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Friday, December 20, 2024

GRICE ITALO A/Z S SI

 

Grice e Sidonio: la ragione conversazionale dell’implicaturis – inplicatura Lewis/Short -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Sidonio Appolinare – follows a political career. He writes a number of letters in which he makes reference to philosophers and philosophical issues. He claims, for example, that Cleante di Assus bites his nails. Grice: “Implicature is a natural thing in Roman. You have -plicare, you add in-plicare, and then you conjugate!” – Keywords: inplicatura, implicatura, implicature, disimplicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sidonio” – Sidonio.

 

Grice e Signa: la ragione conversazionale della ruota di Venere – la scuola di Signa – filosofia fiorentina – la scuola di Firenze -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Signa). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Signa, Firenze, Toscana. Insegna retorica (“ars dictaminis”) a Bologna e Padova. Vive ad Ancona, Venezia, Bologna, Padova, e Firenze. Tra i saggi più significativi si ricordano il saggio storico “L’assedio d’Ancona” (Viella, Roma), il “Bon Compagno”; “Rethorica novissima”; “Scacchi e il “Libellus de malo senectutis et senis”, nel quale, con spirito arguto, prende in giro le affermazioni di Cicerone che idealizzano la vecchiaia”; la “Rota Veneris” (Salerno), un saggio di epistolo-grafia amorosa; “Liber de amicitia”; “Ysagoge Boncompagnus; “Tractatus virtutum”; “Palma Oliva Cedrum Mirra Quinque tabulae salutationum”;  “Bonus Socius e Civis Bononiae. Garbini, Roma, Salerno, Gabrielli, Le epistole di Cola di Rienzo e l'epistolografia, Archivio della Società romana di storia patria, Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi da S. a Bene da Lucca, Bullettino dell'Istituto storico italiano, G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, Palermo, Tateo,  Enciclopedia dantesca,  Treccani Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su ALCUIN, Ratisbona.  Wight: S.'s charter doctrine (Bologna), in: Medieval Diplomatic and the 'ars dictandi', Scrineum. Keywords: Cicerone, “ars dictaminis” – o rettorica --. Bon Compagno da Signa. Signa. Keywords: rota veneris – erotica – ermafrodita – erma: mercurio, afrodita, venere, afrodisiaco. Luigi Speranza, “Grice e Signa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Silio: la ragione conversazionale a Roma – la maledizione di Dione – Scipione come Ercole – il sacrificio dell’eroe – filosofia veneta – la scuola di Padova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Vilosofo italiano. Padova, Veneto. Avvocato, console, pro-console de principato romano. Muore in Campania. Figli: Lucio Silio Deciano. Console, Proconsole in Asia. Noto semplicemente come S. Italico è anche un poeta, avvocato e politico romano, autore dei Punicorum libri XVII, il più lungo poema epico latino pervenutoci. Abbiamo notizie di lui da una lettera di PLINIO il Giovane a Caninio RUFO, nella quale parla della sua morte. Il nome ‘Asconio’ porta a ritenere che e legato alla gens patavine. Altre brevi informazioni ci vengono da TACITO e da Marziale. Di Marziale, S. è il patrono e sappiamo che opera nel foro come avvocato difensore, probabilmente già al principato di CLAUDIO. Secondo Plinio, nel principato di Nerone, dove esercitare anche l'avvocatura d'accusa, ovvero la delazione vera e falsa per il favore del principe. Il beneficio che ne tratta e il consolato ordinario. Con la caduta e morte di Nerone, in quanto amico di Vitellio, S. partecipa alle trattative di questi con il fratello di Vespasiano, Tito Flavio Sabino, che è a Roma con il figlio di Vespasiano, Domiziano.  S. è pro-console in Asia Minore agl’ordini di VESPASIANO. Testimonianza è un'epigrafe ad Afrodisia, che riporta il suo nome completo. Allo scadere del mandato pro-consolare S. si ritira dalla vita politica attiva dedicandosi agli studi e alla stesura del suo “Punicorum libri”.  Nel Libro III vi è un riferimento al titolo di "Germanico" assunto da Domiziano e Marziale saluta l'opera nel IV libro degl’epigrammi. Anche a causa dello stato di salute aggiorna a Campania, dove compra la villa di CICERONE, il suo modello di oratoria, e la terra che custodia la tomba di VIRGILIO, di cui è un estimatore e ai cui stilemi si rifà abbondantemente nel corso dei Punica. Durante il principato di Domiziano, ha la paterna soddisfazione di vedere nominato console il figlio Lucio Silio Deciano, anche se Marziale e Plinio ci informano che, peraltro, dove subire la perdita del figlio minore. In Campania, provato da un male incurabile, si lascia morire di fame alla maniera del Portico. S. scrive i Punica, poema storico, anche se secondo una parte della critica il testo è incompiuto, in quanto si ipotizza un progetto originario in XVIII libri, parallelo alle dimensioni degl’annales d’ENNIO. La tomba di Virgilio al chiaro di luna, con S., dipinto di Wright. I Punica sono la più lunga epica romana che ci sia pervenuto. Racconta la guerra punica dalla spedizione d’Annibale in Spagna al trionfo di SCIPIONE dopo Zama. La disposizione annalistica testimonia la sua volontà di ricollegarsi alla III decade di LIVIO, ne recupera la cornice architettonica del modello. Colloca dopo il proemio il ritratto di Annibale e chiude, come LIVIO, con l'immagine del trionfo di Scipione. I Punica è concepita quale continuazione ed esplicazione dell’Eneide virgiliana. La guerra d’Annibale è, di fatto, vista come la continuazione di Virgilio, originata dalla maledizione di Didone contro ENEA, mentre dal poema virgiliano S. restaura la funzione strutturale dell'apparato mitologico, anche se lo stravolgimento anti-frastico della provvidenza virgiliana è sostituito da un'EPOPEA dal finale rassicurante.  PLINIO ha delle riserve sulle capacità di S., lo ritiene più antiquario che artista per il suo gusto per le ricostruzioni minuziose. Lo stile sembra influenzato dal gusto del tempo: "barocco", scene macabre unite al modello epico mitologico, con BANALI RIFLESSIONI ETICHE. L'opera, comunque, risulta frammentaria, poiché dà più importanza ai particolari piuttosto che non all'unità dell'opera stessa. Quindi, lo scritto di S. è importante soprattutto per la quantità di informazioni storiche e mitologiche piuttosto che per la sua poesia.  S. in Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. S., in Treccani.it – Enciclopedie, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. S., su Sapere.it, De Agostini. Pollidori - Postilla a S., su gionni altervista.org. Giarratano, S. in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Epist. III, 7. Patavino: cittadino di Padova (dal latino Patăvium, nome della città di Padova. Marziale. Vinchesi, Introduzione, in Le guerre puniche, BUR, Milano, Occioni, S. e il suo poema, Firenze, Monnier, Vinchesi, Introduzione, in Le guerre puniche, BUR, Milano. S. su Treccani – Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giarratano, S. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, S. su sapere.it, Agostini. S., Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica. Silio Italico, su ALCUIN, Ratisbona. S., su Musisque Deoque; S. su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. S., open MLOL, Horizons Unlimited, S., Open Library, Internet Archive. S. su Progetto Gutenberg. V · D · M Poeti epici antichi Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Categorie: Poeti romani Avvocati romani Politici romani, Poeti, Consoli imperiali romani. S. has a career in politics before retiring to his villa near Napoli where he pursues his interests in philosophy. He is a follower of the Porch, and admired by Pliny Minore. S. is a  philosopher of the Porch.. S. adopts Virgil's basic concept of seeing in the Punic War a fateful step on the road to Rome's greatness, pre-ordained and hence supported by the divine. In his epic, however, S. goes further than Virgilio had done in trying to illustrate how the actions of the great Romans of the period, such as Marcellus or Scipione - reveal that harmony between pre-destination and CHOICE which is demanded by the philosophy of IL PORTICO. Romans like Marcello or Scipione remain loyal to the ancient values of Rome, which are unknown (and naturally totally foreign) to the antagonist Hannibal. S. shows both Scipione and Hannibal as trying to emulate ERCOLE, that hero whom philosophers from both IL PORTICO and IL CINARGO present as the archetype of a man whose unceasing endeavour and striving make him able to attain perfection through his own efforts. The Roman ERCOLE is, moreover, an important figure in popular religion and in Flavian principate ideology. In S.’s epic only one of the two claimants is Hercules’s legitimate successor: Scipione, whose individual striving for perfection is sub-ordinate to the summum bonum (OPTIMVM) of serving Rome, and thus in harmony with the universal order in which Rome has its divinely given place. By applying the doctrine of fate of IL PORTICO to explain the tradition of Rome's heroic past with its many Republican memories S. establishes a meaningtul connection between that tradition and the state of the principate in which he himself lives. S.’s aim is to prove that a classicising frame of mind with its orientation towards the legendary past of Rome leads to an affirmation, instead of a rejection, of contemporary reality. Tiberio Cazio Asconio Silio Italico. Keywords: SCIPIONE, l’eroe nudo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Silio, and the labours of Ercole” – per il gruppo di gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library. Silio.

