Grice e Sidonio: la ragione conversazionale dell’implicaturis –
inplicatura Lewis/Short -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sidonio Appolinare – follows a
political career. He writes a number of letters in which he makes reference to
philosophers and philosophical issues. He claims, for example, that Cleante di
Assus bites his nails. Grice: “Implicature is a natural thing in Roman. You
have -plicare, you add in-plicare, and then you conjugate!” – Keywords:
inplicatura, implicatura, implicature, disimplicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sidonio” – Sidonio.
Grice e Signa: la ragione conversazionale della
ruota di Venere – la scuola di Signa – filosofia fiorentina – la scuola di
Firenze -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Signa). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano.
Filosofo italiano. Signa, Firenze, Toscana. Insegna retorica (“ars dictaminis”)
a Bologna e Padova. Vive ad Ancona, Venezia, Bologna, Padova, e Firenze. Tra i
saggi più significativi si ricordano il saggio storico “L’assedio d’Ancona”
(Viella, Roma), il “Bon Compagno”; “Rethorica novissima”; “Scacchi e il “Libellus
de malo senectutis et senis”, nel quale, con spirito arguto, prende in giro le
affermazioni di Cicerone che idealizzano la vecchiaia”; la “Rota Veneris” (Salerno),
un saggio di epistolo-grafia amorosa; “Liber de amicitia”; “Ysagoge
Boncompagnus; “Tractatus virtutum”; “Palma Oliva Cedrum Mirra Quinque tabulae
salutationum”; “Bonus Socius e Civis
Bononiae. Garbini, Roma, Salerno, Gabrielli, Le epistole di Cola di Rienzo e
l'epistolografia, Archivio della Società romana di storia patria, Gaudenzi,
Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi da S. a Bene da Lucca,
Bullettino dell'Istituto storico italiano, G. Manacorda, Storia della scuola in
Italia, Palermo, Tateo, Enciclopedia
dantesca, Treccani Dizionario biografico
degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su ALCUIN, Ratisbona. Wight: S.'s charter doctrine (Bologna), in:
Medieval Diplomatic and the 'ars dictandi', Scrineum. Keywords: Cicerone, “ars dictaminis” – o rettorica --.
Bon Compagno da Signa. Signa. Keywords: rota veneris – erotica – ermafrodita –
erma: mercurio, afrodita, venere, afrodisiaco. Luigi Speranza, “Grice e Signa”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Silio: la ragione conversazionale a Roma – la maledizione di
Dione – Scipione come Ercole – il sacrificio dell’eroe – filosofia veneta – la
scuola di Padova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto.
Vilosofo italiano. Padova, Veneto. Avvocato, console, pro-console de principato
romano. Muore in Campania. Figli: Lucio Silio Deciano. Console, Proconsole in
Asia. Noto semplicemente come S. Italico è anche un poeta, avvocato e politico
romano, autore dei Punicorum libri XVII, il più lungo poema epico latino
pervenutoci. Abbiamo notizie di lui da una lettera di PLINIO il Giovane a
Caninio RUFO, nella quale parla della sua morte. Il nome ‘Asconio’ porta a
ritenere che e legato alla gens patavine. Altre brevi informazioni ci vengono
da TACITO e da Marziale. Di Marziale, S. è il patrono e sappiamo che opera nel foro
come avvocato difensore, probabilmente già al principato di CLAUDIO. Secondo
Plinio, nel principato di Nerone, dove esercitare anche l'avvocatura d'accusa,
ovvero la delazione vera e falsa per il favore del principe. Il beneficio che
ne tratta e il consolato ordinario. Con la caduta e morte di Nerone, in
quanto amico di Vitellio, S. partecipa alle trattative di questi con il
fratello di Vespasiano, Tito Flavio Sabino, che è a Roma con il figlio di
Vespasiano, Domiziano. S. è pro-console in Asia Minore agl’ordini di VESPASIANO.
Testimonianza è un'epigrafe ad Afrodisia, che riporta il suo nome completo. Allo
scadere del mandato pro-consolare S. si ritira dalla vita politica attiva
dedicandosi agli studi e alla stesura del suo “Punicorum libri”. Nel Libro
III vi è un riferimento al titolo di "Germanico" assunto da Domiziano
e Marziale saluta l'opera nel IV libro degl’epigrammi. Anche a causa dello
stato di salute aggiorna a Campania, dove compra la villa di CICERONE, il suo
modello di oratoria, e la terra che custodia la tomba di VIRGILIO, di cui è un
estimatore e ai cui stilemi si rifà abbondantemente nel corso dei Punica. Durante
il principato di Domiziano, ha la paterna soddisfazione di vedere nominato
console il figlio Lucio Silio Deciano, anche se Marziale e Plinio ci informano
che, peraltro, dove subire la perdita del figlio minore. In Campania, provato
da un male incurabile, si lascia morire di fame alla maniera del Portico. S. scrive
i Punica, poema storico, anche se secondo una parte della critica il testo è
incompiuto, in quanto si ipotizza un progetto originario in XVIII libri,
parallelo alle dimensioni degl’annales d’ENNIO. La tomba di Virgilio al
chiaro di luna, con S., dipinto di Wright. I Punica sono la più lunga epica romana
che ci sia pervenuto. Racconta la guerra punica dalla spedizione d’Annibale in
Spagna al trionfo di SCIPIONE dopo Zama. La disposizione annalistica
testimonia la sua volontà di ricollegarsi alla III decade di LIVIO, ne recupera
la cornice architettonica del modello. Colloca dopo il proemio il ritratto di
Annibale e chiude, come LIVIO, con l'immagine del trionfo di Scipione. I Punica
è concepita quale continuazione ed esplicazione dell’Eneide virgiliana. La
guerra d’Annibale è, di fatto, vista come la continuazione di Virgilio,
originata dalla maledizione di Didone contro ENEA, mentre dal poema virgiliano
S. restaura la funzione strutturale dell'apparato mitologico, anche se lo
stravolgimento anti-frastico della provvidenza virgiliana è sostituito da un'EPOPEA
dal finale rassicurante. PLINIO ha delle riserve sulle capacità di S., lo
ritiene più antiquario che artista per il suo gusto per le ricostruzioni
minuziose. Lo stile sembra influenzato dal gusto del tempo:
"barocco", scene macabre unite al modello epico mitologico, con BANALI
RIFLESSIONI ETICHE. L'opera, comunque, risulta frammentaria, poiché dà più
importanza ai particolari piuttosto che non all'unità dell'opera stessa.
Quindi, lo scritto di S. è importante soprattutto per la quantità di
informazioni storiche e mitologiche piuttosto che per la sua poesia. S. in
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. S., in Treccani.it –
Enciclopedie, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su Sapere.it, De
Agostini. Pollidori - Postilla a S., su gionni altervista.org. Giarratano, S.
in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Epist.
III, 7. Patavino: cittadino di Padova (dal latino Patăvium, nome della città di
Padova. Marziale. Vinchesi, Introduzione, in Le guerre puniche, BUR, Milano, Occioni,
S. e il suo poema, Firenze, Monnier, Vinchesi, Introduzione, in Le guerre
puniche, BUR, Milano. S. su Treccani – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giarratano, S. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, S. su sapere.it, Agostini. S., Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica. Silio Italico, su ALCUIN, Ratisbona. S., su Musisque Deoque; S. su
PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S., open MLOL, Horizons Unlimited, S., Open
Library, Internet Archive. S. su
Progetto Gutenberg. V · D · M Poeti epici antichi Portale Antica Roma
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Avvocati romani Politici romani, Poeti, Consoli imperiali romani. S. has a career in politics
before retiring to his villa near Napoli where he pursues his interests in
philosophy. He is a follower of the Porch, and admired by Pliny Minore. S. is
a philosopher of the Porch.. S. adopts
Virgil's basic concept of seeing in the Punic War a fateful step on the road to
Rome's greatness, pre-ordained and hence supported by the divine. In his epic,
however, S. goes further than Virgilio had done in trying to illustrate how the
actions of the great Romans of the period, such as Marcellus or Scipione -
reveal that harmony between pre-destination and CHOICE which is demanded by the
philosophy of IL PORTICO. Romans like Marcello or Scipione remain loyal to the
ancient values of Rome, which are unknown (and naturally totally foreign) to
the antagonist Hannibal. S. shows both Scipione and Hannibal as trying to
emulate ERCOLE, that hero whom philosophers from both IL PORTICO and IL CINARGO
present as the archetype of a man whose unceasing endeavour and striving make
him able to attain perfection through his own efforts. The Roman ERCOLE is,
moreover, an important figure in popular religion and in Flavian principate
ideology. In S.’s epic only one of the two claimants is Hercules’s legitimate
successor: Scipione, whose individual striving for perfection is sub-ordinate
to the summum bonum (OPTIMVM) of serving Rome, and thus in harmony with the
universal order in which Rome has its divinely given place. By applying the
doctrine of fate of IL PORTICO to explain the tradition of Rome's heroic past
with its many Republican memories S. establishes a meaningtul connection
between that tradition and the state of the principate in which he himself lives.
S.’s aim is to prove that a classicising frame of mind with its orientation
towards the legendary past of Rome leads to an affirmation, instead of a
rejection, of contemporary reality. Tiberio
Cazio Asconio Silio Italico. Keywords: SCIPIONE, l’eroe nudo. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Silio, and the labours of Ercole” – per il gruppo di gioco
di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library. Silio.
Grice e Silla: la regione conversazionale della ta meta ta physika --
Roma – lascuola di Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo
lazio. Filosofo italiano. Apellicon, a member of the Lizio, acquires an
extensive collection of the works of Aristotle and Teofrasto that had once
belonged to Neleo, della Scessi. S. takes the collection away from him and
transports it to Roma, where TIRANNIO (si veda) is put in charge of sorting it
out and looking after it. Grice: “Tirannio saw a bunch of books which where
obviously on physics. ‘And what are these?’ A bunch of books piled after those
about physics. ‘I don’t know. I call them ‘the books that come after the books
on physics’ – ta meta ta physika.” Lucio Cornelio Silla Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Disambiguazione – "Lucio Silla" rimanda
qui. Se stai cercando altri significati, vedi Lucio Silla (disambigua).
Disambiguazione – "Silla" rimanda qui. Se stai cercando altri
significati, vedi Silla (disambigua). Disambiguazione – Se stai cercando
l'opera di Händel, vedi Lucio Cornelio Silla (Händel). Lucio Cornelio Silla
Console e dittatore della Repubblica romana Ritratto di Silla su un denario
battuto da suo nipote Quinto Pompeo Rufo Nome originale Lucius Cornelius Sulla
Nascita Roma Morte Cuma Coniuge Giulia Elia Clelia Cecilia Metella Dalmatica
Valeria Messalla Figlida Giulia Cornelia Silla Lucio Cornelio Silla da Metella
Fausto Cornelio Silla Fausta Cornelia Silla Lucio Cornelio Silla da Valeria
Cornelia Postuma GensCornelia PadreLucio Cornelio Silla Questura Pretura
Propretura in Cilicia Consolato Proconsolato in Asia Dittatura Lucio Cornelio
Silla Nascita Roma Morte Cuma Cause della morte cancro Etnia Latino Religione Religione
romana Dati militari Paese servito repubblica romana Forza armata Esercito romano
Grado Dux Guerre Guerra giugurtina Guerre cimbriche Guerra civile romana Prima
guerra mitridatica Battaglie Battaglia dei Campi Raudii Assedio di Atene
Battaglia di Porta Collina Battaglia di Cheronea Battaglia di Orcomeno
Comandante di Esercito romano Altre cariche Dictator voci di militari presenti
su Manuale Lucio Cornelio Silla (in latino Lucius Cornelius Sulla Felix,
pronuncia classica o restituta: ˈluːkɪʊs kɔrˈneːlɪʊs ˈsʉlla ˈfeːlɪks, nelle
epigrafi L·CORNELIVS·L·F·P·N·SVLLA·FELIX; Roma – Cuma) è stato un militare e
dittatore romano. Lucio Cornelio Silla naque a Roma da un ramo della gens
patrizia dei Cornelii caduto in disgrazia. La motivazione è rintracciabile: un
quadrisavolo di Silla, Publio Cornelio Rufino, nonostante fosse stato console,
dittatore in data imprecisata e avesse celebrato il trionfo sui Sanniti, fu
espulso dal Senato perché possedeva più di dieci libbre di argenteria in casa. Il
figlio di Rufino, Publio Cornelio, fu nominato flamen Dialis, posizione di
massima importanza in ambito religioso, ma i cui obblighi lo escludevano di
fatto dalla vita politica.[4] Questi fu il primo a portare il cognomen Sulla. Nelle
sue Memorie, Silla stesso scrive che il primo Sulla fu il flamine, facendo
derivare la parola dal nome della Sibilla: infatti Publio Cornelio, figlio del
sacerdote e bisavolo di Silla, aveva consultato i Libri sibillini per decidere
se celebrare i primi ludi Apollinares; questo tentativo di nobilitare il
cognomen non rispetterebbe però un'antica usanza romana. Tradizionalmente,
infatti, il cognomen descriveva un tratto della famiglia che lo portava: in
questo caso, mentre Rufinus richiamava la capigliatura rossa della famiglia,
Sulla derivava da suilla, «carne di porco», e alludeva alla pelle chiara e
cosparsa di lentiggini. Nonostante il cambiamento del cognomen, la reputazione
della famiglia non migliorò e i successori del flamine non ricoprirono cariche
superiori a quella pretoria. Il bisavolo di Silla, Publio Cornelio, fu
unitamente praetor urbanus e peregrinus e, come già detto, indisse i primi
Giochi di Apollo. Avvicinandosi all'età di Silla le informazioni scarseggiano:
del primogenito e nonno di Silla, omonimo di suo padre, si sa che fu pretore in
Sicilia, mentre il secondogenito, Servio, ricoprì la carica in Sardegna. Del
padre, Lucio Cornelio Silla, si sa ancora meno: è probabile che non fosse il
primogenito di Publio e che fu amico di Mitridate il Grande, per cui potrebbe
essere stato promagistrato in Asia o membro di una delle numerose delegazioni
che venivano frequentemente inviate in Oriente. Ebbe due mogli: la seconda,
matrigna di Silla, era decisamente doviziosa. Gioventù Busto virile detto
Silla, copia del 40 a.C. ca. di un originale dell'età augustea, marmo, alt. 47
cm. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek (in Roma, Palazzo Barberini, collezione
privata). La scultura e identificata con Silla ma, considerata la datazione
(incerta), si può dire che probabilmente non lo ritrae. Poco si sa della
fanciullezza di Silla. Ci rimane solo una leggenda, secondo cui, poco dopo la
sua nascita, una donna lo vide in grembo alla nutrice e le disse «Puer tibi et
reipublicae tuae felix» (Il fanciullo [sarà] fonte di gioia per te e per lo
Stato).Certo è che il crollo del prestigio condizionò la situazione economica
della famiglia, descritta così da Plutarco: «οἱ δὲ μετ’ ἐκεῖνον ἤδη ταπεινὰ
πράττοντες διετέλεσαν, αὐτός τε Σύλλας ἐν οὐκ ἀφθόνοις ἐτράφη τοῖς πατρῴοις.
γενόμενος δὲ μειράκιον ᾤκει παρ’ ἑτέροις ἐνοίκιον οὐ πολὺ τελῶν, ὡς ὕστερον
ὠνειδίζετο παρ’ ἀξίαν εὐτυχεῖν δοκῶν. σεμνυνομένῳ μὲν γὰρ αὐτῷ καὶ
μεγαληγοροῦντι μετὰ τὴν ἐν Λιβύῃ στρατείαν λέγεταί τις εἰπεῖν τῶν καλῶν τε
κἀγαθῶν ἀνδρῶν· «Καὶ πῶς ἂν εἴης σὺ χρηστός, ὃς τοῦ πατρός σοι μηδὲν
καταλιπόντος τοσαῦτα κέκτησαι;» I suoi di Rufino discendenti, fin dal primo,
condussero una vita mediocre e Silla stesso fu allevato in una situazione
patrimoniale niente affatto invidiabile. Da adolescente abitava in casa d'altri
e pagava un affitto basso; questo gli fu rinfacciato in seguito, perché
sembrava aver raggiunto una fortuna superiore al merito. Si dice che, dopo la
campagna in Libia, quando si faceva bello e si vantava, uno dei boni gli si
rivolse con queste parole: «E come potresti essere meritevole di lodi tu, che
ti sei ritrovato tante ricchezze senza che tuo padre ti abbia lasciato
niente?»» (Plutarco, Sull., 1, 2; trad. di Lucia Ghilli) Il
biografo greco probabilmente esagera, perché Silla non crebbe nella povertà più
assoluta: era ricco agli occhi del plebeo, ma povero agli occhi del nobile, una
posizione assimilabile a quella di cavaliere. Nonostante l'ambiente modesto in
cui visse, a Silla fu impartita un'ottima educazione, degna delle sue origini
patrizie: gli furono insegnati la letteratura latina e greca, il diritto, la
retorica, la filosofia e l'arte e fu impregnato dei valori tradizionali del mos
maiorum. Con questi strumenti, Silla poteva certamente rivaleggiare con i più
eruditi della sua epoca, ma per ottenere una carica gli serviva il
denaro. La speranza di ricoprire una magistratura sembrò svanire quando,
verso l'età in cui indossò la toga virilis, il padre Lucio morì senza
lasciargli nulla in eredità. Silla, che godeva di un reddito annuo di 9000
sesterzi, nove volte maggiore rispetto a quello di un operaio, ma decisamente
umile per un aristocratico, prese a frequentare i sobborghi dell'Urbe, che poco
si addicevano a un patrizio, e personaggi ambigui come mimi e istrioni, per cui
scrisse anche alcune atellane. Secondo Plutarco, in occasione delle bevute con
i suoi amici plebei Silla, la cui immagine è passata alla storia come severo
dittatore, mostrava il suo lato migliore: «ἀλλ’ ἐνεργὸς ὢν καὶ σκυθρωπότερος
παρὰ τὸν ἄλλον χρόνον, ἀθρόαν ἐλάμβανε μεταβολὴν ὁπότε πρῶτον ἑαυτὸν εἰς
συνουσίαν καταβάλοι καὶ πότον, ὥστε μιμῳδοῖς καὶ ὀρχησταῖς τιθασὸς εἶναι καὶ
πρὸς πᾶσαν ἔντευξιν ὑποχείριος καὶ κατάντης.» «sebbene fosse attivo e più accigliato per il
resto del tempo, non appena si buttava nella mischia e si metteva a bere
cambiava del tutto, tanto da diventare gentile con mimi cantanti e ballerini,
dimesso e propenso ad accogliere ogni richiesta.» (Plutarco, Sull.; trad.
di Lucia Ghilli) Ormai pronto al matrimonio, Silla sposò una certa Ilia, che
potrebbe corrispondere a una Giulia, sorella di Lucio Giulio Cesare e Cesare
Strabone Vopisco, o una Giulia minore, sorella di Gaio Giulio Cesare, Sesto
Giulio Cesare e Giulia maggiore, moglie di Gaio Mario, o più probabilmente si
tratta di un errore di Plutarco, per cui la figura di Ilia coinciderebbe con
Elia, la seconda moglie di Silla, di famiglia plebea e di cui non si sa altro
che il nome. In ogni caso, da Ilia Silla ebbe la sua prima figlia, Cornelia, e
il primo figlio, Lucio, che morì infante.Ad ogni modo, il legame matrimoniale
non gli impedì di intrattenere relazioni extraconiugali: coltivò una relazione
omosessuale con l'attore Metrobio, un amore giovanile che portò con sé fino
alla morte, così come continuò a frequentare i circoli di buffoni. Amò anche la
facoltosa Nicopoli, liberta più vecchia di lui e sua amante, che, quando spirò,
lasciò al giovane Silla una grande eredità. Nello stesso periodò morì anche la
matrigna, da cui Silla ereditò un'altra ingente somma di denaro.Fu
probabilmente così che Lucio Cornelio Silla, nato da una famiglia decaduta,
poté intraprendere la sua carriera politica: l'inizio della sua
Felicitas. Esordi della carriera e opposizione a Mario Lo stesso
argomento in dettaglio: Guerra giugurtina e Guerre cimbriche. Silla e nominato
questore di Gaio Mario, del quale era cognato avendo sposato la sorella minore
della moglie di Mario, Giulia, nel periodo in cui questi stava assumendo il
comando della spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia. Questa
guerra si protraeva ormai., con risultati addirittura umilianti per l'esercito
romano, tenuto in scacco dalle forze di questo piccolo regno africano.
Alla fine Mario, riuscì a prevalere, soprattutto grazie all'abile e coraggiosa
iniziativa di Silla, che riuscì a catturare Giugurta convincendo il suocero
Bocco e gli altri familiari a tradirlo e consegnarlo ai Romani. La fama che
gliene derivò gli servì da trampolino di lancio per la carriera politica, ma
provocò il risentimento e la gelosia di Mario nei suoi confronti. Difatti Silla
continuò a servire nello Stato Maggiore di Mario fino all'elezione al consolato
di Quinto Lutazio Catulo, di antica famiglia aristocratica come lui, e infine
passando nello Stato Maggiore di quest'ultimo nella difficile campagna condotta
in Gallia contro le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Silla si
distinse anche in questa occasione, aiutando il console Quinto Lutazio Catulo e
Mario a sconfiggere i Cimbri nella Battaglia dei Campi Raudii, presso Vercelli.
Al suo ritorno a Roma, Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano, e i suoi
avversari non mancarono di accusarlo di aver corrotto all'uopo molti degli
elettori. In seguito fu assegnato al governo della Cilicia, regione situata
nell'odierna Turchia. Si assistette a un avvenimento storico per quell'epoca.
La Repubblica romana e il grande Impero dei Parti vennero a contatto in modo
del tutto pacifico. Una delegazione inviata dal sovrano parto, Mitridate II, si
incontrò sulle rive dell'Eufrate con il pretore Lucio Cornelio Silla,
governatore della nuova provincia di Cilicia. Dopo l'anno di pretura, Silla fu
inviato in Cappadocia. Motivo ufficiale della sua missione era il porre di
nuovo sul trono Ariobarzane I. In verità egli aveva il compito di contenere e
controllare l'espansione di Mitridate, che stava acquisendo nuovi domini e
potenza non inferiori a quanti ne aveva ereditati.» (Plutarco, Vita di
Silla) La missione di Silla, procuratore della Cilicia, nel 96
a.C., quando incontrò un satrapo dei Parti presso Melitene (futura fortezza
legionaria). Rovine di Aeclanum, la città del Sannio irpino conquistata
da Lucio Cornelio Silla. Questo primo incontro fissò sull'Eufrate il confine
tra i due imperi. Una curiosità di quell'incontro fu che Silla cercò, anche in
quella circostanza, di affermare la preminenza di Roma sulla Partia, sedendosi
fra il rappresentante del Gran Re e il re di Cappadocia, come se desse udienza
a dei vassalli. Una volta venuto a conoscenza dell'accaduto, il re dei Parti
fece giustiziare colui che lo aveva così maldestramente sostituito all'incontro
con il comandante militare romano. Ecco come racconta l'episodio Plutarco. Silla
soggiornava lungo l'Eufrate, quando venne a trovarlo un certo Orobazo, un
parto, quale ambasciatore del re degli Arsacidi. In passato non c'erano mai
stati rapporti di sorta tra i due popoli. Tra le grandi fortune toccate a
Silla, va ricordata anche questa. Egli fu infatti il primo romano che i Parti
incontrarono, chiedendo alleanza e amicizia. In questa occasione si racconta
che Silla fece disporre tre sgabelli, uno per Ariobarzane I, uno per Orobazo e
uno per sé, e li ricevette mettendosi al centro tra i due. Di questa situazione
alcuni lodano Silla, perché ebbe un contegno fiero di fronte a due barbari,
altri lo accusano di impudenza e vanità oltre misura. Il re dei Parti, da parte
sua, mise poi a morte Orobazo.» (Plutarco, Vita di Silla. Silla lasciò il
Medio Oriente e rientrò a Roma, dove si unì al partito degli oppositori di Gaio
Mario. In quegli anni la Guerra Sociale era al suo culmine. L'aristocrazia
romana si sentiva minacciata dalle ambizioni di Mario che, vicino alle
posizioni del partito popolare, aveva già retto il consolato per 5 anni di
seguito. Nella repressione di quest'ultimo moto di ribellione delle popolazioni
italiche alleate di Roma, Silla si mise particolarmente in luce come brillante
e geniale stratega, eclissando sia Mario sia l'altro console Gneo Pompeo
Strabone (padre di Gneo Pompeo Magno). Una delle sue imprese più famose fu la
cattura di Aeclanum, città degli Irpini, ottenuta incendiando il muro di legno
che difendeva la città assediata. Come conseguenza, ottenne per la prima volta
il consolato, insieme a Quinto Pompeo Rufo. Occupazione militare di
Roma Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile romana. Silla,
assunta la carica di console, ricevette poco dopo dal Senato l'incarico di
governare la provincia d'Asia. Durante il governatorato organizzò una nuova
spedizione in Oriente e combatté la prima guerra mitridatica. Si lasciò
tuttavia alle spalle, a Roma, una situazione assai turbolenta. Mario era ormai
vecchio, ma nonostante ciò aveva ancora l'ambizione di essere lui, e non Silla,
a guidare l'esercito romano contro il re del Ponto Mitridate VI. Per ottenere
l'incarico, Mario convinse il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo a fare
approvare una legge che sottraesse a Silla la guida, già legittimamente
conferitagli, della guerra contro Mitridate e gliela attribuisse. Appresa
la notizia Silla, accampato in quel momento nell'Italia meridionale in attesa
di imbarcarsi per la Grecia, scelse le 6 legioni a lui più fedeli e, alla loro
testa, marciò su Roma. Nessun comandante, in precedenza, aveva mai osato
violare con l'esercito il perimetro della città (il cosiddetto pomerio). La
cosa era talmente contraria alle tradizioni che Silla esentò gli ufficiali dal
parteciparvi. Spaventati da tanta risolutezza, Mario e i suoi seguaci fuggirono
dalla città. Dopo avere preso una serie di provvedimenti per ristabilire la
centralità del Senato come guida della politica romana, Silla lasciò di nuovo
Roma, e riprese la strada della guerra contro Mitridate. Guerra contro
Mitridate in Oriente Lo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra
mitridatica. Mitridate (oggi al museo del Louvre). Approfittando
dell'assenza di Silla, Mario riuscì a riprendere il controllo della situazione.
Con il sostegno del console Lucio Cornelio Cinna (suocero di Gaio Giulio
Cesare), ottenne che tutte le riforme e le leggi emanate da Silla fossero
dichiarate prive di validità e che lo stesso Silla fosse ufficialmente
dichiarato «nemico pubblico» e costretto perciò all'esilio. Insieme, Mario e
Cinna eliminarono fisicamente un gran numero di sostenitori di Silla, e furono
eletti consoli Mario morì pochi giorni dopo l'elezione e Lucio Valerio Flacco
fu nominato consul suffectus al suo posto, mentre Cinna rimase a dominare
incontrastato la politica romana, essendo rieletto console negli anni
successivi. Nel frattempo Silla si era recato in Grecia, dove portò alla
caduta Atene. Il comandante romano vendicò quindi l'eccidio asiatico di
Mitridate, compiuto su Italici e cittadini romani, compiendo un'autentica
strage nella capitale attica. Silla proibì, invece, l'incendio della città, ma
permise ai suoi legionari di saccheggiarla. Il giorno seguente il comandante
romano vendette il resto della popolazione come schiavi. Catturato Aristione,
chiese alla città come risarcimento del danno di guerra, circa venti chili di
oro e 600 libbre d'argento, prelevandole dal tesoro dell'Acropoli. Poco dopo fu
la volta del porto di Atene del Pireo. Da qui Archelao decise di fuggire in
Tessaglia, attraverso la Beozia, dove portò ciò che era rimasto della sua
iniziale armata, radunandosi presso le Termopili con quella del condottiero di
origine tracia, Dromichete (o Tassile secondo Plutarco). Con l'arrivo di Silla
in Grecia le sorti della guerra contro Mitridate erano quindi cambiate a favore
dei Romani. Espugnata quindi Atene e il Pireo, il comandante romano ottenne due
successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, dove secondo Tito
Livio caddero ben 700.000 armati del regno del Ponto, e infine a Orcomeno.Mappa
dei movimenti delle armate romane, prima e durante la battaglia combattuta
presso Cheronea Mappa dei movimenti delle armate romane, durante la
battaglia combattuta presso Orchomenos Contemporaneamente, il prefetto della
cavalleria, Flavio Fimbria, dopo aver ucciso il proprio proconsole, Lucio
Valerio Flacco, a Nicomedia prese il comando di un secondo esercito romano. Quest'ultimo
si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più
volte vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate,
Pergamo, e poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re. Intanto
Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si
erano opposti. Quando Mitridate seppe della sconfitta a Orcomeno, rifletté
sull'immenso numero di armati che aveva mandato in Grecia fin dal principio, e
il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza di ciò,
decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori
condizioni possibili. Quest'ultimo ebbe allora un colloquio con Silla in cui
disse: Tuo padre era amico di re Mitridate, o Silla. Fu coinvolto in questa
guerra a causa della rapacità degli altri comandanti romani. Egli chiede di
avvalersi del tuo carattere virtuoso per ottenere la pace, se gli accorderai
condizioni eque. Appiano, Guerre mitridatiche) Dopo una serie di
trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si
accordarono per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi nei
confini antecedenti la guerra, ma ottenendo in cambio di essere ancora una
volta considerato «amico del popolo romano». Un espediente per Silla, per poter
tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla
Repubblica romana. Si racconta che Silla, prima di tornare in Italia, ebbe un
secondo incontro con ambasciatori del re dei Parti, i quali gli predissero che
«divina sarebbe stata la sua vita e la sua fama». Allora Silla decise di
tornare in Italia, sbarcando a Brindisi con 300.000 armati.Il ritorno a Roma, la
dittatura e le liste di proscrizione Lo stesso argomento in dettaglio:
Proscrizione sillana. Possibile ritratto di Silla (copia di un originale,
oggi conservata presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen).
L'identificazione è stata avanzata dall'archeologo tedesco Klaus Fittschen. Quando
fu raggiunto dalla notizia della morte di Cinna, nell'84 a.C., lasciò l'Oriente
e si mise in marcia verso Roma, ottenendo l'appoggio, tra gli altri, del
giovane Gneo Pompeo Magno. Dopo un periodo iniziale di stasi delle operazioni
militari, nel novembre dell'82 a.C. Silla ottenne la vittoria decisiva
sconfiggendo nella Battaglia di Porta Collina un grande esercito costituito
dalle legioni della fazione dei populares e dalle agguerrite truppe sannite al
comando di Ponzio Telesino. L'esito di questa battaglia fu determinato in modo
risolutivo dall'azione del futuro triumviro Marco Licinio Crasso che al comando
dell'ala destra sbaragliò le forze nemiche, mentre Silla era in grave
difficoltà sull'ala sinistra. Subito dopo la battaglia, essendo morti
entrambi i consoli, Silla fu eletto dittatore[56] a tempo indeterminato dai
comizi centuriati con la Lex Valeria de Sulla dictatore: i suoi poteri
comprendevano il diritto di vita e di morte, la possibilità di presentare
leggi, di effettuare confische, di fondare città e colonie, di scegliere i
magistrati. Fu sulla base di questi poteri che Silla realizzò
un'articolata serie di riforme, che, nelle sue intenzioni, dovevano risolvere
la crisi in cui si dibatteva da decenni lo Stato romano. Divenuto padrone
assoluto della città, Silla instaurò un vero e proprio regno del terrore,
mettendo al bando e dichiarando fuori legge (prima proscrizione) tutti gli
oppositori politici, offrendo ricompense a chi li avesse uccisi. I più colpiti
furono i cavalieri, che erano sempre stati ostili a Silla e che presero potere
grazie alla riforma del proletariato: ne furono uccisi 2.600 e i loro beni,
messi all'asta a prezzi irrisori, finirono nelle tasche dei Sillani. Il
giovane Gaio Giulio Cesare, come genero di Cinna, fu costretto ad abbandonare
precipitosamente la città, ma ebbe salva la vita grazie all'intercessione di
alcuni amici influenti, soprattutto della cugina Cornelia, figlia di Silla, e
del marito di lei Mamerco Emilio Lepido, princeps senatus. Silla annotò poi
nelle proprie memorie di essersi pentito di averlo risparmiato ("e sia, lo
risparmierò, ma vi avverto, in lui vedo mille volte Mario", frase citata
in Svetonio, Vita di Cesare, edizioni Laterza), viste le ben note ambizioni
politiche del giovane. Una vittima delle sue proscrizioni, con una morte
particolarmente violenta e crudele fu Marco Mario Gratidiano, del quale si
racconta che fosse decapitato da suo cognato Catilina anche se, in un frammento
delle Storie, Sallustio non menziona Catilina nel descrivere la morte: a
Gratidiano, dice, «la vita era sfuggita da lui pezzo per pezzo: le gambe e le
braccia gli sono state spezzate e gli occhi cavati». La circostanza che
l'uccisione avvenisse presso la tomba di Catulo ha fatto pensare gli storici
che si trattasse non di una semplice crudele vendetta ma di un vero e proprio
sacrificio umano rituale per pacificare un antenato morto, riprendendo l'uso di
sacrifici umani a Roma, documentati in tempi storici da Andrew Lintott, seppure
da 15 anni fossero stati vietati. Il nuovo ordine Ormai rimasto senza
vere opposizioni, Silla attuò una serie di riforme tese a mettere il controllo
dello Stato saldamente nelle mani del Senato, allargato per l'occasione da 300
a 600 senatori. La nomina a senatore fu resa, inoltre, automatica al
raggiungimento della carica di questore, mentre prima era demandata alla scelta
dei censori. Per evitare l'accumulo di poteri si stabilì un limite minimo di
età per le varie magistrature: trent'anni per i questori, quaranta per i
pretori, ecc. Il potere dei tribuni della plebe fu inoltre fortemente
ridimensionato: le loro proposte dovevano essere approvate preventivamente dal
Senato e il loro diritto di veto limitato. Il potere giudiziario fu restituito
al Senato, sia per i reati più gravi sia per le cause di corruzione che la
riforma graccana aveva demandato ai cavalieri. In definitiva tutte le sue
azioni erano animate dall'intento di restituire al partito aristocratico il
controllo della città. Introdusse inoltre la legge per cui i vincitori di
corone militari di grado pari o superiore alla civica sarebbero stati ammessi
di diritto in senato indipendentemente dall'età, questo fu il motivo per cui
Gaio Giulio Cesare all'età di vent'anni ebbe accesso al Senato. Il ritiro
dalla vita politica Cronologia Vita di Lucio Cornelio Silla Nasce a Roma a.C.nominato questore di Gaio Mario fine
della Guerra Giugurtina legatus di Mario nella Gallia Ulteriore legatus di
Quinto Lutazio Catulo nella Gallia Ulteriore sconfigge i Cimbri nella Battaglia
dei Campi Raudii (Vercelli) eletto pretore urbano governatore della Cilicia comandante
nelle Guerre Sociali consolato insieme a Quinto Pompeo Rufo e successiva
occupazione di Roma e messa fuori legge di Mario spedizione in Medio Oriente
contro Mitridate VI del Ponto .messo fuori legge da Mario ritorna a Roma e la
occupa con la forza per la seconda volta eletto dittatore consolato insieme a
Quinto Cecilio Metello Pio 79 a.C.si dimette dal consolato e si ritira a vita
privata muore per cause naturali in Campania nella sua villa di Cuma Nella sua
veste di dittatore a vita Silla venne eletto console per la seconda volta
Cresceva intanto l'insofferenza verso gli eccessi compiuti dai suoi uomini. Un
suo liberto fu denunciato in un processo, e sconfitto grazie alle arringhe del
giovane Cicerone. Silla, sorprendendo tutti, l'anno successivo decise di
abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con
l'intento di accingersi a scrivere le proprie memorie e riflessioni.
Quando si ritirò a vita privata, pare che attraversando la folla sbigottita uno
dei passanti si mise a ingiuriarlo. Silla si limitò a rispondergli, beffardo:
«Avresti avuto lo stesso coraggio a dirmi queste cose quando ero al potere?. E
alla fine, personaggio dall'indole spietata e ironica allo stesso tempo,
confidò ad uno dei suoi amici: «Imbecille! Dopo questo gesto, non ci sarà
più alcun dittatore al mondo disposto ad abbandonare il potere]» Plutarco
nelle Vite parallele lo rappresenta come il vizio, narrando che fosse
circondato da una variopinta corte di attori, ballerini e prostitute, fra cui
un certo Metrobio, e che gli dei per punizione lo fecero ammalare di lebbra.
