accusa di psi-  cologismo, di riduzione del filosofare a descrizione dei fe-  nomeni psichici e fisici, ad analisi dei sentimenti o ad inti-  mismo soggettivista pre o afilosofico; dall’altro, accetta la  problematica che scaturisce dalla vita vissuta di ogni singolo e  viene incontro a quanti portano come problemi dolori, dubbi,  speranze. Dare anima e volto umano ai problemi ed alla    % Filosofia e Metafisica       verità, che trascende gli uomini e le età perchè alla contin-  genza sovrasta, ed illuminare la vita spirituale dei singoli con  la luce inestinguibile del vero; inverare il fatto, affinchè viva  nell’eterna verità ed esistenziare il vero, affinchè si faccia  la nostra verità umanissima: questa è la filosofia.   Se moltissimi hanno lottato e molti sofferto fino al sa-  crificio significa che, anche nelle ore più oscure, l'umanità  non ha disperato che certi ideali superiori di vita avrebbero  finito per vincere; ma non c’è speranza senza fede; gli uo-  mini, dunque, hanno avuto fede. Anche la filosofia è spe  ranza, quella di trovare la verità che chi filosofa cerca:  chi cerca ha già scoperto la vita spirituale. Non possiede  ancora il vero, ma ne è posseduto fin dall’atto che lo  cerca: chi filosofa è chiamato dalla verità, ne ha la vo-  cazione; non la conosce ma cerca, ha già fede in essa  e nei suoi disegni, anche nonostante tutto. Anzi, proprio  quando il meccanismo delle passioni sembra invincibile, ci  si rifugia nell’ideale con fede profonda. L’utopia, ribellione  meditata alla situazione effettuale e suo superamento, prende  la spinta dal riconoscimento deciso e preciso che solo un  fattore ideale può dar forza e valore ad ogni forma di vita;  è fede nella perenne validità del principio, e questa fede è  la molla del filosofare. Non è credenza, preconcetto e dogma-  tica affermazione, ma certezza interiore, che si sforza di  comunicarsi attraverso la ricerca per farsi scienza. Senza  di essa la filosofia non sarebbe mai nata: le menti ed i  cuori degli uomini, inerti, si sarebbero estinti nel dub-  bio, senza speranza. Ragionar molto, è vero; ma anche sen-  tire molto: un pensiero robusto e ferace è ad un tempo  figlio della ragione e della fede. Proprio perchè ricerca e in-  sieme possesso iniziale della verità, la filosofia non è scet-  ticismo ed è vita rinnovatrice e promotrice di nuova vita;  perchè non possesso pieno, non è dommatismo ed intransi-  genza cieca, ed è amore del vero, aspirazione perenne, di-  namismo spirituale sollecitato e mosso dalla verità per la    Introduzione 38       scoperta della verità stessa, grido di eremita che trascina  popoli interi.   Filosofare, dunque, è nutrire sempre più di fede la filo-  sofia, nutrirla d’interiore certezza e di razionale fiducia nel-  l’essere della Verità che è anche di ciascuno di noi, il nostro  immortale Ideale. L'umanità sopravvissuta alla guerra, do-  po tanti crolli di idoli e miti, è innanzi tutto bisogno di fede,  sete di credere; perciò anche bisogno di filosofare, di cer-  care, aspirare. Così è, specie quando circostanze straordi-  narie pongono di fronte a loro stessi uomini e popoli, li ri-  velano nella loro interiorità profonda, in quel che è il loro  consistere, che si nasconde, indomabile, al di sotto del loro  fenomenico esistere. È necessario che tanta ansia di ricerca  e così vivo calore di fede siano bene istradati, cioè siano au-  tentico bisogno di filosofare e non vaga e sterile aspirazione,  inconcludente andirivieni, pericolosa imboccatura di vicoli  ciechi; urge mettere a frutto la fede per non sciuparla o ina-  ridirla nella sfiducia, a cui segue l’indifferenza, morte dello  spirito. Metterla a frutto, affinchè non si disperda in lampeg-  giamenti che abbacinano e stordiscono, nè si offuschi in  un’accensione accecante per il molto fumo, ma si componga.  fiamma limpida e illuminante; affinchè non sia disordinata  crescenza, ma ricchezza fondata su principî e da essi sorretta e  guidata in modo da scongiurare la confusione delle lingue, il  cangiar nome alle cose, il chiamar le virtù vizi e i vizi virtù,  quel gran male con cui Tucidide caratterizza la mutata e  corrotta società di Atene alla fine della guerra del Pelo-  ponneso.   Poco p-iù di cento anni fa il Risorgimento intellettuale  e politico d’Italia fu preparato e nutrito da una fede pro-  fonda e robusta, che non conobbe scoramenti e disarmò le  smentite; fede saldissima nei destini della Patria divisa ed  oppressa, perchè innanzi tutto fede nei valori invincibili  dello spirito, negli ideali più nobili di una umanità mi-  gliore, nella realtà di una legge morale che sovrasta inte-    32 Filosofia e Metafisica       ressi ed egoismi, nella santità e nelle bellezze autentiche  della Chiesa di Roma, nella Verità rivelata da Cristo, fonte  d’ogni progresso e d’ogni civiltà, in quanto sorgente e  legge di salute. Antonio Rosmini e il « Rosminianesimo »  (indichiamo con questo nome il movimento dello spiritua-  lismo italiano della prima metà dell’Ottocento, che dal Ro-  veretano ricevette l’impronta profonda) ebbero una gran  fede nella verità; perciò la filosofia fiorì e gli italiani filoso-  farono. Noi oggi, come i nostri progenitori di ieri, abbiamo  una gran fede nei destini dell’umanità, proprio perchè ab-  biamo una gran fede nei disegni della Provvidenza, pro-  motrice e fecondatrice del lavoro degli uomini, suoi figli.  L’anima di verità dello spiritualismo italiano dello scorso  secolo non si è esaurita col risorgimento politico d’Italia:  questioni di ordine pratico e non filosofico, l’avvento del  positivismo prima e l’affermarsi del neohegelismo nel primo  quarto del secolo nostro dopo, ne hanno interrotto il pro-  cesso, anche se alcuni — e positivisti e neohegeliani — ab-  biano detto o creduto in buona fede di continuarlo.   Oggi è necessario liberare lo spiritualismo da alcune in-  terpretazioni, che riteniamo tendenziose ed erronee e di pro-  muovere nuove vedute di esso; riprendere il filo al punto in  cui fu rotto per riannodarlo ai fili della nostra vita di uo-  mini d’ oggi, non per ripetere o conservare, ma per conti-  nuare e rinnovare: a scuola, alla vera scuola, s'impara, non  si ripete. Imparare significa accrescersi ed accrescere, riela-  borare e ricreare, rivivere, che è tale quando si continua e  si rinnova la vita degli altri nella e con la nostra propria  vita. La dipendenza spirituale c'impegna dunque dentro i  limiti di un filosofare che è il loro vivente filosofare, in  quanto è anche il nostro nuovo, personale, attuale filosofare;  ci impegna non per quel che il passato ha di caduco ed è  passato con il suo tempo, ma per quel che di perennemente  vivo vi è in ogni filosofare che è stato veramente la passione di  un’anima e, in questo caso, per circa mezzo secolo, di quasi    Introduzione 33       tutta una nazione. La tradizione è indispensabile alla filosofia,  come a qualsiasi altra disciplina scienza istituzione popolo  che abbiano una storia, ma dev'essere lievito, non peso  morto; tradizione rivissuta da noi, in modo che diventi il  nostro noi: noi inseriti in essa ed essa in noi.    * * *    Ab antiquo la filosofia è definita scienza dell’essere, del-  l’universale; come scienza, deve essere pura da ogni ele-  mento soggettivo; come avente per oggetto l’essere, rispec-  chiare l’oggettività di esso, al di sopra di ogni contingenza  di spazio e tempo: la verità nella sua oggettività è co-  mune a tutti gli esseri razionali e per tutti uguale in ogni  epoca e luogo. Dunque, la filosofia, che tale oggettività è  chiamata ad indagare, deve spogliarsi degli elementi sogget-  tivi, elevarsi in un’atmosfera di serenità composta e se-  vera; far tacere tutti quei sentimenti che possono essere an-  che individualmente certi o quelle soluzioni che si pre-  sentano anche belle edificanti confortatrici, ma che non so-  no, gli uni e le altre, nè razionalmente formulabili nè ogget-  tivamente veri; ha l’obbligo di non mescolare i propri pro-  blemi e le proprie soluzioni con le circostanze contingenti di  un determinato momento storico e di non fondarsi su di esse.   C'è molto di vero in questo modo millenario, glorio-  sissimo e nobilissimo di concepire la filosofia e l’oggetto  della sua indagine. Se anche per noi la filosofia non fosse  scienza dell’essere e la verità oggettiva e realissima, ante-  riore ad ogni ricerca, Verità, anche se la filosofia non fos-  se mai nata e l’uomo mai creato; se anche per noi non  esistessero massimi problemi, non avrebbe senso parlare  di filosofia, di metafisica. D'altra parte, per noi, l’oggetti-  vità della verità, che è prima dopo e indipendentemente  dal pensiero che la cerca e conosce, non esclude affatto la  personalità del filosofare e della filosofia. È la verità, ma  è l’uomo che la cerca; e non l’uomo in astratto una astrat-    34 Filosofia e Metafisica       ta verità, ma il singolo, questo o quel filosofo, cerca le  verità, perchè sia la sug verità. Eliminare la personalità dal-  la ricerca filosofica o prescinderne è eliminare l’uomo  o prescinderne, cioè essiccare la radice della filosofia. La  pura oggettività ed universalità, che mettono in parentesi il  soggetto che cerca, sente e pensa, non appartengono alla fi-  losofia nè ad altra forma di umana attività. Comnoscere  la verità significa sforzo di penetrazione, scoperta di quel  che è verità, non mero rispecchiamento o copiatura. Lo  « specchio » tersissimo è freddo ed inerte, indifferente al-  l’immagine che riflette, al suo riflettersi e al suo sparire;  copiare è lavoro meccanico, che tanto riesce meglio quan-  to più l’amanuense si estrania da esso e pensa ad altro.  Chi cerca, invece, non è indifferente alla verità — conoscere è  possedere —; non pensa ad altro, ma al contrario, non pen-  sa più a nient'altro. Conoscere la verità è totale partecipa-  zione ad essa; eros profondo e fecondo, irresistibile, amor di  possesso e d’appropriazione, di meità, direi, della verità uni-  versale ed oggettiva. Che non è verità perchè mia, nè per-  chè la scopro e conosco o nell’atto che la conosco; ma  nel momento che la cerco, la amo: amo cercarla e trovarla  e quando la possiedo, la ho come mia verità, come /a ve-  rità che è mia e mi costituisce. Una la verità contempora-  neamente presente nelle innumerevoli coscienze che furono,  sono e saranno: universalissima e personalissima al tempo  stesso. Non si tratta soltanto di quella soggettività che è  riconosciuta alla filosofia e alle altre scienze, compresa la  matematica (il Poincaré, com’è noto, distingue i matematici  in due tendenze: quelli che, guidati dalla logica, procedono  per lunghe analisi astratte; gli altri che, guidati dall’intuizio-  ne, per sintesi intuitive e concrete), consistente nella diversità  dei metodi, dei modi particolari di procedere nella scoperta del  vero e nella sua sistemazione, ma di una soggettività più  profonda, che investe l’essenza stessa del filosofare. Si trat-  ta, infatti, d’intendere la filosofia come assoluta dedizione -    Introduzione 35       dell’uomo intero, nell’atto che filosofa, alla verità, per cui  questa — e nel momento della ricerca e in quello della sco-  perta — aderisce interamente al soggetto filosofante, suona  per la sua mente e per il suo cuore con determinati, parti-  colarissimi accenti e vibrazioni, lo trasfigura, lo esalta, lo  riempie di gioia, lo innova, come dice Agostino. L'uomo apre  un nuovo spiraglio sull’infinita verità; e — come il pri-  gioniero che nella segreta, a un certo punto, inaspettata-  mente, è rischiarato dal sole — chi «vede» saluta e sor-  ride alla luce, che è Za Luce, ma è la sua luce, perchè suo  è il lavoro della ricerca, sua la gioia della scoperta, sue le  ansie e le esitazioni, suoi i dubbi e le angosce, sua la pro-  spettiva dalla quale si è posto per cogliere un aspetto del-  l’infinito vero, oggetto del suo amore. La verità è madre  del filosofare, ma le vedute di e su di essa son geniture del-  l’umana mente; prodiga nel darsi a chi l’ama, si allegra  d’esser figlia del suo figlio, il pensiero, che certo, non la par-  torisce, ma, dalla verità fecondato, partorisce; tale gestazione  è appunto il filosofare. E non vi è parto senza dolori e gioie;  perciò il pensiero, che è fecondità fecondata e fecondatrice,  conosce il dubbio e la speranza, il sorriso e il pianto. La verità  sorride e piange con l’uomo che pensa e pensando l’ama e  cerca; assume essa, divina, volto anima espressione umane.  È l’umanità perenne della filosofia, la personalità di cui  essa è gelosa.   Perciò noi, contrari ad ogni forma di soggettivismo, che  vanifica l’essenza stessa della filosofia, ne nega in partenza  l'oggetto, non ci sentiamo di negare quanto di personale vi  è nella ricerca filosofica, per la quale la verità si fa nostra  senza con ciò ridursi al nostro pensiero ed identificarsi con  esso; contrari ad ogni forma d’individualismo siamo per  la personalità della filosofia, in quanto nessuna forma d’im-  personalismo riescirà mai ad eliminare la persona, sogget-  to del filosofare; avversari di ogni riduzione della filo-  sofia a pura descrizione fenomenologica, che nemmeno sfiora    36 Filosofia e Metafisica       il problema ontologico e schierati per la centralità del pro-  blema dell’essere, ci opponiamo ad una concezione pura-  mente nozionale dell’essere stesso. Perciò ancora siamo con-  trari ad ogni forma di svalutazione della ragione e dell’in-  telletto, alla riduzione del conoscere alla pura intuizione  immediata, ma lo siamo anche ad ogni intellettualismo a-  stratto e geometrico razionalismo, che non tien conto del-  l’umanità del filosofare, dei diritti del sentimento, delle  ragioni del cuore, di quanto vi è di intuitivo nell’umano  sapere. Difensori della scientificità della filosofia, non tol-  leriamo alcun tentativo di riduzione di essa ad una qual-  siasi scienza particolare, nè ad alcuna forma di scientismo  che precluda l’apertura del filosofare scientifico e razionale  ad una verità metarazionale e superscientifica. La « Scien-  za », onnipotente ed onniveggente divinità, che tutto risolve  ed ogni mistero svela, è un idolo nefasto, che annulla, con  paurose confusioni e gran danno, le differenze qualitative  tra le varie forme di attività spirituale e sovverte la stessa  natura razionale dell’uomo nel momento stesso che ne de-  creta la potenza illimitata ed infinita. Lo studio di un aspet-  to particolare dell’esperienza, isolato dagli altri e non avente  come suo scopo essenziale l’approfondimento dello spirito  nella sua interiorità e nei suoi rapporti con il mondo ester-  no, è ancora una forma di cosiddetta scientificità della filo-  sofia che non possiamo accettare, in quanto tende a limi-  tare la ricerca al sensibile e alle sue leggi; e la filosofia è  sintesi, non serie di soluzioni, ma soluzione unica. La co-  noscenza sensibile e la scienza naturale o matematica, che  pur possono rendere segnalati servigi alla speculazione, non  possono assorbire o sostituire la filosofia, il cui compito prin-  cipale è di far acquistare all'uomo una sempre maggiore  consapevolezza di sè e della « gravità metafisica » della sua  destinazione, il senso della sua esistenza e della sua auto-  nomia, di dare al tempo, alla storia, il carattere di via all’e-  ternità e non d’inabissare lo spirito nel divenire temporale.    Introduzione 37       Soltanto così l’uomo, a mano a mano che sonda le sue pro-  fondità, si eleva con tutto se stesso all’Essere, sorgente e  principio dell’intelligibilità e del mistero. Perciò noi, nello  stesso tempo che accettiamo il concetto della filosofia come  scienza razionale e indagine metafisica, secondo una tradi-  zione che ha secoli di autorità e testimonianze antichissime,  e respingiamo le più recenti riduzioni di essa a psicologia, a  gnoseologia pura, a metafisica del pensiero immanente, a  pura descrizione dell’esistenza, a mera problematicità, a me-  todologia della storia, a vana fisicità, a logicismo, ecc., ci  dichiariamo pronti ad accettare quanto di vero e vitale ha  il pensiero moderno e contemporaneo, solleciti di non far  nostra qualsiasi posizione speculativa che pretenda di por-  tarci indietro di molti secoli verso forme di realismo e d’in-  tellettualismo, che è doveroso e proficuo rivedere — nell’in-  teresse stesso della verità del realismo — spalla a spalla, in  una lotta serrata ma sincera e non ostile, con un pensiero che  da Cartesio in poi ha una tradizione e un'autorità che im-  pongono rispetto e meditazione profonda, scevra da pre-  concetti e prevenzioni, senza intolleranze premeditate o  dogmatismi precostituiti. Piuttosto che ritornare a quanto  ha di sorpassato il passato, siamo decisi a muoverci incon-  tro a quanto ha di meglio il presente: radicati nella tradi-  zione, vogliamo pensare oggi per il futuro.   Questa nostra maniera di concepire la filosofia ci porta  a cogliere le sue ricerche e i suoi ritrovati nei due aspetti, ap-  parentemente opposti: il personale e il sociale. Non solo  l'intuizione è personale, ma lo è anche il concetto, che è,  diciamo così, la elaborazione scientifica dell’altra. La sua  universalità è veramente tale quando include la con-  cretezza dell’intuizione: universalità, difatti, non significa  affatto astrazione ed impersonalità; la verità concettuale è  anche la mia verità espressa in un concetto universalmente  valido. Concetto significa sintesi, e la sintesi è una veduta  che integra e coordina, non abolisce o nega, le frammen-    38 Filosofia e Metafisica       tarie vedute individuali. Non vi è pertanto verità sociale, va-  lida per gli altri, che non sia o non sia stata prima verità  intima, personalissima di un uomo. Nè cessa di esserlo  — se è davvero verità e coglie ed esprime una nota od un  accento dell’umano pensiero — anche quando diventa so-  ciale; anzi è tale proprio perchè ciascuno di quelli, di tutti,  per cui è verità, la riconosce e rifà sua, intima personale  verità. Altrimenti è formula morta, informazione estrinseca,  curiosità erudita, non elemento di cultura, che è vita spi-  rituale. La verità « pubblica » è davvero tale quando, al tem-  po stesso, è verità « privata », di ciascuno, quando ogni  singolo la riconquista e possiede e vive come assoluta-  mente sua. L’universalità e l’assolutezza del vero è la pre-  senza dello stesso assoluto vero nelle molteplici coscienze  singole, che è poi un personale esser presente di ciascuna  di esse all’istessa verità. Forse in nessun’anima, come in  quella del pensatore solitario, è tanto presente l’umanità  di ogni tempo; forse niente è più sociale della solitudine pen-  sosa ed operosa; diciamo della solitudine, non dell’isola-  mento.   L’identica assoluta Verità, ogni qualvolta è riscoperta ed  accettata da un’anima, le dona e l’arricchisce. Solo così c’è  commercio d’idee, progresso, perchè soltanto così ciascuno  di noi, ogni mente, è industria di idee; altrimenti gli uo-  mini commerciano e scambiano parole senza contenuto, for-  mule senza vita. Chi riceve senza dare è improduttivo. Sono  le epoche, cosiddette di decadenza della filosofia o afilosofi-  che, pigre ed inerti, che vivono di rendita e nulla sanno  mettere a profitto; in esse la verità ha solo l’apparenza della  socialità, perchè le manca l’intima essenza, costituita dal-  l'intimità e dalla personalità del vero nella sua oggettività.    * * *    Poco più di un anno dopo la fine della guerra ’14-18,  Giovanni Gentile nel « Proemio » premesso al primo fasci-    Introduzione 39       colo del « Giornale critico della filosofia italiana » così scri-  veva: «oggi noi vogliamo un idealismo storico o attuale,  uno spiritualismo antiplatonico e immanentista ». Molti  giovani, che la guerra avevano fatto e vissuto, sfiduciati del-  l’ambiente filosofico e culturale del momento, si orientarono  verso la nuova rivista. Durò poco; il « Giornale » continuò a  vivere, ma alcuni, giovani e anziani, cambiarono rotta e  s’'indirizzarono altrove. L’idealismo storico o attuale, anti-  platonico e immanentista, non era la filosofia che rispon-  deva alle loro esigenze; infatti, di tutte le filosofie che han-  no reagito al positivismo, è tra quelle che hanno fatto mag-  giori concessioni alle tendenze naturalistico-empiristiche e  più si è adattata ad esse. Concepisce il mondo come realtà  spirituale, ma, per il suo fondamentale storicismo ed im-  manentismo, imprigiona, anzi impoverisce lo spirito nel-  le forme e nei fatti empiricamente dati. Manca ad esso  quel carattere autenticamente metafisico e religioso, essen-  ziale alla filosofia, lo slancio di elevarsi, con un respiro ve-  ramente universale e non mozzo, al di sopra di quella ge-  nerica divinizzazione dell’umanità, a cui in fondo si ri-  duce quel suo concetto di Storia o Cultura o Civiltà, col  quale identifica la totalità del reale.   Altri indirizzi in Italia e fuori sono contemporanea-  mente sorti ed hanno avuto fortuna; poi di nuovo la guer-  ra ’39-45. Poco meno di sei anni: tutto cambiato. Filosofie  che fino alla vigilia dello scoppio del conflitto e a qualche  anno dopo erano studiate ed appassionatamente discusse,  oggi sembrano lontane e, a volte, estranee a noi, come se  da esse ci dividessero secoli. Morte? No: con esse, com-  preso l’idealismo storicistico o attuale che sia, dobbiamo an-  cora fare i conti, se vogliamo proprio dare un nuovo orienta-  mento al filosofare. Misurarsi con gli avversari, con tutto il  rispetto che meritano e che anche noi esigiamo da loro,  è chiarire noi stessi, saggiare la loro e la nostra consistenza.   Diciamo subito, sebbene il lettore abbia già capito, che    40 Filosofia e Metafisica       il nostro spiritualismo è platonico, come può esserlo uno spi-  ritualismo che non intende ignorare il pensiero moderno e  contemporaneo nè da esso straniarsi; ed è trascendentista. Di-  re per esteso come noi intendiamo il nostro spiritualismo, in  che senso lo denominiamo platonico e trascendentista, qual’è  l'essenza del platonismo antico e cristiano, sarebbe antici-  pare in questa introduzione molte tra le pagine di questo  libro e quanti volumi formeranno la nostra Filosofia del-  l’integralità. Come abbiamo scritto altrove: « Noi... capo-  volgiamo il principio animatore di buona parte del pensiero  moderno e contemporaneo: non conquistare la posizione im-  manentistica dell’attività creatrice del soggetto, ma conqui-  stare — ed anche questa è dura e aspra conquista — il sen-  so, che è senso della trascendenza, di essere creati, il calore  spirituale di esser parte vivente della creazione. Aver sem-  pre presente alla propria coscienza di essere creature, signi-  fica avvertire sempre la propria esistenza come dono, gra-  zia di esistere: il mondo, nella sua totalità, è un dono della  grazia del Creatore. Appunto, per noi, filosofare è pensare  trascendendo il nostro pensiero; è far della storia trascen-  dendo la storia; è tensione dello spirito verso una Realtà  che è in lui senza esser lui, che immane e trascende; è  aspirazione al possesso della Verità, che non ha storia e non  è filosofia, ma che fa e la storia e la filosofia ». Platone?  Sì, ma anche Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel. Platoni-  smo, che è un aspetto perenne perchè essenziale e invin-  cibile della filosofia di ogni luogo e tempo, dello spirito uma-  no, che è « filosofo », perchè è aspirazione indomabile, eros  inesausto della verità. Perciò la filosofia è costituzionalmente  decisa tendenza alla trascendenza.   Oggi, come nel periodo immediatamente anteriore alla  guerra, vi è, specie nella filosofia francese e italiana, non un  ritorno, ma una ripresa dell’agostinismo perenne; i proble-  mi filosofici, quello religioso e dei suoi rapporti con la fi-  losofia, sono posti, trattati e discussi nei termini della spi-    Introduzione 41       ritualità agostiniana: questa oggi la nota attuale (che non si-  gnifica di moda) che riesce a farsi ascoltare. È anche la  nostra nota che non contrasta affatto con la ricchissima spi-  ritualità tomista, di cui è da tenere gran conto, in quanto,  aggiungiamo, è tutt’altro che antiplatonica ed antiagostinia-  na. Agostinismo significa voler conoscere innanzi tutto  due cose: Dio e l’anima, la mia anima che ama Dio e a  Lui aspira. Dunque, umanesimo o spiritualismo cristiano;  centralità del problema dell’anima umana di fronte a Dio  che in lei parla e della consistenza dell’uomo e delle cose;  senso della creazione, che si coglie come tale nell’aspira-  zione perenne al Creatore e, dunque, senso profondo, inte-  riore, della trascendenza. Dunque, ancora, pensiero che si  coglie nell’essere, non essere che si coglie nel pensiero;  perciò metafisica dell’Essere. Ma non basta. Da una parte,  la persona umana non è l’individuo, che è ogni ente or-  ganico, o l’io empirico, e, dall'altra, il Dio del Cristia-  nesimo non è soltanto impersonale sostanza o mera essenza.  E’ più che sostanza, più che essenza: è Persona, Padre,  Creatore, Provvidenza. La teologia razionale, che tende a  scarnificare Dio, va animata e riscaldata dalla mistica, che  è esperienza interiore e teologia rivelata. Dio non è il re-  siduo logico di un intellettualismo intollerante; non è Og-  getto puro, ma Soggetto assoluto e trascendente: tale è per  la mistica che appunto ridona a Dio, come Dio di Gesù,  quella « soggettività » che è Sua « natura ». Non si tema  l’immanenza, perchè, se non altro, questa posizione ci met-  te al di là del dilemma, più artificioso che reale, trascen-  denza-immanenza; nè l’esperienza mistica fa di Dio un  elemento immanente della vita dell'anima, ma Lo assu-  me e ama come Voce interiore, Norma assoluta e Guida  infallibile: Voce, Norma, Guida, Via trascendenti, che spi-  ritualmente ricreano la creatura. Dio ancora è intelligenza  che attua col pensiero gli intelligibili, ma attuandoli li vuole  liberamente. Anche qui non si tema il volontarismo, per-    42 Filosofia e Metafisica       chè siamo al di sopra del dilemma volontarismo-intellettua-  lismo: la nostra posizione non è meramente volontaristica  e meno ancora anti-intellettualistica. L'attività intellettuale  — che solo certe forme d’intuizionismo hanno relegato  nel formalismo e nell’astratta schematizzazione, con una re-  strizione del termine intelletto tanto ingiusta quanto incre-  sciosa — è anch'essa vita intensissima e spirituale sentire,  che si collega con l’attività volontaria. Intelletto e volontà  sono fatti per armonizzare nella distinzione e reciproca-  mente integrarsi. La riflessa cautela critica dell'intelletto non  smorza, ma disciplina e rende più efficaci gli slanci della  volontà, come la rigorosa obiettività metafisica non si di-  sgiunge dal carattere personale della ricerca filosofica. « Poe-  tico » è l’intelletto, al pari della volontà. Insufficiente il  primo nella sua sfera se non è integrato dall’altra, come  è insufficiente la volontà che pretende di fare a meno  dell’intelletto; sufficiente è la completa e concreta vita umana  naturale nell’integrazione reciproca dell’una e dell’altra for-  ma di attività. Da ultimo, il « complesso dell’uomo » ha il  suo compimento nella spiritualità soprannaturale, che non  altera l’umana natura, ma la solleva ad un più alto stato.   Una metafisica così intesa esaurisce il contenuto della  filosofia: è gnoseologia e morale, è scienza del mondo e  dell’uomo singolo ed associato; è filosofia che ha il profondo  senso morale e religioso di se stessa; perciò cristiana, alla  quale appunto il Cristianesimo dà la consapevolezza dei li-  miti della conoscenza concettuale e nello stesso tempo, con  la Rivelazione, la soluzione di quel che può solo cercare e  sondare, ma intorno a cui non può e non potrà mai con-  cludere. La filosofia è razionalità, se si vuole, « intransi-  gente » razionalità; ma è atto della ragione autentica rico-  noscere i suoi propri limiti; atto che include perciò stesso  il riconoscimento del mistero teologico, che non è affatto,  non occorre dirlo, irrazionalità o arazionalità. La ragio-  ne, lume naturale, riconosce, con un atto naturale, il    Introduzione 43       lume soprannaturale: si apre alla Rivelazione; la filosofia,  che è indagine razionale, è apertura all’Essere, vocazione  alla trascendenza, che, per noi, è quella teologica. Se così  non fosse, se la filosofia non mettesse le ali allo spirito per  innalzarlo, faticosamente, nel mondo che è spirito e non  materia, che è verità e non illusione, da dove non dimentica  o disprezza il regno terreno, ma lo intende, conosce e valuta  al lume della Verità che lo trascende per indirizzarlo al suo  fine, che è il Creatore, la filosofia sarebbe ozio e concupi-  scenza dell’intelletto, non vita spirituale, salute dell’anima.  Fede e ragione in stretta ed armonica collaborazione, senza  che si armino i diritti dell’una contro quelli dell’altra; Suona  filosofia, dunque, in umiltà di cuore, semplicità d’intelletto  e rettitudine di volontà.   Di qui scaturiscono conseguenze di vitale importanza.  Innanzi tutto la filosofia è profonda consapevolezza dell’es-  senziale spiritualità dell’uomo nella sua complessa ricchezza e  dell’ordine del mondo; nell’uno e nell’altro caso, assenso  alla verità di Dio, creatore dei due ordini, provvidenza o  attività perennemente creatrice e conservatrice. Consegue che  la filosofia è riconoscimento dell’essere del creato, di ogni  creatura nel suo grado di essere; in questo senso è « avvia-  mento » all’integrità, che è appunto riconoscimento di ogni  ente nel suo grado di essere, per quel che è e significa;  è « disposizione » (non diciamo realizzazione o compimento)  al ritorno alla creazione genuina, messa in linea per il ri-  scatto totale di essa. Pertanto filosofare è ricreazione inte-  riore della verità, iniziazione religiosa, contemplazione (theo-  ria) che è concentramento della totalità del creato in un  punto del pensiero, da dove più potente ed irresistibile si  fa lo slancio verso il Creatore; è infine — e per tutto ciò —  preghiera.   Da ultimo consegue che essa è essenziale moralità. Chi  filosofa si mette in cammino per incontrare la verità; dun-  que, nell’atto stesso, è chiamato a spogliarsi di quanto ini-    44 Filosofia e Metafisica       zialmente può essere di ostacolo al raggiungimento del suo  scopo e a liberarsi, a mano a mano che la ricerca procede,  di quanto risulta falso o inadeguato: con ciò stesso rico-  nosce che non la ricerca produce il vero, ma il vero la ri-  cerca. Filosofare è pertanto itinerario di liberazione, di  purificazione: lotta del vero contro il falso, del bene contro  il male; dunque, è assolutamente moralità, che non è un  fatto, ma un dover essere. Nel nostro caso, è la possi-  bilità di riescire a vincere il falso con il vero, il male con  il bene, di riescire al possesso della verità, che è saggezza.  E’ capace l’uomo (il pensiero, la filosofia) di passare dalla  possibilità di vittoria sul male e sul falso, alla reale riescita?  Di trascendere la lotta vero-falso, bene-male? La lotta  è la sua vita morale; la vittoria definitiva ne è l’esito;  poichè l’esito o cessazione della lotta è al di là di essa, la  trascende. Ma trascendere la morale è trascendere il pen-  siero, cioè il potere dell’uomo; dunque la realizzazione del  fine, per il cui conseguimento l’uomo lotta contro il male,  non è nell’umano potere. La filosofia, intesa come asso-  luta moralità, è la grande possibilità naturale di cui l’uo-  mo dispone per realizzare il suo fine supremo. Impegnate  tutte le sue forze e fattele fruttare al massimo, il pensiero  si fa disponibile per accogliere dall’Alto, se vengono, le  energie della salvezza: l’essenziale moralità della filosofia  si rivela come essenziale sua religiosità; dunque l’esito della  vita morale (lotta del bene contro il male) non può trovarsi  se non nella religione. In caso contrario, la morale come lot-  ta eterna senza possibilità di risoluzione, come perenne dia-  lettica dei due termini in contrasto, si nega come morale, in  quanto si riduce ad un fatto, al fatto della lotta, che non  può non essere altro e dev'essere quello che è.   E’ la nostra ancora una morale filosofica o razionale?  Crediamo di sì ed aggiungiamo anche che è una morale  autonoma nella sua possibilità di riescire, con la spe-    Introduzione 45       ranza che la riescita che la trascende non le manchi e  venga a colmarla, a liberarla dalla lotta, ad «assorbire la  morte in vittoria ». La salvezza come fine della moralità  investe nel suo punto cruciale il problema dei rapporti di  filosofia e religione.    PARTE PRIMA    FILOSOFIA E CONCETTO DI FILOSOFIA    CaprrroLo I    FILOSOFIA    I. — Saggezza greca e saggezza biblica.    Secondo la tradizione, Pitagora, quasi indietreggiando  umile di fronte alla maestà della divina Sapienza, per pri-  mo si nomò non sapiente ma filosofo: semplicemente amico  della Sapienza, veritatis amicus. La Sofia è scienza di Dio,  la filosofia è scienza dell’uomo. Dio « non è filosofo », dice  Platone, perchè è il Sofo.   Ancor prima di Pitagora e Platone, l’uomo (da Adamo  caduto, primo grido di dolore e primo atto di pentimento  per la verità perduta) ebbe ad accorgersi che l’amore per la  Sapienza costa carissimo. Amare la verità è tendervi, che è  sforzo perenne di ricerca, superamento di limiti, penetrazione  di zone di ombra, vittoria sul dubbio; lo sforzo è dolore.  L’uomo partorisce mella Verità le verità: prima gesta con  cautela e fatica; sorveglia perchè il parto non sia aborto pre-  maturo e il partorito germoglio rachitico e malaticcio; poi  fa forza per rompere l’involucro che l’asconde e vorrebbe  soffocarlo: non si dà alla luce senza dolore. Ed è giusto:  non c’è luce di verità, per l’uomo, senza sacrificio e soffe-  renza, che fanno pura la gioia del generare. Umanissima la  filosofia: è suggellata dalle note eterne del dolore in letizia;  infatti è « testimonianza » del vero. Ma non si sopportano  sacrifici nè si affrontano martirii senza fede nella verità,  nel dono che farà di se stessa, essa, che è posseduta solo    50 Filosofia e Metafisica       da chi è suo possesso. Filosofo è chi ha fede nel ritrova-  mento del vero, chi usa il dubbio positivamente, come peda-  na di lancio o strumento d’acquisto; non dispera, non ten-  tenna: crede, serve e muore. Socrate fu filosofo.   Altro saggio d’antichissima saggezza, Salomone, nel-  l’Ecclesiaste, sottolinea il tormento di spirito, a cui volonta-  riamente si condanna il filosofo per amore del vero: vi-  vere filosofando (non primum e poi deinde, perchè non si  filosofa senza vivere, ma non si vive, in ispirito e verità,  senza filosofare) è lotta perenne, fatta di conquiste e perdite,  di elevazioni e cadute, di realtà ed illusioni deludenti, di  speranze e disinganni. Perchè? Perchè l’uomo, grandez-  za di pensiero e miseria di peccato, è sempre alle prese  con l’errore, sempre in un’ansia di ricerca che fruga il vi-  sibile e l’invisibile: ora cade al livello della carne che ago-  gna delizie di piaceri, ora si slancia alle cime serene e lu-  minose della pura spiritualità; contraddizione vivente di sa-  pienza e stoltezza, di verità ed errore, instancabile ed in-  quieto viandante, che sorsa a mille sorgenti ed ha sempre  più sete. Alla fine, spossato umiliato confuso confessa la  propria impotenza e grida all’ausilio di una forza supe-  riore alla sua; invoca il vero che tanto ha cercato, affinchè  scenda sul suo cammino e gli venga incontro, mercede di  tanto affanno. Deum time et mandata ejus observa; hoc  est enim omnis homo (1).   Perchè tanto peregrinare del viandante indomabile? Per-  chè egli, dice ancora il Saggio, per la verità deve lottare  con se stesso, portare in linea il lume dell’intelletto, che a-  spira all’invisibile immutabile vero, affinchè vinca il senso  cieco e corruttore, che vagola nell’errore e tenta, esperto  d’inganni e raffinatezze, di sostituire al vero le apparenze  di esso. Così dirà anche Platone, che fu filosofo. La saggezza  testamentaria s'incontra con quella greca nel cercare di de-  finire l’essenza della filosofia e del filosofare.    (1) Eed., XII, 5.    Filosofia e concetto di filosofia 51       2. — La filosofia scienza ” sui generis” e sua autonomia  dalle altre scienze.    Che cos'è in concreto filosofia? È una scienza come le al-  tre? È una scienza sui generis? Ha un suo oggetto e quale?   Filosofia non è scienza come tutte le altre. Non lo è  innanzi tutto perchè, come ben notò Aristotele, si distingue  dalle scienze empiriche: essa, infatti (quando è vera filo-  sofia e non tornaconto di falsi o mezzi-filosofi) non ha  fini utilitari. In questo senso, filosofia, «la sapienza desi-  derata per se stessa e per amore del sapere », è scienza inw-  tile: non serve a niente di estrinseco o di estraneo alla ri-  cerca della Verità in sè e per sè. Coloro che scherzando di-  cono che la filosofia è « inutile » non si accorgono di tessere  il suo più bell’elogio: inutile, e perciò libera e liberatrice. E  quando avvenimenti di eccezionale portata scuotono gli uo-  mini nel più profondo della loro profondità e tutto sembra  irreale ed assurdo, il volgo, spregiatore del filosofo, chiede  a lui la parola che illumina e salva e nella filosofia intrav-  vede i calzari con cui l’umanità cammina nel tempo per  secoli e secoli.   Bellamente disinteressata, pura contemplazione, spassio-  nata ricerca della verità va fiera della sua sublime e quasi  divina inutilità. Il filosofo è come il poeta: contempla e can-  ta, adoprando princìpi e formulando giudizi; « fa musica »,  secondo il comando che a Socrate carcerato dava in sogno  la voce misteriosa (7). D'altro non si preoccupa, dice ancora  Aristotele, «in quanto ha il fine in se stesso ».   Proprio perchè non è scienza empirica, essa è conoscenza  di tutto il reale, dello spirito e delle cose, non nella loro  accidentalità, in quel che hanno di empirico, bensì nei loro  princìpi e nelle loro cause. Ma ogni altra scienza particolare  non cerca pur essa princìpi e cause e leggi? Sì, ma nessuna.  studia «l’ente in universale », bensì « dopo averne rescisso    (2) Fedone, 60 e.    52 Filosofia e Metafisica       qualche parte, di questa studia gli accidenti »; solo la filo-  sofia studia «l’ente in quanto ente e le sue proprietà essen-  ziali » (*). Scienza dell’universale dunque e, come tale, di-  stinta da ogni altra empirica.   Secondo lo stesso Aristotele, non è la sola che apparten-  ga alle scienze dette « speculative » (distinte dalle « poeti-  che » e « pratiche »): condivide questa nobiltà con la fi-  sica e la matematica. Ma non allo stesso titolo: occupa il  posto più alto nella gerarchia; e i gradi sono segnati dalla  purezza dell’oggetto: la fisica studia le forme, ma nella  materia; la matematica anch’essa le forme, ma astratte; so-  lo la filosofia le studia pure e concrete (‘). Prima di Aristo-  tele, Platone aveva già stabilito una gerarchia delle scienze  culminante nella filosofia o dialettica, la quale ha come og-  getto le Idee in sè e per sè, senza alcun commercio col sen-  sibile (*).   A parte la dottrina aristotelica delle forme e la platonica  delle Idee, proprie dei due filosofi, resta fermo che la filo-  sofia ha come oggetto non alcunchè di empirico o sensibile,  ma il meta-empirico e il soprasensibile; che è scienza disin-  teressata, speculativa, il cui oggetto è l’universale, ciò che è  e non appare; non è ricerca di una singola verità; non si ri-  volge ad un oggetto particolare, ma a ciò che è, all’Essere.   Non è scienza come le altre la filosofia anche per un  motivo strettamente connesso a quanto già abbiamo veduto.  Le scienze, certo, son forme dell’attività dello spirito uma-  no, ma nè una nè tutte insieme sono lo spirito. Che la  scienza sia spirito e lo spirito scienza, è solo un’erronea  equazione di certo positivismo o neopositivismo, che non  vide e non vede ancora che tra l’una e l’altra non v'è dif-  ferenza di quantità, ma di qualità. Nè la filosofia è una  serie o collezione di sintesi (i contributi o i risultati di ogni    (3) Mer., IV, I, 1003.  (4) Met., VI, I, 1025 B.3-1026 a.  (5) Repubblica, 521 c-535 a.    Filosofia e concetto di filosofia 53       singola scienza), perchè è sintesi originalissima, assoluta. Ec-  co perchè /4 scienza, in fondo, è le scienze, mentre /z filo-  sofia non è le filosofie   Di qui ancora la particolarità delle scienze. Ogni sin-  gola scienza conosce secondo un modo suo proprio (Pascal  direbbe un suo espriò) un aspetto del reale; la filosofia invece,  che ha il suo esprit inconfondibile, non s’indirizza ad un  aspetto, ma a tutto il reale. Lo conosce nella sua inte-  rezza? No, e qui bisogna intendersi. Vi è la conoscenza  comune, che non è scientifica nè filosofica, quantunque sia  il materiale sul quale lavorano e la filosofia e la scienza;  vi è la conoscenza scientifica che conosce — secondo un  suo metodo, suoi concetti e regole — un aspetto del reale,  astraendo dagli altri; vi è la conoscenza filosofica che ten-  de a conoscere il reale nella sua totalità, cioè se lo pone  intero come oggetto di conoscenza, ma di esso coglie solo  un aspetto, meglio lo vede da un punto di vista, ne ha  una veduta parziale. Per conseguenza le scienze colgono  parzialmente un aspetto parziale del reale; la filosofia co-  glie parzialmente la totalità di esso. Perciò quelle hanno  un’astrattezza che la filosofia non conosce, senza che ciò  obblighi a concludere che i loro concetti, privi di valore co-  noscitivo, ne abbiano soltanto uno pratico ed economico.  Per povero che sia, un concetto è sempre una finestra sul  mondo; per limitato che possa essere il conoscere scien-  tifico è sempre una veduta della realtà. Vi è inoltre un  problema fondamentale, in cui scienza e filosofia hanno  sempre collaborato: il problema stesso della scienza.   Per un altro verso le scienze sono astratte: sono cono-  scenza nel senso più angusto. Lo scienziato applica un me-  todo di ricerca ad un determinato fenomeno; è guidato solo  dall’osservazione e dalla ragione; il sentimento è escluso.  La filosofia no: è fondamentalmente razionalità concreta,  la razionalità che è l’uomo intero, totale, che è ragione,  volontà, sentimento, cuore. Anche quando la filosofia è pu-    54 Filosofia e Metafisica       ramente nozionale, formula scarnificata, resta sempre alla  pura ragione filosofica una vita che è pur presenza di uma-  nità; anche la saggezza stoica o quella spinoziana sono pro-  fonde aspirazioni umane. Non così la scienza che astrae  dal sentimento, dall’umanità dell’uomo, anche da ogni mo-  tivo finalistico; perciò la sua necessità è naturale, quasi mec-  canica: in qualunque caso, anche se indeterministica, pre-  scinde dalla finalità del reale. La filosofia invece è sem-  pre teleologica: non è scienza dei fatti, ma dei valori; dun-  que la sua essenza è veramente spirituale. Perciò ancora è  libertà. Inoltre, la filosofia, essenziale ricerca della verità  oggettiva, che è prima di essere conosciuta e tale reste-  rebbe anche se mai alcun soggetto pensante la conoscesse  o la cercasse, ha una sua indeclinabile soggettività: la verità  universale ed oggettiva è anche la mia verità, quella che, cer-  cando ed amando, faccio mia. La scienza invece astrae dal  soggetto come tale per garantire quella oggettività imper-  sonale, propria della conoscenza scientifica. Di qui l’ in-  commensurabile ricchezza della filosofia, quella stessa dello  spirito umano filosofante, cioè amante, con tutte le sue for-  ze e con tutto se stesso, la verità desiderata, alla quale si  offre, dedica, sacrifica; quel senso umanissimo proprio del-  la « pagina» filosofica, che spesso, sotto la veste frigida  e il gelo delle formule, ha una vita possente e un’anima in-  tera, la vita e l’anima, inconfondibili, del pensiero specu-  lativo.   Da ultimo, la filosofia è impegnativa. Il filosofo che si  accinge al terribile compito di riflettere sulla conoscenza  comune, di sottoporla ad esame e a critica, di oggettivare  la sua vita per esaminarla profondamente, non più vissuta  nella sua immediatezza, ma posta come problema, il filo-  sofo, dico, s’identifica con la sua filosofia, la verità che  è la sua vita. Ogni filosofo è una formula, ma la sua non  è un’astrazione; è tutta la ricchezza, radicalmente, della sua  esistenza; la formula è la croce, su cui si crocifigge e    Filosofia e concetto di filosofia 55       dalla quale perennemente rinasce. Lo scienziato, invece, po-  ne un'ipotesi: questa può essere dimostrata falsa o vera,  restare semplice ipotesi. Nei tre casi — tranne che l’ipo-  tesi non abbia una portata metafisica e, in tal caso, o fa  della filosofia con esprit filosofico e non più scienza, o fa  della filosofia con esprit scientifico e non più scienza nè  filosofia, ma pseudo-scienza e pseudo-filosofia — Ja sua vita  resta quello che è. Per il filosofo non è così: che Dio  esista o non esista, che il bene sia una realtà o un'illusione,  che il mondo abbia un fine o sia il risultato di combina-  zioni meccaniche, la verità dell’una o dell’altra di queste  ipotesi, impegna la sua vita interamente, importa vedere  l’universo in un modo radicalmente opposto ad un altro.  Lo scienziato che indaga non scommette se stesso; il filo-  sofo sì, totalmente. Vi è nella filosofia un’essenza di to-  talità metafisica e insieme religiosa che manca alla scienza.   Si è ancora sostenuto, muovendo dalla pregiudiziale cri-  tica, che la filosofia non è la scienza, in quanto questa ha  dei presupposti che accetta senza renderne conto. La filosofia  invece, se vuol essere tale, discute e deve discutere non solo  i presupposti della scienza, ma ogni presupposto, porre in  questione se stessa. Ma la pregiudiziale critica, come qual-  siasi altra, è essa stessa un presupposto: la si può discutere  in base ad un altro; e questo in base ad un altro ancora  e così via. La stessa pregiudiziale critica, affinchè abbia  senso e possa essere assunta come punto di partenza del  filosofare, presuppone l’oggetto della ricerca, la verità:  la critica ha senso come giudizio sulla umana conoscenza  della verità, non come dubbio che investa la realtà stessa  del vero, altrimenti essa vien meno al suo compito e  alla sua ragione d’essere, in quanto c’è critica del conoscere  solo rispetto alla verità. Infatti, il problema dei limiti  della conoscenza umana è tale rispetto alla verità ed è  problema della validità -del conoscere solo in quanto c’è  verità. La posizione critica è consapevolmente critica, solo    56 Filosofia e Metafisica       in quanto col e nel suo porsi implica e riconosce la po-  sitività del vero. Dunque anche la filosofia ha i suoi  presupposti, quantunque sia meno dommatica della scien-   Teorie nuove sostituiscono le vecchie, ma nessun ma-  tematico, per esempio, pensa di far progressi nella sua scienza  cominciando dal mettere tutto in dubbio, anche che due e  due fan quattro; e se ciò mette in dubbio, non dubita  del numero. Anche lo stesso modo di condurre l’ indagine  filosofica implica dei presupposti. Del resto, non è solo un  limite della filosofia o della scienza; lo è del pensiero umano  in generale, il quale non può rendere conto di tutti i presup-  posti: gli possono apparire evidenti, ma non perciò sono di-  mostrabili. Vi è un metodo — scrive Pascal quasi a principio  del frammento sull’Esprit géometrique — più eccellente di  quello della geometria, consistente: a) nel « non usare alcun  termine di cui non sia stato prima spiegato nettamente il  senso »; b) nel « non affermare mai alcuna proposizione che  non sia stata dimostrata con verità già conosciute; cioè, in  breve, nel definire tutti i termini e nel provare tutte le pro-  posizioni ». Bellissimo metodo, ma « assolutamente impos-  sibile ». Di dimostrazione in dimostrazione « si arriva neces-  sariamente a dei termini primitivi, che non si possono più  definire e a principii così chiari che non se ne trovano altri  che lo siano di più per provarli ». Se la filosofia, come ogni  altra umana scienza, potesse spiegare tutti i presupposti  senza presupporne alcuno, non sarebbe più filosofia, ma  Sofia, la Sapienza, di fronte a cui si sgomentò Pitagora; nè  l’uomo sarebbe filosofo, ma Sofo; Sofo è solo Dio, che  non è filosofo. Gli uomini non hanno la capacità (ed è qui  la ragion d’essere della filosofia) di costruire una qualsiasi  scienza di ordine assolutamente perfetto.    3. — Astrattezza del dialettismo antinomico.    Dunque, la filosofia è scienza sui generis, ma l’esser tale  non significa affatto che non vi siano altre scienze, come han-    Filosofia e concetto di filosofia 57       no cercato di dimostrare alcuni indirizzi filosofici contem-  poranei cosiddetti idealisti. Torna il conto soffermarvisi, an-  che se brevemente.   Per il neohegelismo italiano, per esempio, la filosofia è  scienza speculativa, il cui criterio logico, che è anche prin-  cipio del reale, è il dialettismo antinomico. Perciò: l’an-  tinomia dialettica è il principio di tutta la realtà; la filo-  sofia ha come criterio logico lo stesso principio; dunque la  filosofia, in quanto dialettica, è scienza del reale. La logica  aristotelica invece (che lo Hegel e gli hegeliani chiamano  « astratta » per distinguerla dalla nuova detta «concreta »)  assume come princìpi logici della speculazione quelli d’iden-  tità e non-contraddizione; per conseguenza muove da un cri-  terio logico speculativo diverso da quello — l’opposizione dia-  lettica — che è il principio del reale; dunque non può cono-  scere il reale, di cui si lascia sfuggire l’essenza. Alla logica  «astratta», che procede per esclusione, bisogna sostituire quel-  la «concreta», che fa suo il principio del dialettismo antino-  mico. Così vi è corrispondenza perfetta tra il criterio logico  della speculazione e il principio del reale; anzi il principio 0  la legge del reale (ciò che è reale) è lo stesso criterio logico  o legge del pensiero (ciò che è razionale). La filosofia, scienza  speculativa, è l’espressione perfetta di questa identità, la tra-  sparenza dell’Idea.   Le altre scienze non sono «scienza » in quanto assumono  come principii del reale leggi determinate e fisse, che esclu-  dono la contraddizione. Dunque non hanno valore cono-  scitivo; astratte, si lasciano sfuggire la concretezza del reale.  Scienza è solo la filosofia che è l’antinomia, la contraddizio-  ne, fattasi realtà; perciò è scienza diversa dalle altre e, co-  me tale, decreta la loro non-scientificità o empiricità, nel  momento stesso che conferma la sua sola legittimità scien-  tifica.   