 

Grice e Silla: la regione conversazionale della ta meta ta physika -- Roma – lascuola di Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Apellicon, a member of the Lizio, acquires an extensive collection of the works of Aristotle and Teofrasto that had once belonged to Neleo, della Scessi. S. takes the collection away from him and transports it to Roma, where TIRANNIO (si veda) is put in charge of sorting it out and looking after it. Grice: “Tirannio saw a bunch of books which where obviously on physics. ‘And what are these?’ A bunch of books piled after those about physics. ‘I don’t know. I call them ‘the books that come after the books on physics’ – ta meta ta physika.”   Lucio Cornelio Silla Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.  Disambiguazione – "Lucio Silla" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Lucio Silla (disambigua).  Disambiguazione – "Silla" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Silla (disambigua).  Disambiguazione – Se stai cercando l'opera di Händel, vedi Lucio Cornelio Silla (Händel). Lucio Cornelio Silla Console e dittatore della Repubblica romana Ritratto di Silla su un denario battuto da suo nipote Quinto Pompeo Rufo Nome originale Lucius Cornelius Sulla Nascita Roma Morte Cuma Coniuge Giulia Elia Clelia Cecilia Metella Dalmatica Valeria Messalla Figlida Giulia Cornelia Silla Lucio Cornelio Silla da Metella Fausto Cornelio Silla Fausta Cornelia Silla Lucio Cornelio Silla da Valeria Cornelia Postuma GensCornelia PadreLucio Cornelio Silla Questura Pretura Propretura in Cilicia Consolato Proconsolato in Asia Dittatura Lucio Cornelio Silla Nascita Roma Morte Cuma Cause della morte cancro Etnia Latino Religione Religione romana Dati militari Paese servito repubblica romana Forza armata Esercito romano Grado Dux Guerre Guerra giugurtina Guerre cimbriche Guerra civile romana Prima guerra mitridatica Battaglie Battaglia dei Campi Raudii Assedio di Atene Battaglia di Porta Collina Battaglia di Cheronea Battaglia di Orcomeno Comandante di Esercito romano Altre cariche Dictator voci di militari presenti su Manuale Lucio Cornelio Silla (in latino Lucius Cornelius Sulla Felix, pronuncia classica o restituta: ˈluːkɪʊs kɔrˈneːlɪʊs ˈsʉlla ˈfeːlɪks, nelle epigrafi L·CORNELIVS·L·F·P·N·SVLLA·FELIX; Roma – Cuma) è stato un militare e dittatore romano.  Lucio Cornelio Silla naque a Roma da un ramo della gens patrizia dei Cornelii caduto in disgrazia. La motivazione è rintracciabile: un quadrisavolo di Silla, Publio Cornelio Rufino, nonostante fosse stato console, dittatore in data imprecisata e avesse celebrato il trionfo sui Sanniti, fu espulso dal Senato perché possedeva più di dieci libbre di argenteria in casa. Il figlio di Rufino, Publio Cornelio, fu nominato flamen Dialis, posizione di massima importanza in ambito religioso, ma i cui obblighi lo escludevano di fatto dalla vita politica.[4] Questi fu il primo a portare il cognomen Sulla. Nelle sue Memorie, Silla stesso scrive che il primo Sulla fu il flamine, facendo derivare la parola dal nome della Sibilla: infatti Publio Cornelio, figlio del sacerdote e bisavolo di Silla, aveva consultato i Libri sibillini per decidere se celebrare i primi ludi Apollinares; questo tentativo di nobilitare il cognomen non rispetterebbe però un'antica usanza romana. Tradizionalmente, infatti, il cognomen descriveva un tratto della famiglia che lo portava: in questo caso, mentre Rufinus richiamava la capigliatura rossa della famiglia, Sulla derivava da suilla, «carne di porco», e alludeva alla pelle chiara e cosparsa di lentiggini. Nonostante il cambiamento del cognomen, la reputazione della famiglia non migliorò e i successori del flamine non ricoprirono cariche superiori a quella pretoria. Il bisavolo di Silla, Publio Cornelio, fu unitamente praetor urbanus e peregrinus e, come già detto, indisse i primi Giochi di Apollo. Avvicinandosi all'età di Silla le informazioni scarseggiano: del primogenito e nonno di Silla, omonimo di suo padre, si sa che fu pretore in Sicilia, mentre il secondogenito, Servio, ricoprì la carica in Sardegna. Del padre, Lucio Cornelio Silla, si sa ancora meno: è probabile che non fosse il primogenito di Publio e che fu amico di Mitridate il Grande, per cui potrebbe essere stato promagistrato in Asia o membro di una delle numerose delegazioni che venivano frequentemente inviate in Oriente. Ebbe due mogli: la seconda, matrigna di Silla, era decisamente doviziosa. Gioventù  Busto virile detto Silla, copia del 40 a.C. ca. di un originale dell'età augustea, marmo, alt. 47 cm. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek (in Roma, Palazzo Barberini, collezione privata). La scultura e identificata con Silla ma, considerata la datazione (incerta), si può dire che probabilmente non lo ritrae. Poco si sa della fanciullezza di Silla. Ci rimane solo una leggenda, secondo cui, poco dopo la sua nascita, una donna lo vide in grembo alla nutrice e le disse «Puer tibi et reipublicae tuae felix» (Il fanciullo [sarà] fonte di gioia per te e per lo Stato).Certo è che il crollo del prestigio condizionò la situazione economica della famiglia, descritta così da Plutarco: «οἱ δὲ μετ’ ἐκεῖνον ἤδη ταπεινὰ πράττοντες διετέλεσαν, αὐτός τε Σύλλας ἐν οὐκ ἀφθόνοις ἐτράφη τοῖς πατρῴοις. γενόμενος δὲ μειράκιον ᾤκει παρ’ ἑτέροις ἐνοίκιον οὐ πολὺ τελῶν, ὡς ὕστερον ὠνειδίζετο παρ’ ἀξίαν εὐτυχεῖν δοκῶν. σεμνυνομένῳ μὲν γὰρ αὐτῷ καὶ μεγαληγοροῦντι μετὰ τὴν ἐν Λιβύῃ στρατείαν λέγεταί τις εἰπεῖν τῶν καλῶν τε κἀγαθῶν ἀνδρῶν· «Καὶ πῶς ἂν εἴης σὺ χρηστός, ὃς τοῦ πατρός σοι μηδὲν καταλιπόντος τοσαῦτα κέκτησαι;» I suoi di Rufino discendenti, fin dal primo, condussero una vita mediocre e Silla stesso fu allevato in una situazione patrimoniale niente affatto invidiabile. Da adolescente abitava in casa d'altri e pagava un affitto basso; questo gli fu rinfacciato in seguito, perché sembrava aver raggiunto una fortuna superiore al merito. Si dice che, dopo la campagna in Libia, quando si faceva bello e si vantava, uno dei boni gli si rivolse con queste parole: «E come potresti essere meritevole di lodi tu, che ti sei ritrovato tante ricchezze senza che tuo padre ti abbia lasciato niente?»»  (Plutarco, Sull., 1, 2; trad. di Lucia Ghilli)  Il biografo greco probabilmente esagera, perché Silla non crebbe nella povertà più assoluta: era ricco agli occhi del plebeo, ma povero agli occhi del nobile, una posizione assimilabile a quella di cavaliere. Nonostante l'ambiente modesto in cui visse, a Silla fu impartita un'ottima educazione, degna delle sue origini patrizie: gli furono insegnati la letteratura latina e greca, il diritto, la retorica, la filosofia e l'arte e fu impregnato dei valori tradizionali del mos maiorum. Con questi strumenti, Silla poteva certamente rivaleggiare con i più eruditi della sua epoca, ma per ottenere una carica gli serviva il denaro.  La speranza di ricoprire una magistratura sembrò svanire quando, verso l'età in cui indossò la toga virilis, il padre Lucio morì senza lasciargli nulla in eredità. Silla, che godeva di un reddito annuo di 9000 sesterzi, nove volte maggiore rispetto a quello di un operaio, ma decisamente umile per un aristocratico, prese a frequentare i sobborghi dell'Urbe, che poco si addicevano a un patrizio, e personaggi ambigui come mimi e istrioni, per cui scrisse anche alcune atellane. Secondo Plutarco, in occasione delle bevute con i suoi amici plebei Silla, la cui immagine è passata alla storia come severo dittatore, mostrava il suo lato migliore: «ἀλλ’ ἐνεργὸς ὢν καὶ σκυθρωπότερος παρὰ τὸν ἄλλον χρόνον, ἀθρόαν ἐλάμβανε μεταβολὴν ὁπότε πρῶτον ἑαυτὸν εἰς συνουσίαν καταβάλοι καὶ πότον, ὥστε μιμῳδοῖς καὶ ὀρχησταῖς τιθασὸς εἶναι καὶ πρὸς πᾶσαν ἔντευξιν ὑποχείριος καὶ κατάντης.»   «sebbene fosse attivo e più accigliato per il resto del tempo, non appena si buttava nella mischia e si metteva a bere cambiava del tutto, tanto da diventare gentile con mimi cantanti e ballerini, dimesso e propenso ad accogliere ogni richiesta.»  (Plutarco, Sull.; trad. di Lucia Ghilli)  Ormai pronto al matrimonio, Silla sposò una certa Ilia, che potrebbe corrispondere a una Giulia, sorella di Lucio Giulio Cesare e Cesare Strabone Vopisco, o una Giulia minore, sorella di Gaio Giulio Cesare, Sesto Giulio Cesare e Giulia maggiore, moglie di Gaio Mario, o più probabilmente si tratta di un errore di Plutarco, per cui la figura di Ilia coinciderebbe con Elia, la seconda moglie di Silla, di famiglia plebea e di cui non si sa altro che il nome. In ogni caso, da Ilia Silla ebbe la sua prima figlia, Cornelia, e il primo figlio, Lucio, che morì infante.Ad ogni modo, il legame matrimoniale non gli impedì di intrattenere relazioni extraconiugali: coltivò una relazione omosessuale con l'attore Metrobio, un amore giovanile che portò con sé fino alla morte, così come continuò a frequentare i circoli di buffoni. Amò anche la facoltosa Nicopoli, liberta più vecchia di lui e sua amante, che, quando spirò, lasciò al giovane Silla una grande eredità. Nello stesso periodò morì anche la matrigna, da cui Silla ereditò un'altra ingente somma di denaro.Fu probabilmente così che Lucio Cornelio Silla, nato da una famiglia decaduta, poté intraprendere la sua carriera politica: l'inizio della sua Felicitas.  Esordi della carriera e opposizione a Mario  Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra giugurtina e Guerre cimbriche. Silla e nominato questore di Gaio Mario, del quale era cognato avendo sposato la sorella minore della moglie di Mario, Giulia, nel periodo in cui questi stava assumendo il comando della spedizione militare contro Giugurta, re della Numidia. Questa guerra si protraeva ormai., con risultati addirittura umilianti per l'esercito romano, tenuto in scacco dalle forze di questo piccolo regno africano.  Alla fine Mario, riuscì a prevalere, soprattutto grazie all'abile e coraggiosa iniziativa di Silla, che riuscì a catturare Giugurta convincendo il suocero Bocco e gli altri familiari a tradirlo e consegnarlo ai Romani. La fama che gliene derivò gli servì da trampolino di lancio per la carriera politica, ma provocò il risentimento e la gelosia di Mario nei suoi confronti. Difatti Silla continuò a servire nello Stato Maggiore di Mario fino all'elezione al consolato di Quinto Lutazio Catulo, di antica famiglia aristocratica come lui, e infine passando nello Stato Maggiore di quest'ultimo nella difficile campagna condotta in Gallia contro le tribù germaniche dei Cimbri e dei Teutoni. Silla si distinse anche in questa occasione, aiutando il console Quinto Lutazio Catulo e Mario a sconfiggere i Cimbri nella Battaglia dei Campi Raudii, presso Vercelli. Al suo ritorno a Roma, Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano, e i suoi avversari non mancarono di accusarlo di aver corrotto all'uopo molti degli elettori. In seguito fu assegnato al governo della Cilicia, regione situata nell'odierna Turchia. Si assistette a un avvenimento storico per quell'epoca. La Repubblica romana e il grande Impero dei Parti vennero a contatto in modo del tutto pacifico. Una delegazione inviata dal sovrano parto, Mitridate II, si incontrò sulle rive dell'Eufrate con il pretore Lucio Cornelio Silla, governatore della nuova provincia di Cilicia. Dopo l'anno di pretura, Silla fu inviato in Cappadocia. Motivo ufficiale della sua missione era il porre di nuovo sul trono Ariobarzane I. In verità egli aveva il compito di contenere e controllare l'espansione di Mitridate, che stava acquisendo nuovi domini e potenza non inferiori a quanti ne aveva ereditati.»  (Plutarco, Vita di Silla)   La missione di Silla, procuratore della Cilicia, nel 96 a.C., quando incontrò un satrapo dei Parti presso Melitene (futura fortezza legionaria).  Rovine di Aeclanum, la città del Sannio irpino conquistata da Lucio Cornelio Silla. Questo primo incontro fissò sull'Eufrate il confine tra i due imperi. Una curiosità di quell'incontro fu che Silla cercò, anche in quella circostanza, di affermare la preminenza di Roma sulla Partia, sedendosi fra il rappresentante del Gran Re e il re di Cappadocia, come se desse udienza a dei vassalli. Una volta venuto a conoscenza dell'accaduto, il re dei Parti fece giustiziare colui che lo aveva così maldestramente sostituito all'incontro con il comandante militare romano. Ecco come racconta l'episodio Plutarco. Silla soggiornava lungo l'Eufrate, quando venne a trovarlo un certo Orobazo, un parto, quale ambasciatore del re degli Arsacidi. In passato non c'erano mai stati rapporti di sorta tra i due popoli. Tra le grandi fortune toccate a Silla, va ricordata anche questa. Egli fu infatti il primo romano che i Parti incontrarono, chiedendo alleanza e amicizia. In questa occasione si racconta che Silla fece disporre tre sgabelli, uno per Ariobarzane I, uno per Orobazo e uno per sé, e li ricevette mettendosi al centro tra i due. Di questa situazione alcuni lodano Silla, perché ebbe un contegno fiero di fronte a due barbari, altri lo accusano di impudenza e vanità oltre misura. Il re dei Parti, da parte sua, mise poi a morte Orobazo.»  (Plutarco, Vita di Silla. Silla lasciò il Medio Oriente e rientrò a Roma, dove si unì al partito degli oppositori di Gaio Mario. In quegli anni la Guerra Sociale era al suo culmine. L'aristocrazia romana si sentiva minacciata dalle ambizioni di Mario che, vicino alle posizioni del partito popolare, aveva già retto il consolato per 5 anni di seguito. Nella repressione di quest'ultimo moto di ribellione delle popolazioni italiche alleate di Roma, Silla si mise particolarmente in luce come brillante e geniale stratega, eclissando sia Mario sia l'altro console Gneo Pompeo Strabone (padre di Gneo Pompeo Magno). Una delle sue imprese più famose fu la cattura di Aeclanum, città degli Irpini, ottenuta incendiando il muro di legno che difendeva la città assediata. Come conseguenza, ottenne per la prima volta il consolato, insieme a Quinto Pompeo Rufo.  Occupazione militare di Roma  Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile romana. Silla, assunta la carica di console, ricevette poco dopo dal Senato l'incarico di governare la provincia d'Asia. Durante il governatorato organizzò una nuova spedizione in Oriente e combatté la prima guerra mitridatica. Si lasciò tuttavia alle spalle, a Roma, una situazione assai turbolenta. Mario era ormai vecchio, ma nonostante ciò aveva ancora l'ambizione di essere lui, e non Silla, a guidare l'esercito romano contro il re del Ponto Mitridate VI. Per ottenere l'incarico, Mario convinse il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo a fare approvare una legge che sottraesse a Silla la guida, già legittimamente conferitagli, della guerra contro Mitridate e gliela attribuisse.  Appresa la notizia Silla, accampato in quel momento nell'Italia meridionale in attesa di imbarcarsi per la Grecia, scelse le 6 legioni a lui più fedeli e, alla loro testa, marciò su Roma. Nessun comandante, in precedenza, aveva mai osato violare con l'esercito il perimetro della città (il cosiddetto pomerio). La cosa era talmente contraria alle tradizioni che Silla esentò gli ufficiali dal parteciparvi. Spaventati da tanta risolutezza, Mario e i suoi seguaci fuggirono dalla città. Dopo avere preso una serie di provvedimenti per ristabilire la centralità del Senato come guida della politica romana, Silla lasciò di nuovo Roma, e riprese la strada della guerra contro Mitridate.  Guerra contro Mitridate in Oriente  Lo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra mitridatica.  