Dopo aver terminato le sue riforme, si ritirò a vita privata. In compagnia di
questa allegra brigata, Sulla Felix fino all'ultimo respiro, morì probabilmente
di cancro. Lasciò vedova e incinta la sua ultima moglie, Valeria Messalla, che
qualche mese dopo partorì una figlia, Cornelia Postuma. Com'era allora
d'uso presso i potenti di Roma, lui stesso dettò l'epitaffio che aveva voluto
s'incidesse sul suo monumento funebre: Nessun amico mi ha reso servigio,
nessun nemico mi ha recato offesa, che io non abbia ripagati in pieno.»
Conseguenze dell'operato politico di Silla I problemi politici e sociali che avevano
portato alla guerra civile non erano però affatto risolti. Silla aveva
ristabilito l'ordine oligarchico in virtù della forza derivatagli dagli
eserciti, al cui appoggio avrebbero ricorso sia i sostenitori sia gli avversari
del nuovo corso da lui instaurato. Da Silla in poi la vita politica e civile
dello Stato fu perciò condizionata pesantemente dall'elemento militare:
disporre di un esercito da usare contro gli avversari e, se si rivelasse
necessario, contro le stesse istituzioni romane, divenne l'obiettivo principale
dei più ambiziosi capi politici che aspiravano al potere. Il sistema
costituzionale romano uscì distrutto dalla guerra civile. E l'esempio di Silla
trovò presto un imitatore d'eccezione proprio in un uomo che aveva idee opposte
alle sue: Giulio Cesare. Matrimoni e discendenza Silla si sposò cinque
volte: Giulia, chiamata anche Ilia. Probabilmente una parente di Giulio Cesare,
si sposarono e lei morì., probabilmente di parto. Ebbero una figlia e un
figlio: Cornelia, che fu madre di Pompea Silla, terza moglie di Giulio Cesare.
Lucio Cornelio Silla, che morì giovane. Elia, da cui non ebbe figli. Clelia, da
cui divorziò con l'accusa di sterilità. Cecilia Metella Dalmatica. Si sposarono.
Ebbero due figli e una figlia: Fausto Cornelio Silla. Gemello di Fausta,
questore Fausta Cornelia. Gemella di Fausto, madre di Gaio Memmio, console
suffetto Lucio Cornelio Silla. Morì giovane poco prima della madre.Valeria
Messalla. Si sposarono e fu l'ultima moglie di Silla, che morì nello stesso
anno. Ebbero una figlia: Cornelia Postuma. Nata alcuni mesi dopo la morte del
padre, si presume sia morta prima dell'età da matrimonio. Note Esplicative ^
Chiamata anche Ilia Le figure di Giulia/Ilia ed Elia potrebbero
coincidere (vd. infra). Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard; contra Keaveney,
secondo il quale deriverebbe da sura, «polpaccio»; cfr. Quintiliano, Inst.).
Noto anche semplicemente come Silla, nome che probabilmente deriva dalla
corruzione della grafia originaria del suo cognome (SVILLA). Il cognome
aggiuntivo (in latino agnomen) Felix fu aggiunto quando già era al termine
della carriera, a motivo della sua quasi leggendaria fortuna come condottiero.
Plutarco, Sull., 1, 1; Sallustio, Iug., Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard;
Telford, Brizzi; Hinard Brizzi Livio, Brizzi; Hinard Hinard; Telford, Livio Brizzi;
Hinard; Keaveney Brizzi; Hinard; Appiano, Mith. Plutarco, Sull.; Brizzi;
Hinard; Keaveney Per maggior informazioni sul busto e la sua storia si rimanda
ai seguenti link: The General Publius Cornelius Scipio Africanus?, su
ancientrome.ru. The General Publius Cornelius Scipio Africanus?, su
ancientrome.ru. Keaveney Hinard Sallustio, Iug., Hinar; Keaveney Brizzi;
Keaveney Brizzi; Hinard, suppone anche la partecipazione a un'associazione
bacchica; Keaveney Brizzi; Hinard; Keaveney Plutarco, Sull., Brizzi; Hinard;
Keaveney Telford, Brizzi; Hinard Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard Hinard Plutarco,
Sull.; Hinard 2003, p. 21; Keaveney Sheldon Livio, Periochae ab Urbe condita
Piganiol Brizzi, Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, Bologna Livio,
Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche Plutarco, Vita di
Silla, Appiano, Guerre mitridatiche Appiano, Guerre mitridatiche, Appiano,
Guerre mitridatiche, Plutarco, Vita di Silla, Floro, Compendio di Tito Livio, Livio,
Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche, Plutarco, Vita di
Silla, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Plutarco, Vita di Silla Appiano,
Guerre mitridatiche, Appiano, Guerre mitridatiche, Livio, Periochae ab Urbe
condita libri, Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Velleio Patercolo,
Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, Livio, Periochae ab Urbe condita
libri, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche Velleio
Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, Per ulteriori
informazioni: ancientrome.ru/art/artworken/img. La carica di dittatore non era
stata ricoperta da alcun politico romano l'ultimo dittatore era stato Gaio
Servilio Gemino. Appiano, Guerre civili Lucio Cornelio Silla, romanoimpero. In
principio ci fu Silla. È noto che egli fu modello a Cesare per tanti aspetti
del suo agire, dall’uso spregiudicato di un esercito ormai politicizzato alla
marcia su Roma, dalla dittatura (sia pure a tempo indeterminato, e non
perpetua) al mantenimento dell’immissione dei neocittadini italici in tutte le
tribù; così, anche in campo storiografico è difficile concepire la genesi dei
commentarii di Cesare senza il precedente sillano": Zecchini Giuseppe,
Cesare: commentarii, historiae, vitae, Aevum: rassegna di scienze storiche,
linguistiche e filologiche: Milano: Vita e Pensiero, Plutarco, Vita di Silla
Dufallo, Basil John Ciceronian oratory and the ghosts of the past. University
of Michigan: UCLA. Bibliografia Fonti antiche Appiano, Guerre civili, in Storia
romana (versione inglese) Appiano, Guerre mitridatiche, in Storia romana.(QUI
la versione inglese Internet Archive. Dione Cassio, Storia romana. versione
inglese. Floro, Flori Epitomae Liber primus (testo latino) . Tito Livio, Ab
Urbe condita libri, Periochae (testo latino) . Tito Livio, Periochae (testo
latino), in Ab Urbe condita libri Plutarco, Vita di Silla, in Vite parallele.
QUI la versione inglese Plutarco, Le Vite parallele di Plutarco, volgarizzate
da Marcello Adriani il Giovane, a cura di Francesco Cerroti e Giuseppe Cugnoni,
traduzione di Marcello Adriani il Giovane, III, Firenze, Le Monnier, Plutarco,
Lisandro; Silla, introduzione di Luciano Canfora, traduzione e note di
Federicomaria Muccioli (per Lisandro), introduzione di Arthur Keaveney,
traduzione e note di Lucia Ghilli (per Silla), con contributi di Barbara
Scardigli e Mario Manfredini, Milano, BUR. Quintiliano, Institutio oratoria.
Sallustio, Bellum Iugurthinum. Strabone, Geografia, XII. QUI la versione
inglese Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri QUI la
versione latina. Velleio Patercolo, Historiae Romanae Ad M. Vinicium Libri Duo
(testo latino) .QUI la versione inglese. Fonti storiografiche moderne Giuseppe
Antonelli, Mitridate, il nemico mortale di Roma. La vicenda umana e politica
del principe orientale che ha avuto il coraggio di opporsi all'imperialismo di
Roma, Roma, Newton Compton, Ernst Badian, Lucius Sulla: The Deadly Reformer,
Sydney, University Press, Giovanni Brizzi, Storia di Roma, I: Dalle origini ad
Azio, Bologna, Patron, Giovanni Brizzi, Silla, prefazione di François Hinard,
Roma, Rai-ERI, Jérôme Carcopino, Silla o la monarchia mancata, traduzione di
Anna Rossi Cattabiani, introduzione di Mario Attilio Levi, consulenza storica
di Federico Ceruti, Milano, Rusconi, Hinard, Silla, traduzione di Anna Rosa
Gumina, Il Giornale, Roma, Salerno, Keaveney, Silla, traduzione di Katia
Gordini, Milano, Bompiani, André Piganiol, Le conquiste dei Romani, traduzione
di Filippo Coarelli, Milano, Il Saggiatore, Rose Mary Sheldon, Le guerre di
Roma contro i Parti, Traduzione dall'inglese di Pasquale Faccia, Gorizia, LEG,
Lynda Telford, Sulla: A Dictator Reconsidered, Pen & Sword, Voci correlate
Catilina Gens Cornelia Console romano Dittatore romano Pretore (storia romana)
Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Lucio
Cornelio Silla Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Mario Attilio Levi, SILLA, Lucio Cornelio, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Silla, Lucio Cornelio, in Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ernesto Valgiglio, Sulla, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Ernesto Valgiglio,
Sulla, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Lucio
Cornelio Silla, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Lucio
Cornelio Silla / Lucio Cornelio Silla (altra versione), su Goodreads.
luciuscorneliussylla.fr, su luciuscorneliussylla Estratti dal libro di Carcopino su Silla, su
ilpalo L. Cornelius Sulla, Sylla, su noctes-gallicanae.org. Mario e Silla, su
janusquirinus.org. Predecessore Console romano Successore Gneo Pompeo Strabone,
Lucio Porcio Catone con Quinto Pompeo Rufo Lucio Cornelio Cinna I, Gneo
OttavioI Gneo Cornelio Dolabella, Marco Tullio Decula80 a.C. con Quinto Cecilio
Metello Pio Appio Claudio Pulcro, Publio Servilio Vatia IsauricoII V D M
Plutarco Antica Roma Portale Biografie Portale
Ellenismo Portale Storia Categorie: Militari romaniMilitari del II
secolo a.C.Militari Romani del II secolo a.C.Romani Morti Nati a Roma Morti a
Cuma Lucio Cornelio Silla Consoli repubblicani romani Dittatori romaniSenatori
romani Cornelii Auguri Tresviri monetales Governatori romani dell'AsiaPersone
delle guerre mitridatiche [altre] Gamerra Mozart, Attori ATTORI Lucio
SILLA, dittatore TENORE GIUNIA, figlia di Cajo Mario, e promessa sposa di
SOPRANO CECILIO, senatore proscritto SOPRANO Lucio CINNA, patrizio romano amico
di Cecilio, e nemico occulto di Lucio Silla SOPRANO CELIA, sorella di Lucio
Silla SOPRANO AUFIDIO, tribuno amico di Lucio Silla TENORE Guardie. Senatori,
Nobili, Soldati, Popolo, Donzelle. La scena è in Roma nel palazzo di L. Silla,
e ne' luoghi contigui al medesimo. Altezze reali Lucio Silla Altezze reali Non
ommetteremmo la possibile diligenza per sperare, che il presente
spettacolo rimeritar possa il generoso gradimento delle aa. vv. rr. Degnatevi
perciò di riguardarlo con quella benignità, di cui ne abbiamo tante prove, ed
animati da tal lusinga con profondissimo ossequio ci protestiamo di aa. vv. rr.
divotiss. obbligatiss. servitori Gli associati nel Regioducal teatro. Gamerra
/Moza Argomento Son note nell'istoria le inimicizie di Lucio Silla, e di Mario.
È palese altresì il modo con cui il primo trionfò del suo emulo. Non può a
Silla negarsi il vanto di gran guerriero felice in tutte le sue marziali
intraprese. Ma co' la crudeltà, coll'avarizia, co' la volubilità, e co' le
dissolutezze adombrò la gloria del proprio valore. I molti suoi amori lo
caratterizzarono per uomo celebre nella galanteria, quanto glorioso nell'armi,
e questa inclinazione, come ci assicura Plutarco, gli fu compagna fino nell'età
sua più avanzata. Lucio Cinna, da esso innalzato a sommi onori co' la promessa
di secondarlo, e d'assisterlo, celò poi contro di lui sotto le sembianze
dell'amicizia un odio il più implacabile. Aufidio tribuno, menzognero
adulatore, fu quello, che precipitar facea Silla negl'eccessi i più vergognosi.
Fra l'incostanza, l'avarizia, e la crudeltà, che lo dominavano, era soggetto
talora a quei rimorsi, che non si allontanano da un core, in cui per anche non
si sono affatto estinti i lumi della ragione, e gl'impulsi della virtù. Odioso
a tutta Roma lo resero le stragi, l'usurpatasi dittatura, la proscrizione, e la
morte di tanti cittadini, ma degna fu d'ogni encomio la volontaria sua
abdicazione, per
cui cedette le insegne di dittatore,
richiamando in Roma tutti
i proscritti, e anteponendo
all'impero, e alle grandezze la tranquillità d'una
oscura vita privata. Dall'istoria non meno rilevasi, che la famiglia dei
Cecili fu sempre affezionatissima al partito di Caio Mario. (Plutarco in Syll.)
Da tali istorici fondamenti è tratta l'azione di questo dramma, la quale è per
verità fra le più grandi, come ha sensatamente osservato il sempre celeste, e
inimitabile sig. abate Pietro Metastasio, che co' la sua rara affabilità s'è
degnato d'onorare il presente drammatico componimento d'una pienissima
approvazione. Allorché questa proviene dalla meditazion profonda, e dalla
lunga, e gloriosa esperienza dell'unico maestro dell'arte, esser deve ad un
giovane autore il maggior d'ogni elogio. Atto primo Lucio Silla ATTO PRIMO
[Ouverture] Molto allegro (re maggiore) / Andante (la maggiore) Archi, 2 oboe,
2 corni, 2 trombe, timpani. Scena prima Solitario recinto sparso di molti
alberi con rovine d'edifizi diroccati. Riva del Tebro. In distanza veduta del monte
Quirinale con piccolo tempio in cima. Cecilio, indi Cinna. Recitativo CECILIO
Ah ciel, l'amico Cinna qui attendo invan. L'impazienza mia cresce nel suo
ritardo. Oh come mai è penoso ogn'istante al core uman se pende fra la speme, e
il timor! I dubbi miei... ma non m'inganno. Ei vien. Lode agli dèi. CINNA
Cecilio, oh con qual gioia pur ti riveggio! Ah lascia, che un pegno io t'offra
or che son lieto appieno, d'amistate, e d'affetto in questo seno. CECILIO
Quanto la tua venuta accelerò coi voti l'inquieta alma mia. Quai non produsse
la tua tardanza in lei smanie, e spaventi, e quali immagini funeste s'affollano
al pensier. L'alma agitata s'affanna, si confonde... CINNA Il mio ritardo altro
motivo asconde. Tutto da me saprai. CECILIO Deh non t'offenda l'impazienza
mia... Giunia, la cara, la fida sposa è sempre tutt'amor, tutta fé? Que' dolci
affetti, ch'un tempo mi giurò, rammenta adesso? È 'l suo tenero core anche
l'istesso? CINNA Ella estinto ti piange... 6 / 52 www.librettidopera.it G. De
Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto primo CECILIO Ah come?... Ah dimmi! Dimmi: e
chi tal menzogna osò d'immaginar? CINNA L'arte di Silla per trionfar del di lei
fido amore. CECILIO A consolar si voli il suo dolore. (in atto di partire)
CINNA Deh, t'arresta. E non sai, che 'l tuo ritorno è così gran delitto, che
guida a morte un cittadin proscritto? CECILIO Per serbarmi una vita, ch'odio
senza di lei, dunque lasciar potrei la sposa in preda a un ingiusto, a un
crudel? CINNA M'ascolta. E dove, di riveder tu speri la tua Giunia fedel? nel
proprio tetto Silla la trasse... CECILIO E Cinna ozioso spettator soffrì?...
CINNA Che mai solo tentar potea? Pur troppo è vano il contrastar con chi ha la
forza in mano. CECILIO Dunque, nemici dèi di riveder la sposa più sperar non
poss'io? CINNA M'odi. Non lungi da questa ignota parte il tacito recinto ergesi
al ciel, che nelle mute soglie de' trapassati eroi le tombe accoglie. CECILIO
Che far degg'io? CINNA Passarvi per quel sentiero ascoso, che fra l'ampie
rovine a lui ne guida. CECILIO E colà che sperar? CINNA Sai che confina col
palazzo di Silla. In lui sovente da' fidi suoi seguita fra 'l dì Giunia vi
scende. Ivi sovente alla mest'urna accanto del genitor, la suol bagnar di
pianto. Continua nella pagina seguente. Atto primo Lucio Silla CINNA Sorprenderla
potrai. Potrai nel seno farle destar la speme, che già s'estinse, e consolarvi
insieme. CECILIO Oh me beato! CINNA Altrove co' molti amici in tua difesa uniti
frattanto io veglierò. Gli dèi oggi render sapran dopo una lunga vil servitù
penosa la libertà a Roma, a te la sposa. [N. 1 Aria] Allegro (si bemolle
maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CINNA Vieni ov'amor t'invita vieni,
che già mi sento del tuo vicin contento gli alti presagi in sen. Non è sempre
il mar cruccioso, non è sempre il ciel turbato, ride alfin, lieto e placato fra
la calma, ed il seren. (parte) Scena seconda Cecilio solo. Recitativo
accompagnato Andante (sol maggiore) / Allegro / Andantino / Allegro / Adagio
Archi. CECILIO Dunque sperar poss'io di pascer gli occhi miei nel dolce idolo
mio? Già mi figuro la sua sorpresa, il suo piacer. Già sento suonarmi intorno i
nomi di mio sposo, mia vita. Il cor nel seno col palpitar mi parla de' teneri
trasporti, e mi predice... Oh ciel sol fra me stesso qui di gioia deliro, e non
m'affretto la sposa ad abbracciar? Ah forse adesso sul morir mio delusa priva
d'ogni speranza, e di consiglio lagrime di dolor versa dal ciglio! 8 / 52
www.librettidopera.it Gamerra / Mozart, 1772 Atto primo [N. 2 Aria] Allegro
aperto (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CECILIO Il tenero momento premio
di tanto amore già mi dipinge il core fra i dolci suoi pensier. E qual sarà il
contento, ch'al fianco suo m'aspetta, se tanto ora m'alletta l'idea del mio
piacer? Scena terza Appartamenti destinati a Giunia, con statue delle più
celebri donne romane. Silla, Celia, Aufidio, e Guardie. Recitativo SILLA A te
dell'amor mio, del mio riposo Celia, lascio il pensier. Rendi più saggia
l'ostinata di Mario altera figlia. E a non sprezzarmi alfin tu la consiglia.
CELIA German sai, che finora tutto feci per te. Vuò lusingarmi di vederla
cangiar. AUFIDIO Quella superba co' le preghiere, e coi consigli invano sia che
si tenti. Un dittator sprezzato, che da Roma, e dal mondo inter s'ammira,
s'altro non vale, usi la forza, e l'ira. SILLA E la forza userò. La mia
clemenza non mi fruttò che sprezzi, e ingiuriose repulse d'una femmina ingrata.
In questo giorno mi segua all'ara, e paghi renda gli affetti miei. O 'l nuovo
sol non sorgerà per lei. CELIA Ah Silla, ah mio germano per tua cagione io
tremo, se trasportar ti lasci a questo estremo. Pur troppo, ah sì pur troppo la
violenza è spesso madre fatal d'ogni più nero eccesso. Atto primo Lucio Silla
SILLA Da tentar che mi resta, se ostinata colei mi fugge, e sprezza? CELIA
Adoprar tu sol devi arte, e dolcezza. S'è ver, che sul tuo core vantai finor
qualche possanza, ah lascia, che da Giunia me n' corra. Ella fra poco da te verrà.
L'ascolta forse sia che una volta cangi pensier. SILLA Di mia clemenza ancora
prova farò. Giunia s'attenda, e seco, parli lo sposo in me. Ma non s'abusi
dell'amor mio, di mia bontade, e tremi, se Silla alfine inesorabil reso
favellerà da dittatore offeso. CELIA German di me ti fida. Oggi più saggia
Giunia sarà. Finora una segreta speme forse il cor le nutrì. Se cadde estinto
lo sposo suo, più non le resta omai amorosa lusinga. I preghi tuoi cauto
rinnova. Un amator vicino se d'un lontan trionfa, il trionfare d'un amator, che
già di vita è privo, è più agevole impresa a quel, ch'è vivo. [N. 3 Aria]
Grazioso (do maggiore) / Allegretto / Grazioso Archi. CELIA Se lusinghiera
speme pascer non sa gli amanti anche fra i più costanti languisce fedeltà. Quel
cor sì fido e tenero, ah sì quel core istesso così ostinato adesso quel cor si
piegherà. (parte) 10 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart,
1772 Atto primo Scena quarta Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo AUFIDIO
Signor, duolmi vederti ai rifiuti, agl'insulti esposto ancor. Alle preghiere
umili s'abbassi un cor plebeo. Ma Silla, il fiero terror dell'Asia, il vincitor
di Ponto l'arbitro del senato, e che si vide un Mitridate al suo gran piè
sommesso, s'avvilirà d'una donzella appresso? SILLA Non avvilisce amore un
magnanimo core, o se 'l fa vile, infra gli eroi, che le provincie estreme han
debellate, e scosse, un sol non vi saria, che vil non fosse. In questo giorno,
amico, sarà Giunia mia sposa. AUFIDIO Ella sen viene. Mira in quel volto
espresso un ostinato amore, un odio interno, un disperato duolo. SILLA
Ascoltarla vogl'io. Lasciami solo. (Aufidio parte) Scena quinta Silla, Giunia,
e Guardie. SILLA Sempre dovrò vederti lagrimosa e dolente? Il tuo bel ciglio
una sol volta almeno non fia che si rivolga a me sereno? Cielo! tu non
rispondi? Sospiri? ti confondi? ah sì, mi svela perché così penosa t'agiti,
impallidisci, e scansi ad arte d'incontrar gli occhi tuoi negli occhi miei.
GIUNIA Empio, perché sol l'odio mio tu sei. SILLA Ah no, creder non posso, che
a danno mio s'asconda sì fiera crudeltà nel tuo bel core. Hanno i limiti suoi
l'odio, e l'amore. Atto primo Lucio Silla GIUNIA Il mio non già. Quant'amerò lo
sposo, tanto Silla odierò. Se fra gli estinti l'odio giunge, e l'amor, dentro
quest'alma che ad onta tua non cangerà giammai, egli il mio amor, tu l'odio mio
sarai. SILLA Ma dimmi: in che t'offesi per odiarmi così? che non fec'io,
Giunia, per te? La morte il genitor t'invola, ed io ti porgo nelle mie mura
istesse un generoso asilo. Ogni dovere dell'ospitalità qui teco adempio, e pur
segui ad odiarmi, e Silla è un empio? GIUNIA Stender dunque dovrei le braccia
amanti a un nemico del padre? E ti scordasti quanto contro di lui barbaro
oprasti? In doloroso esiglio fra i cittadin più degni languisce, e more alfin
lo sposo mio, e chi n'è la cagione amar degg'io? Per tua pena maggior, di novo
il giuro, amo Cecilio ancor. Rispetto in lui benché morto, la scelta del
genitor. Se l'inuman destino dal fianco mio lo tolse per secondare il tuo
perverso amore ah sì, viverà sempre in questo core. SILLA Amalo pur superba, e
in me detesta un nemico tiranno. Or senti. In faccia di tanti insulti io voglio
tempo lasciarti al pentimento. O scorda un forsennato orgoglio, un inutile
affetto, un odio insano, o a seguir ti prepara nell'Erebo fumante, e tenebroso
l'ombra del genitor, e dello sposo. GIUNIA Coll'aspetto di morte del gran Mario
una figlia presumi d'avvilir? Non avria luogo nell'alma tua la speme ché
oltraggia l'amor mio se provassi, inumano, di che capace è un vero cor romano.
Atto primo SILLA Meglio al tuo rischio, o Giunia, pensa, e risolvi. Ancora un
resto di pietade sol perché t'amo ascolto. Ah sì meglio risolvi... GIUNIA Ho
già risolto. Del genitore estinto ognora io voglio rispettare il comando;
sempre Silla aborrire, sempre adorar lo sposo, e poi morire. [Aria] Andante ma
adagio (mi bemolle maggiore) / Allegro / Adagio / Allegro Archi, 2 oboe, 2
corni, 2 trombe. GIUNIA Dalla sponda tenebrosa vieni o padre, o sposo amato
d'una figlia, e d'una sposa a raccor l'estremo fiato. Ah tu di sdegno, o
barbaro smani fra te, deliri, ma non è questa, o perfido la pena tua maggior.
Io sarò paga allora di non averti accanto, tu resterai frattanto coi tuoi
rimorsi al cor. (parte) Scena sesta Silla, e Guardie. Recitativo SILLA E
tollerare io posso sì temerari oltraggi? A tante offese non si scuote
quest'alma? E che la rese insensata a tal segno? Un dittatore così s'insulta, e
sprezza da folle donna audace?... E pure, oh mio rossor! e pur mi piace!
www.librettidopera.it 13 / 52 Atto primo Lucio Silla Recitativo accompagnato
Allegretto (do maggiore) / Allegro assai Archi. SILLA Mi piace? E il cor di
Silla della sua debolezza non arrossisce ancora? Taccia l'affetto, e la superba
mora. Chi non mi cura amante disdegnoso mi tema. A suo talento crudel mi
chiami. Aborra la mia destra, il mio cor, gli affetti miei, a divenir tiranno
in questo dì comincerò da lei. [N. 5 Aria] Allegro (re maggiore) Archi, 2
oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. SILLA Il desìo di vendetta, e di morte sì
m'infiamma, e sì m'agita il petto, che in quest'alma ogni debole affetto
disprezzato si cangia in furor. Forse nel punto estremo della fatal partita mi
chiederai la vita, ma sarà il pianto inutile, inutile il dolor. Andante (fa
maggiore / la minore) Archi, 2 oboe. Scena settima Luogo sepolcrale molto
oscuro co' monumenti degli eroi di Roma. Cecilio solo. Recitativo accompagnato
Andante (la minore) / Allegro assai / Andante / Presto / Adagio Archi, 2 oboe,
2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CECILIO Morte, morte fatal della tua mano ecco le
prove in queste gelide tombe. Eroi, duci, regnanti che devastar la terra, angusto
marmo or qui ricopre, e serra. Già in cento bocche, e cento dei lor fatti
echeggiò stupito il mondo. E or qui gl'avvolge un muto orror profondo. Continua
nella pagina seguente. Atto primo CECILIO Oh dèi!... chi mai s'appressa?
Giunia... la cara sposa?... Ah non è sola; m'asconderò, ma dove? Oh stelle! in
petto qual palpito!... qual gioia!... e che far deggio? Restar?... partire?...
oh ciel! Dietro a quest'urna a respirar mi celo. (parte) Scena ottava S'avanza
Giunia col séguito di Donzelle, e di Nobili al lugubre canto del seguente: [N.
6 Coro e arioso] Andante mosso (mi bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2
fagotti, 2 corni, 2 trombe. CORO Fuor di queste urne dolenti deh n'uscite alme
onorate, e sdegnose vendicate la romana libertà. Molto Adagio (do minore)
Archi, 2 oboe, 2 fagotti. GIUNIA O del padre ombra diletta se d'intorno a me
t'aggiri, i miei pianti, i miei sospiri deh ti movano a pietà. Allegro (mi
bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CORO Il superbo,
che di Roma stringe i lacci in Campidoglio, rovesciato oggi dal soglio sia
d'esempio ad ogni età. Atto primo Lucio Silla Recitativo accompagnato ... (mi
bemolle maggiore) Archi. GIUNIA Se l'empio Silla, o padre fu sempre l'odio tuo
finché vivesti, perché Giunia è tua figlia, perché il sangue romano ha nelle
vene supplice innanzi all'urna tua sen viene. Tu pure ombra adorata del mio
perduto ben vola, e soccorri la tua sposa fedel. Da te lontana di questa vita
amara odia l'aura funesta... (esce il séguito) Scena nona Cecilio, e detta.
Recitativo CECILIO Eccomi, o cara. GIUNIA Stelle!... io tremo!... che veggio?
Tu sei?... forse vaneggio? Forse una larva, o pur tu stesso? Oh numi!
M'ingannate, o miei lumi?... Ah non so ancor se a questa illusion soave io
m'abbandono!... Dunque... tu sei... CECILIO Il tuo fedele io sono. [N. 7
Duetto] Andante (la maggiore) / Molto allegro Archi, 2 oboe, 2 corni. GIUNIA
D'Eliso in sen m'attendi ombra dell'idol mio, ch'a te ben presto, oh dio fia,
che m'unisca il ciel. CECILIO Sposa adorata, e fida sol nel tuo caro viso
ritrova il dolce Eliso quest'anima fedel. GIUNIA Sposo... oh dèi! tu ancor
respiri? CECILIO Tutto fede, e tutto amor. GIUNIA E CECILIO Fortunati i miei
sospiri, fortunato il mio dolor. GIUNIA Cara speme! Atto primo CECILIO Amato bene.
(si prendon per mano) Insieme GIUNIA Or ch'al mio seno caro tu sei m'insegna il
pianto degl'occhi miei ch'ha le sue lagrime anche il piacer. CECILIO Or ch'al
mio seno cara tu sei m'insegna il pianto degl'occhi miei ch'ha le sue lagrime
anche il piacer. Atto secondo Lucio Silla ATTO SECONDO Scena prima
Portico fregiato di militari trofei. Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo
AUFIDIO Te l' predissi, o signor, che la superba più ostinata saria quanto più
mostri di clemenza, e d'amor? SILLA Poco le resta da insultarmi così. Risolvi
omai. Morir dovrà. L'ho tollerata assai. AUFIDIO L'amico tuo fedele può libero
parlar? SILLA Parla. AUFIDIO Tu sai, ch'eroe non avvi al mondo senza gli emuli
suoi. Gli Emili, e i Scipi n'ebbero anch'essi, e di sue gesta ad onta il
glorioso Silla assai ne conta. SILLA Pur troppo io so. AUFIDIO Tu porgi nella
morte di Giunia a rei nemici l'armi contro di te. D'un Mario è figlia, e questo
Mario ancor ne' propri amici vive a tuo danno. SILLA E che far deggio? AUFIDIO
In faccia al popolo, e al senato sia l'altera tua sposa. Un finto zelo di sopir
gli odi antichi la violenza asconda. Al tuo volere chi s'opporrà? Di numerose
schiere folto stuolo ti cinga. Ognun paventa in te l'eroe, ch'ogni civil
discordia ha soggiogata, e doma e a un sguardo tuo trema il senato, e Roma.
Continua nella pagina seguente. 18 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra /
W. A. Mozart, 1772 Atto secondo AUFIDIO Signor del comun voto t'accerta il tuo
voler. La ragion sempre segue il più forte, e chi fra mille squadre a supplicar
si piega? Vuole, e comanda allorché parla, e prega. SILLA E se l'ingrata ancora
mi sprezza, e mi discaccia al popolo, al senato, a Roma in faccia? Che far
dovrò? AUFIDIO L'altera non s'opporrà. Quell'ostinato core ceder vedrai nel
pubblico consenso del popolo roman. SILLA Seguasi, amico il tuo consiglio. Oh
ciel!... sappi... io ti scopro la debolezza mia. Quando le stragi, le violenze
ad eseguir m'affretto è il cor di Silla in petto da più atroci rimorsi
lacerato, ed oppresso. In quei momenti fieri contrasti io provo. Inorridisco,
voglio, tremo, amo, ed ardisco. AUFIDIO Quest'incostanza tua, lascia, che 'l
dica, i tuoi gran merti oscura. Ogni rimorso della viltade è figlio. Ardito, e
lieto il mio consiglio abbraccia, e suo malgrado la femmina fastosa costretta
venga a divenir tua sposa. [Aria] Allegro (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni,
2 trombe. AUFIDIO Guerrier, che d'un acciaro impallidisce al lampo, a dar non
vada in campo prove di sua viltà. Se or cede a un vil timore, se or cede alla speranza,
e qual sarà incostanza se questa non sarà? (parte) Atto secondo Lucio Silla
Scena seconda Silla, indi Celia, e Guardie. SILLA Ah non mai non credea,
ch'all'uom tra 'l fasto, e le grandezze immerso tanto costasse il divenir
perverso. CELIA Tutto tentai finor. Preghi, promesse, e minacce, e spaventi al
cor di Giunia, sono inutili assalti. Ah mio germano immaginar non puoi come per
te... SILLA So quel, che dir mi vuoi. Silla non è men grato a chi per lui anche
inutil s'adopra. In man del caso se pende ogni successo, il proprio merto,
all'opere non scema contrario evento. In questo dì mia sposa Giunia sarà. CELIA
Giunia tua sposa? SILLA Il come non ricercar. Ti basti, che pago io sia. CELIA
Perché l'arcan mi celi, e perché non rischiari un favellar sì oscuro? SILLA
(Perché in donna un arcano è mal sicuro.) Il mio silenzio or non ti spiaccia, e
m'odi. Te pur sposa di Cinna in questo giorno io bramo. CELIA (Oh me felice!)
Lascia, ah lascia, ch' a Cinna, il tuo fido amico io rechi così lieta novella.
Il labbro mio gli sveli alfin, ch'ei solo è il mio tesoro, e che ognor l'adorai
come l'adoro. (parte) SILLA Ad affrettar si vada in Campidoglio la meditata
impresa, e la più ascosa arte s'adopri, onde la mia nemica al talamo mi segua.
Ah sì conosco, ch'ad ogni prezzo io deggio il possesso acquistar della sua
mano. Rimorsi miei vi ridestate invano. (parte con le guardie) Atto secondo
Scena terza Cecilio senz'elmo, senza mento, e con spada nuda, che vuole
inseguir Silla, e Cinna, che lo trattiene. CINNA Qual furor ti trasporta?
CECILIO Il braccio mio non ritener. Su' passi del tiranno si voli. Il nudo
acciaro gli squarci il sen... (in atto di partire) CINNA T'arresta. Ma donde
nasce questa improvvisa ira tua? CECILIO Saper ti basti, che prolungar non
deggio un sol momento il colpo... CINNA E il tuo periglio? CECILIO Non lo temo,
e disprezzo ogni consiglio. CINNA Ah per pietà m'ascolta... svelami... dimmi...
oh ciel! Que' tronchi accenti... que' furiosi sguardi... le disperate smanie
tue... gli sforzi d'involarti da me... l'esporti ardito a un cimento fatal...
Mille sospetti mi fan nascere in sen. Parla. Rispondi... CECILIO Tutto
saprai... CINNA No, non sarà giammai, ch' io ti lasci partir. CECILIO Perché
ritardi la vendetta comun? CINNA Sol perché bramo che dubbiosa non sia. CECILIO
Dubbiosa non sarà. CINNA Dunque tu vuoi per un ardire intempestivo, e vano
troncare il fil di tutti i meditati disegni miei? Giunia rivedi, e quando amar
per lei di più devi la vita incauto corri ad un'impresa ardita? Più non tacer.
Mi svela chi furioso a segno tal ti rende? Atto secondo Lucio Silla CECILIO
L'orrida rimembranza in cor m'accende novi stimoli all'ira. Odi, e stupisci.
Poiché quest'alma oppressa della mia sposa al fianco trovò dolce conforto alla
sua pena, dal luogo tenebroso allontanati appena aveva Giunia i suoi passi, un
legger sonno m'avvolse i lumi. Oh cielo! D'orrore ancor ne gelo! Ecco mi sembra
spalancata mirar la fredda tomba, in cui l'estinte membra giaccion di Mario. In
me le cavernose luci raccoglie, e 'l teschio per tre volte crollando
disdegnoso, e feroce sento, che sì mi grida in fioca voce: «Cecilio a che
t'arresti presso la tomba mia? Vanne, ed affretta della comun vendetta il
bramato momento. Ozioso al fianco più l'acciar non ti penda. Ah se ritardi
l'opra a compir, che l'ombra invendicata di Mario oggi t'impone, e ti
consiglia, tu perderai la sposa, ed io la figlia.» Recitativo accompagnato
Allegro assai (re minore) / Presto Archi. CECILIO Al fiero suon de' minacciosi
accenti l'alma si scosse. Il sonno da sbigottiti lumi s'allontanò. M'accese
improvviso furor. Strinsi l'acciaro, né il rimorso piede io più ritenni, ma 'l
reo tiranno a trucidar qua venni. Ah più non m'arrestar... CINNA Ferma. Per
poco dell'ira tua raffrena i feroci trasporti. Ah sei perduto, se in te Silla
s'avvien... 22 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772
Atto secondo CECILIO Paventar deggio d'un tiranno gli sguardi? Un'altra mano
trucidarlo dovrà? Non mai. Mi veggio intorno ognor la bieca ombra di Mario a
ricercar vendetta; e degl'accenti suoi ad ogn'istante or ch'al tuo fianco io
sono mi rimbomba all'orecchie il fiero suono. Lasciami... CINNA Ah se disprezzi
tanto i perigli tuoi, deh pensa almeno, che dalla vita tua pende la vita d'una
sposa fedele. Oh stelle! E come per così cari giorni... CECILIO Oh Giunia!...
oh nome!... Il sol pensiero, amico che perderla potrei, del mio furore
ogn'impeto disarma. Ah corri, vola per me svena il tiranno... Oh numi, e
intanto al mio nemico accanto resta la sposa?... ahimè!... chi la difende... ma
s'ei qui giunge?... Oh dio! Qual fier contrasto, qual pena, eterni dèi! Timore,
affanno, ira, speme, e furor sento in seno, né so di lor chi vincerà! che
penso? E non risolvo ancora? Giunia si salvi, o al fianco suo si mora. [N. 9
Aria] Allegro assai (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani.