Che la realtà presenti antinomie e contraddizioni, anche  sconcertanti, è vero; ma è proprio la contraddizione che pro-    58 Filosofia e Metafisica       voca il pensiero a vederci chiaro e a cogliere la radice, dove i  termini opposti s'incontrano. La conoscenza, filosofica o scien-  tifica che sia, è soluzione di contraddizioni, componimento  di antitesi ad un livello più profondo dell’antitesi stessa. Co-  me dice il Rosmini, l’universo è un grande e sacro libro  aperto da Dio davanti agli occhi dell’uomo e scritto tutto di  quesiti e difficoltà, proposte all’umana intelligenza perchè le  risolva. Dio « col permettere che insorgano nella mente del-  l’uomo delle dubbiezze, o, per dir meglio, delle difficoltà,  ... riscuote l’inerzia di lui e lo provoca alla riflessione ed alla  investigazione del vero» (9). La legge « fissa » non è che  soluzione, diciamo così, « dinamica » della contraddizione,  del dubbio e della difficoltà che han provocato la mente a  comporli. Dunque, anche la legge scientifica, in questo senso,  è sintesi conoscitiva, come lo è il concetto filosofico, ferme  restando le differenze da noi poste sopra tra filosofia e scienza.  Inoltre, se la realtà, almeno come appare, è contraddizione,  ciò non significa affatto che l’essenza del reale sia l’antino-  mia. Fermarsi ad essa è arrestarsi alla superficie o almeno sul-  l’ultimo gradino rifiutandosi di penetrare nella radice pro-  fonda del reale stesso, dove è il componimento di tutte le  antinomie; è indietreggiare di fronte alla metafisica, che è  appunto la filosofia; essere ancora degli empirici; è fare della  filosofia una scienza empirica (sia pure sui generis) come le  altre; è il residuato positivistico che l’idealismo trascenden-  tale non è mai riescito a sciogliere, nonostante i suoi sforzi  metafisici. Nè il principio che sottostà all’antitesi è l’astratto,  ma l’assolutamente concreto. Astratte son le scienze non in  quanto non riconoscono l’antinomia, bensì in quanto non col-  gono (nè è questo il loro scopo) la soluzione ultima, il con-  creto assoluto; ed una zona di astrattezza permane, in questo  senso, anche nella filosofia, quantunque essa sia lo sforzo  massimo che l’umano pensiero possa fare verso il concreto  assoluto, che è l’assoluto Essere e l’assoluto Vero.    (6) Teodicea, n. 9.    Filosofia e concetto di filosofia 59          Ancora: considerare l’antinomia come principio del reale  e criterio logico di speculazione è accettare il dato, la contrad-  dizione, quell’immediato che pur l’idealismo trascendentale,  dallo Hegel in poi, combatte e respinge in nome del pen-  siero che è mediazione. Ciò comprova che esso è ancora al  di qua della filosofia, che è riflessione sul dato, la contrad-  dizione, non accettazione di esso; componimento dell’anti-  nomico nell’identico essenziale, cioè conquista della metafisi-  cità del reale. Con ciò l’idealismo si preclude anche la strada  d’indagare se la soluzione ultima che fonda ed involge le  altre e pur le trascende, che chiude la serie delle antinomie —  al di là della stessa conclusione metafisica pur non più bipo-  larizzata dalla e nell’antitesi ma aderente alla identità del-  l’essere a se stesso — sia possibile alla filosofia oppure trascen-  da la sua capacità. Figlio del Kant, respinge proprio il senso  profondo del criticismo; non arriva al limite massimo della  conoscenza filosofica, dove il pensiero si arresta, e acconsen-  tendo, si dispone a ricevere la verità suprema; al punto in cui  la filosofia legittimamente e col suo assenso si apre alla reli-  gione. Perciò la filosofia, così come è concepita dall’ideali-  smo, fa sua, oltre che l’empiricità delle scienze, l’immedia-  tezza della conoscenza comune e l’astrattezza, propria an-  ch’essa della scienza, di voler ignorare o «risolvere » nel  logo razionale la religione, come se l’uomo non fosse un  « animale religioso» e la religione suprema verità non ridu-  cibile all’ordine di quella filosofica, senza che le contraddica.   Ma l’idealista (anche se non hegeliano ortodosso) ribatte  che la nostra critica è ingiusta, in quanto accettare come cri-  terio logico della speculazione il dialettismo antinomico non  significa affatto fermarsi al dato immediato. L'immediato è  l’antinomia, che la logica astratta esclude in base ai princìpi  d’identità e non-contraddizione, lasciandosi sfuggire la concre-  tezza del reale, che è sintesi degli opposti; la mediazione,  cioè la riflessione filosofica, è la sintesi concreta degli opposti  stessi, che, separati — ogni cosa è identica a se stessa e non    60 Filosofia e Metafisica       può essere diversa da se stessa — sono l’astrattezza impu-  tata alle scienze. Sì, ma la sintesi, rispondiamo, per l’ideali-  smo è sempre un termine posto e considerato dialetticamente,  cioè come elemento dialettico rispetto ad una nuova antitesi;  dunque quel che è reale non è la sintesi ma l’antinomia che  si sposta all’infinito, per cui l’ultimo termine è sempre una  antinomia. Di fronte a ciò che sottostà ad essa (e che è il  vero principio del reale, non più tesi rispetto a un’antitesi e  perciò non più dialettico) l’idealismo si arresta incerto e scor-  nato: o conclude che vi è una sintesi assoluta ed allora il  principio del reale non è più l’antinomia, ma questa sintesi  suprema dove ogni antinomia si risolve, e l’idealismo dialet-  tico nega se stesso; o esclude che vi sia questa sintesi e il  principio del reale ed il criterio logico è la contraddizione,  cioè sempre il dato, anche se retrodatato all’infinito. La me-  diazione è solo provvisoria ed apparente; la riflessione sulla  contraddizione, che è la filosofia, resta sempre riflessione  sull’antinomia, che è il dato.   Per un altro verso ancora l’idealismo riduce la filosofia  ad astrattezza. Identificato dialetticamente il reale con il  pensiero e questo con il processo logico (« ciò che è reale è  razionale, ciò che è razionale è reale »), consegue che la filo-  sofia è panlogismo, cioè riduzione (o dissoluzione?) di ogni  forma di attività spirituale e della realtà tutta al puro cono-  scere razionale. Per conseguenza, la filosofia è costretta ad  astrarre da quanto nell’uomo non è ragione o riducibile a  questa, cioè a far propria quell’astrazione che, come abbiamo  detto, va imputata alle scienze.   Da ultimo, l’idealismo trascendentale nei suoi epigoni —  che, in verità, l’hanno inteso su molti punti a modo loro —  ha voluto essere consequenziario. Spinto dal miraggio del-  l’assoluta immanenza, risolve l’essere nel pensiero, il pensiero  nel pensare in atto — reale non è l’oggetto del pensiero, ma  il pensiero conoscente l’oggetto — l’attualità del pensiero nel  mio pensiero, che non è il Pensiero ma, d’altra parte, non    Filosofia e concetto di filosofia 61       è una realtà trascendente le singole persone pensanti, e ar-  riva alla conclusione che la filosofia non ha un oggetto e /a  conoscenza è la mia conoscenza. In tal modo, la filosofia,  scienza sui generis, conoscenza per eccellenza e la sola rigo-  rosissima, si fa assoluta soggettività; priva di un’oggettività  propria, svanisce come scienza, essa che si era posta co-  me la sola. Lo storicismo, infatti, conclude che la filosofia  non esiste ed è metodologia della storia: « Un forte avanza-  mento della cultura filosofica dovrebbe tendere a questo ef-  fetto: che tutti gli studiosi delle cose umane [ Aristotele dice  che la filosofia è «scienza delle cose divine»; ma Aristotele non  ha scritto di storia e dunque ha fatto opera inutile e da non-  filosofo ] giuristi, economisti, moralisti, letterati, ossia tutti  gli studiosi di cose storiche, diventino consapevoli e discipli-  nati filosofi; e il filosofo, in generale, il purus philosophus,  non trovi più luogo tra le specificazioni professionali del sa-  pere »; l’attualismo afferma che è filosofia ogni forma di  attività spirituale (pedagogia, politica, arte, religione, ecc.),  mentre un seguace di esso, almeno in quell’epoca, sostiene  che non c'è la filosofia come scienza a sè, ma che è la scienza:  la filosofia non è una particolare forma di sapere (filosofia  « astrologica »), ma l'universalità di ogni sapere, sicchè non  ha un campo autonomo d’indagine. Così l’idealismo contem-  poraneo, dalla filosofia come scienza sui generis, autonoma  dalle altre, unica, conclude, in opposizione con le sue pre-  messe, che come scienza a sè non esiste, ma è immanente  ad ogni singola scienza.    4. — La filosofia come ricerca della verità interiore e suo  esito religioso.    Torniamo all’antica definizione della filosofia: amore del-  la sapienza; dunque, ricerca ed aspirazione: la filosofia è  Eros; ed Eros è figlio della Povertà e dell'Abbondanza; di-  vino, perchè è aspirazione al Vero, non è Dio perchè non    62 Filosofia e Metafisica       è possesso della Verità. Platone va integrato con il Cristia-  nesimo; l’amore è sì aspirazione, ma è anche sovrabbon-  danza e perciò non è imperfezione, ma atto di perfezione:  il Dio greco, perfetto, non ama; se amasse non sarebbe Dio,  in quanto aspirerebbe a qualcosa che non è; il Dio cristiano,  perfettissimo, è essenzialmente Amore.   La perfezione o l’essenza della filosofia è la ricerca, lo  sforzo di riflessione; perciò non è la Sapienza divina:  Dio è la Veritas, la filosofia è il quaerere veritatem (?). Come  tale ha sempre dei limiti: sottintesi, concessioni, presupposti,  ipotesi, ecc., che la riflessione non riesce mai ad esplicare  interamente; perciò non è verità totalmente dispiegata. La  filosofia, che è sforzo, resta sempre aspirazione al di là del  limite; perciò la sua essenza di ricerca ha come oggetto Dio,  l'assoluta Verità. Anche quando riflette su cose o problemi  particolari, la filosofia è sforzo di riflessione su Dio, sua meta  agognata ed irraggiungibile. Ciò non significa che sia solo  aspirazione; è anche produzione di verità; perciò è problema,  ma non lo sarebbe se non fosse, come tale, richiesta di solu-  zione. Il platonico Eros filosofo, infatti, partorisce nel Bello,  nel Bene, nell’Essere; i suoi parti sono nella verità che il  filosofo, dubitando e cercando, trova, scopre dentro di sè:  verità oggettiva innata. E anche qui Agostino va oltre Pla-  tone: la verità abita în interiore homine, non come dato  di cui si risveglia la memoria, ma come presenza peren-  ne, di cui la coscienza non si accorge quando è distratta,  lontana dalla sua voce, che parla dentro ed è presente anche  quando non è ascoltata. Che cosa stimola e guida la ricerca?  La Verità non conosciuta, ma per la quale l’uomo ha la  vocazione; perciò la ricerca è almeno iniziale possesso del  vero, a cui l’anima aspira. Che cosa sono i veri che la  mente trova? Perchè la voce della verità, pur interiore a noi  più di quanto noi non lo siamo a noi stessi, può non essere  ascoltata? E quando lo è?    (7) S. Acostino, De vera religione, XXXIX, 72.    Filosofia e concetto di filosofia 63       I veri che la mente scopre sono le risposte che il filosofo  dà alla verità, testimonianza del suo amore; il loro insieme  è il mondo ideale, il regno dello spirito, il solo veramente  reale. L’unica infinita verità è conosciuta dall’uomo in alcuni  dei suoi infiniti aspetti: l’uomo conosce delle verità, non la  Verità; possiede il lume dell’intelligenza che, illuminandola,  fa la ragione giudice delle cose di esperienza. Ogni singolo  vero è concreto vero, sintesi dell’universalità dei principii e  delle determinazioni di esperienza. A chi obiettasse che i  principii in sè sono astratti, rispondiamo che è astratto e perciò  irreale il puro particolare (almeno dal punto di vista specu-  lativo), mentre è concreto e perciò reale il particolare illumi-  nato dai principii, dove trova appunto la sua verità e con  essa la sua realtà: la rinunzia della filosofia all’universalità è  la rinunzia della filosofia a se stessa, la sua autonegazione.  Evidentemente la determinazione è limitazione e perciò noi  conosciamo i veri, ma non la Verità nella sua pienezza, nè i  veri quali sono nella pienezza della Verità che è. Nè una sola  determinazione, nè tutte insieme possono esaurire l’infinita  possibilità di conoscere che è il pensiero umano; perciò niente  può appagare l’uomo, nessuna cosa, nessun vero, tranne la Ve-  rità in sè; dunque, è fatto per Dio, perchè solo Dio, l’unum  necessarium, può appagarlo. La vocazione dell’uomo è la stes-  sa vocazione della filosofia; non per nulla è uomo per il  pensiero. Il lume d’ intelligenza e di ragione, universale e  infinito, è la sua possibilità di conoscere la Verità, ma senza  che egli disponga della capacità di tradurla in atto; l’immagi-  ne di quel che è l’assoluto Vero nella sua realtà. Per questo  il filosofare è ricerca e sforzo, non la sapienza a cui aspira.  D'altra parte, partecipando l’uomo della verità, porta conna-  turata la molla che lo spinge ad essa, conficcata la spina che  lo fa saltare per elevarsi fino a Dio, ma il salto, per altissimo  che sia, è sempre infinitamente corto. È la sua grandez-  za e la sua miseria; l’umana tristezza, la magnanima no-  bile angoscia del filosofo e della filosofia, mestizia confortata    64 Filosofia e Metafisica       dalla speranza che non può non nutrire chi veramente ama  il vero ed insita nell’eroico sacrificio della ricerca indo-  mabile. Perciò filosofare è moralità: implica l’impegno ini-  ziale che il filosofo assume di cercare ex veritate; l’umiltà  del soggetto pensante di fronte alla verità che cerca, già  ama e verso la quale volge tutti i suoi sforzi. Una formula  filosofica, un concetto speculativo è opera della mente, che  con esso esprime un valore assoluto; perciò è risposta a Dio,  sorgente di tutte le verità, Verità creatrice dei veri, Libertà  creatrice di libertà. L’essenza di sforzo che è la filosofia è  dunque decisione di diventar buoni, di amare l’essere dovun-  que s’incontri secondo il suo grado: la legge della ricerca filo-  sofica è la stessa legge della morale. « Non ci par degna del  titolo di Sapienza quella cognizione che nulla opera sul cuore  umano e che, quasi inutile peso, ingombra la mente del-  l’uomo mortale senza accrescergli i beni, senza diminuirgli i  mali e senza appagare o consolare almeno di non menzognera  speranza, i perpetui suoi desideri » (°).   Se non è così, la filosofia non è più tale: è la caduta del  pensiero, di tutto l’uomo. Perciò la filosofia è ascesi, inizia-  zione alla verità, come Platone dimostra in più parti dei suoi  dialoghi e soprattutto in alcune pagine immortali e bellissime  del Fedone. Ogni vero trovato è anche acquisto di una virtù  intellettuale o pratica, norma regolatrice del nostro pensare e  del nostro agire. Nè alcun vero si può trovare se lo spirito  non si è disposto a trovarlo, se non è passato attraverso il  difficile esercizio della purificazione. Perciò la filosofia è  perfezionamento della natura umana: mortificazione, non  compressione, delle sue debolezze. Non è contro la na-  tura umana secondo un malinteso misticismo ascetico o un  arido moralismo di astratta ragione, ma contro le sue mise-  rie, affinchè sia autenticamente umana natura, e il filosofo  quel libero uomo, che stupendamente Platone tratteggia nel  Teeteto: libero dalle passioni e dagli inganni sensibili e per-    (8) Rosmini, Teodicea, n. 4.    Filosofia e concetto di filosofia 65    ciò riscattato all’autentica sensibilità; libero dalla passione  della ragione, che pretende di essere il vero e si ribella di  esserne scolara e perciò ricco di verace ragione e di profonda  umanità: un0 spirito razionale ragionevole e non un cervello  razionale irragionevole. Gli è dunque essenziale l’umiltà, ra-  dice e guida della filosofica ascesi: umiltà di sentirsi creatura  e di amare in sè il Creatore, testimonianza dell’Essere e  del Bene, che cerca ed ama; di amare la propria esistenza  come dono e dunque come atto amoroso. L’umiltà, che è  legge d’amore, rende morali l’intelletto e la volontà ed ef-  ficace l'impegno di vincere le nostre passioni e debolezze;  ci dà il senso del sacrificio purificatore a cui siamo chiamati  per ascendere o filosofare. Pertanto è sacrificio che accresce  l’umanità dell’uomo, come la potatura del secco fa adorna  e vigorosa la pianta.   La filosofia è volontà di sacrificio: chi filosofa è consa-  pevole di esser vittima della Verità. Perciò è rinunzia a  quanto ostacola l’amore e il possesso interiore dell’unum ne-  cessarium; dolorosa rinunzia, a volte, e dunque ancora uma-  nissima. Provocatrice di essa, la filosofia è choc, scuotimento  di tutto l’essere umano, frattura con quanto non è essenziale  al suo essere o è d’impedimento al raggiungimento della ve-  rità. Il suo oggetto è Dio; Lo cerca, vuol conoscerLo, posse-  derLo. La filosofia è charitas naturale, che si esercita col lume  della ragione, datoci da Dio come il solo che ci faccia desi-  derosi di Lui e sia condizione per conoscerLo. La Grazia, in-  fatti, è data soltanto alla natura intelligente: il lume sopran-  naturale al lume naturale.   Ma l’uomo da solo, per filosofo che sia, sacerdote e sup-  plice della verità, non riesce ad esserne veramente vittima: le  miserie s’infiltrano sempre. Resta il tipo del saggio, non del-  l’antico — modello di condotta nella sua superiore e superba .  imperturbabilità — ma del cristiano, coscienza vivente di  dubbi e fede, di amore e speranza, di sacrificio e carità, pe-  rennemente insoddisfatto e perennemente in attesa di rice-    66 Filosofia e Metafisica       vere il dono che cerca. Egli non impersona nè la sapienza nè  una determinata scienza, ma lo sforzo sublime verso la sa-  pienza, l’appello perenne della creazione. Attesta la realtà  dell'Essere, i limiti del pensiero, il gran benedetto e il gran  maledetto da Dio, il perduto dal peccato e il riscattato dalla  verità, fatto per la verità e che pure è più spesso sofisma e  dubbio, negazione e distruzione. Si sacrifica in una formula,  il filosofo, che può sembrare morta astrazione a chi ignora  quanta vita (tutta la vita) si racchiuda in essa. Sacrificio senza  successo, che non vanta possessi o dominii; silenzioso, per-  chè cripta che accoglie e conforta di pace la nudità del-  l’anima; perciò autentico, che non rimpiange le caducità per-  dute, non attende dagli uomini niente di male o di bene e  conosce solo l’ansia per la verità sofferta. E quando il Bene  tanto desiderato folgora la mente, il filosofo sa che non lo  potrà esprimere; è effabile soltanto lo sforzo di attingerlo, il  sacrificio, l’essere sua vittima; la Sapienza che si dona resta  inedita per tutti, tranne per colui a cui è donata. Vi è  nella filosofia un’interiorità profonda, insondabile, che non  si esprime e non s’insegna; perciò non s'impara come si fa ad  essere filosofo (non è un mestiere): non lo saprà mai chi non  lo esperimenta.    5. — La filosofia come sforzo di « ascesi » ed itinerario a Dio.    Da quanto abbiamo detto filosofia risulta essere: a) amore  per la Verità o per Dio, essenza di sforzo; b) possesso di veri  parziali; c) ciascuno dei quali è acquisto di bene morale;  d) perciò è purificazione ed ascesi, potenziamento non nega-  zione dell’umanità dell’uomo; è riconquistata chiarezza del-  l’autentico valore della creatura e della creazione. La sua  essenza è dunque morale ed il suo fine è Dio. La filosofia ha  la stessa finalità della religione.   Non s’identifica con essa, ma ne ha bisogno: si ferma  alla porta, bussa e chiede. Platone, forse per primo, nel Fe-    Filosofia e concetto di filosofia 67       done, vide esattamente il problema e ne fissò i termini. Fi-  losofia e religione, egli dice, hanno in comune il fine di li-  berare l’anima dal sensibile e dalla schiavitù delle passioni,  ma mentre la religione « si affida ad una divina rivelazione »,  la filosofia invece «segue il raziocinio ed in esso persiste  ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero,  del divino, di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi,  e da ciò trae il suo vital nutrimento ». Ebbe torto Epicuro di  eliminare dall’ideale della perfezione morale la via religiosa  e di ridurre tutto a filosofia. Certo la via della ricerca è la  ragione, meglio il pensiero che è l’uomo nella sua inte-  rezza, ma l’oggetto ultimo della ricerca speculativa è la ve-  rità assoluta o Dio; dunque, l’umano pensiero non può mai  perfettamente conoscere, da solo, l'oggetto della sua aspira-  zione.   La filosofia lo guida fino alle porte di Dio; è sforzo di ascesi  non assunzione alla verità. L'essere assunti è un dono gra-  tuito, che la verità fa di se stessa a chi l’ha interamente amata;  è la charitas soprannaturale che si dona alla charitas naturale,  al filosofare. L’ultimo suo grado non è il possesso di Dio, ma  l'apertura a Lui, come dice il Blondel. Ascendere fino ad  un certo grado è in nostro potere; l'assunzione no; dunque la  ragione è il dono naturale necessario, ma non sufficiente  avente lo scopo preciso (ma quanto defettibile!) di spingerci  alla conoscenza ed al possesso della Verità.   La filosofia, « liberatrice dell’anima » (secondo un’espres-  sione agostiniana) o ascesi, ha come suo fine supremo Dio,  cioè la nostra salvezza; il realizzarlo non dipende da essa: è  Dio che salva; a lei compete soffrire, combattere ed amare,  nutrire speranza, nutrirsi di fede. La soluzione assoluta del  suo problema assoluto è nella religione rivelata, nel gratuito  folgorar della grazia. È la grande verità di Agostino: la fi-  losofia prepara alla salvezza (moralità), non dà la salvezza  (religione). Il problema della morale è filosofico, la sua solu-  zione è teologica: i due ordini sono immensurabili. La fi-    68 Filosofia e Metafisica       losofia, autonoma come ricerca — ritrovamento dei veri e  conquista di virtù — non lo è come soluzione finale,  come salvezza, acquisto dell’unum mecessarium, che costi-  tuisce la sua essenza di sforzo. Una filosofia assoluta-  mente autonoma è senza salvezza: amore senza speranza e  senza fede; i saggi greci erano « senza speranza », come dice  San Paolo. E questo perchè, scrive Pascal, « la vraie nature  de l’homme, son vrai bien, et la vraie vertu, et la vraie  religion, sont choses dont la connaissance est inséparable ».   Significa che la religione neghi la ragione e con essa an-  nulli e snaturi la natura umana? Niente affatto. La fede eleva,  non uccide; Grazia non destruit naturam sed perficit et ele-  vat cam, scrive San Tommaso. E nel Rosmini si legge: « Che  se la ragione scorge l’uomo al limite della fede, essa a questa  ancora il consegna, come a più certa guida e a più sublime  maestra. — Macchè! La fede stessa lo riconduce poscia alla  ragione, che diviene maestra sicura e guida infallibile quando  dalla fede è confortata e sorretta ». Evitare i « due eccessi »:  «esclure la raison, n’admettre que la raison », in quanto « si  on soumet tout à la raison, notre religion n’aura rien de my-  sterieux et de surnaturel; si on choque les principes de la  raison, notre religion sera absurde et ridicule » (Pascal). La  ragione si dona alla fede, perchè riabbia da essa quel che ha  perduto e non ha più; e la fede è sempre generosa genitrice  d’intelligenza, via di spirituale salute e di eterna beatitudine.    CapritoLo II    « COME BISOGNA CONCEPIRE LA FILOSOFIA? »(*)    |. — La filosofia come ricerca « perennis » della verità.    Domanda quanto mai imbarazzante, questa. Sì, « conce-  pire » non è propriamente « definire », ma ogni « concezio-  ne » porta implicita una « definizione ». Ora, è tutt'altro che  facile, ancora oggi, dire « che è filosofia ». Il matematico sa  da tempo che è matematica, il biologo che è biologia; noi fi-  losofi non siam così fortunati, se pure quella è una fortuna:  non sappiamo ancora che è filosofia — dico, non lo sap-  piamo in due parole, alla spiccia, come due più due fan  quattro —. Gli scienziati ridono dell’imbarazzo del filo-  sofo, ma hanno torto: la filosofia non può chiudersi in  una formula, in quanto il suo oggetto di ricerca e rifles-  sione è infinito, perchè nessuna formula può esaurirne,  «comprenderne », la totalità. Perciò nessuna umana ricer-  ca è tanto perennis ed universale quanto quella filosofica.   La filosofia come scienza del reale nella sua totalità, evi-  dentemente, è scienza sui generis; nell’ordine delle scienze  umane è la sola autonoma: il suo rimando — fondamentale  e non accessorio, intrinseco e non estrinseco — è solo ad un  sapere di ordine non più razionale e naturale, ma super-ra-    (*) Il « Centre International de Synthèse » di Parigi ha pubblicato nel fasc.  di luglio-settembre 1947 (Tom. XXI, Nouvelle Série) della « Revue de Synthèse »  le risposte a questo tema generale proposto alla discussione, alla quale fummo  gentilmente invitati a partecipare. Il testo italiano che qui si ristampa contiene  qualche pagina in più di quello francese.    70 Filosofia e Metafisica       zionale e soprannaturale. Nessun'altra scienza è autonoma:  la storia, per esempio, ad un certo punto rimanda al problema  del suo significato, dello scopo ultimo delle vicende dei secoli,  ecc.; le scienze naturali pongono invincibilmente numerosi  problemi (che è il mondo? quale la sua origine? ha una fi-  nalità ? che sono tempo e spazio?) che non compete ad esse  risolvere. A questi e ad altri interrogativi è chiamato a ri-  spondere il filosofo e, se anche lo storico o lo scienziato, non  in quanto tali, ma in quanto filosofi. In questo senso, si  può dire che la filosofia è l’unità delle singole scienze,  scienza prima e ultima, in confronto alle altre che sono  seconde o penultime. Per la sua stessa natura, la filosofia  è ricerca della verità; se ricerca, non è la verità, l’ogget-  to che la trascende e guida. D'altra parte, abbiamo detto  che è scienza del reale nella sua totalità; perciò dobbiamo  dire del reale in quanto verità. Ancora: la verità è di ordine  spirituale; dunque la filosofia è scienza dello spirito che cerca  — e nella ricerca è impegnato tutto l’uomo — la Verità to-  tale o il Reale in sè, che fonda e fa essere ogni altra verità o  reale finito; è il cammino dell’uomo, che dotato del lume  d’intelligenza e ragione, cerca l’oggetto ad esso adeguato, a  cui perennemente tende, senza che abbia ad osare di pre-  tendervi.    2. — La filosofia e suoi rapporti con la sua storia e la scienza.    Ma è tempo che rispondiamo direttamente a quel che il  Centre ci ha gentilmente domandato: fornire argomenti pro  o contro l'orientamento del pensiero del Cenzre stesso, il quale  sostiene «une certaine conception de la philosophie dan ses  rapports avec son histoire et avec la science ». Nessuno certo  vorrà negare questi rapporti, ma tutti credo sentiranno il bi-  sogno di precisarne i termini; infatti, è necessario sapere cosa  s'intenda per storia della filosofia per poter poi stabilire i  rapporti tra essa e la filosofia. Precisazione anche opportuna,    Filosofia e concetto di filosofia 71       se si pensa che, in Italia, per esempio, l’idealismo neohege-  liano ha identificato filosofia e storia della filosofia al punto  di risolvere l’una nell’altra e tutte e due nella storia della  cultura, onde la filosofia ha finito per essere tutto 0, quel che  è lo stesso, per non esser nulla, per non avere più un oggetto  proprio; se si pensa che, il positivismo, di cui nel mio Paese  ormai non è facile trovar tracce a prima vista riconoscibili  (tanto che qualche volta verrebbe voglia d’inventarsi un posi-  tivista per averlo aperto e sincero avversario al posto di altri  che si chiamano impropriamente «idealisti» e «spiritualisti»),  ha concepito la storia della filosofia come pura esposizione  «oggettiva » di sistemi e di « fatti» riguardanti la vita dei  filosofi: ci ha dato compilazioni spesso filologicamente pre-  gevoli, ma aventi il torto di mettere da parte la filosofia.  Similmente, per stabilire i rapporti tra filosofia e scienza è  altrettanto necessario sapere che cosa sono l’una e l’altra e  quali i rispettivi campi di competenza, per evitare che la fi-  losofia non spinga il suo distacco dalla scienza fino al punto  da negare a quest’ultima la qualifica di « scienza »; 0, al con-  trario, che la scienza non pretenda ridurre la filosofia a sem-  plice registratrice dei risultati scientifici; ad una particolare  scienza, come se la filosofia fosse una qualsiasi specialità; al-  l’insieme delle scienze, come se fosse l’insieme delle specialità;  alla conoscenza della natura fisica, sulla base dei contributi  delle scienze particolari, come se essa dovesse restringere la sua  indagine alle percezioni e alle leggi naturali, dimentica dello  spirito e dei suoi problemi, cioè di se stessa, che, come ricerca  filosofica, è già scoperta della realtà spirituale e, per sua in-  trinseca necessità, conseguente approfondimento metafisico  del suo destino.   Detto ciò, credo che il nostro punto di vista appaia già  chiaramente molto diverso da quello proposto dal Cenzre, il  quale, a quanto sembra, è per una concezione della filosofia  come « synthèse des connaissances» «science plénière ». Se  « sintesi» e «scienza plenaria» qui significano composi-    72 Filosofia e Metafisica          zione o unione delle conoscenze in un tutto, non possiamo  accettare questa concezione della filosofia, la quale ha pro-  blemi propri, estranei alle altre scienze, ad ogni singola come  al loro insieme, anche se per i suoi problemi possa ricevere  lumi ma non soluzioni dai ritrovati scientifici, che, nel loro  complesso — il più completo e sviluppato — non esauriscono  ‘e non esauriranno mai il contenuto della ricerca filosofica, la  plénitude a cui essa aspira e per la realizzazione della quale  tutto l’universo è insufficiente. A noi italiani, il termine  Science con la maiuscola richiama il non lieto ricordo dei  tempi del positivismo, quando si divinizzava la scienza, la si  profetizzava risolutrice di tutti i problemi, anche morali e  religiosi, con grave danno per la serietà della scienza stessa,  fatta idolo da adorare, tanto che le cosidette réveries della me-  tafisica facevano bella figura al confronto con le nuove réve-  ries.... scientifiche. La Science, intesa come sapere assoluto e  totale, non è più tale, ma idolatria e superstizione, fanatismo  della scienza. Il controllo della filosofia fa sì — ed essa è chia-  mata ad esercitarlo anche sopra ogni vero filosofico pretenden-  te a porsi come verità totale — che ogni verità scientifica e la  scienza in generale acquistino consapevolezza dei loro limiti e  rinunzino ad una pretesa totalitarietà di sapere, che è solo arbi-  traria extrapolazione e maggiorazione a volte aberrante di una  verità parziale assunta a spiegazione di tutto il reale. Duplice  dommatismo: di estensione — il sapere scientifico è esplicativo  di ogni aspetto della realtà —; e di validità — esso è assoluto.  Il controllo critico della filosofia rileva l’inconsistenza di tale  dogmatismo e svuota il funesto mito illuministico dell’infal-  libile scienza onnicomprensiva e della coincidenza tra pro-  gresso scientifico, progresso culturale e miglioramento spiri-  tuale dell'umanità. È ormai un fatto di esperienza che il più  basso livello di cultura e una rudimentale coscienza morale e  religiosa possono coesistere con la tecnica più progredita:  nessuna scoperta o invenzione scientifica ha mai fatto pro-  gredire nello spirito un solo uomo e mai ne ha elevato di un    Filosofia e concetto di filosofia 73       solo millimetro la statura morale; anzi la decadenza della  cultura occidentale coincide con lo sviluppo della scienza e  della tecnica moderna e il suo precipitare nel fondo dell’in-  cultura con il loro vertiginoso progredire.   Conveniamo con il Centre che, nella successione delle  filosofie, vi è « une logique interne » e che « dans le retour  méme des doctrines, un progrès s'est accompli ». Ma, dire  che il ritorno di dottrine filosofiche segna un progresso — oggi  come domani, si può essere, senza scandalo, platonici o ari-  stotelici, agostiniani o spinoziani, tomisti o hegeliani, mentre  non si può essere più, per esempio, tolemaici dopo Copernico,  Galilei e Keplero — significa affermare inconfutabilmente che  la filosofia è una scienza diversa dalle altre, non riducibile ad  alcuna di esse o al loro insieme, con problemi, soluzioni e ve-  rità proprie, per cui non può essere la « science plénière »  nel senso di « somma » (quanta meccanicità in questa parola!)  dello scibile. Si è che, tra filosofia e scienza, prima di stabi-  lire un rapporto quale che sia — anzi affinchè esso possa  essere fondatamente stabilito — riteniamo sia necessario  fissare una differenza non di quantità, ma di qualità. La filo-  sofia, infatti, è conversione qualitativa di esperienze e di fatti  quali che siano, trasposizione di essi in un piano diverso, in  un ordine superiore.    — La filosofia come metafisica. Essenzialità della filosofia  e inessenzialità delle scienze.    Perciò noi non possiamo accettare, anzi siamo costretti a  rovesciarne i termini, la concezione della filosofia proposta  dal Centre e cioè: «que la synthèse des connaissances s’est  constituée, et se poursuivra, pour répondre aux questions que  posaient les philosophies, depuis les origines, pour substituer  peu à peu le positif à l'a priori, les vérités de la science aux  imaginations ou aux réveries de la métaphysique ». Che è  questa « sintesi delle conoscenze » che si propone rispondere    74 Filosofia e Metafisica       alle questioni che pongono i filosofi « depuis les origines » ?  Per noi è proprio il contrario: sono le conoscenze particolari  delle singole scienze che pongono domande ai filosofi, affin-  ché costoro — da filosofi, con metodo filosofico e con spi-  rito speculativo — rispondano. Non è la scienza chiama-  ta ad esercitare un controllo sulla filosofia (e quando lo  esercita, esso si rivolge alle stravaganze pseudofilosofiche o  ai sofismi che non sono filosofia), ma la filosofia sulla scienza,  i cui principii sottopone a critica. Secondo le parole sopra ri-  ferite, sembrerebbe che il compito della scienza, nei con-  fronti della filosofia, sia quello di dimostrare quanto siano  immaginari i filosofemi escogitati dai filosofi e fanta-  stiche le loro costruzioni metafisiche, gli uni e le altre da  sostituire con « verità scientifiche ». A parte tutto, è facile  ribattere che le « imaginations » e le « réveries » della scienza,  come comprova la sua storia, non hanno niente da invi-  diare a quelle di alcuni filosofi: vi sono le « rèveries de la  métaphysique » e le «réveries de la science »; ma come si  avrebbe torto a dire che tutta la scienza sia fantasticheria,  così si ha torto ad identificare la metafisica con la strava-  ganza, quasi si trattasse di una manifestazione patologica  della mente umana. Difendere la metafisica, per noi, è di-  fendere l’essenza stessa della filosofia: se la metafisica fosse  fantasticheria, fantasticheria sarebbe anche la filosofia; ma  si può affermare dogmaticamente che le metafisiche e la  ‘metafisica siano senz'altro fantasticherie? Se così, è fanta-  sticheria la filosofia che, dalle origini ad oggi, è stata sem-  pre metafisica; fantasiosa la ragione umana che pone, come  suo bisogno fondamentale essenziale e naturale, l’esigenza  insopprimibile di un sapere metafisico. Mi faccio forte del-  l’autorità dello stesso Kant che, nella «Prefazione » alla  prima edizione della Critica della Ragion pura rileva come  i « sedicenti indifferenti » per la metafisica « finiscono per  cadere sempre in affermazioni metafisiche »; e ne traggo la  conseguenza legittima ed evidente: essenzialità della filosofia    Filosofia e concetto di filosofia 75       e inessenzialità delle scienze. Il sapere scientifico è infor-  mativo; la scienza soddisfa una curiosità intellettuale; il  sapere filosofico è formativo e terribilmente impegnativo:  risponde ad un bisogno totale dell’uomo totale. Si può non  essere scienziati, non si può non esser filosofi: alla filo  sofia non ci si può sottrarre. L'avventura della scienza si  può correre e non correre; l’avventura della filosofia è  obbligatoria per ogni uomo che non voglia sopprimere la  richiesta essenziale della sua umanità profonda. L’uomo è  naturalmente compromesso a percorrere l’itinerario della  filosofia, cioè, a dialogare con la verità, a collocarsi nel mo-  mento essenziale della ricerca essenziale. Di qui la «se-  rietà » dell’indagine speculativa, l’intransigenza del filosofo.  La filosofia è « molesta » a chi filosofa e soprattutto a quanti  si adagiano nelle consuetudini e negli ordini costituiti; per-  ciò rischia sempre la cicuta, mentre la scienza in ogni epoca  è circondata di rispetto e protezione.   Ancora: che significa « substituer peu à peu le positif  à 1° priori »? Che s'intende per « positivo » e per «a prio-  ri»? Positivi sono i « fatti», dicevano i positivisti; noi, me-  glio, che reali sono quae facta sunt, ma tra le cose quae  facta sunt vi è anche l’uomo, il pensiero, lo spirito, il quale  «è positivo », ma è l’«a priori » di ogni fatto; infatti, non  vi è « fatto », almeno nel senso filosofico, che non sia anche  coscienza del fatto. Un fatto positivo, diceva Pascal, sono  anche Dio, la Rivelazione e la Chiesa. Riconoscerebbe il po-  sitivismo questi « fatti»? A forza di sostituire il positivo  a l’a priori, nel senso in cui i termini sono usati dai posi-  tivisti, si finisce nel più piatto e scoraggiante empirismo,  pericoloso all’esistenza stessa della scienza e misconoscitore  dei diritti dello spirito. Non vi è fatto positivo senza espe-  rienza nel senso più esteso della parola, ma non vi è cono-  scenza intellettiva del positivo — degli enti finiti che costi-  tuiscono il reale cosmico — senza un 4 priori; e il reale  finito, per ciò stesso, rimanda al problema dei suoi prin-    76 Filosofia e Metafisica       cipii costitutivi, cioè alla metafisica, che nessuna verità scien-  tifica potrà mai sostituire. Dunque, di positivo c’è solo la me-  tafisica, anche se, per sua buona sorte, non è positivistica.    4. — Ancora sulla distinzione fra filosofia e scienza.    Per il Centre, il filosofo è un gran peccatore contro la  filosofia senza essere un penitente. Infatti: « Il explique le  réel par l’imaginaire. Il explique le tout par une partie du  réel. Il fait prédominer la tradition ou le sentiment sur la  raison. Il cerche l’originalité è tout prix. Par une forme  personnelle, il rend la pensée floue ou obscure. Il est poète,  artiste, métaphysicien, ou mage, au lieu d’étre le pur inter-  prète des résultats acquis par l’effort collectif des généra-  tions pensantes ». Dato il modo come il Centre intende la  filosofia, si può spiegare questa severa requisitoria contro il  povero filosofo; dato il modo come la intendiamo noi sono  necessari chiarimenti e precisazioni.   Innanzi tutto, se è vero che ciascun filosofo o tutti in-  sieme non sono la filosofia (perisca il filosofo, ma viva la  filosofia), è anche vero che, storicamente, i filosofi e i loro  sistemi lo sono; pertanto, i terribili peccati dei filosofi sopra  elencati, sarebbero anche della filosofia. E allora, perchè ce  ne occupiamo, se essa spiega il reale con umagiazio, sa-  crifica la verità all’originalità ad ogni costo ecc.? Chi po-  trebbe assolvere il filosofo e la filosofia? Forse la scienza,  che non sarebbe soggetta a questi traviamenti? E perchè,  nonostante tutti i trascorsi della filosofia, gli uomini non ne  hanno mai potuto fare a meno, mentre, come dice ancora  Pascal, possono fare a meno di tutte le scienze? Perchè  quando l’uomo si trova di fronte a se stesso e al problema  della sua consistenza, cioè quando veramente pensa in al-  tezza e profondità (metafisicamente, appunto) non chiede  risposta alla matematica, all’astronomia o ad altra scienza,  ma alla filosofia?    Filosofia e concetto di filosofia 77       La requisitoria di sopra è dunque da rivedere. Se il filo-  sofo « spiega il reale con l’immaginario » è da riprendere  subito; ma se s'intende per «immaginario » ogni principio a  priori o metafisico, è da consigliare di spiegare il reale con-  tingente e particolare proprio con i principii necessari ed uni-  versali. Se sottomette la ragione alla tradizione e al senti-  mento è da ammonire che la filosofia è ricerca razionale;  ma anche quelli sono patrimonio spirituale dell’uomo al  pari della ragione. Se è poeta ed artista non è certo filosofo,  ma non è poi sì gran danno poichè anche arte e poesia,  come tali, son verità. Se metafisico, diciamo che è davvero  filosofo; e quanto ad essere « mago », credo che questa pa-  rola siastata messa accanto all’altra di « metafisico » solo  per spirito polemico, senza che risponda ad una afferma-  zione positiva che si presti ad essere discussa. Se poi cerca  l'originalità ad ogni costo, invece che la verità, è da con-  dannare senz'altro, ma come « un originale » non come « un  filosofo »; così pure se spiega il tutto con una sola parte del  reale, facendo un'’illegittima maggiorazione d i un principio   arziale; ma anche di ciò, come abbiamo detto, è respon-  sabile la scienza, per esempio, quando presume sostituirsi  alla filosofia e risolvere problemi che non le competono.   Secondo il punto di vista del Centre, affinchè il filosofo  non pecchi, bisogna che sia «il puro interprete dei risultati  acquisiti dallo sforzo collettivo delle generazioni pensanti ».  In parole mie, questa affermazione significa: « perchè il  filosofo sia filosofo e non erri bisogna che smetta di fare  il filosofo ». Una delle due: o egli si limita a registrare i  risultati acquisiti (da chi? dalle scienze?) e non fa filo-  sofia e nemmeno storia della filosofia; o « interpreta » i ri-  sultati acquisiti nel senso che li ripensa, li fa propri per acqui-  sire nuovi risultati, che segnano un avanzamento della ve-  rità rispetto ai primi, e in tal caso è filosofo, se i suoi  risultati sono filosofici e non puramente scientifici. Pecche-  rei di indelicatezza dicendo che da un pezzo in Italia una    78 Filosofia e Metafisica       tale concezione della filosofia si considera pacificamente sor-  passata, se la mia conoscenza, credo sufficiente, della filo-  sofia francese contemporanea non mi autorizzasse a dire  che anche in Francia non pochi e non certo trascurabili pen-  satori sono del mio stesso parere. Del resto, anche gli stessi  teorici della scienza, universalmente, fondano ormai i rap-  porti tra scienza e filosofia sulla base di una diversa con-  cezione di quest’ultima.   In due punti il Cenzre insiste sulla concezione della filo-  sofia come « sforzo collettivo », come «coopération à un  grand oeuvre collectif »; purtroppo, nemmeno questa volta  posso trovarmi d’accordo. Se scienza e filosofia s’identifi-  cassero, niente da dire; ma siccome sono due forme di atti-  vità da tenere ben distinte (anche se non separate), ProprlO  questo è uno dei punti di distinzione: la scienza è opera  sforzo collettivo, la filosofia opera di sforzo personale. Mi  spiego: uno o più scienziati iniziano la loro ricerca dal punto  in cui l’hanno lasciata i loro predecessori e la spingono fino  ad un certo grado per lasciarla nelle mani di altri e così  via; nè i successori rimettono tutto in questione, ma accet-  tano, come acquisito, il risultato raggiunto dagli altri. L’ ogget-  tività della verità scientifica è impersonale e perciò la scienza  è sforzo collettivo, opera di collaborazione ed è bene che lo  sia. Non così la verità filosofica: è oggettiva, ma non imper-  sonale; è impegno totale del filosofo, è la sua (personale) verità  oggettiva. Essa non può essere accettata z0ut court da un  altro filosofo, ma ripresa e ripensata, fatta sua; e la decisione  è opera del singolo, non di più uomini. Ciò dimostra non  il soggettivismo o il relativismo della verità filosofica, ma  il maggiore interesse che essa ha per l’uomo rispetto a qual-  siasi verità scientifica; prova l’assoluta spiritualità della filo-  sofia, il suo carattere d’interiorità e, diciamolo pure, la sua  capacità creativa: se il poeta, il filosofo, lo scrittore non  cominciano da capo, non usano le parole più comuni come  nuove di zecca, come se mai nessuno prima le avesse usate,    Filosofia e concetto di filosofia 79       non c’è poesia, non arte, non filosofia: non c’è opera di  creazione. Ogni uomo non è la sua scienza, ogni filosofo  è la sua filosofia, in quanto ogni scienza o tutte le scienze  insieme non sono l’umanità o spiritualità dell’uomo; la  filosofia lo è, anche se non può dare la soluzione totale:  al limite massimo si apre ad una verità che non è razio-  nale ma superrazionale, non di ordine umano, ma divino  o soprannaturale.   Ciò chiarito, consentiamo col Centre nel deplorare il sog-  gettivismo radicale di certa filosofia contemporanea che si  perde in puri stati d’animo, in forme morbose e decadenti  di tormento e angoscia, specie di barocco filosofico. Ma non  tutto l’esistenzialismo va condannato (per esempio, alcune  forme di quello francese meritano la più attenta conside-  razione) e, in qualunque caso, di esso va conservato il senso  della persona umana, il richiamo all'importanza della meta-  fisica che sia tale e non pura descrizione fenomenologica e,  quando ce l’ha, quell’anima religiosa che ha il merito di  aver contribuito a recuperare alla ricerca filosofica.   Ma è tempo che concludiamo senza più oltre abusare  della ospitalità che ci viene concessa. Lo facciamo come noi  possiamo farlo: 4) vi è stata una rivoluzione perenne nella  filosofia dovuta a Platone: non le cose sono reali, ma le  Idee, e non le Idee aspirano al grado di realtà delle cose,  ma queste al grado più alto di realtà delle Idee. Reale e  positivo è lo spirito e la filosofia è scienza dello spirito e  lo spirito è verità. 5) La scoperta platonica è stata inverata  dal Cristianesimo che ai concetti di reale, verità, persona,  Dio ecc. ha dato ben altro significato. c) La filosofia è solo  scienza che è sapere e saggezza; pertanto i « réveils reli-  gieux » e le « réveries mystiques », verso cui il Centre sembra  tutt'altro che tenero, sono, i primi quanto mai benefici an-  che per una maggiore consapevolezza e coscienza critica  della filosofia e le seconde tutt'altro che «réveries». Da  ultimo, diciamo che di Scienza con la maiuscola non ne    80 Filosofia e Metafisica       conosciamo nell’ordine umano: vi è solo quella di Dio.  L’uomo, dice Pascal, non è capace di una scienza di ordine  assolutamente perfetto, anche se, direbbe il Blondel, vi aspi-  ra necessariamente ed incoercibilmente, ma sempre ineffica-  cemente. Certo, la scienza deve affermare la sua verità, ma  non « sa vérité souveraine », perchè qualcosa la sorpassa infi-  nitamente: se è scienza naturale, la sorpassa quella filosofica;  se filosofia, la Scienza di ordine extra e superfilosofico.    CapitoLo III    FILOSOFIA E VITA SPIRITUALE    Il filosofare implica due termini: la ricerca e la verità,  il soggetto cercante e l'oggetto cercato. Un’analisi del con-  cetto di filosofia s’identifica con quella di questi due termini.   Che è ricerca?   Per definire questo termine è necessario tener presente  anche l’altro con cui è in rapporto intrinseco e necessario;  e la verità, oggetto della ricerca, è assoluta. Chi la cerca  non cerca una cosa qualsiasi, ma ciò che è essenzialmente,  assolutamente, universalmente, necessariamente: chi cerca la  verità cerca l’essere o in una delle sue categorie, assoluta  dentro i suoi limiti, o nella sua pienezza; dunque cerca il  tutto dell’oggetto; non può non cercarlo che con il tutto del  soggetto, il tutto di sè. Ricerca nel senso più pieno, impegno  di tutta la vita spirituale del cercante, che è esso stesso im-  pegnato nel cercato: come realtà spirituale, e per il grado  di verità o di essere che è, egli non è fuori ma dentro  l'oggetto cercato, la verità. Chi cerca, dunque, cerca con’  tutto se stesso: con il corpo e con lo spirito, con i sensi e  con la ragione, con l'intelligenza e con la volontà. Io cerco  il positivo assoluto (l’essere-verità) con tutta la positività di  cui la mia natura umana è capace. Cercare la verità o filo-  sofare è perfecte quaerere: non una astrazione che opero  su di me, ma una concentrazione di tutto il mio essere nel-  l’atto del cercare. Verità è unità; cercarla è orientare verso    82 Filosofia e Metafisica       lo stesso punto tutte le capacità e le risorse del cercante, è  come raccogliere ed unificare tutti i suoi atti; dunque la  filosofia come ricerca della verità è movimento di conver-  genza integrale dell’uomo totale verso la verità integrale.  Movimento di coesione e compattezza, genera la solidarietà  di tutte le forme della vita spirituale: quale che sia la ve-  rità che cerco (il bello, il bene, il vero ecc.), come verità  presenta sempre gli stessi caratteri dell’immutabilità, uni-  versalità e necessità; richiede pertanto lo stesso atteggia-  mento spirituale; e quantunque a ciascuno di questi veri  s'indirizzi una forma particolare di attività — la sensibilità  al bello, la volontà al bene, l’intelligenza al vero ecc. — tutto  lo spirito collabora alla sua conquista e scoperta. La filosofia  come ricerca della verità è dunque la stessa vita spirituale,  impegnata nella ricerca totale della verità totale. Questa la  filosofia 4 parte subiecti; e a parte obsecti?   Lo spirito che cerca la verità, per ciò stesso: 4) è fatto  per la verità; 5) ma non è la verità, che è l’oggezto a cui è  naturalmente indirizzato. Pertanto l’espressione: «lo spirito  che cerca la verità cerca se stesso» non è affatto vera se  significa identità del soggetto e dell’oggetto; è vera nel senso  che lo spirito trova ed attua tutto se stesso nella verità:  non è vera nel senso dell’« immanenza », bensì in quello del-  l’« interiorità ». Ma ciò conferma l’oggettività, la necessità  e l’universalità del vero e cioè sempre che esso non è lo spi-  rito cercante, ma il suo oggetto, dallo spirito distinto e indi-  pendente. La verità è: l'essere è verità: realtà=verità. Il  reale in quanto reale è verità. Dunque l’oggetto del pen-  siero è reale, ma non l’ente in senso generico, bensì l’ente  in quanto è suo oggetto e dunque verità. Ma il reale come  verità è il reale come intelligibile, come ciò che è vero; dun-  que: realtà è verità; verità è ciò che è intelligibile; l’intelli-  gibile è l’oggetto del pensiero. È la verità perenne dell’idea-  lismo oggettivo: l’oggetto concepito in termini di verità 0  realtà intelligibile. Il soggetto non può essere concepito se    Filosofia e concetto di filosofia 83       non in termini di pensiero; il suo oggetto non può essere  pensato e conosciuto se non in termini di verità; dunque, la  filosofia, a parte subiecti e a parte obiecti, si definisce come  la scienza della vita spirituale.   