Mitridate (oggi al museo del Louvre). Approfittando dell'assenza di Silla, Mario riuscì a riprendere il controllo della situazione. Con il sostegno del console Lucio Cornelio Cinna (suocero di Gaio Giulio Cesare), ottenne che tutte le riforme e le leggi emanate da Silla fossero dichiarate prive di validità e che lo stesso Silla fosse ufficialmente dichiarato «nemico pubblico» e costretto perciò all'esilio. Insieme, Mario e Cinna eliminarono fisicamente un gran numero di sostenitori di Silla, e furono eletti consoli Mario morì pochi giorni dopo l'elezione e Lucio Valerio Flacco fu nominato consul suffectus al suo posto, mentre Cinna rimase a dominare incontrastato la politica romana, essendo rieletto console negli anni successivi.  Nel frattempo Silla si era recato in Grecia, dove portò alla caduta Atene. Il comandante romano vendicò quindi l'eccidio asiatico di Mitridate, compiuto su Italici e cittadini romani, compiendo un'autentica strage nella capitale attica. Silla proibì, invece, l'incendio della città, ma permise ai suoi legionari di saccheggiarla. Il giorno seguente il comandante romano vendette il resto della popolazione come schiavi. Catturato Aristione, chiese alla città come risarcimento del danno di guerra, circa venti chili di oro e 600 libbre d'argento, prelevandole dal tesoro dell'Acropoli. Poco dopo fu la volta del porto di Atene del Pireo. Da qui Archelao decise di fuggire in Tessaglia, attraverso la Beozia, dove portò ciò che era rimasto della sua iniziale armata, radunandosi presso le Termopili con quella del condottiero di origine tracia, Dromichete (o Tassile secondo Plutarco). Con l'arrivo di Silla in Grecia le sorti della guerra contro Mitridate erano quindi cambiate a favore dei Romani. Espugnata quindi Atene e il Pireo, il comandante romano ottenne due successi determinanti ai fini della guerra, prima a Cheronea, dove secondo Tito Livio caddero ben 700.000 armati del regno del Ponto, e infine a Orcomeno.Mappa dei movimenti delle armate romane, prima e durante la battaglia combattuta presso Cheronea  Mappa dei movimenti delle armate romane, durante la battaglia combattuta presso Orchomenos Contemporaneamente, il prefetto della cavalleria, Flavio Fimbria, dopo aver ucciso il proprio proconsole, Lucio Valerio Flacco, a Nicomedia prese il comando di un secondo esercito romano. Quest'ultimo si diresse anch'egli contro le armate di Mitridate, in Asia, uscendone più volte vincitore, riuscendo a conquistare la nuova capitale di Mitridate, Pergamo, e poco mancò che non riuscisse a far prigioniero lo stesso re. Intanto Silla avanzava dalla Macedonia, massacrando i Traci che sulla sua strada gli si erano opposti. Quando Mitridate seppe della sconfitta a Orcomeno, rifletté sull'immenso numero di armati che aveva mandato in Grecia fin dal principio, e il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza di ciò, decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori condizioni possibili. Quest'ultimo ebbe allora un colloquio con Silla in cui disse: Tuo padre era amico di re Mitridate, o Silla. Fu coinvolto in questa guerra a causa della rapacità degli altri comandanti romani. Egli chiede di avvalersi del tuo carattere virtuoso per ottenere la pace, se gli accorderai condizioni eque. Appiano, Guerre mitridatiche)  Dopo una serie di trattative iniziali, Mitridate e Silla si incontrarono a Dardano, dove si accordarono per un trattato di pace, che costringeva Mitridate a ritirarsi nei confini antecedenti la guerra, ma ottenendo in cambio di essere ancora una volta considerato «amico del popolo romano». Un espediente per Silla, per poter tornare nella capitale a risolvere i suoi problemi personali, interni alla Repubblica romana. Si racconta che Silla, prima di tornare in Italia, ebbe un secondo incontro con ambasciatori del re dei Parti, i quali gli predissero che «divina sarebbe stata la sua vita e la sua fama». Allora Silla decise di tornare in Italia, sbarcando a Brindisi con 300.000 armati.Il ritorno a Roma, la dittatura e le liste di proscrizione  Lo stesso argomento in dettaglio: Proscrizione sillana.  Possibile ritratto di Silla (copia di un originale, oggi conservata presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen). L'identificazione è stata avanzata dall'archeologo tedesco Klaus Fittschen. Quando fu raggiunto dalla notizia della morte di Cinna, nell'84 a.C., lasciò l'Oriente e si mise in marcia verso Roma, ottenendo l'appoggio, tra gli altri, del giovane Gneo Pompeo Magno. Dopo un periodo iniziale di stasi delle operazioni militari, nel novembre dell'82 a.C. Silla ottenne la vittoria decisiva sconfiggendo nella Battaglia di Porta Collina un grande esercito costituito dalle legioni della fazione dei populares e dalle agguerrite truppe sannite al comando di Ponzio Telesino. L'esito di questa battaglia fu determinato in modo risolutivo dall'azione del futuro triumviro Marco Licinio Crasso che al comando dell'ala destra sbaragliò le forze nemiche, mentre Silla era in grave difficoltà sull'ala sinistra.  Subito dopo la battaglia, essendo morti entrambi i consoli, Silla fu eletto dittatore[56] a tempo indeterminato dai comizi centuriati con la Lex Valeria de Sulla dictatore: i suoi poteri comprendevano il diritto di vita e di morte, la possibilità di presentare leggi, di effettuare confische, di fondare città e colonie, di scegliere i magistrati.  Fu sulla base di questi poteri che Silla realizzò un'articolata serie di riforme, che, nelle sue intenzioni, dovevano risolvere la crisi in cui si dibatteva da decenni lo Stato romano. Divenuto padrone assoluto della città, Silla instaurò un vero e proprio regno del terrore, mettendo al bando e dichiarando fuori legge (prima proscrizione) tutti gli oppositori politici, offrendo ricompense a chi li avesse uccisi. I più colpiti furono i cavalieri, che erano sempre stati ostili a Silla e che presero potere grazie alla riforma del proletariato: ne furono uccisi 2.600 e i loro beni, messi all'asta a prezzi irrisori, finirono nelle tasche dei Sillani.  Il giovane Gaio Giulio Cesare, come genero di Cinna, fu costretto ad abbandonare precipitosamente la città, ma ebbe salva la vita grazie all'intercessione di alcuni amici influenti, soprattutto della cugina Cornelia, figlia di Silla, e del marito di lei Mamerco Emilio Lepido, princeps senatus. Silla annotò poi nelle proprie memorie di essersi pentito di averlo risparmiato ("e sia, lo risparmierò, ma vi avverto, in lui vedo mille volte Mario", frase citata in Svetonio, Vita di Cesare, edizioni Laterza), viste le ben note ambizioni politiche del giovane. Una vittima delle sue proscrizioni, con una morte particolarmente violenta e crudele fu Marco Mario Gratidiano, del quale si racconta che fosse decapitato da suo cognato Catilina anche se, in un frammento delle Storie, Sallustio non menziona Catilina nel descrivere la morte: a Gratidiano, dice, «la vita era sfuggita da lui pezzo per pezzo: le gambe e le braccia gli sono state spezzate e gli occhi cavati».  La circostanza che l'uccisione avvenisse presso la tomba di Catulo ha fatto pensare gli storici che si trattasse non di una semplice crudele vendetta ma di un vero e proprio sacrificio umano rituale per pacificare un antenato morto, riprendendo l'uso di sacrifici umani a Roma, documentati in tempi storici da Andrew Lintott, seppure da 15 anni fossero stati vietati.  