CECILIO Quest'improvviso tremito che in sen di più s'avanza, non so se sia
speranza, non so se sia furor. Ma fra suoi moti interni fra le mie smanie
estreme, o sia furore, o speme, paventi il traditor. (parte)
www.librettidopera.it 23 / 52 Atto secondo Lucio Silla Scena quarta Cinna, indi
Celia. Recitativo CINNA Ah sì, s'affretti il colpo. Il ciel d'un empio se il
castigo prolunga, attenderassi, che de' tarquini in lui gli scellerati eccessi sian
rinnovati a nostri tempi istessi? CELIA Qual ti siede sul ciglio cura
affannosa? CINNA Altrove Celia, passar degg'io. Non m'arrestare... CELIA E
ognor mi fuggi? CINNA Addio. CELIA Per un istante solo m'ascolta, e partirai.
CINNA Che brami? CELIA (Oh dèi! Parlar non posso, e favellar vorrei.) Sappi,
che il mio german... CINNA Parla. CELIA Desìa... (Ah mi confondo, e temo, che
non mi ami il crudel.) Sì, sappi... (Oh stelle! In faccia a lui che adoro
perché mi perdo? Oggi sarà mio sposo, e svelargli non oso?...) CINNA Io non
intendo i tronchi accenti tuoi. CELIA (Finge l'ingrato!) Or che dubbiosa io
taccio non ti favella in seno il cor per me? Che dir poss'io? Pur troppo ne'
languidi miei rai questo silenzio mio ti parla assai. Atto secondo [Aria] Tempo
grazioso (sol maggiore) Archi, 2 flauti. CELIA Se il labbro timido scoprir non
osa la fiamma ascosa per lui ti parlino queste pupille per lui ti svelino tutto
il mio cor. (parte) Scena quinta Cinna, indi Giunia. Recitativo CINNA Di
piegarsi capace a un'amorosa debolezza l'alma non fu di Cinna ancor. Ma se da
folle s'avvilisse così, no, non avria la germana d'un empio usurpatore il
tributo primier di questo core. Giunia s'appressa. Ah ch'ella può soltanto la
grand'opra compir, che volgo in mente. Agitata, e dolente immersa sembra fra
torbidi pensier. GIUNIA Silla m'impone che al popolo, e al senato io mi
presenti; l'empio che può voler? Sai ciò, che tenti? CINNA Forse più, che non
credi è la morte di Silla oggi vicina per vendicar la libertà latina. GIUNIA
Tutto dal ciel pietoso dunque speriam. Ma intanto alla tua cura io lascio
l'amato sposo mio. Deh se ti deggio il piacer di mirarlo, poiché lo piansi
estinto, ah sì per lui veglia, t'adopra, e resti al tiranno nascoso.
www.librettidopera.it 25 / 52 Atto secondo Lucio Silla CINNA A me t'affida, non
paventar su' giorni suoi. M'ascolta, ai padri in faccia e al popolo romano
Silla sai ciò, che vuol? Vuol la tua mano. Con il consenso lor la violenza
giustificar pretende. Il suo disegno tutto, o Giunia, io prevedo. GIUNIA Io son
la sola arbitra di me stessa. A un vil timore ceda il senato pur, non questo
core. CINNA Da te, se vuoi, dipende Giunia un gran colpo. GIUNIA E che far
posso? CINNA Al letto segui l'empio tiranno ove t'invita, ma in quello per tua
man lasci la vita. GIUNIA Stelle! che dici mai? Giunia potria con tradimento
vil?... CINNA Folle timore. Deh sovvienti, che ognora fu l'eccidio de' rei un
spettacolo grato a' sommi dèi. GIUNIA S'è d'un plebeo pur sacra fra noi la
vita, e come vuoi, che in sen non mi scenda un freddo orrore nel trafiggere io
stessa un dittatore? Benché tiranno, e ingiusto, sempre al senato, e a Roma
Silla presiede, e di sua morte invano farmi rea tu presumi. Vittima ei sia, ma
della man dei numi. CINNA Se d'offender gli dèi avesse un dì temuto la libertà
non dovria Roma a Bruto. GIUNIA Ma Bruto in campo armato, non con una viltade
della latina libertade infranse la catena servil. No, non fia mai ch'a' dì
futuri passi il nome mio macchiato d'un tradimento vil. Serbami, amico, serbami
il caro ben. Deh sol tu pensa alla salvezza sua. Della vendetta al ciel lascia
il pensier. Atto secondo Recitativo accompagnato Allegro (si bemolle maggiore)
/ Andante Archi. GIUNIA Vanne. T'affretta. Forse lungi da te potria lo sposo
per un soverchio ardir... l'impetuosa alma sua ben conosci. Ah, per pietade,
fa', che rimanga ad ogni sguardo ascoso. Digli, che se m'adora; digli che se
m'è fido serbi i miei ne' suoi giorni. A te l'affido. [Aria] Allegro (si
bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. GIUNIA Ah se il crudel
periglio del caro ben rammento tutto mi fa spavento tutto gelar mi fa. Se per
sì cara vita non veglia l'amistà da chi sperare aita da chi sperar pietà?
(parte) Scena sesta Cinna solo. Recitativo accompagnato Vivace (re maggiore)
Archi. CINNA Ah sì, scuotasi omai l'indegno giogo. Assai si morse il fren di
servitù tiranna. Se di svenar ricusa Giunia quell'empio, un braccio non
mancherà, che timoroso meno il ferro micidial l'immerga in seno. Atto secondo
Lucio Silla [N. 12 Aria] Molto allegro (fa maggiore) Archi. CINNA Nel
fortunato istante, ch'ei già co' voti affretta per la comun vendetta vuò, che
mi spiri al piè. Già va una destra altera del colpo suo felice e questa destra
ultrice lungi da lui non è. (parte) Scena settima Orti pensili. Silla, Aufidio,
e Guardie. Recitativo AUFIDIO Signor, ai cenni tuoi il senato fia pronto. Egli
fra poco t'ascolterà. D'elette squadre intorno numerosa corona ad arte io
disporrò. SILLA L'amico Cinna non ignori l'arcano. Il suo soccorso è necessario
all'opra. Ah che me stesso più non ritrovo in me! Dov'io mi volga della crudel
l'immagine gradita mi dipinge il pensier. Mi suona ognora il caro nome suo fra
i labbri miei, e tutto parla a questo cor di lei. AUFIDIO Io già ti vedo al
colmo di tua felicità. Della possanza usa, che 'l ciel ti diè. Roma, il senato,
e ogn'anima orgogliosa or che lo puoi fa', che pieghin la fronte a' piedi tuoi.
(parte) Atto secondo SILLA Ah sì, di civil sangue inonderò le vie, se Roma
altera alle brame di Silla, oggi s'oppone; ho nel braccio, ho nel cor la mia
ragione. Giunia?... Qual vista! In sì bel volto io scuso la debolezza mia... ma
tanti oltraggi? Ah che in vederla, oh dèi! il dittatore offeso io più non sono;
de' suoi sprezzi mi scordo, e le perdono. Scena ottava Giunia, Silla, e
Guardie. GIUNIA (Silla? L'odiato aspetto destami orror. Si fugga!) SILLA
Arresta il passo. Sentimi per pietade. Il più infelice d'ogni mortal mi rendi,
se nemica mi fuggi... GIUNIA E che pretendi? Scostati, traditor! (Tremo,
m'affanno per l'idol mio!) SILLA Ah no, non son tiranno come tu credi. È
l'anima di Silla capace di virtù. Quel tuo bel ciglio soffrir più non poss'io
così severo... GIUNIA Tu di virtù capace? Ah, menzognero! (in atto di partire)
SILLA Sentimi... GIUNIA Non t'ascolto. SILLA E vuoi... GIUNIA Sì voglio
detestarti, e morir. SILLA Morir? GIUNIA La morte romano cor non teme. SILLA E
puoi?... GIUNIA Sì posso pria d'amarti, morir. Vanne, t'invola... SILLA
Superba, morirai, ma non già sola. Atto secondo Lucio Silla [N. 13 Aria]
Allegro assai (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. SILLA
D'ogni pietà mi spoglio perfida donna audace; se di morir ti piace
quell'ostinato orgoglio presto tremar vedrò. (Ma il cor mi palpita... perder
chi adoro?... svenare barbaro, il mio tesoro?...) Che dissi? Ho l'anima vile a
tal segno? Smanio di sdegno; morir tu brami, crudel mi chiami, tremane, o
perfida, crudel sarò. (parte con le guardie) Scena nona Giunia, indi Cecilio.
Recitativo GIUNIA Che intesi, eterni dèi? Qual mai funesto e spaventoso arcan
ne' detti suoi? Sola non morirò? Che dir mi vuoi barbaro... ahimè! Che vedo?...
lo sposo mio?... che fu?... che avvenne?... Ah dove sconsigliato t'inoltri? In
queste mura sai, che non è sicura la tua vita, e non temi di respirar
quest'aure comuni a' tuoi nemici? In quest'istante il tiranno partì. Tremo...
deh, fuggi... Ah se dell'empio il ciglio... CECILIO Giunia, il tuo rischio è 'l
mio maggior periglio. GIUNIA Deh per pietà, se mi ami, torna, mio bene, ah
torna nel tenebroso asilo. Il rimirarti qual martirio è per me! CECILIO Non
amareggi il tuo spavento, o cara, il mio dolce piacer. 30 Atto secondo GIUNIA
Piacer funesto, se a un gelido spavento abbandona il mio cor. Se de' tuoi
giorni decider può. T'ascondi. Ah da che vivo no, che angustia simile... CECILIO
Sola vuoi, ch'io ti lasci in preda a un vile? So, ch' al senato in faccia il
reo tiranno con violenza ingiusta al talamo vuol trarti, ed io, che t'amo
restar potrò senza morir d'affanno lungi dal fianco tuo? Se invano un braccio,
un acciaro si cerca per svenare un crudel, ch'odio, e detesto, quell'acciaro,
quel braccio eccolo è questo. GIUNIA Ahimè! Che pensi? esporti?... Correr tu
solo a un periglio estremo?... CECILIO Tu paventi di tutto, io nulla temo.
Frena il timor, mia speme, e ti rammenta, ch'una soverchia tema in cor romano
esser puote viltà. GIUNIA Ma il troppo ardire temerità s'appella. Ah sì ti
cela, né accrescere, idol mio, nel tuo periglio nuove cagion di pianto a questo
ciglio. CECILIO Eterni dèi! Lasciarti, fuggire, abbandonarti all'empie insidie,
all'ira d'un traditor, ch'alle tue nozze aspira? GIUNIA E che puoi temer, se
meco resta la mia costanza, e l'amor mio? Deh corri, corri donde fuggisti. Al
suo dolore, a' suoi spaventi invola il cor di chi t'adora; se ciò non basta, io
tel comando ancora. CECILIO E in questo giorno correndo se al tiranno io mi
celo, chi veglia, o sposa, in tua difesa? GIUNIA Il cielo! CECILIO Ah che
talvolta i numi... GIUNIA A che ti guida cieco furor? Ad onta de' miei timori
ancor mi resti a lato? Partir non vuoi? Corro a morire, ingrato. Atto secondo
Lucio Silla CECILIO Fermati... senti... Oh dèi! Così mi lasci, e brami?...
GIUNIA I passi miei guardati di seguir. CECILIO Saprò morire, ma non lasciarti.
GIUNIA (Oh stelle! Io lo perdo. Che fo?) CECILIO Cara, tu piangi? Ah che il tuo
pianto... GIUNIA Ah sì per questo pianto per questi lumi miei di speme privi.
Parti, parti da me, celati, vivi! CECILIO A che mi sforzi! GIUNIA Alfine
lusingarmi poss'io di questo segno del tuo tenero affetto? Che rispondi, idol
mio? CECILIO Sì tel prometto. GIUNIA Fuggi dunque, mio bene. Invan paventi, se
di me temi. Ah pensa, pensa, che 'l ciel difende i giusti, e ch'io d'altri mai
non sarò. Di mie promesse dell'amor mio costante ch'aborre a morte un traditore
indegno, sposo, nella mia mano eccoti un pegno. Recitativo accompagnato Allegro
(mi bemolle maggiore) Archi. CECILIO Chi sa, che non sia questa l'estrema
volta, oh dio? ch'al sen ti stringo destra dell'idol mio, destra adorata, prova
di fé sincera... GIUNIA No, non temere. Amami. Fuggi e spera. Atto secondo [N.
14 Aria] Adagio (mi bemolle maggiore) / Andante (do minore) / Adagio (mi
bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CECILIO Ah se a morir mi chiama il
fato mio crudele seguace ombra fedele sempre sarò con te. Vorrei mostrar
costanza cara, nel dirti addio ma nel lasciarti, oh dio! Sento tremarmi il piè.
(parte) Scena decima Giunia, indi Celia. Recitativo GIUNIA Perché mi balzi in
seno affannoso cor mio? Perché sul volto or che lo sposo io non mi vedo
accanto, cade da' rai più copioso il pianto? CELIA Oh ciel! sì lagrimosa sì
dolente io t'incontro? Al suo destino quell'anima ostinata alfin deh ceda e
sposa al dittator Roma ti veda. GIUNIA T'accheta per pietà. CELIA Se in duro
esiglio cade estinto Cecilio, a lui che giova un'inutil costanza? GIUNIA (A
questo nome s'agghiaccia il cor.) CELIA Tu non mi guardi, e il labbro fra i
singhiozzi, e i sospir pallido tace. Segui i consigli miei. GIUNIA Lasciami in
pace. CELIA Bramo lieta vederti. Il mio germano oggi me pur felice render saprà.
La mano mi promise di Cinna. Ah tu ben sai, ch'io l'adoro fedel. Più non
rammento i miei sofferti affanni se sì cangiano alfin gli astri tiranni. Atto
secondo Lucio Silla [Aria] Allegro (la maggiore) Archi. CELIA Quando sugl'arsi
campi scende la pioggia estiva, le foglie, i fior ravviva, e il bosco, il
praticello tosto si fa più bello, ritorna a verdeggiar. Così quest'alma amante
fra la sua dolce speme dopo le lunghe pene comincia a respirar. (parte) Scena
undicesima Giunia sola. Recitativo accompagnato Andante (re minore) / Molto
allegro Archi. GIUNIA In un istante oh come s'accrebbe il mio timor! Pur troppo
è questo un presagio funesto delle sventure mie! L'incauto sposo più non è
forse ascoso al reo tiranno. A morte ei già lo condannò. Fra i miei spaventi,
nel mio dolore estremo che fo? Che penso mai? Misera io tremo. Ah no, più non
si tardi. Il senato mi vegga. Al di lui piede grazia, e pietà s'implori per lo
sposo fedel. S'ei me la nega si chieda al ciel. Se il ciel l'ultimo fine
dell'adorato sposo oggi prescrisse, trafigga me chi l'idol mio trafisse. 34 /
52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto secondo [N. 16
Aria] Allegro assai (do maggiore) Archi. GIUNIA Parto, m'affretto, ma nel
partire il cor si spezza. Mi manca l'anima, morir mi sento né so morire. E
smanio, e gelo, e piango, e peno. Ah se potessi, potessi almeno fra tanti
spasimi, morir così. Ma per maggior mio duolo verso un'amante oppressa divien
la morte istessa pietosa in questo dì. (parte) Scena dodicesima Campidoglio.
S'avanza Silla, ed Aufidio seguìto dai Senatori e dalle Squadre. [N. 17 Coro]
Allegro (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CORO Se gloria il crin ti cinse
di mille squadre a fronte or la temuta fronte qui ti coroni Amor. Stringa quel
braccio invitto lei, che da te s'adora. Se con i mirti ancora cresce il
guerriero allor. Atto secondo Lucio Silla (compar Giunia fra i senatori)
Recitativo SILLA Padri coscritti, io che pugnai per Roma, io, che vinsi per
lei, io che la face della civil discordia col mio valore estinsi. Io che la
pace per opra mia regnar sul Tebro or vedo d'ogni trionfo mio premio vi chiedo.
GIUNIA (Soccorso, eterni dèi!) SILLA Non ignorate l'antico odio funesto e di
Mario e di Silla. Il giorno è questo in cui tutto mi scordo. Alla sua figlia
sacro laccio m'unisca, e il dolce nodo plachi l'ombra del padre. Un dittatore,
un cittadin fra i gloriosi allori altro premio non cerca a' suoi sudori. GIUNIA
(Tace il senato, e col silenzio approva d'un insano il voler?) SILLA Padri già
miro ne' volti vostri espresso il consenso comun. Quei, che s'udiro festosi
gridi risuonar d'intorno son del pubblico voto un certo segno. Seguimi all'ara
omai... GIUNIA Scostati indegno! A tal viltà discende Roma, e 'l senato? Un
ingiurioso, un folle timor l'astringe a secondar d'un empio le violenze infami?
Ah che fra voi no, che non v'è chi in petto racchiuda un cor romano... SILLA
Taci, e più saggia a me porgi la mano. AUFIDIO Così per bocca mia tutto il
popol t'impon. SILLA Dunque mi segui... GIUNIA Non appressarti, o in seno
questo ferro m'immergo. (in atto di ferirsi) SILLA Alla superba l'acciar si
tolga, e segua il voler mio. Atto secondo Scena tredicesima Cecilio, con spada
nuda, e detti. CECILIO Sposa, ah no, non temer. SILLA (Chi vedo?) GIUNIA (Oh
dio!) AUFIDIO (Cecilio?) SILLA In questa guisa son tradito da voi? Del mio
divieto e delle leggi ad onta tornò Cecilio, e seco Giunia unita di toglier osa
al dittator la vita? Quell'audace s'arresti! GIUNIA Incauto sposo! Signor...
SILLA Taci, indegna, ch'omai solo ascolto il furore. (a Cecilio) Al novo sole
per mia vendetta, o traditor, morrai. Scena quattordicesima Cinna, con spada
nuda, e detti. SILLA Come? D'un ferro armato, confuso, irresoluto Cinna tu
pur?... CINNA (Oh ciel, tutto è perduto; qualche scampo ah si cerchi nel
cimento fatal!) Con mio stupore col nudo acciaro io vidi Cecilio infra le
schiere aprirsi un varco. La sua rabbia, i fieri minacciosi occhi suoi d'un
tradimento mi fecero temer. Onde salvarti da quella destra al parricidio intesa
corsi, e 'l brando impugnai per tua difesa. SILLA Ah vanne, amico, e scopri se
altri perfidi mai... Atto secondo Lucio Silla CINNA Sulla mia fede signor
riposa, e paventar non déi. (Quasi nel fiero incontro io mi perdei!) (parte)
SILLA Olà quel traditore, Aufidio si disarmi. GIUNIA Oh dio! Fermate! CECILIO
Finché l'acciar mi resta saprò farlo tremar. SILLA E giunge a tanto la tua
baldanza? GIUNIA (Oh dèi!) SILLA Cedi l'acciaro, o ch'io... CECILIO Lo speri
invan. GIUNIA Cecilio, o caro. CECILIO Ad esser vil m'insegna la sposa mia?
GIUNIA Deh, non opporti! CECILIO E vuoi?... GIUNIA Della tua tenerezza una
prova vogl'io. CECILIO Dovrò? GIUNIA Dovrai nella mia fede, e nel favor del
cielo affidarti, e sperar. Se ancor mio bene dubbioso ti mostri, i giusti numi,
e la tua sposa offendi. CECILIO (Fremo.) T'appagherò. Barbaro, prendi! (getta
la spada) SILLA Nella prigion più nera traggasi il reo. Per poco quest'aure a
te vietate respirar ti vedrò. Fra le ritorte del tradimento audace tu pur ti
pentirai, donna mendace. Atto secondo [N. 18 Terzetto] Allegro (si bemolle
maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. SILLA Quell'orgoglioso sdegno oggi
umiliar saprò. CECILIO Non lo sperare, indegno, l'istesso ognor sarò. GIUNIA
Eccoti, o sposo, un pegno, ch'al fianco tuo morrò. SILLA Empi la vostra mano
merita sol catene. Insieme GIUNIA Se mi ama il caro bene lieta a morir me n'
vo. CECILIO Se mi ama il caro bene lieto a morir me n' vo. Insieme SILLA Questa
costanza intrepida questo sì fido amore tutto mi strazia il core tutto avvampar
mi fa. GIUNIA E CECILIO La mia costanza intrepida il mio fedele amore dolce
consola il core né paventar mi fa. www.librettidopera.it 39 / 52 Atto terzo
Lucio Silla ATTO TERZO Scena prima Atrio, che introduce alle carceri.
Cecilio incatenato, Cinna, Guardie a vista, indi Celia. Recitativo CINNA Ah sì
tu solo, amico ritenesti il gran colpo. Eran non lungi al Campidoglio ascosi
gli amici tuoi, gli amici miei. Seguito volea da questi infra le schiere
aprirmi sanguinoso sentier. Ma la prudenza il furor moderò. Di tanti a fronte
che far potea cinto da pochi? Il cielo novo ardir m'ispirò. Gli amici io
lascio, tacito il ferro io stringo, e in Campidoglio m'avanzo. Allorché voglio
vibrare il colpo, in te m'affiso. Il ferro nella man mi tremò. Nel tuo periglio
gelossi il cor. M'arresto, mi confondo non so che dir. Quasi il segreto arcano,
il tiranno svelò. Ma il suo comando, che di partir m'impose, la confusione e il
mio dolore ascose. CECILIO Giacché morir degg'io morasi alfin. Sol mi spaventa,
oh dèi! la sposa mia... CINNA Non paventar di lei. Entrambi io salverò. CELIA
D'ascoltar Giunia men sdegnoso, e men fiero mi promise il german. CECILIO
Giunia al suo piede? E perché mai? CELIA Desìa di placarne lo sdegno. CECILIO
Invan lo brama. CINNA Odimi, Celia. È questo forse il momento, ond'illustrar tu
puoi con opra sublime i giorni tuoi. CELIA Che far degg'io? 40 / 52
www.librettidopera.it Gamerra / Mozart, 1772 Atto terzo CINNA M'è noto a prova
già tutto il poter, che vanti sul cor di Silla. A lui t'affretta, e digli che
aborrito dal cielo, in odio a Roma, se in sé stesso non torna, e se non scorda
un cieco amore insano l'eccidio suo fatal non è lontano. CELIA Dunque il
german... CINNA Incontrerà la morte se non s'arrende a un tal consiglio.
CECILIO Ah tutto, tutto inutil sarà. CELIA Tentare io voglio la difficile
impresa, e se aver ponno le mie preghiere il lor bramato effetto? CINNA La
destra in guiderdone io ti prometto. CELIA Un così dolce premio più animosa mi
fa. Me fortunata, se fra un orror sì periglioso, e tristo salvo il germano, e
'l caro amante acquisto. [N. 19 Aria] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2
oboe, 2 corni, 2 trombe. CELIA Strider sento la procella né risplende amica
stella pure avvolta in tanto orrore la speranza coll'amore mi sta sempre in
mezzo al cor. (parte) Scena seconda Cecilio, e Cinna. Recitativo CECILIO Forse
tu credi, amico che Celia giunga a raddolcir un core uso alle stragi, e che
talor di sdegno ingiustamente furibondo, ed ebro fe' rosseggiar di civil sangue
il Tebro? www.librettidopera.it 41 / 52 Atto terzo Lucio Silla CINNA So quanto
Celia puote su quell'alma incostante, e Giunia ancora forse placar potria co'
le lagrime sue... CECILIO La sposa mia a qualche insulto amaro invan s'espone.
Un empio, un inumano non si cangia sì presto. Onde abbandoni il sentier del
delitto ch'ei suol calcar per lungo suo costume, ci volle ognor tutto il poter
d'un nume. Ah no più non mi resta né speme, né pietà. L'afflitta sposa ti
raccomando, amico. In pro di lei vegli la tua amistà. Del mio nemico vittima,
ah no, non sia. Nel di lui sangue vendica la mia morte, e 'l mio spirito
sdegnoso nel regno degl'estinti avrà riposo. CINNA Ogni pensier di morte si
allontani da te. Se il cor di Silla contro al dovere, e alla ragion s'ostina,
sulla propria rovina, ne' suoi perigli estremi quell'empio solo impallidisca, e
tremi. [N. 20 Aria] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe.
CINNA De' più superbi il core se Giove irato fulmina, freddo spavento ingombra,
ma d'un alloro all'ombra non palpita il pastor. Paventino i tiranni le stragi,
e le ritorte, sol rida in faccia a morte chi ha senza colpe il cor. (parte) 42
/ 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto terzo Scena
terza Cecilio, indi Giunia. Recitativo CECILIO Ah no, che il fato estremo
terror per me non ha. Sol piango, e gemo fra l'ingiuste catene non per la morte
mia, per il mio bene. GIUNIA Ah dolce sposo... CECILIO Oh stelle! Come tu qui?
GIUNIA M'aperse la via fra quest'orrore la mia fede, il mio pianto, il nostro
amore. CECILIO Ma Silla... Ah parla. E Silla. GIUNIA L'empio mi lascia... Oh
dio! Mi lascia, ch'io ti dia... l'ultimo addio. CECILIO Dunque non v'è per noi
né pietà, né speranza? GIUNIA Al fianco tuo sol di morir m'avanza. Che non
tentai finor? Querele, e pianti, sospiri, affanni, e prieghi sono inutili omai
per quel core inumano che chiede o la tua morte, o la mia mano. CECILIO Della
mia vita il prezzo esser può la tua man? Giunia frattanto che mai risolverà?
GIUNIA Morirti accanto. CECILIO E tu per me vorrai troncar di sì be' giorni...
GIUNIA E deggio, e voglio teco morir. A questo passo, o caro, m'obbliga, mi
consiglia l'amor di sposa, ed il dover di figlia. Atto terzo Lucio Silla Scena
quarta Aufidio con Guardie, e detti. AUFIDIO Tosto seguir tu déi Cecilio i passi
miei. CECILIO Forse alla morte... parla... dimmi... AUFIDIO Non so. CECILIO
Prendi, mia speme, prendi l'estremo abbraccio... GIUNIA (ad Aufidio)
Rispondi... oh ciel! AUFIDIO Sempre obbedisco, e taccio. CECILIO Ah non
perdiam, mia vita, un passeggero istante, che ne porge il destin. Parto, ti
lascio, e in sì tenero amplesso ricevi, anima mia, tutto me stesso. GIUNIA Ah
caro sposo... oh dèi! Se uccider può il martoro, perché vicina a te, perché non
moro? CECILIO Quel pianto, oh dio! Ah sì quel pianto non sai come nel seno...
Ahimè! ti basti, o cara sì ti basti il saper, che in questo istante più d'un
morir tiranno quelle lagrime tue mi son d'affanno. [N. 21 Aria] Tempo di
minuetto (la maggiore) Archi. CECILIO Pupille amate non lagrimate morir mi fate
pria di morir. Quest'alma fida a voi d'intorno farà ritorno sciolta in sospir.
(parte con Aufidio, e guardie) Atto terzo Scena quinta Giunia sola. Recitativo
accompagnato Allegro (do maggiore) / Andante / Allegro / Adagio / Presto Archi,
2 flauti, 2 trombe. GIUNIA Sposo... mia vita... Ah dove, dove vai? Non ti
seguo? E chi ritiene i passi miei? Chi mi sa dir?... ma intorno altro, ahi
lassa non vedo che silenzio, ed orror! L'istesso cielo più non m'ascolta, e
m'abbandona. Ah forse, forse l'amato bene già dalle rotte vene versa l'anima, e
'l sangue... Ah pria ch'ei mora su quella spoglia esangue spirar vogl'io... che
tardo? Disperata a che resto? Odo, o mi sembra udir di fioca voce languido
suon, ch' a sé mi chiama? Ah sposo se i tronchi sensi estremi de' labbri tuoi
son questi corro, volo a cader dove cadesti. [N. 22 Aria] Andante (do minore)
/ Allegro Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti. GIUNIA Fra i pensier più funesti
di morte veder parmi l'esangue consorte che con gelida mano m'addita la fumante
sanguigna ferita e mi dice: che tardi a morir? Già vacillo, già manco, già moro
e l'estinto mio sposo, ch'adoro ombra fida m'affretto a seguir. (parte)
www.librettidopera.it 45 / 52 Atto terzo Lucio Silla Scena sesta Salone. Silla,
Cinna, Celia e Senatori. Recitativo SILLA Celia, Cinna, non più. Roma, e 'l
senato di mia giustizia, e del delitto altrui il giudice sarà. CINNA Più che
non credi di Cecilio la vita necessaria esser puote. CELIA I giorni tuoi... la
disperata Giunia... il suo consorte creduto estinto, e alle sue braccia or
reso. SILLA So ch'ognor più l'odio comun m'han reso. Ma un dittator tradito
vuol vendetta, e l'avrà. Stanco son io di temer sempre, e palpitar. La vita
agitata, ed incerta fra un barbaro spavento è un viver per morire ogni momento.
CELIA Ah speri invan, se speri fra un eccidio funesto, e sanguinoso trovar la
sicurezza, ed il riposo. CINNA La furiosa Giunia correre tu vedrai ad assodar
le vie di querele, e di lai. Destare in petto può de' nemici tuoi quel
lagrimoso ciglio... SILLA Vedo più che non pensi il mio periglio. Amor, gloria,
vendetta, sdegno, timore, io sento affollarmisi al cor. Ognun pretende
d'acquistare l'impero. Amor lusinga. Mi rampogna la gloria. Ira m'accende.
Freddo timor m'agghiaccia. M'anima la vendetta, e mi minaccia. De' fieri
assalti in preda, alla difesa accinto, di Silla il cor fia vincitore, o vinto?
Continua nella pagina seguente. Atto terzo SILLA Ma l'atto illustre alfine
decider dée, s'io merto quel glorioso alloro, che mi adombra la chioma, e
giudice ne voglio il mondo, e Roma. Scena settima Giunia con Guardie, e detti.
GIUNIA Anima vil, da Giunia che pretendi? Che vuoi? Roma, e 'l senato nel
tollerare un traditore ingegno è stupido, e insensato a questo segno? Padri
coscritti innanzi a voi qui chiedo e vendetta, e pietà. Pietade implora una
sposa infelice, e vuol vendetta d'un cittadino, e d'un consorte esangue
l'ombra, che nuota ancora in mezzo al sangue. SILLA Calma gli sdegni tuoi,
tergi il bel ciglio. Inutile è quel pianto. È vano il tuo furor. De' miei
delitti della mia crudeltade a Roma in faccia spettatrice ti voglio, e in
questo loco di Silla il cor conoscerai fra poco. Scena ottava Cecilio, Aufidio,
Guardie, e detti. GIUNIA (Lo sposo mio?) CINNA (Che miro?) CELIA (E quale
arcan?) CECILIO (Che fia?) SILLA Roma, il senato e 'l popolo m'ascolti. A voi
presento un cittadin proscritto, che di sprezzar le leggi osò furtivo. Ei, che
d'un ferro armato in Campidoglio alle mie squadre appresso tentò svenare il
dittatore istesso. Continua nella pagina seguente. Atto terzo Lucio Silla SILLA
Grazia ei non cerca. Anzi di me non teme e m'oltraggia, e detesta. Ecco il
momento che decide di lui. Silla qui adopri l'autorità, che Roma al suo braccio
affidò. Giunia mi senta e m'insulti, se può. Quell'empio Silla quel superbo
tiranno a tutti odioso vuol che viva Cecilio, e sia tuo sposo. GIUNIA E sarà
ver?... Mia vita... CECILIO Fida sposa, qual gioia... qual cangiamento è
questo? AUFIDIO (Che fu?) CELIA (Lodi agli dèi.) CINNA (Stupito io resto.)
SILLA Padri coscritti, or da voi cerco, e voglio quanto vergò la mano in questo
foglio. De' cittadin proscritti ei tutti i nomi accoglie; ciascun ritorni alle
paterne soglie. CECILIO Oh, come degno or sei del supremo splendor fra cui tu
siedi! GIUNIA Costretta ad ammirarti alfin mi vedi. AUFIDIO (Ah che la mia
rovina certa prevedo!) SILLA In mezzo al pubblico piacer, fra tante lodi,
ch'ogni labbro sincer prodiga a Silla, e perché Cinna è il solo, che infra
occulti pensier confuso giace, e diviso da me sospira, e tace? Fedele amico...
(vuol abbracciarlo) CINNA Ah lascia di chiamarmi così. Per opra mia tornò
Cecilio a Roma. In Campidoglio per trucidarti io corsi, e armai non lungi di
cento anime audaci e la mano, e l'ardir. Io sol le faci a danni tuoi della
discordia accesi... SILLA Tu abbastanza dicesti, io tutto intesi. CELIA (Dolci
speranze addio!...) 48 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart,
1772 Atto terzo SILLA La pena or senti d'ogni trama ascosa. Celia germana mia
sarà tua sposa. GIUNIA (Bella virtù!) CECILIO (Che generoso core!) CINNA E
quale, oh giusto cielo, mi s'accende sul volto vergognoso rossor? Come
poss'io... SILLA Quel rimorso mi basta, e tutto oblio. CELIA (Me lieta!) (a
Cinna) Ah premia alfine il mio costante amor. Della clemenza mostrati degno, e
di quel core umano la virtù, la pietade... CINNA Ecco la mano. SILLA Qual de'
trionfi miei eguagliar potrà questo, eterni dèi? AUFIDIO Lascia, ch'a piedi
tuoi grazia implori da te. De' miei consigli, delle mie lodi adulatrici or sono
pentito... SILLA Aufidio, sorgi. Io ti perdono. Così lodevol opra coronisi da
me. Romani, dal capo mio si tolga il rispettato alloro, e trionfale; più
dittator non son, son vostro uguale. (depone l'alloro) Ecco alla patria resa la
libertade. Ecco asciugato alfine il civil pianto. Ah no, che 'l maggior bene la
grandezza non è. Madre soltanto è di timor, di affanni, di frodi, e tradimenti.
Anzi per lei cieco mortal dalla calcata via di giustizia, e pietà spesso
travìa. Ah sì conosco a prova che assai più grata all'alma d'un menzogner
splendore è l'innocenza, e la virtù del core. Atto terzo Lucio Silla [N. 23
Finale] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CORO Il gran
Silla a Roma in seno che per lui respira, e gode d'ogni gloria, e d'ogni lode
vincitore oggi si fa. GIUNIA E CECILIO Sol per lui l'acerba sorte è per me
felicità! CINNA E SILLA E calpesta le ritorte la latina libertà. TUTTI Trionfò
d'un basso amore la virtude, e la pietà. SILLA Il trofeo sul proprio core qual
trionfo uguaglierà? CORO Se per Silla in Campidoglio lieta Roma esulta, gode
d'ogni gloria, e d'ogni lode vincitore oggi si fa. librettidopera G. De Gamerra
Mozart AttoriAltezze realiArgomento Atto [OuvertureScena AriaScena AriaScena
AriaScena Scena Aria] Scena AriaScena Scena Coro e arioso Scena Duetto Atto
Scena Aria Scena Scena AriaScena AriaScena AriaScena AriaScena Scena AriaScena
AriaScena AriaScena AriaScena Coro Scena Scena TerzettoAtto Scena AriaScena
AriaScena Scena Aria Scena AriaScena Scena Scena FinaleBrani significativi
Lucio Silla BRANI SIGNIFICATIVI D'Eliso in sen m'attendi (Giunia e
Cecilio) Dalla sponda tenebrosa (Giunia) Fra i pensier più funesti di morte
(Giunia) Fuor di queste urne dolenti (Coro e Giunia) Parto, m'affretto (Giunia)
Pupille amate (Cecilio) Se lusinghiera speme (Celia). Grice: “At Oxford
they put you down. “That IS an original interpretation of Silla’s behaviour –
but of course you would need to challenge Mommsen’s objection,” my tutor said,
righly assuming that I had no idea Mommsen had an objection!” -- Silla. Keywords: Mommsen. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Silla”. Silla.