Ma a questo punto è necessario approfondire ancora il  rapporto pensiero-pensante verità-pensata, gerarchico, di di-   ndenza. Se lo spirito « tende », « aspira » alla verità, ne  è attratto e dall’interno stimolato ad essa, significa che il suo  oggetto gli è superiore; se è desiderio di verità non è essa,  che è eterna ed immutabile; dunque, lo spirito non eterno nè  immutabile è l’aspirante al possesso del divino, che gli è  interiore come riflesso della Verità in sè che lo trascende.  D'altra parte, se lo spirito la cerca vuol dire che è fatto per  la verità; in questo senso e per questa sua aspirazione è  anch'esso qualcosa di divino: divino eros della divina verità.  Da ciò consegue che non è il pensiero che pensandola la  pone, ma è la verità che pone il pensiero; dunque è prima  ed indipendente da esso, è anche quando non è pensata,  anche se nessun pensiero la pensasse. Infatti, era prima che  le menti umane fossero; e le menti umane non ci sareb-  bero state se la verità non le avesse create.   Ma com'è possibile una verità non pensata, se non c’è  verità se non per un pensiero che la pensa?   Esatto, e da ciò consegue che se la verità è eterna —  madre e non figlia dei singoli veri che pensano le menti  umane — essa è sempre stata, è stata sempre pensata, ma  solo il Pensiero eterno ed immutabile può eternamente pen-  sare l'eterna ed immutabile verità; dunque vi è il Pensiero  eterno ed assoluto con cui s’identifica la Verità eterna ed as-  soluta; esiste la Mente divina, il cui oggetto eterno ed im-  mutabile è la verità, anzi è essa stessa la Verità eterna ed  immutabile, in quanto in essa il pensiero e il suo oggetto  s’identificano; esiste Dio come verità eterna ed assoluta; Dio  che è la Verità in sè, per essenza: l’Essere è verità, Pensiero,  Mente.    84 Filosofia e Metafisica       La Mente-Verità assoluta crea — la verità è feconda per se  stessa — menti o spiriti fatti per la verità, ma proprio per  questo le menti create non sono la verità: Dio la Mente  pensante, gli spiriti le menti pensate alle quali per natura  è essenziale pensare la verità loro oggetto, cercarla e sco-  prirla. Nella mente creata la verità non s’identifica con essa;  dunque la verità come è data alla mente creata non è la  Verità come è in sè; è come verità astratta della Verità, im-  magine reale di essa. Nel mio pensiero leggo la verità, come  nello specchio vedo l’immagine che vi si riflette; immagine  non ombra, verità partecipata e perciò conosciuta da me  in maniera diversa da come è conosciuta dalla Mente di-  vina; ma come verità è anch’essa assoluta.   L'immagine è nello specchio; dunque la verità data alla  mente finita è in essa, ma, a differenza dello specchio, la  mente ha coscienza del vero che intuisce come suo oggetto;  perciò è nella verità che le è interiore e la trascende. Non è  la mente che giudica la verità, ma è la verità che la fa  capace di giudizi veri, cioè necessari ed universali. La ve-  rità è sempre divina; umana è la sua scoperta attraverso la  ricerca; umano è il leggere in essa.   Ecco: leggere nella verità, raccoglierla nella mente, fare  che l’una sia presente all’altra; è anche un raccogliersi di  tutto l’uomo, concentrarvisi, convergervi, unificarvisi. Ma rac-  cogliere la verità e raccogliersi in essa è acquistare coscienza di  noi in un duplice senso: 4) che siamo fatti per la verità; 5) che  essa è in noi senza essere noi, pur essendo la profondità  di noi. Dunque leggere che è filosofare: l’umano cercare e  scoprire è leggere dentro, inzus legere o intelligere. La filo  sofia è l'intelligenza della verità, la mente pensante vi-  vente nella sua luce.   La mente non può pensare alcun oggetto se non in ter-  mini di verità, di ciò che è intelligibile; dunque, quando  penso secondo intelligenza, penso sempre secondo la ve-.  rità che è in me, e non è la Verità in sè: non posso pensare    Filosofia e concetto di filosofia 85       me stesso nè pensare (conoscere) il mondo se non in termini  di verità. Il pensiero passa sempre per la verità quale che  sia l'oggetto che vuol conoscere: lo coglie nella sua verità,  che è la sua realtà.   Ma allora pensando io penso Dio, sempre, anche quando  non Lo penso, anche quando penso che non esiste; infatti,  quando penso e conosco un vero, penso e conosco quel che  Dio mi ha dato, messo dentro, affinchè la mia mente fosse  mente, cioè capace di pensare e conoscere. Dunque, io penso  perchè Dio esiste e non Dio esiste perchè Lo penso: non  faccio essere la verità, ma essa fa che io sia un essere pen-  sante la verità, quella che a me è consentito pensare e  conoscere, ma sempre tale che la sua presenza mi obbliga 2  trascendermi, a riconoscere che è più di me, non è da me;  è dalla Verità in sè o da Dio, da cui è stata estratta per  essere donata alla mente creata, intermediaria tra la crea-  tura e il Creatore. La verità che è in me è la molla che  mi spinge a trascendermi e a trascendere essa che pur mi  trascende, mi slancia verso il Padre di ogni verità e di ogni  mente, rende insonne la mia ricerca.   Se è così, la filosofia come ricerca della verità è scienza  di me che cerco la Verità o l’Essere assoluto; scienza dell’io  e di Dio, degli spiriti e dello Spirito. Pertanto essa s’iden-  tifica con la ricerca sulla vita spirituale finita e creata che,  scoprendo in sè la presenza mediata della Verità assoluta  creante, si volge alla ricerca essenziale e totale dell’Essere  infinito.    PARTE SECONDA    CONCETTO DI METAFISICA  E SUA PROBLEMATICA INTERNA    CapritoLo I    LA METAFISICA E I SUOI PROBLEMI    l. — «Cris» ed essenzialità della metafisica.    Una banalità dire che il concetto di metafisica è il più  complesso dei concetti speculativi, se il semplicismo di alcuni  pensatori moderni e contemporanei non avesse disinvolta-  mente concluso che la metafisica è una pseudoscienza filo-  sofica, ormai invincibilmente demolita dall’imponente esca-  vazione critica che il pensiero, implacabile, ha perseguito  da Cartesio ai nostri giorni. Chi fa questo discorso, defini-  tivo nelle sue conclusioni negative, oltre alla pretesa di aver  concluso un discorso infinito si crede in possesso di una sem-  plificazione estrema del concetto di metafisica e di un ap-  profondimento così totale di esso da poter affermare che  metafisica non è, che è sogno — opprimente o generoso —  di un particolare filosofare ormai irreparabilmente tramon-  tato. Se davvero i negatori della metafisica fossero riesciti  a concludere definitivamente il loro discorso, bisognerebbe  considerarli metafisici così consumati da consumare senza  residui la metafisica stessa, da ridurla ad un concetto (o  pseudoconcetto) di sì diafana semplicità da far trasparire  il suo vuoto e il suo nulla: conosciuta e sondata profonda-  mente è risultata nient’altro che una tenace illusione pro-  dotta dal dommatismo razionale. Altri pensatori, meno im-  prudenti, si sono astenuti o hanno creduto di astenersi  dalla metafisica: non posizione antimetafisica, ma ameta-    % Filosofia e Metafisica       fisica, d’indifferenza o di agnosticismo. Ma gli uni e gli  altri si sono addossati la responsabilità — conseguenza in-  vincibile della loro posizione — di considerare il problema  metafisico come non essenziale e necessario — e perciò acci-  dentale e contingente — alla filosofia. Infatti, se è possibile  filosofia senza metafisica, questa non risulta essenziale alla  prima: solo per accidente, contingentemente e quasi per una  sua prolungata immaturità, la filosofia per millenni ha con-  siderato fondamentale e ad essa connaturato il problema  metafisico. Libera ormai di questa pesante ed inutile sopra-  struttura, ha finalmente scoperto, nella sua piena maturità  «critica » e « problematica » che il suo fondamento essen-  ziale è altrove.   Evidentemente per gli anti e gli a-metafisici non si tratta  di affermare che alla filosofia non è essenziale questa o quella  soluzione del problema della metafisica, ma di concludere  che non le è essenziale la metafisica tour court. Alla filosofia  è essenziale, per esempio, il problema politico o quello del-  l’arte o dell’economia, che l’umanità non potrà non porsi fino  a quando penserà, ma non le è affatto essenziale il pro-  blema metafisico. L'uomo può non pensarvi affatto; anzi,  da quando gli si è dimostrato che la metafisica non è, non  è scienza e non è vera filosofia, di diritto e di fatto non ci  dovrebbe pensare più nè ora nè mai. Se ciò non avviene è  perchè egli, oltre che di ragione, è dotato di « immagina-  zione »; per maturo che sia, conserva sempre un grado irri-  ducibile d’infantilismo o primitivismo; o perchè non riesce  mai a guarire dalla sua tendenza ad astrarre. Ma proprio ciò  prova come la metafisica sia il prodotto di attività inferiori e  come la sua storia si possa identificare con quella degli errori  dell’immaginazione e del dommatismo della ragione astratta,  ridurre magari ad un capitolo della psicopatologia. In breve,  si afferma: a) si può (si deve) porre e risolvere il problema  dell’arte o quello della economia o qualsiasi altro, senza  che sia affatto necessario preoccuparsi della soluzione del .    Concetto di metafisica 9I       problema di quel che è il reale in quanto reale; 2) l’uomo  ha più interesse a sapere quale sia la forma politica più  giusta o meno ingiusta o se l’arte sia un'attività alogica o  logica, anzichè conoscere che cosa egli sia, donde venga,  che ci stia a fare nel mondo, dove vada. Questi sono i pro-  blemi inessenziali e non necessari, senza dei quali, e meglio,  si fa — sempre concretamente, seriamente e con mente  sana — della vera filosofia, poniamo, intorno alla repub-  blica o alla monarchia, all’utile o al piacere! Antimetafisici  e a-metafisici hanno sempre lamentato le aberrazioni della  metafisica e si può dar loro ragione quando si tratta, per  esempio, di certe metafisiche idealistiche o materialistiche,  ma credo che non sia stato deplorato abbastanza il dilettan-  tismo vacuo dell’antimetafisica moderna e contemporanea.   Infatti, solo per aberrazione o errore della mente (da al-  cuni amato e vagheggiato con lunghi pensieri) si può ne-  gare che l’esigenza metafisica sia naturale, essenziale e uni-  versale. Già Kant nella Prefazione alla prima edizione della  Critica della ragion pura osserva che «i sedicenti indifferenti  finiscono per cadere sempre in affermazioni metafisiche »;  e il Gentile — il solo dei neohegeliani italiani contemporanei  che abbia avuto mente di filosofo — rileva (La riforma della  dialettica hegeliana, Messina, 1923, II edizione, p. 110) che  «c’è un momento immancabile nello sviluppo ideale dello  spirito umano, che potrebbe dirsi il principio eterno della  filosofia: quel momento in cui il contrasto della morte con  la vita, la differenza tra il non essere e l’essere, spinge  l’uomo a proporsi il problema: Che è l’essere? ». Questa  domanda, che è la posizione più efficace del problema  metafisico, «suona nei secoli, e riassume tutta la storia  del pensiero umano » (ici, p. 114). Perciò Aristotele, che  di essa ha dato la formulazione più profonda e più sem-  plice, pone a fondamento di tutte le scienze il problema  che si aggira « intorno all’ente in quanto ente» (#e9ì 705    4 + ”  ovtos dv).    92 Filosofia e Metafisica       Il problema metafisico si presenta così essenziale al pen-  siero (e perciò alla filosofia) da fare osservare da qualche  studioso che, in fondo, tutti ammettono un concetto del  reale, anche coloro che negano la metafisica e si dichiarano  antimetafisici: tutti consideriamo realtà, ha scritto recente-  mente Mons. Olgiati in un articolo chiarificatore (Il con-  cetto di metafisica, in « Riv. di filos. neosc. », fasc. IV, 1945,  p- 226) quel che è in qualche modo, cioè che non è il puro  nulla; e perciò tutti concordiamo che qualcosa di reale c’è  (ivi, p. 228). Dunque, « persino i negatori della razionalità  del reale, come altresì i negatori della metafisica, fondano  le loro dottrine, e le vivificano in ogni momento di esse,  su un loro concetto di realtà » (01, p. 232). Se ogni sistema  ha un suo concetto della realtà in quanto realtà e « non può  non averlo, sotto pena di venire escluso dal mondo filoso-  fico » e se tale concetto lo hanno tutti (chi dice, per esempio,  che la realtà è storia, concepisce la realtà come storia; chi  tutto riduce a problematicità, definisce la realtà come proble-  maticità), « ne risulta che ogni filosofo ha una sua meta-  fisica, non essendo quest’ultima null’altro se non la scienza  che studia la realtà în quanto realtà » (p. 242).   Se fosse vero quello che scrive Mons. Olgiati — e vorrem-  mo che lo fosse — non si dovrebbe parlare, ormai da tempo  non breve, di una crisi della metafisica in generale, nè di posi-  zioni negatrici di essa, ma soltanto della crisi della classica  metafisica dell’essere e del conseguente succedersi di altre  concezioni del reale in quanto reale, cioè di metafisiche  diverse da quella e tra loro. A noi sembra invece che nel  pensiero moderno e contemporaneo vi sia un vero e proprio  rifiuto e mépris della metafisica (non di questa o di quel-  la) e chi nega la metafisica sic et simpliciter e si dichiara  antimetafisico lo sia effettivamente e non che voglia dire  soltanto: «io nego la metafisica dell’essere o quella del  pensiero o altra che sia, ma sono ugualmente metafisico,    Concetto di metafisica 93       in quanto concepisco la realtà in un certo modo». Chi,  per esempio, dice che il reale è il divenire storico o la pura  problematicità, nega che esiste un principio assoluto, che  al di là del mondo «fisico» — nel senso di « questo » no-  stro mondo — vi sia alcunchè, come pure nega che in « que-  sto» mondo vi siano enti o sostanze che soztostanno alla  pura fenomenicità. Dal punto di vista dell’Olgiati, invece,  la polemica antimetafisica, dal Kant e dallo Hegel in poi,  sarebbe puramente apparente; in realtà si tratterebbe di una  serrata discussione tra tante metafisiche, cioè tra tanti modi  diversi di concepire la realtà in quanto realtà. Al contrario,  si tratta di posizioni (se siano da considerare filosofiche o  no è altro discorso), le quali negano decisamente ogni prin-  cipio assoluto, qualcosa al di là del nostro mondo o al di  qua o al di sotto di quel che il divenire manifesta nel suo  divenire; ammesso pure che è, negano che sia conoscibile  e dunque negano la possibilità di una metafisica come scien-  za, cioè la validità di una risposta filosofica quale che sia  alla domanda di che cosa è il reale in quanto reale. E questo  è negare senz'altro che vi è una metafisica e non un sem-  plice contrasto su che cosa è realtà per il fatto che si nega  l'oggetto del contrasto, cioè il reale quale che sia.   Noi crediamo, dunque, che il problema vada impostato  in altro modo e precisamente: 4) la filosofia come pura pro-  blematicità o si risolve nella contraddizione in termini di con-  siderare il problema come soluzione — la soluzione del  problema è porre e chiarire il problema stesso —; o, nel  porre i problemi, porta in sè invincibilmente l’esigenza e  gli elementi reali della soluzione, cioè delle risposte per cui  i problemi han senso e trascendono lo stesso problematiz-  zare. D'altra parte, perchè risposta vi sia non illusoria, è  necessario un principio assoluto, che la ricerca può scoprire  ma non creare; la guida, trascendendola, anche come ri-  cerca dello stesso principio assoluto. In tal modo, la filosofia    94 Filosofia e Metafisica       come problematicità rivela essa stessa, intrinsecamente, l’esi-  genza metafisica (e non solo l’esigenza) del principio pri-  mo ed assoluto del sapere. 5) Similmente la filosofia come  storicismo assoluto o divenire perenne, o si risolve nella  contraddizione in termini di considerare l’essere come dive-  nire, oppure, nel momento stesso di porre il problema del  divenire, sporge all’essere che il divenire fonda e trascende:  fa scaturire irresistibilmente l’esigenza di un principio (e  non solo l’esigenza perchè di esso ne rivela la presenza) del  divenire stesso e della storia, che non è storico nè dive-  niente. La filosofia del divenire, quale richiesta intrinseca al  suo stesso dinamismo, pone anch'essa l’istanza metafisica.  c) Da ultimo, le filosofie immanentistiche in generale, pur  non potendosi dire tutte anti o ametafisiche, quando hanno  perseguito e sviluppato fino in fondo il principio o demone  dell’immanenza, solo arbitrariamente (e dunque non razio-  nalmente) possono concludere per la sua verità, in quanto  qualunque sforzo, il più impegnato e critico, di autosuffi-  cienza della natura e dell’uomo non è sufficiente a vincere la  consapevolezza della nostra insufficienza e della contingenza  del nostro mondo. Solo un depauperamento dell’infinita ric-  chezza del nostro spirito e una sua detonalizzazione — so-  lo una concezione non razionale e non razionalmente giu-  stificabile dell’uomo, non umana, unilaterale e dunque  astratta — ci possono convincere della nostra autosufficienza  ed adeguazione alla natura, che, a questo prezzo, è la no-  stra degradazione al finito senza aspirazione d’infinito, ad  un destino puramente terreno, cioè di nulla. È come se per  dimostrare che gli uccelli non son fatti per volare, taglias-  simo loro le ali; ma anche in questo caso, l’impedimento in-  naturale non spengerebbe in essi il desiderio istintivo del volo.  L'esigenza della trascendenza, nell'uomo, è indomabile; in  lui sono tutti i dati sufficienti e necessari per dimostrarne  l’esistenza. Non tener conto di ciò è mettere al posto del- .  l’uomo reale e concreto una sua figurazione immaginaria o    Concetto di Metafisica 95       un’astrazione; infatti l’immanentismo assoluto è proprio esso  frutto della immaginazione e dell’astrazione. In questo sen-  so, conveniamo con mons. Olgiati che anche — soprattutto  — l’indagine intorno a che cos'è la realtà in quanto realtà è concreta come ricerca del principio essenziale del reale,  che non può farsi con procedimento astrattivo, nè per enu-  merazione (p. 229).   Da quanto abbiamo detto possiamo trarre una prima con-  clusione: non ogni negazione della metafisica, anche la più  decisa, è sempre un’affermazione metafisica, secondo la tesi  dell’Olgiati; ma qualsiasi posizione anti o ametafisica porta  in sè immanente, intrinsecamente, l’esigenza indistruttibile  ed ineliminabile della metafisica; e se non vede gli elementi  validi a soddisfarla, ciò prova che è anti o ametafisica per  difetto di approfondimento critico della natura del pensiero  e del reale. Così non poche posizioni speculative ci si pre-  sentano, non come tante diverse antimetafisiche pur meta-  fisiche, bensì come tanti sforzi inani o inefficaci — meglio  come un solo sforzo che muove da diversi punti di vista —  di abolire la metafisica, che rinasce, invece, dalla sua stessa  negazione, invincibilmente. I tentativi antimetafisici ci ri-  sultano, dunque, essi stessi, tante prove della ineliminabilità  dell'esigenza metafisica e del loro pieno fallimento. L’anti  e l’ametafisica non possono e non potranno mai escludere la  possibilità della metafisica, la quale è possibilità assoluta, il  risultato ultimo della filosofia la più rigorosamente critica.  E ciò per il motivo a cui sopra abbiamo accennato: quando  dite all'uomo: «tutto è problema », risponde: « sarà vero,  ma io son fatto per la soluzione »; « tutto è qui », confessa:  « ed in me è reale e naturale l’ aspirazione all’al di là »; « tut-  to l'universo è tuo », aggiunge: «ed io sono più dell’uni-  verso e vi è troppa dignità in me per potermene acconten-  tare; anche se tutto l’universo fosse mio non basterebbe perchè  fossi me stesso e in me stesso capissi fino in fondo »; « tutto è  relativo », obietta: « ed io sento di esser fatto per l’assoluto,    % Filosofia e Metafisica       so di avere in me stesso una presenza di assoluto »; « tutto  è divenire », protesta: «la mia vocazione è l’essere perchè  l’essere è la mia radice, il principio del mio pensare, il de-  stino della mia esistenza ». Il discorso sul finito non si con-  chiude mai su se stesso, ma rompe e dilaga, come la prima-  vera matura, per mille porte e finestre, sull’infinito; persino  il discorso sul Nulla sottintende sempre un silenzioso e per-  ciò interiore, appassionato e cocente discorso sull’Essere: chi  dice: « nulla è di ciò che è », intende dire: « solo l’eterno  è reale ». L’assoluto nihilismo è una disperata ma potente  apologia dell'Essere assoluto. Perciò noi, piuttosto che con-  siderare metafisiche anche le filosofie antimetafisiche, pre-  feriamo considerarle tali, negando, per ciò stesso, che siano  nelle loro istanze antimetafisiche delle filosofie, in quanto,  dove manca metafisica, manca filosofia, che è indagine sul-  l’essenza della realtà in quanto realtà, ricerca del principio  assoluto, risposta ai problemi che investono la nostra ori-  gine, il senso supremo e autentico della nostra vita, il destino  della nostra esistenza.    2. — Metafisica e trascendenza. Le istanze della interionità.    Questo discorso sottintende una equazione: metafisica  uguale trascendenza, perchè tale è anche la filosofia. Se filo-  sofare è cercare, l'oggetto della ricerca trascende la ricerca  stessa; se filosofia è scoperta del principio assoluto, questo  fonda e condiziona ogni filosofare e perciò trascende il pen-  siero che indaga e desidera scoprire; se filosofare è inappaga-  mento del dato ed aspirazione a conoscere l’a/ di lè di esso,  è già trascendenza implicita e aspirazione esplicita ad una  realtà da e per cui è tutto ciò che è ('). Perciò alla meta-    (1) L. Boctioro (Che cos'è metafisica, in « Salesianum », genn.-marzo 1948)  trova questa mia definizione della metafisica « inadeguata perchè si ferma soltanto  sull’esigenza della trascendenza, la quale costituisce certamente l'elemento riso-  lutivo e il punto di arrivo di ogni metafisica autentica, ma non è tutta la  metafisica ». Esatto, purchè si tenga fermo che non vi è metafisica senza tra-    Concetto di metafisica 97       fisica è intrinseca la distinzione fra la realtà assoluta-uni-  versale e una relativa-particolare, di cui la prima è il fon-  damento. Di qui la distinzione tra il sapere assoluto e un  sapere relativo, il primo condizionante ogni altro sapere,  che da esso dipende. Parmenide per primo (« padre nostro »  lo chiama Platone), in maniera chiara ed esplicita, distinse  la realtà assoluta dell’Essere uno da quella relativa degli  enti molteplici, il mondo dell’Essere puro dal nostro conta-  minato dal non-essere, questo condizionato dall’altro, infe-  riore. La prima decisa affermazione del reale assoluto compor-  ta, dunque, il « ridimensionamento » del reale relativo, cioè  è nata dalla constatazione della contingenza e perciò della in-  sufficienza di « questo » mondo e dunque dalla necessità del  pensiero di trascendersi in un principio assoluto, fondamento  di ogni reale e di ogni sapere. Parmenide è la prima rivela-  zione, in sede filosofica, del pensiero a se stesso, l'esplicita  consapevolezza che la filosofia o il pensiero ha come suo  oggetto di naturale aspirazione un oggetto assoluto. Platone  raccolse l’eredità della netta distinzione tra « fisico » e « me-  tafisico », tra il « sensibile » e l’«Idea » o forma universale  di ogni realtà particolare, tra le Idee che essenzialmente sono  ( 6vttws dvra ) sempre identiche a se stesse ( dei abtà x27  aòtà pévovta) e i sensibili che sempre divengono e mai non  sono. Stabilì una gerarchia ancora più decisa: il « metafisi-  co » sovrasta il « fisico », come ciò che è assolutamente ciò  che è relativamente e condizionatamente, come l’eterno il  temporale; e sulla base di questa gerarchia fissò il fine del-  l’anima umana nella « aspirazione » al reale in sè, nell’Eros  per il suo destino ultraterreno, nella contemplazione dell’e-  terno Essere. Aristotele si propose di stabilire una relazione  ontologica tra i due mondi, ma co nservò il platonismo del  principio assoluto della scienza universale dell'ente in quan-    scendenza, se metafisica significa ricerca di ciò che è « al di là della fisica ».  In questo senso la trascendenza gon è solo « punto di arrivo », ma è anche  implicita inizialmente nel punto di partenza.    98 Filosofia e Metafisica       to ente, fondamento di ogni particolare sapere. Noi crediamo  che questa distinzione tra il relativo e l’assoluto trascen-  dente sia essenziale ad ogni costruzione filosofica avente un  nucleo metafisico per cui, e solo per esso, merita il nome  di concezione filosofica del reale. Ecco perchè, ad esempio,  quasi a giudizio unanime, le filosofie dette postaristoteliche  segnano la decadenza del pensiero classico: la dualità di  « fisico » e «metafisico » vi diventa secondaria, la meta-  fisica è fatta rientrare nella fisica e il principio è identificato,  in un monismo opaco, con la realtà naturale. Le ali di Eros  si chiudono sull’afflitta anche se rassegnata saggezza di un  mondo finito, accettato con l’indifferenza che detta l’amor  fati, ma senza la serenità del convincimento persuaso. Per  lo stesso motivo facciamo cominciare col « terminismo »  di Occam la decadenza della Scolastica. La carenza metafi-  sica, in qualunque epoca del pensiero, si presenta come il  dissolvente della filosofia, quasi che il sopravvalutare il  sensibile e il bloccarsi nell’esperienza siano i pesi mortificanti  la potenza del pensiero, per sua natura doviziosamente ge-  neroso di metafisici slanci. Al contrario consideriamo Plotino  come l’ultima grande affermazione della Grecia immortale  e i grandi pensatori della Patristica e della Scolastica come i  rappresentanti genuini della filosofia cristiana. Le epoche  veramente filosofiche sono quelle dei grandi metafisici. Con  ciò abbiamo segnato la condanna, sia pure parziale, della  speculazione del nostro tempo.   Noi dunque riteniamo che vi sia un platonismo essen-  ziale e perenne che è l’anima stessa di ogni vera metafisica:  l'aspirazione al di lè del fisico (trans-physica), divino Eros,  che è sete d’immortalità dell'anima nella contemplazione  beatificante dell’Essere assoluto eterno; platonismo essenzia-  le che importa distinzione e dualità di mondi: « questo » e  «l’altro» in un rapporto di relativo e assoluto, di contin-  gente e necessario, di temporale ed eterno. Platonismo, che  è nostro, se trasposto nei termini agostiniani di una meta-    Concetto di metafisica 99       fisica dell'esperienza interiore focalizzata nel dialogo pe-  renne dell’anima con Dio, di tutto l’uomo con la Verità che  è; interiorità che non abolisce il mondo, anzi, dal di dentro,  lo riconquista nella sua verità e realtà, che è l’atto creativo  di Dio, di cui tutte le cose quae facta sunt sono prova e testi-  monianza. Agostino, dunque, arricchito dalla tradizione del   , miglior francescanesimo, il cui genio filosofico resta S. Bo-  naventura.   A noi sembra che l’istanza agostiniana, in una discussione  intorno al concetto di metafisica coincidente con quello di  filosofia, specie nello stato attuale, sia particolarmente signi-  ficativa. La metafisica classica, platonica e aristotelica, è an-  cora cosmologia e con l’idea cosmologica identifica, in fon-  do, l’idea teologica: il Demiurgo e il Motore immobile  sono i due principii del cosmo fisico, il primo, Artefice divino,  mediatore tra le Idee e la materia, l’altro, Causa prima del  movimento. È una metafisica al servizio della natura fisica e  dell’uomo solo in quanto uno degli enti naturali; metafi-  sica, dunque, come scienza della natura, con cui Aristotele  identifica la realtà in quanto realtà: l’« al di là » del mondo è  sempre un « mondo » e non lo Spirito creante. In esso manca  il problema dell’uomo in quanto uomo, così come lo si conce-  pisce e lo si pone dal Cristianesimo in poi con quell’interesse  quasi totalitario e quella sensibilità acutissima con cui oggi  è vissuto dal mondo moderno e contemporaneo, al quale  nessuno, credo, vorrà negare il diritto di cominciare, come  dice E. Le Roy, il discorso dall’uomo, che è una delle realtà  quae facta sunt. Dall’uomo appunto ha cominciato Agostino  il suo discorso metafisico e si è accorto che, quale che sia il pro-  blema, la soluzione si trova sempre nella Verità che è e nel-  l’Essere che è la Verità. Questo senso d’interiorità profonda-  mente umana di ogni problema filosofico non va perduto:  in esso riponiamo principalmente l’avvenire della metafisica.   Anche la storia della filosofia crediamo che su questo  punto ci dia ragione. La metafisica, come scienza prima della    100 Filosofia e Metafisica       natura o ricerca dei principii primi del mondo fisico, fino  alla scoperta della scienza moderna, non distingueva netta-  mente i due mondi; essa aveva ereditato il carattere natura-  listico della metafisica aristotelica, per la quale anche i pro-  blemi di Dio (teologia razionale) e dell’immortalità dell’ani-  ma (psicologia razionale) si pongono sul terreno della natura  fisica. Di qui gli inevitabili conflitti e i tentativi d’identifi-  care la visione «scientifica » con la visione « metafisica »  della realtà. La critica kantiana della metafisica è la critica  della concezione scientifico-metafisica del razionalismo da  Cartesio al Wolff e tende a distinguere la « teoria della scien-  za » (Critica della ragion pura) dalla « teoria della morale »  (Critica della ragion pratica), dove è legittimo porsi i pro-  blemi della metafisica. La reazione positivistica e neokan-  tiana, contro la metafisica dell’idealismo tedesco del primo  Ottocento, è giustificata dagli arbitri di quella « filosofia  della natura », cioè di una costruzione aprioristica (e in que-  sto senso metafisica) della scienza. La metafisica dell’espe-  rienza interiore, di tipo platonico-agostiniano, a noi sembra  che non si presti a questi equivoci: per essa il principio as-  soluto o verità assoluta è richiesto dal dinamismo stesso  del pensiero; dall’escavazione dell’uomo nell’uomo; dalla  presenza implicita della verità alla mente; dal conflitto della  vita morale che sta alla base di tutta la nostra vita spirituale  e la cui soluzione rimanda razionalmente alla trascendenza;  dalla costituzione stessa del pensiero che è capace di verità,  in quanto la verità, che lo fonda e trascende, è la sua vita  interiore, senza di cui non sarebbe pensiero e sarebbe morte.  Contro queste istanze metafisiche non c’è scienza o « critica »  che valgano, in quanto e la scienza e la critica, le più svi-  luppate e intransigenti, ne riconoscono la legittimità, che  può essere solo negata — e perciò anche questa negazione è  pur essa conferma — da un atto non razionale e dunque non  scientifico, non critico e, in definitiva, non filosofico.   Si consideri ancora che, da quando scienza e filosofia,    Concetto di metafisica 101       fisica e metafisica, pur non ignorandosi, seguono metodi pro-  pri e si pongono problemi diversi o almeno da punti di vi-  sta differenti, per cui l’oggetto proprio dell’una è diverso da  quello dell’altra, l’attenzione della filosofia si è concentrata  sull’uomo e su quelle che sono le forme della sua attività. La  storia, l’estetica, la politica, l’economia; le scienze morali in  generale, considerate speculativamente, sono oggi i problemi  vivi della filosofia. È vero che essi, proprio perchè posti come  problemi filosofici, importano sempre una visione totale della  realtà, ma il reale fisico, in quanto tale, interessa subordi-  natamente al reale umano e nei limiti in cui contribuisce alla  soluzione dei problemi dell’uomo. Le costruzioni metafisi-  che, nel senso di filosofia della natura, si debbono più agli  RASTA che ai filosofi veri e propri. Di questa esi-  genza, che possiamo chiamare « umanistica », una costru-  zione metafisica, oggi, non può non tener conto. Non che  il mondo così detto fisico non debba interessarla, quasi fosse  apparenza illusoria ed opaca materia, sorda alla luce del  pensiero; tutt'altro: la metafisica non può non essere che la  scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà. Vogliamo  dire che l’uomo interessa all'uomo più di ogni altra cosa e  una presa di contatto della metafisica con il reale-uomo ri-  porta i suoi problemi a quella interiorità, che è sempre stata  l'ispirazione fondamentale della ricerca speculativa, e rende  la metafisica stessa aderente al problema-uomo — ai pro-  blemi del donde vengo, chi sono e dove vado — la cui solu-  zione, in definitiva, sta alla base di quella del significato e  del valore del mondo in generale. Da questo punto di vista  possiamo dare in parte ragione al Carlini, il quale tenendo  presente una determinata concezione della metafisica, consi-  dera tutta la metafisica scienza naturalistica che indaga in-  torno al principio del mondo, quasi una continuazione del-  la fisica, scienza dell’« essere » contrapposto allo « spirito ».  Ma questa è una particolare metafisica e non /a metafisica,  come sembra pensare il Carlini, in quanto vi può essere (e    102 Filosofia e Metafisica       vi è nella storia della filosofia) una metafisica dell’esperienza  interiore, dove «essere » e « spirito » non si contrappongo-  no, dove resta primo il concetto del cos'è il reale in quanto  reale, ma dove il reale non è più naturalisticamente inteso.  In questa metafisica, che è ancora scienza che non sta con-  tenta al come, il problema del propter quid importa l’im-  pegno totale dell’uomo e la partecipazione sua e delle cose  ad un comune destino, per cui il problema metafisico è  innanzi tutto problema dell’uomo in quanto uomo. L’in-  tus legere (intelligere) che è la filosofia o la metafisica  non è solo un leggere nell’inzus delle cose, ma è — in-  nanzi tutto — un leggere nel nostro intus, in interiore  homine; solo quando questa pagina sarà decifrata e chia-  ra, sarà possibile leggere, « metafisicamente » e non « scien-  tificamente », anche il libro della natura, decifrarlo e  chiarirlo. Possiamo, dunque, convenire anche con lo Hei-  degger (senza accettare le conseguenze che egli ne trae) che  la metafisica è sì questione sul senso dell’essere « nel suo  insieme e in quanto tale », ma che l’ontologia è vincolata  all’antropologia: l’uomo che indaga è egli stesso oggetto  primo della sua indagine, il ricercatore è incluso nella sua  ricerca. « Ogni domanda metafisica racchiude la problema-  ticità della metafisica nella sua totalità », ma « nessuna do-  manda metafisica può porsi se non è posto in questione —  come tale — colui, che fa la domanda, se non diventa dun-  que domanda egli stesso ». (Was ist Metaphysik?, trad. it.  Milano, Bocca, 1942, p. 55).   Dunque, anche quei pensatori che, oggi, non sono nè  anti nè a-metafisici e ripongono sul tappeto della più viva  discussione filosofica il problema della metafisica, pur ac-  cettando la posizione classica del problema stesso, ne accen-  tuano l’aspetto umano, spirituale, interioristico. Non si tratta  d’indulgere ad una moda, come se quel che è stata verità  una volta non lo sia più, secondo la tesi di un relativismo  storicistico negatore della verità e della filosofia, ma di    Concetto di Metafisica 103       cogliere quelle esigenze profondamente spirituali, che co-.  stituiscono l’anima dell’indagine metafisica e impediscono  che essa si presenti sotto l’aspetto (che è un aspetto) di scienza  puramente naturalistica, anzichè sotto l’altro, che le è più  proprio ed essenziale, di ricerca interiore dell’! di /à dello  spirito umano, senza di cui non sarebbero nè l’uomo nè le  cose e lo spirito stesso sarebbe materialità, passività e morte.  Perciò noi ci siamo principalmente preoccupati di cogliere  la costante ed insopprimibile esigenza metafisica, anche nei  sistemi anti o ametafisici, sia per provare la essenzialità ed  universalità del problema, costitutivo della stessa filosofia,  sia per dimostrare, conseguentemente, come nessuna nega-  zione della metafisica possa negare se non altro la possibilità  della metafisica stessa, essendo essa il primo iniziale che  muove ogni indagine speculativa e la sua realizzazione la  speranza suprema e dunque il fine del pensiero. Aderire alle  istanze della filosofia moderna e contemporanea ci sembra  una condizione indispensabile di ogni concreto filosofare;  nel nostro caso, per porre concretamente e criticamente il  problema della metafisica. Le critiche e le accuse, quando  non sono dettate da superficialità, incomprensione o sordità  costituzionale per certi problemi, servono a chiarire altri  aspetti della questione e consentono al metafisico di riporsi  il problema con maggiore consapevolezza, di vederlo in quella  complessità di momenti, che impedisce una visione par-  ziale e non integrale di esso e perciò astratta o unilaterale.  L’antimetafisica che quasi senza soste e a volte con accani-  mento appassionato o passionale si è scatenata dal tempo del-  l’illuminismo anglo-francese, risponde anch'essa ad un’esigen-  za del pensiero. Essa impone, da un lato, la difesa ad ol-  tranza della metafisica in nome del diritto alla vita del-  la filosofia e, dall’altro, il dovere, per il metafisico, di  riporsi il problema in modo che l’istanza metafisica  esca vittoriosa dalle apparenti sconfitte, scaturisca dalle  stesse negazioni, chiarita nei suoi molteplici aspetti, sic-    104 Filosofia e Metafisica       chè la sua risposta, più ricca e complessa, comprenda in  sè le esigenze che sembrava escludere e che, solo apparen-  temente, per un errore di prospettiva, si erano poste contro  la metafisica, mentre, in realtà, la loro era opposizione ad  una determinata soluzione del problema metafisico, la quale  trova in quelle critiche non la negazione della sua verità,  ma lo stimolo per arricchirla in una più comprensiva. Quel  che è stato una volta verità, verità sarà sempre, ma è del-  l'essenza della verità la vita e lo sviluppo fecondo, il cre-  scere continuamente di e su se stessa, in modo da conqui-  starsi sempre più come verità. Perciò noi accettiamo l’istanza  critica del divenire e dello sviluppo dello spirito, proprio per  dimostrare come non vi è verità che muoia e verità che  nasca per morire ancora, problema che si ponga per restare  sempre problema, esasperatamente tale, ma che vi è ve-  rità perenne che perennemente è vera, oggi più compren-  siva di ieri, perchè più matura e sviluppata. Ora è evi-  dente che le istanze antimetafisiche dell’empirismo inglese,  la critica kantiana della metafisica del razionalismo moder-  no, la metafisica cosiddetta del pensiero o della mente del-  l’idealismo tedesco e del neohegelismo italiano, le molte me-  tafisiche contemporanee dell’intuizione, dell’azione, della vo-  lontà, della vita ecc., come pure le stesse negazioni radicali  di ogni metafisica non vanno considerate, tutte, nella loro  sterile (agli effetti dell’avanzamento della questione) pole-  mica contro la classica metafisica dell’essere o della verità  trascendente o dell’oggettivismo o dell’intellettualismo, ma  in quell’aspetto fecondo di positività che esse hanno e cioè:  nell’avere rilevato esigenze nuove, nuove prospettive, di cui  la metafisica, come la scienza del che cos'è la realtà in quanto  realtà, oggi, deve tener conto, affinchè la risposta sia dav-  vero comprensiva, direi, assorbente, di tutte le diverse istanze,  in quel che hanno di vero, e di esse l’inveramento concreto (?).   (2) Di qui la nostra concordia discors (che crediamo sia una forma di colla-    borazione feconda nella comune battaglia contro le negazioni della metafisica)  con la Neoscolastica dell’Università Cattolica di Milano e, in special modo,    Concetto di Metafisica 105       3. —- La filosofia moderna e contemporanea di fronte ai pro-  blemi della metafisica.    Al principio di questo capitolo abbiamo rilevato la com-  plessità di sensi e problemi del termine metafisica, diffi-  cilmente includibili in una veduta comprensiva ed armoniz-  zante di tutti: non di rado si dà la preferenza ad un senso  o ad un altro, ad uno o ad un altro problema. La meta-  fisica è conoscenza astratta, o la più concreta? è opera esclu-  siva della ragione e perciò pura costruzione 4 priori? è sco-  perta delle regole fondamentali del pensiero e perciò valide  per ogni scienza sia fisica che morale? E potremmo ancora  continuare. Ma ci sembra che tutti, metafisici e non metafi-  sici, siano d’accordo che essa, come la definì Aristotele, è Za    con Mons. Olgiati. Nella sua prolusione al corso di metafisica dal titolo Come  si pone oggi il problema della metafisica (in «Riv. di filos. neosc. », n. 1,  1922) l° Olgiati, in fondo, riafferma che la sola vera è quelia dell'essere nella  forma aristotelico-tomista, la quale, dunque resta come l’unica, intatta ed intan-  gibile. Il lungo discorso della filosofia moderna non la interessa affatto, perchè  questa, fenomenistica, considera fenomeno il reale in quanto reale e non col-  pisce, in fondo, la concezione del reale in quanto essere; dall’altro, la metafi-  sica del vero ontologico, di stampo platonico, è stata da essa superata. A noi  sembra che, anche ammesso e non concesso che tutto il pensiero da Cartesio  in poi sia fenomenistico, resta sempre la questione, per il problema della meta-  fisica posto « oggi », di vederc quali istanze la metafisica fenomenistica ponga  contro (o a differenza di) quella dell'essere e se questa non sia chiamata a  tenerne conto se vuol parlare un linguaggio significante per la filosofia moderna  e contemporanea. « Tenerne conto » non significa affatto rinunzia a quel che è  la sua verità, ma dimostrazione della sua fecondità e vita perenne nell’unico  modo in cui si può provare: che essa è capace di sviluppo, di dispiegarsi come  verità comprensiva di esigenze diverse, di essere sufficiente a risolverle ed aperta  a nuovi punti di vista che, arricchendola e quasi rivclandola sempre meglio a  se stessa, la confermano come verità di ieri e di oggi e non soltanto di un  « ieri », che « oggi » può non interamente soddisfare.   Per quanto qui è detto (e soprattutto per quanto si legge in molti punti  di questo volume) mi sembra assolutamente infondata l’obiezione mossa a  me e agli altri collaboratori del « Giornale di Metafisica », che nessuno di noi  « si preoccupa del problema critico, come se la metafisica non fosse mai stata  messa in discussione » (« Rivista di Filosofia », genn. 1948, p, 97). Precisa-  mente il contrario: in tutti noi è vivissima tale preoccupazione e il nostro è  un dialogo costante con il problema critico. Anzi, per quanto mi riguarda, debbo  dire che, se un qualche interesse ha la mia posizione speculativa, è precisamente  quello che cerca di dimostrare come, proprio dalla stessa istanza critica, si arrivi  ad una soluzione positiva e razionale dei problemi della metafisica.    106 Filosofia e Metafisica       quosopia 736, la scienza dei principii primi. Così intesa  ebbe l’ultima grande sistemazione scolastica dal Wolff con  la duplice divisione in metafisica generale od ontologia  (scienza dei principii primi in generale e dell'essere in quanto  essere) e metafisica speciale o scienza degli esseri (scienza  dell'anima — psicologia razionale —; filosofia della natura —  cosmologia razionale —; esistenza di Dio e suoi attributi —  teologia razionale e teodicea). In verità il problema primo  è proprio l’ultimo in quanto la soluzione di esso, in un  senso o nell’altro, condiziona quella degli altri problemi,  anche quando quello è posto e risolto alla fine: la teoria  della conoscenza (problema del fondamento critico del sa-  pere), la teoria dell’essere, come pure il problema dell’im-  mortalità dell'anima, rimandano al problema dell’Assoluto,  di Dio, principio primo di ogni conoscenza e di ogni essere.  Di fronte a questi problemi quali sono le posizioni fonda-  mentali della filosofia moderna e contemporanea?  Cartesio, da cui si fa comunemente cominciare il pen-  siero moderno, nella Prefazione ai Principes, la considera  «la racine » dell’albero della scienza, avente però come og-  getto enti immateriali: la conoscenza di Dio e dell'anima per  mezzo della « ragione naturale » (Méditazions, Epitre dédi-  catoire). La metafisica si distingue così dalla fisica, dalla ma-  tematica ed anche dalla morale e si presenta come teologia  e psicologia razionali. Cartesio, in fondo, rivendica, anche  se ancora non in maniera netta e decisa, l'autonomia delle  scienze fisico-matematiche e quella della morale. « Imma-  teriali » gli oggetti della metafisica: dunque, non spaziali e  non sensibili come dirà Malebranche (Enzréziens, I): c'è,  in fondo, in Cartesio — e di più in alcuni cartesiani —  un'istanza platonica. D'altra parte, la certezza interiore del  Cogito è criterio assoluto di verità: realtà spirituale e realtà  naturale restano nettamente distinte e con la dualità sorge  il problema del loro rapporto. Dunque, ancora, platonismo.  Pure sulla linea platonico-agostiniana o neoplatonica è la    Concetto dî metafisica 107       soluzione del problema testè indicato: la occasionalistica  e la spinoziana, l’una e l’altra però, a differenza di Car-  tesio, non escludenti l’etica. Si consideri che il problema della  relazione tra le due res è imposto dall’ente-uomo dove si trova  concretamente realizzata. Ormai la metafisica non è più sol-  tanto ontologia e poco si preoccupa del reale fisico o natu-  rale (il mondo, per Malebranche, è quasi superfluo ed è  un’apparenza caduca per lo Spinoza), ma soprattutto cono-  scenza ed etica, determinazione delle modalità del conoscere  e del volere. Il Leibniz sistemò diverse istanze del raziona-  lismo cartesiano e spinoziano e il Wolff fece di quella me-  tafisica la nota divisione scolastica.   La crisi della metafisica razionalistica comincia con la  critica della conoscenza — con la gnoseologia nel senso  moderno del termine — dell’empirismo inglese. Il bersaglio  è preciso: il principio assoluto del sapere così come il ra-  zionalismo lo andava sistemando. La risposta è radicale:  ogni realtà oggettiva o assoluta, che la metafisica presup-  pone, se non si risolve (dissolve) nell’esperienza sensibile, è  un inconoscibile o una credenza. Leibniz cerca di correre ai  ripari: alla critica lockiana dell’innatismo contrappone il con-  cetto di virtualità, al nominalismo la distinzione tra verità  di ragione e verità di fatto; ma egli deve all’istanza critica  dell’empirismo, se non altro, lo stimolo a costruire una me-  tafisica monadistica. Infatti, ogni forma di empirismo è  sempre rivendicazione del concreto individuale, degli enti  particolari; inoltre, come tale, implica sul terreno gno-  seologico la risoluzione di ogni realtà oggettiva nella per-  cezione soggettiva. La realtà si pluralizza in infinite sostan-  ze, in points métaphysiques, in points de substance. Ciò ac-  cade non solo per Leibniz, che al posto dell’unica sostanza  dello Spinoza, mette un universo di monadi, ma anche per  Berkeley, per il quale l’universo è costituito di sostanze per-  cepienti. Si consideri che il Berkeley assolve, dentro l’em-  pirismo, la stessa posizione critica assolta dal Leibniz contro    108 Filosofia e Metafisica       di esso, in nome degli stessi interessi: la realtà degli spiriti  e di Dio. Il sostanzialismo spiritualistico del Berkeley s’in-  tende meglio come critica dell’empirismo e in rapporto al  monadismo spiritualistico del Leibniz. Contro l’uno e l’al-  tro, colpendo alla radice il principio del razionalismo (il  cogito), Hume nega che vi sia una sostanza pensante meta-  fisicamente concepita come sostanza in sè sussistente. Così  l’oggetto della metafisica, come mondo naturale e spiri-  tuale, come essenza dell’essere e come principio assoluto del  conoscere, si dissolve, attraverso un processo che va dal  Cogito di Cartesio alla percezione dello Hume: la realtà,  tutta la realtà, è soltanto l’attività presente e momentanea  del percepire o dell’apparire.   Quasi contemporaneamente gli ideologi francesi del se-  colo XVIII (« l’àge barbare de la philosophie », come scrive  il Lachelier) intendono il termine metafisica nel suo signifi  cato deteriore di inutile logomachia, di vano ed oscuro filo-  sofare (« le roman de la nature » come la definisce Voltaire  nell’articolo ironico « Métaphysique » che si legge nel suo  Dictionnaire philosophique). Ignoranti com’erano del Medio-  evo, coinvolgono nella stessa condanna la grande metafisica  della Scolastica e le sottigliezze fatue della decadenza della  Scolastica stessa e del tardivo aristotelismo averroista, conti-  nuando la polemica anti-aristotelica ed antiscolastica che è in  special modo propria dei filosofi-scienziati del secolo XVII  e alla quale erano rimasti tutt'altro che estranei sia il ma-  terialista Hobbes che Cartesio e Spinoza. All’antica metafi-  sica « teologica » ed astratta contrappongono la loro, intesa,  in opposizione alla fisica (e qui sono cartesiani) come scienza  dello spirito, delle idee e della loro origine. Così il Condillac  considera (nell’Inzroduction dell’Essai sur l'origine des con-  naissences humaines) «bonne métaphysique » la sua teoria  dell’origine delle idee e dei principi della conoscenza umana;  e il Destutt de Tracy distingue «l’ancienne métaphysique  théologique » dalla « moderne métaphysique philosophique    Concetto di metafisica 109       ou l’idéologie ». Metafisica, in breve, è conoscenza dei prin-  cipii generali di un'arte (un poeta o un musico, che vogliono  rendersi conto dei principii della loro arte, ne fanno la meta-  fisica) e di una particolare scienza o di quanto non è  oggetto dei sensi esterni come le «operazioni e facoltà  dello spirito », quali le sensazioni, la memoria, la volontà,  ecc. D’Alembert, nel celebre Discours préliminaire de l’En-  cyclopedie, poteva scrivere che Locke «créa la métaphysi-  que ». Così la definizione cartesiana di metafisica (scienza  degli oggetti immateriali) e l’opposizione di essa alla fisica,  la critica lockiana del concetto di sostanza e la posizione  critica del problema della conoscenza, la negazione humiana  della realtà della sostanza estesa e pensante, l’identifi-  cazione del concetto di « natura » con quello di materia, il  senso della concretezza del particolare e della positività della  ricerca scientifica, confermano sempre più la netta distin-  zione della realtà in due aspetti: quello naturale o fisico,  oggetto della scienza, sistemato nella concezione meccani-  cistica e deterministica e l’altro umano o « spirituale », 0g-  getto della filosofia vera e propria, intesa come analisi delle  facoltà e dei fenomeni psichici, teoria della conoscenza, mora-  le, psicologia. Con tale analisi viene identificata la metafisica,  la quale non si distingue dalla « gnoseologia » o dall’« ideolo-  gia », intesa come «ricerca sulle facoltà della natura uma-  na », limitata all’indagine dell’origine delle idee, dell’og-  getto e dei limiti del conoscere. È superfluo avvertire che  la soluzione del problema gnoseologico condiziona quella  della possibilità della scienza della natura o meglio della  scienza in generale; ma conta notare come l’oggetto della  metafisica sia ormai esclusivamente l’uomo nell’insieme delle  sue facoltà (sensoriali, intellettive e volitive) e come il pro-  blema metafisico si ponga non nei termini di che cosa è il  reale in quanto reale, ma in quelli di che cosa è l’incondi-  zionato che tutto condiziona. Kant, quando la lettura dello  Hume lo pose di fronte a questo problema, sospese la meta-    110 Filosofia e Metafisica       fisica razionalistica leibniziano-wolffiana e si chiese: è pos-  sibile una metafisica come scienza?   