Il nuovo ordine Ormai rimasto senza vere opposizioni, Silla attuò una serie di riforme tese a mettere il controllo dello Stato saldamente nelle mani del Senato, allargato per l'occasione da 300 a 600 senatori. La nomina a senatore fu resa, inoltre, automatica al raggiungimento della carica di questore, mentre prima era demandata alla scelta dei censori. Per evitare l'accumulo di poteri si stabilì un limite minimo di età per le varie magistrature: trent'anni per i questori, quaranta per i pretori, ecc. Il potere dei tribuni della plebe fu inoltre fortemente ridimensionato: le loro proposte dovevano essere approvate preventivamente dal Senato e il loro diritto di veto limitato. Il potere giudiziario fu restituito al Senato, sia per i reati più gravi sia per le cause di corruzione che la riforma graccana aveva demandato ai cavalieri. In definitiva tutte le sue azioni erano animate dall'intento di restituire al partito aristocratico il controllo della città. Introdusse inoltre la legge per cui i vincitori di corone militari di grado pari o superiore alla civica sarebbero stati ammessi di diritto in senato indipendentemente dall'età, questo fu il motivo per cui Gaio Giulio Cesare all'età di vent'anni ebbe accesso al Senato. Il ritiro dalla vita politica Cronologia Vita di Lucio Cornelio Silla Nasce a Roma  a.C.nominato questore di Gaio Mario fine della Guerra Giugurtina legatus di Mario nella Gallia Ulteriore legatus di Quinto Lutazio Catulo nella Gallia Ulteriore sconfigge i Cimbri nella Battaglia dei Campi Raudii (Vercelli) eletto pretore urbano governatore della Cilicia comandante nelle Guerre Sociali consolato insieme a Quinto Pompeo Rufo e successiva occupazione di Roma e messa fuori legge di Mario spedizione in Medio Oriente contro Mitridate VI del Ponto .messo fuori legge da Mario ritorna a Roma e la occupa con la forza per la seconda volta eletto dittatore consolato insieme a Quinto Cecilio Metello Pio 79 a.C.si dimette dal consolato e si ritira a vita privata muore per cause naturali in Campania nella sua villa di Cuma Nella sua veste di dittatore a vita Silla venne eletto console per la seconda volta Cresceva intanto l'insofferenza verso gli eccessi compiuti dai suoi uomini. Un suo liberto fu denunciato in un processo, e sconfitto grazie alle arringhe del giovane Cicerone. Silla, sorprendendo tutti, l'anno successivo decise di abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con l'intento di accingersi a scrivere le proprie memorie e riflessioni.  Quando si ritirò a vita privata, pare che attraversando la folla sbigottita uno dei passanti si mise a ingiuriarlo. Silla si limitò a rispondergli, beffardo: «Avresti avuto lo stesso coraggio a dirmi queste cose quando ero al potere?. E alla fine, personaggio dall'indole spietata e ironica allo stesso tempo, confidò ad uno dei suoi amici:  «Imbecille! Dopo questo gesto, non ci sarà più alcun dittatore al mondo disposto ad abbandonare il potere]»  Plutarco nelle Vite parallele lo rappresenta come il vizio, narrando che fosse circondato da una variopinta corte di attori, ballerini e prostitute, fra cui un certo Metrobio, e che gli dei per punizione lo fecero ammalare di lebbra. Dopo aver terminato le sue riforme, si ritirò a vita privata. In compagnia di questa allegra brigata, Sulla Felix fino all'ultimo respiro, morì probabilmente di cancro. Lasciò vedova e incinta la sua ultima moglie, Valeria Messalla, che qualche mese dopo partorì una figlia, Cornelia Postuma.  Com'era allora d'uso presso i potenti di Roma, lui stesso dettò l'epitaffio che aveva voluto s'incidesse sul suo monumento funebre: Nessun amico mi ha reso servigio, nessun nemico mi ha recato offesa, che io non abbia ripagati in pieno.»  Conseguenze dell'operato politico di Silla I problemi politici e sociali che avevano portato alla guerra civile non erano però affatto risolti. Silla aveva ristabilito l'ordine oligarchico in virtù della forza derivatagli dagli eserciti, al cui appoggio avrebbero ricorso sia i sostenitori sia gli avversari del nuovo corso da lui instaurato. Da Silla in poi la vita politica e civile dello Stato fu perciò condizionata pesantemente dall'elemento militare: disporre di un esercito da usare contro gli avversari e, se si rivelasse necessario, contro le stesse istituzioni romane, divenne l'obiettivo principale dei più ambiziosi capi politici che aspiravano al potere. Il sistema costituzionale romano uscì distrutto dalla guerra civile. E l'esempio di Silla trovò presto un imitatore d'eccezione proprio in un uomo che aveva idee opposte alle sue: Giulio Cesare.  Matrimoni e discendenza Silla si sposò cinque volte: Giulia, chiamata anche Ilia. Probabilmente una parente di Giulio Cesare, si sposarono e lei morì., probabilmente di parto. Ebbero una figlia e un figlio: Cornelia, che fu madre di Pompea Silla, terza moglie di Giulio Cesare. Lucio Cornelio Silla, che morì giovane. Elia, da cui non ebbe figli. Clelia, da cui divorziò con l'accusa di sterilità. Cecilia Metella Dalmatica. Si sposarono. Ebbero due figli e una figlia: Fausto Cornelio Silla. Gemello di Fausta, questore Fausta Cornelia. Gemella di Fausto, madre di Gaio Memmio, console suffetto Lucio Cornelio Silla. Morì giovane poco prima della madre.Valeria Messalla. Si sposarono e fu l'ultima moglie di Silla, che morì nello stesso anno. Ebbero una figlia: Cornelia Postuma. Nata alcuni mesi dopo la morte del padre, si presume sia morta prima dell'età da matrimonio. Note Esplicative ^ Chiamata anche Ilia  Le figure di Giulia/Ilia ed Elia potrebbero coincidere (vd. infra). Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard; contra Keaveney, secondo il quale deriverebbe da sura, «polpaccio»; cfr. Quintiliano, Inst.). Noto anche semplicemente come Silla, nome che probabilmente deriva dalla corruzione della grafia originaria del suo cognome (SVILLA). Il cognome aggiuntivo (in latino agnomen) Felix fu aggiunto quando già era al termine della carriera, a motivo della sua quasi leggendaria fortuna come condottiero. Plutarco, Sull., 1, 1; Sallustio, Iug., Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard; Telford, Brizzi; Hinard Brizzi Livio, Brizzi; Hinard Hinard; Telford, Livio Brizzi; Hinard; Keaveney Brizzi; Hinard; Appiano, Mith. Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard; Keaveney Per maggior informazioni sul busto e la sua storia si rimanda ai seguenti link: The General Publius Cornelius Scipio Africanus?, su ancientrome.ru. The General Publius Cornelius Scipio Africanus?, su ancientrome.ru. Keaveney Hinard Sallustio, Iug., Hinar; Keaveney Brizzi; Keaveney Brizzi; Hinard, suppone anche la partecipazione a un'associazione bacchica; Keaveney Brizzi; Hinard; Keaveney Plutarco, Sull., Brizzi; Hinard; Keaveney Telford, Brizzi; Hinard Plutarco, Sull.; Brizzi; Hinard Hinard Plutarco, Sull.; Hinard 2003, p. 21; Keaveney Sheldon Livio, Periochae ab Urbe condita Piganiol Brizzi, Storia di Roma. 1. Dalle origini ad Azio, Bologna Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche Plutarco, Vita di Silla, Appiano, Guerre mitridatiche Appiano, Guerre mitridatiche, Appiano, Guerre mitridatiche, Plutarco, Vita di Silla, Floro, Compendio di Tito Livio, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche, Plutarco, Vita di Silla, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Plutarco, Vita di Silla Appiano, Guerre mitridatiche, Appiano, Guerre mitridatiche, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Livio, Periochae ab Urbe condita libri Appiano, Guerre mitridatiche Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, Per ulteriori informazioni: ancientrome.ru/art/artworken/img. La carica di dittatore non era stata ricoperta da alcun politico romano l'ultimo dittatore era stato Gaio Servilio Gemino. Appiano, Guerre civili Lucio Cornelio Silla, romanoimpero. In principio ci fu Silla. È noto che egli fu modello a Cesare per tanti aspetti del suo agire, dall’uso spregiudicato di un esercito ormai politicizzato alla marcia su Roma, dalla dittatura (sia pure a tempo indeterminato, e non perpetua) al mantenimento dell’immissione dei neocittadini italici in tutte le tribù; così, anche in campo storiografico è difficile concepire la genesi dei commentarii di Cesare senza il precedente sillano": Zecchini Giuseppe, Cesare: commentarii, historiae, vitae, Aevum: rassegna di scienze storiche, linguistiche e filologiche: Milano: Vita e Pensiero, Plutarco, Vita di Silla Dufallo, Basil John Ciceronian oratory and the ghosts of the past. University of Michigan: UCLA. Bibliografia Fonti antiche Appiano, Guerre civili, in Storia romana (versione inglese) Appiano, Guerre mitridatiche, in Storia romana.