Grice e Sillo: la ragione conversazionale e il voto al divino -- Roma – la
scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean, cited
by Giamblico. The sect being very reluctant to take an oath – invoking ‘il
divino’ in vain – Sillo refused to take one, and just hand over money.
Grice e Simbolo: la ragione conversazionale della filosofia di Giuliano
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) – Filosofo italiano. Along with two other
philosophers by the names of Ieroteo and Maxximiniano, he persuades Giuliano to
pave the floor of Hagia Sophia with silver. However, the story is doubted, as
is the existence of these three philosophers. Grice: “It amuses me that the name of this
Italian philosopher is identical with an artificial language invented by J. L.
Austin, Symbolo!”
Grice e Simichia: la ragione conversazionale dell’élite di Crotona e la
sua diaspora -- Roma – la scuola di Taranto -- filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo
pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean, cited by
Giamblico. “This is the diaspora from Crotona – as if we would have an Oxonian
diaspora, provided the mayor of Oxford deems us elitists!” – ‘or the gown
elitist towards the town, but surely Boris Johnson never saw himself as gown!’ –
Grice.
Grice e Simioni: la ragione conversazionale
degl’amanti – filosofia veneziana – la scuola di Venezia – filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Venezia).
Fiosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Tra i
principali studiosi di PIRANDELLO (si veda), inizia la sua attività politica
militando nelle file del socialismo. Venne espulso dal partito per indegnità
morale. Collabora con l’United States Information Service. Si trasfere a Monaco
di iera per approfondire gli studi per poi ritornare a Milano. Leader di un
collettivo operai-studenti, mentre lavora alla Mondadori, fonda il collettivo
politico metro-politano milanese. Teorizza lo scontro aperto, e si considera il
progenitore delle brigate rosse. Insieme a circa settanta persone, tra cui componenti
del collettivo ed elementi del dissenso, partecipa al convegno di Chiavari nella
sala Marchesani, adiacente la pensione Stella Maris, nel quale un gruppo di
partecipanti dichiara la propria adesione ad una visione politica. La data di
questo convegno viene da taluni considerata come la data di nascita delle
brigate rosse. Altri affermano che la formazionesia nata con il convegno di
Pecorile (Reggio Emilia). L'ultima attività, prima di passare alla completa
clandestinità, a compe come redattore di "Sinistra proletaria",
l'ultimo dei quali riporta in copertina uno sfondo rosso con disegnato al
centro un cerchio nero attorniante le sagome di XIV mitra. Fonda la scuola di
lingue Hyperion, la quale secondo alcuni ha la funzione di una vera centrale
internazionale. Si afferma che e anche il capo del Super-clan, organizzazione
nata da una costola delle brigate rosse. Si insere nella vita cittadina,
ricominciando a frequentare gl’ambienti progressisti e divenendo vicepresidente
della fondazione Pierre. E proprio quale accompagnatore di Pierre, e ricevuto
da Giovanni Paolo II in udienza privata.
Si avvicina al buddhismo tibetano. Si apparta nella campagna di Truinas, nella
Drôme, dove geste un B & B. Craxi, alludendo alla esistenza di un grande delle
brigate rosse (l'eminenza grigia ipotizzata da alcuni che dall'estero avrebbe
guidato, come un burattinaio, molte delle azioni sul suolo italiano), dichiara
che costui poteva essere cercato tra quei personaggi che avevano cominciato a
fare politica con noi e poi sono scomparsi, magari sono a Parigi a lavorare per
il partito armato, frase che venne da molti ritenuto indicasse come grande
proprio lui. L'organizzazione di sinistra extra-parlamentare Lotta Continua lo
accusa di essere un confidente della polizia e in contatto con i servizi
segreti.. Durante la fase iniziale di Mani pulite, e accusato da LARINI di
essere il grande, accuse respinte da lui che le ritenne parte di un'azione
contro Craxi, vista la comune militanza nel socialismo. Hyperion e realmente
una scuola di lingue o la stanza di compensazione di diversi servizi
segreti? Ferrari, In teleselezione dalla
Francia gli ordini ai italiani? Corriere della Sera. Entrambi gli edifici sono
proprietà della curia Il convegno di
Pecorile in Anni di Piombo. Il nucleo storico delle brigate rosse. E morto il
misterioso grande, La Tribuna di Treviso, Fratini, Hyperion: scuola di lingue
chiacchierata, ANSA, repubblica cronaca news/caso
moro_il_bierre_franceschini moretti una_spia riduttivo si sentiva_lenin. Dalla
lotta al buddhismo, in Critica Sociale, Anni di piombo Superclan Hyperion
(Parigi) Venezia Anni di piombo. Corrado Simioni. Simioni. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Simioni” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Simmaco: la ragione conversazionale del console filosofo – Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A philosopher of considerable wisdom, also a consul. Quinto Aurelio Simmaco.
Grice e Simoni – la
scuola di Caprese -- filosofia italiana – Luigi Speranza Caprese). Filosofo
toscano. Filosofo italiano. Caprese, Toscana. Antenato: Simone de Buonarrota.
Nome: S. Grice: “Some call him Michelangelo, but that’s rude!” -- See the study of Buonarroti’s Moses by Freud,
“filosofia” Michelangelo Buonarroti. CDisambiguazione – Se stai cercando
altri significati, vedi Michelangelo Buonarroti il Giovane, Michelangelo
(disambigua) e Buonarroti (disambigua). Pietro Freccia, statua di
Michelangelo, piazzale degli Uffizi a Firenze. Michelangelo Buonarroti, noto
semplicemente come Michelangelo (Caprese, 6 marzo 1475[1] – Roma), è stato un filosofo
italiano -- pittore, scultore, architetto e poeta italiano. Daniele
da Volterra, Ritratto di Michelangelo Autoritratto (?) come Nicodemo,
Pietà Bandini Michelangelo, disegno di Daniele da Volterra Soprannominato
"Divin Artista" e definito "Artista universale", fu
protagonista del Rinascimento italiano, e già in vita fu riconosciuto dai suoi
contemporanei come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi[3]. Personalità
tanto geniale quanto irrequieta, il suo nome è legato ad alcune delle più
maestose opere dell'arte occidentale, fra cui si annoverano il David, il Mosè,
la Pietà del Vaticano, la Cupola di San Pietro e il ciclo di affreschi nella
Cappella Sistina, tutti considerati traguardi eccezionali dell'ingegno
creativo. Lo studio delle sue opere segnò le generazioni artistiche
successive dando un forte impulso alla corrente del manierismo. Nome
Nelle fonti coeve, Michelangelo è chiamato in latino Michael.Angelus (la firma
dell'autore sulla Pietà vaticana è MICHAEL.A[N]GELVS BONAROTVS FLORENT[INVS]) e
in italiano Michelagnolo, come risulta dalla biografia del 1553 Vita di
Michelagnolo Buonarroti scritta da Condivi, suo discepolo e collaboratore. Lo
stesso Vasari lo chiamava Michelagnolo e il nome rimase tale fino alla metà
dell’Ottocento. Il cambio in Michelangiolo prima e la successiva
italianizzazione in Michelangelo poi, avvengono tra l’800 e il ‘900.
Benché tra le nuove generazioni si sia affermata la versione moderna, a Firenze
resiste la variante ottocentesca di Michelangiolo nel parlato degli anziani e
nella denominazione di luoghi simbolo della città (viale Michelangiolo,
piazzale Michelangiolo, Liceo Classico Michelangiolo, ecc.). Biografia
Gioventù Origini Il ricordo del padre sulla nascita di Michelangelo
Michelangelo Buonarroti nasc a Caprese, in Valtiberina, vicino ad Arezzo, da
Ludovico di Leonardo Buonarroti S., podestà al castello di Chiusi e di Caprese,
e Francesca di Neri del Miniato del Sera. La famiglia è fiorentina, ma il padre
si trova nella cittadina per ricoprire la carica politica di podestà. S. è il
secondogenito, su un totale di cinque figli della coppia. I S. di Firenze
fanno parte del patriziato fiorentino. Nessuno in famiglia ha fino ad allora
intrapreso la carriera artistica, né l'arte meccanica (cioè un mestiere che
richiedeva sforzo fisico) poco consona al loro status, ricoprendo piuttosto
incarichi nei pubblici uffici. Due secoli prima un antenato, Simone di
Buonarrota S., è nel consiglio dei cento savi e ha ricoperto le maggiori
cariche pubbliche. Possedeno uno scudo d'arme e patronano una cappella nella
basilica di Santa Croce. All'epoca della nascita di S., la famiglia
attraversa però un momento di penuria economica. Il padre è talmente impoverito
che sta addirittura per perdere i suoi privilegi di cittadino fiorentino. La
podesteria di Caprese, uno dei meno significativi possedimenti fiorentini, è un
incarico politico di scarsa importanza, da lui accettato per cercare di
assicurare una sopravvivenza decorosa alla propria famiglia, arrotondando le
magre rendite di alcuni poderi nei dintorni di Firenze. Il declino influenza
pesantemente le scelte familiari, nonché il destino di S. e la sua personalità:
la preoccupazione per il benessere economico, suo e dei suoi familiari, è una
costante in tutta la sua vita. Già alla fine di marzo, terminata la carica
semestrale di Ludovico Buonarroti, tornò presso Firenze, a Settignano,
probabilmente alla poi detta Villa Michelangelo, dove il neonato venne affidato
a una balia locale[6]. Settignano era un paese di scalpellini, poiché vi si
estraeva la pietra serena, da secoli utilizzata a Firenze nell'edilizia di
pregio. Anche la balia di Michelangelo era figlia e moglie di scalpellini.
Diventato un artista famoso, Michelangelo, spiegando perché preferiva la
scultura alle altre arti, ricordava proprio questo affidamento, sostenendo di
provenire da un paese di "scultori e scalpellini", dove dalla balia
aveva bevuto «latte impastato con la polvere di marmo»[9]. Nel 1481 la
madre di Michelangelo morì; egli aveva soltanto sei anni. L'educazione
scolastica del fanciullo venne affidata all'umanista Francesco Galatea da
Urbino, che gli impartì lezioni di grammatica. In quegli anni conobbe l'amico
Francesco Granacci, che lo incoraggiò nel disegno[6]. Ai figli cadetti di
famiglie patrizie era di solito riservata la carriera ecclesiastica o militare,
ma Michelangelo, secondo la tradizione, aveva manifestato fin da giovanissimo
una forte inclinazione artistica, che nella biografia di Ascanio Condivi,
redatta con la collaborazione dell'artista stesso, viene ricordata come
ostacolata a tutti i costi dal padre, che non la spuntò però sull'eroica
resistenza del figlio[10]. Formazione presso il Ghirlandaio
(1487-1488) Michelangelo, San Pietro da Masaccio, 1488-1490 circa. Penna
e sanguigna su carta. Staatliche Graphische Sammlung, Monaco. Nel 1487
Michelangelo finalmente approdò alla bottega di Domenico Ghirlandaio, artista
fiorentino tra i più quotati dell'epoca[10]. Ascanio Condivi, nella Vita
di Michelagnolo Buonarroti[11], omettendo la notizia e sottolineando la
resistenza paterna, sembra voler enfatizzare un motivo più che altro letterario
e celebrativo, cioè il carattere innato e autodidatta dell'artista: dopotutto,
l'avvio consenziente di Michelangelo a una carriera considerata
"artigianale", era per il costume dell'epoca una ratifica di una
retrocessione sociale della famiglia. Ecco perché, una volta divenuto famoso,
egli cercò di nascondere gli inizi della sua attività in bottega, parlandone
non come di un normale apprendistato professionale, ma come se si fosse
trattato di una chiamata inarrestabile dello spirito, una vocazione, contro la
quale il padre avrebbe inutilmente tentato di resistere[12]. In realtà
sembra ormai quasi certo che Michelangelo fu mandato a bottega proprio dal
padre a causa dell'indigenza familiare[13]: la famiglia aveva bisogno dei soldi
dell'apprendistato del ragazzo, al quale così non poté essere data
un'istruzione classica. La notizia è data da Vasari, che già nella prima
edizione delle Vite (1550)[14], descrisse, appunto, come fu Ludovico stesso a
condurre il figlio dodicenne nella bottega del Ghirlandaio, suo conoscente, mostrandogli
alcuni fogli disegnati dal fanciullo, affinché lo tenesse con sé, alleviando le
spese per i numerosi figli, e convenendo assieme al maestro un "giusto et
onesto salario, che in quel tempo così si costumava". Lo stesso storico
aretino ricorda le sue basi documentarie, nei ricordi di Ludovico e nelle
ricevute di bottega conservate all'epoca da Ridolfo del Ghirlandaio, figlio del
celebre pittore[10]. In particolare, in un "ricordo" del padre,
datato 1º aprile 1488, Vasari lesse i termini dell'accordo con i fratelli
Ghirlandaio, prevedendo una permanenza del figlio a bottega per tre anni, per
un compenso di venticinque fiorini d'oro[10]. Inoltre in elenco di creditori
della bottega artistica, al giugno 1487, è registrato anche Michelangelo
dodicenne[10]. In quel periodo la bottega del Ghirlandaio era attiva al
ciclo affrescato della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove
Michelangelo poté certamente apprendere una tecnica pittorica avanzata[15]. La
giovane età del fanciullo (che al termine degli affreschi aveva quindici anni)
lo relegherebbe a mestieri da garzone (preparazione dei colori, riempimento di
partiture semplici e decorative), ma è altresì noto che egli era il migliore
tra gli allievi e non è da escludere che gli fossero affidati alcuni compiti di
maggior rilievo: Vasari riportò come Domenico avesse sorpreso il fanciullo a
"ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie
dell'arte, et alcuni di que' giovani che lavoravano", tanto che fece
esclamare al maestro "Costui ne sa più di me". Alcuni storici hanno
ipotizzato un suo intervento diretto in alcuni ignudi del Battesimo di Cristo e
della Presentazione al Tempio oppure nello scultoreo San Giovannino nel
deserto, ma in realtà la mancanza di termini di paragone e riscontri oggettivi
ha sempre impossibilitato una definitiva conferma[16]. Sicuro è invece
che il giovane manifestò un forte interesse per i maestri alla base della
scuola fiorentina, soprattutto Giotto e Masaccio, copiando direttamente i loro
affreschi nelle cappelle di Santa Croce e nella Brancacci in Santa Maria del
Carmine[15]. Un esempio è il massiccio San Pietro da Masaccio, copia dal
Pagamento del tributo. Condivi scrisse anche di una copia da una stampa tedesca
di un Sant'Antonio tormentato da diavoli: l'opera è stata recentemente
riconosciuta nel Tormento di sant'Antonio, copia da Martin Schongauer[6],
acquistato dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas[17]. Al
giardino neoplatonico (1488-1490) Copia da Cesare Zocchi, Michelangelo giovane
scolpisce la testa di fauno, Studio Romanelli, Firenze Molto probabilmente
Michelangelo non terminò il triennio formativo in bottega, a giudicare dalle
vaghe indicazioni della biografia del Condivi. Forse si burlò del proprio
maestro, sostituendo un ritratto della mano di Domenico, che doveva rifare per
esercizio, con la sua copia, senza che il Ghirlandaio si accorgesse della
differenza, "con un suo compagno […] ridendosene"[18]. In ogni
caso, pare che su suggerimento di un altro apprendista, Francesco Granacci, Michelangelo
cominciò a frequentare il giardino di San Marco, una sorta di accademia
artistica sostenuta economicamente da Lorenzo il Magnifico in una sua proprietà
nel quartiere mediceo di Firenze. Qui si trovava una parte delle vaste
collezioni di sculture antiche dei Medici, che i giovani talenti, ansiosi di
migliorare nell'arte dello scolpire, potevano copiare, sorvegliati e aiutati
dal vecchio scultore Bertoldo di Giovanni, allievo diretto di Donatello. I
biografi dell'epoca descrivono il giardino come un vero e proprio centro di
alta formazione, forse enfatizzando un po' la quotidiana realtà, ma è senza
dubbio che l'esperienza ebbe un impatto fondamentale sul giovane
Michelangelo[15]. Tra i vari aneddoti legati all'attività del giardino è
celebre nella letteratura michelangiolesca quello della Testa di fauno, una
perduta copia in marmo di un'opera antica. Veduta dal Magnifico in visita al
giardino, venne criticata bonariamente per la perfezione della dentatura che si
intravedeva dalla bocca dischiusa, inverosimile in una figura anziana. Ma prima
che il signore finisse il giro del giardino, il Buonarroti si armò di trapano e
martello per scalfire un dente e bucarne un altro, suscitando la sorpresa
ammirazione di Lorenzo. Pare che in seguito all'episodio Lorenzo in persona
chiese il permesso a Ludovico Buonarroti di ospitare il ragazzo nel palazzo di
via Larga, residenza della sua famiglia[19]. Ancora le fonti parlano di una
resistenza paterna, ma le gravose necessità economiche della famiglia dovettero
giocare un ruolo determinante, infatti alla fine Ludovico cedette in cambio di
un posto di lavoro alla dogana, retribuito otto scudi al mese[19]. Verso
il 1490 il giovane artista venne quindi accolto come figlio adottivo nella più
importante famiglia in città. Ebbe così modo di conoscere direttamente le
personalità del suo tempo, come Poliziano, Marsilio Ficino e Pico della
Mirandola, che lo resero partecipe, in qualche misura, della dottrina
neoplatonica e dell'amore per la rievocazione dell'antico. Conobbe inoltre i
giovani rampolli di casa Medici, più o meno a lui coetanei, che diventarono
negli anni successivi alcuni dei suoi principali committenti: Piero, Giovanni,
poi papa Leone X, e Giulio, futuro Clemente VII[19]. Un altro fatto
legato a quegli anni è la lite con Pietro Torrigiano, futuro scultore di buon
livello, noto soprattutto per il suo viaggio in Spagna, da dove esportò modi
rinascimentali. Pietro era noto per la sua avvenenza e per un'ambizione pari
almeno a quella di Michelangelo. Tra i due non correva buon sangue e, una volta
entrati in contrasto, durante un sopralluogo alla cappella Brancacci, finirono
per azzuffarsi; ebbe la peggio Michelangelo, che incassò un pugno del rivale in
pieno volto, rompendosi il naso e avendo deturpato per sempre il profilo[20].
In seguito alla rissa, Lorenzo De Medici esiliò Pietro Torrigiano da
Firenze. Prime opere (1490-1492) Michelangelo, Madonna della Scala,
marmo, 1491 circa. Casa Buonarroti, Firenze. Al periodo del giardino e del
soggiorno in casa Medici risalgono essenzialmente due opere, la Madonna della
Scala (1491 circa) e la Battaglia dei Centauri, entrambe conservate nel museo
di Casa Buonarroti a Firenze. Si tratta di due opere molto diverse per tema
(uno sacro e uno profano) e per tecnica (una in un sottile bassorilievo,
l'altro in un prorompente altorilievo), che testimoniano alcune influenze
fondamentali nel giovane scultore, rispettivamente Donatello e la statuaria
classica[19]. Nella Madonna della Scala l'artista riprese la tecnica dello
stiacciato, creando un'immagine di tale monumentalità da far pensare alle steli
classiche; la figura della Madonna, che occupa tutta l'altezza del rilievo, si
staglia vigorosa, tra notazioni di vivace naturalezza, come il Bambino è
assopito di spalle e i putti, sulla scala da cui prende il nome il rilievo,
occupati nell'insolita attività di tendere un drappo[21].
Michelangelo, Battaglia dei centauri, marmo, 1492 circa. Casa Buonarroti,
Firenze Di poco posteriore è la Battaglia dei centauri, databile tra il 1491 e
il 1492: secondo Condivi e Vasari fu eseguita per Lorenzo il Magnifico, su un
soggetto proposto da Agnolo Poliziano, anche se i due biografi non concordano
sull'esatta titolazione[22]. Per questo rilievo Michelangelo si rifece
sia ai sarcofagi romani, sia alle formelle dei pulpiti di Giovanni Pisano, e
guardò anche al contemporaneo rilievo bronzeo di Bertoldo di Giovanni con una
battaglia di cavalieri, a sua volta ripreso da un sarcofago del Camposanto di
Pisa. Nel rilievo michelangiolesco però viene esaltato soprattutto il dinamico
groviglio dei corpi nudi in lotta e annullato ogni riferimento
spaziale[22]. Michelangelo e Piero de' Medici (1492-1494) Il
Crocifisso di Santo Spirito (1493 circa) Nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico.
Non è chiaro se i suoi eredi, in particolare il primogenito Piero, mantennero
l'ospitalità al giovane Buonarroti: indizi sembrano indicare che Michelangelo
si ritrovò improvvisamente senza dimora, con un difficile ritorno alla casa
paterna[19]. Piero di Lorenzo de' Medici, succeduto al padre anche nel governo
della città, è ritratto dai biografi michelangioleschi come un tiranno
"insolente e soverchievole", con un difficile rapporto con l'artista,
che era di appena tre anni più giovane di lui. Nonostante ciò, i fatti documentati
non lasciano alcun indizio di una rottura plateale tra i due, almeno fino alla
crisi dell'autunno del 1494[23]. Nel 1493 infatti Piero, dopo essere
stato nominato Operaio in Santo Spirito, dovette intercedere coi frati
agostiniani in favore del giovane artista, affinché lo ospitassero e gli
consentissero di studiare l'anatomia negli ambienti del convento, sezionando i
cadaveri provenienti dall'ospedale del complesso, attività che giovò
enormemente alla sua arte[19]. In questi anni Michelangelo scolpì il
Crocifisso ligneo, realizzato come ringraziamento per il priore. Attribuito a
questo periodo è anche il piccolo Crocifisso di legno di tiglio recentemente
acquistato dallo Stato italiano. Inoltre, probabilmente per ringraziare o per
accattivarsi Piero, dovette scolpire, subito dopo la morte di Lorenzo, un
perduto Ercole[19]. Il 20 gennaio 1494 su Firenze si abbatté una violenta
nevicata e Piero fece chiamare Michelangelo per fare una statua di neve nel
cortile di palazzo Medici. L'artista fece di nuovo un Ercole, che durò almeno
otto giorni, sufficienti per fare apprezzare l'opera a tutta la città[24].
All'opera si ispirò forse Antonio del Pollaiolo per un bronzetto oggi alla
Frick Collection di New York. Mentre cresceva lo scontento per il progressivo
declino politico ed economico della città, in mano a un ragazzo poco più che
ventenne, la situazione esplose in occasione della calata in Italia
dell'esercito francese (1494) capeggiato da Carlo VIII, nei confronti del quale
Piero adottò un'impudente politica di assecondamento, giudicato eccessivo.
Appena partito il monarca, la situazione precipitò rapidamente, aizzata dal
predicatore ferrarese Girolamo Savonarola, con la cacciata dei Medici e il
saccheggio del palazzo e del giardino di San Marco[6]. Resosi conto
dell'imminente crollo politico del suo mecenate, Michelangelo, al pari di molti
artisti dell'epoca, abbracciò i nuovi valori spirituali e sociali di
Savonarola[25]. Il frate, con le sue accalorate prediche e il suo rigorismo
formale, accese in lui sia la convinzione che la Chiesa dovesse essere
riformata, sia i primi dubbi sul valore etico da dare all'arte, orientandola su
soggetti sacri[19]. Poco prima del precipitare della situazione,
nell'ottobre 1494, Michelangelo, nella paura di rimanere coinvolto nei
disordini, quale possibile bersaglio poiché protetto dai Medici, fuggì dalla
città di nascosto, abbandonando Piero al suo destino: il 9 novembre venne
infatti scacciato da Firenze, dove si instaurò un governo popolare[19].
Il primo viaggio a Bologna (1494-1495) San Procolo (1494-1495) Per
Michelangelo si trattava del primo viaggio fuori Firenze, con una prima tappa a
Venezia, dove rimase poco, ma abbastanza per vedere probabilmente il monumento
equestre a Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, dal quale trasse forse
ispirazione per i volti eroici e "terribili"[26]. Si diresse
poi a Bologna, in cui venne accolto, trovando ospitalità e protezione, dal
nobile Giovan Francesco Aldrovandi, molto vicino ai Bentivoglio che allora
dominavano la città. Durante il soggiorno bolognese, durato circa un anno,
l'artista si occupò, grazie all'intercessione del suo protettore, del
completamento della prestigiosa Arca di san Domenico, a cui avevano già
lavorato Nicola Pisano e Niccolò dell'Arca, che era morto da pochi mesi, in
quel 1494. Scolpì così un San Procolo, un Angelo reggicandelabro e terminò il
San Petronio iniziato da Niccolò[27]. Si tratta di figure che si allontanano
dalla tradizione di primo Quattrocento delle altre statue di Niccolò dell'Arca,
con una solidità e una compattezza innovative, nonché primo esempio di quella
"terribilità" michelangiolesca nell'espressione fiera e eroica del
San Procolo[28], nel quale pare abbozzata un'intuizione embrionale che si
svilupperà nel famoso David. A Bologna lo stile dell'artista era infatti
velocemente maturato grazie alla scoperta di nuovi esempi, diversi dalla
tradizione fiorentina, che lo influenzarono profondamente. Ammirò i rilievi
della Porta Magna di San Petronio di Jacopo della Quercia. Da essi attinse gli
effetti di "forza trattenuta", data dai contrasti tra parti lisce e
stondate e parti dai contorni rigidi e fratturati, nonché la scelta di soggetti
umani rustici e massicci, che esaltano le scene con gesti ampi, pose eloquenti
e composizioni dinamiche[29]. Anche le stesse composizioni di figure che
tendono a non rispettare i bordi quadrati dei riquadri e a debordare con le
loro masse compatte e la loro energia interna furono motivo di suggestione per
le future opere del fiorentino, che nelle scene della Volta Sistina citerà
diverse volte queste scene vedute in gioventù, sia negli insiemi, sia nei
particolari. Anche le sculture di Niccolò dell'Arca devono essere state
sottoposte ad analisi da parte del fiorentino, come il gruppo in cotto del
Compianto sul Cristo morto, dove il volto e il braccio di Gesù saranno
richiamati di lì a breve nella Pietà vaticana. Inoltre Michelangelo
rimase colpito dall'incontro con la pittura ferrarese, in particolare con le
opere di Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti, come il monumentale
Polittico Griffoni, gli espressivi affreschi della cappella Garganelli o la
Pietà del de' Roberti[27]. L'imbroglio del Cupido (1495-1496) Rientrato a
Firenze nel dicembre 1495, quando la situazione appariva ormai calmata,
Michelangelo trovò un clima molto diverso. Nella città dominata dal governo
repubblicano di ispirazione savonaroliana erano nel frattempo rientrati alcuni
Medici. Si trattava di alcuni esponenti del ramo cadetto che, per l'occasione,
presero il nome di "Popolani" per accattivarsi le simpatie del
popolo, presentandosi come protettori e garanti delle libertà comunali. Tra
questi spiccava Lorenzo di Pierfrancesco, bis-cugino del Magnifico, che era da
tempo una figura chiave della cultura cittadina, committente di Botticelli e di
altri artisti. Fu lui a prendere sotto protezione Michelangelo,
commissionandogli due sculture, entrambe perdute, un San Giovannino e un Cupido
dormiente[27]. Il Cupido in particolare fu al centro di una vicenda che
portò di lì a poco Michelangelo a Roma, in quello che può dirsi l'ultimo dei
suoi fondamentali viaggi formativi. Su suggerimento forse dello stesso Lorenzo
e probabilmente all'insaputa di Michelangelo, si decise di sotterrare il
Cupido, per patinarlo come un reperto archeologico e rivenderlo sul fiorente
mercato delle opere d'arte antiche a Roma. L'inganno riuscì, infatti di lì a
poco, con l'intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese, il cardinale
di San Giorgio Raffaele Riario, nipote di Sisto IV e uno dei più ricchi
collezionisti del tempo, lo acquistò per la cospicua somma di duecento ducati:
Michelangelo ne aveva incassati per la stessa opera appena trenta[27].
Poco dopo, tuttavia, le voci del fruttuoso inganno si sparsero fino ad arrivare
alle orecchie del cardinale, che per avere conferma e richiedere indietro i
soldi, spedì a Firenze un suo intermediario, Jacopo Galli, che risalì a
Michelangelo e riuscì ad avere conferma della truffa. Il cardinale andò su
tutte le furie, ma volle anche conoscere l'artefice capace di emulare gli antichi
facendoselo spedire a Roma, nel luglio di quell'anno, dal Galli. Con
quest'ultimo, in seguito, Michelangelo strinse un solido e proficuo
rapporto[27]. Primo soggiorno romano (1496-1501) Arrivo a Roma e il Bacco
(1496-1497) Michelangelo accettò senza indugio l'invito a Roma del cardinale,
nonostante questi fosse nemico giurato dei Medici: di nuovo per convenienza
voltava le spalle ai suoi protettori[30]. Arrivò a Roma il 25 giugno
1496. Il giorno stesso il cardinale mostrò a Michelangelo la sua manutenzione
di sculture antiche, chiedendogli se se la sentiva di fare qualcosa di simile.
Neppure dieci giorni dopo, l'artista iniziò a scolpire una statua a tutto tondo
di un Bacco (oggi al Museo del Bargello), raffigurato come un adolescente in
preda all'ebbrezza, in cui è già leggibile l'impatto con la statuaria classica:
l'opera infatti presenta una resa naturalistica del corpo, con effetti illusivi
e tattili simili a quelli della scultura ellenistica; inedita per l'epoca è
l'espressività e l'elasticità delle forme, unite al tempo stesso con
un'essenziale semplicità dei particolari. Ai piedi di Bacco scolpì un fauno che
sta rubando qualche acino d'uva dalla mano del dio: questo gesto destò molta
ammirazione in tutti gli scultori del tempo poiché il giovane sembra davvero
mangiare dell'uva con grande realismo. Il Bacco è una delle poche opere
perfettamente finite di Michelangelo e dal punto di vista tecnico segna il suo
ingresso nella maturità artistica[31]. L'opera, forse rifiutata dal
cardinale Riario, rimase in casa di Jacopo Galli, dove Michelangelo viveva. Il
cardinale Riario mise a disposizione di Michelangelo la sua cultura e la sua
collezione, contribuendo con ciò in maniera determinante al miglioramento del
suo stile, ma soprattutto lo introdusse nell'ambiente cardinalizio dal quale
sarebbero arrivate presto importantissime commissioni. Eppure, ancora una volta
Michelangelo mostrò ingratitudine verso il mecenate di turno: a proposito del
Riario fece scrivere dal suo biografo Condivi che era un ignorante e non gli
aveva commissionato nulla[32]. Pietà (1497-1499) Michelangelo,
Pietà, 1497-1499, marmo. Basilica di San Pietro, Città del Vaticano. Grazie
sempre all'intermediazione di Jacopo Galli, Michelangelo ricevette altre
importanti commissioni in ambito ecclesiastico, tra cui forse la Madonna di
Manchester, la tavola dipinta della Deposizione per Sant'Agostino, forse il
perduto dipinto con le Stigmate di san Francesco per San Pietro in Montorio, e,
soprattutto, una Pietà in marmo per la chiesa di Santa Petronilla, oggi nella
Basilica di San Pietro[33]. Quest'ultima opera, che suggellò la
definitiva consacrazione di Michelangelo nell'arte scultorea - ad appena
ventidue anni - era stata commissionata dal cardinale francese Jean de Bilhères
de La Groslaye, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, che
desiderava forse adoperarla per la propria sepoltura. Il contatto tra i due
dovette avvenire nel novembre 1497, in seguito al quale l'artista partì alla
volta di Carrara per scegliere un blocco di marmo adeguato; la firma del
contratto vero e proprio si ebbe poi solo nell'agosto del 1498. Il gruppo,
fortemente innovativo rispetto alla tradizione scultorea delle Pietà
tipicamente nordica, venne sviluppato con una composizione piramidale, con la
Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale,
mediate dal massiccio panneggio. La finitura dei particolari venne condotta
alle estreme conseguenze, tanto da dare al marmo effetti di traslucido e di
cerea morbidezza. Entrambi i protagonisti mostrano un'età giovane, tanto che
sembra che lo scultore si sia ispirato al passo dantesco "Vergine Madre,
Figlia di tuo Figlio"[34]. La Pietà fu importante nell'esperienza
artistica di Michelangelo non solo perché fu il suo primo capolavoro ma anche
perché fu la prima opera da lui fatta in marmo di Carrara, che da questo
momento divenne la materia primaria per la sua creatività. A Carrara l'artista
manifestò un altro aspetto della personalità: la consapevolezza del proprio
talento. Lì infatti acquistò non solo il blocco di marmo per la Pietà, ma anche
diversi altri blocchi, nella convinzione che - considerato il suo talento - le
occasioni per utilizzarli non sarebbero mancate[35]. Cosa ancora più insolita
per un artista di quei tempi, Michelangelo si convinse che per scolpire le
proprie statue non aveva bisogno di committenti: avrebbe potuto scolpire di
propria iniziativa opere da vendere una volta terminate. In pratica
Michelangelo diventava un imprenditore di sé stesso e investiva sul proprio
talento senza aspettare che altri lo facessero per lui[35]. Rientro a
Firenze (1501-1504) Passaggio per Siena (1501) Nel 1501 Michelangelo decise di
tornare a Firenze. Prima di partire Jacopo Galli gli ottenne una nuova
commissione, questa volta per il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini,
futuro papa Pio III. Si trattava di realizzare quindici statue di Santi di
grandezza leggermente inferiore al naturale, per l'altare Piccolomini nel Duomo
di Siena, composto architettonicamente una ventina di anni prima da Andrea
Bregno. Alla fine l'artista ne realizzò solo quattro (San Paolo, San Pietro, un
San Pio e San Gregorio), spedendole da Firenze fino al 1504, per di più con un
uso massiccio di aiuti. La commissione delle statue senesi, destinate a nicchie
anguste, iniziava infatti a essere ormai troppo stretta per la sua fama, in
luce soprattutto delle prestigiose opportunità che si stavano profilando a
Firenze[36]. Rientro a Firenze: il David (1501) Michelangelo,
David, 1501-1504, marmo. Galleria dell'Accademia, Firenze. Nel 1501
Michelangelo era già rientrato a Firenze, spinto da necessità legate a
"domestici negozi"[37]. Il suo ritorno coincise con l'avvio di una
stagione di commissioni di grande prestigio, che testimoniano la grande
reputazione che l'artista si era conquistato durante gli anni passati a
Roma. Il 16 agosto del 1501 l'Opera del Duomo di Firenze gli affidò ad
esempio una colossale statua del David da collocare in uno dei contrafforti
esterni posti nella zona absidale della cattedrale. Si trattava di un'impresa
resa complicata dal fatto che il blocco di marmo assegnato era stato
precedentemente sbozzato da Agostino di Duccio nel 1464 e da Antonio Rossellino
nel 1476, col rischio che fossero state ormai asportate porzioni di marmo
indispensabili alla buona conclusione del lavoro[38]. Nonostante la
difficoltà, Michelangelo iniziò a lavorare su quello che veniva chiamato
"il Gigante" nel settembre del 1501 e completò l'opera in tre anni.
L'artista affrontò il tema dell'eroe in maniera insolita rispetto
all'iconografia data dalla tradizione, rappresentandolo come un uomo giovane e
nudo, dall'atteggiamento pacato ma pronto a una reazione, quasi a
simboleggiare, secondo molti, il nascente ideale politico repubblicano, che
vedeva nel cittadino-soldato - e non nel mercenario - l'unico in grado di
difendere le libertà repubblicane. I fiorentini riconobbero immediatamente la
statua come un capolavoro. Così, anche se il David era nato per l'Opera del
Duomo e quindi per essere osservato da un punto di vista ribassato e non certo
frontale, la Signoria decise di farne il simbolo della città e come tale venne
collocata nel luogo col maggior valore simbolico: piazza della Signoria. A
decidere di questa collocazione della statua fu una commissione appositamente
nominata e composta dai migliori artisti della città, tra i quali Davide
Ghirlandaio, Simone del Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli, Antonio
e Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino, Leonardo da Vinci, Pietro
Perugino[39]. Leonardo da Vinci, in particolare, votò per una posizione
defilata del David, sotto una nicchia nella Loggia della Signoria, confermando
le voci di rivalità e cattivi rapporti tra i due geni[40].