Non vi ha dubbio che Kant, nel porsi questa domanda  intorno al problema che restò centrale in tutti i suoi inte-  ressi di pensatore, si proponesse sinceramente di ricostruire  l’edificio della metafisica sulla base dell’esigenza «critica »,  che gli aveva fatto sospendere la costruzione « dogmatica »  del razionalismo. Così il suo primo problema no-n è quello  di una «teoria » della conoscenza, ma della «critica » del  conoscere in generale per accertare i mezzi di cui la ra-  gione dispone per costruire la metafisica. L'indagine critica  lo porta a concludere, nella prima Critica, che vi sono due  aspetti della questione da tener distinti: 4) vi è un problema  della metafisica « come filosofia dei fondamenti primi della  conoscenza » che s’identifica con la stessa critica, cioè con la  fondazione assoluta dei mezzi del conoscere e non con quello  della metafisica nel senso tradizionale, per la fondazione  della quale quei fondamenti dovrebbero essere strumenti;  5) vi è un altro problema della metafisica come compren-  siva di tutta la conoscenza, vera o apparente, che appartiene  alla Ragione pura e costituisce, non una scienza nel senso  della prima, ma una « scienza dei limiti della ragione uma-  na ». Non tener distinti questi due aspetti del problema ed  applicare le forme del conoscere valide per la conoscenza  del sensibile agli oggetti in sè, è mettersi sulla via dell’er-  rore e dei paralogismi creando un sapere illusorio che si  avvolge nelle insolubili antinomie della dialettica. A_ questo  punto, alla domanda, « che cosa è il reale in quanto reale »,  Kant dà una duplice risposta: 4) come reale fenomenico è  il « contenuto » della sintesi 4 priori, di cui le intuizioni dello  spazio e del tempo e le categorie dell'intelletto sono le  « forme » trascendentali, valide solo per quel contenuto e  come principii necessari universali e assoluti per costruire  la scienza matematica e fisica. Con questa risposta Kant  vuole risolvere il problema della metafisica intesa come    Concetto di metafisica 11}       scienza dei principi primi del sapere, dentro i limiti di un  sapere come conoscenza del sensibile e del fenomenico; e con  ciò conclude il problema del valore del pensiero e dell’analisi  della conoscenza umana posto da Cartesio e Locke e lasciato  in eredità a tutto il razionalismo e a tutto l’empirismo  moderno. 3) Come reale assoluto o cosa in sè è il « con-  tenuto » di una forma che non può essere alcuna di quelle  dell’intuizione e dell’intelletto, valide solo per il fenome-  nico (non ci sembra, dunque, che si possa sostenere che,  per Kant, la realtà sia soltanto fenomeno), ma di un’al-  tra forma valida per un sapere o per una scienza che  non è la matematica e la fisica. Tale scienza è appunto  la morale, di cui i problemi della wolffiana metafisica  speciale o degli esseri sono i postulati indispensabili. Kant,  dunque, non dice che non è possibile una metafisica co-  me scienza in generale, ma solo come scienza nel senso di  quella della natura fisico-fenomenica e ciò vale come Pro-  legomeni necessari di ogni futura metafisica che si presenti  come scienza — senza escludere, anzi includendo, che è pos-  sibile una metafisica sul terreno della morale. Ma egli, le-  gato al concetto di trascendentalità delle forme a priori come  pure funzioni o condizioni del conoscere e preoccupato di  fondare una morale autonoma, non potè dare tale metafi-  sica, ma solo indicare gli oggetti di essa come pure esi-  genze e postulati. Tuttavia, crediamo non vi sia dubbio che  sia questa l’istanza del Kant, il quale, infatti, non potè mai  scrivere nonostante vi si sia provato — esistono frammenti di  questi tentativi — una metafisica della natura, per il motivo  che questa era già stata risolta nella stessa critica, mentre  potè scrivere la Fondazione della metafisica dei costumi e la  Metafisica dei costumi. Di lui resta l'insegnamento, da met-  tere a profitto sulla linea della metafisica classica (non inten-  diamo con questo termine solo le metafisiche di tipo aristo-  telico), che la metafisica è una scienza indipendente dalle  altre, le cui « Idee » rivelano la loro efficacia, ineliminabile    112 Filosofia e Metafisica       ed insostituibile, n ella costituzione del mondo morale o, come  noi diciamo più comprensivamente ed esattamente, della « vi-  ta spirituale »; « Idee » che la « ragione pura », nel senso kan-  tiano, pensa (noumeniche), stabilendo con ciò stesso una di-  stinzione tra il regno dello spirito e quello della natura, alla  cui conoscenza l'intelletto è legato. Kant in questo senso ha  riportato la metafisica al suo oggetto proprio e ha fatto dei  suoi problemi le questioni essenziali e fondamentali del-  l’uomo. Egli approfondisce («critica ») il senso cartesiano  della metafisica considerandola un modo speciale di pensa-  re: i suoi oggetti sono «immateriali » e perciò le eventuali  conoscenze, che di essi la ragione può avere, devono essere  assolutamente 4 priori senza ricorso ai dati della esperienza  nè alle intuizioni spazio-temporali. Tali oggetti così intesi  sono « pensati », ma non conosciuti secondo le categorie della  scienza che è solo scienza (critica della metafisica razionali-  stica), ma ciò non impedisce che possano, debbano essere  pensati e conosciuti come condizioni indispensabili ed asso-  lute della «scienza » dei costumi (f).   L’idealismo trascendentale post-kantiano accolse l’istanza  critica quasi esclusivamente nel senso della metafisica « come  scienza dei fondamenti primi della conoscenza » e considerò  principio assoluto il concetto dell’attività creatrice dello spi-  rito. Di qui una duplice «interpretazione » di Kant e un  duplice sviluppo: @) la metafisica s’identifica senz'altro con  la dottrina della scienza; 5) le forme 4 priori non sono soltanto  funzioni con cui il soggetto «costruisce » l’esperienza: il  soggetto «crea», con la sua attività, forme e contenuto.  Così la metafisica s’identifica con il sapere e il soggetto  « funzionale » di Kant si trasforma nel Soggetto come en-  tità metafisica e teologica: l’Ich denke diventa Ichheit. Du-  plice arbitrio, anche dal punto di vista kantiano. E’ qui  — e non nei pensatori anteriori, soprattutto in alcuni razio-    (3) Altre considerazioni critiche sul problema della metafisica in Kant si  trovano soprattutto nella Parte III di quest'opera.    Concetto di metafisica 113          nalisti — un senso della metafisica opposto a quello di Ari-  stotele: non la scienza dell’ente in quanto ente, ma la scienza  della scienza in quanto scienza. Questo non è più Kant, ma  una forma di «kantismo » che riporta il problema della  metafisica alla posizione prekantiana, quale si riscontra nel-  l’empirismo inglese e in alcuni ideologi francesi del secolo  XVIII. A noi sembra che l’idealismo empirico sia il padre  dell’idealismo trascendentale — tramite un’interpretazione  non-kantiana di Kant: — l’esse est percipi è trasformato  nell’esse est percipere, dove il percipere è l’assoluto spirito  che pone se stesso e il non-io. La posizione kantiana di uno  spostamento della metafisica dalla fisica al mondo morale  è di nuovo perduta e la metafisica ritorna ad essere « filo-  sofia della natura », cosmologia, di cui il principio creatore  è l’Io, un Io perduto nel mondo, che si fa natura senza mai  più potersi riconquistare nella sua interiorità spirituale. Il na-  turalismo neoplatonico (Hegel) e il «riscoperto » Spinoza  ritornano nella formula del Deus sive natura, dove Dio è il  trascendentale e la natura la sua posizione, con la quale l’Io  creante s’identifica (immanentismo). Così l’idealismo riporta  lametafisica sul terreno della scienza della natura e costruisce  una nuova metafisica « dogmatica » nel senso kantiano come  quella del razionalismo, con la differenza che in esso l’«esse-  re» è risolto completamente nel «pensiero» creatore. Di qui  l'opposizione della «metafisica del pensiero» alla « metafisica  dell’essere », di una filosofia della verità che è tutta nel suo  processo storico o filosofia dello spirito — dove però lo spirito  non si coglie mai come tale, ma sempre nella sua media-  zione con il non-io, cioè nel suo farsi natura, esteriorizzarsi,  non essere se stesso — alla « dogmatica » filosofia della verità  immobile. Il soggetto non è più problema, ma principio as-  soluto che tutto spiega: resta estraneo alla ricerca metafisica,  che così gli si fa estrinseca, « materiale ». La realtà prima  e ultima è il pensiero, che si fa tutto senza essere mai pro-    114 Filosofia e Metafisica       priamente se stesso, che nega ogni antecedente ontologico  senza riescire a conquistare la sua autentica soggettività.   Compiuto con il Fichte il « salto » dall’Io funzionale al-  l’Io entità metafisica, l’idealismo trascendentale elimina la  distinzione kantiana di fenomeno e cosa in sè, di mondo  della natura e di mondo morale, annullando con ciò stesso i  termini in cui Kant aveva posto il problema della metafi-  sica: cade la distinzione tra scienza dell’assoluto e cono-  scenza del fenomenico e la metafisica viene identificata  con la stessa teoria critica del conoscere. Razionale e reale  si adeguano: la Ragione ha la capacità di penetrare tutto il  reale, in quanto il reale è lo stesso dispiegarsi della Ragione.  La metafisica della natura s’identifica con quella del pen-  siero, dato che il principio del dialettismo antinomico è il  fondamento assoluto dell’una e dell’altro. Ogni aspetto del  reale non è che un momento del processo dialettico: i dati  dell’esperienza sono risolti nel divenire dello spirito e questo  è nella concretezza delle sue determinazioni.   Costruzione aprioristica e fantastica della natura, disso-  luzione della realtà e degli enti nel processo dialettico  della Ragione e di questa nelle sue transeunti determi-  nazioni, dommatismo e teologismo deteriori determinarono  la decadenza della « metafisica del pensiero » e provocarono  una compatta reazione ad essa. Lo Schopenhauer fa sua  la distinzione kantiana di fisica e metafisica, di fenomeno e  cosa in sè; Kierkegaard, in nome dei diritti della fede e  della religione, rivendica il concetto di «esistenza » o di  « singolarità » e alla dialettica del passaggio contrappone  quella del « salto », alla « ragione » l°« assurdo » della fede;  Feuerbach e Marx rivalutano il concreto, il particolare o  finito e fanno scendere l’idea hegeliana nel mondo dei fatti;  il Neokantismo lancia il grido di Keine Metaphystk mehr  contro la metafisica intesa nel suo senso deteriore e affianca  la posizione positivistica, imbaldanzita dai successi delle scien-  ze sperimentali. Comte considera « abstrait » l’« état méta-    Concetto di metafisica 115          physique », ormai definitivamente superato al pari di quello  teologico (naturalmente poi egli fa, per suo conto, della me-  tafisica concependo la filosofia come sistema delle scienze e  della pseudo-teologia), mentre Sully Prudhomme (Que  sais-je?, p. 51) scrive: «Il n'y a de métaphysique dans  l’ètre que l’inconcevable. La métaphysique commence où la  clarté finit ». Quando l’idealismo hegeliano ai principi del  secolo rinasce in Italia, la metafisica del pensiero viene  rigettata da un epigono formatosi nell’ambiente positivistico  e negli studi marxisti e accettata dal Gentile, attraverso una  « riforma » della dialettica dello Hegel (mediatore lo Spa-  venta), come metafisica dell’atto del pensiero pensante, anti-  tetica a quella oggettivistica dell’essere.   In tutta questa reazione violenta contro la metafisica,  escluso il Gentile, è necessario notare che: 1) si reagisce con-  tro la metafisica di tipo hegeliano, identificata con la meta-  fisica senz'altro — solo arbitrariamente la condanna è stata  estesa alla metafisica come tale; 2) si rivendica, da un lato,  la realtà, il senso e il valore dell’esistente o singolo contro  la « ragione speculativa » e di fronte all’assurdo e allo « scan-  dalo » della fede religiosa (esistenzialismo teologico e tra-  scendente) o come valore in se stesso, il cui avvenire è nel-  l'umanità (esistenzialismo laico o immanente); 3) e, dal-  l’altro, il concetto di scienza nel senso moderno, costruita  con metodo sperimentale e non aprioristicamente. Purtroppo  l’identificazione della metafisica con quella di tipo idealisti-  co; il prevalere degli interessi pratico-scientifici; l’estensione  arbitraria di metodi e leggi valevoli per il mondo fisico an-  che alla spiegazione del mondo dello spirito; il convinci-  mento derivante da un’interpretazione unilaterale della Cri-  tica che, dopo Kant, non era più possibile — e nemmeno se-  rio! — tentare di ricostruire una metafisica; il perdurare del  senso dispregiativo ormai tradizionale dato a questa pa-  rola nel secolo XVII e più ancora nel XVIII contribuirono  a far decretare una condanna della metafisica, che apparen-    116 Filosofia e Metafisica       temente — quanta superficialità anche in pensatori di non me-  diocre levatura! — è potuta sembrare definitiva. Quasi inesi-  stente, d’altra parte, l’influenza della filosofia rosminiana  fuori d’Italia e pure da noi limitata, scarsa di sviluppi specu-  lativi, prima ostacolata per motivi politico-teologici e poi ar-  restata dal prevalere del positivismo o interpretata kantiana-  mente, idealisticamente e immanentisticamente sia dal pri-  mo (Spaventa) che dal secondo (Gentile) hegelismo. Eppure  il Rosmini, antikantiano nel giro dei problemi di Kant, rap-  presenta ancor oggi — e non solo in Italia — la più vigo-  rosa riscossa della metafisica tradizionale, non ripetuta, ma  ripensata a contatto del pensiero moderno. La sua filosofia  aspetta ancora di entrare nel vivo del pensiero mondiale.   Com'è noto la reazione idealistica contro il positivismo,  altra età barbara della filosofia, fu suscitata dal bisogno di  rivendicare i valori spirituali e di restituire la filosofia ai suoi  problemi e alla sua autonomia. La metafisica si giovò di  questa riscossa, ma non si ebbe un ripensamento sistematico  di quella classica, sia di tipo platonico che aristotelico. Per  il Bergson metafisica è un modo speciale di conoscere e cioè  il mezzo « de posséder une réalité absolument au lieu de la  connaître relativement, de se placer en elle au lieu d’adop-  ter des points de vue sur elle, d’en avoir l’intuition au lieu  d’en faire l’analyse, enfin de la saisir en dehors de toute ex-  pression, traduction ou représentation symbolique » (Intro-  duction è la métaphysique, in « Revue de métaph. et de  mor. », I, 1903). In breve, per il Bergson — a parte che egli  attribuisce questa capacità all’intuizione che contrappone al  pensiero discorsivo — la metafisica è conoscenza assoluta,  ultima. Egli riconosce che il suo oggetto è l’essenza in-  terna degli esseri e non le loro manifestazioni sensibili; che  è penetrazione 4/ di là della fisica (per lui delle immo-  bili leggi delle scienze) nell’intimo della creatività « indi-  viduale » degli esseri, non dell’essere. Da parte sua il La-.  chelier (Vocabulaire technique et critique de la philos., IV    Concetto di metafisica 117       ediz., vol. I, p. 456) si augura che la metafisica possa ridiven-  tare «la science de l’étre, dans le double sens d’existence  en général et de totalité des existences », ma alla « nouvelle  condition » che la chiave di questa scienza sia cercata « dans  la logique interne de la pensée» precisando che Dio e il  nostro possibile destino fuori di questo mondo non sono og-  getti di scienza, ma di fede. Il Gentile (op. cit., p- 123),  nei primi anni del nostro secolo, può scrivere 2a «oggi  i vecchi nemici di essa [ della metafisica ] cercano di scusare  e di attenuare le loro critiche di una volta... Oggi lo storico  della filosofia può parlare della metafisica classica, ossia della  filosofia vera e propria di tutti i tempi, con la certezza di  toccare una corda che risuoni nell’animo dei suoi ascolta-  tori ». E anche per lui metafisica è « spingersi al di là del  fenomeno e fissare l’occhio nel reale» (i22).   Vi è in questi ed in altri pensatori un’istanza comune:  la metafisica si giustifica come rivendicazione di quei valori  spirituali (conoscitivi, morali ed anche religiosi) che nessuna  scienza sperimentale può mai cogliere. Si tratta di una ri-  valutazione dei valori umani (tipica della Wertmetaphysik  del Windelband e del Rickert) sul terreno stesso dell’umanità  e della storia, @/ di Îè delle schematizzazioni della scienza  naturalistica. Di qui la netta distinzione tra scienza e meta-  fisica: la prima non può condurre alla seconda e questa,  come scrive il Liard (La science positive et la métaphysique,  P. III, c. VII), « ne peut fournir à la science un point de  départ et des principes régulateurs ». « Après les phénomè-  nes, nous voulons connaître l’absolu; après les conditions  nous demandons la raison de l’existence. La métaphysique  serait la détermination de cet absolu, la découverte de cette  raison » (ivi, Avant propos). Dunque « volontà » e perciò  esigenza di conoscere l’assoluto; domanda, e perciò ancora  esigenza, della ragione dell’esistenza. L’idealismo aveva ri-  sposto dopo Kant, ma « interpretandolo », a queste esigenze  con la nuova metafisica del pensiero, sul terreno dell’imma-    118 Filosofia e Metafisica       nenza assoluta, ma senza appagare quella « volontà » di as-  soluto nè soddisfare quella « domanda » di ragione dell’esi-  stenza.   Siamo arrivati, ci sembra, al punto cruciale, in seno al  siero moderno e contemporaneo del problema della metafi-  sica. Si riconosce l’insopprimibilità per l’uomo e dunque per  il pensiero dei suoi problemi; per conseguenza che bisogna  rispondere, che non si può non rispondere: rispondere è una  « necessità interna» del pensiero, direbbe Lachelier. Ora  l’immanentismo, sotto qualunque forma si presenti, è dav-  vero una (/a) risposta a queste esigenze di « assoluto » e di  «ragione » dell’esistenza, o non piuttosto l’assolutizzazione  della ragione o del pensiero e la negazione di ogni ragione  dell’esistenza? Nell’« assoluto pensiero » immanente e  per-  ciò circoscritto alla natura c'è una contraddizione nei ter-  mini: il pensiero pone, intrinsecamente, l'esigenza dell’as-  soluto e esso stesso si pone assoluto. O l’esigenza non c’è e  il pensiero è l’assoluto; o l’esigenza c’è, interna al pensiero  e pungolo che lo spinge ad oltrepassarsi, e il pensiero non  è l’assoluto, ma fondamentale, invincibile, universale esi-  genza dell’assoluto; ed è qui, e non nel pensiero, la « ra-  gione » dell’esistenza. Questo ci sembra il primo risultato  positivo del travaglio della speculazione da Cartesio ai no-  sti giorni: il riconoscimento razionale — e dunque critico del-  la critica più rigorosa ed intransigente — che l'assoluto oltre-  passa il pensiero di cui è pure il fondamento e il fine, la sua  ragione prima ed ultima, la ragione dell’esistenza come tale.  L’immanentismo non è una risposta alla metafisica, ma l’as-  sunzione a principio assoluto di un elemento (il pensiero uma-  no) che è invece richiesta di assoluto e che, solo in quanto tale,  pone il problema di una metafisica come «sforzo», dice James,  « unusually obstinate » di pensare «chiaro e conseguente-  mente », soprattutto « consistently », come bisogno di una  Durchbildung energica del nostro Lebdenskreis (Eucken).  Dunque, il travaglio del pensiero moderno c’insegna, contro’    Concetto di metafisica 119       le sue premesse ma in armonia con le sue ultime conclusioni,  che non vi è metafisica autentica dove non vi è trascendenza  (l’al di lè). Per conseguenza: 4) tutti i tentativi odierni di  immanenza e super-immanenza contrastano con le con-  clusioni stesse di quel pensiero moderno o critico a cui si  richiamano e perciò sono essi delle sopravvivenze; 5) il pro-  blema dell’assoluto come fondamento del sapere e del vo-  lere si pone innanzi tutto, anche se non esclusivamente,  come problema della ragione dell’esistenza umana, valida  non per l’umanità in generale, bensì per ogni singolo uomo,  cioè come problema dell’altro, ma dell’aliro dell’uomo e non  dell’« altro» mondo, come problema dell’a/ di lè dell’uomo  (e perciò anche come suo destino) e non in un senso soltanto  naturalistico dell’al di lì del mondo fisico. Se non vi è una  metafisica cristiana, vi è un modo cristiano d’intendere la  metafisica; il Cristianesimo non è una cosmologia, ma in-  nanzi tutto, civitas hominis, qui, Civitas Dei, « al di là »..  Questo modo d’intendere la metafisica non è soltanto no-  stro ma predominante da quando la più recente filosofia con-  temporanea si è posto il problema con insistenza e in termini  espliciti; da quando metafisica ed ontologia non sono più  solo « ricordate » come mere parole cadute in disuso ed ar-  chiviate. Un ritorno della metafisica non solo come esigenza  ma come dimostrazione della trascendenza, ricerca di un as-  soluto come principio dell’esistenza è la posizione più vitale  di una parte del pensiero odierno, che non segna un salto in-  dietro nel processo della filosofia, ma è la continuazione del  pensiero moderno, le cui conclusioni autorizzano la più pro-  fonda revisione delle sue premesse. Noi diciamo dunque che  la vera conquista del pensiero moderno, non è il principio  della « creatività » dello spirito e conseguentemente dell’im-  manenza, ma la riconquista, attraverso il processo critico,  della sua «creaturalità » e perciò della trascendenza, risco-  perta nel suo autentico significato spirituale datole dal pen-  siero cristiano, che venne ad arricchire ed anche a trasfor-    120 Filosofia e Metafisica       mare quello cosmologico e naturalistico, proprio della me-  tafisica greca.    4. — Gli esseri e l’Essere. L’ Atto creatore.    La creaturalità — il sentirsi creature — è l’atto primor-  diale della coscienza: nel momento stesso che avverto an-  che confusamente di essere, avverto che non sono da me,  che sono «esistente », cioè da altri; avverto, dunque, attra-  verso i limiti del mio essere, che un (/") « essere » non limi-  tato, mi ha fatto «esistere ». La presenza di me a me stesso  importa la « presenza » mediata analogica in me dell’Es-  sere, senza della quale non avvertirei il mio limite (e dun-  que l’Essere da cui sono) e nemmeno saprei di essere. Io-so-  di-essere (cogito ergo sum) in quanto la presenza dell’essere  in me, l’idea dell’essere, rende possibile che lo sappia; cioè  fa che io sia un essere pensante. Penso perchè mi è data l’idea  dell’essere (non che il pensiero la ricavi per astrazione o per  altro, o la crei), per la quale esso è conoscenza e innanzi  tutto coscienza di sè: non il pensiero fonda l’essere, ma l’es-  sere fonda me pensante, donandosi come idea o oggetto.  Io sono innato a me stesso nel senso che l’idea dell’essere  per cui il pensiero pensa e ad esso è data è quella per cui  acquisto coscienza del mio essere che è dall’Essere: «pen-  so » perchè « sono stato pensato »; e siccome non mi è dato  l’essere assoluto — se così fosse, me lo sarei dato io stesso  in quanto è dell’assoluto essere principio di se stesso — con  quella del mio essere, ho coscienza del limite e perciò dell’Es-  sere da cui sono io, essenza spirituale incarnata in un corpo, esi-  stente concretamente, questa essenza qui. Il pensiero — che è  tale per la presenza della verità — avverte una duplice presen-  za di essere: dell’essere (il mio) contingente, che, come tale, è  dall’Essere necessario che trascende il mio essere come l’as-  soluto il relativo, e il pensiero come il reale il possibile. L'atto  del pensare importa una duplice ontologia: realtà degli es-    Concetto di metafisica 121       seri e realtà dell'Essere, come importa l’intuito fondamen-  tale della verità, fondante il pensare. Vi è dunque l’essere  come idea, gli esseri come esistenti, finiti e relativi, l’Essere  come esistente infinito e assoluto: il principio primo del  sapere; gli oggetti reali conoscibili tramite l’esperienza  sensibile, il Soggetto realissimo, fine di ogni conoscenza,  ma, come tale, aspirazione infinita mai appagata nell’ordine  umano e naturale. Ma aspirazione ben fondata, in quanto  l’Essere realissimo non è una possibilità, una pura Idea della  ragione o un dover essere, ma è, esiste, come attestano il  mio esistere e il mio pensare. Infatti, il mio esistere da —  la mia creaturalità — importa l’esistenza del 44 cui io sono,  cioè dell'Essere realissimo assoluto; come il mio pensare, che  è tale per la presenza della verità che non è la Verità in sè,  importa l’esistenza dell’Essere-Verità, che la mia mente 207  costruisce; da Lui anzi è stata fatta lume di intelligenza  per mezzo dell’« astrazione originaria » coincidente con l’atto  creativo. D'altra parte, l’essere io come gli altri esseri, una  essenza esistenziata — questa qui — importa che sono un  essere singolo, persona; dunque l’Essere che mi ha creato —  mi ha fatto e mi fa esistere — non può essere un gd, un  essere impersonale, ma è anch’Egli Ego, Persona, l’Altro  assoluto, la Persona assoluta da cui sono. Nel momento stesso  che mi so come singolarità, avverto in me la presenza della  Singolarità assoluta da cui sono: sapermi è riconoscere che  Dio è; sapermi è, dunque, cogliere la mia realtà ontolo-  gica e con essa la sua radice; è ancora, come atto di « rico-  noscimento », un sapere che è supremo atto morale. Sapermi  da è volermi per: conosco che esisto da Dio e voglio esi-  stere per Lui: essere da e per l’Essere. Perciò l'oggetto del  mio pensare è infinito come infinita è la presenza della ve-  rità in me, che nessun essere creato adegua; del pari infinito  è l’oggetto del mio volere (amare) come infinita è la sua  forma, che nessun essere voluto compie e appaga. Se in ogni  mio atto di pensiero e in ogni volizione io non so che Dio    122 Filosofia e Metafisica       esiste come Esistente supremo e assoluto, creatore di ogni  esistenza, e non lo riconosco o lo amo nè desidero co-  noscerlo anche quando conosco e desidero altro, non so,  disconosco e dunque igroro. Perduto il senso creaturale, ho  perduto il senso di me stesso e di ogni realtà: è la caduta  del mio essere nel nulla; è l’essermi fatto estrinseco a me stes-  so e perciò al mio pensiero, per cui la presenza di Dio resta  muta nell’assenza di me a me stesso.   In questa metafisica — di necessità appena accennata —  il concetto fondamentale è quello di creazione, non presup-  posto ma razionalmente dimostrato: ogni cosa che esiste  e non ha in se stessa il principio del suo esistere, rimanda  al principio che l’ha prodotta; siccome le cose create sono  esseri viventi e pensanti secondo un ordine loro intrinseco,  il Principio primo non può che essere l’Intelligenza su-  prema, la quale — siccome ha voluto creare — è anche  suprema Volontà; dunque, Intelligenza che è Persona. Il  concetto di Ens realissimum non basta per una metafisica  che vuol tener conto della teologia cristiana. La creazione  è dunque l’atto primo assoluto fondante la esistenza degli  esseri, l’atto supremo dell’esistere degli esistenti.   Aristotele ha definito la metafisica ocopia zowtn, la  scienza dell’év n 6v, dell’ente in quanto ente, cioè la scienza  degli elementi e delle condizioni dell’esistenza in generale  (ogni essere è potenza ed atto; è determinato ad esistere dalla  causa efficiente e dalla causa finale), ma l’Essere o Dio è la  condizione suprema dell’esistenza di tutti gli altri (*). Per  Aristotele ancora reali sono gli individui, cioè le essenze    (4) Anzi, per Aristotele, l'oggetto della metafisica è soltanto l’ente divino  e perciò la praocopia rpéòrn s’identifica con la puiocopla deodoyix. Ma si  tratta — come ha dimostrato lo Jaeger — di due fasi del suo pensiero. S. Tom-  maso intende la metafisica (transpàysica) in senso cristiano (Dio primo motore,  fine ultimo, principio e giudice della morale; immortalità dell’anima indivi-  duale, ecc.) per cui l'oggetto di essa è identico a quello della teologia (differi-  scono nel modo di conoscere). Di qui la definizione di S. Tommaso: aliqua  scientia adquisita est circa res divinas scilicet scientia metaphysica (S. T., II,  2, IX, 2 ob. 2).    Concetto di metafisica 123       concretamente esistenzi: una data cosa è ( 7: È) ed è  questo ( Tè dì ), quale, quanto ecc. L'essere è ogni cosa,  ma appunto è qualche cosa avente una certa natura, qua-  lità, quantità, ecc. Accettiamo la definizione che il reale -  individuo è una essenza esistente, cioè avente certi carat-  teri; ma, come sappiamo, per Aristotele, non vi è scienza  del reale individuale, in quanto la scienza è dell’universale.  La razionalità è dell’essenza desistenzializzata e non del-  l'essenza esistenziata, per cui alla scienza o conoscenza di  tipo aristotelico l’esistente è indifferente: suo oggetto sono  le pure forme intelligibili. La scienza non può dirmi chi  sono; mi dice qual’è la mia essenza, che è mia e di  altri, ma io non sono pura essenza, bensì essenza mia,  singola, concretamente esistente. La scienza aristotelica trova  nel singolo il suo limite esistenziale, lascia aperto il pro-  blema dell’intelligibilità del reale individuale. In fondo, la  metafisica di Aristotele, dei due principi del reale — forma  e materia — guarda più alla prima che alla seconda, all’es-  senza pura anzichè all’essenza che esiste, meglio, alle sin-  gole essenze che esistono; ma a me, essere esistente, im-  porta la mia essenza esistente. Pertanto, il problema della  metafisica come scienza degli esseri, cioè di chi e che cosa è  l’esistente in quanto tale, ci sembra quello del supremo atto di  esistere, del principio primo dell’esistenza individuale, cioè  l’atto di creazione.   Io sono un’essenza-esistente: lio sozo — il fatto che esi-  sto — pone il problema del mio esistere, pone me stesso  come problema. Se sono da Qualcuno, Egli mi 44 pensato;  se mi ha pensato, sono da una sua idea; dunque il Qualcuno  è Intelligenza; se mi ha fatto esistere, mi ha voluto, dun-  que è Volontà che ha voluto che io esistessi e mi vuole  e mi ama ancora per il fatto che continuo ad esistere. Jo  sono un'idea di Dio, voluta da Dio; tutti gli esseri sono  idee di Dio, volute da Dio: pensate e volute una per  una, singolarmente. Il mondo è un’Idea pensata e vo-    124 Filosofia e Metafisica       luta da Dio. Il reale in quanto reale è verità (ens e: verum  convertuntur, in un senso qui differentissimo da quello dello  Hegel), secondo l’immortale scoperta di Platone, che ab-  biamo fatto nostra attraverso la trasposizione di Agostino  e il ripensamento del Rosmini. Idea (verità) qui significa  singolarità: Dio crea i singoli come singoli e ciascuno di essi  conosce e vuole come singolo. Le idee divine non sono i no-  stri concetti astratti, ma atti creatori, viventi; feconde, fac-  tivae rerum. La conoscenza discorsiva 0 per concetti non  esprime questa singolarità, ma solo un elemento dell’esistenza  concreta, la quale è espressa da quelle forme superiori di  conoscenza, che pur la includono, come per esempio l’at-  to morale, in cui la relazione è da persona a persona, da  esistente ad esistente; che è tale solo per la presenza del  supremo atto di esistere, per cui il singolo è singolo e rico-  nosce l’altro come altro.   Questa consapevolezza non dà però il possesso dell’atto  supremo dell’esistente, trascendente ogni esistere; ne attesta  solo l’esistenza e accende nella creatura il desiderio del pos-  sesso: la conoscenza dell’atto supremo di ogni esistente è il  limite assoluto della metafisica. Qui la filosofia si ferma e si  apre alla religione, come quella che ha scoperto l’uomo  all'uomo, gli ha rivelato la radice del suo essere, il  significato del suo vivere, la finalità del suo pensare e  del suo volere. Questa filosofia è metafisica sic et sim-  pliciter, che non contrasta, come crede lo Scheler, con la  religione, ma ne è la preparazione razionale. È vero, come  dice Heidegger, che il limite del mio esistere, dato dal fatto  che l’esistente non trova in sè ma sopra di sè l’atto del suo  esistere, scopre le mie possibilità, il mio destino, ma non  nel senso della finitezza « inesorabile » e della « nullità »  (Nichtheit), in cui tutto il mondo resta «sprofondato»  (herabgesunken), bensì nell’altro della. mia possibilità su-  prema di poter essere tutto il mio essere nella suprema aper-  tura all’Essere. L’In-der-Welt-scin è essere-nel-mondo, ma    Concetto di metafisica 125       per essere-per-Dio. Proprio la finitezza implica il riferimento  all'infinito: non « chiude » ma «apre » l’orizzonte. Non dal  nulla nasce l’essere, ma dall’Essere nasce il mio essere, per  cui il problema dell’essere concreto « gettato nel mon-  do », non pone quello del nulla, ma l’altro dell’Essere asso-  luto. Freiheit zum Tode: Sein zum Tode, certamente; ma  in quanto la morte, direbbe Platone, è passaggio all’evi-  denza di quell’ordine (il vero) ontologico, che, qui, l’uomo  non può mai cogliere con le sue sole forze.   Realtà è verità: io sono una verità di Dio e perciò so-  no qualcuno che è e non nulla. Dio è l’Essere Verità  creante, Logos, e ha fatto che io fossi, pensandomi e  volendomi; Verità illuminante e perciò ha voluto darmi il  lume della intelligenza e della ragione, affinchè di Lui leg-  gessi l’orma in tutte le cose e soprattutto ne ascoltassi la  presenza in me, Lo volessi sempre senza mai interamente pos-  sederLo. Non posso strappare il mio essere dalla sua radice,  staccarlo dalla sorgente; dunque sono attratto irresistibil-  mente 4/ di lè: ogni uomo è per natura metafisico. La ve-  rità, dice Agostino (De vera relig., XXX I, n. 66), è quella  quae ostendit quod est: per quel che io sono, sono vero.  La verità assoluta è l’Assoluto Essere, verità creatrice a cui  le cose sono simili: in quantum similia... in tantum sunt (tvî).  Io ho dell’essere o del vero, non sozo l’essere o il vero, ma  appunto perchè ho e non sono, sono per l’Essere o il Vero.  Il possesso della verità non è il mio stato attuale, ma la mia  finalità ultima, che l’intelligenza e la ragione mi indicano,  ma che non bastano per farmela conseguire. Nello stato  attuale debbo cercare o amare — perfecte quaerere — ciò a  cui tendo, ed oltrepassarmi.    CapitoLo II    DISCUSSIONE  INTORNO AL CONCETTO DI METAFISICA    |. — Adesioni con ragioni e ragioni senza adesioni.    In un lunghissimo articolo di più che 60 pagine, I! con-  cetto di Metafisica e lo Spiritualismo cristiano, pubblicato  nella « Rivista di filosofia nescolastica » (1, 1949), il Rev.mo  Mons. F. Olgiati, traendo lo spunto dal fascicolo (IV-V,  1947), che questa Rivista ha dedicato alla metafisica, oltre  che da altre pubblicazioni sullo stesso argomento, prende in  esame quell’indirizzo di pensiero ormai noto in Italia e al-  l’Estero sotto il nome, del quale sono responsabile, di « Spi-  ritualismo cristiano ».   Naturalmente terrò presenti in questa risposta solo le  obiezioni che mi riguardano direttamente e di esse in spe-  cial modo quelle che toccano l’essenziale. Debbo ancora  dire che, alcune di esse hanno già avuto risposta, spero  chiaritiva, in molte pagine raccolte in questo volume.  Ciò mi obbliga a non dilungarmi oltre il necessario, sia per-  chè i punti della discussione si possono precisare e chiarire  brevemente, sia per non ripetermi. Premesso qualche rilievo,  accennerò ad alcune questioni marginali; m’intratterrò da  ultimo su quattro punti essenziali.   Monsignor Olgiati riconosce onestamente che la posi-  zione metafisica che io difendo e sostengo rappresenta « un  così largo e diffuso indirizzo di idee » che, se dovesse valere    Concetto di Metafisica 127  il criterio della maggioranza, Aristotele e S. Tommaso « non  raccoglierebbero oggi se non pochi voti »; e aggiunge: « For-  tunatamente nel campo nostro non contano le adesioni, ma  le ragioni » (p. 18). Mi permetto domandare a Mons. Olgiati:  e che pensiamo delle ragioni senza adesioni? fino a che punto  valgono? la verità è sterile o è feconda? le adesioni, guan-  tunque da sole non costituiscano la verità di un princi-  pio, non sono indicative della sua presa e della sua forza?  Si aggiunga che queste adesioni non mancano da oggi,  ma ormai da secoli. Quanto nel pensiero moderno, dall’Uma-  nesimo in poi, ancora continua efficacemente il pensiero  tradizionale ed ha avuto influsso nel corso della civiltà, è  platonico-agostiniano: così Ficino ed il neoplatonismo fio-  rentino, Cusano e Campanella, Malebranche e Pascal, Vico  e Rosmini, Gratry e Blondel ecc. ecc. Si faccia eccezione di  Suarez e di Balmes ed oggi di qualche studioso di primo  piano e mi si dica quale è stata ed è l’influenza feconda  e fecondatrice del tomismo negli ultimi sette secoli del  pensiero occidentale. Ho detto del tomismo, non di S. Tom-  maso, che è operante anche nella tradizione, diciamo co-  sì, agostiniana, come Agostino è profondamente operante  nel pensiero del Santo di Aquino, secondo che hanno dimo-  strato gli spiritualisti cristiani e non pochi eminenti to-  misti. Sarei quasi tentato di dire che il tomismo, almeno  storicamente, sia in buona parte responsabile della poca  efficacia di S. Tommaso. Ecco perchè io non metterei così  insieme, quasi due fratelli siamesi, Aristotele e l’Aquinate  se non altro per non compromettere quest’ultimo addossan-  dogli indiscriminatamente alcune responsabilità non sue.    2. — Questioni marginali.    Ed ora qualche accenno a questioni marginali.  a) Mons. Olgiati nel suo articolo ritiene indispensabile  innanzi tutto richiamare il concetto di metafisica « sia come    128 Filosofia e Metafisica       è inteso da Zui secondo i principî della filosofia classica »,  sia come è inteso da me (p. 4). E il mio, che si appoggia  a Platone ed Agostino senza affatto trascurare Aristotele  e S. Tommaso, non è inteso secondo i principî della filo-  sofia classica? o i principî della filosofia classica sono quelli  di Aristotele, soli soli, senza che si possa mutare una vir-  gola, monopolio della Neoscolastica di Milano?    b) Secondo Mons. Olgiati, io (e il Blondel) non ho il  «concetto del concetto »; ma come avrei potuto formulare  lo stesso tema: « Che cosa è metafisica » (cioè qual'è il con-  cetto della metafisica), se questo ben dell’intelletto mi fosse  mancato? Il concetto del concetto non è mai mancato a  nessun uomo al mondo, anche prima che Socrate scoprisse  il concetto: si tratta solo di intenderlo in maniera astratta  o concreta. Nè io nè Blondel neghiamo il valore della ragione  o dell’intelletto, senza di cui l’uomo cesserebbe di essere  uomo, la filosofia filosofia e il pensiero pensiero. E ciò ho  detto e ridetto in ogni circostanza, perchè questo ritornello  mi è stato cantato altre volte; altrettante è stato da me detto  e ripetuto che dalla ragione non si può prescindere e che  il problema primo è quello della verità senza di cui non  c’è neppure carità. Credo superfluo insistere su questo punto,  non senza però cogliere l’occasione di dire che è mio desi-  derio che venga tenuta distinta la mia posizione, quale che  sia, da quella del Blondel. Che io abbia simpatia per il pen-  satore francese è vero; che il Blondel abbia contribuito a  formarmi intellettualmente e da me sia stato difeso a vi-  so aperto da fraintendimenti ed accuse infondate, è anche  vero; ma che io l’accetti in pieno e sia blondeliano è asso-  lutamente gratuito. Perciò non comprendo come l’Olgiati  possa scrivere che rispetto al Blondel io sia «ancora nel  periodo del primo entusiasmo » (p. 61). Niente affatto: non  « primo » perchè l’influenza diretta ed evidente del Blondel  c'è già nelle Linee di uno spiritualismo critico di tredici  anni or sono (1936); nè « entusiasmo » (ma che Mons. Ol-    Concetto di metafisica 129       giati pensasse al suo per Aristotele?) perchè non ho entu-  siasmo per nessuno, ma solo per la Verità e dunque per  ogni pensatore, quale che sia, per quel tanto di verità che  contiene. Ed è per quel tanto di verità in essa contenuta  che ho difeso la filosofia blondeliana in più di una cir-  costanza ed ho polemizzato contro quanti Blondel hanno  spesso criticato senza neppure leggerlo. La verità va rispet  tata dovunque s’incontri per il fatto che è verità. E credo che  Mons. Olgiati avrebbe fatto meglio a mettere in vista quel  poco di verità che contiene lo Spiritualismo cristiano degli  altri e mio, quel minimum comune, fondamento per inten-  derci anche attraverso la discussione e i dissensi. I casi sono  due: o lo Spiritualismo cristiano ha una sua verità ed è bene  partire da questo consenso fondamentale; o non ne ha alcuna  ed allora è inutile discuterlo.    c) In un punto del suo articolo (p. 38) l’Olgiati scrive che  io posso replicargli che « non afferra » la mia «idea precisa  colui che mi muove simili critiche ». Sono costretto a dirgli,  dopo aver letto attentamente il suo articolo, che egli ha pro-  prio ragione: le sue critiche mi sembrano provare che non  abbia afferrato la mia idea precisa. E lo dimostrerò repli-  cando sui punti essenziali, oggetto di questo nostro dibattito.    3. — Se hanno una metafisica anche le filosofie che la negano.    Il primo punto di dissenso, pur non così radicale come  crede l’Olgiati, concerne i concetti di filosofia e metafisica.  Per Mons. Olgiati, vi è una metafisica iniziale presente in  ogni filosofia, quale che sia: non c’è filosofo che possa  filosofare senza avere, sia pure implicitamente, una sua con-  cezione del reale, cioè senza avere risposto alla domanda  metafisica di che cosa è la realtà in quanto realtà; ma chi  ha una concezione del reale quale che sia, ha una sua meta-  fisica; dunque non c’è filosofo o filosofia — anche quei filo-  sofi e quelle filosofie che si dicono antimetafisiche — che non    130 Filosofia e Metafisica       nutra nel suo seno una metafisica, altrimenti « non potrebbe  mai aspirare ad una spiegazione filosofica della realtà » (p.  5). Questo il punto di vista di Mons. Olgiati, il quale certa-  mente si meraviglierà che io dica di essere d’accordo con  lui, cioè: è vero, non c'è filosofia che sia tale, la quale  non sia metafisica, come vado ripetendo da anni, dal Pro-  gramma metafisico, redatto assieme all’Aliotta, della Rivista  «Logos» del 1937, alla Necessità di una coscienza meta-  fisica, articolo pubblicato nello stesso « Logos» (1939) e ri-  prodotto e discusso in quell'epoca da una decina di riviste.  E allora, dov'è il dissenso? Ecco: per me oggi è diffusa,  e purtroppo anche accreditata, la pretesa che si possa fare  filosofia abolendo la metafisica, cioè esimendosi dal rispon-  dere alla domanda considerata inutile o inesistente, di che  cosa è la realtà in quanto realtà. L’Olgiati è pronto a ribat-  tere: «ma questa non è filosofia ». Appunto: è proprio  quello che ho detto anch'io nell’articolo che si discute come  altrove, e qui ripeto. È proprio qui la crisi della metafisica  o della filosofia: non nell’avere anche inconsapevolmente  una quale che sia concezione della realtà in quanto realtà,  ma nel rinunziare consapevolmente a questo problema e  pretendere di fare ugualmente filosofia e di spacciare per  vera quella che abolisce o ignora il problema metafisico. La  crisi di una disciplina è manifesta quando si nega il suo  oggetto proprio e ad essa essenziale perchè di essa costi-  tutivo e si continua a dire che, anche così negata nella sua es-  senza, è ancora viva come quella disciplina. Nel caso nostro  si dice che è filosofia « la non filosofia », cioè il suo contrario;  è come dire che è falso il vero ed è vero il falso. Quando  nego che queste « filosofie » hanno una metafisica, contro  l’Olgiati che dal suo punto di vista sostiene il contrario, e  con ciò che siano filosofie, voglio chiarire un equivoco dan-  nosissimo e richiamare l’attenzione di questi cosiddetti filo-  sofi sul punto che sta a cuore all’Olgiati e a me: « prescin-  dete pure dalla metafisica ma non parlate più di filosofia in    Concetto di metafisica 131       quanto questa cumincia con la domanda metafisica; voi do-  vete ancora incominciare a filosofare, anche se vi chiamate  filosofi o anche se la gente ignara e volgare vi considera  tali ». Vorrei che Mons. Olgiati fosse d’accordo su questi  punti — e non può non esserlo perchè l’accordo c’è: una pura  descrizione fenomenologica o empiricamente psicologista è  metafisica o filosofia? No di certo, perchè non pone nè  sottintende il problema metafisico; eppure quante di queste  descrizioni oggi si dicono filosofie e passano per tali? Una  pura ricerca metodologica, scientifica o storicista, è metafi-  sica? I metodologi non dicono che il reale, in quanto reale,  è il fatto storico o altro, ma in altro modo e cioè: « noi ci  interessiamo solo del fatto, del fenomeno, dell’evento senza  preoccuparci cosa sia il reale, o se vi sia un reale o no»;  ed aggiungono che questa è filosofia. Io dico di no, che non lo  è, appunto perchè manca di una metafisica e non si pone il  problema metafisico. Evidentemente la filosofia incomincia  (e perciò non è scienza, nè storia, nè economia, nè altro,  quantunque questi problemi possano — debbano — essere  posti filosoficamente come problemi del valore e del senso  ultimo — metafisico — della scienza, della storia ecc.), quando  non ci si ferma al fatto e alla descrizione di esso, ma si va  al di là, se ne cerca metafisicamente la intelligibilità pro-  fonda, la sua verità nella verità.   Riassumendo: Mons. Olgiati vuole mettere i cosiddetti  anti o ametafisici con le spalle al muro, così: se fate della  filosofia, non potete sfuggire alla domanda metafisica di che  cosa è il reale in quanto reale, perchè tale domanda è essen-  ziale ad ogni filosofare; pertanto, quando negate la meta-  fisica, siete in contraddizione con voi stessi, perchè la filo-  sofia, ogni filosofia, ne contiene una ineliminabile; io invece  voglio dimostrare loro che chiamano filosofia quella che non  è tale. E su questo punto mi pare di aver ragione: a chi  abolisce il problema metafisico e la domanda di che cosa è  la realtà in quanto realtà, non si può dire che sia in con-    132 Filosofia e Metafisica       traddizione, ma gli si deve dire: quella che voi chiamate  filosofia non è filosofia, perchè chi fa a meno della meta-  fisica fa a meno della filosofia; voi spacciate per genuina  una merce falsa. Che siano in contraddizione glielo con-  cedono subito all’Olgiati, soddisfattissimi di esserlo. Crede  infatti l’Olgiati che i «filosofi » dell’assurdo e del nulla  temano di essere in contraddizione, loro che ormai hanno  paura dell’essere e della verità? Gli dicono che appunto la  loro è una metafisica della contraddizione e del nulla e 1’Ol-  giati dovrà acconsentire che anche questa è una metafisica,  cioè che è metafisica la negazione dei due elementi essen-  ziali di ogni metafisica: l’essere e la razionalità. L’Olgiati  si meraviglia come non riesca a capacitarmi che « filosofia  senza metafisica è un assurdo » (p. 6); mi consenta che io  mi meravigli come egli non si accorga che sono perfetta-  mente d’accordo con lui. Ma io aggiungo che oggi si pre-  tende di fare filosofia senza metafisica ed ho voluto dimo-  strare che tante cosiddette « filosofie » odierne, più che con-  tradditorie ed assurde perchè si dicono antimetafisiche men-  tre una metafisica ce l’hanno, non sono filosofie affatto  perchè di fatto rinunziano ad averne una. Aggiungevo però:  pur privi di una metafisica, come posizioni di un pensiero  quale che sia, portano in loro « immanente, intrinsecamente,  l'esigenza indistruttibile ed ineliminabile della metafisica ».  E questo perchè si può sospendere la risposta alla domanda  metafisica, ma, ovunque vi sia un pensiero e un uomo che  pensi, non si può sopprimere la sua esigenza. Mi pare che  la mia critica sia più efficace: negare ad ogni filosofia che  rinunzia al problema metafisico l’usurpato diritto di con-  siderarsi tale e d’altra parte costringerla a riconoscere nello  stesso tempo che pure ad essa, come ad ogni posizione di  pensiero, è intrinseca l’esigenza metafisica, che si può mi-  sconoscere solo per difetto di approfondimento critico. Ma  si è che Mons. Olgiati non vuol sentir parlare di « esigenza »,  quasi questa parola sia una sgrammaticatura insopportabile  dalla correttezza dei linguaggio filosofico.    Concetto. di metafisica 133       4. — Metafisica e trascendenza.    