(QUI la versione inglese Internet Archive. Dione Cassio, Storia romana. versione inglese. Floro, Flori Epitomae Liber primus (testo latino) . Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Periochae (testo latino) . Tito Livio, Periochae (testo latino), in Ab Urbe condita libri Plutarco, Vita di Silla, in Vite parallele. QUI la versione inglese Plutarco, Le Vite parallele di Plutarco, volgarizzate da Marcello Adriani il Giovane, a cura di Francesco Cerroti e Giuseppe Cugnoni, traduzione di Marcello Adriani il Giovane, III, Firenze, Le Monnier, Plutarco, Lisandro; Silla, introduzione di Luciano Canfora, traduzione e note di Federicomaria Muccioli (per Lisandro), introduzione di Arthur Keaveney, traduzione e note di Lucia Ghilli (per Silla), con contributi di Barbara Scardigli e Mario Manfredini, Milano, BUR. Quintiliano, Institutio oratoria. Sallustio, Bellum Iugurthinum. Strabone, Geografia, XII. QUI la versione inglese Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri QUI la versione latina. Velleio Patercolo, Historiae Romanae Ad M. Vinicium Libri Duo (testo latino) .QUI la versione inglese. Fonti storiografiche moderne Giuseppe Antonelli, Mitridate, il nemico mortale di Roma. La vicenda umana e politica del principe orientale che ha avuto il coraggio di opporsi all'imperialismo di Roma, Roma, Newton Compton, Ernst Badian, Lucius Sulla: The Deadly Reformer, Sydney, University Press, Giovanni Brizzi, Storia di Roma, I: Dalle origini ad Azio, Bologna, Patron, Giovanni Brizzi, Silla, prefazione di François Hinard, Roma, Rai-ERI, Jérôme Carcopino, Silla o la monarchia mancata, traduzione di Anna Rossi Cattabiani, introduzione di Mario Attilio Levi, consulenza storica di Federico Ceruti, Milano, Rusconi, Hinard, Silla, traduzione di Anna Rosa Gumina, Il Giornale, Roma, Salerno, Keaveney, Silla, traduzione di Katia Gordini, Milano, Bompiani, André Piganiol, Le conquiste dei Romani, traduzione di Filippo Coarelli, Milano, Il Saggiatore, Rose Mary Sheldon, Le guerre di Roma contro i Parti, Traduzione dall'inglese di Pasquale Faccia, Gorizia, LEG, Lynda Telford, Sulla: A Dictator Reconsidered, Pen & Sword, Voci correlate Catilina Gens Cornelia Console romano Dittatore romano Pretore (storia romana) Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Lucio Cornelio Silla Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Mario Attilio Levi, SILLA, Lucio Cornelio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Silla, Lucio Cornelio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ernesto Valgiglio, Sulla, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Ernesto Valgiglio, Sulla, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Lucio Cornelio Silla, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Lucio Cornelio Silla / Lucio Cornelio Silla (altra versione), su Goodreads. luciuscorneliussylla.fr, su luciuscorneliussylla  Estratti dal libro di Carcopino su Silla, su ilpalo L. Cornelius Sulla, Sylla, su noctes-gallicanae.org. Mario e Silla, su janusquirinus.org. Predecessore Console romano Successore Gneo Pompeo Strabone, Lucio Porcio Catone con Quinto Pompeo Rufo Lucio Cornelio Cinna I, Gneo OttavioI Gneo Cornelio Dolabella, Marco Tullio Decula80 a.C. con Quinto Cecilio Metello Pio Appio Claudio Pulcro, Publio Servilio Vatia IsauricoII V D M Plutarco Antica Roma   Portale Biografie   Portale Ellenismo   Portale Storia Categorie: Militari romaniMilitari del II secolo a.C.Militari Romani del II secolo a.C.Romani Morti Nati a Roma Morti a Cuma Lucio Cornelio Silla Consoli repubblicani romani Dittatori romaniSenatori romani Cornelii Auguri Tresviri monetales Governatori romani dell'AsiaPersone delle guerre mitridatiche [altre]  Gamerra Mozart, Attori ATTORI Lucio SILLA, dittatore TENORE GIUNIA, figlia di Cajo Mario, e promessa sposa di SOPRANO CECILIO, senatore proscritto SOPRANO Lucio CINNA, patrizio romano amico di Cecilio, e nemico occulto di Lucio Silla SOPRANO CELIA, sorella di Lucio Silla SOPRANO AUFIDIO, tribuno amico di Lucio Silla TENORE Guardie. Senatori, Nobili, Soldati, Popolo, Donzelle. La scena è in Roma nel palazzo di L. Silla, e ne' luoghi contigui al medesimo. Altezze reali Lucio Silla Altezze reali Non ommetteremmo la possibile diligenza  per sperare, che il presente spettacolo rimeritar possa il generoso gradimento delle aa. vv. rr. Degnatevi perciò di riguardarlo con quella benignità, di cui ne abbiamo tante prove, ed animati da tal lusinga con profondissimo ossequio ci protestiamo di aa. vv. rr. divotiss. obbligatiss. servitori Gli associati nel Regio­ducal teatro. Gamerra /Moza Argomento Son note nell'istoria le inimicizie di Lucio Silla, e di Mario. È palese altresì il modo con cui il primo trionfò del suo emulo. Non può a Silla negarsi il vanto di gran guerriero felice in tutte le sue marziali intraprese. Ma co' la crudeltà, coll'avarizia, co' la volubilità, e co' le dissolutezze adombrò la gloria del proprio valore. I molti suoi amori lo caratterizzarono per uomo celebre nella galanteria, quanto glorioso nell'armi, e questa inclinazione, come ci assicura Plutarco, gli fu compagna fino nell'età sua più avanzata. Lucio Cinna, da esso innalzato a sommi onori co' la promessa di secondarlo, e d'assisterlo, celò poi contro di lui sotto le sembianze dell'amicizia un odio il più implacabile. Aufidio tribuno, menzognero adulatore, fu quello, che precipitar facea Silla negl'eccessi i più vergognosi. Fra l'incostanza, l'avarizia, e la crudeltà, che lo dominavano, era soggetto talora a quei rimorsi, che non si allontanano da un core, in cui per anche non si sono affatto estinti i lumi della ragione, e gl'impulsi della virtù. Odioso a tutta Roma lo resero le stragi, l'usurpatasi dittatura, la proscrizione, e la morte di tanti cittadini, ma degna fu d'ogni encomio la volontaria sua abdicazione, per cui cedette le insegne di dittatore,  richiamando   in   Roma   tutti   i   proscritti,   e anteponendo  all'impero,  e alle  grandezze  la tranquillità  d'una oscura vita  privata. Dall'istoria non meno rilevasi, che la famiglia dei Cecili fu sempre affezionatissima al partito di Caio Mario. (Plutarco in Syll.) Da tali istorici fondamenti è tratta l'azione di questo dramma, la quale è per verità fra le più grandi, come ha sensatamente osservato il sempre celeste, e inimitabile sig. abate Pietro Metastasio, che co' la sua rara affabilità s'è degnato d'onorare il presente drammatico componimento d'una pienissima approvazione. Allorché questa proviene dalla meditazion profonda, e dalla lunga, e gloriosa esperienza dell'unico maestro dell'arte, esser deve ad un giovane autore il maggior d'ogni elogio. Atto primo Lucio Silla ATTO PRIMO [Ouverture] Molto allegro (re maggiore) / Andante (la maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. Scena prima Solitario recinto sparso di molti alberi con rovine d'edifizi diroccati. Riva del Tebro. In distanza veduta del monte Quirinale con piccolo tempio in cima. Cecilio, indi Cinna. Recitativo CECILIO Ah ciel, l'amico Cinna qui attendo invan. L'impazienza mia cresce nel suo ritardo. Oh come mai è penoso ogn'istante al core uman se pende fra la speme, e il timor! I dubbi miei... ma non m'inganno. Ei vien. Lode agli dèi. CINNA Cecilio, oh con qual gioia pur ti riveggio! Ah lascia, che un pegno io t'offra or che son lieto appieno, d'amistate, e d'affetto in questo seno. CECILIO Quanto la tua venuta accelerò coi voti l'inquieta alma mia. Quai non produsse la tua tardanza in lei smanie, e spaventi, e quali immagini funeste s'affollano al pensier. L'alma agitata s'affanna, si confonde... CINNA Il mio ritardo altro motivo asconde. Tutto da me saprai. CECILIO Deh non t'offenda l'impazienza mia... Giunia, la cara, la fida sposa è sempre tutt'amor, tutta fé? Que' dolci affetti, ch'un tempo mi giurò, rammenta adesso? È 'l suo tenero core anche l'istesso? CINNA Ella estinto ti piange... 