Confronto tra il profilo del Louvre e il profilo scultoreo di Palazzo
Vecchio conosciuto come l'Importuno di Michelangelo[41] Contemporaneamente alla
collocazione del David, Michelangelo potrebbe essere stato coinvolto nella
realizzazione del profilo scultoreo inciso sulla facciata di Palazzo Vecchio
conosciuto come L'Importuno di Michelangelo. L'ipotesi[41] su un possibile
coinvolgimento di Michelangelo nella creazione del profilo si fonda sulla forte
somiglianza di quest'ultimo con un profilo disegnato dall'artista, databile
agli inizi del XVI secolo, oggi conservato al Louvre.[42] Inoltre il profilo fu
probabilmente scolpito con il permesso delle autorità cittadine, infatti la
facciata di Palazzo Vecchio era costantemente presieduta da guardie. Quindi il
suo autore godeva di una certa considerazione e libertà d'azione. Lo stile
fortemente caratterizzato del profilo scolpito è vicino a quello dei profili di
teste maschili disegnati da Michelangelo nei primi anni del XVI secolo. Quindi
anche il ritratto scultoreo di Palazzo Vecchio dovrebbe essere datato
all'inizio del XVI secolo,[43] la sua esecuzione coinciderebbe con la
collocazione del David[44] e potrebbe forse rappresentare uno dei membri della
suddetta commissione.[45] Leonardo e Michelangelo Leonardo dimostrò
interesse per il David, copiandolo in un suo disegno (sebbene non potesse
condividere la spiccata muscolarità dell'opera), ma anche Michelangelo fu
influenzato dall'arte di Leonardo. Nel 1501 il maestro da Vinci espose nella
Santissima Annunziata un cartone con la Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e
l'agnellino (perduto), che "fece maravigliare tutti gl'artefici, ma finita
ch'ella fu, nella stanza durarono due giorni d'andare a vederla gl'uomini e le
donne, i giovani et i vecchi"[46]. Lo stesso Michelangelo vide il cartone,
restando forse impressionato dalle nuove idee pittoriche di avvolgimento
atmosferico e di indeterminatezza spaziale e psicologica, ed è quasi certo che
l'abbia studiato, come dimostrano i disegni di quegli anni, dai tratti più
dinamici, con una maggiore animazione dei contorni e con una maggiore attenzione
al problema del legame tra le figure, risolto spesso in gruppi articolati in
maniera dinamica. La questione dell'influenza leonardesca è un argomento
controverso tra gli studiosi, ma una parte di essi ne legge le tracce nei due
tondi scultorei da lui eseguiti negli anni immediatamente successivi[47].
Ampiamente riconosciute sono indubbiamente due delle innovazioni stilistiche di
Leonardo assunte e fatte proprie nello stile di Michelangelo: la costruzione
piramidale delle figure umane, ampie rispetto agli sfondi naturali, e il
"contrapposto", portato al massimo grado dal Buonarroti, che rende
dinamiche le persone i cui arti vediamo spingersi in opposte direzioni
spaziali. Nuove commissioni (1502-1504) Tondo Taddei Tondo Doni
Il David tenne occupato Michelangelo fino al 1504, senza impedire però che si
imbarcasse in altri progetti, spesso a carattere pubblico, come il perduto
David bronzeo per un maresciallo del Re di Francia (1502), una Madonna col
Bambino per il mercante di panni fiammingo Alexandre Mouscron per la sua
cappella familiare a Bruges (1503) e una serie di tondi. Nel 1503-1505 circa
scolpì il Tondo Pitti, realizzato in marmo su commissione di Bartolomeo Pitti e
oggi al Museo del Bargello. In questa scultura spicca il diverso rilievo dato
ai soggetti, dalla figura appena accennata di Giovanni Battista (precoce
esempio di "non-finito"), alla finitezza della Vergine, la cui testa
ad altorilievo arriva a uscire dal confine della cornice. Tra il 1503 e
il 1504 realizzò un tondo dipinto per Agnolo Doni, rappresentante la Sacra
Famiglia con altre figure. In essa, i protagonisti sono grandiose proporzioni e
dinamicamente articolati, sullo sfondo di un gruppo di ignudi. I colori sono
audacemente vivaci, squillanti, e i corpi trattati in maniera scultorea ebbero
un effetto folgorante sugli artisti contemporanei. Evidente è qui il distacco
netto e totale dalla pittura leonardesca: per Michelangelo la migliore pittura
è quella che maggiormente si avvicina alla scultura, cioè quella che possedeva
il più elevato grado di plasticità possibile[48] e, dopo le prove a olio non
terminate che possiamo vedere a Londra, realizzerà qui un esempio di pittura
innovativa, pur con la tradizionale tecnica della tempera stesa con fitti
tratteggi incrociati. Curiosa è la vicenda legata al pagamento dell'opera: dopo
la consegna il Doni, mercante molto attento alle economie, stimò l'opera una
cifra "scontata" rispetto al pattuito, facendo infuriare l'artista
che si riprese la tavola, esigendo semmai il doppio del prezzo convenuto. Al
mercante non restò che pagare senza esitazione pur di ottenere il dipinto. Al
di là del valore aneddotico dell'episodio, lo si può annoverare fra i
primissimi esempi (se non il primo in assoluto) di ribellione dell'artista nei
confronti del committente, secondo il concetto allora assolutamente nuovo della
superiorità dell'artista-creatore rispetto al pubblico (e quindi alla
committenza)[49]. Del 1504-1506 circa è infine il marmoreo Tondo Taddei,
commissionato da Taddeo Taddei e ora alla Royal Academy of Arts di Londra: si
tratta di un'opera dall'attribuzione più incerta, dove comunque spicca
l'effetto non-finito, presente nel trattamento irregolare del fondo dal quale
le figure sembrano emergere, forse un omaggio all'indefinito spaziale e all'avvolgimento
atmosferico di Leonardo[50]. Gli Apostoli per il Duomo (1503) Il 24
aprile 1503, Michelangelo ricevette anche un'impegnativa con i consoli
dell'Arte della Lana fiorentina per la realizzazione di dodici statue marmoree
a grandezza naturale degli Apostoli, destinate a decorare le nicchie nei
pilastri che reggono la cupola della cattedrale fiorentina, da completarsi al
ritmo di una all'anno[47]. Il contratto non poté essere onorato per varie
vicissitudini e l'artista fece in tempo a sbozzare solo un San Matteo, uno dei
primi, vistosi esempi di non-finito[47]. La Battaglia di Cascina
(1504) Copia del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo,
eseguita da Aristotele da Sangallo nel 1542 e conservata presso la Holkham Hall
di Norfolk Tra l'agosto e il settembre 1504, gli venne commissionato un
monumentale affresco per la Sala Grande del Consiglio in Palazzo Vecchio che
doveva decorare una delle pareti, alta più di sette metri. L'opera doveva
celebrare le vittorie fiorentine, in particolare l'episodio della Battaglia di
Cascina, vinta contro i pisani nel 1364, che doveva andare a fare pendant con
la Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo sulla parete vicina[47].
Michelangelo fece in tempo a realizzare il solo cartone, sospeso nel 1505, quando
partì per Roma, e ripreso l'anno dopo, nel 1506, prima di andare perduto;
divenuto subito uno strumento di studio obbligatorio per i contemporanei, e la
sua memoria è tramandata sia da studi autografi sia da copie di altri artisti.
Più che sulla battaglia in sé, il dipinto si focalizzava sullo studio anatomico
delle numerose figure di "ignudi", colte in pose di notevole sforzo
fisico[47]. Il ponte sul Corno d'Oro (1504 circa) Come riporta Ascanio
Condivi, tra il 1504 e il 1506 il sultano di Costantinopoli avrebbe proposto
all'artista, la cui fama iniziava già a travalicare i confini nazionali, di
occuparsi della progettazione di un ponte sul Corno d'Oro, tra Istanbul e Pera.
Pare che l'artista avesse addirittura preparato un modello per la colossale impresa
e alcune lettere confermano l'ipotesi di un viaggio nella capitale
ottomana[51]. Si tratterebbe del primo cenno alla volontà di imbarcarsi
in un grande progetto di architettura, molti anni prima dell'esordio ufficiale
in quest'arte con la facciata per San Lorenzo a Firenze[52]. Il progetto
per il tamburo di Santa Maria del Fiore (1507) Nell'estate 1507 Michelangelo fu
incaricato dagli Operai di Santa Maria del Fiore di presentare, entro la fine
del mese di agosto, un disegno o un modello per il concorso relativo al
completamento del tamburo della cupola del Brunelleschi[53]. Secondo Giuseppe
Marchini, Michelangelo avrebbe inviato alcuni disegni a un legnaiolo per la
costruzione del modello, che lo stesso studioso ha riconosciuto in quello identificato
con il numero 143 nella serie conservata presso il Museo dell'Opera del
Duomo[54]. Questo presenta un'impostazione sostanzialmente filologica, tesa a
mantenere una certa continuità con la preesistenza, mediante l'inserimento di
una serie di specchiature rettangolari in marmo verde di Prato allineate ai
capitelli delle paraste angolari; era prevista un'alta trabeazione, chiusa da
un cornicione dalle forme analoghe a quello di Palazzo Strozzi. Tuttavia questo
modello non fu accolto dalla commissione giudicatrice, che successivamente
approvò il disegno di Baccio d'Agnolo; il progetto prevedeva l'inserimento di
un massiccio ballatoio alla sommità, ma i lavori furono interrotti nel 1515,
sia per lo scarso favore ottenuto, sia a causa dell'opposizione di Michelangelo,
che, secondo il Vasari, definì l'opera di Baccio d'Agnolo una gabbia per
grilli[55]. Intorno al 1516 Michelangelo eseguì alcuni disegni
(conservati presso Casa Buonarroti) e fece costruire, probabilmente, un nuovo
modello ligneo, identificato, seppur con ampie riserve, col numero 144
nell'inventario del Museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore[56]. Ancora una
volta si registra l'abolizione del ballatoio, a favore di un maggiore risalto
degli elementi portanti; in particolare un disegno mostra l'inserimento di alte
colonne binate libere in corrispondenza degli angoli dell'ottagono, sormontate
da una serie di cornici fortemente aggettanti (un'idea che sarà successivamente
elaborata anche per la cupola della basilica di San Pietro in Vaticano). Le idee
di Michelangelo non furono comunque concretizzate. A Roma sotto Giulio II
(1505-1513) Ricostruzione ipotetica del primo progetto per la tomba di
Giulio II (1505) La tomba di Giulio II, primo progetto (1505) Fu probabilmente
Giuliano da Sangallo a raccontare a papa Giulio II Della Rovere, eletto nel
1503, gli strabilianti successi fiorentini di Michelangelo. Papa Giulio infatti
si era dedicato a un ambizioso programma di governo che intrecciava saldamente
politica e arte, circondandosi dei più grandi artisti viventi (tra cui Bramante
e, in seguito, Raffaello) nell'obiettivo di restituire a Roma e alla sua
autorità la grandezza del passato imperiale[47]. Chiamato a Roma nel
marzo 1505, Michelangelo ottenne il compito di realizzare una sepoltura monumentale
per il papa[57], da collocarsi nella tribuna (in via di completamento) della
basilica di San Pietro. Artista e committente si accordarono in tempi
relativamente brevi (appena due mesi) sul progetto e sul compenso, permettendo
a Michelangelo, riscosso un consistente acconto, di dirigersi subito a Carrara
per scegliere personalmente i blocchi di marmo da scolpire[58]. Il primo
progetto, noto tramite le fonti, prevedeva una colossale struttura
architettonica isolata nello spazio, con una quarantina di statue, dimensionate
in scala superiore al naturale, su tutte e quattro le facciate
dell'architettura[58]. Il lavoro di scelta ed estrazione dei blocchi
richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del 1505[58].
Particolare dell'ipotetico profilo della montagna da scolpire come un
Colosso, Casa Buonarroti, 44 A[59] Ricostruzione ipotetica del primo
progetto per la tomba di Giulio II (1505)[57] Secondo il fedele biografo
Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò a un grandioso progetto, di
scolpire un colosso nella montagna stessa[59], che potesse guidare i naviganti:
i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano parte dopotutto della
personalità dell'artista e non sono ritenuti frutto della fantasia del
biografo, anche per l'esistenza di un'edizione del manoscritto con note
appuntate su dettature di Michelangelo stesso (in cui l'opera è definita
"una pazzia", ma che l'artista avrebbe realizzato se avesse potuto
vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di emulare gli antichi
con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso di Rodi o la
statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio,
avrebbe voluto modellare nel Monte Athos[51]. Rottura e riconciliazione
con il papa (1505-1508) Durante la sua assenza si mise in moto a Roma una sorta
di complotto ai danni di Michelangelo, mosso dalle invidie tra gli artisti
della cerchia papale. La scia di popolarità che aveva anticipato l'arrivo a
Roma dello scultore fiorentino doveva infatti averlo reso subito impopolare tra
gli artisti al servizio di Giulio II, minacciando il favore del pontefice e la
relativa disposizione dei fondi che, per quanto immensi, non erano infiniti.
Pare che fu in particolare il Bramante, architetto di corte incaricato di
avviare - pochi mesi dopo la stipula del contratto della tomba - il grandioso
progetto di rinnovo della basilica costantiniana, a distogliere l'attenzione
del papa dal progetto della sepoltura, giudicata di cattivo auspicio per una
persona ancora in vita e nel pieno di ambiziosi progetti[60]. La
targa che a Bologna ricorda il soggiorno di Michelangelo del 1506 e la fusione
della perduta statua di Giulio II benedicente (1506-1508) Fu così che nella
primavera del 1506 Michelangelo, mentre tornava a Roma carico di marmi e di
aspettative dopo gli estenuanti mesi di lavoro nelle cave, fece l'amara
scoperta che il suo progetto mastodontico non era più al centro degli interessi
del papa, accantonato in favore dell'impresa della basilica e di nuovi piani
bellici contro Perugia e Bologna[61]. Il Buonarroti chiese invano
un'udienza chiarificatrice per avere la conferma della commissione ma, non
riuscendo a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato (scrisse «s'i' stava a
Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa»[61]),
fuggì da Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono
i cinque corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo
inseguirono raggiungendolo a Poggibonsi. Rintanato nell'amata e protettiva Firenze,
riprese alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina.
Ci vollero ben tre brevi del papa inviati alla Signoria di Firenze e le
continue insistenze del gonfaloniere Pier Soderini («Noi non vogliamo per te
far guerra col papa e metter lo Stato nostro a risico»), perché Michelangelo
prendesse infine in considerazione l'ipotesi della riconciliazione[61].
L'occasione venne data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto
i Bentivoglio: qui l'artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 e, in
un incontro all'interno del Palazzo D'Accursio, narrato con toni coloriti dal
Condivi, ottenne l'incarico di fondere una scultura in bronzo che
rappresentasse lo stesso pontefice a figura intera, seduto e in grande dimensione,
da collocare al di sopra della Porta Magna di Jacopo della Quercia, nella
facciata della basilica civica di San Petronio.[61] L'artista si fermò
quindi a Bologna per il tempo necessario all'impresa, circa due anni. A luglio
1507 avvenne la fusione e il 21 febbraio 1508 l'opera venne scoperta e
installata, ma non ebbe vita lunga. Poco amata per l'espressione del
papa-conquistatore, più minacciosa che benevolente, fu abbattuta in una notte
del 1511, durante il rovesciamento dalla città e il rientro temporaneo dei
Bentivoglio[61]. I rottami, quasi cinque tonnellate di metallo, vennero inviati
al duca di Ferrara Alfonso d'Este, rivale del papa, che li fuse in una
bombarda, battezzata per dileggio la Giulia, mentre la testa bronzea era
conservata in un armadio[62]. Una parvenza di come doveva apparire questo
bronzo michelangiolesco possiamo averla osservando la scultura di Gregorio
XIII, ancora oggi conservata sul portale del vicino Palazzo Comunale, forgiata
da Alessandro Menganti nel 1580. La volta della Cappella Sistina
(1508-1512) Lo stesso argomento in dettaglio: Volta della Cappella
Sistina. La volta della Cappella Sistina (1508-1512) «Senza aver visto la
Cappella Sistina non è possibile formare un'idea completa di ciò che un uomo è
capace di raggiungere.» (Johann Wolfgang von Goethe) I rapporti con
Giulio II rimasero comunque sempre tempestosi, per il forte temperamento che li
accomunava, irascibile e orgoglioso, ma anche estremamente ambizioso. A marzo
del 1508 l'artista si sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo
in affitto una casa a Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare
quello degli Apostoli per la cattedrale. Nell'aprile Pier Soderini gli
manifestò la volontà di affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio
però un breve papale lo raggiunge aggiungendogli di presentarsi alla corte
papale[63]. Subito Giulio II decise di occupare l'artista con una nuova,
prestigiosa impresa, la ridecorazione della volta della Cappella Sistina[64]. A
causa del processo di assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio
del 1504, una crepa nel soffitto della cappella rendendola inutilizzabile per
molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la
volta aveva bisogno però di essere ridipinta. L'impresa si dimostrava di
proporzioni colossali ed estremamente complessa, ma avrebbe dato a Michelangelo
l'occasione di dimostrare la sua capacità di superare i limiti in un'arte quale
la pittura, che tutto sommato non sentiva come sua e non gli era congeniale.
L'8 maggio di quell'anno l'incarico venne dunque accettato e
formalizzato[64]. Come nel progetto della tomba, anche l'impresa della
Sistina fu caratterizzata da intrighi e invidie ai danni di Michelangelo, che
sono documentati da una lettera del carpentiere e capomastro fiorentino Piero
Rosselli spedita a Michelangelo il 10 maggio 1506. In essa il Rosselli racconta
di una cena servita nelle stanze vaticane qualche giorno prima, a cui aveva
assistito. Il papa in quell'occasione aveva confidato a Bramante l'intenzione
di affidare a Michelangelo la ridipintura della volta, ma l'architetto urbinate
aveva risposto sollevando dubbi sulle reali capacità del fiorentino,
scarsamente esperto nell'affresco. Nel contratto del primo progetto erano
previsti dodici apostoli nei peducci, mentre nel campo centrale partimenti con
decorazioni geometriche. Di questo progetto rimangono due disegni di
Michelangelo, uno al British Museum e uno a Detroit. Ignudo
Insoddisfatto, l'artista ottenne di poter ampliare il programma iconografico,
raccontando la storia dell'umanità "ante legem", cioè prima che Dio
inviasse le Tavole della Legge: al posto degli Apostoli mise sette Profeti e
cinque Sibille, assisi su troni fiancheggiati da pilastrini che sorreggono la cornice;
quest'ultima delimita lo spazio centrale, diviso in nove scompartimenti
attraverso la continuazione delle membrature architettoniche ai lati di troni;
in questi scomparti sono raffigurati episodi tratti della Genesi, disposti in
ordine cronologico partendo dalla parete dell'altare: Separazione della luce
dalle tenebre, Creazione degli astri e delle piante, Separazione della terra
dalle acque, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale e cacciata
dal Paradiso terrestre, Sacrificio di Noè, Diluvio universale, Ebbrezza di Noè;
nei cinque scomparti che sormontano i troni lo spazio si restringe lasciando
posto a Ignudi che reggono ghirlande con foglie di quercia, allusione al casato
del papa cioè Della Rovere, e medaglioni bronzei con scene tratte dall'Antico
Testamento; nelle lunette e nelle vele vi sono le quaranta generazioni degli
Antenati di Cristo, riprese dal Vangelo di Matteo; infine nei pennacchi
angolari si trovano quattro scene bibliche, che si riferiscono ad altrettanti
eventi miracolosi a favore del popolo eletto: Giuditta e Oloferne, Davide e
Golia, Punizione di Aman e il Serpente di bronzo. L'insieme è organizzato in un
partito decorativo complesso, che rivela le sue indubbie capacità anche in
campo architettonico,[65][66] destinate a rivelarsi pienamente negli ultimi
decenni della sua attività[67]. Il tema generale degli affreschi della
volta è il mistero della Creazione di Dio, che raggiunge il culmine nella
realizzazione dell'uomo a sua immagine e somiglianza. Con l'incarnazione di
Cristo, oltre a riscattare l'umanità dal peccato originale, si raggiunge il
perfetto e ultimo compimento della creazione divina, innalzando l'uomo ancora
di più verso Dio. In questo senso appare più chiara la celebrazione che fa
Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo. Inoltre la volta celebra la
concordanza fra Antico e Nuovo Testamento, dove il primo prefigura il secondo,
e la previsione della venuta di Cristo in ambito ebraico (con i profeti) e
pagano (con le sibille). Creazione di Adamo[68] Montato il
ponteggio Michelangelo iniziò a dipingere le tre storie di Noè gremite di
personaggi. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato
dall'insoddisfazione di sé tipica dell'artista, dai ritardi nel pagamento dei
compensi e dalle continue richieste di aiuto da parte dei familiari[6]. Nelle
scene successive la rappresentazione divenne via via più essenziale e
monumentale: il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre e la
Creazione di Eva mostrano corpi più massicci e gesti semplici ma retorici; dopo
un'interruzione dei lavori, e vista la volta dal basso nel suo complesso e
senza i ponteggi, lo stile di Michelangelo cambiò, accentuando maggiormente la
grandiosità e l'essenzialità delle immagini, fino a rendere la scena occupata
da un'unica grandiosa figura annullando ogni riferimento al paesaggio
circostante, come nella Separazione della luce dalle tenebre. Nel complesso
della volta queste variazioni stilistiche non si notano, anzi vista dal basso
gli affreschi hanno un aspetto perfettamente unitario, dato anche dall'uso di
un'unica, violenta cromia, recentemente riportata alla luce dal restauro
concluso nel 1994. In definitiva, la difficile sfida su un'impresa di
dimensioni colossali e con una tecnica a lui non congeniale, con il diretto confronto
coi grandi maestri fiorentini presso i quali si era formato (a partire da
Ghirlandaio), poté dirsi pienamente riuscita oltre ogni aspettativa[64]. Lo
straordinario affresco venne inaugurato la vigilia di Ognissanti del 1512[67].
Qualche mese dopo Giulio II moriva. Il secondo e terzo progetto per la
tomba di Giulio II (1513-1516) Lo stesso argomento in dettaglio: Tomba di
Giulio II. Mosè (1513-1515 circa) Nel febbraio 1513, con la morte del
papa, gli eredi decisero di riprendere il progetto della tomba monumentale, con
un nuovo disegno e un nuovo contratto nel maggio di quell'anno. Si può
immaginare Michelangelo desideroso di riprendere lo scalpello, dopo quattro
anni di estenuante lavoro in un'arte che non era la sua prediletta. La modifica
più sostanziale del nuovo monumento era l'addossamento a una parete e
l'eliminazione della camera mortuaria, caratteristiche che vennero mantenute
fino al progetto finale. L'abbandono del monumento isolato, troppo grandioso e
dispendioso per gli eredi, comportò un maggiore affollamento di statue sulle
facce visibili. Ad esempio le quattro figure sedute, invece che disporsi sulle
due facciate, erano adesso previste in prossimità dei due angoli sporgenti
sulla fronte. La zona inferiore aveva una partitura analoga, ma senza il
portale centrale, sostituito da una fascia liscia che evidenziava l'andamento
ascensionale. Lo sviluppo laterale era ancora consistente, poiché era ancora
previsto il catafalco in posizione perpendicolare alla parete, sul quale la
statua del papa giacente era retta, da due figure alate. Nel registro inferiore
invece, su ciascun lato, restava ancora spazio per due nicchie che riprendevano
lo schema del prospetto anteriore. Più in alto, sotto una corta volta a tutto
sesto retta da pilastri, si trovava una Madonna col Bambino entro una mandorla
e altre cinque figure[61]. Tra le clausole contrattuali c'era anche
quella che legava l'artista, almeno sulla carta, a lavorare esclusivamente alla
sepoltura papale, con un termine massimo di sette anni per il completamento[69].
Lo scultore si mise al lavoro di buona lena e sebbene non rispettò la clausola
esclusiva per non precludersi ulteriori guadagni extra (come scolpendo il primo
Cristo della Minerva, nel 1514), realizzò i due Prigioni oggi al Louvre (Schiavo
morente e Schiavo ribelle) e il Mosè, che poi venne riutilizzato nella versione
definitiva della tomba[69]. I lavori vennero spesso interrotti per viaggi alle
cave di Carrara. Nel luglio 1516 si giunse a un nuovo contratto per un
terzo progetto, che riduceva il numero delle statue. I lati vennero accorciati
e il monumento andava assumendo così l'aspetto di una monumentale facciata,
mossa da decorazioni scultoree. Al posto della partitura liscia al centro della
facciata (dove si trovava la porta) viene forse previsto un rilievo bronzeo e,
nel registro superiore, il catafalco viene sostituito da una figura del papa
sorretto come in una Pietà da due figure sedute, coronate da una Madonna col
Bambino sotto una nicchia[61]. I lavori alla sepoltura vengono bruscamente
interrotti dalla commissione da parte di Leone X dei lavori alla basilica di
San Lorenzo[52]. Michelangelo e Sebastiano del Piombo In quegli stessi
anni, una competizione sempre più accesa con l'artista dominante della corte
papale, Raffaello, lo portò a stringere un sodalizio con un altro talentuoso
pittore, il veneziano Sebastiano del Piombo. Occupato da altri incarichi,
Michelangelo spesso forniva disegni e cartoni al collega, che li trasformava in
pittura. Tra questi ci fu ad esempio la Pietà di Viterbo[70]. Nel 1516
nacque una competizione tra Sebastiano e Raffaello, scatenata da una doppia
commissione del cardinale Giulio de' Medici per due pale destinate alla sua
sede di Narbona, in Francia. Michelangelo offrì un cospicuo aiuto a Sebastiano,
disegnando la figura del Salvatore e del miracolato nella tela della
Resurrezione di Lazzaro (oggi alla National Gallery di Londra). L'opera di
Raffaello invece, la Trasfigurazione, venne completata solo dopo la scomparsa
dell'artista nel 1520[71]. A Firenze per i papi medicei La facciata di
San Lorenzo (1516-1519) Il modello ligneo del progetto di Michelangelo
per San Lorenzo Nel frattempo il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni, era
salito al soglio pontificio col nome di Leone X e la città di Firenze era
tornata ai Medici nel 1511, comportando la fine del governo repubblicano con
alcune apprensioni in particolare per i parenti di Michelangelo, che avevano
perso incarichi d'ordine politico e i relativi compensi[72]. Michelangelo
lavorò per il nuovo papa fin dal 1514, quando rifece la facciata della sua
cappella a Castel Sant'Angelo (dal novembre, opera perduta); nel 1515 la
famiglia Buonarroti ottenne dal papa il titolo di conti palatini[73]. In
occasione di un viaggio del papa a Firenze nel 1516, la facciata della chiesa
"di famiglia" dei Medici, San Lorenzo, era stata ricoperta di
apparati effimeri realizzati da Jacopo Sansovino e Andrea del Sarto. Il
pontefice decise allora di indire un concorso per realizzare una vera facciata,
a cui parteciparono Giuliano da Sangallo, Raffaello, Andrea e Jacopo Sansovino,
nonché Michelangelo stesso, su invito del papa. La vittoria andò a
quest'ultimo, all'epoca impegnato a Carrara e Pietrasanta per scegliere i marmi
per il sepolcro di Giulio II[72]. Il contratto è datato 19 gennaio
1518[73]. Il progetto di Michelangelo, per il quale vennero eseguiti
numerosi disegni e ben due modelli lignei (uno è oggi a Casa Buonarroti)
prevedeva una struttura a nartece con un prospetto rettangolare, forse ispirato
a modelli di architettura classica, scandito da potenti membrature animate da
statue in marmo, bronzo e da rilievi. Si sarebbe trattato di un passo
fondamentale in architettura verso una concezione nuova di facciata, non più
basata sulla mera aggregazione di elementi singoli, ma articolata in modo
unitario, dinamico e fortemente plastico[74]. Il lavoro procedette però a
rilento, a causa della scelta del papa di servirsi dei più economici marmi di
Seravezza, la cui cava era mal collegata col mare, rendendo difficile il loro
trasporto per via fluviale fino a Firenze. Nel settembre 1518 Michelangelo
sfiorò anche la morte per una colonna di marmo che, durante il trasporto su un
carro, si staccò colpendo micidialmente un operaio accanto a lui, un evento che
lo sconvolse profondamente, come raccontò in una lettera a Berto da Filicaia
datata 14 settembre 1518[75]. In Versilia Michelangelo creò la strada per il
trasporto dei marmi, ancora oggi esistente (anche se ampliata nel 1567 da
Cosimo I). I blocchi venivano calati dalla cava di Trambiserra ad Azzano,
davanti al Monte Altissimo, fino al Forte dei Marmi (insediamento sorto proprio
in quell'occasione) e da lì imbarcate in mare e spedite a Firenze tramite
l'Arno. Nel marzo 1520 il contratto fu rescisso, per la difficoltà dell'impresa
e i costi elevati. In quel periodo Michelangelo lavorò ai Prigioni per la tomba
di Giulio II, in particolare ai quattro incompiuti oggi alla Galleria
dell'Accademia. Scolpì probabilmente anche la statua del Genio della Vittoria
di Palazzo Vecchio e alla nuova versione del Cristo risorto per Metello Vari
(opera portata a Roma nel 1521), rifinita da suoi assistenti e posta nella
basilica di Santa Maria sopra Minerva[72]. Tra le commissioni ricevute e non
portate a termine c'è una consulenza per Pier Soderini, per una cappella nella
chiesa romana di San Silvestro in Capite (1518)[76]. La Sagrestia Nuova
(1520-1534) Lo stesso argomento in dettaglio: Sagrestia Nuova.
Sagrestia Nuova Il mutamento dei desideri papali venne causato dai tragici
eventi familiari legati alla morte degli ultimi eredi diretti della dinastia
medicea: Giuliano Duca di Nemours nel 1516 e, soprattutto, Lorenzo Duca
d'Urbino nel 1519. Per ospitare degnamente i resti dei due cugini, nonché
quelli dei fratelli Magnifici Lorenzo e Giuliano, rispettivamente padre e zio
di Leone X, il papa maturò l'idea di creare una monumentale cappella funebre,
la Sagrestia Nuova, da ospitare nel complesso di San Lorenzo. L'opera venne
affidata a Michelangelo prima ancora del definitivo annullamento della
commissione della facciata; dopotutto l'artista poco tempo prima, il 20 ottobre
1519, si era offerto al pontefice per realizzare una sepoltura monumentale per
Dante in Santa Croce, manifestando quindi la sua disponibilità a nuovi
incarichi[72]. La morte di Leone sospese il progetto solo per breve tempo,
poiché già nel 1523 venne eletto suo cugino Giulio, che prese il nome di
Clemente VII e confermò a Michelangelo tutti gli incarichi[72]. Il primo
progetto michelangiolesco era quello di un monumento isolato al centro della
sala ma, in seguito a discussioni con i committenti, lo cambiò prevedendo di
collocare le tombe dei Capitani addossate al centro delle pareti laterali,
mentre quelle dei Magnifici, addossate entrambe alla parete di fondo davanti
all'altare. L'opera venne iniziata nel 1525 circa: la struttura in pianta
si rifaceva alla Sagrestia Vecchia, sempre nella chiesa di San Lorenzo, del
Brunelleschi: a pianta quadrata e con piccolo sacello anch'esso quadrato.
Grazie alle membrature, in pietra serena e a ordine gigante, l'ambiente
acquista un ritmo più serrato e unitario; inserendo tra le pareti e le lunette
un mezzanino e aprendo tra queste ultime delle finestre architravate, dà alla
sala un potente senso ascensionale concluso nella volta a cassettoni di
ispirazione antica. Le tombe che sembrano far parte della parete,
riprendono nella parte alta le edicole, che sono inserite sopra le otto porte
dell'ambiente, quattro vere e quattro finte. Le tombe dei due capitani si
compongono di un sarcofago curvilineo sormontato da due statue distese con le
Allegorie del Tempo: in quella di Lorenzo il Crepuscolo e l'Aurora, mentre in
quella di Giuliano la Notte e il Giorno. Si tratta di figure massicce e dalle
membra poderose che sembrano gravare sui sarcofagi quasi a spezzarli e a
liberare le anime dei defunti, ritratti nelle statue inserite sopra di essi.
Inserite in una nicchia della parete, le statue non sono riprese dal vero ma
idealizzate mentre contemplano: Lorenzo in una posa pensierosa e Giuliano con uno
scatto repentino della testa. La statua posta sull'altare con la Madonna Medici
è simbolo di vita eterna ed è fiancheggiata dalle statue dei Santi Cosma e
Damiano (protettori dei Medici) eseguite su disegno del Buonarroti,
rispettivamente da Giovanni Angelo Montorsoli e Raffaello da Montelupo.
All'opera, anche se non continuativamente, Michelangelo lavorò fino al 1534,
lasciandola incompiuta: senza i monumenti funebri dei Magnifici, le sculture
dei Fiumi alla base delle tombe dei Capitani e, forse, di affreschi nelle
lunette. Si tratta comunque di uno straordinario esempio di simbiosi perfetta
tra scultura e architettura[77]. Nel frattempo Michelangelo continuava a
ricevere altre commissioni che solo in piccola parte eseguiva: nell'agosto 1521
inviò a Roma il Cristo della Minerva, nel 1522 un certo Frizzi gli commissionò
una tomba a Bologna e il cardinale Fieschi gli chiese una Madonna scolpita,
entrambi progetti mai eseguiti[76]; nel 1523 ricevette nuove sollecitazioni da
parte degli eredi di Giulio II, in particolare Francesco Maria Della Rovere, e
lo stesso anno gli venne commissionata, senza successo, una statua di Andrea
Doria da parte del Senato genovese, mentre il cardinal Grimani, patriarca di
Aquileia, gli chiese un dipinto o una scultura mai eseguiti[76]. Nel 1524 papa
Clemente gli commissionò la biblioteca Medicea Laurenziana, i cui lavori
avviarono a rilento, e un ciborio (1525) per l'altare maggiore di San Lorenzo,
sostituito poi dalla Tribuna delle reliquie; nel 1526 si arrivò a una drammatica
rottura coi Della Rovere per un nuovo progetto, più semplice, per la tomba di
Giulio II, che venne rifiutato[72]. Altre richieste inevase di progetti di
tombe gli pervengono dal duca di Suessa e da Barbazzi canonico di San Petronio
a Bologna[72]. L'insurrezione e l'assedio (1527-1530) Copia dalla
Leda e il cigno di Michelangelo, alla National Gallery di Londra Un motivo
comune nella vicenda biografica di Michelangelo è l'ambiguo rapporto con i
propri committenti, che più volte ha fatto parlare di ingratitudine
dell'artista verso i suoi patrocinatori. Anche con i Medici il suo rapporto fu
estremamente ambiguo: nonostante siano stati loro a spingerlo verso la carriera
artistica e a procurargli commissioni di altissimo rilievo, la sua convinta
fede repubblicana lo portò a covare sentimenti di odio contro di essi,
vedendoli come la principale minaccia contro la libertas fiorentina[77].
Fu così che nel 1527, arrivata in città la notizia del Sacco di Roma e del
durissimo smacco inferto a papa Clemente, la città di Firenze insorse contro il
suo delegato, l'odiato Alessandro de' Medici, cacciandolo e instaurando un
nuovo governo repubblicano. Michelangelo aderì pienamente al nuovo regime, con
un appoggio ben oltre il piano simbolico. Il 22 agosto 1528 si mise al
servizio del governo repubblicano, riprendendo la vecchia commissione
dell'Ercole e Caco (ferma dal 1508), che propose di mutare in un Sansone con
due filistei[72]. Il 10 gennaio 1529 venne nominato membro dei "Nove di
milizia", occupandosi di nuovi piani difensivi, specie per il colle di San
Miniato al Monte[72]. Il 6 aprile di quell'anno riceve l'incarico di
"Governatore generale sopra le fortificazioni", in previsione
dell'assedio che le forze imperiali si apprestavano a cingere[77]. Visitò appositamente
Pisa e Livorno nell'esercizio del proprio ufficio, e si recò anche a Ferrara
per studiarne le fortificazioni (qui Alfonso I d'Este gli commissionò una Leda
e il cigno, poi andata perduta[76]), rientrando a Firenze il 9 settembre[72].