L’Olgiati è rimasto quasi scandalizzato — qualche tomi-  sta, com’egli informa, di occhi evidentemente molto delicati,  si è meravigliato come io abbia potuto prendere simili ab-  bagli — della mia affermazione che « metafisica è uguale tra-  scendenza »; d’altra parte, io accetto la definizione aristote-  lica della metafisica come « scienza di che cosa è la realtà  in quanto realtà ». Il mio critico obietta: tra le due tesi  c'è contraddizione (p. 30); poi si avvede che, almeno per  me, contraddizione così grossolana non c’è e si sforza di  intendere meglio il mio punto di vista. Io non vedo, se  mi si fa dire quello che dico, dove sia mai la contraddi-  zione. L'equazione da me affermata e chiarita di metafisica  e trascendenza non può essere intesa alla maniera dell’Olgiati  e cioè: «bisognerebbe concludere che la metafisica non è  la scienza dell’ente in quanto ente, perchè non ogni ente è  il Trascendente » (p. 30). E’ evidente; ma con simili in-  terpretazioni la discussione non farà mai un passo apprez-  zabile. La mia affermazione significa solo questo: se meta-  fisica è scienza di che cosa è la realtà in quanto realtà essa  porta implicito il problema del fondamento primo incon-  dizionato del reale, e dunque è implicitamente trascen-  denza, in quanto il fondamento del reale non può essere  immanente al reale stesso e della sua stessa natura perchè,  in tal caso, sarebbe ancora un elemento del reale e non il  fondamento primo di esso. Le soluzioni immanentistiche  pertanto sono apparentemente metafisiche, in questo senso:  se il fondamento primo del reale, che è anche la sua finalità  ultima, è immanente e della sua stessa natura, noi ancora ci  poniamo il problema della « fisica » e non quello della « me-  tafisica », che significa transphysica, cioè scienza dell’al di là  della fisica e dunque trascendente il reale dell’ordine natu-  rale. Con ciò volevo dimostrare che le filosofie immanen-  tistiche, appunto perchè tali, quando si pongono il problema    134 Filosofia e- Metafisica       metafisico, in realtà non pongono questo problema, ma, es-  sendo immanentistiche, ripongono come problema metafi-  sico ancora quello « fisico », risolvendo così (cioè dissol-  vendo, negando) la metafisica nella gnoseologia, nella scien-  za. Detto ciò, è chiaro che non bisogna ridurre tutta  la metafisica alla trascendenza, nè confondere il concetto  di « filosofia » con quello di « metafisica », ma è anche evi-  dente che non c’è metafisica vera che non concluda razio-  nalmente alla trascendenza del Principio primo della realtà,  nè c’è filosofia ove manchi metafisica, che è la sua essen-  zialità, in quanto condiziona ogni altro problema filosofico.   Che poi la mia « trascendenza » (p. 32) me la concedono  tutti (da Spinoza a Hegel, ad altri), non ci credo affatto, o  meglio me la concederebbero se essa fosse come la intende  il mio critico, con un fraintendimento che mi ha sorpreso.  Mons. Olgiati mi ammonisce che « per avere una trascen-  denza compatibile con uno spiritualismo cristiano... occorre  che tale principio assoluto sia essenzialmente diverso dal  dato e dalla totalità del dato stesso » (p. 32). E chi ha mai  detto diversamente? Nel passo che egli cita, infatti, parlo  di oggetto della ricerca che trascende la ricerca stessa e se  la trascende non dipende da essa ed è di altra natura; di  un principio assoluto che fonda e condiziona il mio ed ogni  filosofare e perciò trascende il pensiero e se lo trascende è  di natura diversa dal pensiero e dalla totalità di tutto l’or-  dine naturale ed umano. Ed è questa la trascendenza  che mi concederebbero Spinoza, Hegel e chi so io? Si è che  l’Olgiati interpreta tutto il mio passo immanentisticamente.  Un momento: non mi ha poco prima, se non ricordo male,  rimproverato che metafisica per me è uguale a trascendenza?  Dunque, secondo il mio illustre contradditore, io dico che  metafisica è trascendenza e poi riduco la trascendenza alla  immanenza. Prego Mons. Olgiati di non muovermi obie-  zioni tra loro contraddittorie. Chiariti questi punti essenziali,    Concetto di metafisica 135       posso risparmiarmi di rispondere alle altre intorno allo stesso  argomento, che ne sono la conseguenza.   A conclusione di questa parte del suo articolo l’Olgiati  mi fa due domande perentorie: 1) « E’ vero o non è vero  che ogni pensatore ha di fatto e non può non avere un  concetto di realtà, il quale influenza ogni concetto del si-  stema? » (p. 35). Mi pare di aver risposto sopra abbastanza  chiaramente e di aver dimostrato come vi siano delle cosid-  dette filosofie che di fatto aboliscono il problema della me-  tafisica. 2) «E’ vero o non è vero che il problema della  trascendenza non è il prius, ma si collega al problema del  concetto di realtà in quanto realtà? » (p. 36). Ho risposto  già anche a questa domanda, chiarendo in che senso per me  metafisica sia uguale a trascendenza. Non è questione  di prius nè di posterius, ma di insidenza del concetto di  trascendenza nella stessa domanda metafisica. Se metafisica  è, in fin dei conti, ricerca del principio primo del reale,  cioè del suo fondamento primo ed ultimo, in questo senso  la metafisica è implicitamente ricerca del principio trascen-  dente del reale stesso, in quanto l’immanenza del principio  fa di questo un elemento o la totalità degli elementi del reale  naturale e come tale non più transfisico. In questo senso, le  soluzioni immanentistiche del problema essenziale della me-  tafisica, cioè del principio primo, sono metafisiche solo ap-  parentemente, in quanto, se il principio non è transfisico, se  non trascende, non è ancora il cercato principio primo del  reale, ma il reale stesso posto come principio di sè a se  stesso. Soluzione erronea e dunque apparente, perchè l’er-  rore non è reale ed è reale solo la verità. E la verità  della metafisica è la trascendenza, senza che ciò signifi-  chi che tutti i problemi della metafisica stessa si ridu-  cano a quello della trascendenza, quantunque resti vero e  dimostrato che il problema del principio primo li subordini  tutti.   Quanto all’altro avvertimento di Mons. Olgiati che l’esi-    136 Filosofia e Metafisica       genza non basta perchè non è dimostrativa (evidentemente)  ed è necessaria la dimostrazione razionale dell’esistenza di  Dio, mi dispenso dal rispondere: proprio quando egli scri-  veva queste sue critiche, avevo già redatto il mio studio  sull’Esistenza di Dio, pubblicato poi nel « Giornale di me-  tafisica ». Se l’Olgiati avesse tenuto presente, oltre all’arti-  colo sulla metafisica, altri miei lavori, credo che le sue  obiezioni avrebbero avuto un’altra impostazione e parecchie  di esse le avrebbe risparmiate a lui e a me.    5. — L'interiorità come l'opposto dell’immanenza.    Più gravi fraintendimenti son costretto a lamentare a  proposito delle obiezioni che Mons. Olgiati muove al con-  cetto di interiorità, considerato in rapporto alla metafisica.  Egli parla di « esigenza » dell’interiorità (pp. 4, 36 e passim);  dell’interiorità come « aspirazione », « anelito » ecc. (p. 34);  ma l’interiorità è molto di più e di diverso: è presenza e  vita della verità in me.   Evidentemente io parlo di « metafisica dell’esperienza  interiore » nel senso agostiniano dei termini; e dunque qui  non si tratta di origine psicologica della ricerca filosofica  nè di cose simili, bensì di una metafisica che muove dal dato  reale più ricco ed eminente nell’ordine della natura, che è  la vita spirituale; ed è proprio dall’analisi del dato reale-uomo  (o dati reali sono solo le cose? forse l’esperienza interiore  non è altrettanto esperienza e più valida di quella esteriore ?)  che scaturiscono la trascendenza e la dimostrazione dell’esi-  stenza di Dio in termini di assoluto rigore razionale. La meta-  fisica è scienza della realtà in quanto realtà; tra gli enti reali  c'è l’uomo che è spirito e lo spirito è realtà; dunque perchè  non posso prendere le mosse dall’uomo inteso come realtà  spirituale e dallo spirito come interiorità nel senso agostinia-  no? L’Olgiati non vede come possa conciliare la tesi « metafi-  sica uguale trascendenza con l’altra di una metafisica in-    Concetto di metafisica 137       teriore (ossia di una metafisica uguale immanenza) ...» (p. 37).  Sfido che non lo vede se mi scrive che interiorità è uguale  ad immanenza; ma che colpa ho io se lui non vede? Proprio  l’opposto, infatti: l’immanenza è la negazione dell’interiorità,  la quale, intesa correttamente, importa la trascendenza non  fondata su dati puramente psicologici, ma sul dato reale che  è lo spirito; non sui sassi e le zucche, per usare i termini  adoperati da Mons. Olgiati. Al quale pongo una domanda  precisa: l’interiorità di Agostino è trascendenza o è imma-  nenza? Se è trascendenza, la mia è trascendenza e la sua  obiezione non riguarda il mio modo di concepire l’inte-  riorità; se invece per lui è immanenza, ebbene, con tutto il  rispetto che ho per la sua autorità, resto con Agostino, si-  curo di non rischiare l’immanenza e lascio a Mons. Olgiati  la responsabilità delle sue gravi affermazioni. La verità è  che l’Olgiati tiene presente l’interiorità così come è intesa  dal pensiero moderno e contemporaneo. Infatti, a pag. 43  egli scrive: « la metafisica classica, ben lungi dallo svaloriz-  zare l’interiorità o dal trascurarne le esigenze, è la sola che  salva l’una e può appagare le altre mentre, sotto le appa-  renze mendaci dell’interiorità, la filosofia moderna e con-  temporanea è orientata verso l’esteriorizzazione ». D'accordo:  la filosofia moderna, che ha creduto di approfondire l’in-  teriorità riducendola all’immanenza, ha negato l’interiorità  autentica, la ha esteriorizzata. E non è stato e non è ancora  oggi proprio questo il mio sforzo, quello di recuperare, con-  tro la mendace interiorità del pensiero moderno, la verace  interiorità agostiniana? Proprio su questo punto ho manife-  stato il mio aperto dissenso con l'illustre amico Carlini, a  proposito di una discussione intorno al Vico tra lui e il pro-  fessor F. Amerio (« Giornale di metafisica » nn. 5-6, 1948).  Sono costretto a riportare alcuni passi che mi sembrano la  più soddisfacente risposta a quanto mi obietta Mons. Ol-  giati: « Vi è qui un problema storico e uno teoretico, distinti  evidentemente, ma non separati e separabili: 1) tutto il pen-    138 Filosofia e Metafisica       siero medioevale-scolastico è irretito nella metafisica greca  (aristotelica) e nel carattere cosmologico di quest’ultima? Evi-  dentemente no, e il Carlini, maestro di storia della filosofia,  lo sa meglio di noi; nello stesso S. Tommaso vi è più di  Agostino che di Aristotele, più di metafisica cristiana che  greca, più senso d’interiorità di quanto non sembri a prima  vista... 2) Aggiungo ancora — ed il Carlini si scandalizzerà —  che il pensiero moderno, pur combattendo la Scolastica, ha  ereditato dalla Scolastica proprio l’aspetto di essa più lon-  tano da quell’interiorità che tanto sta a cuore al Carlini e a  me, cioè il suo cosmologismo... 3) Non abbiamo osservato  tante volte il Carlini ed io (egli prima di me) anche al Gen-  tile che la trascendentalità idealistica è condannata all’este-  riorità, a disperdersi nel mondo, a negarsi come inte-  riorità? che lo storicismo idealista è, in ultima analisi, po-  sitivismo ed anche empirismo, dove quel che non si salva è  proprio l’interiorità dello spirito ?... È qui il punto della que-  stione: l’idealismo immanentista ha decapitato l’interiorità  cristiana; ne ha accettato il lato, diciamo così, immanenti-  stico, ma l’ha privata della trascendenza che le è essenziale,  del trascende et te ipsum, che è il suo principio e il suo fine  e senza di cui cessa di essere interiorità autentica e si perde  nella scientificità, nella storicità, cioè nell’empiria. Su que-  sto punto noi non possiamo non essere che critici intransi-  genti del pensiero moderno proprio per recuperare quell’in-  teriorità che esso ha finito per perdere » (Sciacca, Il pen-  siero moderno, Brescia, La Scuola, 1949, pag. 108). Mi per-  metta ancora l’Olgiati di rimandarlo anche al vol. I del mio  S. Agostino (Brescia, Morcelliana) per risparmiargli la fa-  tica di continuare a portare vasi a Samo.   E giacchè siamo su questo tema, desidero pregarlo di non  rimproverare più, almeno chi scrive, che lo Spiritualismo cri-  stiano si ferma alla pura esigenza. Gli concedo subito che  questa obiezione (parlo sempre soltanto di me), fino a qual-  che anno fa, mi poteva essere mossa; oggi non più. Se la mia    Concetto di metafisica 139       personale posizione, quale che sia la sua minima importanza,  ha un significato nella filosofia contemporanea e soprattutto  dentro lo Spiritualismo cristiano e le correnti ad esso affini,  è precisamente quella di aver tentato di oltrepassare la posi-  zione esigenziale: i miei ultimi scritti credo che non lascino  più dubbi a questo proposito. Desidererei che Mons. Olgiati  o altri ne tenessero conto.   L'ultimo argomento dall’Olgiati discusso riguarda «il  progresso a proposito del concetto stesso di metafisica » (p. 9).  A questo proposito possiamo essere brevi. In tutto il mio  studio, come ha rilevato lo stesso Olgiati, ho tenuto fermo  il concetto aristotelico, che è anche platonico, della metafisica  come scienza della realtà in quanto realtà: questo il concetto  di metafisica e non c’è progresso. Aristotele risponde: la realtà  in quanto realtà è l’ente; ma resta da precisare che è l’ente.  Su questo punto l’Olgiati concede (p. 58) che «è certo che  nella storia della metafisica classica S. Agostino e S. Tom-  maso non sono puramente e semplicemente ripetitori di Ari-  stotele, ma lo hanno fatto progredire, ed in qual modo! Chi  non sa che è tollerabile parlare di S. Agostino, come del Pla-  tone cristiano, e di S. Tommaso, come dell’Aristotele cri-  stiano, solo a patto di riconoscere nei due nostri pensatori  uno spirito essenzialmente diverso e non paragonabile a  quello dei due pensatori greci? Potrebbe quindi sembrare  che la storia deponga a gran voce contro di me. Anche per-  chè, prescindendo da ciò che io penso a proposito della inte-  riorità cristiana in metafisica e delle tesi di Armando Car-  lini, è indubitato che dai principî della metafisica greca i  grandi filosofi cristiani hanno saputo far sgorgare conse-  guenze, che erano implicite in quei principî, ma che Atene  non vi aveva intuito. Il problema del male e il concetto filo-  sofico di creazione, nel Santo d’Ippona e nell’Aquinate, se-  gnano sviluppi e progressi d’indole metafisica... ». Dunque  per la riduzione del concetto di realtà al concetto di ente  progresso c’è stato e ci potrà essere ancora, senza che ciò    140 Filosofia e Metafisica       faccia che non sia verità quello che di verità si è scoperto.  È evidente che questo non significa progresso del concetto  di metafisica, di cui non c’è progresso, come non ce n'è,  per esempio, del principio di contraddizione. Mi pare però  che subito dopo l’Olgiati confonda i due problemi del con-  cetto di metafisica — senza progresso, una volta scoperto — e  della metafisica aristotelica, quando scrive: «come non pro-  gredisce la definizione di triangolo o di circolo, quando  un matematico scopre un nuovo teorema a proposito dell’uno  o dell’altro, pur essendo tale teorema contenuto nel con-  cetto di quelle due figure geometriche, così non si può par-  lare di progresso nel concetto di metafisica, quando, ad esem-  pio, si vede che il concetto di ente in quanto ente, nel caso  di un rapporto di non identità tra essenza ed essere, conduce  mediante un ragionamento ad ammettere la creazione... »  (p. 58). Che il concetto di creazione non importi progresso.  nel puro concetto della metafisica è vero; ma qui si tratta di  sapere se non ne ha importato nella concezione metafisica  aristotelica. È stata tale rivoluzione il concetto di creazione,  che non si vede affatto come possa reggere l’esempio del  triangolo o del circolo. Teniamo distinti i due problemi ed  il progresso della metafisica da Aristotele a quella di Ago-  stino e Tommaso è innegabile ed immenso.    6. — Ultime precisazioni.    Mons. Olgiati a pag. 43 scrive: «lo Sciacca... ha rac-  comandato di non compromettere la realtà spirituale per  amore di una sopravvivenza pagana, per esempio aristote-  lica, della filosofia come cosmologia, ossia per amore di una  metafisica pagana ed il Carlini aderisce toto corde a tale  preoccupazione. Ma che importa se la scienza dell’ente in  quanto ente è dovuta ad un pagano? Essa nonè nè pagana  nè cristiana; è umana. Che la sua scoperta sia dovuta ad  un pagano nulla toglie al suo valore, il quale non ha nes-    Concetto di metafisica 141       sun rapporto col paganesimo. A noi sembra che non è lecito  qualificare come naturalistica la metafisica aristotelica. Non  ci interessa l’4rimus di Aristotele che certamente non era  quello di un santo medievale come lo era quello di S. Tom-  maso ». Tutto quello che non sembra preoccupare ed inte-  ressare Mons. Olgiati a noi preoccupa ed interessa moltis-  simo. Precisiamo il nostro punto di vista: quando il Car-  lini ed io parliamo di « metafisica pagana » e qualifichiamo  come « naturalistica » quella di Aristotele, intendiamo dire  che, dopo il Cristianesimo, quella concezione metafisica —  non diciamo il concetto di metafisica — va integrata: si tratta  non di abbandonarla, ma di completarla, come ha fatto S.  Tommaso. Evidentemente in questo completamento i termini  assumono un significato che, senza tradire quello che dà ad  essi Aristotele, lo oltrepassano. (Anche il Gilson è di questa  opinione). Per esempio: di fronte al concetto di creazione, che  è il problema esistenziale per eccellenza, l’aristotelismo può  restare aristotelismo nella lettera e nello spirito? Altro esem-  pio: il Dio di Aristotele è fine totale come lo è il Dio crea-  tore del Cristianesimo? Non mi obietti Mons. Olgiati che  qui entriamo nelle verità rivelate e usciamo dal campo  strettamente filosofico; gli rispondo subito (e credo di essere  tomista) che fede e filosofia, senza confondersi, non possono  restare estranee l’una all’altra, almeno per uno spiritualismo  che ci tiene a qualificarsi cristiano.   Il Dio creatore per amore, insegnato dalla fede, è una  verità recuperabile dalla ragione; ed una volta recuperata  porta una rivoluzione metafisica, che è appunto quella appor-  tata prima da Agostino nella metafisica dei cosidetti « Plato-  nici » e poi da S. Tommaso in quella di Aristotele. Ecco per-  chè il Carlini ed io chiamiamo cosmologica e naturalistica  la metafisica greca di Aristotele come di Platone, e teolo-  gica e spiritualistica quella di Agostino e Tommaso (quali  che siano poi le differenze tra i due pensatori) ed ogni altra  che voglia essere metafisica sì, ma anche cristiana. Aggiungo    142 Filosofia e Metafisica       — e certamente Mons. Olgiati lo sa meglio di me — che molti  tomisti oggi sono orientati a mettere in luce l’originalità di  S. Tommaso rispetto ad Aristotele, a rilevare più gli appro-  fondimenti e gli avanzamenti anzichè le identità. La Neo-  scolastica italiana ci tiene proprio tanto a restare ferma ad  un S. Tommaso abbarbicato tutto allo Stagirita e ad addos-  sare al gran Santo le responsabilità della filosofia aristotelica;  a restare in un isolamento — anche rispetto a tutte le altre  correnti di pensiero cristiano-cattolico, tomista o no — che  comincia a diventare molto (troppo) significativo ? Parrebbe  di sì, se Mons. Olgiati, con una espressione che mi ha tur-  bato, arriva a dire che « neppure gli stessi nobilissimi com-  piti dell’apostolato » (p. 63) smuoveranno la Neoscolastica  che egli rappresenta. E a che cosa la Neoscolastica non vuole  rinunziare? Ecco: al « primato della Luce che è Vita, ma  che è Vita appunto perchè è Verità e Luce». Certo; ma  questa Luce, che è Vita perchè la Vita è Verità e Luce non  è più Aristotele; e se Aristotele leggesse queste parole o le  intenderebbe a modo suo, paganamente e naturalisticamente,  o vi capirebbe poco o nulla. Il pagano cerca Dio solo nella  natura (naturalismo); il cristiano lo cerca e lo trova nella  intimità dell'anima (spiritualismo cristiano), nell’interiorità  dello spirito, senza che ciò significhi abolire la natura,  il concetto, la ragione. Nello spirito la cerca anche S. Tom-  maso, che è cristiano prima di essere aristotelico.  Concludo con il Gilson: S. Tommaso «on l’a beaucoup  commenté, mais fort peu suivi. La seule manière de le suivre  vraiment serait de refaire son oeuvre telle que lui-mème la  ferait aujourd’hui à partir de mémes principes et d’aller plus  loin que lui dans le méme sens et sur la voie mème qu'il a  Jadis ouverte » (Essence et existence, Paris, Vrin, 1948, pa-  gine 321-322). Non è questo un compito molto più proficuo  che ripetere S. Tommaso invece di farlo avanzare e di-  fendere lo spirito cosmologistico e naturalistico della me-  tafisica e del Dio aristotelico? O mandiamo tutti a scuola,    Concetto di metafisica 143       il Gilson e il Blondel, tomisti come De Finance e tanti altri,  la Neoscolastica di Lovanio e gli spiritualisti cristiani italiani,  tutti a scuola: da chi? Evidentemente alla scuola dei grandi  pensatori classici e cristiani, di Platone e Aristotele, di Ago-  stino e Tommaso ecc., cioè li consigliamo a restare nella  scuola dove già sono stati e nella quale desiderano rimanere.    7. — Replica ad una replica.    Nel fasc. IV, 1949, della « Rivista di filosofia neoscola-  stica » (pp. 401-443), Mons. Olgiati replica alle risposte del  Carlini e mia. Lo ringrazio della considerazione in cui ha  voluto tenere le mie pagine e di quanto scrive in questa  sua replica, alla quale rispondo brevemente, evitando ogni  accento polemico e limitandomi ad alcuni chiarimenti e pre-  cisazioni.   Riconosco subito, che Mons. Olgiati fa delle concessioni:  « E quanto, dal punto di vista storico, si dice che l’amimus  di Aristotele era volto al mondo, all’empiria, alla realtà spe-  rimentale, dalla quale assurgeva, come a spiegazione finali-  stica, all’Atto puro, da lui riguardato in rapporto col mon-  do, non c'è se non da sottoscrivere. In questo, sia Carlini,  come lo Sciacca, hanno perfettamente ragione » (pag. 406).  E aggiunge che questo, più che Aristotele filosofo, è lo  scienziato, quello che « anche quando... parla del mondo  intelligibile, lo fa, volto sempre al mondo sensibile, all’espe-  rienza, ossia, come io direi, con preoccupazioni empiriche »  (iv:). Resta da vedere fino a che punto l’Aristotele « scien-  ziato » influenzi Aristotele « filosofo » e lo condizioni; se  il filosofo, almeno un filosofo che oggi si dice « cristiano »,  non debba proprio fare all’inverso, cioè: anche quando parla  del sensibile farlo con l’occhio volto sempre all’intelligibile  e cioè, direi io, «con preoccupazioni non empiriche »; così  come fa Platone, che pure non è cristiano, anche se l’Acri  ha voluto farne il pagano profeta di Cristo.    144 . +» . Filosofia e Metafisica       L’Olgiati pensa che Aristotele, partendo dal sensibile,  «ci ha invitato a riguardar quella realtà sensibile o speri-  mentata, ma solo in quanto realtà. Ossia contro tutti co-  loro — Hume e Kant compresi — che avrebbero dichiarato  l'impossibilità di superare con i nostri concetti l’esperienza,  Aristotele ci ha insegnato — mediante la sua metafisica —  concetti e leggi, che, quanto alla loro origine, hanno le radici  nell'esperienza, ma quanto al loro valore si verificano, e  non possono non verificarsi in ogni realtà ed in ogni mo-  mento di qualsiasi realtà, anche non sperimentata, nè da  noi sperimentabile » (p. 407). Dubito che, se tutti i concetti  e le leggi hanno, quanto alla loro origine, le radici nella  esperienza, possano poi verificarsi, quanto al valore, in ogni  realtà anche non sperimentata, nè da noi sperimentabile;  credo che Hume e Kant, se tutzi i concetti e le leggi hanno  aristotelicamente le radici nell’esperienza, avrebbero qual-  cosa da dire proprio intorno alla possibilità di oltrepassare  coi nostri concetti l’esperienza stessa; tranne che non si di-  mostri che tutta la critica della conoscenza e il concetto  critico di esperienza da Cartesio e Locke ai nostri giorni  stiano a provare soltanto che il pensiero moderno di quella  metafisica ha capito niente o pochissimo; che è come dire  che quattro-cinque secoli di filosofia, su un problema fon-  damentalissimo, non contano affatto. Credo, invece, che, a  questo proposito, vadano poste due precise domande: 1)  quell’« origine » (l’esperienza sensibile) rende davvero pos-  sibile che, in quanto al « valore », concetti e leggi si verifi-  chino universalmente, anche in una realtà insperimentata  ed insperimentabile, oppure proprio qualche principio, che  non ha radice nell’esperienza sensibile, rende proprio es-  so possibile la formulazione dei concetti e ne garantisce  il valore? 2) La posizione aristotelica, al cui insegnamen-  to Mons. Olgiati ci incita, non è forse almeno in parte  responsabile di quella critica della metafisica, a cui il pen-  siero moderno è stato gradualmente portato? In altri ter-    Concetto di metafisica 145          mini, è da chiedersi se il pensiero moderno non sia un ari-  stotelismo critico, cioè un giudizio su Aristotele o un appro-  fondimento spinto fino alla negazione della possibilità di  una metafisica come scienza, se aristotelicamente impostata.  Oppure ancora così: il razionalismo e l’empirismo moder-  ni come il criticismo kantiano concludono col « sospendere »  la metafisica, in quanto si allontanano da Aristotele e l’in-  tendono male o non l’intendono affatto, oppure in quanto  ereditano proprio la mentalità «scientifica » del « filoso-  fo» Aristotele e sue preoccupazioni empiristiche che,  quanto sembra, non lo abbandonano mai, anche quando  costr uisce la sua metafisica come scienza dei principi pri-  mi del mondo fisico, che si continua in quello celeste e cul-  mina nel Motore Immobile?   L’Olgiati riconosce ancora che il Carlini ed io abbiamo  ragione («è verissimo ») di sostenere che S. Tommaso non  è Aristotele, perchè c'è di mezzo il Cristianesimo e « l’uti-  lizzazione di S. Agostino. Son lieto di rilevare quest'altro pun-  to di accordo con il mio illustre contraddittore (stiamo in-  fatti discutendo da circa un anno), il quale così continua:  «La creazione implicava per lui [S. Tommaso] l’impos-  sibilità di ripetere a riguardo delle forme la parola citata  dagli « Analitici » res ita est et non potest aliter se habere:  no, avrebbero potuto essere diverse, se Dio, Libertà assoluta,  le avesse create diverse » (p. 407). Mi domando se il con-  cetto di creazione implichi soltanto questo o una vera e  propria rivoluzione metafisica; ma basta solo quel « Dio  Libertà assoluta ». Ora, se le cose stanno come anche l’O.  riconosce, che resta della «costruzione » metafisica aristo-  telica? Il concetto di metafisica, scienza della realtà in quanto  realtà? Ma concesso che Aristotele ha detto cos'è metafisica,  resta da vedere se quella che egli costruisce sia vera e fino  a che punto, se identica a quella di S. Tommaso e defi-  nitiva. Non mi pare che l’O. stesso sostenga questa tesi, in  quanto ammette tra la metafisica aristotelica e quella    146 Filosofia e Metafisica       tomista differenze profonde. E questo non è progresso?  Perchè allora mi ribatte quando parlo, e non in senso stori-  cistico, di progresso in metafisica? L’O. precisa ancora:  « L’animus di S. Tommaso non è più indirizzato verso l’em-  piria; meglio, studia anche la realtà fisica, ma con ben altra  preoccupazione che non Aristotele, e cioè con un orienta-  mento metafisico » (p. 408). Se l’animus di S. Tommaso non  è più indirizzato verso l’empiria, si ammette che lo sia  quello di Aristotele; se studia la realtà fisica con ben altra  preoccupazione di quella dello Stagirita « e cioè con un orien-  tamento metafisico », significa ancora, proprio secondo l’O.,  che Aristotele la studia con un orientamento che n0n è me-  tafisico, ma, come sosteniamo il Carlini ed io, cosmologico e  naturalistico, cioè scientifico. Dunque, siamo d’accordo, e son  grato a Mons. Olgiati delle differenze che egli segna tra Ari-  stotele e S. Tommaso, le quali confermano autorevolmente il  mio punto di vista. Ma tre righe più sotto si legge: « Fe-  dele ad Aristotele, egli [S. Tommaso] non perde mai il con-  tatto con la realtà: nella realtà sta il suo punto di partenza,  la via da lui percorsa e il punto d’arrivo ». Quale realtà?  quella empirica? ed è essa punto di partenza e punto di  arrivo anche per S. Tommaso? Ma allora che vuol dire che  l’animus del grande Dottore non è più indirizzato verso  l’empirico e che egli studia la realtà fisica con orientamento  metafisico? Francamente su questo punto vorrei vederci  chiaro e perciò semplifico la questione: i concetti di « crea-  zione », della realtà come verità, di « spirito », di « libertà »,  ecc. così come sono intesi dal Cristianesimo e utilizzati da  Sant'Agostino, una volta introdotti da S. Tommaso nella  costruzione metafisica di Aristotele, la lasciano sostanzial-  mente intatta sì o no? Se tali concetti sono operanti nella  metafisica tomista, come in quella di ogni pensatore cri-  stiano, non v'è dubbio che essa non è quella aristotelica  e non lo è sostanzialmente; altrimenti bisogna ammet-  tere — l’O. sembra contrario — che il Cristianesimo e    Concetto di metafisica 147       l'utilizzazione di Agostino siano puramente accidentali e  la metafisica di S .Tommaso sostanzialmente identica a quella  di Aristotele. Qui non si fa questione del « concetto » o della  definizione aristotelica della metafisica, ma della metafisica  di Aristotele; infatti, non basta dire che il concetto di me-  tafisica è identico nei due pensatori, nè che vi è accordo  circa il concetto della realtà in quanto ente. È da questo  punto che comincia la questione: che è realtà? che è ente?  Ora i concetti di realtà e di ente che elabora Aristotele sono  quelli di S. Tommaso, cioè, la costruzione metafisica dei due  pensatori è identica o no? i concetti di analogia, potenza,  atto, Motore immobile o Dio sono identici nelle due me-  tafisiche o no? Se l’O. risponde di sì mi permetta di do-  mandargli dove e in che modo S. Tommaso utilizza S. Ago-  stino e il Cristianesimo e quale il gran passo che ha fatto  rispetto allo Stagirita. Se risponde di no deve concedermi  che, pur sulla base del concetto aristotelico di metafisica, la  metafisica cristiana di Agostino e Tommaso è ben altra e  diversissima cosa da quella aristotelica, e che, come sostengo,  è naturalistico-cosmologica e come tale (non se ne scanda-  lizzi) panteistica. Pertanto, potenza ed atto, Motore immo-  bile ecc. in S. Tommaso hanno ben altro senso, sono pre-  gnanti di un arimus che non ha niente a che vedere con  quello della metafisica dello «scienziato » Aristotele.   Ma pare che l’O. voglia limitarsi al puro concetto di  metafisica. In tal caso, però, si ferma alla definizione gene-  rale senza entrare a considerare una costruzione metafisica  concreta, cioè una concezione del reale e dell’ente ed è  costretto a limitarsi a ripetere (all'infinito?) che il concetto  aristotelico-tomista è della metafisica come scienza della  realtà in quanto realtà. E poi? L’O. mi obietta: « Il Prof.  Carlini è logico perchè mi respinge tale concezione del  reale. Invece il Prof. Sciacca dice di ammetterla e poi mi  ostracizza come naturalistica la metafisica costruita su quelle  fondamenta » (423). Credo di essere « logico » anch'io — non    148 Filosofia e Metafisica       come il diavolo dantesco, spero —: accettata quella definizio-  ne della realtà in quanto ente, resta da costruire la metafisica  ed io ostracizzo come naturalistica quella aristotelica; altro  è accettare la definizione della metafisica, altro, mi pare, è  (o sbaglio?) accettare una determinata costruzione metafisica.  Non accetto quella aristotelica — e desidererei sapere se S.  Tommaso l’accetta così com'è — appunto perchè naturalistica  e perciò lontana da una metafisica che tenga conto del Cri-  stianesimo ed utilizzi Agostino. Alle domande da me poste  non trovo una sola risposta precisa in tutto l’articolo di  Mons. Olgiati. Infatti, rispondendo al Carlini, egli dice  che S. Tommaso, « qualsiasi questione affrontasse... la pro-  spettava metafisicamente »; e così esemplifica: « discusse  il problema della libertà umana, ma non fu ad un argo-  mento psicologico (l’attestazione della coscienza), nè all’ar-  gomento morale (l'impossibilità di un'attività etica qualora  non fossimo autodeterminatori) che egli si rivolge, quanto  alla prova metafisica, sviluppata unicamente in funzione del  concetto di ente. Discusse il problema di Dio: m a non fu  al consenso dei popoli e della storia, non alle aspirazioni del-  l’animo nostro, alle esigenze proclamate dalla morale od  alla vita che egli si indirizzò per le sue vie, bensì ad un  ente constatato ed alle leggi dell’ente. Persino la teologia di  S. Tommaso da che mai è caratterizzata, se non dall’ela-  borazione del dato dogmatico in funzione della metafisica  dell’ente? » (p. 409). Mi permetto osservare: ha ragione S.  Tommaso di rivolgersi a prove metafisiche, ma, se mette  da parte l’argomento psicologico, quello morale, le esigenze  della vita ecc. ha torto, perchè anche questi sono argomenti  che hanno il loro peso, e la convergenza degli argomenti è  un argomento probativo; ha ancora torto perchè questi ar-  gomenti, se approfonditi, hanno anch'essi una portata meta-  fisica; anche la vita psicologica e morale sono esperienza  (lo è la spiritualità nella sua totalità ed integralità) e vi è me-.  tafisica dell’esperienza interiore, dalla quale, a mio avviso, de-    Concetto di Metafisica 149       vono passare quelle « vie » che dimostrano l’esistenza di Dio.  Inoltre, concesso che S. Tommaso abbia elaborato tutti i pro-  blemi in funzione del concetto di ente e della metafisica del-  l'ente, resta da precisare se la sua concezione metafisica sia  quella di Aristotele; ammesso che lo sia, da spiegare come  egli abbia fatto a trarre fuori da essa un concetto di «li-  bertà », delle prove dell’ « esistenza di Dio » e persino una  « teologia » che traducono tutta la profondità e l'originalità  di significato che questi termini hanno nel Cristianesimo.  Questo punto non lo vedo chiaro e desidererei precisazioni  ben fondate.   Ancora una domanda: Mons. Olgiati a più riprese, nel-  l’articolo che discutiamo e in quello precedente, dice che  S. Tommaso non rinnega ma completa Agostino (p. 419);  che non si può comprendere il significato della parola es-  senza, che pure è indispensabile per dichiarare cos'è l’ente,  se non si « esulta » prima dinanzi alla « bellezza fulgente »  del concetto agostiniano della realtà come verttas; aggiunge  che S. Tommaso non ripete Aristotele; che utilizza il Cristia-  nesimo (per es. il concetto di creazione ecc.) ed Agostino.  Desidererei che egli mi dicesse non così, in generale, ma con-  cretamente come S. Tommaso completa, senza rinnegarlo,  S. Agostino nelle tesi fondamentali della sua metafisica; se  accetta il concetto agostiniano della realtà come veritas « in-  teriore »j che cosa accetta della metafisica di Aristotele e do-  ve la modifica profondamente, cioè in quali tesi non è aristo-  telico; se la sua metafisica, con la introduzione di concetti  cristiani ed agostiniani, mancanti in Aristotele, si possa  chiamare ancora aristotelica non nell’esteriore ma nel suo  spirito profondo. Credo che un chiarimento preciso su que-  sti punti sarebbe molto utile, soprattutto a me; e lo dico  sinceramente.   Il lettore forse non si sarà ancora accorto che fino ad  ora non ho risposto, tranne che in un punto, alla parte del-  l’articolo dell'O. che mi riguarda direttamente, bensì all’al-    150 Filosofia e Metafisica       tra diretta al Carlini; ma i punti toccati interessano anche  me e perciò ho creduto opportuno occuparmene.   D'altra parte, il modo d’intendere e di valutare la me-  tafisica di Aristotele come la questione dei suoi rapporti  con quella di S. Tommaso sono i punti in cui il Carlini ed  io concordiamo quasi del tutto, se si eccettua qualche giu-  dizio carliniano sull’Aquinate; per il resto, Carlini ed io,  in alcuni punti fondamentali, dissentiamo profondamente,  come lo stesso Olgiati ha qua e là rilevato e come si può  vedere dalla stessa risposta del Carlini all’Olgiati, dove il  mio illustre amico ne ha anche per me. Ma è bene che io  qui mi limiti a rispondere solo a Mons. Olgiati, altrimenti  si finisce davvero per confondere le lingue; e poi, contro  due non ce l’ha fatta nemmeno Ercole! All’amico Carlini ri-  sponderò a parte nel fascicolo successivo di questa Rivista (‘):  i dissensi in famiglia — e credo che siano forti — è bene che  ce li discutiamo tra noi con il garbo e la serenità che si con-  viene tra amici e che del resto, malgrado qualche espressione  vivace da ambo le parti, sono stati conservati anche nel di-  battito con Mons. Olgiati.   Che il dissenso con il Carlini sia rilevante appare subito  da queste mie affermazioni categoriche: ritengo, anche dopo  la critica del pensiero moderno e anzi proprio spingendo  la critica al massimo delle sue possibilità, 1) che si possa  fondare una metafisica, con cui identifico la filosofia nel  senso più comprensivo e preciso del termine; 2) che questa  metafisica sia quella della verità (dunque punto di partenza  è l’uomo nella sua integralità), di cui Agostino è il maestro,  ma non il solo nè tanto meno il definitivo; 3) che sono nella  linea della metafisica classica. Non esssermi stato riconosciuto  ciò dall’Olgiati è la cosa — lo dico con tutta sincerità — che  più di ogni altra mi è dispiaciuta e mi ha fatto protestare  {non « gridare », come dice l’O.) di essere stato frainteso;  ma torniamo alla discussione vera e propria.    (1) La risposta è stata data indirettamente in altra occasione.    Concetto di metafisica I5Ì          Mons. Olgiati dubita che io abbia avuto tra mano (« se  il prof. Sciacca prenderà tra le mani» p. 421) il volume  che l’Università Cattolica pubblicò nel ’31 in occasione del  centenario agostiniano. Lo rassicuro subito: nel mio S. Ago-  stino (volume I), da poco pubblicato, lo cito una ventina di  volte; cito anche, quasi sempre concordando, i pregevoli scritti  agostiniani del Masnovo. Dunque, a mia volta, prego io l’Ol-  giati di « prendere tra le mani » questo mio volume e di leg-  gerlo con un po’ di attenzione. Mi piace aggiungere che nel  Convegno di Gallarate del ’46, come presentatore del tema  « Agostinismo e tomismo » sostenni, tenendo presente il Ma-  snovo, la tesi della concordanza o almeno della non antiteticità  dei due grandi pensatori (« Atti del II Convegno dei filosofi  cristiani di Gallarate », Milano, 1947). Ma lasciamo questo  punto secondario anche per evitare di continuare a consi-  gliarci, l’O. a me ed io a lui, la lettura di libri che cono-  sciamo benissimo.   L’Olgiati si mostra ancora preoccupato della mia affer-  mazione: «l’ontologia è vincolata all’antropologia », in  quanto crede che essa apra le porte al relativismo; e aggiun-  ge: «È il valore di assolutezza della verità — tesi primale  di S. Tommaso, di S. Agostino — che ci sta a cuore»  (pag. 423). A me invece, secondo l’O., starebbe a cuore il  soggettivismo e il relativismo della verità; a me che da quasi  quindici anni combatto l’uno e l’altro; distinguo — e ciò  fa arrabbiare persino il mio amico Carlini — tra « idealismo  spurio » (soggettivo) ed «idealismo autentico » (oggettivo)  e contrappongo energicamente alla tesi della « verità come  sviluppo » l’altra della «verità come scoperta », ecc. Ma  tant'è, a me starebbe a cuore non il valore oggettivo della  verità, ma un assurdo Cristianesimo «colorito di relativi  smo » (pag. 432). Se così fosse non avrei capito niente di  Platone, Agostino, Pascal, Rosmini e sarei ancor testa e  piedi nel soggettivismo idealista. Evidentemente le parole  «l’ontologia è vincolata all’antropologia » vanno intese diver-    152 Filosofia e Metafisica       samente da come le intende l’O. che, chissà perchè, quando  mi fa l’onore di discutermi, interpreta le mie espressioni in  senso idealistico e mi fa dire l’opposto di quello che dico. Ecco,  infatti, come intende quell’affermazione: «Il nostro sapere  sarebbe fatalmente relazivo al soggetto; noi non potremmo  conoscere se non ciò che appare all'uomo in quanto uomo;  ossia il relativismo si imporrebbe e non vi sarebbe nessuna  verità di valore assoluto » (p. 423). Questo è inventare e non  criticare, per il gusto di far passare tutti da « fenomenisti »,  tranne Mons. O., unico interprete di S. Tommaso aristotelico.  Io dico perfettamente l’opposto: il valore oggettivo della cono-  scenza umana non è dato dal soggetto ma dall’oggetto,  cioè dalla verità che è presente (inzeriore) alla mente e per-  ciò è sempre verità di un soggetto pensante, senza che ciò  significhi che è ad esso relativa. Ma il soggetto pensante  è l’uomo; dunque egli è il soggetto del filosofare, avente co-  me oggetto la verità per il cui lume oggettivo è pensante: non  è il pensiero che fa essere (pone) la verità, ma è la verità  che fa che il pensiero pensi. Ora, posto l’uomo come soggetto  della verità, che lo fonda come pensante, e lo oltrepassa,  1) non vedo dove stia il relativismo, in quanto 2) la mia  espressione « l’ontologia è vincolata all’antropologia » signi-  fica precisamente: l’ontologia è vincolata all'uomo in quan-  to soggetto di una verità oggettivamente valida, di cui ha  profonda interiore esperienza. «Se noi siamo chiusi nel-  l'antropologia, siamo e resteremo incatenati nella esperien-  za» (p. 425). Desidero (posso sperare di riescirvi?) tran-  quillizzare l’Olgiati che #07 restiamo chiusi nel carcere del-  l'antropologia perchè è presente alla mente dell’uomo la ve-  rità che lo spinge a trascendersi fino a quando non abbia  trovato pace nella Verità, che è Dio; che mon siamo e 207  resteremo incatenati nell’esperienza appunto perchè quella in-  teriore è esperienza della verità oggettiva. Ho i miei dubbi che  questi pericoli li corra Aristotele con quelle sue «preoccupazio-  ni empiriche » e con quel suo star «sempre volto al mondo    Concetto di metafisica 153       sensibile, all’esperienza », dove «concetti e leggi... hanno  le radici »; e con Aristotele Mons. Olgiati. Noi diciamo, in-  vece, che il pensiero umano ha le sue «radici » nella verità  che gli è interiore (esperienza, dunque, ma non la sensibile,  almeno in questo caso) e che tale verità ha il suo Prin-  cipio ultimo, la Radice assoluta, in Dio. Perciò, non è vero,  come dice l’O., che io « protesti di essere nello spirito » del-  l’aristotelismo e del tomismo, se per tomismo s’intende l’ari-  stoteliimo di Aristotele; al contrario, non vi tengo affatto  ad essere nello « spirito » dell’aristotelismo, e rifiuto il Mo-  tore immobile di Aristotele, se lo si vuol far passare per il  Dio creatore cristiano. Desidererei sapere se anche S. Tom-  maso, per l’O., sia proprio nello « spirito » dell’aristotelismo  e se il suo Dio sia il Motore immobile aristotelico.   Di passaggio rilevo un’altra espressione: « Tuttavia dire  spiritualità è dire, almeno almeno, potenzialità della concet-  tualizzazione » (p. 427); ma la spiritualità, nel senso pre-  gnante e profondo, è una verità cristiana, ignota al pen-  siero greco. E l’attività dello spirito è solo potenzialità della  concettualizzazione? Per Aristotele sì, ma per la filosofia  cristiana? E poi l’O. si dispiace quando me la piglio con  «una scienza puramente nozionale e di astratti ed esangui  rapporti o balletti logici». Se si identifica la spiritualità  con la concettualizzazione o con quella che Platone chia-  ma la È:zvorx, sono costretto a mantenere il mio punto  di vista e a contrapporvi una spiritualità più ricca e con-  creta, la vénets, che del resto non nega affatto il valore  del concetto ed è sempre molto meno della spiritualità cri-  stiana.   Non credo che sia necessario insistere nel chiarire l’altra  mia espressione « metafisica uguale trascendenza » dopo  quanto ho detto in proposito nelle pagine precedenti; nè mi  sembra che quanto ora aggiunge l’O. mi costringa a ritor-  nare sull’argomento. È vero, egli mi osserva che la mia  posizione non è sufficiente per arrivare alla trascendenza,    154 Filosofia e Metafisica       come non lo è quella dello Hegel, che resta nell’immanen-  tismo (p. 435). Debbo anche questa volta ripetere che io sono  ben lontano dalla posizione idealistica, in cui l’O. mi vuol  cacciare a qualunque costo.   Passando ad altro argomento, non credo che io abbia  «confuso » (addirittura!) «immanenza » con «immanenti-  smo » (p. 436), ma ho semplicemente usato il termine im-  manenza nel senso di immanentismo, come spesso fanno  anche gli immanentisti. Perciò escludo che interiorità sia  uguale ad immanenza e preferisco, appunto per evitare « con-  fusione », parlare di « presenza » od «interiorità » della ve-  rità, anzichè di immanenza, termine ormai compromesso.  Che sia così, lo dimostra proprio il fatto, ricordato dall’Ol-  giati, che per avere parlato di « méthode d’immanence » i  filosofi dell’azione, quelli non modernisti, si son visti ac-  cusare di immanentismo e si son tirate addosso una se-  quela di obiezioni e polemiche non di rado ingiuste e  infondate.   Mons. Olgiati osserva ancora: «se metafisica significa  scienza della realtà in quanto realtà, la realtà interiore io  non la posso, in un primo momento, riguardare in quanto  interiore, ma solo in quanto realtà ed allora avrà i concetti  e le leggi valide per ogni qualsiasi realtà e non solo per la  realtà interiore. A questa difficoltà il prof. Sciacca non ha  risposto » (p. 437). La risposta, invece, è data da un buon  numero di miei scritti e la dà indirettamente lo stesso O. a  p. 438: «E quando il pensatore d’Ippona mi dice che la  realtà è veritas ontologica, è raggio che m’invita a conoscere  il Sole, mi dà un concetto che vale per ogni realtà, anche  per quella che Platone disprezzava come fenomenica, an-  che per la realtà della natura ». Da ultimo l’O. torna an-  cora sulla questione del « progresso in metafisica »; e, in  fondo, nega che da S. Tommaso in poi ve ne sia stato.  Queste le sue parole: «E questo atteggiamento doveroso  ci mostra, sì, in ogni sistema ed in ogni indirizzo una con-    Concetto di metafisica 155       quista nuova, la quale però mon segna necessariamente un  progresso in metafisica, ma può realizzare progressi in altri  campi, sia della filosofia come della scienza, come della  storia » (p. 439). In tutti i campi, sì, si può parlare di pro-  gresso, tranne che in metafisica, la quale si è fermata là, a  san Tommaso, tutta compiuta. Non che la metafisica escluda  come tale il progresso, perchè l’O. lo ammette fino a san  Tommaso, il quale «implica e supera le conquiste platoni-  che ed agostiniane » (p. 424); dopo non più. E perchè?  Perchè mai, se delle conquiste, come quelle precedenti a  S. Tommaso, hanno potuto essere implicate e superate, a  detta dell’O., nella metafisica tomista, le conquiste di que-  sta non possono poi essere ulteriormente implicate e supe-  rate? Così quella verità metafisica resta là senza progresso,  come 2+2=4. Philosophia perennis, appunto, come di-  cono i tomisti, mentre noi diciamo che di perenne vi è  solo il filosofare come progressiva e sempre perenne sco-  perta della verità inesauribile. Perciò noi ripetiamo all’O.  che non facciamo la glorificazione e l’esaltazione di nessuno,  nè di Platone, nè di Agostino, Pascal, Rosmini, Blondel,  ma solo li consideriamo, pur con le loro differenze (e chi  potrebbe negarle?) uniti in un animus di filosofare affine  al nostro e che non è l’arimus o lo spirito del filosofare  aristotelico per il motivo semplicissimo che è quello cri-  stiano. Io mi sono occupato di questi pensatori e battuto  affinchè siano ben intesi e non fraintesi, senza omettere di  rilevare quelle che a me sono sembrate e sembrano le loro  manchevolezze e insufficienze o punti oscuri da chiarire.  Certo il concetto agostiniano di veritas non è quello blon-  deliano di vita, ma credo che i due concetti non si esclu-  dano: non v'è vita spirituale che non sia vita della e nel-  la verità oggettiva e non si penetra la verità oggettiva, che  è fonte di vita spirituale, se non vivendola. E se l’O. dice  che non è così, mi scusi, ma mi vengono subito in  mente la «scienza puramente nozionale » e i «balletti lo-    156 Filosofia e Metafisica       gici », a costo di sentirmi ripetere che mi manca «il con-  cetto del concetto ».    8. — Ultima replica.    Sotto il titolo « A conclusione d’una polemica » (« Riv.  di Filos. neosc. », IV, 1950, pp. 356-364), Mons. Olgiati ha  risposto alla mia ultima nota, concludendo la discussione  (tale per me è stata e non una polemica) che s'è svolta tra  lui da una parte e Carlini e me dall’altra, pur essendo la  posizione carliniana molto distante dalla mia. Anche da me  con queste poche righe la discussione è considerata conclusa.   La risposta dell’Olgiati non risponde affatto alla mia  precedente, ma ripete cose che egli aveva già detto ed io  controbattuto. Gli avevo posto domande precise sui rap-  porti tra Aristotele e San Tommaso e le loro costruzioni  metafisiche, come su quelli tra Agostino e Tommaso. Mons.  Olgiati ripete ancora che «la costruzione metafisica com-  pleta è certo diversa in Aristotele e in San Tommaso », ma  non mi dice se, poste queste diversità, per me profonde,  quella tomista si possa dire, e fino a che punto, aristotelica;  ripete che il tomismo completa la definizione platonico-ago-  stiniana del reale, ma non mi dice se con questo comple-  tamento siano conservate le tesi essenzialissime per cui l’ago-  stinismo è tale da S. Agostino a S. Bonaventura e a Ro-  smini; e potrei continuare.   In compenso, oltre a volermi insegnare alcune cose di  cui, per la verità, ho discusso in alcuni mici libri proprio  alla maniera dell’Olgiati anche, se non con la sua compe-  tenza — coincidenza di idee che l’O. non sembra gradire  — dichiara di aver trovato nella mia risposta «la chiave  per spiegare le difficoltà » che c’'impediscono d’intenderci sul  concetto di realtà. Ed eccola, questa chiave: io nasconderei  sotto il mio agostinismo « un concetto di realtà che non è nella  linea della metafisica classica, bensì in quella dell'innatismo    Concetto di metafisica 157       razionalista » (p. 361); e per due fittissime pagine continua  a svolgere questa sua interpretazione-chiave per concludere  opponendo la concezione della r'eritas agostiniana alla mia,  che riduce «la realtà in quanto realtà al contenuto del-  l’idea » e va a finire difilato nel « fenomenismo raziona-  lista » (p. 363). Lo dicevo io che, volente o nolente, sarei  dovuto andare nel « fenomenismo », le « malebolge » a cui  l’O. condanna tutti quelli che non la pensano come lui.  