6 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto primo CECILIO Ah come?... Ah dimmi! Dimmi: e chi tal menzogna osò d'immaginar? CINNA L'arte di Silla per trionfar del di lei fido amore. CECILIO A consolar si voli il suo dolore. (in atto di partire) CINNA Deh, t'arresta. E non sai, che 'l tuo ritorno è così gran delitto, che guida a morte un cittadin proscritto? CECILIO Per serbarmi una vita, ch'odio senza di lei, dunque lasciar potrei la sposa in preda a un ingiusto, a un crudel? CINNA M'ascolta. E dove, di riveder tu speri la tua Giunia fedel? nel proprio tetto Silla la trasse... CECILIO E Cinna ozioso spettator soffrì?... CINNA Che mai solo tentar potea? Pur troppo è vano il contrastar con chi ha la forza in mano. CECILIO Dunque, nemici dèi di riveder la sposa più sperar non poss'io? CINNA M'odi. Non lungi da questa ignota parte il tacito recinto ergesi al ciel, che nelle mute soglie de' trapassati eroi le tombe accoglie. CECILIO Che far degg'io? CINNA Passarvi per quel sentiero ascoso, che fra l'ampie rovine a lui ne guida. CECILIO E colà che sperar? CINNA Sai che confina col palazzo di Silla. In lui sovente da' fidi suoi seguita fra 'l dì Giunia vi scende. Ivi sovente alla mest'urna accanto del genitor, la suol bagnar di pianto. Continua nella pagina seguente. Atto primo Lucio Silla CINNA Sorprenderla potrai. Potrai nel seno farle destar la speme, che già s'estinse, e consolarvi insieme. CECILIO Oh me beato! CINNA Altrove co' molti amici in tua difesa uniti frattanto io veglierò. Gli dèi oggi render sapran dopo una lunga vil servitù penosa la libertà a Roma, a te la sposa. [N. 1 ­ Aria] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CINNA Vieni ov'amor t'invita vieni, che già mi sento del tuo vicin contento gli alti presagi in sen. Non è sempre il mar cruccioso, non è sempre il ciel turbato, ride alfin, lieto e placato fra la calma, ed il seren. (parte) Scena seconda Cecilio solo. Recitativo accompagnato Andante (sol maggiore) / Allegro / Andantino / Allegro / Adagio Archi. CECILIO Dunque sperar poss'io di pascer gli occhi miei nel dolce idolo mio? Già mi figuro la sua sorpresa, il suo piacer. Già sento suonarmi intorno i nomi di mio sposo, mia vita. Il cor nel seno col palpitar mi parla de' teneri trasporti, e mi predice... Oh ciel sol fra me stesso qui di gioia deliro, e non m'affretto la sposa ad abbracciar? Ah forse adesso sul morir mio delusa priva d'ogni speranza, e di consiglio lagrime di dolor versa dal ciglio! 8 / 52 www.librettidopera.it Gamerra / Mozart, 1772 Atto primo [N. 2 ­ Aria] Allegro aperto (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CECILIO Il tenero momento premio di tanto amore già mi dipinge il core fra i dolci suoi pensier. E qual sarà il contento, ch'al fianco suo m'aspetta, se tanto ora m'alletta l'idea del mio piacer? Scena terza Appartamenti destinati a Giunia, con statue delle più celebri donne romane. Silla, Celia, Aufidio, e Guardie. Recitativo SILLA A te dell'amor mio, del mio riposo Celia, lascio il pensier. Rendi più saggia l'ostinata di Mario altera figlia. E a non sprezzarmi alfin tu la consiglia. CELIA German sai, che finora tutto feci per te. Vuò lusingarmi di vederla cangiar. AUFIDIO Quella superba co' le preghiere, e coi consigli invano sia che si tenti. Un dittator sprezzato, che da Roma, e dal mondo inter s'ammira, s'altro non vale, usi la forza, e l'ira. SILLA E la forza userò. La mia clemenza non mi fruttò che sprezzi, e ingiuriose repulse d'una femmina ingrata. In questo giorno mi segua all'ara, e paghi renda gli affetti miei. O 'l nuovo sol non sorgerà per lei. CELIA Ah Silla, ah mio germano per tua cagione io tremo, se trasportar ti lasci a questo estremo. Pur troppo, ah sì pur troppo la violenza è spesso madre fatal d'ogni più nero eccesso. Atto primo Lucio Silla SILLA Da tentar che mi resta, se ostinata colei mi fugge, e sprezza? CELIA Adoprar tu sol devi arte, e dolcezza. S'è ver, che sul tuo core vantai finor qualche possanza, ah lascia, che da Giunia me n' corra. Ella fra poco da te verrà. L'ascolta forse sia che una volta cangi pensier. SILLA Di mia clemenza ancora prova farò. Giunia s'attenda, e seco, parli lo sposo in me. Ma non s'abusi dell'amor mio, di mia bontade, e tremi, se Silla alfine inesorabil reso favellerà da dittatore offeso. CELIA German di me ti fida. Oggi più saggia Giunia sarà. Finora una segreta speme forse il cor le nutrì. Se cadde estinto lo sposo suo, più non le resta omai amorosa lusinga. I preghi tuoi cauto rinnova. Un amator vicino se d'un lontan trionfa, il trionfare d'un amator, che già di vita è privo, è più agevole impresa a quel, ch'è vivo. [N. 3 ­ Aria] Grazioso (do maggiore) / Allegretto / Grazioso Archi. CELIA Se lusinghiera speme pascer non sa gli amanti anche fra i più costanti languisce fedeltà. Quel cor sì fido e tenero, ah sì quel core istesso così ostinato adesso quel cor si piegherà. (parte) 10 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto primo Scena quarta Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo AUFIDIO Signor, duolmi vederti ai rifiuti, agl'insulti esposto ancor. Alle preghiere umili s'abbassi un cor plebeo. Ma Silla, il fiero terror dell'Asia, il vincitor di Ponto l'arbitro del senato, e che si vide un Mitridate al suo gran piè sommesso, s'avvilirà d'una donzella appresso? SILLA Non avvilisce amore un magnanimo core, o se 'l fa vile, infra gli eroi, che le provincie estreme han debellate, e scosse, un sol non vi saria, che vil non fosse. In questo giorno, amico, sarà Giunia mia sposa. AUFIDIO Ella sen viene. Mira in quel volto espresso un ostinato amore, un odio interno, un disperato duolo. SILLA Ascoltarla vogl'io. Lasciami solo. (Aufidio parte) Scena quinta Silla, Giunia, e Guardie. SILLA Sempre dovrò vederti lagrimosa e dolente? Il tuo bel ciglio una sol volta almeno non fia che si rivolga a me sereno? Cielo! tu non rispondi? Sospiri? ti confondi? ah sì, mi svela perché così penosa t'agiti, impallidisci, e scansi ad arte d'incontrar gli occhi tuoi negli occhi miei. GIUNIA Empio, perché sol l'odio mio tu sei. SILLA Ah no, creder non posso, che a danno mio s'asconda sì fiera crudeltà nel tuo bel core. Hanno i limiti suoi l'odio, e l'amore. Atto primo Lucio Silla GIUNIA Il mio non già. Quant'amerò lo sposo, tanto Silla odierò. Se fra gli estinti l'odio giunge, e l'amor, dentro quest'alma che ad onta tua non cangerà giammai, egli il mio amor, tu l'odio mio sarai. SILLA Ma dimmi: in che t'offesi per odiarmi così? che non fec'io, Giunia, per te? La morte il genitor t'invola, ed io ti porgo nelle mie mura istesse un generoso asilo. Ogni dovere dell'ospitalità qui teco adempio, e pur segui ad odiarmi, e Silla è un empio? GIUNIA Stender dunque dovrei le braccia amanti a un nemico del padre? E ti scordasti quanto contro di lui barbaro oprasti? In doloroso esiglio fra i cittadin più degni languisce, e more alfin lo sposo mio, e chi n'è la cagione amar degg'io? Per tua pena maggior, di novo il