Preoccupato per l'aggravarsi della situazione, il 21 settembre fuggì a Venezia,
in previsione di trasferirsi in Francia alla corte di Francesco I, che però non
gli aveva ancora fatto offerte concrete. Qui venne però raggiunto prima dal
bando del governo fiorentino che lo dichiarò ribelle, il 30 settembre. Tornò
allora nella sua città il 15 novembre, riprendendo la direzione delle
fortezze[72]. Di questo periodo rimangono disegni di fortificazione,
realizzate attraverso una complicata dialettica di forme concave e convesse che
sembrano macchine dinamiche atte all'offesa e alla difesa. Con l'arrivo degli
Imperiali a minacciare la città, a lui è attribuita l'idea di usare la platea
di San Miniato al Monte come avamposto con cui cannoneggiare sul nemico,
proteggendo il campanile dai pallettoni nemici con un'armatura fatta di
materassi imbottiti. Le forze in campo per gli assedianti erano però
soverchianti e con la sua disperata difesa la città non poté altro che
negoziare un trattato, in parte poi disatteso, che evitasse la distruzione e il
saccheggio che pochi anni prima avevano colpito Roma. All'indomani del ritorno
dei Medici in città (12 agosto 1530) Michelangelo, che sapeva di essersi
fortemente compromesso e temendo quindi una vendetta, si nasconde
rocambolescamente e riuscì a fuggire dalla città (settembre 1530), riparando a
Venezia[77]. Qui restò brevemente, assalito da dubbi sul da farsi. In questo
breve periodo soggiornò all'isola della Giudecca per mantenersi lontano dalla
vita sfarzosa dell'ambiente cittadino e leggenda vuole che avesse presentato un
modello per il ponte di Rialto al doge Andrea Gritti. La sala di
lettura della Biblioteca Medicea Laurenziana Lo scalone nel vestibolo
della Biblioteca Medicea Laurenziana La Biblioteca Medicea Laurenziana (1530-1534)
Il perdono di Clemente VII non si fece però attendere, a patto che l'artista
riprendesse immediatamente i lavori a San Lorenzo dove, oltre alla Sagrestia,
si era aggiunto cinque anni prima il progetto di una monumentale libreria. È
chiaro come il papa fosse mosso, più che dalla pietà verso l'uomo, dalla
consapevolezza di non poter rinunciare all'unico artista capace di dare forma
ai sogni di gloria della sua dinastia, nonostante la sua indole
contrastata[77]. All'inizio degli anni trenta scolpì anche un Apollino per
Baccio Valori, il feroce governatore di Firenze imposto dal papa[72]. La
biblioteca pubblica, annessa alla chiesa di San Lorenzo, venne interamente
progettata dal Buonarroti: nella sala di lettura si rifece al modello della
biblioteca di Michelozzo in San Marco, eliminando la divisione in navate e
realizzando un ambiente con le mura scandite da finestre sormontate da
mezzanini tra pilastrini, tutti con modanature in pietra serena. Disegnò anche
i banchi in legno e forse lo schema di soffitto intagliato e pavimento con
decorazioni in cotto, organizzati in medesime partiture. Il capolavoro del
progetto è il vestibolo, con un forte slancio verticale dato dalle colonne
binate che cingono il portale timpanato e dalle edicole sulle pareti.
Solo nel 1558 Michelangelo fornì il modello in argilla per lo scalone, da lui
progettato in legno, ma realizzato per volere di Cosimo I de' Medici, in pietra
serena: le ardite forme rettilinee e ellittiche, concave e convesse, vengono
indicate come una precoce anticipazione dello stile barocco. Il 1531 fu
un anno intenso: eseguì il cartone del Noli me tangere, proseguì i lavori alla
Sagrestia e alla Liberia di San Lorenzo e per la stessa chiesa progettò la
Tribuna delle reliquie; Inoltre gli vennero chiesti, senza esito, un progetto
dal duca di Mantova, il disegno di una casa da Baccio Valori, e una tomba per
il cardinale Cybo; le fatiche lo condussero anche a una grave
malattia[72]. Nell'aprile 1532 si ebbe il quarto contratto per la tomba
di Giulio II, con solo sei statue. In quello stesso anno Michelangelo conobbe a
Roma l'intelligente e bellissimo Tommaso de' Cavalieri, con il quale si legò
appassionatamente, dedicandogli disegni e composizioni poetiche[72]. Per lui
approntò, tra l'altro, i disegni col Ratto di Ganimede e la Caduta di Fetonte,
che sembrano precorrere, nella potente composizione e nel tema del compiersi
fatale del destino, il Giudizio universale[78]. Rapporti molto tesi ebbe,
invece, con il guardarobiere pontificio e Maestro di Camera Pietro Giovanni
Aliotti, futuro vescovo di Forlì, che Michelangelo, considerandolo troppo
impiccione, chiamava il Tantecose. Il 22 settembre 1533 incontrò a San
Miniato al Tedesco Clemente VII e, secondo la tradizione, in quell'occasione si
parlò per la prima volta della pittura di un Giudizio universale nella
Sistina[72]. Lo stesso anno morì il padre Ludovico[72]. Nel 1534 gli
incarichi fiorentini procedevano ormai sempre più stancamente, con un ricorso
sempre maggiore di aiuti[79]. L'epoca di Paolo III (1534-1545) Il
Giudizio universale (1534-1541) Giudizio universale Cristo,
dettaglio del Giudizio universale L'artista non approvava il regime politico
tiranneggiante del duca Alessandro, per cui con l'occasione di nuovi incarichi
a Roma, tra cui il lavoro per gli eredi di Giulio II, lasciò Firenze dove non
mise mai più piede, nonostante gli accattivanti inviti di Cosimo I negli anni
della vecchiaia[79]. Clemente VII gli aveva commissionato la decorazione
della parete di fondo della Cappella Sistina con il Giudizio universale, ma non
fece in tempo a vedere nemmeno l'inizio dei lavori, perché morì pochi giorni
dopo l'arrivo dell'artista a Roma. Mentre l'artista riprendeva la Sepoltura di
papa Giulio, venne eletto al soglio pontificio Paolo III, che non solo confermò
l'incarico del Giudizio, ma nominò anche Michelangelo pittore, scultore e
architetto del Palazzo Vaticano[72]. I lavori alla Sistina poterono
essere avviati alla fine del 1536, per proseguire fino all'autunno del 1541.
Per liberare l'artista dagli incarichi verso gli eredi Della Rovere Paolo III
arrivò a emettere un motu proprio il 17 novembre 1536[72]. Se fino ad allora i
vari interventi alla cappella papale erano stati coordinati e complementari,
con il Giudizio si assistette al primo intervento distruttivo, che sacrificò la
pala dell'Assunta di Perugino, le prime due storie quattrocentesche di Gesù e
di Mosè e due lunette dipinte dallo stesso Michelangelo più di vent'anni
prima[79]. Al centro dell'affresco vi è il Cristo giudice con vicino la
Madonna che rivolge lo sguardo verso gli eletti; questi ultimi formano
un'ellissi che segue i movimenti del Cristo in un turbine di santi, patriarchi
e profeti. A differenza delle rappresentazioni tradizionale, tutto è caos e
movimento, e nemmeno i santi sono esentati dal clima di inquietudine, attesa,
se non paura e sgomento che coinvolge espressivamente i partecipanti. Le
licenze iconografiche, come i santi senza aureola, gli angeli apteri e il
Cristo giovane e senza barba, possono essere allusioni al fatto che davanti al
giudizio ogni singolo uomo è uguale. Questo fatto, che poteva essere letto come
un generico richiamo ai circoli della Riforma Cattolica, unitamente alla nudità
e alla posa sconveniente di alcune figure (santa Caterina d'Alessandria prona
con alle spalle san Biagio), scatenarono contro l'affresco i severi giudizi di
buona parte della curia. Dopo la morte dell'artista, e col mutato clima
culturale dovuto anche al Concilio di Trento, si arrivò al punto di provvedere
al rivestimento dei nudi e alla modifica delle parti più sconvenienti.
Una statua equestre Nel 1537, verso febbraio, il duca d'Urbino Francesco Maria
I Della Rovere gli chiese un abbozzo per un cavallo destinato forse a un
monumento equestre, che risulta completato il 12 ottobre. L'artista però si rifiutò
di inviare il progetto al duca, poiché insoddisfatto. Dalla corrispondenza si
apprende anche che entro i primi di luglio Michelangelo gli aveva progettato
anche una saliera: la precedenza del duca rispetto a tante commissioni inevase
di Michelangelo è sicuramente legata alla pendenza dei lavori alla tomba di
Giulio II, di cui Francesco Maria era erede[76]. Quello stesso anno a
Roma riceve la cittadinanza onoraria in Campidoglio[76]. Piazza del
Campidoglio Piazza del Campidoglio in una stampa di Étienne Dupérac
(1568) Paolo III, al pari dei suoi predecessori, fu un entusiasta committente
di Michelangelo[79]. Con il trasferimento sul Campidoglio della statua
equestre di Marco Aurelio, simbolo dell'autorità imperiale e per estensione
della continuità tra la Roma imperiale e quella papale, il papa incaricò
Michelangelo, nel 1538, di studiare la ristrutturazione della piazza, centro
dell'amministrazione civile romana fin dal Medioevo e in stato di
degrado[76]. Tenendo conto delle preesistenze vennero mantenuti e
trasformati i due edifici esistenti, già ristrutturati nel XV secolo da
Rossellino, realizzando di conseguenza la piazza a pianta trapezoidale con
sullo sfondo il palazzo dei Senatori, dotato di scala a doppia rampa, e
delimitata ai lati da due palazzi: il Palazzo dei Conservatori e il cosiddetto
Palazzo Nuovo costruito ex novo, entrambi convergenti verso la scalinata di
accesso al Campidoglio. Gli edifici vennero caratterizzati da un ordine gigante
a pilastri corinzi in facciata, con massicce cornici e architravi. Al piano
terra degli edifici laterali i pilastri dell'ordine gigante sono affiancati da
colonne che formano un insolito portico architravato, in un disegno complessivo
molto innovativo che rifugge programmaticamente dall'uso dell'arco. Il lato
interno del portico presenta invece colonne alveolate che in seguito ebbero una
grande diffusione[80]. I lavori furono compiuti molto dopo la morte del
maestro, mentre la pavimentazione della piazza fu realizzata solo ai primi del
Novecento, utilizzando una stampa di Étienne Dupérac che riporta quello che
doveva essere il progetto complessivo previsto da Michelangelo, secondo un
reticolo curvilineo inscritto in un'ellisse con al centro il basamento ad
angoli smussati per la statua del Marc'Aurelio, anch'esso disegnato da
Michelangelo. Verso il 1539 iniziò forse il Bruto per il cardinale
Niccolò Ridolfi, opera dai significati politici legata ai fuorusciti
fiorentini[72]. La Crocifissione per Vittoria Colonna (1541) La
copia della Crocifissione per Vittoria Colonna di Marcello Venusti Dal 1537
circa Michelangelo aveva iniziato la vivida amicizia con la marchesa di Pescara
Vittoria Colonna: essa lo introdusse al circolo viterbese del cardinale
Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da Vittore Soranzo, Apollonio
Merenda, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise Priuli e la
contessa Giulia Gonzaga. In quel circolo culturale si aspirava a una
riforma della Chiesa cattolica, sia interna sia nei confronti del resto della
Cristianità, alla quale avrebbe dovuto riconciliarsi. Queste teorie
influenzarono Michelangelo e altri artisti. Risale a quel periodo la
Crocifissione realizzata per Vittoria, databile al 1541 e forse dispersa,
oppure mai dipinta. Di quest'opera ci restano solamente alcuni disegni
preparatori di incerta attribuzione, il più famoso è senz'altro quello
conservato al British Museum, mentre buone copie si trovano nella concattedrale
di Santa Maria de La Redonda e alla Casa Buonarroti. Inoltre esiste una tavola
dipinta, la Crocefissione di Viterbo, tradizionalmente attribuita a
Michelangelo, sulla base di un testamento di un conte viterbese datato al 1725,
esposta nel Museo del Colle del Duomo di Viterbo, più ragionevolmente
attribuibile ad ambiente michelangiolesco[81]. Secondo i progetti
raffigurava un giovane e sensuale Cristo, simboleggiante un'allusione alle
teorie riformiste cattoliche che vedevano nel sacrificio del sangue di Cristo
l'unica via di salvezza individuale, senza intermediazioni della Chiesa e dei
suoi rappresentanti. Uno schema analogo presentava anche la cosiddetta
Pietà per Vittoria Colonna, dello stesso periodo, nota da un disegno a Boston e
da alcune copie di allievi. In quegli anni a Roma Michelangelo poteva
quindi contare su una sua cerchia di amici ed estimatori, tra cui oltre alla
Colonna, Tommaso de' Cavalieri e artisti quali Tiberio Calcagni e Daniele da
Volterra[79]. Cappella Paolina (1542-1550) La Conversione di Saulo,
dettaglio Nel 1542 il papa gli commissionò quella che rappresenta la sua ultima
opera pittorica, dove ormai anziano lavorò per quasi dieci anni, in
contemporanea ad altri impegni[79]. Il papa Farnese, geloso e seccato del fatto
che il luogo ove la celebrazione di Michelangelo pittore raggiungesse i suoi
massimi livelli fosse dedicato ai papi Della Rovere, gli affidò la decorazione
della sua cappella privata in Vaticano che prese il suo nome (Cappella
Paolina). Michelangelo realizzò due affreschi, lavorando da solo con faticosa
pazienza, procedendo con piccole "giornate", fitte di interruzioni e
pentimenti. Il primo a essere realizzato, la Conversione di Saulo
(1542-1545), presenta una scena inserita in un paesaggio spoglio e irreale, con
compatti grovigli di figure alternati a spazi vuoti e, al centro, la luce
accecante che da Dio scende su Saulo a terra; il secondo, il Martirio di san
Pietro (1545-1550), ha una croce disposta in diagonale in modo da costituire
l'asse di un ipotetico spazio circolare con al centro il volto del
martire. L'opera nel suo complesso è caratterizzata da una drammatica
tensione e improntata a un sentimento di mestizia, generalmente interpretata
come espressione della religiosità tormentata di Michelangelo e del sentimento
di profondo pessimismo che caratterizza l'ultimo periodo della sua vita.
La conclusione dei lavori alla tomba di Giulio II (1544-1545) La Tomba di
Giulio II Dopo gli ultimi accordi del 1542, la tomba di Giulio II venne posta
in essere nella chiesa di San Pietro in Vincoli tra il 1544 e il 1545 con le
statue del Mosè, di Lia (Vita attiva) e di Rachele (Vita contemplativa) nel
primo ordine. Nel secondo ordine, al fianco del pontefice disteso con
sopra la Vergine col Bambino si trovano una Sibilla e un Profeta. Anche questo
progetto risente dell'influsso del circolo di Viterbo; Mosè uomo illuminato e
sconvolto dalla visione di Dio è affiancato da due modi di essere, ma anche da
due modi di salvezza non necessariamente in conflitto tra di loro: la vita
contemplativa viene rappresentata da Rachele che prega come se per salvarsi
usasse unicamente la Fede, mentre la vita attiva, rappresentata da Lia, trova
la sua salvezza nell'operare. L'interpretazione comune dell'opera d'arte è che
si tratti di una specie di posizione di mediazione tra Riforma e Cattolicesimo
dovuta sostanzialmente alla sua intensa frequentazione con Vittoria Colonna e
il suo entourage. Nel 1544 disegnò anche la tomba di Francesco Bracci,
nipote di Luigi del Riccio nella cui casa aveva ricevuto assistenza durante una
grave malattia che l'aveva colpito in giugno[72]. Per tale indisposizione, nel
marzo aveva rifiutato a Cosimo I de' Medici l'esecuzione di un busto[76]. Lo
stesso anno avviarono i lavori al Campidoglio, progettati nel 1538[76].
Vecchiaia (1546-1564) Gli ultimi decenni di vita di Michelangelo sono
caratterizzati da un progressivo abbandono della pittura e anche della
scultura, esercitata ormai solo in occasione di opere di carattere privato.
Prendono consistenza invece numerosi progetti architettonici e urbanistici, che
proseguono sulla strada della rottura del canone classico, anche se molti di
essi vennero portati a termine in periodi seguenti da altri architetti, che non
sempre rispettarono il suo disegno originale[79]. Palazzo Farnese
(1546-1550) La facciata di Palazzo Farnese A gennaio 1546 Michelangelo si
ammalò, venendo curato in casa di Luigi del Riccio. Il 29 aprile, ripresosi,
promise una statua in bronzo, una in marmo e un dipinto a Francesco I di
Francia, che però non riuscì a fare[76]. Con la morte di Antonio da
Sangallo il Giovane nell'ottobre 1546, a Michelangelo vennero affidate le
fabbriche di Palazzo Farnese e della basilica di San Pietro, entrambe lasciate
incompiute dal primo[72]. Tra il 1547 e il 1550 l'artista progettò dunque
il completamento della facciata e del cortile di Palazzo Farnese: nella
facciata variò, rispetto al progetto del Sangallo, alcuni elementi che danno
all'insieme una forte connotazione plastica e monumentale ma al tempo stesso
dinamica ed espressiva. Per ottenere questo risultato accrebbe in altezza il
secondo piano, inserì un massiccio cornicione e sormontò il finestrone centrale
con uno stemma colossale (i due ai lati sono successivi). Basilica di San
Pietro in Vaticano (1546-1564) Progetto per la basilica vaticana
nell'incisione di Étienne Dupérac Per quanto riguarda la basilica vaticana, la
storia del progetto michelangiolesco è ricostruibile da una serie di documenti
di cantiere, lettere, disegni, affreschi e testimonianze dei contemporanei, ma
diverse informazioni sono in contrasto tra loro. Infatti, Michelangelo non
redasse mai un progetto definitivo per la basilica, preferendo procedere per
parti[82]. In ogni caso, subito dopo la morte dell'artista toscano furono
pubblicate diverse stampe nel tentativo di restituire una visione complessiva
del disegno originario; le incisioni di Étienne Dupérac si imposero subito come
le più diffuse e accettate[83]. Michelangelo pare che aspirasse al
ritorno alla pianta centrale del Bramante, con un quadrato inscritto nella
croce greca, rifiutando sia la pianta a croce latina introdotta da Raffaello
Sanzio, sia i disegni del Sangallo, che prevedevano la costruzione di un
edificio a pianta centrale preceduto da un imponente avancorpo. Demolì
parti realizzate dai suoi predecessori e, rispetto alla perfetta simmetria del
progetto bramantesco, introdusse un asse preferenziale nella costruzione,
ipotizzando una facciata principale schermata da un portico composto da colonne
d'ordine gigante (non realizzato). Per la massiccia struttura muraria, che
doveva correre lungo tutto il perimetro della fabbrica, ideò un unico ordine
gigante a paraste corinzie con attico, mentre al centro della costruzione
costruì un tamburo, con colonne binate (sicuramente realizzato dall'artista),
sul quale fu innalzata la cupola emisferica a costoloni conclusa da lanterna
(la cupola fu completata, con alcune differenze rispetto al presunto modello
originario, da Giacomo Della Porta). Tuttavia, la concezione
michelangiolesca fu in gran parte stravolta da Carlo Maderno, che all'inizio
del XVII secolo completò la basilica con l'aggiunta di una navata longitudinale
e di un'imponente facciata sulla base delle spinte della Controriforma.
Nel 1547 morì Vittoria Colonna, poco dopo la scomparsa dell'altro amico Luigi
del Riccio: si tratta di perdite molto amare per l'artista[72]. L'anno
successivo, il 9 gennaio 1548 muore suo fratello Giovansimone Buonarroti. Il 27
agosto il Consiglio municipale di Roma propose di affidare all'artista il
restauro del ponte di Santa Maria. Nel 1549 Benedetto Varchi pubblicò a Firenze
"Due lezzioni", tenute su un sonetto di Michelangelo[72]. Nel gennaio
del 1551 alcuni documenti della cattedrale di Padova accennano a un modello di
Michelangelo per il coro[76]. La serie delle Pietà (1550-1555
circa) La Pietà Bandini La Pietà Rondanini Dal 1550 circa iniziò a
realizzare la cosiddetta Pietà dell'Opera del Duomo (dalla collocazione attuale
nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze), opera destinata alla sua tomba e
abbandonata dopo che l'artista frantumò, in un accesso d'ira due o tre anni più
tardi, il braccio e la gamba sinistra del Cristo, spezzando anche la mano della
Vergine. Fu in seguito Tiberio Calcagni a ricostruire il braccio e rifinire la
Maddalena lasciata dal Buonarroti allo stato di non-finito: il gruppo
costituito dal Cristo sorretto dalla Vergine, dalla Maddalena e da Nicodemo è
disposto in modo piramidale con al vertice quest'ultimo; la scultura viene
lasciata a diversi gradi di finitura con la figura del Cristo allo stadio più
avanzato. Nicodemo sarebbe un autoritratto del Buonarroti, dal cui corpo sembra
uscire la figura del Cristo: forse un riferimento alla sofferenza psicologica
che lui, profondamente religioso, portava dentro di sé in quegli anni. La
Pietà Rondanini venne definita, nell'inventario di tutte le opere rinvenute nel
suo studio dopo la morte, come: "Un'altra statua principiata per un Cristo
et un'altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non
finite". Michelangelo nel 1561 donò la scultura al suo servitore
Antonio del Francese continuando però ad apportarvi modifiche sino alla morte;
il gruppo è costituito da parti condotte a termine, come il braccio destro di
Cristo, e da parti non finite, come il torso del Salvatore schiacciato contro
il corpo della Vergine quasi a formare un tutt'uno. Successivamente alla scomparsa
di Michelangelo, in un periodo imprecisato, questa scultura fu trasferita nel
palazzo Rondanini di Roma e da questi ha mutuato il nome. Attualmente si trova
nel Castello Sforzesco, acquistata nel 1952 dalla città di Milano da una
proprietà privata[84]. Le biografie Nel 1550 uscì la prima edizione delle
Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari che
conteneva una biografia di Michelangelo, la prima scritta di un artista
vivente, in posizione conclusiva dell'opera che celebrava l'artista come
vertice di quella catena di grandi artefici che partiva da Cimabue e Giotto,
raggiungendo nella sua persona la sintesi di perfetta padronanza delle arti
(pittura, scultura e architettura) in grado non solo di rivaleggiare ma anche
di superare i mitici maestri dell'antichità[85]. Nonostante le premesse
celebrative ed encomiastiche, Michelangelo non gradì l'operazione, per le
numerose scorrettezze e soprattutto per una versione a lui non congeniale della
tormentata vicenda della tomba di Giulio II. L'artista allora in quegli anni
lavorò con un suo fedele collaboratore, Ascanio Condivi, facendo pubblicare una
nuova biografia che riportava la sua versione dei fatti (1553). A questa
attinse Vasari, oltre che in seguito a una sua diretta frequentazione
dell'artista negli ultimi anni di vita, per la seconda edizione delle Vite,
pubblicata nel 1568[85]. Queste opere alimentarono la leggenda
dell'artista, quale genio tormentato e incompreso, spinto oltre i propri limiti
dalle condizioni avverse e dalle mutevoli richieste dei committenti, ma capace
di creare opere titaniche e insuperabili[79]. Mai avvenuto fino ad allora era
poi che questa leggenda si formasse quando ancora l'interessato era in
vita[79]. Nonostante questa invidiabile posizione raggiunta dal Buonarroti in
vecchiaia, gli ultimi anni della sua esistenza sono tutt'altro che tranquilli,
animati da una grande tribolazione interiore e da riflessioni tormentate sulla
fede, la morte e la salvezza, che si trovano anche nelle sue opere (come le
Pietà) e nei suoi scritti[79]. Altri avvenimenti degli anni cinquanta Nel
1550 Michelangelo aveva terminato gli affreschi alla Cappella Paolina e nel
1552 era stato completato il Campidoglio. In quell'anno l'artista fornì anche
il disegno per la scala nel cortile del Belvedere in Vaticano. In scultura
lavorò alla Pietà e in letteratura si occupa delle proprie biografie[72].
Nel 1554 Ignazio di Loyola dichiarò che Michelangelo aveva accettato di
progettare la nuova chiesa del Gesù a Roma, ma il proposito non ebbe
seguito[76]. Nel 1555 l'elezione al soglio pontificio di Marcello II compromise
la presenza dell'artista a capo del cantiere di San Pietro, ma subito dopo
venne eletto Paolo IV, che lo confermò nell'incarico, indirizzandolo
soprattutto ai lavori alla cupola. Sempre nel 1555 morirono suo fratello
Gismondo e Francesco Amadori detto l'Urbino che lo aveva servito per ventisei
anni[72]; una lettera a Vasari di quell'anno gli dà istruzioni per il
compimento del ricetto della Libreria Laurenziana[76]. Nel settembre 1556
l'avvicinarsi dell'esercito spagnolo indusse l'artista ad abbandonare Roma per
riparare a Loreto. Mentre faceva sosta a Spoleto venne raggiunto da un appello
pontificio che lo obbligò a tornare indietro[72]. Al 1557 risale il modello ligneo
per la cupola di San Pietro e nel 1559 fece disegni per la basilica di San
Giovanni Battista dei Fiorentini, nonché per la cappella Sforza in Santa Maria
Maggiore e per la scalinata della Biblioteca Medicea Laurenziana. Forse
quell'anno avviò anche la Pietà Rondanini[72]. Porta Pia a Roma
(1560) Porta Pia Nel 1560 fece un disegno a Caterina de' Medici per la
tomba di Enrico II. Inoltre lo stesso anno progetto la tomba di Giangiacomo de'
Medici per il Duomo di Milano, eseguita poi da Leone Leoni[72]. Verso il
1560 progettò anche la monumentale Porta Pia, vera e propria scenografia urbana
con la fronte principale verso l'interno della città. Il portale con frontone
curvilineo interrotto e inserito in un altro triangolare è fiancheggiato da
paraste scanalate, mentre sul setto murario ai lati si aprono due finestre
timpanate, con al di sopra altrettanti mezzanini ciechi. Dal punto di vista del
linguaggio architettonico, Michelangelo manifestò uno spirito sperimentale e
anticonvenzionale tanto che si è parlato di
"anticlassicismo"[86]. Santa Maria degli Angeli (1561)
Santa Maria degli Angeli; praticamente del progetto di Michelangelo sono
visibili solo le volte Ormai vecchio, Michelangelo progettò nel 1561 una
ristrutturazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli all'interno delle
Terme di Diocleziano e dell'adiacente convento dei padri certosini, avviati a
partire dal 1562. Lo spazio della chiesa fu ottenuto con un intervento che, dal
punto di vista murario, oggi si potrebbe definire minimale[87], con pochi setti
di muro nuovi entro il grande spazio voltato del tepidarium delle terme,
aggiungendo solo un profondo presbiterio e dimostrando un atteggiamento moderno
e non distruttivo nei confronti dei resti archeologici. La chiesa ha un
insolito sviluppo trasversale, sfruttando tre campate contigue coperte a
crociera, a cui sono aggiunte due cappelle laterali quadrate. Console
dell'Accademia delle Arti del Disegno Il 31 gennaio 1563 Cosimo I de' Medici
fondò, su consiglio dell'architetto aretino Giorgio Vasari, l'Accademia e
Compagnia dell'Arte del Disegno di cui viene subito eletto console proprio il
Buonarroti. Mentre la Compagnia era una sorta di corporazione cui dovevano
aderire tutti gli artisti operanti in Toscana, l'Accademia, costituita solo dalle
più eminenti personalità culturali della corte di Cosimo, aveva finalità di
tutela e supervisione sull'intera produzione artistica del principato mediceo.
Si trattava dell'ultimo, accattivante invito rivolto a Michelangelo da parte di
Cosimo per farlo tornare a Firenze, ma ancora una volta l'artista declinò: la
sua radicata fede repubblicana doveva probabilmente renderlo incompatibile col
servizio al nuovo duca fiorentino[79]. La morte La tomba di
Michelangelo in Santa Croce A un solo anno dalla nomina, il 18 febbraio 1564,
quasi ottantanovenne, Michelangelo morì a Roma, nella sua modesta residenza di
piazza Macel de' Corvi (distrutta quando venne creato il monumento a Vittorio
Emanuele II), assistito da Tommaso de' Cavalieri. Si dice che fino a tre giorni
prima avesse lavorato alla Pietà Rondanini[79]. Pochi giorni prima, il 21
gennaio, la Congregazione del Concilio di Trento aveva deciso di far coprire le
parti "oscene" del Giudizio universale. Nell'inventario redatto
qualche giorno dopo il decesso (19 febbraio) sono registrati pochi beni, tra
cui la Pietà, due piccole sculture di cui si ignorano le sorti (un San Pietro e
un piccolo Cristo portacroce), dieci cartoni, mentre i disegni e gli schizzi
pare che fossero stati bruciati poco prima di morire dal maestro stesso. In una
cassa viene poi ritrovato un cospicuo "tesoretto", degno di un
principe, che nessuno si sarebbe immaginato in un'abitazione tanto
povera[76]. Le solenni esequie a Firenze La morte del maestro venne
particolarmente sentita a Firenze, poiché la città non era riuscita a onorare
il suo più grande artista prima della morte, nonostante i tentativi di Cosimo.
Il recupero dei suoi resti mortali e la celebrazione di esequie solenni divenne
quindi un'assoluta priorità cittadina[88]. A pochi giorni dalla morte, suo
nipote Lionardo Buonarroti arrivò a Roma col preciso compito di recuperare la
salma e organizzarne il trasporto, un'impresa forse ingigantita dal resoconto
del Vasari nella seconda edizione delle Vite: secondo lo storico aretino i romani
si sarebbero opposti alle sue richieste, desiderando inumare l'artista nella
basilica di San Pietro, al che Lionardo avrebbe trafugato il corpo di notte e
in gran segreto prima di riprendere la strada per Firenze[89]. Appena
arrivata nella città toscana (11 marzo 1564), la bara venne portata in Santa
Croce e ispezionata secondo un complesso cerimoniale, stabilito dal
luogotenente dell'Accademia delle Arti del Disegno, Vincenzo Borghini. Si
trattò del primo atto funebre (12 marzo) che, per quanto solenne, venne presto
superato da quello del 14 luglio 1564 in San Lorenzo, patrocinato dalla casata
ducale e degno più di un principe che di un artista. L'intera basilica venne
addobbata riccamente con drappi neri e di tavole dipinte con episodi della sua
vita; al centro venne predisposto un catafalco monumentale, ornato di pitture e
sculture effimere, dalla complessa iconografia. L'orazione funebre venne
scritta e letta da Benedetto Varchi, che esaltò "le lodi, i meriti, la
vita e l'opere del divino Michelangelo Buonarroti"[89]. L'inumazione
avvenne infine in Santa Croce, in un sepolcro monumentale disegnato da Giorgio
Vasari, composto da tre figure piangenti che rappresentano la pittura, la
scultura e l'architettura[89]. I funerali di Stato suggellarono lo status
raggiunto dall'artista e furono la consacrazione definitiva del suo mito, come
artefice insuperabile, capace di raggiungere vertici creativi in qualunque
campo artistico e, più di quelli di qualunque altro, capaci di emulare l'atto
della creazione divina. Arma Stemma Blasonatura
Cimiero D'azzurro a due cotisse d'oro, e il capo d'Angiò cucito, abbassato
sotto un altro capo d'oro, caricato di una palla d'azzurro marcata di un giglio
d'oro in mezzo alle lettere L. X. per concessione di papa Leone X. Un cane
uscente con un osso in bocca. Rime Frontespizio delle Rime, edizione
1960 Un sonetto sulle fatiche alla volta della Sistina, copiato in bella
e con uno schizzo autografo Da lui considerata come una "cosa
sciocca", la sua attività poetica si viene caratterizzando, a differenza
di quella usuale nel Cinquecento influenzata dal Petrarca, da toni energici,
austeri e intensamente espressivi, ripresi dalle poesie di Dante. I più
antichi componimenti poetici datano agli anni 1504-1505, ma è probabile che ne
abbia realizzati anche in precedenza, dato che sappiamo che molti suoi
manoscritti giovanili andarono perduti. La sua formazione poetica avvenne
probabilmente sui testi di Petrarca e Dante, conosciuti nella cerchia
umanistica della corte di Lorenzo de' Medici. I primi sonetti sono legati a
vari temi collegati al suo lavoro artistico, a volte raggiungono il grottesco
con immagini e metafore bizzarre. Successivi sono i sonetti realizzati per
Vittoria Colonna e per Tommaso de' Cavalieri; in essi Michelangelo si concentra
maggiormente sul tema neoplatonico dell'amore, sia divino sia umano, che viene
tutto giocato intorno al contrasto tra amore e morte, risolvendolo con
soluzioni ora drammatiche, ora ironicamente distaccate. Negli ultimi anni
le sue rime si focalizzano maggiormente sul tema del peccato e della salvezza
individuale; qui il tono diventa amaro e a volte angoscioso, tanto da
realizzare vere e proprie visioni mistiche del divino. «Di giorno in
giorno insin da' mie prim'anni, Signor, soccorso tu mi fusti e guida, onde l'anima
mia ancor si fida di doppia aita ne' mie doppi affanni[90].» Le rime di
Michelangelo incontrarono una certa fortuna negli Stati Uniti, nell'Ottocento,
dopo la loro traduzione da parte del grande filosofo Ralph Waldo Emerson.
La tecnica scultorea di Michelangelo Schizzo esplicativo per cavatori con
blocchi e misure, Casa Buonarroti Da un punto di vista tecnico, Michelangelo
scultore, come d'altronde spesso accade negli artisti geniali, non seguiva un
processo creativo legato a regole fisse; ma in linea di massima sono comunque
tracciabili dei principi consueti o più frequenti[91]. Innanzitutto
Michelangelo fu il primo scultore che, nella pietra, non tentò mai di colorire
né di dorare alcune parti delle statue; al colore preferiva infatti l'esaltazione
del "morbido fulgore"[92] della pietra, spesso con effetti di
chiaroscuro evidenti nelle statue rimaste prive dell'ultima finitura, con i
colpi di scalpello che esaltano la peculiarità della materia
marmorea[91]. Gli unici bronzi da lui eseguiti sono distrutti o perduti
(il David De Rohan e il Giulio II benedicente); l'esiguità del ricorso a tale
materiale mostra con evidenza come egli non amasse gli effetti
"atmosferici" derivati dal modellare l'argilla. Egli dopotutto si
dichiarava artista "del levare", piuttosto che "del
mettere", cioè per lui la figura finale nasceva da un processo di
sottrazione della materia fino al nucleo del soggetto scultoreo, che era come
già "imprigionato" nel blocco di marmo. In tale materiale finito egli
trovava il brillio pacato delle superfici lisce e limpide, che erano le più
idonee per valorizzare l'epidermide delle solide muscolature dei suoi
personaggi[91]. Studi preparatori Studio per un dio fluviale nel
blocco di marmo, 1520-1525, British Museum Il procedimento tecnico con cui
Michelangelo scolpiva ci è noto da alcune tracce in studi e disegni e da
qualche testimonianza. Pare che inizialmente, secondo l'uso degli scultori
cinquecenteschi, predisponesse studi generali e particolari in forma di schizzo
e studio. Istruiva poi personalmente i cavatori con disegni (in parte ancora
esistenti) che fornissero un'idea precisa del blocco da tagliare, con misure in
cubiti fiorentini, talora arrivando a delineare la posizione della statua entro
il blocco stesso. A volte oltre ai disegni preparatori eseguiva dei modellini
in cera o argilla, cotti o no, oggetto di alcune testimonianze, seppure
indirette, e alcuni dei quali si conservano ancora oggi, sebbene nessuno sia
sicuramente documentato. Più raro è invece, pare, il ricorso a un modello nelle
dimensioni definitive, di cui resta però l'isolata testimonianza del Dio
fluviale[91]. Col passare degli anni però dovette assottigliare gli studi
preparatori in favore di un attacco immediato alla pietra mosso da idee
urgenti, suscettibili tuttavia di essere profondamente mutate nel corso del
lavoro (come nella Pietà Rondanini)[91]. Preparazione del blocco Il
Giorno, dettaglio Il Crepuscolo, dettaglio Tondo Pitti, dettaglio
Il primo intervento sul blocco uscito dalla cava avveniva con la
"cagnaccia", che smussava le superfici lisce e geometriche a seconda
dell'idea da realizzare. Pare che solo dopo questo primo appropriarsi del marmo
Michelangelo tracciasse sulla superficie resa irregolare un rudimentale segno col
carboncino che evidenziava la veduta principale (cioè frontale) dell'opera. La
tecnica tradizionale prevedeva l'uso di quadrati o rettangoli proporzionali per
riportare le misure dei modellini a quelle definitive, ma non è detto che
Michelangelo facesse tale operazione a occhio. Un altro procedimento delle fasi
iniziali dello scolpire era quello di trasformare la traccia a carboncino in
una serie di forellini che guidassero l'affondo via via che il segno a matita
scompariva[91]. Sbozzatura A questo punto aveva inizio la vera e propria scolpitura,
che intaccava il marmo a partire dalla veduta principale, lasciando intatte le
parti più sporgenti e addentrandosi man mano negli strati più profondi. Questa
operazione avveniva con un mazzuolo e con un grosso scalpello a punta, la
subbia. Esiste una preziosa testimonianza di B. de Vigenère[93], che vide il
maestro, ormai ultrasessantenne, accostarsi a un blocco in tale fase:
nonostante l'aspetto "non dei più robusti" di Michelangelo, egli è
ricordato mentre butta giù «scaglie di un durissimo marmo in un quarto d'ora»,
meglio di quanto avrebbero potuto fare tre giovani scalpellini in un tempo tre
o quattro volte maggiore, e si avventa «al marmo con tale impeto e furia, da
farmi credere che tutta l'opera dovesse andare in pezzi. Con un solo colpo
spiccava scaglie grosse tre o quattro dita, e con tanta esattezza al segno
tracciato, che se avesse fatto saltar via un tantin più di marmo correva il
rischio di rovinar tutto»[91]. Sul fatto che il marmo dovesse essere
"attaccato" dalla veduta principale restano le testimonianze di
Vasari e Cellini, due devoti a Michelangelo, che insistono con convinzione sul
fatto che l'opera dovesse essere lavorata inizialmente come se fosse un
rilievo, ironizzando sul procedimento di avviare tutti i lati del blocco, trovandosi
poi a constatare come le vedute laterali e tergale non coincidano con quella
frontale, richiedendo quindi "rattoppi" con pezzi di marmo, secondo
un procedimento che «è arte da certi ciabattini, i quali la fanno assai
malamente»[94]. Sicuramente Michelangelo non usò "rattoppamenti", ma
non è da escludere che durante lo sviluppo della veduta frontale egli non
trascurasse le vedute secondarie, che ne erano diretta conseguenza. Tale
procedimento è evidente in alcune opere non finite, come i celebri Prigioni che
sembrano liberarsi dalla pietra[91]. Scolpitura e livellatura Dopo che la
subbia aveva eliminato molto materiale, si passava alla ricerca in profondità,
che avveniva tramite scalpelli dentati: Vasari ne descrisse di due tipi, il
calcagnuolo, tozzo e dotato di una tacca e due denti, e la gradina, più fine e
dotata di due tacche e tre o più denti. A giudicare dalle tracce superstiti,
Michelangelo doveva preferire la seconda, con la quale lo scolpire procede «per
tutto con gentilezza, gradinando la figura con la proporzione de' muscoli e
delle pieghe»[95]. Si tratta di quei tratteggi ben visibili in varie opere
michelangiolesche (si pensi al viso del Bambino nel Tondo Pitti), che spesso
convivono accanto a zone appena sbozzate con la subbia o alle più semplici
personalizzazioni iniziali del blocco (come nel San Matteo)[91]. La fase
successiva consisteva nella livellatura con uno scalpello piano, che eliminava
le tracce della gradina (una fase a metà dell'opera si vede nel Giorno), a meno
che tale operazione non venisse fatta con la gradina stessa[91].