In quali miei scritti di questi ultimi anni l’Olgiati abbia  letto queste cose, lo ignoro; il passo che riferisce dalla  mia precedente risposta va inteso all’opposto da come egli  lo intende. Non confuto la sorprendente interpretazione,  come non confuterei un critico che dicesse che io sono  spenceriano, marxista o che so io; d’altra parte, dovrei  riesporre quanto ho già scritto, tra l’altro, nel mio primo  volume su S. Agostino e in Filosofia e metafisica (*), cosa  superflua. Bisogna riconoscere che Mons. Olgiati presenta  la sua interpretazione in forma molto dubitativa: « posso  sbagliarmi... e sono pronto a riconoscere eventualmente, il  mio errore, del quale — 4 priori — se fosse tale, chiedo  scusa all’egregio amico » (p. 361). Mi permetto dirgli che si è  proprio sbagliato e sinceramente non riesco a comprendere  come abbia potuto interpretare il mio concetto di realtà, clas-  sicamente agostiniano, nella linea dell’innatismo razionali-  sta, da me ripetutamente confutato, e credo in modo che  dovrebbe riscuotere anche l’approvazione dell’Olgiati.  Concludo questa discussione con una battuta scherzosa,  come si conviene tra amici, anche quando non s'intendono:  trà darsi che, come scrive l’Olgiati, vi sia qualcuno che  voglia fare delle nuove scoperte nella conoscenza dell’Africa  svolgendo indagini in America; temo però, da parte mia,  che egli legga alla rovescia quanto vado scrivendo, comin-    (2) Quest'opera era stata pubblicata nel lasso di tempo tra le due ultime  battute della discussione.    158 Filosofia e Metafisica       ciando dall’ultima sillaba dell’ultima pagina, come raccon-  tano facesse Pico della Mirandola nel ripetere un testo per  dar prova della sua memoria. Solo così egli può scoprire  in me non so quale «innatismo » o « fenomenismo razio-  nalista » e farmi esplorare l’Africa in America.    Carrtoto III    CULTURA E TRASCENDENZA    Il problema della cultura e del rispetto delle culture, oggi,  si presenta piuttosto come problema della « crisi », profonda,  della prima e di quella, minacciosa, del rispetto delle cul-  ture. A nostro avviso, questa duplice crisi (le culture in crisi  sono sempre intolleranti ed intransigenti: la crisi è un po’  decadenza e il pericolo del crollo rende spesso dommatici),  è la conseguenza di un’altra ben più profonda, di portata  metafisica, della crisi della trascendenza. In altri termini,  la crisi di una cultura è l’aspetto appariscente — ed in questo  senso superficiale — di quella dei suoi radicali fondamenti  metafisici, che spesso si perdono di vista e non si consi-  derano. Per esempio, quella della cultura greca espressa dalla  « sofistica » fu indubbiamente la crisi della metafisica cosi-  detta presocratica e specialmente delle due sue più alte posi-  zioni, di Parmenide ed Eraclito; l’altra, rappresentata dalle  filosofie dette postaristoteliche, fu crisi della metafisica pla-  tonica ed aristotelica. La crisi del pensiero moderno, nel  suo ormai secolare sviluppo attraverso molteplici crisi dentro  la crisi, lo è della metafisica cristiana patristico-scolastica.  Se ben si osserva, le tre forme di crisi che abbiamo addotto  ad esempio, pur nelle loro notevolissime differenze e diver-  sità, hanno un carattere comune che sorprende. Infatti, sia  la sofistica come le filosofie postaristoteliche e quelle dal Ri-  nascimento in poi — malgrado, com'è noto, non manchino    160 Filosofia e Metafisica       metafisiche della trascendenza, in questo senso dette « anti-  moderne », reazionarie, conservatrici o tradizionali — sono  posizioni filosofiche d’immanenza, preoccupate di giustificare  la realtà fisica e quella umana, come anche il loro valore  e significato, immanentisticamente, cioè da e con se stesse,  senza ricorso ad una Realtà trascendente di ordine super -  fisico e super-umano. Trascendenza significa dualità, imma-  nenza, monismo: la prima fonda «questa» realtà — gli  uomini e il mondo in cui vivono — su di un’ « altra » che  trascende questo mondo; la seconda fonda « questo » nostro  mondo su se stesso, cioè afferma che la realtà umana e  naturale si origina, si regge secondo sue leggi immanenti,  e si giustifica da sè ed in se stessa. La posizione dell’imma-  nenza, anche se si presenta come metafisica, a nostro av-  viso, è sempre una posizione antimetafisica, oppure, se lo si  preferisce, trova il suo sviluppo coerente ed ultimo nella ne-  gazione della metafisica, la quale, infatti, importa, affinchè  sia tale e non pseudo-metafisica, una concezione dualistica  della realtà: «questa » (fisica) e un’ «altra» che la tra-  scende e la fonda. Metafisica significa trans-physica, scienza  dell’2/ di là, che, come tale, trascende quel che è « di qua »;  di un «lassù » 44/ quale il « quaggiù » dipende e nel quale  ha il suo fondamento, il suo significato e il suo fine. Natu-  ralmente noi, oggi (lo accenniamo di passaggio), dopo il Cri-  stianesimo e lo stesso svolgimento del pensiero moderno,  non possiamo più concepire questo « al di là » in senso pu-  ramente o prevalentemente naturalistico o cosmologico, ma  lo pensiamo come l’assoluta Realtà spirituale, da cui la no-  stra dipende, come l’ « Al di là » interiore e trascendente.  Al contrario, per le filosofie immanentistiche — e come tali  non-metafisiche perchè non-dualistiche — quella realtà che è  l’uomo si fonda su se stessa, è fine a se stessa: l’unica umana  è la realtà storica, la cui espressione più alta ed assoluta è  stata, a volta a volta, identificata con l’attività morale (mo-  ralismo) o l’artistica (estetismo), con la filosofia (panfiloso-    Concetto di metafisica 161       fismo) o con l’attività politica (politicismo), con quella eco-  nomica (materialismo storico), con la storia nel suo com-  plesso (storicismo) o con le varie culture (culturalismo); in  qualunque caso con un valore puramente umano, mondano,  terrestre, laico, areligioso, finito e relativo, che in tal modo  è stato assolutizzato. Mondanismo e areligiosità sono ap-  punto i caratteri della « cultura » moderna e contemporanea  in generale, che pertanto, per quel che sopra è stato detto,  si presenta come antimetafisica ed antidualista e perciò anti-  trascendentista. In questi caratteri va cercata, per noi, la  causa profonda della crisi della cultura del nostro come di  tutti i tempi, che perciò è crisi della metafisica e della tra-  scendenza teologica; in una parola, crisi di fondamento,  di un fondamento assoluto del pensiero, in quanto il pen-  siero umano, limitato e relativo per sua natura anche se  assoluto nei suoi limiti, non può essere fondamento di se  stesso, non può autofondarsi, perchè non può autoautenti-  carsi: la sua autenticazione è nel pensiero, nella Verità  assoluta, che lo fonda, gli è interiore, ma, come fondante e  assoluta, lo trascende.   Una delle conseguenze più deprecabili, perchè dannosis-  sima dell’immanentismo della filosofia e della cultura mo-  derna è l’incomprensione e perciò la mancanza di rispetto  tra le varie culture. Negata la Verità assoluta e trascendente  — dico una verità oggettiva che misuri il pensiero e non  ne è misurata, produca il pensiero e non ne è prodotta, indi-  pendente ed anteriore e non da esso creata attraverso la ricerca  — € fatta la verità di un prodotto e non una scoperta della ri-  cerca stessa, un risultato storico e perciò contingente, non è più  possibile evitare il soggettivismo della verità. Inconsistente la  distinzione tra «io empirico » ed « Io trascendentale » : l’Io  trascendentale è sempre il pensiero dell’ordine naturale ed  umano (storico) e perciò mutevole e finito e, come tale, in-  sufficiente a fondare se stesso: considerarlo ingiustificata-  mente fondamento di se stesso, autosufficiente, è privarlo    162 Filosofia e Metafisica       del suo fondamento assoluto: il soggettivismo e il relati-  vismo risultano ugualmente inevitabili. L’aforisma prota-  goreo (« l’uomo è la misura di tutte le cose ») inteso, empi-  ricamente, nel senso dell’uomo singolo e particolare, o  idealisticamente, nel senso dell’umanità in universale, non  perde il suo essenziale soggettivismo, perchè è sempre l’asso-  lutizzazione fittizia ed arbitraria di un relativo. Di qui il  carattere prevalentemente soggettivo delle dottrine, la pretesa  di ciascuna d’identificarsi con la verità assoluta, il porsi di  ogni punto di vista, non come una prospettiva parziale, ma  come l’adeguazione della verità totale. Noi non diciamo  che i valori relativi e i punti di vista parziali non abbiano  alcun valore, ma diciamo che, solo arbitrariamente e per irra-  zionale estrapolazione, possono essere identificati ciascuno  con il valore o con la verità assoluta. In tal caso il rispetto  che si deve a ciascun valore si trasforma, una volta che lo  si assolutizza in fanatismo intollerante. Impossibili, per conse-  guenza, la cooperazione delle culture e il loro rispetto reci-  proco come l’avvicinamento, perchè manca il fondamento  comune di una verità oggettiva, la sola che possa rendere  possibile, pur nella diversità dei vari punti di vista, l’incontro  di esse, il loro interpretarsi e penetrarsi vicendevolmente, il  loro cooperare fruttuosamente in vista dell’unica verità. Si  è venuta a creare una miriade di culture, ciascuna « stato a  sè », sovrana, che perseguita l’altra, e la esclude. Ciascun pen-  satore identifica la verità con se stesso, si fa egli stesso la  verità e da questa condizione di « pontefice massimo » lan-  cia scomuniche contro l’« eretico » che la pensa diversamente.  Così siamo diventati tutti pontefici e tutti eretici nello  stesso tempo: dommatismo assoluto e insieme assoluto  scetticismo. Quando si nega l’esistenza di una verità asso-  luta — e non è tale se non è trascendente il nostro pensiero  — non c'è più possibilità d’intendersi perchè manca un  punto di riferimento assoluto da noi indipendente anche se  a noi interiore, e non vi è più rispetto e tolleranza. È una    Concetto di metafisica 163       questione di umiltà: sentirci non i creatori della verità, ma  gli umili servitori di essa, legati dal comune amore per la  verità, fatto di rispetto e obbedienza. Solo in questo amore  comune, unico stimolante ed unico fine, le culture possono  trovare il loro punto d'incontro, la loro compenetrazione,  come tanti punti di vista sollecitati dalla stessa aspirazione,  tendente all’identico scopo. Vi è al fondo un atto di mora-  lità radicale, metafisico anch’esso, ma non vi è moralità  autentica dell’uomo (e dunque anche della cultura che è  mondo umano) senza trascendenza teologica, senza metafi-  sica nel senso di sopra precisato e chiarito. Oltre che di  umiltà, è anche questione di onestà, chiarezza filosofica:  riconoscere che i valori metafisici e la metafisica come tale  non possono essere frammenti di esperienza umana per se  stessi non assoluti, elevati al grado dell’assoluto e con esso  identificabili. In questo senso, pur conservando la profonda  umanità della filosofia e della verità, è necessario correggere  ogni forma di pseudo-metafisica antropomorfica e chiamare  le cose con il loro nome: relativo quel che è relativo, e asso  luto quel che è assoluto.   Non vi è dubbio che cultura è la capacità dell’uomo  alla libera attività: dove manca questa libertà non vi è cul-  tura; decade o isterilisce. Essa è il frutto della libertà spi-  rituale: la schiavitù, come negazione della libertà, trova la  sua condanna nella sua « incultura ». Perciò, in questo senso,  è vero che il progresso della cultura è progresso morale, in  quanto la libertà spirituale sta a fondamento dell’uno e del-  l’altro; ma è anche vero che, sulla base dell’immanenza,  non vi è libertà — e dunque non più moralità e cultura — in  quanto si limita, usandogli violenza, il fine dell’uomo al-  l’angusto spazio terreno e al breve tempo storico (tutto lo  spazio è sempre angusto e tutto il tempo è sempre breve),  snaturando le sue aspirazioni fondamentali, reali, naturali  e sempre attuali; e in quanto si viene a negare il fondamento  stesso della libertà, che è autentica nel riconoscimento dei    164 Filosofia e Metafisica       suoi limiti (della trascendenza che la fonda e garantisce) e  non nell’illimitatezza indefinibile dell’arbitrio, in cui tutto  diventa lecito, perchè manca il limite della trascendenza,  come avviene in ogni filosofia immanentista.   Di qui possiamo trarre due ordini di considerazioni:    1) Non vi è cultura (perchè decade in forme decaden-  tistiche, bizantine ed infeconde) se tutto è limitato al tempo  e alla storia — immanentismo e umanesimo assoluti e come  tali astratti —-; se un misticismo eccessivo e perciò nihilista  cancella il tempo e nega la storia (apocalitticismo). In altri  termini, non vi è cultura dove tutto è tempo (negazione del-  l'eterno o di Dio) o dove si nega il tempo — negazione della  storia e dei valori umani. Per conseguenza, la condizione  della cultura risulta essere ancora la concezione dualistica  di « questo » mondo e dell’« altro », del mondo dell’uomo  e del Regno di Dio. Dove e ogni qualvolta si rompe questo  equilibrio, vien meno la condizione che rende possibile la  cultura e le sue forme. La cultura moderna ha cercato di  abolire l’ultratemporale (il metastorico) ed ha segnato con ciò  la decadenza della cultura occidentale, diventata culturali-  smo soggettivo, caotico e ormai infecondo. Per un motivo  opposto non vi è stata e non vi è una cultura russa: non vi  è stata per la duplice tendenza apocalittica e nihilista (prima  prevalentemente religiosa ed oggi assolutamente atea), che  porta fatalmente a cancellare la storia e il tempo. Chi è  assorbito nel problema finale del mondo, storico o metasto-  rico che sia, vede nella cultura un ostacolo e non una zia  attraverso cui si conquista il fine ultraterreno, si purifica  e si riscatta l’attività mondana dello spirito. La Russia, in  questo senso, quella religiosa di Dostoewskij o quella atea di  Stalin, è l’anti-Europa, l’anti-Occidente; nell’uno e nell’altro  caso un misticismo apocalittico, che nega il mondo umano.  L’Occidente moderno pecca dell’eccesso opposto: si dimostra  soddisfatto della sola cultura, risolve l’essenza della vita spi-  rituale nella storia: la cultura è la salvezza. Oggi quest’ap-    Concetto -di metafisica 165       x    pagamento mondano -immanentista è entrato in crisi e  perciò l'Occidente è malcontento, isterico, decadente, sofi-  stico. Gli è rimasto un simbolismo della cultura, senza una  vera cultura reale, ontologica, metafisica. Ciò è in certo senso  l’autocondanna dell’immanentismo, anima del mondo mo-  derno, e l’indizio dell’ansia di escire dalla zona « mediocre »  di una cultura che si è sganciata dall’eterno (da Dio) per  tuffarsi tutta nella storia, cioè per ricadere pesantemente su  se stessa, afflosciandosi e dissolvendosi, senza possibilità di  slanci metafisici. L’Occidente moderno ha voluto risolvere  l’eterno nel tempo, l’essere nel divenire, la trascendenza  nell’immanenza, il metastorico nella storicità; J’Oriente russo,  anticulturalistico, ha preteso negare il tempo, la storia,  l’uomo in una eternità astratta, in un misticismo religioso  antiumano, sia esso di una religiosità teologica o atea. Il  dualismo ontologico è distrutto: assoluto umanesimo è nega-  zione di Dio e perciò anche dell’uomo; assoluto teologismo  è negazione dell’uomo e perciò anche di Dio: due forme  di monismo opposte ma approdanti allo stesso risultato.  Entrambe sono atee e inumane.    2) L'altra considerazione, non meno rilevante della  prima, riguarda la struttura radicale di quella che comu-  nemente si chiama «civiltà occidentale »; «radicale »  per-  chè sta proprio alla radice, alle sue origini greco-cristiane.  La concezione greca della vita, quella della migliore ed au-  tentica grecità, è dualistica: vi è una realtà fisica ed una  realtà metafisica che trascende la prima, « questo » mondo e  l’« altro». Platone e il platonismo sono l’espressione più  alta e significativa del mondo classico. Dualistica è anche la  concezione giuridica di Roma antica: il cittadino e lo Stato,  senza che l’uno neghi l’altro ed entrambi reali nel loro in-  trinseco rapporto. Dualistica è ancora la concezione cri-  stiana: il creato e il Creatore, il mondo e Dio, il mondo del-  l’uomo e il Regno di Dio, « questa » vita e l’« altra », anzi  questa vita per l’altra, l’uomo per Dio. Concezione dualistica,    166 Filosofia e Metafisica          non solo, ma anche gerarchica: il «quaggiù» guidato,  orientato, subordinato al «lassù »: due realtà, l'una dipen-  dente dall’altra. Ciò spiega perchè la Rivelazione cristiana,  pur nella sua assoluta originalità rispetto alla concezione  greca e romana della vita, abbia visto, in un primo tempo,  nel pensiero greco il suo precedente e la sua base naturale  e, in un secondo tempo, abbia potuto realizzare la gran-  diosa trasposizione in termini di filosofia cristiana prima del  platonismo (Agostino) e poi dell’aristotelismo (S. Tommaso);  così pure ha potuto accogliere nel suo seno il meglio della  concezione giuridica di Roma. Il fondamento dualistico, co-  mune alla verità razionale e alla Verità rivelata, rese  pos-  sibile l’incontro e la loro continuità. Grecità, Romanità e  Cristianesimo sono i tre elementi costitutivi della civiltà  occidentale (europea); dunque la struttura autentica, la fisio-  nomia essenziale di essa è dualistica. L'esigenza immanenti-  stica non le è propria, anche se non completamente estranea.   Essa è tipica della civiltà germanica, che non è propria-  mente una forma di civiltà occidentale: la Germania non  è mai stata profondamente penetrata, fino a farsene la strut-  tura della sua civiltà, dallo spirito della grecità, nè da quello  della romanità e del Cristianesimo; infatti, è la terra del  monismo e del panteismo: monistiche e panteistiche la sua  filosofia, la sua mistica, la sua letteratura. L’immanentismo,  caratteristico del pensiero moderno e contemporaneo, è pe-  netrato anche nella civiltà occidentale, fortemente influen-  zata dalla cultura tedesca, ne ha alterato la struttura, l’ha  corrotta e messa in crisi; ha sostituito alla trascendenza l’im-  manenza, al dualismo il monismo, ha gradualmente abolito  Dio: «Dio è morto », conclude Nietzsche, «e l’abbiamo  ucciso noi ». In un primo tempo lo ha surrogato con l’uomo,  capovolgendo i termini del dogma cristologico: non Dio  Uomo, ma l’Uomo-Dio: ha assolutizzato la ragione (Hegel)  o uno dei tanti valori umani: l’arte, la morale, l'economia,  la politica ecc.; in un secondo tempo, ai nostri giorni, per-    Concetto di metafisica 167       duta la fiducia nell’assolutezza dei valori umani (com’era  inevitabile una volta negata la concezione metafisica duali-  stica) senza riacquistare la certezza dell’esistenza dell’As-  soluto trascendente, ha perduto ogni fiducia ed ha con-  cluso che non esistono valori, dato che non vi è di essi un  fondamento assoluto nè divino nè umano. Fatalmente l’im-  manentismo, perduto Dio, doveva perdere anche il concetto  dell’uomo come persona (il nazismo o altre forme politiche  simili). I due elementi fondamentali della civiltà occidentale  risultano negati e così con essi la civiltà che avevano pro-  dotto e fecondato (1).   Di derivazione germanica, immanentista — e non della  genuina civiltà occidentale — è il bolscevismo russo. Il co-  siddetto marxismo o materialismo dialettico o storico, im-  portato in Russia, ha subìto una notevole trasformazione a  contatto con l’«incultura» di quel Paese, cioè con l’opi-  nione negativa che gli scrittori più qualificati avevano sempre  avuto della cultura, come di qualcosa di mediocre, di un  ostacolo alla realizzazione dell’ultramondanismo e alla aspet-  tazione del fine assoluto. Il misticismo russo, con il bol-  scevismo, da religioso si è fatto ateo, il fine assoluto dal  cielo si è spostato in terra, ma la sua tendenza apocalittica  e nihilista è rimasta intatta. In un certo senso il bolscevi-  smo è la coerenza spietata e brutale dell’immanentismo: è  l’immanentismo fino in fondo. Se non vi è un «al di là»  e se vi è solo un « quaggiù », se non c’èdualità e trascen-  denza, l’assolutamente assoluto è il « quaggiù », tanto as-  soluto da costituire il fine ultimo, di fronte al quale ogni  cultura (in prima linea quella occidentale, dualistica e perciò  nemica), ogni forma di vita diversa da quella della nuova    (1) Dico di passaggio che una cultura, la quale esprime una concezione  immanentistica della vita, è condannata, proprio perchè manca della trascen-  denza, ad identificarsi con la « politicità » nel senso più vasto del termine e  dunque a materializzarsi e a sboccare nella violenza, che è la negazione della  libertà e perciò della cultura.    168 Filosofia e Metafisica       apocalisse comunista, ogni uomo ed ogni valore devono essere  sacrificati, annullati. Così il nihilismo religioso russo, l’« in-  cultura » e l’« antistoria », che negava il mondo rispetto al  fine (Dio), oggi, sotto l’influenza dell’immanentismo (della  sua antitesi), si è fatto immanentista, restando sempre nihi-  lismo a carattere mistico; assolutizza il mondo al punto da  negarlo come mondo, da proiettarlo in un fine assoluto  che è come un mondo al di là di quello storico e di questo  negatore, nega la cultura da cui è nato nella sua nuova forma  di « incultura ». L'immanentismo germanico aveva concluso  « Dio è morto », prima che con il Nietzsche con lo Hegel,  il cui Dio è il Gost im Werden, il « Dio che si fa», e Marx  deriva da Hegel; « se Dio è morto », argomenta il bolsce-  vismo, anche « l’uomo è morto », è nulla rispetto al suo fine,  l’Uomo assoluto di domani, l’uomo del millenarismo ateo.   Ci sembra ormai evidente che l’immanentismo, germa-  nico e russo (pur così diversi: l’uno nega Dio per il mondo  e l’altro lo stesso mondo per un mondo nuovo di un do-  mani assoluto), per il fatto che è immanentismo, è la mi-  naccia più grave, la morte, della civiltà occidentale, la cui  radicale struttura, come abbiamo detto, è la dualità, la tra-  scendenza, la metafisica nel senso vero del termine. Natu-  ralmente la crisi ci ha pure insegnato qualcosa: che la  trascendenza è una verità interiore e non di ordine esterno  e naturalistico (l’interiorità della verità è quanto va conser-  vato dell’immanentismo, ma l’interiorità non è immanenza)  e che, d’altra parte, essa non va mondanizzata o annacquata  in un umanesimo troppo umano o in un culturalismo che è  adorazione della cultura; ed è quel che ha di positivo 1°« in-  cultura » russa. Non dobbiamo respingere questi insegna-  menti, ma farli nostri e trasferirli nel lavoro di recupero  della civiltà occidentale, la quale può superare la crisi e  salvarsi soltanto con la restaurazione di quella metafisica  dualistica o della trascendenza (e la fedeltà ad essa) che co-  stituisce la sua essenza primale. O tale restaurazione e fedeltà ’    Concetto di metafisica 169       saranno il « piano Marshall », ben più importante di quello  economico, della cultura occidentale, o anche per noi,  inevitabilmente, Dio morirà e l’uomo sarà per sempre sep-  pellito. Sarà allora possibile realizzare il più olimpico ri-  spetto delle culture per il semplice motivo che nel mondo  non vi sarà più cultura (7).    (2) Avrei dovuto pur dire qualcosa sulla cultura anglosassone, ma il discorso  sarebbe stato necessariamente troppo lungo e forse più « scandaloso » di quello  che qui ho fatto.    CapitoLo IV    CULTURA E METAFISICA    Il titolo di queste pagine può sembrare curioso; e certo,  di primo acchito, non si vede un nesso preciso tra « cultura »  € « metafisica ». Avvertiamo subito che qui il termine « me-  tafisica » è usato nel suo significato più pieno e precisa-  mente di ricerca del principio primo e del fine ultimo di  ciò che è in quanto è. Per conseguenza, tutto quanto è nel-  l'ordine umano e naturale involge il problema metafisico,  in quanto implica quello del suo principio e della sua fi-  nalità, dove risiede il suo significato assoluto. Ci sembra,  ‘dunque, manifesto che, in questo senso, vi sia un problema  metafisico della cultura, come di ogni altra forma di at-  tività dello spirito umano.   Vi è per l’uomo un problema massimo che tutti gli altri  condiziona, orienta ed unifica: quello che è l’uomo a se  stesso, il problema di sè che l’uomo pone a se ste sso: della  sua destinazione, del senso totale, integrale ed assoluto della  sua esistenza. Questo problema, sottostante anche se im:  plicitamente ed inconsapevolmente ad ogni ricerca, costi-  tuisce l’umanità profonda di tutto ciò che è umano, l’u-  manità essenziale della scienza e dell’arte, della attività  conoscitiva come di quella morale ecc.; dunque anche della  cultura. La sua presenza conferisce ad ogni atto umano un  valore di immortalità: ne fa un momento, con gli altri  concorrente e solidale, del processo di conquista che l’uomo  fa di se stesso nella realizzazione della sua finalità trascen-    Concetto di metafisica 171       dente il processo stesso. In questo senso tutto ciò che è, è  vero ed è valido di una verità e di una validità sua, ma che  sporge e tende verso il Valore e la Verità che sono il suo  fondamento e il suo fine, e dunque il suo significato ultimo o  metafisico. Il tempo è riscattato nel suo andare all’eterno  e, col tempo, ogni opera e pensiero dell’uomo. E la cultura  è opera dell’uomo; ma egli non ne intende il significato  profondo fino a quando non la giudica per il contributo  che essa porta alla soluzione del problema della sua verità  di uomo, che è presente nella stessa cultura, perchè dove vi  è pensiero ed opera di uomini vi è quel problema, così con-  naturale ed essenziale allo spirito umano.   Una cultura fine a se stessa — la cultura per la cultura  — non è più tale, ma culturalismo: superstizione e mon-  dana idolatria, mito e non realtà; è i! fazto, non il valore  della cultura, che, se si limita al valore o al fine di se stessa,  si assolutizza e con ciò stesso si nega nella sua validità essen-  ziale. Opera dell’uomo, la cultura porta, ad essa immanente,  il problema metafisico dell’uomo stesso. Cioè: è l’uomo prin-  cipio e fine di se stesso? Rispondere affermativamente (im-  manentismo) è assolutizzare l’uomo, divinizzarlo; è negarlo,  dire quello che non è; è definire il suo non-essere e negare il  suo essere. Rispondere, invece, che l’uomo è causa di tutto  ciò che pensa e fa e che, in ciò che pensa e fa, attua come  suo fine, tutto l’uomo che è, ma che non è principio primo  e incondizionato di ciò che pensa e fa (del suo essere)  e che, realizzando tutto l’uomo che è, attua un fine che non  è fine a se stesso, ma la condizione affinchè possa realizzare  la sua finalità suprema trascendente l’ordine del tempo, è  dire la verità metafisica dell’uomo, cioè rispondere adegua-  tamente al problema non solo dell’essere o della verità umana,  ma anche a quello dell’Essere o della Verità che è fonda-  mento e finalità trascendente del suo essere e della sua ve-  rità. Assolutizzare l’uomo, fare di lui il principio e il  fine della sua intelligibilità metafisica, è sopprimere il pro-    172 Filosofia e Metafisica       blema metafisico e con esso ridurre, contro l’ordine del pen-  siero e della natura umana in generale — e dunque con un  atto irrazionale — il problema del suo destino e del signi-  ficato assoluto della sua vita al problema del suo destino con-  tingente e della sua significanza storica. Ma così non si ri-  solve il problema-uomo, ma si immagina il mito-uomo e  in questa miticità ogni pensiero ed opera sua son mito. Mito  anche la cultura, funesto, in quanto assolutizzata e posta fina-  lità di sè a se stessa, pura temporalità, ogni forma di cul-  tura si pone autonoma incondizionata assoluta e nega le  altre: la collaborazione delle culture si risolve nel con-  flitto e nell’incomprensione tra le varie culture. La super-  stizione della cultura, principio e fine a se stessa ed assoluta  come l’uomo che ne è l’artefice, porta inevitabilmente al  fanatismo e con ciò all’urto tra le culture, all’incomunicabi-  lità: cessa il colloquio.   Questa conseguenza è fatale: negare la realtà trascen-  dente del Principio assoluto fondante l’uomo ed ogni ente  e dell’uomo e di ogni ente finalità suprema — cioè il pro-  blema primo e ultimo della metafisica, connaturale alla  realtà umana — è negare l’uomo ed ogni cosa e perciò ogni  pensiero ed opera sua; è degradare dall’ordine della ragione  a quello della irrazionalità passionale; negare l’origine di-  vina dell’uomo e la sua finalità soprannaturale e con ciò  stesso fare della realtà spirituale una cosa tra le cose, fuori  del suo ordine, contro il suo ordine, contro ogni ordine.  L’uomo divinizzato è feticcio; ed è primitivismo raffinato  e sottile — direi sofisticato — ogni forma d’immanentismo;  è rinnovata barbarie di fanatici ed idolatri ogni forma di  cultura, per raffinata e scaltrita, che di quell’immanentismo  è espressione. L’uomo rinunzia a conoscere se stesso, a sa-  pere la verità del suo esistere, del suo pensare e volere, e  la cultura si fa l’espressione di questa colpevole inconsa-  pevolezza.   Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che, dal nostro    Concetto di Metafisica 173       punto di vista, non basta dire «che cosa è» cultura — è  ancora problema di conoscenza — ma è necessario, defi-  nitone il concetto, indagare sulla sua verità profonda, cioè  dire qual’è il suo senso ultimo, il fondamento e il fine  assoluto; ed è questo il problema metafisico della cultura.  Ma è evidente che la soluzione di questo problema può  essere data ed è data dalla soluzione del problema-uomo:  risolto il problema del principio e del fine dell’uomo è  implicitamente risolto l’altro del principio e del fine di  tutto ciò che è umano, conformemente, univocamente, alla  soluzione del primo problema. Per conseguenza, il senso  o la verità di tutto ciò che è umano è identico al senso  o alla verità dell’ uomo; e se l’uomo ha il suo senso o la  sua verità nel Principio che lo fonda, lo fa essere, orienta  e stimola e in esso pure il suo fine assoluto, consegue che  ogni cosa dell’uomo ha senso e verità in quel Principio e  in quel Fine.   Il Vico su questo punto vide esattissimo: la verità della  storia (del mondo umano) trascende la storia. Vi è un du-  plice problema che investe lo stesso oggetto d’indagine:  dell’accertamento del fatto o dell’avvenimento e dell’invera-  mento di esso: accertare è constatare e documentare; inve-  rare è spiegarne il significato, scire per causas. Ora l’uomo  è causa della storia e perciò di essa ha scienza, ma non è  principio di sè a se stesso; dunque, come egli trova il senso  (la verità) di sè al di là di se stesso, nel Principio assoluto  o Dio che lo crea uomo, così la storia, che è la sua opera o  il suo farsi uomo, ha il suo senso ultimo (la sua verità) al  di là di essa, al di là del tempo e di ogni tempo, nell’ordine  eterno che la fonda e la guida ed essa imperfettamente ripro-  duce affinchè l’uomo, attraverso la storia stessa ma oltre la  storia, realizzi il suo destino, da cui tutto trae senso, super-  storico ed extratemporale. In questa metafisicità immanente  in ogni pensiero ed opera umana, che è la metafisicità  immanente e naturale dell’uomo nella pienezza della sua    174 Filosofia e Metafisica       realtà spirituale, è anche il senso profondo della cultura.  Perciò noi nel segnare i limiti del culturalismo (la cultura  fine a se stessa ed essa stessa il tutto) e nel denunziare la  sua insignificanza sostanziale — sono i limiti di un uma-  nesimo che fa della cultura, dell’uomo e della sua opera in  generale l’assoluto dell’uomo stesso, tutta la sua realtà e  finalità — richiamiamo l’attenzione sulla presenza del pro-  blema metafisico al problema della cultura (quel proble-  ma è presente all'uomo in quanto tale e in ogni forma  della sua attività) e concludiamo che non è possibile porre  il problema della cultura e del suo significato senza porre  l’altro del significato dell’uomo in tutta la sua realtà, che  è, abbiamo visto, il problema metafisico nel senso che noi  diamo a questa parola, cioè della intelligibilità suprema del-  la realtà umana e dunque anche della cultura, che è opera  dell’uomo.  * * *   Della nostra cultura attuale, nel suo ultimo libro (L'uomo  e la cultura, Firenze, « La Nuova Italia », 1947), Huizinga  scrive: « più ricca e possente che non mai, ma le manca un  genuino stile, le manca una fede unitaria, le manca l’intima  fiducia della sua propria durevolezza, le manca la misura  della sua verità, le manca, infine, l’armonia, la dignità e la  divina quiete ». Vi è del vero — e in duplice senso — in  questo giudizio: 4) è vero che la nostra cultura è ricca,  ricchissima di motivi, interessante anche nei suoi aspetti più  sconcertanti, nelle sue contraddizioni, nella sua consapevolez-  za critica esasperata, nel suo stesso scetticismo; interessante  soprattutto perchè ricca di esperienza di vita, per cui — nelle  sue manifestazioni migliori — non è pura esperienza cultu-  ralistica, ma vita vissuta che si esprime in forme culturali;  5) ma è altrettanto vero che le manca una norma interiore,  costitutiva della sua struttura, quasi la sua interna e salda  armatura. Dell’esistenza priva di un senso assoluto e di una  finalità suprema — e perciò dispersa, frammentaria e come    Concetto di metafisica 175       sparpagliata — la cultura ripete il frammentarismo e l’insi-  gnificanza, la mancanza di fede e della misura della sua  verità. Privata la vita della sua norma, cioè del suo essere  e del suo consistere, anche la cultura è privata di consistenza,  mancante della norma che la orienta ed unifica, la fa con-  vergente verso un fine, la cui realizzazione è la sua verità,  che, misurandola, le dà significato e scopo, appunto perchè  essa può commisurarsi fiduciosa alla verità che le è pre-  sente, ma che in essa non si esaurisce. Quando la vita espri-  me la sua verità, il suo essere, la verità e l’essere che la ra-  dicano nella Verità e nell’Essere, anche la cultura è espres-  sione essenziale e sostanziosa, unitaria e vera, della verità e  dell’essere della vita; anche essa si sostanzia della stessa intelli-  gibilità metafisica che chiarifica il destino dell’uomo e il  senso della storia.   Il Medioevo espresse meravigliosamente questo ideale di  vita e di cultura: consapevolezza, in un’armonica ed inscin-  dibile simbiosi di ragione e fede, del destino dell’uomo come  fiduciosa realizzazione di una finalità trascendente, come  convergenza e solidarietà in Dio di tutte le energie della vita  nel loro dinamismo integrale. Il migliore Rinascimento, sen-  za negare questa concezione cristiana dell’esistenza, espresse il  suo ideale di cultura nella serena ed armoniosa operosità  umana tesa a realizzare unitariamente i valori della bellezza,  della dignità della persona, della scienza come conquista  del mondo, per cui quel di divino che l’uomo e la natura  esprimono è come riflesso, guida, richiamo e testimonianza  della loro origine da Dio e della loro finalità in Lui. Il pen-  siero moderno, sviluppando fermenti ed elementi impliciti  nello stesso Rinascimento, ha rotto questa armonia e del mon-  do umano e naturale ha fatto tutta la realtà, avente in se  stessa il suo principio e il suo fine e perciò autosufficiente :  fondamento di sè a se stessa; orgogliosa fede nelle possi-  bilità dell’uomo, artefice incondizionato del proprio destino  e del suo mondo. Per circa tre secoli la cultura occidentale    176 Filosofia e Metafisica          ha vissuto di questa fede, perdendo gradatamente il senso  della trascendenza e la coscienza religiosa per conquistare  quello della immanenza e su di esso costruire, al posto della  religione il cui oggetto è Dio, la superstizione dell’uomo as-  soluto principio e fine di se stesso. Così l’uomo è stato ade-  guato alla realtà naturale e chiuso nella finitezza dell’espe-  rienza: costretto a porsi esso stesso, come ragione o pensiero,  principio e fine metafisico del reale, ha finito per perdere il  vero concetto di metafisica e rinunziare alla metafisica stessa.  La fede superba ed orgogliosa nelle sue possibilità, attra-  verso un processo di autocritica, si è gradualmente sfaldata; in  tal modo egli è rimasto privo di una fede e di un destino tra-  scendente, privo di una fede e di un destino immanente. La  perdita della metafisica si è conclusa fatalmente nella per-  dita della realtà e della verità dell’uomo e, per conseguenza,  nella perdita della fede e della serietà della cultura.   Invano si è cercato trovare la verità dell’uomo e delia  cultura in uno dei valori mondani arbitrariamente assolu-  tizzato (nell’arte, nella scienza, nella storia ecc.); invano il  materialismo storico — ultima e legittima conseguenza del-  l'immanentismo — cerca di trovare l’unità e la verità dell’uo-  mo e della cultura nel valore economico-politico-sociale.  Quella che oggi si chiama la crisi dell’uomo e della cultura  è la conseguenza del fallimento delle precedenti forme cul-  turali a carattere immanentistico: non è in crisi una forma  culturale immanentista, questa o quella, ma è in crisi l’im-  manentismo come tale. Perciò qualunque forma culturale im-  manentista, espressione della fede orgogliosa e superstiziosa  nei poteri dell’uomo, è essa stessa espressione della crisi  e non di essa risolutrice; è ancora, anche se del presente,  espressione di una cultura del passato, che la crisi del pre-  sente, che è la sua crisi, nel suo travaglio si sforza di oltre-  passare perchè rivelatasi fallace. Similmente l’uomo e la  cultura non possono rinvenire la loro verità nel mito funesto .  ed esclusivista del nazionalismo, dissolvente dei concetti stessi    Concetto di metafisica 177       di uomo e cultura e fatalmente avviato all’urto delle culture  nazionaliste, cioè alla guerra. La Kultur tedesca dell’imme-  diato passato e la «cultura» sovietica dell’oscuro presente  ci sono di ammaestramento e di ammonimento.   Una conclusione scende legittima ed inoppugnabile dalle  nostre premesse ed argomentazioni: l’uomo non è il crea-  tore della sua verità nè l’artefice del suo destino; la verità  e il destino dell’uomo trascendono il mondo umano e na-  turale, traggono origine e realizzano il loro fine al di là  e al di sopra di esso. Solo in Dio l’uomo autentica la verità  della sua vita; solo nella trascendenza teologica rinviene  l’intelligibilità metafisica del suo essere: qui la sua unità,  la verità della verità che egli è. Solo esprimendo questa realtà  umana la cultura può ritrovare unità e fede, verità e consi-  stenza, cioè la sua norma e il suo significato.   Eliot ha scritto che una cultura presuppone una religione  ed è vera se è vera la religione su cui si fonda. Ora non  vi è religione senza Dio: le religioni del progresso, della  scienza, dell’umanità, della libertà, del collettivismo ecc.,  adorano un Dio che non è tale e perciò son forme di ido-  latria: il mondo moderno è idolatra, di religioni false e  dunque di false forme di cultura. Religione è fede nell’Es-  sere trascendente e creatore, principio e fine di ogni cosa  esistente. Non solo per l'Occidente, ma per ogni uomo che  ne viene a contatto, questa religione e questa fede non pos-  sono non essere che la religione e la fede cristiane, perchè  il Cristianesimo è l’unica religione vera; dunque solo una  cultura cristiana è vera. E se la cultura occidentale ha an-  cora una sua verità e, tra tanti segni di sbandamento e  disintegrazione, riesce ad avere una sua certa unità e a  valere più di altre forme culturali, lo si deve al fatto inne-  gabile che, pur tra tanto laicismo, è sempre una cultura  cristiana. Ancora oggi i popoli dell’Occidente respirano e vi-  vono in un’atmosfera cristiana, anche se viziata e corrotta.  Nessuno potrebbe parlare di « persona », « libertà », « amo-    178 Filosofia e Metafisica          re» e «carità» se il Cristianesimo non avesse insegnato  questi concetti e se ancora oggi, pur tra tanti travisamenti,  non fossero presenti alla coscienza occidentale.   A questo punto ci sembra che si presenti un dilemma  perentorio: o la cultura esprime la verità dell’uomo, quel-  la da noi sopra indicata: il senso assoluto o la intellegi-  bilità metafisica del suo essere, ed ha la sua verità; o ne è  l’espressione sofisticata e allora, espressione di una falsifica-  zione della natura umana, è altrettanto falsa. Ma una cultura  che esprime la verità dell’uomo è sempre conforme alla verità  cristiana, in quanto la verità dell’uomo è in Dio e nel Dio  del Cristianesimo. La cultura è sempre l’espressione più  alta della civilità e non c'è civiltà più alta di quella cristiana:  quanto non è cristiano, dopo il Cristianesimo, è incivile.  Come segno di una civiltà non esteriore la cultura ha una  funzione altissima e dinamica: informare dei suoi valori  il mondo che necessariamente è fuori di essa; è questa la  sua finalità sociale. Una cultura sociale in senso diverso, nel  senso del collettivismo marxista, è la cultura dell’incultura,  senza senso.    CaritoLo V    VI E’ UNA FILOSOFIA DELLA STORIA?    L'espressione « filosofia della storia » — e naturalmente  anche il problema — è recente: che io sappia, per primo,  la usò il Voltaire e, successivamente, lo Herder la intro-  dusse in Germania. Ha dunque appena due secoli di vita;  e di vita molto contrastata.   Non è senza significato che si sia cominciato a pen-  sare ad una « filosofia della storia » nell’età dell’Illumini-  smo, considerata comunemente come l’età dell’anti-storia;  forse proprio perchè antistorico, per primo l’Illuminismo  pensò ad una filosofia della storia. Il secolo dei lumi aveva  un suo programma da realizzare: il regno dell’uomo sulla  terra, da instaurare con la sola ragione, autonoma, asso-  luta, cioè indipendente da qualsiasi principio superrazio-  nale, trascendente l’ordine della natura umana e fisica. Come  la scienza si era costituita autonoma, così ogni altra forma  di attività (il diritto, la morale, la politica, ecc.) e ogni  altro settore dello scibile dovevano costituirsi separati dalla  religione e, in generale, da ogni teologia, il cui contenuto  non si risolvesse perfettamente nell’ambito dell’umana ra-  gione. Si pensò dunque a una «filosofia della storia »,  cioè a una spiegazione puramente razionale del cosmo  umano, a una sistemazione di esso sulla base di un certo  numero di princìpi razionali direttivi ed esplicativi. Non  aveva forse l’« oscurantismo » medioevale accettato la con-    180 Filosofia e Metafisica       cezione agostiniana della storia, secondo le grandi e mae-  stose linee del De civitate Dei? Ebbene, questa di Agostino  e del pensiero cristiano posteriore non è « filosofia », ma  «teologia » della storia, cioè la storia del mondo umano  interpretata e spiegata sui dati della Rivelazione, per cui la  « storia terrena » trova la sua spiegazione e il suo signifi-  cato non in se stessa, ma nella «storia sacra» e nell’or-  dine soprannaturale. Anche la storia bisognava separare dalla  religione; dunque non la storia spiegata teologicamente  (super-razionalmente), ma filosoficamente, dentro l’ordine  della ragione. Ma si possono ricondurre i fenomeni storici  ad un piccolo numero di princìpi direttivi essenziali ed  irriducibili? Si può costruire il « sistema» della storia? Lo  Illuminismo non sembra che sia stato di questa opinione  e: o condannò la storia mondo oscuro ed irrazionale delle  passioni, o non oltrepassò la concezione di essa come or-  dine cronologico (d’Alembert). Non così in Germania dove,  a cominciare dallo Herder, fin dagli albori del romantici-  smo, la «filosofia della storia » ebbe ben altra fortuna ed  elaborazione. Nacquero in quel periodo le sue sorelle, le  molte « filosofie »: della religione, del diritto, dell’arte ed  ultima, col d’Ampère, delle scienze. È evidente che proprio  la nascita di tante « filosofie » segna l’agonia e poi la morte,  anche se apparente e transitoria, della «filosofia ». Se la  storia, la religione, il diritto, l’arte, le scienze, ecc. hanno  ciascuna una sua filosofia, che resta alla filosofia come suo  oggetto proprio e problema irriducibile? Il sorgere di tutte  ueste filosofie è l’effetto e insieme la causa della «crisi »  della filosofia, della sua dissoluzione. Evidentemente per  filosofia cominciava ad intendersi qualcosa di ben diverso  da prima.   Infatti basta porsi il problema di una «filosofia della  storia » per ritenere almeno possibile una scienza del par-  ticolare, del singolo, del contingente. Tale possibilità è  esclusa dalla filosofia classica, greca e cristiana; perciò il    Concetto di metafisica 181       pensiero antico e quello cristiano non si posero mai il pro-  blema di una filosofia della storia, quantunque il Cristia-  nesimo abbia posto in prima linea proprio il problema della  storia. Evidentemente grecità e Cristianesimo hanno un con-  cetto di filosofia ed un concetto di storia tali da escludere che  vi possa essere filosofia che sia filosofia della storia e storia  che possa essere tutta esplicata con e in un sistema di prin-  cipi, di leggi, di categorie. Per Aristotele, infatti, la filosofia  è sapere razionale o scienza (Mez. I, 1; 993 b, 21) avente per  oggetto l’universale e per strumento la ragione; la storia è  invece ammasso di documenti, pura raccolta generale di  fatti da distinguere dal lavoro di spiegazione o di sistema-  zione e dai trattati teoretici. « Phslosophia individua di-  mittit », dice F. Bacone (De dignitate et de aug. sc.; II,  I, 4) e come tale essa si oppone alla storia che « proprie  individuorum est, quae circumscribuntur loco et tempore »  (ivi, II, 1, 2). La storia è conoscenza dell’individuale ed ha  come strumento essenziale la memoria; la filosofia lo è del-  l’universale ed ha come strumento specifico la ragione; dun-  que la filosofia si oppone alla storia; una filosofia della  storia è una contraddizione nei termini, in quanto si assegna  alla filosofia un oggetto che non le è proprio, è l’opposto  (l’individuale) del suo (l’universale), e si applica il suo stru-  mento (la ragione) ad un oggetto per il quale è adatto un  altro (la memoria). La filosofia, continua Bacone (:24, II,  I, 4), «neque impressiones primas individuorum, sed no-  ziones ab illis abstractas, complectitur »; la storia invece  è proprio conoscenza delle « impressiones primas individuo-  rum ». Dunque il dato storico e il dato teorico, storia e  teoria, si oppongono: la prima ha per oggetto i dati di  fatto nella loro singolarità, particolarità e contingenza; l’al-  tra le relazioni costanti e generali, su cui si applica la ra-  gione. Sono possibili relazioni costanti e generali nei fatti  storici? È possibile una scienza della storia? Alcuni moderni  hanno parlato e parlano ancora di filosofia della storia, ma    182 Filosofia e Metafisica       evidentemente intendono storia e filosofia in maniera, come  dicono, « moderna ».   Il pensiero moderno, a differenza di quello greco e me-  dioevale, manifesta uno spiccato e prevalente interesse per il  particolare, il concreto: per il concreto fisico e il concreto  umano; perciò le scienze naturali e la storia sono una sua  conquista; perciò la politica, l’estetica e l’economia, scienze  mondane, hanno avuto nel pensiero moderno un immenso  sviluppo e sono state scientificamente sistemate assieme ‘alla  cosiddetta psicologia sperimentale. L'oggetto del pensiero  moderno è stato ed è ancor oggi prevalentemente « questo  mondo », « questa terra » ed i loro fatti concreti; non per  nulla con Occam incomincia quella che si chiama la de-  cadenza della Scolastica. È evidente che la filosofia, gradual-  mente, doveva essere portata o costretta a porsi come suoi  problemi quelli del concreto, cioè dei fatti di questo mondo,  naturali ed umani. E solo dei fatti; dunque non più ricerca  dell’4/ di lè, ma interpretazione del quaggià. Di qui, dap-  prima, la rivolta contro la metafisica tradizionale e poi contro  la metafisica senz’altro; la sostituzione della « metafisica  dell’essere » con la « metafisica del pensiero » o della mente;  di qui la metafisica del pensiero intesa come costruzione  delle scienze della natura (positivismo). In tal modo, da un  lato, la filosofia è venuta ad identificarsi con le singole  scienze umane o naturali, e, dall’altro, il concetto di storia,  il cui oggetto è il concreto o il particolare per eccellenza, ha  assunto un’importanza quasi assoluta. Di conseguenza la  filosofia ha cessato di essere una scienza autonoma e si è  trasformata in metodologia: o delle scienze (positivismo)  o dell’attività spirituale umana (idealismo) o della storia  senz'altro (storicismo); ha cessato di essere filosofia dal  giorno che la sedusse il demone dell’immanentismo e volle  farsi mondana, antiplatonica, scienza di quaggiù: tradì se  stessa e si snaturò.   Ma anche così, per limitarci al nostro problema, è pos-    Concetto di metafisica 183       sibile una filosofia della storia? Non propriamente il Vico  ma lo Hegel credette di sì, di poter dare una spiegazione  razionale totale della storia e dello spirito umano nei mo-  menti del suo divenire: per lo Hegel, la ragione può spie-  gare (e spiega), sistemare (e sistema) tutto il reale fisico ed  umano, la storia senz’altro, senza residui. Ma la storia  è storia dell’Idea, storia dell’Assoluto: è l’autorivelazione di  esso, che, attraverso il processo dialettico, chiude il cir-  colo su se stesso. Da questa storia resta fuori, al principio e  alla fine del processo, proprio... la storia! La Ragione hege-  liana, il Dio immanente creatore, si sostituisce alla creatura  e la nega come tale: la pone e la nega, la risolve (dissolve)  in sè: il concreto, il singolo, il particolare, nel dialettismo  antinomico hegeliano, è il non-reale, il non-razionale, il non-  vero, lo strumento caduco di cui l’Idea si serve e che la  stessa Idea sopprime. La storia è la storia dell’Idea, non degli  uomini singoli e delle cose; quella di Hegel è una filosofia  della storia che nega proprio la storia. Ecco perchè il positivi-  smo che, nonostante tutto ebbe vivo il senso della storia, è  stato anti-hegeliano; e un contemporaneo epigono italiano  dello Hegel, rimasto, in fondo, positivista anche lui, ha ne-  gato che vi sia una «filosofia della storia» ed ha identi-  ficato con la storia la filosofia. In tal modo, il positivismo e   uesta forma di storicismo empiristico hanno costruito o  una «filosofia della storia » senza filosofia (il positivismo)  © una storia che dice di identificarsi con la filosofia solo per-  chè ha ridotto questa a metodologia dell’altra, cioè perchè  in partenza la nega come filosofia. Già lo Schopenhauer ave-  va negato che vi possa essere filosofia della storia (!).    (1) « La storia è una conoscenza senza essere una scienza, in quanto in nes-  sun modo essa conosce il particolare per mezzo dell’universale, ma deve attin-  gere immediatamente il fatto individuale, e, per così dire, è condannata a stri-  sciare sul terreno dell'esperienza... Se la storia non ha propriamente per oggetto  che il particolare, il fatto individuale e lo ritiene la sola realtà, essa è tutto  l'opposto e l’antitesi della filosofia, che considera Je cose dal punto di vista  più generale ed ha per oggetto specifico quei princìpi, sempre identici attraverso  tutti i casi particolari » (Die Welt als Wille und Vorst., vol. II, cap. 37).    184 Filosofia e Metafisica       Dunque, proprio il fallito tentativo del pensiero moderno  di costruire una filosofia o scienza della storia (cioè il ten-  tativo di spiegare tutto l’uomo senza Dio) dimostra come una  filosofia della storia in questo senso sia impossibile e fa  attuale, esso, antiteologico, la concezione della storia di  Agostino e della filosofia cristiana; attuale, ma dopo la con-  cezione che della storia ha avuto il pensiero moderno, la  quale non va negata ma assunta come problema della filo-  sofia, come il problema dell’uomo, del suo significato e del  suo destino.   Posto ciò, esiste il problema della storia (del singolo, del-  l’uomo concreto) nel pensiero aristotelico e nell’aristoteli-  smo? Non sembra. Se l’oggetto della storia è il particolare,  il concreto, il contingente non risolvibile, come tale, nelle  leggi che pur lo governano; se i fatti umani sono contin-  genti in se stessi, cioè di una contingenza obiettiva, asso-  luta; e se, d’altra parte, l’oggetto della filosofia è l’univer-  sale, della storia non c’è filosofia, non c’è scienza. Non c’è  nemmeno problema da questo punto di vista, in quanto non  si può porre il problema di quali siano le leggi razionali,  universali e necessarie di ciò che non è spiegabile con tali  leggi, perchè ad esse non ubbidisce. Infatti, per Aristotele,  come per Platone e per il pensiero greco in generale, della  storia non c’è scienza e non c’è neppure problema specula-  tuvo: è il mondo del sensibile, del passionale, dell’arazionale.  Il singolo come singolo ed il fatto umano nella sua concre-  tezza non sono oggetto di scienza razionale o di filosofia; il  singolo è inoggettivabile. Perciò nella concezione greca la  storia non ha progresso nè svolgimento: è circolo, eterno  ritorno insignificante. È razionale il mondo delle essenze,  non quello degli individui. Gli uomini tendono a Dio, ma  restano sempre fuori di Lui, come Egli è estraneo a loro  ed alle loro vicende: non sanno perchè vanno e dove vanno;  son mossi dal cieco destino, dal fato, dalla ananche, e preci-  pitano nella notte inesplorabile della morte. Il Cristianesimo    Concetto di metafisica 185.       gettò luce su questa concezione della vita, serena per la sag-  gezza della disperazione e attaccata alla gioia di vivere per  lo sconsolato convincimento che la vita e la morte non  hanno in loro nulla che veramente persuada, con il con-  cetto di creazione che spiega appunto le origini da Dio della  storia e dell’uomo. E pur essendo il concetto di creazione  anche una verità di ragione, esso entrò nel mondo con la  Parola soprarazionale.   Per la filosofia nasce a questo punto un problema fonda-  mentale: se oggetto della ragione sono le essenze universali  desistenzializzate e non quelle incarnate che sono i singoli  uomini (quell’essenza singola che è ogni singolo), l’uomo e  la sua vicenda — la sua origine, la sua vita, il suo dolore, il  suo bene e il suo male, la sua morte — restano fuori della filo-  sofia, sono il limite della ragione. Accettare questa conclu-  sione sarebbe cancellare la storia e gli uomini, come, in fon-  do, li cancella il pensiero greco ed ogni filosofia della pura  ragione nozionale, sia il razionalismo di tipo plotiniano o  spinoziano, sia quello di tipo hegeliano. Pertanto, una filo-  sofia che considera razionali solo le essenze universali si  trova di fronte, imponente, ineliminabile ed inesorabile, il  problema della storia, cioè il problema dell’uomo. Può la  filosofia risolverlo?   Lo ha tentato con la filosofia della storia, ma, come ab-  biamo visto, il tentativo è naufragato: ha soppresso la filo-  sofia (positivismo) o ha soppresso la storia (Hegel) nel mo-  mento stesso che tentava di ridurla a razionalità; pertanto  l’uomo o la storia nella sua integralità non può essere spie-  gato dalla sola filosofia. Ma fino a che punto può essa  spiegarlo ?   Indubbiamente vi è nella storia una relativa razionalità  e precisamente quella che deriva dalle leggi eterne della  matura umana e dalle connessioni causali derivanti dal con-  tatto di questa con l’ambiente che la circonda. Ma, tale  razionalità, ben lungi dal rendere interamente razionale    186 Filosofia e Metafisica       la storia, si lascia ancora sfuggire proprio quel singolare  concreto che esige spiegazione. La storia è veramente com-  prensibile e persuasivamente spiegata solo quando spiega,  in maniera non contraddicente la ragione e le esigenze fon-  damentali e sempre attuali dello spirito umano, il significato  ed il destino di ogni singolo uomo e, con esso, quello del-  l’umanità globale del passato, del presente e del futuro.  Quale dialettica governa il mondo? Quale il piano della  storia? Hegel rispose: è l’autorivelazione dell’Assoluto. Ma  ciò non spiega la storia, bensì afferma che essa è stru-  mento dell’Idea e con ciò le nega ogni significato e realtà;  con ciò si cancellano, senza risolverli, il problema del male,  del dolore, della morte ecc. La « filosofia della storia » non  può dunque pretendere di spiegare il piano della storia stessa.  Ogni tentativo in questo senso è una pretesa infondata della  ragione iperbolica: giustamente A. Franchi (Ultima critica,  p- 190) chiama la filosofia della storia « vanità della vanità ».   Ma il suo fallimento non lo è della filosofia; anzi è il  recupero della sua autenticità. La filosofia si incontra con  il problema dell’uomo, del singolare concreto: il problema  le nasce dal di dentro e le è essenziale. Ma, come abbiamo  accennato, non lo è ad una filosofia delle pure essenze, che  identifica la razionalità con la ragione di tipo aristotelico,  puramente intellettualistica e nozionale. Per una ragione delle  essenze, dell’eidezica, il singolare, la storia, l’uomo in carne  ed ossa, l’esistente, sono indifferenti. Essa si chiude nelle  essenze e chiude in parentesi il concreto. Ma questa ragione  non è tutta la ragione, che non è tutto il pensiero vivente,  l’uomo pensante, realtà spirituale, spirito che è insieme ed  inscindibilmente essere sentire conoscere volere. Per lo spi-  rito concreto la storia è la sua storia; il significato e il de-  stino della storia sono il suo significato e destino. Il proble-  ma scaturisce dal suo dinamismo interiore, gli è intero:  è il problema della sua stessa interiorità. Il problema specu-  lativo della verità manifesta la sua solidarietà con quellò    Concetto di metafisica 187       pratico del destino umano; nasce il problema ultimo della  loro unità. Può la filosofia risolverlo? No: può solo av-  viarne la soluzione integrale, che è quella della storia inte-  grale, cioè può cercare a quali condizioni è possibile quella  unità. È il problema dell’adazzamento del nostro essere con-  creto alla sua finalità interiore e trascendente, che è l’Essere.   Tale adattamento è atto razionale della ragione vivente  e concreta, con cui ricorosce (e dunque è anche atto volon-  tario) che la dinamica del pensiero è orientata all’Essere  che la trascende e che la soluzione del problema della vita  e del destino dell’uomo o della storia trascende l’ordine ra-  zionale umano e naturale; dunque l’atto con cui la ragione  riconosce che il piano della storia è divino, è atto razionale  e perciò razionale è il passaggio dalla « filosofia » alla « teo-  logia » della storia. A questo punto si rivela chiara ed evi-  dente alla ragione la convenienza della Rivelazione: il si-  gnificato della storia è nella Parola rivelata ed incarnata, in  Cristo. È la soluzione di Agostino, la cui teologia della sto-  ria, punteggiata dai momenti della creazione, del peccato  originale, dell’Incarnazione, della Redenzione attraverso la  Croce, del dolore come conseguenza del peccato, del gran  Sabato nella fine dei tempi, resta e resterà sempre, nelle  sue linee maestre, la verità perenne sul problema della sto-  ria. E, se verità, sempre attuale; più che mai oggi dopo  che il pensiero moderno ci ha educati all’interiorità della  ricerca e della verità. Ma deve essere una interiorità auten-  tica: quella che « attesta » e non che « pone » Dio. Nella  trascendenza teologica è il senso della storia e dell’uomo:  « Beau de voir par les yeux de la foi l’histoire d’Hérode, de  César... Qu'il est beau de voir, par les yeux de la foi, Darius  et Cyrus, Alexandre, les Romains, Pompée et Hérode agir,  sans le savoir, pour la gloire de l’Évangile! » (Pascal).    CapritoLo VI    ESISTENZA E CONSISTENZA    I. — L'esistenzialismo o la rivolta contro l'essenza.    Il primo dei due termini è antico quanto la filosofia:  occupa un posto primissimo tra i termini tecnici, già appro-  fondito e direi scavato in mille guise, codificato. Il secondo  non è tecnico, non ha una tradizione speculativa, manca nei  dizionari filosofici più accreditati; forse perchè pone, in sede  filosofica, un problema la cui soluzione totale e unica spetta  alla religione. Il primo ha un antico e glorioso passato, ma  di esso l’altro è la perenne attualità proiettata nel futuro;  infatti, per noi, il problema dell’esistenza trova autentico  chiarimento e soluzione ultima — ad esso interiore ed es-  senziale — nel determinare quale sia la « consistenza » del-  l’« esistenza » stessa.   I termini «esistere », «esistenza», «esistente», « esi  stenziale » hanno una risonanza infinita. Che cosa, infatti,  non appartiene all’esistenza? Berdiaeff dice che tutte le filo-  sofie sono state esistenziali: o hanno trattato dell’esistenza  o speculato su di essa, ma proprio questa constatazione, che  del resto va presa entro certi limiti, impone il problema  non della riduzione di tutta la storia del pensiero all’esisten-  zialismo o quello di una interpretazione unilaterale di essa,  bensì l’altro, meno grossolano in quanto sa distinguere, del  perchè solo da circa un trentennio vi sia una filosofia detta  « esistenzialista » o almeno che si dichiara esplicitamente    Concetto di metafisica 189       tale. Ciò significa che il problema dell’esistenza, antico  quanto il pensiero, cioè quanto l’uomo, si presenta con una  sua peculiarità in quel che oggi si chiama l’esistenzialismo. Si  tratta evidentemente di una più consapevole esperienza filo  sofica del concetto di esistente, di una filosofia quasi galva-  nizzata totalmente da questo problema, posto in termini  nuovi; in breve, di un particolar modo di concepire l’esi-  stenza. Il movimento in questione non si caratterizza come  filosofia dell’esistenza, ma come quella determinata conce-  zione di esso, che si chiama appunto esistenzialismo.  L’esistenzialismo è una posizione di pensiero; ogni posi-  zione di pensiero, direbbe Camus, è una rivolta; ogni rivolta  è decisione dichiarata di dire di no a qualcosa o a qualcuno.  Ma è anche dire di sì: il 20 a qualcosa o a qualcuno importa  il sì a qualcos'altro: la negazione di un valore che non si  riconosce più tale è l’affermazione di un altro, considerato  valore. A che l’esistenzialismo dice di no? Alla Conoscenza  onniconoscente, alla Ragione onnicomprensiva di quanto  (che è tutto) la ragione speculativa può conoscere e com-  prendere, chiudere nell’orizzonte della pura razionalità. E  quel che resta fuori? Il « conoscere oggettivo » e la « ragione  speculativa » o lo negano, o non se ne curano. Comincia l’as-  sedio alla fortezza della razionalità pura; l’esistenza concreta  preme contro i bastioni della filosofia speculativa; preme ed  attacca, pone istanze, formula domande, mette in questione  tutto il formidabile e massiccio castello, pietra per pietra.  L'’esistente che dice di no ed interroga si pronuncia sulla  Conoscenza o Ragione. I termini del rapporto filosofia spe-  culativa-esistente sono capovolti: non si tratta più di sapere  che cosa la Ragione pensi dell’esistenza, ma che cosa l’esi-  stenza della Ragione; anzi, giacchè l’esistenza è ancora un  termine astratto, che cosa l’esistente hic ez nunc pensi della  filosofia speculativa. Non più la ragione rende problematico  l’esistente, ma l’esistente problematica la Ragione; quel che  per quest’ultima era un non-problema — l'esistente, l’acci-    190 Filosofia e Metafisica       dentale che non importa all'essenza intelligibile — è ora po-  sto come il problema assoluto, che la filosofia speculativa è  costretta a riconoscere come proprio limite. Essa perciò è  chiamata non a risolvere un problema per essa insolubile  perchè non razionale, ma a chiarirlo sempre più come pro-  blema, ad esasperarlo quasi scavandone la radicale proble-  maticità insormontabile; e con ciò, in pari tempo, la ra-  gione si fa essa stessa problematica di fronte alla irriduci-  bilità o non razionalità dell’esistente. In questo porre l’esi-  stente come interrogante la Ragione e come colui che dice  quel che ne pensa, credo risieda la caratteristica fondamen-  tale di ogni vera filosofia esistenzialistica, ammesso che sia  possibile una tale « filosofia » nel senso che, come pura filo-  sofia, possa risolvere integralmente il problema, quel com-  plesso di problemi che è l'esistente.    2. — L'incontraddittorietà dell'essenza e il problema della  metafisica.    Ens dicitur multipliciter, scrive S. Tommaso sulla scorta  di Aristotele. Vedere l’esperienza molteplice sotto l’aspetto  il più universale significa considerarla sotto la categoria del-  l’ente, il quale non è solo l’ens rationis, ma precisamente il  quid, essenziale ed ineliminabile, per cui il reale è reale e  senza di cui il reale non è reale. Ente è id cui competit  esse e l’esse compete solo all'Ente in sè, ma ad ogni ente  del mondo dell’esperienza, ad ogni reale, al reale hic es  nunc, che l'Ente fa esistere, pone con una sua essenza.  «Fa esistere », «pone»; dunque all’esse compete anche  l’esistere: l’esse è essenza ed esistenza. Ma è proprio l’espe-  rienza molteplice che sembra smentire l’essere dell’esse o  dell’ente: ogni ente diviene, trapassa da uno stato ad un  altro, in una successione di stati diversi, per cui questo ente  diviene non questo ente. L'esperienza, ha osservato Aristo-  tele, e prima di lui Platone e Parmenide, come divenire da    Concetto di metafisica 191       questo a non questo, è esperienza di contrari. Ma non per  ciò è contraddittoria: proprio la presenza dei contrari nel-  l’esperienza è testimonianza della identità dell’ente a se  stesso, in quanto non vi potrebbe essere movimento da questo  ente a non questo ente senza l’unità e la permanenza del-  l’ente, cioè se l’ente non restasse identico a se stesso. È questo  ente che è contrario al ron questo ente, ma l’ente, sia del  questo che non questo, è sempre lo stesso identico ente. Se  l’ente potesse divenire il non-ente, ogni ente diverrebbe la  negazione di se stesso e non vi sarebbero più nè enti nè que-  sto ente che diviene non questo ente. Se tra ente e non-ente  vi fosse rapporto dialettico (nel senso di una dialetticità che  investe la stessa essenza dell’ente per cui l’antitesi s’irradica  nella sua essenzialità) non vi sarebbe più possibilità di sta-  bilire i termini di una qualsiasi antitesi; infatti è possibile  un'esperienza di contrari e un rapporto dialettico tra questo  ente e non questo ente in quanto permane l’ente, sempre  identico a se stesso, che da questo diviene non questo. In  altri termini, il principio di identità, piuttosto che negare il  divenire dell’esperienza molteplice, è quello che ne giustifica  e ne spiega il dinamismo, facendo che i contrari siano mo-  menti dell’ente, senza che la contraddizione infirmi l’ente  in se stesso, cioè quella sua positività essenziale e perma-  nente, la quale sola rende possibile il divenire e nello stesso.  tempo fa che esso sia incontraddittorio, non negativo. Ciò  che diviene, mentre diviene, è lo stesso ente uno e ciò che di-  viene dell'ente uno è quel che può diventare o disparire  ( cupBeBnxés), senza distruzione del soggetto ( xwpic tic 70ò  broxerpevov 0I0PÀg ).   Non sempre noi facciamo un uso preciso dei termini  «esistenza » ed «esistente », anzi tendiamo spesso ad iden-  tificarli; ma è fondamentale tenerli distinti. L'esistenza come  tale non è oggetto di esperienza sensibile: proprietà co-  mune a tutti gli esseri, è una nozione astratta. L'esistenza  non esiste; esistono gli esistenti, cioè quanti esseri hanno    192 Filosofia e Metafisica       l'esistenza a tutti comune dal loro atto di esistere o atto  per il quale un essere è, atto assolutamente primitivo e fon-  damentale, come scrive il Gilson (Les limites existentielles de  la philosophie), a cui tutto va rapportato e condizionato,  non solo ciò che un essere è o fa, ma anche tutta la conoscenza  che possiamo averne. L'atto di esistere fa che ogni essere  sia e, per il fatto che è, sia conosciuto; non è una proprietà  dell’essere, ma tutte le trascende in quanto tutte le condi-  ziona. L'essere è ciò che è significa che l’essere esiste per  il suo atto di esistere, dove l’esistere non è una delle tante  sue proprietà, ma la dimensione immensurabile per cui l’es-  sere che è, è ciò che è. La definizione dell’essere così for-  mulata implica due elementi logicamente distinguibili, ma  metafisicamente indissolubili. Vi è una ontologia e vi è  un’eidetica dell’essere: per l’ontologia l’essere è «ciò #1 quale  è », ciò che, per il suo atto esistenziale, esiste; per la eidetica  l’essere non è «ciò il quale è», ma oggetto da conoscere,  cioè nella eidetica l’essere è considerato come quello di cui  è da dire che cosa è, di cui va definita l’essenza. Ora, per  tale definizione, la riflessione filosofica prescinde dall’atto  esistenziale e considera la nozione dell’essere in quanto es-  sere e delle sue proprietà in quanto essere. L'esistenza o la  non esistenza di un essere o dell’essere in generale lascia  indifferente la eidetica, in quanto l’essere concettuale, a pre-  scindere che l’essere esista o no, è solo la sua essenzialità.  L'essere è considerato nella sua possibilità pura di cui l’esi-  stenza non è una necessità intrinseca, ma come un comple-  mentum, superfluo per definirla, anzi ostacolo alla sua tra-  sparente intelligibilità.   La filosofia non è forse filosofia prima o metafisica,  scienza dell’essere in quanto essere?   Certamente, ma dell’essere dell’ontologia e non solo di  quello dell’eidetica. Ora l’essere in senso ontologico è l’es-  sere che è, che esiste in virtù del suo atto esistenziale, l’es-  sere reale (non l’essere possibile), il cui fondamento assolutò    Concetto di metafisica 193       l’atto dell’esistere; precisamente l’oggetto della metafisica  l’essere reale, l’essenza esistenzializzata, il cui esserci c'è  per l’atto di esistere fondante assolutamente l’essere. Ma c’è  scienza dell’esistere come tale? Non c’è di esso scienza eide-  tica, in quanto l’atto per cui un ente è o esiste non è oggetto  concettuale; l’esistente in questo senso è inoggettivabile. L’es-  sere in senso ontologico è soggetto (oggetto è il concetto o la  forma o l’essenza), il quale non si oggettiva, se oggetti  vato cessa di essere soggetto; come soggetto, è eidetica-  mente inassimilabile. D'altra parte, il ciò che è o ente, è  « ciò #1 guale è » come un che cosa che è: l’esistere non è  l’insignificante esistenza di nulla, ma il significante esistere  di qualcosa, l’esistenziarsi di un’essenza; perciò il problema  dell’esistere non va posto come problema della pura esistenza,  ma dell’esistenza di un quid. Dunque «ciò il quale è », è  ed esiste come qualcosa che fruisce dell’esistere: non vi è esi-  stente che non sia l’esistere o l’esistenziarsi di una essenza.  L’essere in senso ontologico è l’essere che è esistente ed è  l'oggetto della metafisica. L’esse, nel suo senso più pieno,  è sintesi di essenza ed esistenza, è l’essenza concretamente  attualizzata, l’essenza che è wn essere. L’esistente finito è  particolare e contingente, ma con una sua essenziale strut-  tura, senza della quale sarebbe impossibile ogni riduzione  cidetica, la quale ne coglie l’essenza desistenzializzata e fa  che il reale sia concettualizzabile. In questo senso l’eidetica è  la verità del reale, quella che lo definisce nella sua essenza, lo  «raccoglie » nel suo ordine, lo fa oggetto di ragione e dun-  que di conoscenza filosofica. La definizione aristotelica della  metafisica come scienza dell'ente in quanto ente — dove  scienza significa intelligibilità dell’ente stesso o definizione  della sua essenza desistenzializzata — può, su questo punto,  concordare con l’altra platonica della metafisica come scienza  dell'ente in quanto verità, cioè di quel che può essere ed è  oggetto dell’intelletto. Ma nè la definizione di Aristotele nè  quella di Platone esauriscono il problema della metafisica, in    © 02    194 Filosofia e Metafisica       quanto l’oggetto di essa non è l’essenza, ma l’essenza-esi-  stente, non il concetto oggettivabile, ma il soggetto come  soggetto, cioè come essenza esistente, inoggettivabile in quan-  to esistente, includente l’atto di esistere, fondamento asso-  luto di ogni essere reale. Evidentemente la posizione di Ari-  stotele va integrata e sorpassata: è vero che lo Stagirita sem-  bra interessarsi, a differenza di Platone, di ciò che esiste,  ma in realtà la sua metafisica si comporta come se il pro-  blema dell’esistenza di ciò che esiste non si abbia a porre.  Naturalista, Aristotele parte dal concreto; metafisico, sembra  dimenticarsi della pluralità degli individui viventi e dive-  nienti e rifugiarsi nell’essenza immutabile, una ed identica  a se stessa. Ma vi è in questa posizione essenzialista una verità  che non va perduta, comune a Platone e ad Aristotele: una  inclinazione naturale spinge il pensiero a ciò che è puro e  semplice, al di sopra della molteplicità e della mutabilità  delle cose, al distacco dall’accidentale diveniente, condizione  per cogliere ed intendere ciò che ogni ente è. L'esigenza è  platonica ed è aristotelica, ma in Platone ha un senso specu-  lativo che manca o almeno è diverso in Aristotele: inten-  dere ciò che una cosa è, coglierne l’essenza, è penetrare  la sua intimità, la verità definitiva che l’esistenza manifesta.  Se poi questo linguaggio platonico lo traduciamo in quello  del platonismo cristiano di Agostino, in cui la intimità si  traduce nei termini della interiorità e la verità in quelli del  vero come forza operante, attiva e creatrice e ancora uni-  ficante, il concetto di essenza si arricchisce di un significato  dinamico e, come verità, si traduce nei termini della spi-  ritualità. L’essere concreto è determinazione esistenziale della  sua unità vivente nella sua unità reale.   Ma a questo punto si può domandare: il problema della  metafisica è l’esistente hic et nunc, il contingente e non il  necessario, l’accidentale e non l’essenziale? Chi formula que-  sta domanda dimentica che l’atto di esistere fonda ogni  essere reale e che l’esistente non è solo contingenza ed acci-    Concetto di metafisica 195       dente, ma è l’esistere di una essenza. Il reale mi si presenta  come insieme di soggetti, cioè di essenze universali deter-  minate in esistenze particolari. L'oggetto della metafisica è  l’esistente nella pienezza dei suoi elementi, di cui l’essenza  è intelligibile; dunque, una metafisica che, per intenderci,  possiamo chiamare esistenziale, non può non porsi questo  problema, in quanto il problema dell’eidetica o dell’essenza  porta immanente, costitutivo ed essenziale, l’altro dell’atto  di esistere, per il quale è tutto ciò che è. Questo discorso,  condotto con un uso di termini che riteniamo tecnico, è tut-  tavia bisognoso di ulteriori precisazioni.   Esistere è manifestarsi, esserci, ma è presenza di qualche  cosa, di una srruttura, di un ordine. Con l’esistere l’essenza en-  tra nel mondo, si consolida, per dir così, in un hic et nunc, i  cui mutamenti sono non nell’essenza, ma dell’essenza. Perciò,  se è vero che l'esistente o il soggettivo è l’« incarnazione »  di un'essenza, è anche vero che fo non sono il mio corpo,  in quanto esso ritiene l'essenza, ma non la esaurisce. Dunque  io che esisto, mi manifesto, per il corpo, sono più del mio  corpo, più del mio esistere, perchè sono essenza che esi-  ste. In questo senso l’esistente, non l’esistenza, che è una  notazione universale, si distingue dall’essenza, che è concet-  tuale e non sensibile e a cui si unisce qualcosa che la determi-  na. L’essenza senza esistenza è universale, l'esistente è partico-  lare; l'essenza è quod quid est, l’esistenza è quo quid est: il  nunc diveniente non ci sarebbe senza il nunc permanente, che,  a sua volta, pur essendo in sè quel che è, è reale per l’atto di  esistere. Ciò prova, non solo che il divenire postula l’essere,  ma che il divenire stesso ha un suo essere formale per cui  è-essere-diveniente. Dunque: l’esistente è un essere determi-  nato, ma, perchè vi sia la determinazione, è necessaria l’es-  senza da determinare e perchè l’essenza non sia puro pos-  sibile, è necessaria la determinazione esistenziale. Ciò non  dovrebbe dimenticare nessuna filosofia che si dice esistenzia-  lista od esistenziale (due cose molto diverse) la quale, quando    1% Filosofia e Metafisica       si pone l’esistente come problema e lo contrappone alla pura  essenza, dovrebbe ricordarsi del nunc permanente che sot-  tostà al r4nc diveniente e porsi dunque sempre come onto-  logia e non come pura descrittiva degli elementi esisten-  ziali, quasi che l’esistente sia pura particolarità senza uni-  versalità. Una filosofia del solo esistente, cioè del solo aspetto  particolare dell’ente, non ha senso, non è filosofia (sarà de-  scrizione empirica o fenomenistica o anche fenomenologica)  e non è nemmeno riflessione sull’esistente reale in quanto  astrae dall’essenza per cui l’esistente è. In questo senso fa  dell’esistente un’astrazione.   L'espressione di Heidegger che l’essenza della realtà uma-  na consiste nella sua esistenza (das Wesen des Daseins ltegt  in seiner Existenz), intesa nel senso che l’esistenza è priva  di essenza, non ha senso; e non lo ha perchè non si capisce  più che cosa esista: l’esistenza senza essenza vanisce, è una  pura « possibilità », un’astrazione. Il suo manifestarsi è il  manifestarsi del suo nulla e, come tale, un niente di manife-  stazione e dunque anche un niente di esistenza. Gli esisten-  zialisti dicono che è pura libertà e temporalità, intesa la pri-  ma come l’atto della pura costituzione dell’essere dell’esi-  stenza. La libertà, in tal modo, non « appartiene » all’esistente,  lo « costituisce »: è della libertà dare la propria natura a se  stessa e con ciò farsi essenza. Dunque, precede l’essenza: noi  stessi costituiamo il nostro essere, siamo come ci affermiamo.  Qui c'è un'equazione: l’esistenza come pura possibilità è pura  libertà; ma la libertà come pura possibilità è libertà di nien-  te perchè è il nulla di libertà. Concediamo che sia e che  siamo come noi stessi ci affermiamo. Ebbene, che significa io  « sono » come mi affermo, « mi do un’essenza » ? che sono io  a farmi uomo, liberamente? che potrei anche non farmi  uomo? Parole senza senso. Se mi potessi liberamente fare  uomo, non mi farei uomo per il semplice fatto che sarei  Dio! E neppure Dio, dato che posso anche farmi « libera-  mente » non-uomo; e Dio non può fare che un uomo non    Concetto di metafisica 197       sia uomo, appunto perchè è libertà autentica e non l’Assur-  do. Esistenza e libertà, come sono concepite dall’esistenziali-  smo, sono esistenza assurda e libertà assurda. Inoltre, se « noi  siamo come ci affermiamo » significa che l’esistenza come  possibilità o libertà dà a se stessa le sue specificazioni, cioè  la sua essenza, qui « essenza » evidentemente vuol dire altro  da quel che è il senso tecnico del termine e cioè: l’esistenza  ora si dà una determinazione, ora un’altra essendo infinita  possibilità. In tal modo, l’essenza è essa il particolare, la de-  terminazione, e l’esistenza, possibilità infinita, l’universale:  si sono cambiate le carte in tavola e si crede di aver vinto la  partita. Ma ogni determinazione è contingente; come tale  non è essenza; per conseguenza l’esistenza, anche determi-  nandosi, non si essenzializza e dunque resta vuota; si nega  sempre come esistenza, non esiste perchè non è. E che sia  così appare chiaro dall’altra equazione esistenzialista di esi-  stenza e temporalità: il divenire temporale s’identifica con  l’esistenza, che non è altro che il suo processo temporale; dun-  que l’essenza dell’esistenza è la temporalità, che è come dire:  l'essenza dell’esistenza e la sua contingenza, cioè il suo stesso  esistere! Fenomenismo assoluto e inconcludente. E così tornia-  mo sempre allo stesso punto dell’esistenza che non è, che è il  nulla di essere. Giustamente osserva il Maritain nel suo Court  traité de l’existence et de l’existant (p. 12): se voi « suppri-  mez l’essence, ou ce que pose l’esse, vous supprimez du  méme coup l’existence ou l’esse, ces deux notions sont cor-  rélatives et inséparables, et un tel existentialisme se dévore  lui-méme » ('*). Esasperare l’antinomia di essenza ed esi-  stenza, al punto da rendere l’una esclusiva dell’altra, è ste-    (1) Nella stessa pagina il Maritain distingue tra « esistenzialismo autentico »,  che « affirme la primauté de l’existence, mais comme impliquant et sauvant  les essences ou natures, et comme manifestant une supréme victoire de l’in-  telligence et de l’intelligibilité »; ed «esistenzialiimo apocrifo », quello di  oggi, il quale « affirme la primauté de l'existence, mais comme détruisant ou  supprimant les essences ou natures, et comme manifestant une supréme défaite  de l’intelligence et de l’intelligibilité ». Un’ontologia completa, osserva il Girson    198 Filosofia e Metafisica       rilizzarle entrambe senza risolvere niente. L’esistenza di Kier-  kegaard, a volte, è l’astrazione di un’astrazione.   A chiarire meglio questo punto soccorre la considerazione  dei termini nel loro rapporto e distinti nel loro uso metafi-  sico e logico.   L'essenza (0dcia ) è ciò per cui un essere è quello che  è. Metafisicamente è ciò che forma il fondo dell’essere; lo-  gicamente o concettualmente è l’insieme delle determina-  zioni che definiscono un oggetto di pensiero (Ar., Met., VII,  7, 1032b). Ci sembra evidente che il significato metafisico non  esclude l’esistenzialità dell’essenza, tanto è vero che essa,  così intesa, da alcuni pensatori è posta nell’universale, da  altri nell’individuale. Infatti, l’essenza come ciò che è il  fondo dell’essere, per ciò stesso, non è tutto l’essere sia  perchè esclude gli accidenti, sia — e questo è più impor-  tante — perchè l’essere metafisico importa l’atto di esi-  stere, è l’essere che è. In questo senso l’essere è il fatto  di essere o esistenza: esiste — altrimenti non potrebbe esi-  stere un solo momento — per l’essere, ma è un fatto di  essere «in quanto è atto di esistere ». Evidentemente l’ente  finito riceve tutto quello che ha di reale e di vero dell’Ens  reale, dell'Essere perfetto ed infinito, il solo la cui essenza  implica necessariamente l’esistenza: Ens ex cujus essentia  sequitur existentia, secondo la definizione che il Leibniz ha  dato di Dio. (Perciò, a rigor di termini, solo l’Ens reglis-  simum è l’Ente concreto, essendo gli altri esseri « astratti »  da Lui e postulanti il principio che li fa essere, per cui di  ogni altro ente si può dire: ens ex cujus existentia sequitur  essentia). In breve, non vi è essere reale che non sia esi-  stente: esistente da sè, Dio, l’Ens realissimum, o esistente da  altro, gli esseri finiti; ma nell’uno e nell’altro caso l’essere e    (L'étre et l’essence, Paris, Vrin, 1948, p. 234) non può concepire l'esistenza  come tale, nè eliminarla. « Une philosophie qui ne renonce pas au titre de sa-  gesse devrait occuper à la fois ces deux plans, celui de l’abstraction, et celui .  de la réalité » (ivi).    Concetto di metafisica 199       l’esistenza sono il fatto di essere, dove essere ed esistere non  si oppongono. A definir l’esistenza non basta la sua astua-  lità, ma è necessaria la permanenza, in quanto nel pas-  saggio, come abbiamo detto, da «questo ente » a « non-  questo - ente » permane l’essenza. Perciò essere-esistenza, co-  me il fatto di essere, non solo si oppongono all’essenza (co-  me il fatto di essere alla natura dell'essere), ma anche  (nota il Vocabulaire del Lalande alla voce Existence) al  nulla, come l’affermazione alla negazione. Infatti, se af-  fermo che un essere è, non posso nello stesso tempo af-  fermare che non è. È, come sappiamo, l’identità, scatu-  riente dagli stessi contrari dell’esperienza.   Da quanto abbiamo detto si conclude: 4) l'esistente non  è il mero particolare, ma è l’essere determinato e, come tale,  reale, in quanto l’atto di esistere lo fa reale; 4) come essere  determinato è universale esistente e dunque permanente  nelle sue mutazioni; c) come ente che è, importa l’esistenza,  in sè e da sè (Dio), da altro (enti finiti); 4) l’ente così con-  cepito (essere esistente o essenza determinata) è l’oggetto  della metafisica, la quale, da un lato lo intende come essenza  o concetto (eidetica), non più come esistente bensì come es-  senza desistenzializzata e, dall’altro, risale dall’ente che è  all'atto di esistere, fondamento assoluto di ogni essere reale;  e) di fronte a questo problema, la metafisica non cerca più  di definire il reale, di coglierne l’essenza o il concetto, per  cui il reale è giudicato, compito assolto dall’eidetica, ma  si sforza di cogliere il reale che è insieme nunc perma-  nente e nunc diveniente, essere esistenziale; f) in quest’ul-  timo punto la metafisica si pone il problema supremo  dell’atto dell’esistere, il problema della « consistenza » del-  l’esistenza ed è metafisica esistenziale, cioè che non si appaga  più della razionalità della pura forma, ma, senza prescindere  da essa, si sforza di cogliere l’essere come reale, di ri-  spondere non più alle esigenze della sola ragione, ma a  quelle dell’esistenza concreta, alle istanze che l’essere esi-    200 Filosofia e Metafisica       stente — in quanto essere e in quanto esistente — pone co-  me universalità determinata o come particolare esistere di  un'essenza universale; cioè pone come soggetto integrale,  completo. Può rispondere la metafisica a questo problema?  Cosa importa l’inoggettivabilità irriducibile del soggetto?  Col problema dell’esistenza, così impostato, in che rapporto  sta quello che oggi si chiama l’esistenzialismo ? Contro quale  concezione dell’esistenza o filosofia esso protesta? Cerchiamo  prima di rispondere a queste ultime domande.    3. — Critica dell’esistenzialismo.    L'’esistenzialismo — quali che siano le sue forme — è  una filosofia dell’esistenza o meglio dell’esistente e vuol essere  una metafisica esistenziale, cioè si pone come problema non  l’essere in quanto essenza od oggetto, ma in quanto sog-  getto, singolarità e soggettività; per contro non è una filo-  sofia della pura forma, dell’essenza desistenzializzata, ogget-  tiva e concettuale. Esso dunque, contrappone la filosofia  detta « esistenziale » a quella detta « speculativa » o « essen-  zialista » come contrapposizione dell’essenza all’esistente, del-  l’oggetto al soggetto, dell’universale astratto al singolare con-  creto. In questa contrapposizione chiede alla filosofia spe-  culativa o concettuale di dare una risposta — se può — alle  istanze del soggetto, al grido del singolo, come oggi si dice  per drammatizzare il problema e colorirlo con il linguaggio  della poesia. Perciò l’esistenzialismo è la rivolta contro la  filosofia dell’essenza, del concetto trasparente, della ragione  cristallina che ordina e sistema forme, contro l’eidetica e qual-  siasi aspetto della realtà spirituale che si presenti nei ter-  mini della razionalità pura, conclusa, definitiva e definiti  vamente definiente.   È contro la scienza che, pur definendosi conoscenza del  fatto concreto, prescinde, come pura conoscenza scientifica,  dall’esistenza di un mondo esteriore, tanto che si può avere ©    Concetto di metafisica 201       una descrizione scientifica della natura, senza che mai si  ponga, dice Eddington, la questione di attribuire all’universo  fisico quella proprietà misteriosa che si chiama « esistenza »;  d’altra parte, si costruiscono ontologie, senza che il concetto  di esistenza vi abbia importanza alcuna. Sembra che corri-  sponda ad una esigenza naturale e spontanea della ragione  assimilare le essenze e classificarle, eliminare l’esistenza, osta-  colo alla concettualizzazione del reale. Da Parmenide in  poi, ogni filosofia è come se abbia avuto sempre inizio dalla  paura dell’esistenza e riposto la saggezza nella liberazione  da essa: riposare nella pura essenza, in un cielo immobile  di forme assolute nella dimenticanza totale dell’esistenza  inintelligibile. La filosofia è nata come svalutazione dell’esi-  stente molteplice contingente e rifugio nella contemplazione  dell'essere in sè. L’esistente è il non-essere; l’esistente, per  la ragione, non è. In questo senso, la filosofia si è preoccu-  pata più della felicità della ragione che di quella dell’uomo  pretendendo, nello stesso tempo, di far coincidere perfetta-  mente la felicità di quest’ultimo con quella della prima.  Ma, intelligibile o no (ed è qui una delle ragioni dell’esi-  stenzialismo) l’ineliminabile problema dell’esistenza s’im-  pone in ogni forma di attività spirituale, scientifica od arti-  stica, filosofica o religiosa; soprattutto s'impone per la meta-.  fisica, in quanto s'inserisce profondamente nella sua stessa  struttura. La metafisica come eidetica non può non seguire  l'inclinazione naturale della ragione di stabilire, in base al  principio di contraddizione, rapporti tra le essenze e le loro.  proprietà; non può non desistenzializzare l’essere, renderlo  esistenzialmente neutro al punto che sia indifferente al suo  concetto l’esistere o il non esistere, tanto da definirlo come  ciò che è identico a se stesso. Ma d’altra parte non può non  tener conto degli esistenti, della relazione tra un esistente e  un altro, non più trasparente, come nel caso delle essenze,  in quanto, nelle questioni di fatto, è possibile il contrario.  senza che implichi contraddizione, a differenza che nelle    202 Filosofia e Metafisica       relazioni tra le idee, .che il solo principio di contraddizione  basta a giustificare; e soprattutto non tener conto del pro-  blema fondamentale dell’esistere per cui l’esistente è tale.  Tra l’essere come pura essenza e l’essere esistenziale non solo  sembra stabilirsi un’opposizione, ma addirittura instaurarsi  un conflitto: l’uno diventa la negazione dell’altro. È l’astrat-  tezza di una metafisica come pura eidetica, o di una filo-  sofia che riduce l’essere alla sola esistenza.   Infatti nel primo caso, la metafisica non può definire  nemmeno l’essere come essere. Platone avvertì chiaramente la  difficoltà nella teorica dei Generi supremi del Sofista (come  nel Parmenide aveva avvertito le aporie del rapporto tra  l’év e i ro), dove rileva che il Medesimo (taòdtov) è an-  che il Diverso (èresov ) in quanto, proprio perchè è il « me-  desimo », è «diverso» da ogni altra cosa. D'altra parte,  «come osserva ancora acutamente il Gilson, «l’étre ne peut  se réduire à l’identique sans se dévolouer lui méme en tant  qu’étre, car è partir du moment où cette réduction s’opère,  il dépend du ”’ mèéme” comme de sa condition, et, par con-  séquent, il s’y subordonne comme la conséquence au prin-  cipe ». L'essere non è più la nozione prima, ma come prin-  cipio intelligibile si subordina ad un altro anteriore che intel-  ligibile non è. Plotino, infatti, colloca l’Uno al di là del-  l’essere (come Platone vi aveva posto il Bene), al di sopra  di ogni razionalità, trascendente ogni forma di conoscenza;  in tal modo l’essere soffre esso stesso della inconcettualiz-  zabilità dell’esistenza. Sono i limiti esistenziali che l’esisten-  zialismo pone alla filosofia della pura essenza o dell’essere  identico a se stesso.   Tali limiti, fin dalle origini, l’esistenzialismo fece valere  contro la Ragione hegeliana, contro la dialettica dei «tre  stomaci », come dice Kierkegaard. Non che lo Hegel abbia  trascurato di interessarsi dell’esistenza; anzi il Dasein è per  lui un momento ideale della dialettica, la quarta categoria  della logica dopo l'essere, il non-essere e il divenire; ma-    Concetto di metafisica 203          per Kierkegaard è proprio nell’onnivora dialettica il peccato  d’origine della hegeliana filosofia speculativa. Niente, per  lo Hegel, è al di sopra o al di fuori della Ragione univer-  sale, la quale adegua interamente e perfettamente il reale.  La conoscenza è la Ragione, che è il Sapere, il frutto del-  l’albero della conoscenza del bene e del male (come scrive  lo stesso Hegel nei Vorlesungen tiber die Geschichte der  Philosophie), il principio generale di ogni filosofia. La legge  della hegeliana Ragione è quella del serpente, che provocò  la caduta di Adamo: tutta la sua realtà è la storia. La ragione  non è fatta per servire l’uomo, ma per assoggettarlo, come  la Storia non è fatta per l’uomo, ma l’uomo per la Storia.  Anche nei contemporanei epigoni dello storicismo questo  concetto negatore della persona è stato gelosamente conser-  vato, anzi « umanisticamente » perfezionato. Lo Hegel parla  spesso di esistenza (Dascin) ed anche di esistente (Seiende),  proprio negli stessi termini in cui oggi, per esempio, ne parla  Heidegger, cioè di un essere finito, gettato, abbandonato,  ma gli nega qualunque diritto in sede filosofica: la filosofia  dell’Idea, come tale, non riconosce il « finito come essere  vero ». I lamenti e le grida dell’io sono sterili pianti senti-  mentali, di cui l’Io non può tener conto se non come del  negativo, di fronte a cui lo Spirito non indietreggia, anzi vi  s’installa dentro, in quanto conquista la sua verità proprio  nell’assoluta negatività, la sua vita inserendosi dentro la « ir-  realità » della morte. Lo Spirito che si colloca nel negativo,  come si legge nelle prime pagine della Phénomenologie des  Geistes « trasforma il nulla in essere ». È precisamente con-  tro questo « potere magico » (Zauderkraft) di risolvere vio-  lentemente — e dunque di dissolverlo — l’esistente-negativo  nello Spirito-Positivo che si ribella la filosofia esistenziale.  Essa protesta che non vi è risoluzione dell’esistente nel Po-  sitivo assoluto, che l’esistente ha il diritto d’interrogare la  filosofia speculativa e di gridarle in faccia le sue sofferenze;  che non vi sono « passaggi » dialettici, ma « salti » scanda-    204 Filosofia e Metafisica       lizzanti la ragione. L’infelicità e il dolore dei personaggi del-  la tragedia greca non sono «intelligibili », come dice lo  Hegel, in quanto la necessità di ciò che loro accade appare co-  me la razionalità assoluta, ma, contro e al di sopra di ogni  razionalità, permangono infelicità e dolore incomprensibili  per la ragione, per essa « non veri », ma non perciò « non  reali ». Di qui la rivolta di Kierkegaard, la rivolta dell’« an-  goscia » contro la « ragione speculativa », il mo dell’esistente  contro il sì assorbente dell’Idea. L’esistente mette in di-  scussione la filosofia e cita in giudizio l’onnicomprensiva  conoscenza razionale, affinchè si rassegni ad ascoltare che  cosa pensi di essa, per dirle che si rifiuta d’ « immagi-  narsi felice » come richiede la Ragione universale; che non  intende, imaginandosi tale, di diventare un mito; che si  appella, malgrado la ragione, all’Assurdo. Obiezione fon-  damentale questa dell’esistente: la ragione non si trova sulla  stessa linea della realtà, costruisce un uomo che non è l’uo-  mo, per cui la categoria del pensare risulta diversa da quella  del vivere. Per la ragione è un mito l’esistente finito ed  implorante; per il singolo è un mito la ragione universale  e soddisfatta. È un mito la Ragione — l’Idea o l’Essenza —  o è un mito l’esistenza, il mondo delle cose e degli uomini?  Una risposta che riconoscesse la miticità di uno di questi  due mondi non sarebbe tale, ma la catastrofe definitiva, un  decreto oscuro e silenzioso di morte.   In questo conflitto tra filosofia speculativa ed esisten-  ziale, che abbiamo colto all’origine (quantunque esso non  nasca con la polemica anti-hegeliana di Kierkegaard, ma  abbia natali più vetusti e non meno nobili, almeno nella po-  lemica Abelardo-S. Bernardo — dei dialettici e degli anti-  dialettici — e poi in quella Pascal-Descartes e, sotto certi  aspetti, nelle altre Illuminismo-Rousseau, Kant-Hamann e  Jacobi, ecc.) la filosofia esistenziale pone delle istanze che  meritano la migliore attenzione, anche perchè esse servono  a riportare in primo piano quella metafisica che sembrava    Concetto di metafisica 205       morta e sepolta e lo sembra ancora oggi ad alcuni superfi-  ciali pseudo-filosofi italiani e anglo-americani; a ridare di-  gnità filosofica e senso teologico a quella trascendenza che  l'immanentismo aveva creduto di aver definitivamente dis-  solto; a chiarire, su basi rinnovate, i rapporti tra filosofia e  religione e a cercare nella morale — che è pratica ed è teoria,  azione e pensiero — la soluzione dei problemi della metafisica  stessa. Perciò noi che abbiamo criticato, a volte anche aspra-  mente e continueremo a criticare certi atteggiamenti sterili,  di maniera, pseudo-filosofici e decadentisti di cui abbonda la  letteratura esistenzialista, siamo pronti a riconoscere l’impor-  tanza che ha l’esistenzialismo come momento della filosofia  contemporanea; ma prima di accennare al nostro punto di  vista sul tema del nostro discorso, riteniamo necessario pre-  cisare alcuni punti dentro l’esistenzialismo stesso.   Innanzi tutto esso deve decidersi se vuole essere una filo-  sofia dell’esistente o una filosofia dell’esistenza. Il Berdiaeff,  nelle Cinque meditazioni, ha già osservato che, a differenza  della kierkegaardiana, quelle di Heidegger e di Jaspers so-  no filosofie della o sull'esistenza; la Bespaloff (Chemine-  ments et Carrefours) lamenta che la fenomenologia esisten-  ziale « sous la responsabilité d’un Gabriel Marcel, d’un Hei-  degger, d’un Jaspers, opère insidieusement une manoeuvre   ui lui rend la terre ferme: l’existant s’efface et cède la place  à l’Existence »; più recentemente il Fondane (Le lundi exi-  stentiel et le dimanche de l’histoire) afferma che una filo-  sofia dell’ Esistenza non è e non sarà mai una filo-  sofia esistenziale, «car c’est précisément è l’existant seul  qu'il appartient de faire connaître son point de vue; à lui de  decider ce qui est negatif et ce qui est positif... ». La di-  stinzione è esatta e fondamentale: una filosofia dell’Esi-  stenza non è una filosofia esistenziale, in quanto l’esistenza  è ancora un astratto, una nozione concettuale; una filosofia  esistenziale non può non essere che filosofia dell’esistente.  Resta a vedere fino a che punto essa sia possibile, in quanto    206 Filosofia e Metafisica       filosofia; se quella che la Bespaloff giudica una « manovra »  insidiosa della fenomenologia esistenziale di Marcel, Heideg-  ger e Jaspers, non sia invece una necessità intrinseca alla  filosofia, che, in quanto tale, è bisognosa della « terre fer-  me ». Resta confermato, per ora, che una filosofia esisten-  ziale non può essere che filosofia dell’esistente, ma per-  mane ancora aperto il problema se non sia costretta ad oltre-  passare se stessa.   Già come ausilio alla risposta ci soccorre la seguente consi-  derazione. Filosofia dell’esistente, colto soltanto nella sua  finitudine, sofferenza e contraddittorietà? Ma l’esistente così  concepito è ancora il negativo, il nulla? È il niente che « po-  ne » il positivo? In tal caso, si è negata la positività del-  l'esistente; e del 24//a non vi è problema nè soluzione. La  stessa obiezione che si può muovere allo Hegel — il Non-  Essere come Non-Essere non può costituire termine di an-  titesi (se ne accorse Platone nel Sofista, dove stabilì la  zoweviz tra l’Essere e il Non-Essere) — si può ritorcere  contro l’esistenzialismo: dell’esistente come negativo non c’è  discorso, per il fatto che è negativo. Di qui la necessità di  tener fermo quanto abbiamo chiarito precedentemente: l’esi-  stere è l’esistenzialità di un’essenza: dalla ontologia non si  può prescindere, altrimenti si prescinde... dall’esistente stes-  so! Di qui l’altra necessità di non poter fare a meno della  filosofia speculativa, anche se questa non può bastare. Kier-  kegaard alla dialettica hegeliana, la quale conclude al « non  riconoscimento del finito come essere vero », oppone l’ango-  scia e dice che essa precede la logica, il particolare l’uni-  versale, l’esistente l’Esistenza. Ma a chi si appella l’angoscia  se la ragion vien dopo o non viene mai o è venuta prima  e non ha saputo rispondere? A chi grida? L’esistente inter-  roga la ragione e dice quel che pensa di essa: benissimo;  ma con che cosa l’esistente interroga la ragione e dice quel  che ne pensa, se non... con la ragione? Dunque è la ragione  che interroga se stessa intorno al problema dell’esistente.    Concetto di metafisica 207       x .    Scartata la ragione, la filosofia non è più tenuta a rispon-  dere ed è inutile quanto ingiusto protestare contro di essa.  