Rifinitura Appare evidente che il maestro, nell'impazienza di vedere palpitare
le forme ideate, passasse da un'operazione all'altra, attuando
contemporaneamente le diverse fasi operative. Restando sempre evidente la
logica superiore che coordinava le diverse parti, la qualità dell'opera
appariva sempre altissima, pur nei diversi livelli di finitezza, spiegando così
come il maestro potesse interrompere il lavoro quando l'opera era ancora
"non-finita", prima ancora dell'ultima fase, spesso approntata dagli
aiuti, in cui si levigava la statua con raschietti, lime, pietra pomice e, in
ultimo, batuffoli di paglia. Questa levigatura finale, presente ad esempio
nella Pietà vaticana garantiva comunque quella straordinaria lucentezza, che si
distaccava dalla granulosità delle opere dei maestri toscani del
Quattrocento[91]. Il non finito di Michelangelo Non-finito nella
Pietà Bandini Una delle questioni più difficili per la critica, nella pur
complessa opera michelangiolesca, è il nodo del non finito. Il numero di statue
lasciate incompiute dall'artista è infatti così elevato da rendere improbabile
che le uniche cause siano fattori contingenti estranei al controllo dello
scultore, rendendo alquanto probabile una sua volontà diretta e una certa
compiacenza per l'incompletezza[96]. Le spiegazioni proposte dagli
studiosi spaziano da fattori caratteriali (la continua perdita di interesse
dell'artista per le commissioni avviate) a fattori artistici (l'incompiuto come
ulteriore fattore espressivo): ecco che le opere incompiute paiono lottare
contro il materiale inerte per venire alla luce, come nel celebre caso dei
Prigioni, oppure hanno i contorni sfocati che differenziano i piani spaziali
(come nel Tondo Pitti) o ancora diventano tipi universali, senza
caratteristiche somatiche ben definite, come nel caso delle allegorie nelle
tombe medicee[96]. Alcuni hanno collegato la maggior parte degli
incompiuti a periodi di forte tormento interiore dell'artista, unito a una
costante insoddisfazione, che avrebbe potuto causare l'interruzione prematura
dei lavori. Altri si sono soffermati su motivi tecnici, legati alla particolare
tecnica scultorea dell'artista basata sul "levare" e quasi sempre
affidata all'ispirazione del momento, sempre soggetta a variazioni. Così una
volta arrivati all'interno del blocco, a una forma ottenuta cancellando via la
pietra di troppo, poteva capitare che un mutamento d'idea non fosse più
possibile allo stadio raggiunto, facendo mancare i presupposti per poter
portare avanti il lavoro (come nella Pietà Rondanini)[96]. La
personalità Lo stesso argomento in dettaglio: Aspetti psichici nell'opera
di Michelangelo. Una delle versioni del ritratto di Michelangelo di
Daniele da Volterra La leggenda dell'artista geniale ha spesso messo in seconda
luce l'uomo nella sua interezza, dotato anche di debolezze e lati oscuri.
Queste caratteristiche sono state oggetto di studi in anni recenti, che,
sfrondando l'aura divina della sua figura, hanno messo a nudo un ritratto più
veritiero e accurato di quello che emerge dalle fonti antiche, meno
accondiscendente ma sicuramente più umano[89]. Tra i difetti più evidenti
della sua personalità c'erano l'irascibilità (alcuni sono arrivati a ipotizzare
che avesse la sindrome di Asperger[97]), la permalosità, l'insoddisfazione
continua. Numerose contraddizioni animano il suo comportamento, tra cui
spiccano, per particolare forza, l'atteggiamento verso i soldi e i rapporti con
la famiglia, che sono due aspetti comunque intimamente correlati[89].
Michelangelo si autoritrasse forse come pelle senza corpo nel Giudizio
universale Sia il carteggio, sia i libri di Ricordi di Michelangelo fanno
continue allusioni ai soldi e alla loro scarsità, tanto che sembrerebbe che l'artista
vivesse e fosse morto in assoluta povertà. Gli studi di Rab Hatfield sui suoi
depositi bancari e i suoi possedimenti hanno tuttavia delineato una situazione
ben diversa, dimostrando come durante la sua esistenza egli riuscì ad
accumulare una ricchezza immensa. Basta come esempio l'inventario redatto nella
dimora di Macel de' Corvi all'indomani della sua morte: la parte iniziale del
documento sembra confermare la sua povertà, registrando due letti, qualche capo
di vestiario, alcuni oggetti di uso quotidiano, un cavallo; ma nella sua camera
da letto viene poi rinvenuto un cofanetto chiuso a chiave che, una volta
aperto, dimostra un tesoro in contanti degno di un principe. A titolo di
esempio con quel contante l'artista avrebbe potuto benissimo comprarsi un
palazzo, essendo una cifra superiore a quella sborsata in quegli anni (nel
1549) da Eleonora di Toledo per l'acquisto di Palazzo Pitti[89]. Ne
emerge quindi una figura che, benché ricca, viveva nell'austerità spendendo con
grande parsimonia e trascurandosi fino a limiti impensabili: Condivi ricorda ad
esempio come fosse solito non togliersi gli stivali prima di andare a letto,
come facevano gli indigenti[89]. Questa marcata avarizia e l'avidità, che
continuamente gli fanno percepire in maniera distorta il proprio patrimonio,
sono sicuramente dovute a ragioni caratteriali, ma anche a motivazioni più
complesse, legate al difficile rapporto con la famiglia[96]. La penosa
situazione economica dei Buonarroti doveva averlo intimamente segnato e forse
aveva come desiderio quello di lasciar loro una cospicua eredità per
risollevarne le sorti. Ma ciò è contraddetto apparentemente dai suoi rifiuti di
aiutare il padre e i fratelli, giustificandosi con un'immaginaria mancanza di
liquidi, mentre in altre occasioni arrivava a chiedere la restituzione di somme
prestate in passato, accusandoli di vivere delle sue fatiche, se non di
approfittarsi spudoratamente della sua generosità[96]. La presunta
omosessualità La tomba di Cecchino Bracci nella basilica di Santa Maria
in Aracoeli a Roma, realizzata su disegno di Michelangelo Diversi storici[98]
hanno affrontato il tema della presunta omosessualità di Michelangelo
esaminando i versi dedicati ad alcuni uomini (Febo Dal Poggio, Gherardo Perini,
Cecchino Bracci, Tommaso de' Cavalieri). Si veda, ad esempio, il sonetto
dedicato a Tommaso de' Cavalieri - scritto nel 1534 - in cui Michelangelo
denunciava l'abitudine del popolo di vociare sui suoi rapporti amorosi:
«E se 'l vulgo malvagio, isciocco e rio, di quel che sente, altrui segna e addita,
non è l'intensa voglia men gradita, l'amor, la fede e l'onesto
desìo.[99]» Sul disegno della Caduta di Fetonte, al British Museum,
Michelangelo scrisse una dedica a Tommaso de' Cavalieri. Molti sonetti
furono dedicati anche a Cecchino Bracci, di cui Michelangelo disegnò il
sepolcro nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli. In occasione della morte
prematura di Cecchino, Buonarroti scrisse un epitaffio (pubblicato la prima
volta solo nel 1960) dalla forte ambiguità carnale[101]: «La carne terra,
e qui l'ossa mie, prive de' lor begli occhi, e del leggiadro aspetto fan fede a
quel ch'i' fu' grazia nel lecto, che abbracciava e 'n che l'anima
vive.[102]» In realtà, l'epitaffio non dice nulla su tale presunta
relazione tra i due. Del resto, gli epitaffi di Michelangelo furono
commissionati da Luigi Riccio e da questi retribuiti mediante doni di natura
gastronomica, mentre la conoscenza tra il Buonarroti e il Bracci fu solo
marginale[103]. I numerosi epitaffi scritti da Michelangelo per Cecchino
furono pubblicati postumi dal nipote, che però, spaventato dalle implicazioni
omoerotiche del testo, avrebbe modificato in più punti il sesso del
destinatario, facendone una donna[104]. Le edizioni successive avrebbero
ripreso il testo censurato, e solo l'edizione Laterza delle Rime, nel 1960,
avrebbe ristabilito la dizione originaria. Il tema del nudo maschile in
movimento è comunque centrale in tutta l'opera michelangiolesca, tanto che è
celebre la sua attitudine a rappresentare anche le donne coi tratti spiccatamente
mascolini (un esempio su tutti, le Sibille della volta della Cappella
Sistina)[100]. Non è una prova inconfutabile di attitudini omosessuali, ma è
innegabile che Michelangelo non ritrasse mai una sua "Fornarina" o
una "Violante", anzi i protagonisti della sua arte sono sempre
vigorosi individui maschili. Nel 1536 o 1538 è da collocarsi il primo
incontro con Vittoria Colonna. Nel 1539 la donna rientrò a Roma e lì crebbe
l'amicizia con Michelangelo, che la amò (almeno dal punto di vista platonico)
enormemente e su cui ebbe una grande influenza, verosimilmente anche religiosa.
A lei l'artista dedicò alcuni tra i più profondi e potenti componimenti poetici
della sua vita[100]. Il biografo Ascanio Condivi ricordò anche come
l'artista dopo la morte della donna si rammaricava di non aver mai baciato il
viso della vedova nello stesso modo in cui aveva stretto la sua mano.
Michelangelo non prese mai moglie e non sono documentate sue relazioni amorose
né con donne né con uomini. In tarda età si dedicò a un'intensa e austera
religiosità[100]. Le fonti su Michelangelo Ritratto di Michelangelo
nella seconda edizione delle Vite di Vasari Michelangelo è l'artista che, forse
più di qualunque altro, incarna il mito di personalità geniale e versatile, capace
di portare a termine imprese titaniche, nonostante le complesse vicende
personali, le sofferenze e il tormento dovuto al difficile momento storico,
fatto di sconvolgimenti politici, religiosi e culturali. Una fama che non si è
affievolita coi secoli, restando più che mai viva anche ai giorni
nostri[85]. Se il suo ingegno e il suo talento non sono mai stati messi
in discussione, nemmeno dai più agguerriti detrattori, ciò da solo non basta a
spiegarne l'aura leggendaria, né sono sufficienti la sua irrequietezza, o la
sofferenza e la passione con cui partecipò alle vicende della sua epoca: sono
tratti che, almeno in parte, sono riscontrabili anche in altri artisti vissuti
più o meno nella sua epoca[85]. Sicuramente il suo mito si alimentò anche di sé
stesso, nel senso che Michelangelo fu il primo e più efficace dei suoi
promotori, come emerge dalle fonti fondamentali per ricostruire la sua
biografia e la sua vicenda artistica e personale: il carteggio e le tre
biografie che lo riguardarono al suo tempo[85]. Il carteggio Nella sua
vita Michelangelo scrisse numerose lettere che in larga parte sono state
conservate in archivi e raccolte private, tra cui spicca il nucleo collezionato
dai suoi discendenti a casa Buonarroti. Il carteggio integrale di Michelangelo
è stato pubblicato nel 1965[85] e dal 2014 è interamente consultabile
online[106]. Nei suoi scritti l'artista descrive spesso i propri stati
d'animo e si sfoga delle preoccupazioni e i tormenti che lo affliggono; inoltre
nello scambio epistolare approfitta spesso per riportare la propria versione
dei fatti, soprattutto quando si trova accusato o messo in cattiva luce, come
nel caso dei numerosi progetti avviati e poi abbandonati prima del
completamento. Spesso si lamenta dei committenti che gli volgono le spalle e lancia
pesanti accuse contro chi lo ostacola o lo contraddice[85]. Quando si trova in
difficoltà, come nei momenti più oscuri della lotta con gli eredi della Rovere
per il monumento sepolcrale a Giulio II, il tono delle lettere si fa più
acceso, trovando sempre una giustificazione della propria condotta,
ritagliandosi la parte di vittima innocente e incompresa. Si può arrivare a
parlare di un disegno ben preciso, attraverso le numerose lettere, teso a
scagionarlo da tutte le colpe e a procurarsi un'aura eroica e di grande
resistenza ai travagli della vita[107]. La prima edizione delle Vite di
Vasari (1550) Nel marzo del 1550, Michelangelo, quasi settantacinquenne, si
vide pubblicata una sua biografia nel volume delle Vite de' più eccellenti
pittori, scultori e architettori scritto dall'artista e storico aretino Giorgio
Vasari e pubblicato dall'editore fiorentino Lorenzo Torrentino. I due si erano
conosciuti brevemente a Roma nel 1543, ma non si era instaurato un rapporto
sufficientemente consolidato da permettere all'aretino di interrogare
Michelangelo. Si trattava della prima biografia di un artista composta quando
era ancora in vita, che lo indicava come il punto di arrivo di una progressione
dell'arte italiana che va da Cimabue, primo in grado di rompere con la
tradizione "greca", fino a lui, insuperabile artefice in grado di
rivaleggiare con i maestri antichi[85]. Nonostante le lodi l'artista non
approvò alcuni errori, dovuti alla mancata conoscenza diretta tra i due, e
soprattutto ad alcune ricostruzioni che, su temi caldi come quello della
sepoltura del papa, contraddicevano la sua versione costruita nei
carteggi[107]. Vasari dopotutto pare che non avesse cercato documenti scritti,
affidandosi quasi esclusivamente ad amicizie più o meno vicine al Buonarroti,
tra cui Francesco Granacci e Giuliano Bugiardini, già suoi collaboratori, che
però esaurivano i loro contatti diretti con l'artista poco dopo dell'avvio dei
lavori alla Cappella Sistina, fino quindi al 1508 circa[108]. Se la parte sulla
giovinezza e sugli anni venti a Firenze appare quindi ben documentata, più
vaghi sono gli anni romani, fermandosi comunque al 1547, anno in cui dovette
essere completata la stesura[108]. Tra gli errori che più ferirono
Michelangelo c'erano le disinformazioni sul soggiorno presso Giulio II, con la
fuga da Roma che era stata attribuita all'epoca della volta della Cappella
Sistina, dovuta a un litigio col papa per il rifiuto a svelargli in anticipo
gli affreschi: Vasari conosceva i forti disappunti tra i due ma all'epoca ne
ignorava completamente le cause, cioè la disputa sulla penosa vicenda della
tomba[109]. La biografia di Ascanio Condivi (1553) Non è un caso che
appena tre anni dopo, nel 1553, venne data alle stampe una nuova biografia di
Michelangelo, opera del pittore marchigiano Ascanio Condivi, suo discepolo e
collaboratore. Il Condivi è una figura di modesto rilievo nel panorama
artistico e anche in campo letterario, a giudicare da scritti certamente
autografi come le sue lettere, doveva essere poco portato. L'elegante prosa
della Vita di Michelagnolo Buonarroti è infatti assegnata dalla critica ad
Annibale Caro, intellettuale di spicco molto vicino ai Farnese, che ebbe almeno
un ruolo di guida e revisore[107]. Per quanto riguarda i contenuti, il
diretto responsabile dovette essere quasi certamente Michelangelo stesso, con
un disegno di autodifesa e celebrazione personale pressoché identico a quello
del carteggio. Lo scopo dell'impresa letteraria era quello espresso nella
prefazione: oltre a fare d'esempio ai giovani artisti, doveva "sopplire al
difetto di quelli, et prevenire l'ingiuria di questi altri", un chiaro
riferimento agli errori di Vasari[107]. La biografia del Condivi non è
quindi scevra da interventi selettivi e ricostruzioni di parte. Se si dilunga
molto sugli anni giovanili, essa tace ad esempio sull'apprendistato alla
bottega del Ghirlandaio, per sottolineare il carattere impellente e autodidatta
del genio, avversato dal padre e dalle circostanze. Più rapida è la rassegna
degli anni della vecchiaia, mentre il cardine del racconto riguarda la
"tragedia della sepoltura" (l'interminabile iter per la tomba di
Giulio II), ricostruita molto dettagliatamente e con una vivacità che ne fa uno
dei passi più interessanti del volume. Gli anni immediatamente precedenti
all'uscita della biografia furono infatti quelli dei rapporti più difficili con
gli eredi Della Rovere, minati da duri scontri e minacce di denuncia alle
pubbliche autorità e di richiesta degli anticipi versati, per cui è facile
immaginare quanto premesse all'artista fornire una sua versione della
vicenda[107]. Altra pecca della biografia del Condivi è che, a parte rare
eccezioni come il San Matteo e le sculture per la Sagrestia Nuova, essa tace
sui numerosi progetti non finiti, come se con il passare degli anni il
Buonarroti fosse ormai turbato dal ricordo delle opere lasciate
incompiute[108]. La seconda edizione delle Vite di Vasari (1568) A
quattro anni dalla scomparsa dell'artista e a diciotto dal primo lavoro,
Giorgio Vasari pubblicò una nuova edizione delle Vite per l'editore Giunti,
riveduta, ampliata e aggiornata. Quella di Michelangelo in particolare era la
biografia più rivisitata e la più attesa dal pubblico, tanto da venire
pubblicata anche in un libretto a parte dallo stesso editore. Con la morte la
leggenda dell'artista si era infatti ulteriormente accresciuta e Vasari,
protagonista delle esequie a Michelangelo svoltesi solennemente a Firenze, non
esita a riferirsi a lui come al "divino" artista. Rispetto
all'edizione precedente appare chiaro come in quegli anni Vasari si sia
maggiormente documentato e come abbia avuto modo di accedere a informazioni di
prima mano, grazie a un forte legame diretto che si era stabilito tra i
due[108]. Il nuovo racconto è quindi molto più completo e verificato
anche da numerosi documenti scritti. Le lacune vennero colmate con la sua
frequentazione dell'artista negli anni del lavoro presso Giulio III (1550-1554)
e con l'appropriazione di interi brani della biografia del Condivi, un vero e
proprio "saccheggio" letterario: identici sono alcuni paragrafi e la
conclusione, senza alcuna menzione della fonte, anzi l'unica citazione del
marchigiano si ha per rinfacciargli l'omissione dell'apprendistato presso la
bottega del Ghirlandaio, fatto invece noto da documenti riportati dallo stesso
Vasari[109]. La completezza della seconda edizione è motivo di vanto per
l'aretino: "tutto quel [...] che si scriverrà al presente è la verità, né
so che nessuno l'abbi più praticato di me e che gli sia stato più amico e
servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol sa; né credo che ci sia
nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte da lui proprio, né
con più affetto che egli ha fatto a me". I Dialoghi romani di
Francisco de Hollanda L'opera che da alcuni storici è stata considerata
testimonianza delle idee artistiche di Michelangelo sono i Dialoghi romani
scritti da Francisco de Hollanda come completamento del suo trattato sulla
natura dell'arte De Pintura Antiga, scritto verso il 1548[110] e rimasto
inedito fino al XIX secolo. Durante il suo lungo soggiorno italiano,
prima di tornare in Portogallo, l'autore, allora giovanissimo, aveva
frequentato, intorno al 1538, Michelangelo allora impegnato nell'esecuzione del
Giudizio universale, all'interno del circolo di Vittoria Colonna. Nei Dialoghi
fa intervenire Michelangelo come personaggio a esprimere le proprie idee
estetiche confrontandosi con lo stesso de Hollanda. Tutto il trattato,
espressione dell'estetica neoplatonica, è comunque dominato dalla gigantesca
figura di Michelangelo, come figura esemplare dell'artista genio, solitario e
malinconico, investito di un dono "divino", che "crea"[112]
secondo modelli metafisici, quasi a imitazione di Dio. Michelangelo diventò
così, nell'opera di De Hollanda e in genere nella cultura occidentale, il primo
degli artisti moderni. Caratteristiche fisiche Nel 2021 il paleopatologo
Francesco M. Galassi e l'antropologa forense Elena Varotto del FAPAB Research
Center di Avola, in Sicilia, hanno esaminato le scarpe e una pantofola
conservate a Casa Buonarroti, che la tradizione ritiene appartenute al genio
rinascimentale, ipotizzando che l'artista fosse alto circa 1 metro e 60[113]:
un dato concorde con quanto sostenuto dal Vasari, il quale nella sua biografia
dell'artista sostiene che il maestro fosse "di statura mediocre, di spalle
largo, ma ben proporzionato con tutto il resto del corpo"[114][115].
Opere Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Michelangelo. Opere
letterarie Rime di Michelangelo Buonarroti raccolte da Michelangelo suo Nipote,
in Firenze, appresso i Giunti, 1623. Rime di Michelangelo Buonarroti il
Vecchio, con il commento di G. Biagioli, Parigi, presso l'editore in via Rameau
nº 8, 1821. Rime e lettere, precedute dalla vita dell'autore scritta da Ascanio
Condivi, Firenze, Barbèra, Le rime di Michelangelo Buonarroti, a cura di Cesare
Guasti, Le Monnier, Firenze, 1863. Le lettere di Michelangelo Buonarroti, a
cura di Gaetano Milanesi, Le Monnier, Firenze, 1875. Die Dichtungen des
Michelagniolo Buonarroti, a cura di C. Frey, Berlino, 1897 Edizioni
moderne: Rime, Prefazione di A. Castaldo, Roma, Oreste Garroni Editore,
1910. Le rime e le lettere, precedute dalla vita di Michelangelo per Luigi
Venturi, Collana Classici Italiani, Milano, Istituto Editoriale Italiano,
191[?]; Milano, Bietti, 1933. Poesie, Prefazione di Giovanni Amendola,
Lanciano, Carabba, 1920. Le rime, Prefazione e note di Foratti, Milano, R.
Caddeo, 1921. Lettere e rime, per cura di Guido Vitaletti, Torino, SEI, 1925.
Le rime, Introduzione, note e cura di Valentino Piccoli, Collezione Classici
Italiani, Torino, UTET, 1930. Rime, a cura di Gustavo Rodolfo Ceriello, Collana
BUR n.747-749, Rizzoli, Milano, 1954. Rime, a cura di Enzo Noè Girardi,
Laterza, Bari, 1960. Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni
Poggi, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, 5 voll., Firenze, S.P.E.S.,
1965-83. Rime, premessa, note e cura di Ettore Barelli, Introduzione di
Giovanni Testori, Milano, Rizzoli, 1975; Fabbri Editore, 1995-2001. Rime e
lettere, a cura di Paola Mastrocola, UTET, Torino, 1992-2015; De Agostini,
2015. Rime, a cura di Matteo Residori, Introduzione di Mario Baratto, con un
saggio di Thomas Mann, Collana Oscar Classici, Milano, Mondadori, 1998. Rime, a
cura di Stella Fanelli, Prefazione di Cristina Montagnani, Garzanti, Milano,
2006. Le rime di Michelangelo (1623), a cura di Marzio Pieri e Luana Salvarani,
La Finestra Editrice, Trento, 2006, ISBN 978-88-880-9771-8. [riproduce
l'edizione delle Rime stampate a Firenze nel 1623] Rime, a cura di T. Gurrieri,
Collana Classici, Firenze, Barbès, 2010, ISBN 978-88-629-4146-4. Rime, a cura
di Paolo Zaja, Collana Classici, Milano, BUR-Rizzoli, Canzoniere, a cura di
Maria Chiara Tarsi, Biblioteca di scrittori italiani, Milano, Guanda, 2015,
ISBN 978-88-235-0936-8. Rime e lettere, A cura di Antonio Corsaro e Giorgio
Masi, Collezione Classici della letteratura europea, Milano, Bompiani, 2016,
ISBN 978-88-452-8291-1. Omaggi Michelangelo è stato raffigurato sulla banconota
da 10.000 lire italiane dal 1962 al 1977. Film e documentari
cortometraggio - Rolla e Michelangelo di Romolo Bacchini (1909) documentario -
Michelangelo di Kurt Oertel (1938) documentario - Il titano, storia di
Michelangelo di Kurt Oertel (1950) film tv - Vita di Michelangelo di Silverio
Blasi (1964) lungometraggio - Il tormento e l'estasi di Carol Reed (1965)
documentario - Michelangelo: The Last Giant di Tom Priestley (1966)
documentario - The Secret of Michelangelo di Milton Fruchtman (1968) film tv -
La primavera di Michelangelo di Jerry London (1990) cortometraggio - Lo sguardo
di Michelangelo di Michelangelo Antonioni (2004) documentario - The Divine
Michelangelo di Tim Dunn e Stuart Elliott (2004) film tv - Michelangelo
Superstar di Wolfgang Ebert e Martin Papirowski (2005) lungometraggio -
Michelangelo - Infinito con Enrico Lo Verso (2018) film lungometraggio -
"Il peccato - Il furore di Michelangelo" di A. Konchalovsky Opere
teatrali e musicali Ferdinand Avenarius, Faust bei Michelangelo, in: Kunstwart Hugo
Ball, Die Nase des Michelangelo, Leipzig, 1911 Anita Barbiani, Michelangelo,
Sarzana, 1955 Domenico Bolognese, Michelangelo Buonarroti, Napoli, 1872 Georg
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rinnovamento delle arti che partiva da Cimabue e arrivava a Michelangelo. ^
Gilberto Michelagnoli e Filippo Michelagnoli, Michelagnoli. Storia di una
famiglia., Masso delle Fate, 2021, ISBN 978-88-6039-536-8. ^ La notizia è
ricordata in una nota del padre. Nella nota è riportata la data 6 marzo 1474,
la mattina «inanzi di 4 o 5 ore». Secondo il calendario fiorentino era l'anno
1474, mentre nella notazione comune è il 1475. Camesasca,
p. 83. Alvarez Gonzáles, p. 10. ^ Forcellino, p. 6. ^ Forcellino,
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scultori, e architettori, apresso i Giunti, Gonzáles, p. 13. ^ Francesco
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Invader, Michel-Ange pionnier du street art dans les rues de Florence, su
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This Enigmatic Portrait in Florence Every Day. Now a Scholar Says It Was
Probably Carved by Michelangelo Himself, su Artnet News, 13 novembre 2020. URL
consultato l'8 aprile 2021. ^ (EN) Nick Squires, Mysterious Florence graffiti
was carved by Michelangelo, historian claims, in The Telegraph, Crow, Was
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Santa Maria del Fiore, in "Antichità viva", XVI, 1977, 6, pp. 36-48.
^ Il progetto di completamento del tamburo della cupola di Santa Maria del
Fiore, cit., pp. 28-29. ^ Il progetto di completamento del tamburo della cupola
di Santa Maria del Fiore, cit., p. 28. Adriano Marinazzo, La Tomba di
Giulio II e l'architettura dipinta della volta della Sistina, in Art e Dossier,
n. 357, 2018, pp. 46-51. Alvarez Gonzáles, p. 22. Adriano
Marinazzo, Una riflessione su alcuni disegni michelangioleschi., in Bollettino
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p. 24. ^ Adriano Marinazzo, Ipotesi su un disegno michelangiolesco del foglio
XIII, 175 v, dell'Archivio Buonarroti, in Commentari d'arte, Kelly Crow, Found?
Michelangelo's Sistine Sketch, in Wall Street Journal,
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De Vecchi-Cerchiari, p. 217. Camesasca, p. 84. Baldini, p. 83. ^
Alvarez Gonzáles, p. 26. ^ La colonna infame di Michelangelo, articolo sul
Corriere Fiorentino (Corriere della Sera) del 6 aprile 2008. La colonna
spezzata sarebbe ancora oggi conservata nel parco del convento nella villa
Hainaux nel borgo di Ripa presso Seravezza. Nella pieve della Cappella ad
Azzano Michelangelo scolpì il rosone e forse anche un colonnato, opere perdute
durante i bombardamenti del 1944. Baldini, p.
cit. Alvarez Gonzáles, p. 27. ^ Heusinger, cit., pag. 305 Alvarez
Gonzáles, p. 29. ^
Francesco Benelli, “Variò tanto della comune usanza degli altri”: the function
of the encased column and what Michelangelo made of it in the Palazzo dei
Conservatori at the Campidoglio in Rome, in Annali di architettura,
Crocifissione di Viterbo Brodini, San Pietro in Vaticano, in Michelangelo
architetto a Roma, Cinisello Balsamo, Zanchettin, Il tamburo della cupola di
San Pietro, in Michelangelo architetto a Roma, Cinisello Balsamo, Tartuferi e
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Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico ispirato da
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Gonzáles, Gonzáles, I Dialoghi romani, essendo stati scritti prima delle opere
di Doni, Vasari, Dolce e Condivi, risultano un fonte primaria per quel che
riguarda la conoscenza di Michelangelo. vd. Elisabetta Di Stefano, Arte e Idea.
Francisco de Hollanda e l'estetica del Cinquecento, 2004, pag. 29 ^ Il valore
documentario dei documentari Dialogos em Roma è piuttosto dibattuto: Elisabetta
Di Stefano. Si tratta della prima occorrenza del termine "creare" in
rapporto all'attività di un artista: Elisabetta Di Stefano, La libertà del
Genio, Francisco de Hollanda e la teoria della creazione artistica, in "Il
concetto di libertà nel Rinascimento" atti del convegno, Galassi ed Elena
Varotto, THE ALLEGED SHOES OF MICHELANGELO BUONARROTI: ANTHROPOMETRICAL
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rivelano la "statura" dell'artista, in BBC History Italia,
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Aspetti psichici nell'opera di Michelangelo Arte del Rinascimento Architettura
rinascimentale Manierismo Architettura manierista Maniera moderna Lista della
spesa di Michelangelo Non finito Buonarroti (famiglia) S. Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
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la Recherche et de l'Innovation. Opere riguardanti Michelangelo Buonarroti,
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Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Michelangelo Buonarroti, su
Goodreads. Modifica su Wikidata (FR) Bibliografia su Michelangelo Buonarroti,
su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Michelangelo Buonarroti, in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata
Michelangelo Buonarroti, in Archivio storico Ricordi, Ricordi & C.. Spartiti
o libretti di Michelangelo Buonarroti, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci LLC. Michelangelo Buonarroti, su Discogs, Zink Media.
Michelangelo Buonarroti, su MusicBrainz, MetaBrainz Foundation. Modifica su
Wikidata Registrazioni audiovisive di Michelangelo Buonarroti, su Rai Teche,
Rai. Modifica su Wikidata V · D · M Michelangelo Buonarroti Portale
Architettura Portale Biografie Portale
Letteratura Portale Pittura Portale Rinascimento Portale
Scultura Categorie: Pittori italiani Pittori italiani Scultori italiani Scultori
italiani Architetti italiani Architetti
italiani NNati a Caprese Michelangelo Morti a Roma Michelangelo Buonarroti Buonarroti
Poeti italiani Sepolti nella basilica di Santa CrocePoeti italiani del XV
secolo Architetti rinascimentaliArtisti di scuola fiorentinaPittori italiani
del RinascimentoPoeti italiani trattanti tematiche LGBTPersonalità celebrate
nel calendario liturgico luterano[altre]. Michelangelo
Buonarroti Simoni. Keywords: the theory of everything. Refs.: “Grice e Simoni.”
Simoni.
Grice e Simoni: la ragione conversazionale degl’ ‘eretici’
reazionari italiani – gl’acuti – i nobili – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Lucca).
Filosofo italiano. Lucca, Toscana. Studia con BENDINELLI e PALEARIO, due
umanisti in dore d’eresia. Il secondo fine sul rogo a Roma. Legge sostenuto dal
padre e dal patrizio veneziano MOCENIGO e peregrina nei maggiori studi
d'Italia: Bologna, Pavia, Ferrara, e Napoli. Si laurea a Padova. Diversi ma
tutti autorevoli i suoi professori: da MAGGI a CARDANO, da BOLDONI a BRASAVOLA.
La sua formazione e di stampo del LIZIO, come s'insegna nello studio padovano,
con una forte esigenza razionalistica che ha riflessi nel campo religioso, tale
da mettere in dubbio l'immortalità dell'anima e a creare sospetti di eresia tra
i professori e gl’studenti di quella università. Con questa preparazione, S. fa
ritorno a Lucca, dove scrive saggi di argomento filosofico. Lucca ha
vissuto un periodo concitato d’aperti conflitti sociali e poi di tentativi di
riforme politiche, portate avanti dal gonfaloniere BURLAMACCHI e dal circolo di
filosofi riuniti intorno a VERMIGLI. Quando ritorna a Lucca, quella fervida
attività è già stata spenta dalla reazione cattolica guidata da GUIDICCIONI, ma
certo quelle idee di riforma circolano ancora sotterraneamente, e forse lui
stesso le ha già raccolte durante i suoi trascorsi nelle diverse università da
lui frequentate. Sta di fatto che è chiamato dall’autorità lucchesi a dare
spiegazioni sulle proprie opinioni. Per tutta risposta non fidandosi troppo
delle sue forze, cerca la salvezza con la fuga. Munito solo di un cavallo e dei
propri risparmi, dopo aver preso commiato dalla famiglia, fugge, accompagnato
da un servitore, alla volta di Ginevra. Negl’atti ufficiali della repubblica di
Lucca, la sua condanna per eresia si formalizza. A Ginevra, patria del
calvinismo, si forma una numerosa colonia di emigrati italiani e tra questi non
pochi sono i lucchesi. La comunità italiana è inserita in una propria chiesa e
S. vi ha l'incarico di catechista. Preso a benvolere dall'influente teologo BEZA,
ottenne di insegnare filosofia: un incarico dapprima senza compenso, poi
retribuito insieme con la nomina a professore. Anche il padre Giovanni si
stabilì a Ginevra. In quello stesso periodo gli venne aumentato lo stipendio,
ottenne un alloggio gratuito e, nell'accademia è istituita appositamente per
lui la cattedra. Pubblica saggi. Presso Crespin apparve il suo “In librum
Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum cadunt
commentarius unus” è il commento al “De sensu et sensibilibus” di Aristotele.
In esso define la verità filosofica -- una premessa tipica del lizio padovano ma
poi cerca di dimostrare che la ragione, indagando la natura, può giungere al
divino, rivelando le verità di fede. In tal modo, sostiene che anche ogni questione
ha natura razionale e, qualora sorgano contrasti, la ragione è in grado di
comporli, indicando la via da seguire per una corretta interpretazione. Una
conseguenza, seppure non esplicita nel commento, della prevalenza della ragione
sulla fede, è che il dogma espressione della tradizionale sub-ordinazione della
ragione alla fede non ha motivo di esistere. Il suo LIZIO che poco concede alla
teologia si conferma con i successivi commenti all'Etica Nicomachea e al De
anima, mentre S. condusse una lunga e dura polemica contro il filosofo Schegk.