Non la ragione deve. pronunziarsi sull’esistente, ma l’esi-  stente sulla ragione, dicono gli esistenzialisti. Per dire che  cosa? Che la ragione non deve sopprimere l’esistente, non  assoggettarlo, non imporgli d’ « imaginarsi felice »? Queste  giuste richieste possono significare solo due cose: @) porre  un limite alla ragione; 5) svalutare fino alla negazione la ra-  gione stessa. Nel primo caso, non c’è da porre un limite  alla ragione, in quanto è essa stessa che riconosce il suo li-  mite esistenziale e tale atto di riconoscimento è sempre ra-  zionale. Dunque, non si tratta di una presa di posizione  contro la ragione, ma di una posizione della ragione di  fronte all’ esistente, di un suo atto di sufficienza (positivo  e razionale) non autosufficiente. Non reazione dell’ esi-  stente alla ragione, ma presa di posizione originale dell’esi-  stente, che è ancora presa di posizione della ragione di fronte  ad un problema che non le contraddice e reclama risposta.  Nel secondo caso, così frequente in quelle forme di esisten-  zialismo esasperatamente irrazionalista, pronunziato il giu-  dizio il più negativo sulla ragione, che resta da fare all’esi-  stente? Non ha più nemmeno la soddisfazione di dispe-  rarsi, perchè niente ha più senso. Si pone come problema  eterno eternamente insolubile, che ne accumula altri infiniti,  tutti del pari eterni ed insolubili; la problematicità assoluta  adegua così l’umano sapere. Ma il senso della filosofia ha  perduto ogni senso: all’inizio non è più il problema (am-  messo e non concesso che all’inizio non sia la verità, oscura  quanto si voglia, per cui è vero, come dice Agostino, che  ogni uomo cerca quel che sa) e alla fine la soluzione, ma  il problema è all’inizio e alla fine, alla fine più chiarito  come problema, per cui il compito della ricerca è quello di  «concludere » ad un problema che, nella conclusione, è  più problema, più problematico di quanto non lo fosse in  principio. Ma questo è dare il problema per soluzione, con-    208 Filosofia e Metafisica          fondere le lingue, anche se a volte con una perspicacia c  un impegno degni di miglior causa. Così l’ultima parola  della filosofia sarebbe la problematicità per la problema-  ticità, che, ad esser chiari anche se non perspicaci, significa  l’inconcludenza per l’inconcludenza. Chestov, il misologo  per eccellenza, non risparmia alcuna critica rimprovero con-  danna alla « iniqua logica », alla « pigra e vile » ragione, a  quanti si sottomettono alla sua « ontosa schiavitù ». Ma, a  questo punto, la ragione e la logica possono tranquilla-  mente obiettare: «se come voi dite (Exercitia spiritualia)  quel che più importa si ritrova al di là del limite del com-  prensibile e dell’esplicabile, vale a dire al di là dei limiti  di ciò che può essere comunicato con la parola, perchè ci  rimproverate? Quel che voi cercate non ci appartiene; ci  rivolgete una domanda che dovreste indirizzare ad altri.  Potete farlo, ma solo in quanto la ”’ vile ’’ragione e la ”’ ini-  qua” logica vi autorizzano a ciò »; ma l’esistenzialismo irra-  zionalista respinge proprio questa autorizzazione. Non gli  resta che il fideismo assoluto, una posizione che non è filo-  sofica nè religiosa; o l’assoluto scetticismo, non come posi-  zione speculativa, ma come puro stato psicologico, tanto  angosciante quanto sterile. Oppure, accettata la frattura fra  il momento morale e quello teoretico, concludere che la  logica non è essenziale alla filosofia, che deve « attraver-  sarla »; che la filosofia è « edificante » e non vi sono di va-  lide che le filosofie edificanti; ma edificano solo le filosofie  edificate sulla e con la ragione, anche se non soltanto su e  con essa.   Kierkegaard dice che l’angoscia rivela il nulla dell’esi-  stente; dunque non lo rivela, tranne che l’esistente non s’iden-  tifichi col nulla e allora non c’è problema: l'angoscia che  rivela il nulla rivela anche il nulla di questo nulla. Inter-  rogata, non potrebbe dare altra risposta; interrogante, non  ha senso che interroghi sulla negatività dell’esistente: solo  l'esistente come positivo reclama spiegazione. Quando l’an:    Concetto di metafisica 209       goscia svela il nulla dell’esistente, che la ragione dissi-  mula («l’imaginarsi felice ») non pone un problema o un  limite alla ragione, ma... dà ragione alla ragione di disin-  teressarsi di lui. Il niente esistenziale se si pone come niente  dell’esistente è la soppressione più rigorosa del singolo che  mai ha neppur tentato alcuna filosofia speculativa. Non al-  lora il nulla dell'esistente, ma il nulla wmell’esistente, la  félure, direbbe Le Senne; ma il nulla mell’esistente im-  plica la sua positività, allo stesso modo che il male, come  negatività o privazione, è concepibile rispetto a qualcosa  che è. Positivo è l’essere, guesto essere, il cui « nulla »  la privazione di un grado più pieno di realtà; dunque l’esi-  stente è, è un essere, il cui non-essere o nulla è la man-  canza di quel che non ha. Evidentemente la sua insuffi-  cienza gli pone il problema (di qui l’« irrequietezza » e l’« in-  quietudine ») della sua sufficienza, la sua incompiutezza l’esi-  genza naturale essenziale ed universale della sua compiu-  tezza. Questa negatività ha un senso in quanto è l’aspira-  zione di una positività al suo compimento, ad un più di  essere del suo stesso essere — non ad essere un altro essere —  ricerca della consistenza dell’esistente. Non si vede perchè  quest’ultimo, che tale esigenza ha avvertito più o meno  chiaramente da quando la filosofia è filosofia, debba scio-  gliersi in lacrime, affliggersi in interminabili ed angoscianti  lai, piuttosto che riflettere seriamente su se stesso secondo le  buone regole del pensiero e della ricerca speculativa: oggi  certo esistenzialismo è diventato una specie di nevrastenia  filosofica. O forse si vede, ma per motivi che contraddicono  all’esistenzialismo stesso: perchè posto l’esistente come nega-  tivo o votato al destino del nulla, implicitamente l’esisten-  zialismo accetta la posizione hegeliana del non riconosci-  mento del finito come essere vero; e perchè la filosofia, in  un’epoca come la nostra di spiriti decadenti, ha amato com-  promettersi con un linguaggio pseudo-poetico, già per se  stesso compromesso e forse ormai di maniera.    210 Filosofia e Metafisica       Ciò non nega, anzi conferma, il merito dell’esistenziali-  smo di avere richiamato l’attenzione sul problema dell’esi-  stente, interno ed essenziale alla ricerca filosofica. L’ideali-  smo, se, da un lato dissolve il singolo nell’onnivoro Scggetto  trascendentale o nella Storia, dall’altro, pone il soggetto  stesso come principio di spiegazione e non come problema,  ma con ciò sopprime ab initio il problema dell'esistente.  Alla radice, l’idealismo è una evasione dal limite esisten-  ziale; perciò è anche un’evasione dall’interiorità: il sog-  getto è sempre cacciato fuori di sè, all’esterno (la trascen-  dentalità idealistica è essenzialmente mediazione); perciò  l’idealismo è immanenza. Dato per risolto il problema del-  l’esistente, posto il soggetto come principio di spiegazione e  non come esso stesso problema, « mostro » direbbe Pascal,  tutto è risolto e pacificamente spiegato. Il limite della ragione  è soppresso alla radice: tutto è incluso nella trasparenza della  Idea e nel cerchio magico della dialettica infallibile. Non c’è  motivo che il soggetto si trascenda: risolto il problema che  l’uomo è a se stesso, che bisogno c'è di Dio? (Resta ancora  la natura, ma l’uomo interessa infinitamente più all’uomo).  Dio è Ragione, Dio è il Progresso, Dio è la Scienza, Dio  è la Storia, ecc. Ponete, invece, il soggetto, il singolo, l’esi-  stente, l’uomo, l’insufficiente, inquieto e irrequieto uomo  come problema e la trascendenza scoppia fuori come la far-  falla dalla crisalide. L’esistenzialismo, contro una tradizione  filosofica imponente e agguerrita, l’ha posto; e la trascen-  denza è stata richiamata dall’esilio. Ma esso non ha dimen-  ticato di essere, malgrado tutto, figlio dell’idealismo trascen-  dentale e di Nietzsche ed ha finito almeno una parte di  esso, quella meno direttamente figlia di Agostino, Pascal,  Kierkegaard, Dostojewski, con il laicizzare la trascendenza,  col porla come un limite immanente posto dal soggetto stesso,  non accorgendosi che così dà per risolto il problema del  soggetto, dell’esistente, e ricade nella stessa posizione dei-    Concetto di metafisica 211       l’hegelismo (?). Recentemente il Camus (Remarque sur la  révolte) ha distinto la sua trascendenza «orizzontale » da  quella « verticale » o di Dio, che egli esclude; vedremo tra  non molto come un esistenzialismo che si rifiuti di aprirsi  alla trascendenza teologica non abbia significato. Nella ri-  volta contro la Ragione, ammesso per un momento e non  concesso che sia necessaria questa ribellione, c'è indubbia-    (2) Bisogna tener presente che Îla protesta kierkegaardiana in nome del-  l'esistente o del singolo contro la Ragione universale dello Hegel, non restò,  fin d'allora, isolata. Contro l’Idea hegeliana, la concreta realtà della natura (gli  uomini e le cose, gli esistenti particolari) è rivendicata dal Feuerbach e dal  Marx. Le istanze kierkegaardiane, mosse da esigenze etico-religiose, sono la pro-  testa della trascendenza nei riguardi dell’immanenza; quelle del Feuerbach e  del Marx, mosse da bisogni di ordine naturalistico-economico, in nome di un  umanesimo depotenziato a felicità terrena, sono la protesta del contingente per  un immanentismo più integrale e aderente alla realtà storica dei fatti. Le due  forme principali di esistenzialismo — teologico e laico — che oggi si riscontrano  nella filosofia contemporanea si ritrovano alle origini della polemica antihegeliana,  o più esattamente di hegeliani che sviluppano alcuni aspetti dello hegelismo in  opposizione ad altri. Hanno in comune l’istanza della rivalutazione dell’esi-  stente o del particolare; si dividono sulla questione del fine da assegnargli, cioè  sul problema della consistenza. Ciò importa fin dalle origini un rapporto equivoco  tra marxismo ed esistenzialismo, oggi diventato abbastanza palese. La questione  è complessa e non è qui il luogo di trattarla adeguatamente; ma è opportuno,  anche nei limiti del nostro tema, qualche chiarimento.   Porre il problema dell’esistente è porre il problema della trascendenza: il  soggetto posto di fronte a se stesso come un problema da spiegare, rimanda ad  altro, pone l’esigenza dell’altro. Di fronte a questo problema l’esistenzialismo ha  assunto due posizioni fondamentali: 4) l’altro è Dio, è l’Altro, l'assoluto Altro  (trascendenza teologica): 5) /’altro è il trascendente, che non è il Dio della  religione, ma il limite dell’esistente, posto dall’esistente stesso, dalla sua fini-  tudine (trascendenza esistenziale). Per il marxismo l’altro dall’esistente è l’altro  uomo: l'uomo si sacrifica all'uomo. L'uomo, per Feuerbach, è fine a se stesso  e il suo fine è la propria felicità; ma l’io può realizzare il suo fine in quanto  ha un #, un d/tro con cui entra in rapporto acquistando coscienza della pro-  pria umanità: l’io è tanto più se stesso quanto più partecipa, nel rapporto con  l'altro, dell'umanità che è presente in lui. Anche per il Marx l'altro dall’io è  l’altro uomo: l’uomo è l'avvenire dell’uomo, come ha scritto un poeta marxista  francese contemporaneo. La solidarietà dei lavoratori è l'umanità di Marx:  ogni lavoratore è tanto più se stesso quanto più aderisce, si assimila alla « clas-  se », alla « massa » dei « compagni ». Il « rovesciamento della prassi », con la con-  seguente eliminazione del capitale privato e l'avvento dello Stato socialista, renderà  reale quella condizione di « felicità collettiva » nella quale l’uomo è tutto per l’uo-  mo. La struttura economica, la sola che meriti questo nome, creerà (si tratta,  per Marx, come è noto, non di intendere il processo storico, ma di cambiarlo  con la «rivoluzione »: la filosofia non deve più limitarsi ad «interpretare il  mondo »; « ora si tratta di cambiarlo ») la nuova società non più afflitta dalle    212 Filosofia e Metafisica       mente la consapevolezza di una totalità, di un Assoluto nella  cui aspirazione l’esistente «consiste », in cui si riassume,  si ricapitola in una presenza totale. Di fronte a questa consa-  pevolezza :/ resto è un niente, che l’esistente può, si sente  di sacrificare; ma c’è il sacrificio del resto, solo in quanto  bb ® . .   c'è il Tutto che chiama. Bisogna vedere le cose alla luce  della morte, come dice Platone; ma la morte non è la notte    sovrastrutture della morale e della religione borghesi. — Nella prima posizione  esistenzialista c'è una trascendenza autentica; nella seconda una pseudo-trascen-  denza; nella posizione marxista l’immanenza assoluta. La prima e l’ultima  sono, da questo aspetto, incommensurabili; la seconda c la terza differiscono  in quanto l’una si rifiuta di ridurre tutti i valori a quello economico e s’illude di  poter salvare ancora i valori morali e una certa vaga religiosità. Nel loro rap-  porto vi è un duplice equivoco: 4) da parte del marxismo quello di credere di  poter risolvere il problema dell'esistente (e gli infiniti problemi che pone l’esi-  stente-uomo in quanto tale) solo con la « giustizia sociale » identificata con la  struttura economica, senza tener conto dell’infinita ricchezza delle esigenze dello  spirito, per soddisfare una sola delle quali ogni uomo, se veramente posto di  fronte a se stesso, sarebbe disposto ad accettare la più pesante schiavitù econo-  mica; è) da parte dell'esistenzialismo laico l’altro d’illudersi di avere rotto il  cerchio della dialettica hegeliana conservando la pregiudiziale immanentista e di  salvare quei valori che il marxismo rigetta accettando la stessa pregiudiziale.  Indubbiamente il marxismo è più coerente: se c’è immanenza, sia radicale;  « liberiamo » l’uomo da ogni norma che lo trascende e soprattutto da Dio. E’  evidente che l’esistenzialismo della trascendenza non teologica lo è a metà:  porta in prima linea il problema dell'esistente e poi si rifiuta di seguire il filo  della ricerca fino al punto a cui mette capo, cioè alla trascendenza teologica.  Permane però il pericolo di approdare. Di ciò si sono già accorti i marxisti  integrali e denunziano (vedi la costante polemica nella rivista comunista fran-  cese La Pensèc) l'equivoco di un esistenzialismo marxista: l’esistenzialismo, anche  se si proclama ateo, è sempre un forma di misticismo: gli appelli della ‘persona  umana fanno pensare, quasi istintivamente, ad un qualunque Dio che li possa  ricevere; dunque esso non può essere marxista, in quanto non guarisce, anzi le  alimenta, le « superstizioni » religiose, le evasioni illudenti dal terreno mondo  degli uomini. Il marxismo, invece, è il vero « umanesimo », anzi è il solo che sia  tale, perchè il solo che punta sull’esistente, lo completa nella legge umana del  lavoro e l’appaga nella felicità terrena.   Ma è proprio qui che si rivela l’equivoco di un marxismo come filosofia  dell'esistente. E' esistente l’uomo depauperato delle cosiddette sovrastrutture e  ridotto alla sola struttura economica? E, a parte questa detonalizzazione (im-  miserimento) della persona umana, l’esistente così concepito costituisce un pro-  blema? Perchè l’uomo diventi problema — insieme di problemi — fino al punto  da mettere la ragione in stato d’accusa e di gridare in faccia alla logica che  egli ha dei problemi che essa da sola è inetta a risolvere, deve porre delle istanze  che lo oltrepassano — che oltrepassano l’uomo in generale — che, dunque, si  pongono al di là e al di sopra della società, della storia, dell'economia, della  terra. Se i problemi del soggetto avessero potuto essere risolti nell’ambito del’  soggetto stesso o della classe, non sarebbe mai sorto un problema dell'esistente    Concetto di metafisica 213       oscura senza fondo solo in quanto la illumina la speranza  dell’ immortalità e la gloria in Dio. Il sacrificio « del re-  sto » per l’ Eterno è il disincanto dal contingente molte-  plice, la garanzia assoluta dalle illusioni deludenti. Nella  negazione «del resto» è implicata l’affermazione di un  Valore assoluto, la trascendenza al soggetto, quella « verti-  cale », la sola per cui trascendo la piccola grande storia della    x    così com’è posto dall’esistenzialismo contemporaneo e come è stato sempre posto  nei suoi remoti o prossimi antecedenti storici. L’economismo e l’immanentismo  marxista sopprimono alla radice il problema della persona e la persona come  problema; tutto vi è risolto come nella dialettica dello Hegel.   Sopprimono la persona senz'altro. E qui è necessaria un’altra considerazione.  L’esistenzialismo si proclama filosofia dell'esistente, ma lo coglie nella sua nega-  tività, in quel che ha di non-essere, quando non lo identifica addirittura col  nulla; esso strappa l’esistente alle fauci della dialettica della Ragione universale  per porlo di fronte al suo nulla, mutolo nell’angoscia di un peso enorme di  problemi. In questo senso, l’esistenzialiimo è la filosofia del non-esistente, in  quanto l'esistente è positività, sostanza; è la filosofia del fallimento dell’uomo.  Il mondo moderno, così impregnato di umanesimo laico e cristiano, non si ras-  segnerà mai a questa svalutazione della persona, alla sconfitta dell’uomo e in  partenza vi si oppone. Da questo punto di vista l’esistenzialismo è « anti-moder-  no », anche se dopo tante esaltazioni della mondanità e della vita esso sia  stato buon correttivo, quasi il conficcarsi nelle nostre floride carni del dente  avvelenato dell’ironia; il ripiegamento sul momento della riflessione sia pure  smorzata da un permanente stato « poetico ». Il marxismo, da parte sua, filo-  sofia dell'uomo per l’uomo, dell’uomo che si colma sulla terra, spinto dalla  logica inesorabile del materialismo dialettico, conclude all’annullamento della  persona nella opacità compatta e spessa della « massa » e nell’onnipresenza dello  Stato. Conserva la più rigorosa « mondanità », ma proprio perchè rigorosa, di-  mezzata dell’altra metà, da quella che sporge fuori e al di sopra di questo  mondo. Due filosofie dell’esistente che concludono alla sua nientificazione, che  colgono l’esistente nella sua negatività, nell’involucro esterno e vuoto perchè  mancante del pieno della « consistenza ». « Contemporaneo », invece, il Cristia-  nesimo, non contraddice alle esigenze fondamentali dello spirito: positività questa  vita, positivo l’esistente tanto che si salva nell'altra vita. E' la sola « mondanità »  significante. Vi è nell’esistenzialismo un aristotelismo alla rovescia: quel che  conta è l’esistente, l’individuo, ma l'esistente non è reale, è il negativo. E’ un  agostinismo antiagostiniano: l’uomo è finito, misero, infelice, ma senza spe-  ranza: non si redime, accetta il suo destino. Aristotelismo antiaristotelico e pla-  tonismo antiplatonico il marxismo: reale è l'individuo, ma è reale nella com-  pattezza della massa, quale dente della macchina statale o del Partito. La cordi-  zione presente dell’uomo è proiettata in quel che sarà, la sua felicità è in un  futuro immancabile, ma questo futuro e questa felicità non sono in un dltro  mondo. Conobbe ed insegnò la verità S. Francesco nella lode di tutte le crea-  ture, beni positivi in quanto creature dell'Amore divino e assetate d’amore per  il Creatore. L'alternativa immanentistica, o Dio o io, o c'è Dio e io sono nulla  o non c’è Dio ed io sono tutto, si compone nell’altra: io sono perchè Dio è;  io sono innovatore perchè in Lui m’innovo.    214 Filosofia e Metafisica       mia anima, tutta la storia. Dopo tanta orgia di immanenza,  dopo tante norme esteriori ed esteriorizzanti e perciò steri-  lizzanti della vita spirituale, dopo tanti universali mondani  — dell’economia e dell’arte, della storia e della politica —  la «trascendenza » e la «solitudine » esistenzialista sono  state, se non altro, un energico richiamo e un salutare ri-  sveglio. Ma niente più di questo, in quanto l’uomo non è  soltanto singolarità, ma anche universalità di essenza, di ra-  gione, di verità. Prima di essere singolo è uomo e non è  singolo se non è uomo. La sua verità è anche verità degli  altri, deve esserlo: è la sua responsabilità suprema; e la  verità è ricchezza e la ricchezza del signore è generosa ed  umile: accetta i doni e li ricambia. Nella verità, che è mia  perchè di altri, gli uomini realizzano l’unica consistente ed  indissolubile solidarietà. L'affermazione di un valore non è  mai individuale: chi si sacrifica per esso, si sacrifica per  l'umanità intera. Nell’essenza della singolarità e di essa  costitutive vi sono una universalità ed una solidarietà me-  tafisiche.    4. — Esistenza e consistenza.    Al punto in cui abbiamo condotto il nostro discorso, una  prima conclusione appare evidente: non si tratta di negare  la filosofia — o è anche razionalità o non è — ma di  vedere come essa possa e debba giustificare l’ esistente, se  e come possa avviare il problema alla sua adeguata solu-  zione. Anticipiamo quella che sarà la conclusione di que  ste pagine: il punto di partenza della filosofia non può es-  sere che la ricerca razionale ed è esigenza naturale della  ragione e dunque dell’uomo cogliere la razionalità del reale;  e la razionalità filosofica, il conoscere, è il concetto, l’uni-  versale. Basta all’uomo la razionalità? Meglio: esaurisce essa  la problematica filosofica? No, tranne che per un raziona-  lismo assorbente, astrattizzante, cieco di un occhio. Pascal.    Concetto di metafisica 215       lo obiettò a Cartesio (se a torto o a ragione qui non im-  porta stabilire): «il cuore ha delle ragioni, che la ragione  non conosce »; « l’ultimo atto della ragione è di riconoscere  che molte cose la oltrepassano ». Non ho accostati a caso i  due frammenti, ma in quanto l’uno non può stare senza  l’altro: la ragione non conosce le ragioni del cuore, ma  conosce (« riconosce ») che ci sono e la oltrepassano. Il pro-  blema delle ragioni del cuore è posto dunque dalla stessa  ragione, è razionale come problema, anche se la soluzione è  super-razionale, e, come tale, non irrazionale, non contrad-  dicente la ragione. Le pascaliane ragioni del cuore -— prima  che pascaliane, agostiniane, e dopo rosminiane e oggi blon-  deliane — sono le ragioni dell’esistente, del singolo, del sog-  getto hic et nunc. Esse sorgono, dunque, indomabili senza  che il conoscere razionale possa pienamente rispondere, ma  senza poter fare a meno di esso e sulla base di questo stesso  conoscere; irrompono assetate di risposta, quando ogni inse-  gnamento è finito, ma sempre dalle pagine del libro aperto  della ragione. Il problema dell’esistente nel suo significato  integrale e nel suo destino assoluto si pone al limite della  filosofia e come suo limite, ma non contro la filosofia; si  pone e con sè pone la filosofia come « apertura » alla reli-  gione. Vi è allora una «filosofia esistenziale »? Sì, come  problema dell’esistente ed avviamento alla soluzione di esso;  no, come soluzione integrale, totalitaria e unitaria: filosofia  esistenziale, ma il cui fondamento, iniziale e finale, è teolo-  gico, perchè teologica è la soluzione assoluta del problema  dell’esistente. Nato dalla ricerca filosofica, sulla guida di essa  e del sapere speculativo, illuminato dall’intelligenza e dalla  ragione, per cui l’uomo è uomo, esso non può sommergermi  nella disperazione e nell’angoscia infeconde ed incompren-  sibili, bensì m’immerge nell’interiorità di me stesso, nel  senso autentico della mia esistenza; al di sopra di me stesso,  scopre la mia consistenza. Nato dalle viscere più profonde  della ragione e dell’intelligenza non mi getta a morire nel    216 Filosofia e Metafisica       nulla, ma mi raccoglie integralmente nella realtà della mia  vita. Pascal all’abisso preferì la Chiesa. Cerchiamo ora di  approfondire queste anticipate, ma non inaspettate conclu-  sioni.   Io ho quel che sono: l'avere adegua la mia esistenza e  l’essere la mia consistenza. Non posso avere senza essere, non  posso essere soggetto senza avere; e 4 chi ha sarà dato. Signi-  fica che ho bisogno di altri, che un altro mi dia; che il mio  essere è fatto da e per l’Essere, che la mia positività limi-  tata, che in questo limite o mancanza è negatività, tende  alla Positività assoluta. È in ciascuno di noi una realtà essen-  ziale; di essa abbiamo coscienza, che è la nostra autoco-  scienza. Consapevolezza di consistere, oltre che di esistere,  coscienza che siamo una realtà distinta dai nostri atti, che  la persona non è soltanto le sue azioni o le sue cognizioni.  L’agostiniano e tomistico intelligimus nos intelligere non  prova soltanto che il realismo dei due pensatori è tutt'altro  che ingenuo, ma che «intelligiamo » il nostro stesso inzel-  ligere; lo penetriamo così profondamente al punto da com-  prendere che il nostro comprendere (conoscere) non com-  prende (« non conclude ») tutta l’essenzialità del roi e sfocia  nell’interiore sapere; che il Sapere assoluto ci origina, ci  guida, ci conclude e sempre ci oltrepassa. L’autocoscienza è  censapevolezza del limite, ma come consapevolezza è già  al di là di esso. Il problema di Dio è di diritto quello dell’ul-  timo fine: la scienza è tendenzialmente sapienza: intenzio-  nalmente il problema dell’universo è considerato sempre in  vista del problema della vita. Smarrire il senso del fine è  votarsi al non-senso della fine, è rinunziare alla « consisten-  za » per consegnare l’« esistenza » alla morte. Sed ego co-  nabar ad te et repellebar ab te, ut saperem mortem. Tendere  a Dio è sapere la vita, per Agostino; essere allontanati da  Lui o allontanarsene è sapere la morte. Ut saperem mortem,  affinchè conoscessi la morte, perdessi la mia consistenza, fa-  cessi esperienza del nulla del mio esistere una volta privato del    Concetto di metafisica 217       mio consistere, che è durare perenne, durare, senza riposo  o stanchezza, nel tendere all’Essere per cui esisto e sono;  è la libertà della mia vocazione essenziale; il mio volere to-  tale, il senso assoluto del mio. contingente esistere. L’esi-  stente esiste el tempo, ma non è del tempo: re-siste al giorno  che passa e alla notte che copre le cose del giorno (oppone  il suo consistere); per-siste, a causa del suo consistere e perchè  il suo stare è garantito e sorretto da un fine; per cui la tem-  porancità si conserva nella temporalità e il tempo volge alla  eternità intemporale. L’esistente è persistente ed è persona  — questa e non un’altra — perchè persiste; e persiste in  quanto consiste. Il mutamento di «questo ente » in « non  questo ente » è il manifestarsi di un ente, la temporaneità di  una sostanza che dura nella temporalità, la contradditorietà  che è possibile per la identità non contraddittoria dell’essere  permanente. Il durare dell’esistente implica, dunque, suc-  cessione, sviluppo. L’esistente non è perfetto ma perfetti-  bile, dunque è incompleto in ogni stato o grado della sua  attuazione. La sua incompiutezza pone il problema del suo  compimento e nello stesso tempo attesta l’Incondizionato  (omne quod movetur ab alio movetur, secondo la formula  che è comune ad Agostino e a Tommaso). L’esistente è in  ogni momento la sua consistenza, ma in ogni momento, n07  è mai tutta la sua consistenza: la sua è un’aspirazione infi-  nita, perchè è un’aspirazione totale. Interiorità di sè a sè,  come tale, .è interiorità di qualche cos'altro, dell'Altro, pe-  renne sforzo d’interiorizzazione, di conquista di sè nel-  l’Altro. La soggettività profonda non è un dato, ma il rea-  lizzarsi di se stessa, la conquista di sè nell’abbandono a Dio.  La povertà del soggetto, infinitamente arricchentesi ed infi-  nitamente povera, è la sua ricchezza autentica.    5. — L'essere e il problema teologico.    L'atto di esistere è inoggettivabile; al di là dell’essere, è  tuttavia nella linea dell’essere ed omogeneo con esso. L'’esi-    218 Filosofia e Metafisica       stere, infatti, è l’«atto proprio » di «ciò che è»; è la ra-  dice dell’essere. « Le nom méme d’essenzia que dérive de  l’esse, traduit le fait que l’essence constitue le point d’effleu-  rement, sur le plan de l’étre objectif et concevable, de l’acte  premier en vertu duquel ce qui est, est, ou existe ». Così  ancora il Gilson da noi seguito su questo punto, che ha  posto bene in luce i limiti esistenziali della filosofia, fa-  cendo, tra l’altro, notare come le nozioni di causa finale ed  anche di causa efficiente si rendono indispensabili allorchè  si pongono i problemi di esistenza. Infatti, in un certo senso,  il punto di vista della finalità resta esteriore all’ordine della  chiarificazione razionale dell’essenza, ma è, d’altra parte,  il solo che spieghi il senso di un essere e di ogni essere. Si-  milmente nella causalità efficiente, la natura della causa  spiega l’essenza del suo effetto, ma non la sua esistenza.  Il pensiero analitico non può non spiegare da questo esi-  stente l’apparizione di un altro esistente: se l’effetto fosse  identico alla causa, non se ne distinguerebbe e non sarebbe.  Dalla causa all’effetto vi è sempre una specie di creazione  ex nihilo, « dove qualcosa sembra sorgere spontaneamente  dal nulla ». Problemi interni al pensiero filosofico; problemi  ineliminabili ed improrogabili in quanto investono le que-  stioni della provenienza (donde viene) e della destinazione  (dove va) dell’uomo.   È necessario che, a questo punto, la filosofia entri in  conflitto con l’esistente che le pone dei problemi non rien-  tranti nell’ordine della pura conoscenza scientifica o ra-  zionale? Il conflitto c’è stato tante volte: la filosofia ha  negato l’esistente e i suoi diritti; o l’esistente ha giudicato  in blocco la filosofia come «non degna di un’ora di fa-  tica ». Conflitto che, in verità, non ha ragione di essere  e porta in sè gli elementi per essere composto. Infatti, nè  l’esistente può fare a meno della filosofia, nè la ragione  speculativa può sopprimere l’esistente, in quanto il soggetto  indomabile sbuca sempre fuori anche dal più fitto tessuto    Concetto di metafisica 219       di sillogismi e dalla più rigorosa ed indifferente analisi di  essenze concettuali. La filosofia non può comportarsi come  se l’esistente non esistesse per i problemi interni che esso  le pone e per gli ostacoli che incontra nell’esplicazione della  nozione pura dell’essere. D'altra parte, l’esistente, se non  può vivere con la sola filosofia, non può del pari vivere senza  di essa. Le istanze che egli pone alla ragione e gli appelli  che le indirizza sono, in fondo, le istanze che la ragione  pone a se stessa. Dunque, vani ed ingiustificati i rimpro-  veri rivolti ad una ragione, la quale riconosce i suoi limiti esi-  stenziali. È la ragione stessa che guida l’ esistente, che al punto  limite lo convince a mettersi assieme in cammino per un’al-  tra via, non contraddicente la ragione, ma che la oltrepassa e  segue metodi che non sono più quelli della pura ricerca  razionale. Al punto in cui dovrebbe sorgere il conflitto tra  la ragione e l’esistente, la buona ragione e l'esistente che non  rinuncia al lume che lo costituisce, si uniscono nell’apertura  alla religione. La problematica dell’esistente è, in definitiva,  una problematica religiosa; una fenomenologia esistenzialista  è, costitutivamente, di carattere religioso. Pertanto, a nostro  avviso, un esistenzialismo, che rigetta in partenza la risposta  religiosa che il Cristianesimo dà del problema dell’esistenza, è  senza senso, estremamente bisognoso di chiarirsi ulteriormente  a se stesso. Si tenga presente che ogni qual volta la filosofia  speculativa ha cercato o preteso di dare da sola una risposta al-  l'esistente e ai suoi problemi, ha concluso, inesorabile, per la  loro soppressione. I tipi di saggezza platonico, anche se fino  ad un certo punto, epicureo, stoico, neoplatonico, spino-  ziano ecc., concludono tutti che è saggezza la liberazione  dall'esistenza: è saggio chi « ascende », dalla zona dell’esi-  stere, all'ordine chiaro, terso e tranquillo della ragione. Ri-  sponde invece diversamente una filosofia della persona la  quale non può essere che cristiana: non sopprimendo questi  problemi, ma autenticandoli.   Essere non è solo l’essenza, anche se il termine è spesso    220 Filosofia e Metafisica       usato per indicare l’essenza; essere è essenza ed esistenza.  Identificare l’essere con la sola esistenza esclusiva dell’es-  senza, o con la sola essenza esclusiva dell’esistenza, è negarlo.  Una filosofia puramente essenzialista deve concludere che  l'essenza non esiste e dunque negare il reale (è la conclu-  sione di un platonismo spinto agli estremi, alla quale non  sfugge, malgrado tutto, Aristotele); allo stesso modo una  filosofia puramente esistenzialista, ridotta l’esistenza ad una  possibilità vuota, deve concludere con la negazione dell’esi-  stenza stessa. L’originalità del reale o dell'essere è precisa-  mente nella unione di essenza ed esistenza: non il puro con-  cetto nè il puro esistere sono l’equivalente del reale. L’esisten-  zialismo ha fatto ben comprendere l’insufficienza del puro es-  senzialismo, ma, l'insufficienza dello stesso esistenzialismo ci  ha fatto ancor più avvertiti che non si può prescindere dal-  l’essenza: essenza ed esistenza costituiscono la struttura del  reale. L'esistenza è l’attualità dell’essenza (il possibile), che  pertanto va ricavata dall’esse; di qui il primato dell’esistenza  non sull’essere, ma sull'essenza zmell’essere.   Evidentemente qui sorge un altro problema: l’eidetica,  scienza del concetto o dell’essenza, come tale, riconosce che,  al di là dell’essenza, vi è l’atto di esistere inconcettualiz-  zabile. Per conseguenza, per cogliere il reale, non si può  partire dalla pura ragione; è necessario muovere dall’uomo,  che è già cogliere il reale immediatamente, cogliere me  reale nell’atto di acquistarne coscienza. L’autocoscienza in  questo senso è giudizio esistenziale immediato, l’atto sin-  tetico che coglie unitariamente la dualità interna della  struttura del reale. Ma ecco dal dato reale, che è il mio  essere, nascere un altro problema: quello dell’esistere del mio  essere. Qui il problema dell’atto di esistere (actus essendi)  si pone come richiesta di sapere se io sono il principio di  esso, cioè come problema del suo fondamento assoluto. Se  fossi il principio del mio esistere, sarei il creatore del mio  essere e l’atto di esistere del mio essere s’identificherebbe    Concetto di metafisica 221          con l’Atto assoluto dell’esistere che fa essere ogni ente che  è: la mia essenza sarebbe identica alla mia esistenza. Ma  io non sono il creatore di me stesso; dunque l’atto autoco-  sciente con cui colgo immediatamente il mio essere nella  sua struttura di esistenza ed essenza, pone il problema del  principio del mio essere stesso: è il problema assoluto della  metafisica, il problema teologico o dell’esistenza di Dio, il  supremo Esistente. Il principio della Creazione è indispen-  sabile all’ontologia, che dall’interno è orientata verso la  teologia. Su questo punto la metafisica non essenzialista di  S. Tommaso sopravanza infinitamente quella essenzialista di  Aristotele. Bisogna pertanto distinguere il problema degli  esseri già costituiti (come sono) dal problema della loro  origine primale o della loro costituzione stessa, che è il  problema dell’esistenza di Dio o del principio assoluto  del reale, della sua suprema intelligibilità metafisica. Dio  l’Ipsum esse subsistens, creando, fa che l’esistenza sia nel-  l'essenza. La metafisica di Aristotele ignorò questo pro-  blema; la metafisica cristiana, in questo senso, è una « rivolu-  zione » rispetto a quella aristotelica. Questo punto è fonda-  mentale: per una metafisica dell’essenza, il problema del-  l’esistenza del reale non si pone; non ha senso porlo; e  perciò non ha senso porre neppure il problema dell’esi-  stenza di Dio. L’ontologismo, a rigor di termini, non lo  pone: vedere le idee in Dio rende superfluo il mondo reale.  Questa posizione si può spingere a conclusioni che, in fondo,  le si oppongono ma da essa derivano: l’esistenza non è per-  fezione e non aggiunge niente all’essenza; dunque, non  solo dall’essenza di Dio non si può ricavare l’esistenza, ma  Dio basta soltanto pensarlo. È la posizione kantiana del-  l’agnosticismo metafisico e della pura noumenicità della  Cosa in sè (l’ontologismo critico del Carabellese è la for-  mulazione rigorosa di essa). L’esistenzialismo immanentista,  figlio dell’idealismo trascendentale, ha eliminato il problema  metafisico dell’Atto supremo di esistere ed ha considerato    222 Filosofia e Metafisica       l’esistenza come pura possibilità o libertà; così l’ha pri-  vata anche dell’essenza. La conclusione è inevitabile; l’esi-  stenza resta sospesa a se stessa, senza fondamento, vuota  nel vuoto, insignificante nulla. Tali affermazioni assurde  confermano che il problema del reale va posto come pro-  blema del reale autentico che è essenza ed esistenza, il qua-  le pone, per la spiegazione metafisica, il principio del suo  esistere, cioè il problema teologico.   E la soluzione teologica del problema dell'esistente la filo-  sofia se la trova interna e ad essa essenziale. Metafisica per  definizione — per sua natura — la filosofia non può essere  che scienza dell’essere o della verità, nel senso più esten-  sivo ed universale del termine. Ma, come abbiamo già ac-  cennato col Gilson, ogni essenza è l’essenza di un atto, del-  l’atto dell’esistere; d’altra parte, è evidente che, senza l’essen-  za, l’esistenza mancherebbe della sua razionalità; dunque, in  una ontologia esistenziale l’essenza è il supremo intelligibile,  il possibile che è per l’atto dell’esistere. (Un esame della dot-  trina del Rosmini della insessione delle forme dell’essere sa-  rebbe quanto mai chiaritivo delle esigenze di una ontologia  esistenziale). Ma gli esistenzialisti, ad eccezione di Gabriel  Marcel, non sembra vogliano saperne di ontologia, quan-  tunque facciano molto uso del termine; si fermano al di qua  dell’essere, alla descrizione dell’esistenza e si rifiutano di  obbiettivare l’essere, come se ciò compromettesse la sua  esistenzialità. Non comprendiamo perchè mai l’esistenzia-  lismo debba rifiutare un’ontologia esistenziale, la quale ri-  conosce il primato dell’esistere e, per un'esigenza interna  della filosofia e perchè l’esistere stesso possa avere un signi-  ficato comprensibile sia pure come problema, accetta l’es-  senza come costitutiva dell’esistenza. Un esistenzialismo che  rigetta questa conclusione conserva ancora una nozione  negativa dell’esistente e distrugge in partenza il proble-  ma che lo giustifica come posizione di pensiero. L'atto di.  esistere non può essere considerato fuori dell’ordine dell’es-    Concetto di metafisica 223       senza che lo determina; d'altra parte di un’ontologia esisten-  ziale, di un universo di atti di esistere, la sola filosofia è in-  sufficiente a risolvere tutti i problemi esistenziali che essa   ne. Una filosofia che reclama questa pretesa è la pseudo-filo-  sofia della ragione non autentica, e tale in quanto si arroga  compiti che la sorpassano; è la filosofia del razionalismo  assoluto, della religione della ragione, cioè una pseudo-reli-  gione. L’esistente nella sua originarietà resta il problema in-  terno della filosofia, quello che la apre alla trascendenza; un  universo di atti di esistere è già, come tale, dipendente dal  supremo Esistente. L’esistere, come abbiamo visto, importa  sempre un qualcosa di nuovo, una creazione ex mnihilo, il  cui esserci è l’«evidenza sensibile » del Creatore. Filosofia  e religione, come scrive il Masnovo (La filosofia verso la  religione), non hanno lo stesso oggetto gnoseologico, ma lo  stesso termine reale di conoscenza — l’Essere unico, sorgente  di tutte le cose — il cui svolgimento è diverso nella ragione e  nell’atto di fede, senza che l’una contraddica all’altro.    6. — Conclusione.    Il Cristianesimo rivelò l’esistente a se stesso, la persona  alla persona. I concetti dell’uomo figlio di Dio, creatura;  della dignità non-abdicabile ed insopprimibile del singolo;  del conflitto morale tra il bene e il male, al cui esito è legata  la perdizione o la salvezza; della libertà e del peccato, diedero  un senso dell’esistenza che — se il pensiero greco aveva  in parte preparato — giungeva del tutto nuovo. La vita  come dramma interiore, attrice di una lotta morale impe-  gnativa di tutta la persona, è scoperta del Cristianesimo;  nessuna concezione incentra la riflessione filosofica sull’e-  sistente e i problemi esistenziali quanto quella cristiana.  Tutta la filosofia agostiniana punta diritta sull’esistente e  i suoi problemi: pochi pensatori hanno problematizzato co-  me Agostino l’esistente e vissuto con tanta intensità il dram-    224 Filosofia e Metafisica          ma interiore dell’uomo. Se in S. Tommaso il senso della in-  teriorità è men vivo, il dramma della persona è vissuto al-  trettanto intensamente e la sua soluzione non è diversa.  Il Rosmini, approfondendo il pensiero dei due grandi,  ha scoperto nella forma morale dell’essere il punto di  unione dell’essere possibile indeterminato con l’essere reale  determinato; la morale rosminiana è una soluzione da tener  presente dei problemi dell’ontologia esistenziale, la cui con-  clusione è ancora quella di Agostino e Tommaso. Oggi la  concezione dell’uomo come dramma, del soggetto come pro-  blema da spiegare e non come principio di spiegazione, è  tornata alla ribalta della discussione filosofica; al dramma  si è cercato di togliere ogni carattere teologico e si è ten-  tato risolverlo nell’ambito dell’ordine umano: l’uomo pone  il suo problema e lo risolve da sè; ogni altra soluzione è  fittizia ed illusoria. È la conclusione di ogni forma d’imma-  nentismo, il dogma della filosofia marxista. L’uomo il suo  problema lo risolve da sè: non c’è posto per il superfluo,  l'inutile della trascendenza. L’uomo deve sacrificarsi all’uo-  mo (individuo, famiglia, società, Stato): è contrario alla sua  natura sacrificarsi a qualcosa che non sia umano, che lo  trascenda. L’immanentismo, di qualsiasi specie o sottospecie,  si rivolta a Dio, gli dice di no. Dunque dice di no a Qual-  cuno: altrimenti a chi direbbe di no e a chi si ribellerebbe?  Ribellarsi è ribellarsi a Qualcuno. L’atto di ribellione di una  parte cospicua del pensiero moderno, la sua alta protesta con-  tro Dio, è un’affermazione di Dio. I Titani che si ribel-  larono a Giove, nell’atto stesso, riconobbero la esistenza di  Giove, tanto da tentarne l’offesa e da sperimentare la po-  tenza della sua ira. Il titanismo moderno non è stato da meno,  ma siccome si è rivoltato al Dio di Cristo, ha sperimentato  l’infinità del suo Amore. La rivolta contro la metafisica,  portata alle sue ultime conseguenze critiche e corretta dalle  deviazioni acritiche, non può non risolversi che in una con-  sapevolezza invincibile dell’esistenza di Dio, la quale è in-    Concetto di metafisica 225       sita al dramma interiore che è l’uomo, l’esistente che, al  vertice del conoscere razionale, pone ancora il suo proble-  ma, quello della sua destinazione. Con esso è tutto il co-  noscere razionale che chiede la sua autenticazione in un  sapere che trascende la ragione senza contrastarle. L’esi-  stente scopre la sua consistenza: l’esistenza degli esseri ri-  manda all’Essere, la radice di ogni essere, perchè radicato  nell’Essere. Vi è in tutti gli esseri una «contingenza ini-  ziale », come dice il Blondel, che li accompagna nel loro  processo evolutivo e costitutivo. Cercare la loro consistenza in  quel che hanno di fatto in un dato momento è cercarla — per  mai trovarla — nel loro aspetto esterno e non nel loro ordine  interno, nella zorma interna che li trascende, la quale « costi-  tuisce la vivente e secreta armatura degli esseri in cerca della  loro vera e completa realizzazione » (L'’Etre et les étres). L'es-  sere-persona è capace di autosufficienza, di realizzazione com-  pleta e totale? Può erigersi ad Assoluto come singolo o come  collettività? L’esistente è tale per l’Esistente; conoscente e ca-  pace di conoscere, al limite del suo conoscere, pone se stesso  come problema; ed è questo l’atto ultimo della ragione, conte-  nente tutti i dati per la soluzione del problema dell’esi-  stenza dell’Esistente assoluto. All’estremo di tutte le sue  possibilità, al massimo della soddisfazione dei suoi bisogni,  è ancora bisogno, grida, come dice Hello, «io ho bisogno ».  Ha quel che è, ma non è tutto e dunque non ha tutto. Sco-  pre al limite di ogni possibile ricerca, con la convalida e la  garanzia di tutto il suo conoscere e sapere, di avere un fine  che lo trascende, di tendere ad un perfezionamento che lo  oltrepassa. Il ne varietur della religione costituisce la pedana  di lancio nella possibilità della fede; non nell’ignoto, per-  chè la fede religiosa non è cieca, nè è un’avventura da anima  romantica. Senza essere «una passione inutile », come lo  definisce banalmente Sartre, l’uomo è amore per l’Esisten-  te, l'Altro incommensurabile. Ogni progetto di essere per  sè è perpetuo progetto di fondarsi da sè ed è perpetuo fal-    226 Filosofia e Metafisica       limento di esso, perchè è progetto contro la consistenza  dell’uomo, congiura che egli ordisce ai danni di se stesso,  della sua vocazione naturale, essenziale ed universale. La  tendenza all’Altro è invincibile ed è tendenza a Dio. L’esi-  stere nel mondo non è il fine, ma la prova: Dio è il fine  di ogni soggetto. La consistenza della persona è nel rap-  porto con l’Essere assoluto. Aspirazione a Dio con tutti noi  stessi è consapevolezza, con tutti noi stessi, di essere inca-  paci da soli di attingerLo; la nostra « generosità » autentica,  « coraggiosa ed insaziabile », come la chiama il Blondel, che  l’iniziativa di Dio, nella sua infinita carità e bontà, vorrà  premiare. Ma dipende da noi farci simili al cristallo, secondo  la magnifica espressione di Caterina Mansfield, affinchè la  luce di Cristo brilli attraverso di noi. « Dio si conosce me-  glio ignorandolo », secondo la formula della teologia mi-  stica fatta propria da S. Tommaso, ma inconosciuto nella  sua essenza, è da noi conosciuto come e in quanto incognito.   La consistenza degli esseri ci è dunque risultata risie-  dere, seguendo il dinamismo interno del pensiero e senza  rinunziare o condannare il conoscere razionale, nel loro rap-  porto con Dio, al limite dei limiti, in un fine senza fine.  L'ultima parola della ragione è la prima della religione:  l'estremo appello dell’esistente-consistente non va rivolto alla  ragione, ma, sul fondamento della ragione, a Dio. Dunque,  a rigor di termini, non vi è una «filosofia esistenzialista »,  nel senso di una filosofia della pura esistenza, ma una filo-  sofia, come tale razionale, che pone il problema dell’esi-  stente a faccia a faccia con la soluzione teistica, che apre  alla fede religiosa; una filosofia, che, perchè tale, è meta-  fisica. L’esistente, nell’atto stesso d’interrogare la ragione e  problematizzarla, riceve da essa l’indicazione della via da  seguire. Non c’è materia per drammatizzare o vilipenderla;  c'è il più saldo fondamento per sperare con il suo assenso.  L'esistenzialismo è ingiusto verso la ragione per due mo-  tivi: 4) perchè essa indica la strada per la soluzione del pro-    Concetto di metafisica 227       blema dell’esistente; 4) perchè una volta che esso pone la  ragione stessa come problema, dato che la filosofia è per  sua natura imprescindibile razionalità, invano si arrovella  a mettere insieme una «filosofia » esistenziale. (Ecco per-  chè gli esistenzialisti son capaci di profonde e sottili analisi  psicologiche — « moralisti» —, ma non di indagini filo-  sofiche vere e proprie). L’esistenzialismo è la «crisi» della  filosofia. Le sue richieste deve rivolgerle altrove, all’Altro,  che è il Qui, che la ragione stessa riconosce al suo limite;  l'istanza esistenziale ritorna sempre come istanza religiosa.  L’interrogazione dell’esistente è quella che la ragione fa  a se stessa di fronte al problema esistenziale, il suo « con-  vergere » in Dio; dunque ancora filosofia con soluzione tei-  stica. La inoggettivabilità dell’atto di esistere, se non rende  estranea la ragione al problema dell’esistente, la fa convinta  dell’impossibilità di risolverlo, senza che ciò contrasti con  la natura della ragione stessa. L’esistente « inesistente » nel-  l’ordine del conoscere razionale, ma «esistente » come pro-  blema-limite della ragione, « inesiste » come soluzione nel-  l’ordine teologico, in quanto la spiegazione e la autentica-  zione di ogni atto di esistere è nel supremo Esistente. La  ragione non spiega tutto l’esistente, ma gli spiega come e  dove spiegarsi: è sempre la luce dell’esistente, la sua intel-  ligenza, che l’avvia alla chiarezza totale, a Dio. Cervello  ed umanità, l’uomo: è suprema saggezza mettere il cervello al  servizio della nostra umanità la più profonda ed essenziale (*).    (3) Il P. D'Amore in una breve nota pubblicata nella rivista « Sapienza »  (n. 1, 1948, p. 132), a proposito di queste pagine, mi osserva che, senza riescirvi,  io mi sforzo « di completare la Metafisica degli antichi Scolastici con... un po’  di esistenzialismo, cioè con il problema posto dagli esistenzialisti, non con la  soluzione che essi danno ». E aggiunge: « Egli crede che il problema dell’esi-  stenza com’è posto e risolto da Aristotele e da S. Tommaso sia di natura total-  mente astratta e resti nel puro campo dell’astrazione, della essenza o concetto»  dell’ente come ente, formando così una eidetica, una metafisica cioè delle pure  essenze ». Francamente non riesco a spiegarmi come P. D'Amore, pur sempre  attento e, verso di me, benevolo lettore, abbia potuto farmi questi rilievi.  Sarebbe da parte mia uno sforzo davvero inintelligente quello di e completare  la metafisica degli antichi Scolastici con... un po’ di esistenzialismo », in quanto    228 Filosofia e Metafisica       questo problema non avrebbe senso e perchè la metafisica della migliore scola-  stica per me pone il problema dell’esistenza in termini più veri e speculativa-  mente più vigorosi che non l’esistenzialismo. La mia posizione è chiara: l’essere  non è riducibile nè alla pura essenza nè alla pura esistenza, in quanto la sua  struttura è duplice. Inoltre io non dico affatto che quella di S. Tommaso è una  metafisica delle pure essenze; anzi proprio il contrario: è una metafisica  dell’esistenza; e su questo punto ho insistito nel distinguere la metafisica aristo-  telica da quella tomista; o forse P. D'Amore vuole identificare S. Tommaso con  Aristotele, a tutto svantaggio del primo? 

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