Questi, proprio all'opposto del S. usa argomenti tratti dalla scolastica per
dimostrare la realtà della teoria, allora caldeggiata in ambienti luterani,
della ubiquità del corpo di Cristo. S. risponde con argomenti di carattere
fisico dimostrando l'irrealtà di tale assunto. Un olo corpo fisico non può che
occupare, nello stesso tempo, un unico spazio determinato. Anche Cristo, in
vita, e soggetto alla legge naturale. Dopo la morte, Cristo mantenne soltanto
una natura divina. Non è sostenibile l'idea che il divinopossa mutare una legge
naturale in legge trans-naturale o sovra-naturale. Ente perfetto e primo motore
immobile come lo delinea Aristotele il divino agisce sulla natura unicamente
attraverso la sua perfezione che indirizza al bene gl’esseri naturali. Il
suo carattere collerico e l'alta considerazione che ha di sé lo porta a una
lite clamorosa con BALBANI, un altro lucchese. Durante il matrimonio della
figlia di questi, S. lo copre d'insulti, con grave scandalo delle autorità di
Ginevra, che fanno imprigionare S. e lo espulsero dall'accademia. A nulla
valsero le suoi scuse presentate -- è del resto probabile che la severità
del consiglio e del Concistoro ginevrino e motivata anche dalla freddezza e
dallo suo spirito d'indipendenza dimostrato che pure si dichiara calvinista in
materia di religione. Tuttavia BEZA gli mantenne ancora la sua amicizia e lo
forne di una lettera di raccomandazione con la quale si dirige alla volta di
Parigi. A Parigi ottenne una buona accoglienza. I calvinisti qui chiamati
ugonotti sono ancora tollerati e le lusinghiere referenze gli fanno ottenere
una cattedra di filosofia al collège royal, dove le sue lezioni ottenneno
subito un grande concorso di pubblico. Come scrisve a BEZA, alle sue lezioni
assistevano sei o settecento uomini barbati, dottori, professori, et altri di
robba lunga, preti, frati, giesuiti et altra simil razza d'uomini. Si ha congratulazioni
di RAMO, che volle incontrarlo e lo chiama “felicissimum et praestantissimum
ingenium italicum”, non però quelle del collega CHARPENTIER, che teme che fosse
stato mandato da Ginevra per turbare questa scuola. Sa che la sua permanenza a
Parigi è precaria. Il nome di Ginevra mi nuoce più che il nome di ugonotto -- né
puo valere molto la protezione del cardinale COLIGNY, passato al calvinismo. Rifere
di aver rifiutato offerte sostanziose da parte cattolica per insegnare in loro
collegi, a prezzo di una sua conversione, e di attendersi un prossimo editto
che affronta il problema della convivenza tra cattolici e ugonotti. Un
editto effettivamente ci e, emanato da Carlo IX, con il quale si proibe ai
protestanti l'insegnamento pubblico. Così, perduti anche i suoi saggi che gli
furono sequestrati, e costretto ad abbandonare la Francia. Si apre un
nuovo periodo di difficoltà. Non potendo insegnare a Ginevra, cerca di ottenere
un incarico a Zurigo e a Basilea, sollecitando in tal senso altr’emigrati italiani
come l'editore PERNA e il filosofo umanista CURIONE, ma invano. I sospetti di
anti-trinitarismo che gravano sul suo conto, da quando fa visita nel carcere di
Berna all'eretico GENTILE poco prima che
questi venisse giustiziato, e il recente scandalo provocato a Ginevra non
agevolavano il suo inserimento nelle élite filosofica delle città
svizzere. Ottenne bensì una raccomandazione da BULLINGER per un posto di
insegnante a Heidelberg, ma anche qui rimane poco tempo. La sua amicizia con
l'anti-trinitario ERASTO, il suo a LIZIO senza compromessi dal nulla, nulla si
crea, sostenne in una pubblica lezione, cosicché anche Cristo era stato creato
dal divino Padre e il suo carattere spigoloso gl’alienarono ogni simpatia e
dove riprendere la via di Basilea. Ottenne una cattedra straordinaria di
filosofia a Lipsia. Se puo fregiarsi della stima d’Augusto I, non eguale
considerazione ottenne dai suoi colleghi, che fanno gruppo a sé e lo isolarono.
Non si perde d'animo. Molto popolare tra gli studenti per la vivacità delle sue
lezioni e lo spirito critico che infonde negl’allievi, fonda, all'interno
dell'Università, un'accademia sul modello umanistico italiano, battezzandola degl’acuti.
Degl’acuti, entra a far parte un gruppo di suoi studenti. Le discussioni
dovevano vertere sulla interpretazione di passi del LIZIO i filosofi così
raggruppati intorno a lui dettero ben presto dello spirito critico e dell'idea
di esser superiori agl’altri, che il vivace professore finisce per insinuare
nei loro animi. Pasquinate anonime contro un professore, e un litigio clamoroso
tra questo e S., iniziano una serie di incidenti che ha termine con la
soppressione degl’acuti. La soppressione degl’acuti, decisa dal senato
universitario, testimonia i difficili rapporti intercorrenti tra l'università e
lui, che per altro in città era reputato ospite illustre, professionista
affermato e ricercato, uomo di mondo e di cultura dalla posizione prestigiosa,
che gode della stima e del rispetto dei suoi concittadini, e la cui fama
oltrepassa la frontiera del paese che gli dava ospitalità. Infatti, oltre a
insegnare filosofia e ad avere allievi anche illustri, come il prìncipe RADZIWIŁL,
esercita la professione medica, vantando clienti di riguardo. Pubblica il suo saggio
filosofico più originale, la “De vera nobilitate”, dedicato ad Augusto I. La
vera nobiltà è la virtù (ANDREIA) dell'anima umana, la quale è intesa alla
maniera del LIZIO, come forma del corpo. La virtù dell'anima è perciò
strettamente legata alla particolare costituzione del corpo, trasmessa
nell'individuo di generazione in generazione dal seme del padre, che
costituisce la causa efficiente del singolo essere. Non per nulla da ‘genere’ deriva
‘generoso’. Se pure non ogni nobile è generoso, chi è generoso è considerato
nobile. Le differenze sociali tra gl’uomini e le conformazioni dei loro corpi
sono egualmente corrispondenti per necessità naturale. La natura vuole infatti
fare diversamente il corpo dei liberi da quelli dei servi. Questi robusti e con
deformità necessarie al loro particolare utilizzo. Quelli diritti e belli,
perché non desti tali fatiche, ma alla vita civile. L’educazione svolge una
funzione per la formazione dell'uomo, ma resta inferiore a quella naturale. Di
due uomini, di diversa estrazione sociale ma educati allo stesso modo, il
nobile risulta meglio formato, in quanto la natura lo ha costituito di una
materia superiore. L'educazione ha lo stesso effetto della medicina. Fa recuperare
la propria condizione di salute, ma non può migliorarla oltre il limite fissato
dalla natura. Viene da sé che le famiglie nobili d’Italia diano lustro
alla nazione italiana, formando l'élite della società civile sotto l'aspetto
culturale e politico. Questo avviene nella nazione italiana, di antica civiltà in
sostanza. Presso i barbari non può esistere nobiltà. Il barbaro e giustamente
detto servo per natura e in quanto servo non porta in lui nessuna virtù,
essendo nato per servire sotto una tirannia e non in un regio e civile governo.
La virtù dei nobili non possono consistere nell'accumulare ricchezze, ma essa e
ugualmente attiva e pratica. E la virtù civili del politico, che si occupa del
benessere dei cittadini, quelle del medico, che si occupa della salute degl’individui,
del fisiologo, che studia la natura e infine del metafisico, che studia le cose
divine. Queste ultime, insieme alla virtù della contemplazione, è però meglio
riservarle nella vita che ci attende dopo la morte, quando quei problemi
saranno facilmente risolti. Queste cose sono irrise dai politici, tra i quali,
non tra gl’angeli, si discute di nobiltà. Nel frattempo, è opportuno dedicarsi
alle cose di questo mondo ed essere utili alla società degl’uomini. Si loda
Socrate il quale, trascurate le altre parti della filosofia, coltiva quella
sola che era più adatta ai costumi degl’uomini e alle istituzioni civili. Che
la vera nobiltà si debba esprimere nell'attività pratica e civile è ribadito
più volte. La nobiltà spunta fuori dalla società civile, non dalla solitudine e
la virtù spirituale, come quelle mostrate dai mistici e dai contemplativi,
non e virtù nobile propria dell'essere umano. Questa virtù discende direttamente
dal divino e perciò non derivano da generazione spermatica naturale del padre,
non sono frutto della carne e del sangue il fondamento della vera nobiltà e non
essendo ereditarie non puo essere considerata virtù nobile. Naturalmente, ai innobili
non possono essere affidati incarichi di responsabilità nel governo della
società, ma al più solo l'esercizio di magistrature minori. Derivando dal
sangue la nobiltà, non si può diventare autenticamente nobili attraverso
conferimenti onorifici, anche se concessi d’un sovrano mentre, al contrario, un
autentico nobile non può essere privato della fama e dell'onore, perché in lui
opera sempre quella forza e quell'efficacia naturale ricevuta dai suoi antenati.
Dopo questa applicazione dei principi del LIZIO al vivere civile e al governo
dello stato, che deve essere affidato a chi per natura fa parte degl’ottimati,
si dedica a trattare temi propriamente medici. Appare a Lipsia il suo “De
partibus animalium” ove descrive la conformazione del feto, la “De vera ac
indubitata ratione continuationis, intermittentiae, periodorum febrium
humoralium”; l'”Artificiosa curandae pestis methodus” ; la “Synopsis brevissima
novae theoriae de humoralium febrium natura” -- temi di drammatica attualità, a
Lipsia, investita da un'epidemia di peste. Ottene il permesso di
esercitare la professione medica all'interno dell'università, pur senza
ottenere, oltre quella straordinaria di filosofia, anche una cattedra di
medicina. Presenta ad Augusto I una proposta di riforma universitaria. S'indica
la necessità di una maggiore cura nell'assunzione dei professori, che dovevano
dimostrare non solo di possedere la necessaria scienza, ma anche capacità
didattiche. Dovevano anche essere obbligati a tenere un maggior numero di
lezioni s'imponevano multe ai professori inadempienti mentre la durata
dell'anno accademico venne prolungata. Particolare cura dedica
all'insegnamento. Dovevano tenere lezioni V professori, tra i quali un chirurgo
che avrebbe tenuto esercitazioni di anatomia e fatto dimostrazioni pratiche di
cura delle diverse affezioni. La qualità dell'insegnamento teorico anda migliorata.
Ritene che corressero troppe affermazioni dogmatiche, che sarebbero dovute
essere verificate dalla pratica e dal rigore della dimostrazione dialettica. A
questo proposito opina che avrebbe giovato un'accurata conoscenza delle opere del
LIZIO. Non mancano poi critiche severe sull'attuale andamento a Lipsia. I
rettori sono scelti grazie alle loro aderenze, si promuovevano studenti
immeritevoli, vi è scarsa pulizia, la farmacia universitaria è mal tenuta. Tali
proposte e simili critiche non potevano che alimentare ancor più l'ostilità dei
colleghi. Egli non sembra preoccuparsene. La stima dell'Elettore Augusto si
mantene immutata, se lo fa nominare Professore di filosofia e lo promuove a suo
primo medico personale. Avvenne tuttavia che, su sollecitazione della chiesa
luterana, la quale prepara una confessione di fede che in particolare tutti
funzionari e gl’impiegati, a vario titolo, dello stato avrebbero dovuto
firmare, l'elettore pretese tale sottoscrizione anche dal professor S.,
ottenendone un netto rifiuto. Racconta lo stesso S. che, avendo rifiutato
costantemente di sotto-scrivere quella che i teologi sassoni denominarono
Formula di Concordia, il Principe Elettore rivolge il suo sdegno contro di me. Al
che S. decide di andarsene e, nonostante l'Elettore cerca d'impedirlo, da
l'ultimo saluto a quelle popolazioni. Si trasfere a Praga, dove venne assunto
quale medico personale di Rodolfo II. Tale incarico e il carattere cattolico
dell'Impero di cui era ora suddito rendeva necessario un chiarimento sulle sue
posizioni religiose, poiché è nota la rottura avvenuta a Ginevra con i
calvinisti e a Lipsia con i luterani. S. si adegua facilmente alla nuova situazione
e abiura pubblicamente le passate convinzioni, ritratta quanto nei suoi scritti
poteva esservi di eretico e abbraccia formalmente il cattolicesimo. Si tratta
di una scelta di convenienza, seppure comprensibile nel clima torbido delle
persecuzioni e dell'intolleranza. Lo scrive lui stesso all'amico Selnecker, un
teologo luterano. Confesso di aver abiurato, anche se non avrei voluto farlo
neppure a costo del mio sangue. Di tale mio atto altri comunque sono i
responsabili. In nessun altro modo avrei potuto infatti salvare la mia vita,
quella di mia moglie e dei miei figli che speravo di poter condurre con me. La
moglie muore poco dopo e i tre figli rimasero affidati a Lipsia al nonno
materno. Io, un italiano perseguitato a causa della religione luterana,
dichiarato nemico della patria, esposto per decreto del senato all'agguato di
sicari. E ricorda la sorte di chi non si è piegato a compromessi. I che vidi
con questi occhi il Paleologo, esule per causa di religione, condotto su
richiesta del legato pontificio dalla Moravia a Vienna, e di qui trascinato in
catene a Roma (si sente dire che ormai è stato crudelmente arso sul rogo), io
che sono circondato da ogni parte da infinite difficoltà e pericoli di ogni
genere, che cosa avrei dovuto fare? Questa lettera non venne agl’occhi dei
gesuiti, che vantarono il successo ottenuto con la presunta conversione del
filosofo famoso, il quale avrebbe promessoa dir lorodi collaborare nella lotta
agl’eretici. La loro soddisfazione non dovette però durare a lungo, o forse
essi stessi credettero poco alla conversione del S., se lo storico gesuita SACCHINI
puo qualificarlo di miserabile uomo che in disprezzo di ogni religione sprofonda
nell'empietà, mentre tra i protestanti BEZA, alla notizia della sua
conversione, commenta di essere sempre stato convinto che l'unico divino è in
realtà Aristotele, del Lizio. Monau, dopo aver ricordato i suoi continui
trascorsi da cattolico si è fatto calvinista, da calvinista anti-trinitario, da
anti-trinitario luterano, e ora di nuovo papista. Lo stratteggia da uomo
profano ed empio, come indicano sia i suoi costumi, sia i suoi discorsi, sia
tutta la sua vita. Forse egli stesso sente di essere circondato da un clima di
diffidenza se non di disprezzo, perché prende la risoluzione di lasciare le
terre dell'impero per trasferirsi in Polonia. Sembra che sia stato un
altro italiano, BUCCELLA, medico personale del re Stefano Báthory, a
raccomandarlo come medico della corte di Cracovia. BUCCELLA, di fede
anabattista, gode di notevole considerazione, né la sua fama d’eretico gl’aveva
pregiudicato l'esercizio della professione in quella Polonia che era ancora un
paese tollerante. Il prestigioso incarico e la fama stessa di cui da tempo gode
gl’apre le porte della migliore società. Riprese a pubblicare alcuni saggi: la “Disputatio
de putredine” è una confutazione, sulla scorta di Aristotele del Lizio, delle
teorie d’Erasto, mentre la “Historia aegritudinis ac mortis magnifici et
generosi domini a Niemsta” è una relazione sulla morte di un borgomastro. Sulla
malattia di quest'ultimo torna nel “Simonius supplex” insieme con una delle
solite polemiche che lo videro ora opporsi al medico di SQUARCIALUPI. Una nuova
svolta nella sua si verifica con la
malattia e la morte del re Stefano. Báthory si sente male nel suo castello di
Grodno, e nel consulto tenuto da BUCCELLA e da S. emersero serie divergenze. BUCCELLA
giudica molto grave le condizioni di Stefano. S. ritenne che non ci è nessun
pericolo. Due giorni dopo le condizioni del re si aggravarono e i due medici si
trovarono d'accordo nell'imporre un salasso al re ma in contrasto sulla dieta. S.
e favorevole a fargli bere del vino, che BUCCELLA intende invece proibire.
Nemmeno nella diagnosi si trovarono d'accordo. Per BUCCELLA, il re soffre di
asma. Per S., d’epilessia. Sopravvenne una nuova grave crisi e il re perde
conoscenza. Pur giudicando molto gravi le sue condizioni di salute, S.
rassicura i circostanti, perché, a suo dire, non c'è ancora pericolo di morte.
Appena pronunzia queste parole che il re spira. Lascia il castello e non volle
assistere all'autopsia, sostenendo che è inutile, poiché l'epilessia “ab
infernis partibus ducit originem” e non lascia tracce nel cadavere. Coordinata
da BUCCELLA, l'autopsia è effettuata da Zigulitz, che accerta una grave
alterazione dei due reni. La ri-cognizione dello scheletro di Báthory conferma
che la morte avvenne per de-generazione renale, uremia e calcolosi. Cracovia:
chiesa di San Francesco pubblica a sua difesa lo “Stephani primi sanitas, vita medica,
aegritudo, mors” che e violentemente contestato dal “De morbo et obitu
serenissimi magni Stephani” scritto da Chiakor su ispirazione di BUCCELLA. La
polemica prosegue a lungo, coinvolgendo altr’amici di BUCCELLA, e degenerando
in insulti e attacchi sulle convinzioni filosofiche dei due protagonisti. Contro
S., tra gl’altri, e indirizzato l'opuscolo “Simonis Simoni lucensis, primum
romani, tum calviniani, deinde lutherani, denuo romani, semper autem athei
summa religio”. Alla fine, Sigismondo III ri-conferma BUCCELLA nella carica di
medico curante, escludendo S. da ogni incarico di corte. Da allora, le
notizie su lui si fanno scarse. Pur senza avere incarichi ufficiali, mantenne
una ricca clientela e gode della considerazione di Rodolfo, dei principi Radziwiłł, di Pavlowski e
dei gesuiti, dai quali si fa ri-ilasciare un salva-condotto per rientrare in
Italia e recarsi a Roma. Precauzione necessaria, con i suoi trascorsi: una
precauzione maggiore e però quella di rinunciare al viaggio. La sua vita
agitata ha così fine a Cracovia, come lo ricorda la lapide posta sulla sua
tomba nella chiesa di S. Francesco. La data di nascita si deduce dalla lapide
sepolcrale, poi andata distrutta in un incendio, posta nella chiesa di S. Francesco,
a Cracovia, nella quale era scritto che il Simoni «ultimum diem clausit III.” Il
testo della lapide è in S. Ciampi, Viaggio in Polonia, Queste notizie biografiche
si apprendono da saggio di S., “Scopae, quibus verritur confutation”. Per
secoli gli storici discuteno del luogo della sua nascita. Verdigi, “S. filosofo
e medico”, Madonia, “S. da Lucca”; Lucchesini, Come scrive egli stesso: S., “Synopsis
brevissima” Madonia, S. da Lucca, Tommasi, “Sommario della storia di Lucca”; Pascal, “Da Lucca a Ginevra. Studi
sull'emigrazione religiosa lucchese”; Fabris, “La filosofia di S.” n Verdigi, S.,
S. S. a Teodoro di Beza, in Pascal, Da
Lucca a Ginevra, e in Verdigi, S. S. a Beza, in Verdigi, S., Madonia, S. Pierro,
La vita errabonda di uno spirito einquieto. S. S. S., “Simonius supplex” in Madonia, S. da Lucca, Firpo, Alcuni
documenti sulla conversione al cattolicesimo dell'eretico lucchese. Il paleo-logo
e decapitato in carcere e il cadavere
arso pubblicamente a Roma, nel campo de' fiori. Firpo, Alcuni documenti sulla
conversione al cattolicesimo di un eretico lucchese; Sacchini, Historia
Societatis Jesu, in Verdigi, S., Beza, lettera a Gwalther, in Pascal, Da Lucca
a Ginevra, Monau, lettera a Crato, in Caccamo, “Eretici italiani” Pierro, La
vita errabonda di uno spirito inquieto. S., Madonia, S. da Lucca. Altre saggi:
“In librum Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum cadunt
commentarius unus” (Geneva, Crispinum); “Commentariorum in Ethica Aristotelis
ad Nicomachum, liber primus” (Geneva, apud Ioannem Crispinum); “Interpretatio
eorum quae continentur in praefatione Simonis Simonij Lucensis, Doct. Med. et
Philosophiae cuidam libello affixa, cuius inscriptio est: Declaratio eorum quae
in libello D. D. Iacobi Schegkii, & c.” (Geneva, Crispinum); “Phisiologorum
omnium principiis Aristotelis De anima libri III” (Lipsiae, Võgelin); Anti-schegkianorum
liber I, in quo ad obiecta Schegkii respondetur, vetera etiam non nulla,
dialectica et phisiologica praesertim, errata eiusdem, male defensa et excusata
inculcantur, novaque quam plurima peiora prioribus deteguntur” (Basilea, Perna);
“Responsum ad elegantissimam illam modestissimamque praephationem Schegkii, cui
titulum fecit Prodromus antisimonii”; “Ad amicum quendam epistola, in qua vere
ostenditur, quid causae fuerit, quod responsum illud, quo maledicus, et multis
erroribus refertus Schegkij doctoris et professoris Tubingensis liber plene
refellitur, nondum in lucem prodierit” (Pariggi, in vico Jacobaeo); “De vera
nobilitate” (Lipsiae, Rhamba); “De partibus animalium, proprie vocatis Solidis,
atque obiter de prima foetus conformatione” (Lipsiae, Rhamba); “De vera ac
indubitata ratione continuationis, intermittentiae, periodorum febrium
humoralium” (Lipsiae, Bervaldi); “Artificiosa curandae pestis methodus,
libellis duobus comprehensa” (Lipsiae, Steinmann); “Synopsis brevissima novae
theoriae de humoralium frebrium natura, periodis, SIGNIS, et curatione, cuius
paulo post copiosissima et accuratissima consequentur hypomnemata; annexa
eiusdem autoris brevi de humorum differentiis dissertatione. Accessit eiusdem
Simonis examen sententiae a Brunone Seidelio latae de iis, quae Jubertus ad
axplicandam in paradoxis suis disputavit” (Basilea, Perna); “Historia
aegritudinis ac mortis magnifici et generosi domini a Niemsta” (Cracovia,
Lazari); “Disputatio de putredine” (Cracovia, Lazari); “Commentariola medica et
physica ad aliquot scripta cuiusdam Camillomarcelli SQUARCIALUPI nunc medicum
agentis in Transilvania” (Vilna, Velicef); “Simonius supplex ad incomparabilem
virum, praeclarisque suis facinoribus de universa republica literaria egregie
meritum Marcellocamillum quendam Squarcilupum Thuscum Plumbinensem triumphantem”;
“Pars in qua de peripneumoniae nothae
dignitione curationeque in domino a Niemista, de subiecto febris, de rabie
canis, de starnutamento, de infecundis nuptiis agitur” (Cracovia, Rodecius); “D.
Stephani primi Polonorum regis magnique Lithuaniae ducis vita medica,
aegritudo, mors” (Nyssae, Reinheckelii); “Responsum ad epistolam cuiusdam G.
Chiakor Ungari, de morte Stephani primi”; “Responsum ad Refutationem scripti de
sanitate, victu medico, aegritudine, obitu, D. Stephani Polonorum regis,
Olomutii, Scopae, quibus verritur confutatio, quam advocati Nicolai Buccellae
Itali chirurgi anabaptistae innumeris mendaciorum, calumniarum, errorumque
purgamentis infartam postremo emiserunt (Olomutii, Milichtaler); Appendix
scoparum in N. BUCCELLAM, Sacchini, Historiae Societatis Iesu” (Antverpiae, Nutii);
Ciampi, “Viaggio in Polonia” (Firenze, Gallett); Lucchesini” (Lucca, Giusti); Tommasi,
Sttoria di Lucca” (Firenze, Vieusseaux); Pascal, “Da Lucca a Ginevra. Studi
sull'emigrazione religiosa lucchese” -- Rivista storica italiana, Cantimori, “Un
italiano a Lipsia” Studi Germanici -- Pierro, La vita errabonda di uno spirito inquieto,
Minerva, Torino; Caccamo, “Eretici italiani” (Firenze, Sansoni); Firpo, “Alcuni
documenti sulla conversione al cattolicesimo dell'eretico lucchese S.”, “Annali
della Scuola normale superiore di Pisa, Madonia, Rinascimento, Firenze, Sansoni, Madonia,
Il soggiorno in Polonia, in «Studi e ricerche I», Verdigi, Lucca, Tiraboschi su
S., in Biblioteca Modenese, Modena, Ciampi,
Viaggio in Polonia, Lucchesini, Della storia letteraria del Ducato lucchese, Tommasi, Sommario della storia di Lucca, su S. Antischegkianorum liber I. S., De vera
nobilitate; S/ Artificiosa curandae pestis methodus. Simone Simoni. Simoni.
Keywords: nobilitaà, eretici italiani. Luigi Speranza, “Grice e Simoni” – The
Swimming-Pool Library. Simoni.
Grice e Simonide: la ragione conversazionale e la filosofia sotto il
principato di Valente. la filiale dell’Accademia – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of
the Accademia, well known for living a principled and disciplined life. He is,
unfortunately, accused of involvement in a plot against the prince VALENTE (si
veda). S.’s refusal to betray any secret
lets to him being burnt alive.
Grice e Sini: la ragione conversazionale e la
filosofia del segno – la scuola di Bologna -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bologna). Filosofo romagnuolo. Filosofo italiano.
Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Sini; especially his “I segni
dell’anima,” since this is, in a nutshell, what my philosophy has been all about:
the signs of the soul!” Studia a
Milano sotto BARIÉ e PACI, con il quale si laurea. Insegna ad Aquila e Milano. Membro
per del Collegium phaenomenologicum di Perugia, della Società filosofica italiana
e socio dei Lincei, dell'Istituto lombardo di scienze e lettere. Insignito per
una sua opera del premio della presidenza del consiglio dello stato italiano. Collabora
al Corriere della Sera e la Rai. Dirige per Versorio la collana
"Pragmata", membro del comitato scientifico del festival La Festa
della Filosofia. Premiato da Milano con l'Ambrogino d'oro. Con Grice, tra i
primi a segnalare all'attenzione l'importanza della teoria del segno di Peirce.
Propone un filone di ricerca sulla convergenza dei percorsi di Peirce e
Heidegger sul filo dell'ermeneutica benché la sua formazione didattica fosse di
orientamento prevalentemente fenomenologico. La sua proposta teoretica si
concentra sul tema della scrittura e sulla centralità dell' abecedario come
forma logica della filosofia nella lingua del Lazio. In “Figure
dell'enciclopedia filosofica” rende conto della radicalità del gesto istitutivo
di LUCREZIO e della nascita della filosofia romana in modo da illuminare la
genealogia della nostra civiltà e le figure del suo destino. Questo saggio si
misura con nodi problematici e profondi della nostra cultura. Si mostra la
verità del gesto filosofico di LUCREZIO nel tratto tecnologico dell’abecedario
che trasforma la relazione al mondo in cosità – “de rerum natura”. La pratica
del concetto, infatti, in-forma il paradigma dell'oggettività – “in rerum
natura” -- e traduce la sterminate antichità dell'umano all'interno dell'ambito
crono-topico della visione logica elaborata dalla scansione dell’abecedario del
mondo con la conseguente nascita del tempo e del sapere storico. All'educazione
mitologica dei corpi dei uomini si sostituisce l'educazione dei animi nella ri-mozione
delle qualità sensibili della vita vissuta. Prima operazione di ingegneria
genetica che comporta sia la nascita del soggetto morale nella paideia del bio-politico
-- come Nietzsche intuisce -- sia il conseguente destino nichilista rivelato
dal dis-incanto. Ma l'intreccio, che dalla pre-istoria conduce ai nostri
giorni, rinvia al desiderio e all'iscrizione originaria che danza nelle figure
del sesso e della morte. La soglia così dischiusa, annunciata dalla verità
analogica dell'evento mimato nella generazione, permette il passaggio del
movente desiderante nel desiderio di vita eternal. L’ACCADEMIA e la logica
disgiuntiva hegeliana rappresentano i due poli più rilevanti di questa
consapevolezza lancinante. Addirittura, tutta la filosofia dell’ACCADEMIA è
probabilmente da pensare come la domanda più alta e profonda che sia mai stata
posta alla sapienza di BACCO. E così,
dagli ominidi alla società dell'informazione, sul filo delle pratiche che ne
circoscrivono le traiettorie, la trama del senso transita al SEGNO disegnando
le co-ordinate del nostro tempo e il predominio della visione scientifica e
delle sue figure che dileguano la consistenza dell'inter-soggetivito,
profilando nel rituale pubblico del potere finanziario, e nella conseguente
imposizione dell'universalità oggettiva, un paradosso costitutivo che nasconde
nuove e positive opportunità ancora tutte da scoprire -- e attualmente
mascherate dalla deleteria mercificazione imperante. Delineando nuove occasioni
di senso, le figure dell'enciclopedia invitano a sognare più vero, vale a dire
ad abitare la conoscenza filosofica nell'esercizio dell'evento del significato
nella concretezza delle sue pratiche. Ethos di una nuova scrittura della
soggezione del mortale al desiderio, nell'apertura al transito della vita.
Approfondisce la questione del logos -- parola, ragione -- e della tecnica
facendo del primo il fondamento ultimo, della seconda l'essenza. Una posizione
di rilievo e in controtendenza all´interno del panorama di questa specifica
area della filosofia. Altre saggi: “I greci” ((Accademia di Belle Arti,
Milano), “La funzione della filosofia” (Marsilio, Padova); “La fenomenologia”
(Nigri, Milano); “Storia della filosofia” (Morano, Napoli); “Il pragmatismo
(Laterza, Roma); “Segno” (Mulino, Bologna); “Passare il segno” (Saggiatore,
Milano); “Kinesis: saggio d'interpretazione (Spirali, Milano)”; “Il metodo”
(Unicopli, Milano); “Parola e silenzo” (Marietti, Genova); “Segni dei animi” (Laterza,
Bari); “Segno ed immagine” (Spirali, Milano); “Segni dei uomini” (Egea, Milano):
“L'espressione e il profondo” (Lanfranchi, Milano)”, Etica della scrittura (Il
Saggiatore, Milano, Mimesis, Milano); “Pensare il Progetto” (Tranchida, Milano);
“Filosofia teoretica” (Jaca, Milano) Variazioni sul foglio-mondo. Peirce,
Wittgenstein, la scrittura” (Hestia, Como), “L'incanto del ritmo” (Tranchida,
Milano Filosofia e scrittura (Laterza, Roma); “Scrivere il silenzio:
Wittgenstein e il problema del linguaggio” (Egea, Milano); “Teoria e pratica
del foglio-mondo (Laterza, Roma-Bari) Gli abiti, le pratiche, i saperi (Jaca,
Milano) Scrivere il fenomeno: fenomenologia e pratica del sapere (Morano,
Napoli) Ragione (Clueb, Bologna) Idoli della conoscenza (Cortina, Milano La
libertà, la finanza, la comunicazione (Spirali, Milano) La scrittura e il
debito: conflitto tra culture e antropologia” (Jaca, Milano); “Il comico e la
vita” (Jaca, Milano); “Figure dell'enciclopedia filosofica. Transito verità” (Jaca,
Milano), “L'analogia della parola: filosofia e metafisica; La mente e il corpo: filosofia e psicologia; Origine
del significato: filosofia ed etologia; La virtù politica: filosofia e
antropologia; Raccontare il mondo: filosofia e cosmologia; Le arti dinamiche:
filosofia e pedagogia La materia delle
cose: filosofia e scienza dei materiali (Cuem, Milano); “La verità e la vita” (Ghibli,
Milano) Del viver bene: filosofia ed economia (Cuem, Milano); “Distanza un
segno: filosofia e semiotica” (Cuem, Milano); “Il gioco del silenzio (Mondadori,
Milano); “Il segreto di Alicia” (AlboVersorio, Milano); “Eracle al bivio:
semiotica e filosofia” (Bollati Boringhieri, Torino); “Da parte a parte.
Apologia del relativo (ETS, Pisa) L'uomo, la macchina, l'automa: lavoro e
conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto (Boringhieri, Torino) L'Eros
dionisiaco (Versorio, Milano); “Figure d'Occidente” (Versorio, Milano); “La
nascita di Eros” (Versorio, Milano); “Spinoza” (Time, Milano ); Redaelli, Il
nodo dei nodi. L'esercizio della filosofia” (Ets, Pisa); “Il filosofo e le
pratiche. In dialogo con S. (E.Redaelli,
BrovelliCrippa, Valle, Redaelli),
Milano, CUEM. Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di S., Milano, Mimesis. Cristiano, La filosofia di S.: semiotica ed
ermeneutica (Milano, Mimesis) Collana
Pragmata, in AlboVersorio, Cfr. Copia archiviata, su unimi). Logos e techne,
tecnologia e filosofia, S. Noema, Treccani Enciclopedie o Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Nòema la
rivista di filosofia diretta da Fabbrichesi e S., su riviste. Archivio S. il
luogo ove i materiali relativi ai corsi di S. ed altro ancora. Lectio
Magistralis di S. su La Différance, Arcoiris TV, Riflessioni sul Senso della
Vita. Intervista di Nardi, Riflessioni
Collana Pragmata, Versorio. Carlo Sini. Sini. Keywords: segno, da Lucrezio a
Cicerone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Siracusa: all’isola – la ragione
conversazionale del tutore di filosofia del principe ai bagni di Pozzuoli – la
scuola di Siracusa -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Siracusa). Filosofo siciliano. Filosofo italiano.
Grice: “We know William is from Ockham but we call him Ockham, not William;
similarly, Alcaldino is from Siracusa, and I call him Siracusa!” Vissuto vicino alla corte degl’Hohenstaufen. Studia
a Salerno. Si cimenta negli studi di filosofia, raccogliendo attorno a sé una
serie di seguaci. Quindi, in seguito alla conclusione del corso regolare degli
studi, e scelto per fare da insegnante filosofia presso la stessa scuola
salernitana. Divenuto uno dei più stimati filosofi della scuola, e chiamato
alla corte d’Enrico VI , che nel frattempo è entrato in possesso del regno di
Sicilia, ed e assunto come filosofo del sovrano. Dopo la morte d’Enrico,
divenne il filosofo di lui figlio,
Federico II, che lo rese degno di confidenza e apprezzamento. Fra gl’attività
legate ai saggi filosofici, scrive e un saggio sui bagni minerali di Pozzuoli,
il “De balneis puteolanis”. In questo poema filosofico rimato vengono descritti
con precisione il luogo, le qualità e le virtù dei suddetti bagni. Scrive
inoltre II opere nelle quali celebra le gesta d’Enrico VI e Federico II. “De triumphis
Henrici imperatoris de his quae a Friderico II imperatore praeclare ac fortifer
gesta sunt”. Panvini di S. Caterina Salvatore De Renzi, Panvini di S. Caterina,
Biografia degl’uomini illustri della Sicilia, Ortolani, Napoli, S. De Renzi, “Storia
documentata della scuola medica di Salerno” (Napoli). Alcaldino di Siracusa. Siracusa.
Keywords: i bagni di Pozzuoli. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Siracusa” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Sirenio: la ragione conversazionale del
‘libero’ arbitrio – la scuola di Brescia. filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Brescia).
Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Insegna a Bologna. Altri
saggi: De fato, Venezia, Ziletti. H. P. Grice, “Sugar-gree”, free fall and freedom, in
Actions and events. Sirenio. Keywords: libero arbitrio, contingetia,
possibilitas, necessitas, ‘secundum philosophorum opinionem” fatum, casum, il
fato, il caso -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sirenio” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Siro: la ragione conversazionale dell’orto a Napoli – Roma – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli,
Campania. S. founds a fililale of L’ORTO at Napoli. VIRGILIO attends it, as does
ORAZIO. L’ORTO enjoys a great success, as S. succeeds in attracting a number of
influential followers. VIRGILIO lives in the casino of L’ORTO -- but the
subsequent fate of The Garden is unknown.
Grice e Sisenna: la ragione conversazionale dell’orto romano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. He achieves acclaim as a historian. Cicerone suggests that S. is a
member of L’ORTO, ‘but not a very consistent one.’ Lucio Cornelio Sisenna.
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