giuro, amo Cecilio ancor. Rispetto in lui benché morto, la scelta del genitor. Se l'inuman destino dal fianco mio lo tolse per secondare il tuo perverso amore ah sì, viverà sempre in questo core. SILLA Amalo pur superba, e in me detesta un nemico tiranno. Or senti. In faccia di tanti insulti io voglio tempo lasciarti al pentimento. O scorda un forsennato orgoglio, un inutile affetto, un odio insano, o a seguir ti prepara nell'Erebo fumante, e tenebroso l'ombra del genitor, e dello sposo. GIUNIA Coll'aspetto di morte del gran Mario una figlia presumi d'avvilir? Non avria luogo nell'alma tua la speme ché oltraggia l'amor mio se provassi, inumano, di che capace è un vero cor romano. Atto primo SILLA Meglio al tuo rischio, o Giunia, pensa, e risolvi. Ancora un resto di pietade sol perché t'amo ascolto. Ah sì meglio risolvi... GIUNIA Ho già risolto. Del genitore estinto ognora io voglio rispettare il comando; sempre Silla aborrire, sempre adorar lo sposo, e poi morire. [Aria] Andante ma adagio (mi bemolle maggiore) / Allegro / Adagio / Allegro Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. GIUNIA Dalla sponda tenebrosa vieni o padre, o sposo amato d'una figlia, e d'una sposa a raccor l'estremo fiato. Ah tu di sdegno, o barbaro smani fra te, deliri, ma non è questa, o perfido la pena tua maggior. Io sarò paga allora di non averti accanto, tu resterai frattanto coi tuoi rimorsi al cor. (parte) Scena sesta Silla, e Guardie. Recitativo SILLA E tollerare io posso sì temerari oltraggi? A tante offese non si scuote quest'alma? E che la rese insensata a tal segno? Un dittatore così s'insulta, e sprezza da folle donna audace?... E pure, oh mio rossor! e pur mi piace! www.librettidopera.it 13 / 52 Atto primo Lucio Silla Recitativo accompagnato Allegretto (do maggiore) / Allegro assai Archi. SILLA Mi piace? E il cor di Silla della sua debolezza non arrossisce ancora? Taccia l'affetto, e la superba mora. Chi non mi cura amante disdegnoso mi tema. A suo talento crudel mi chiami. Aborra la mia destra, il mio cor, gli affetti miei, a divenir tiranno in questo dì comincerò da lei. [N. 5 ­ Aria] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. SILLA Il desìo di vendetta, e di morte sì m'infiamma, e sì m'agita il petto, che in quest'alma ogni debole affetto disprezzato si cangia in furor. Forse nel punto estremo della fatal partita mi chiederai la vita, ma sarà il pianto inutile, inutile il dolor. Andante (fa maggiore / la minore) Archi, 2 oboe. Scena settima Luogo sepolcrale molto oscuro co' monumenti degli eroi di Roma. Cecilio solo. Recitativo accompagnato Andante (la minore) / Allegro assai / Andante / Presto / Adagio Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CECILIO Morte, morte fatal della tua mano ecco le prove in queste gelide tombe. Eroi, duci, regnanti che devastar la terra, angusto marmo or qui ricopre, e serra. Già in cento bocche, e cento dei lor fatti echeggiò stupito il mondo. E or qui gl'avvolge un muto orror profondo. Continua nella pagina seguente. Atto primo CECILIO Oh dèi!... chi mai s'appressa? Giunia... la cara sposa?... Ah non è sola; m'asconderò, ma dove? Oh stelle! in petto qual palpito!... qual gioia!... e che far deggio? Restar?... partire?... oh ciel! Dietro a quest'urna a respirar mi celo. (parte) Scena ottava S'avanza Giunia col séguito di Donzelle, e di Nobili al lugubre canto del seguente: [N. 6 ­ Coro e arioso] Andante mosso (mi bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CORO Fuor di queste urne dolenti deh n'uscite alme onorate, e sdegnose vendicate la romana libertà. Molto Adagio (do minore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti. GIUNIA O del padre ombra diletta se d'intorno a me t'aggiri, i miei pianti, i miei sospiri deh ti movano a pietà. Allegro (mi bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe. CORO Il superbo, che di Roma stringe i lacci in Campidoglio, rovesciato oggi dal soglio sia d'esempio ad ogni età. Atto primo Lucio Silla Recitativo accompagnato ... (mi bemolle maggiore) Archi. GIUNIA Se l'empio Silla, o padre fu sempre l'odio tuo finché vivesti, perché Giunia è tua figlia, perché il sangue romano ha nelle vene supplice innanzi all'urna tua sen viene. Tu pure ombra adorata del mio perduto ben vola, e soccorri la tua sposa fedel. Da te lontana di questa vita amara odia l'aura funesta... (esce il séguito) Scena nona Cecilio, e detta. Recitativo CECILIO Eccomi, o cara. GIUNIA Stelle!... io tremo!... che veggio? Tu sei?... forse vaneggio? Forse una larva, o pur tu stesso? Oh numi! M'ingannate, o miei lumi?... Ah non so ancor se a questa illusion soave io m'abbandono!... Dunque... tu sei... CECILIO Il tuo fedele io sono. [N. 7 ­ Duetto] Andante (la maggiore) / Molto allegro Archi, 2 oboe, 2 corni. GIUNIA D'Eliso in sen m'attendi ombra dell'idol mio, ch'a te ben presto, oh dio fia, che m'unisca il ciel. CECILIO Sposa adorata, e fida sol nel tuo caro viso ritrova il dolce Eliso quest'anima fedel. GIUNIA Sposo... oh dèi! tu ancor respiri? CECILIO Tutto fede, e tutto amor. GIUNIA E CECILIO Fortunati i miei sospiri, fortunato il mio dolor. GIUNIA Cara speme! Atto primo CECILIO Amato bene. (si prendon per mano) Insieme GIUNIA Or ch'al mio seno caro tu sei m'insegna il pianto degl'occhi miei ch'ha le sue lagrime anche il piacer. CECILIO Or ch'al mio seno cara tu sei m'insegna il pianto degl'occhi miei ch'ha le sue lagrime anche il piacer. Atto secondo Lucio Silla ATTO  SECONDO Scena prima Portico fregiato di militari trofei. Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo AUFIDIO Te l' predissi, o signor, che la superba più ostinata saria quanto più mostri di clemenza, e d'amor? SILLA Poco le resta da insultarmi così. Risolvi omai. Morir dovrà. L'ho tollerata assai. AUFIDIO L'amico tuo fedele può libero parlar? SILLA Parla. AUFIDIO Tu sai, ch'eroe non avvi al mondo senza gli emuli suoi. Gli Emili, e i Scipi n'ebbero anch'essi, e di sue gesta ad onta il glorioso Silla assai ne conta. SILLA Pur troppo io so. AUFIDIO Tu porgi nella morte di Giunia a rei nemici l'armi contro di te. D'un Mario è figlia, e questo Mario ancor ne' propri amici vive a tuo danno. SILLA E che far deggio? AUFIDIO In faccia al popolo, e al senato sia l'altera tua sposa. Un finto zelo di sopir gli odi antichi la violenza asconda. Al tuo volere chi s'opporrà? Di numerose schiere folto stuolo ti cinga. Ognun paventa in te l'eroe, ch'ogni civil discordia ha soggiogata, e doma e a un sguardo tuo trema il senato, e Roma. Continua nella pagina seguente. 18 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto secondo AUFIDIO Signor del comun voto t'accerta il tuo voler. La ragion sempre segue il più forte, e chi fra mille squadre a supplicar si piega? Vuole, e comanda allorché parla, e prega. SILLA E se l'ingrata ancora mi sprezza, e mi discaccia al popolo, al senato, a Roma in faccia? Che far dovrò? AUFIDIO L'altera non s'opporrà. Quell'ostinato core ceder vedrai nel pubblico consenso del popolo roman. SILLA Seguasi, amico il tuo consiglio. Oh ciel!... sappi... io ti scopro la debolezza mia. Quando le stragi, le violenze ad eseguir m'affretto è il cor di Silla in petto da più atroci rimorsi lacerato, ed oppresso. In quei momenti fieri contrasti io provo. Inorridisco, voglio, tremo, amo, ed ardisco. AUFIDIO Quest'incostanza tua, lascia, che 'l dica, i tuoi gran merti oscura. Ogni rimorso della viltade è figlio. Ardito, e lieto il mio consiglio abbraccia, e suo malgrado la femmina fastosa costretta venga a divenir tua sposa. [Aria] Allegro (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. AUFIDIO Guerrier, che d'un acciaro impallidisce al lampo, a dar non vada in campo prove di sua viltà. Se or cede a un vil timore, se or cede alla speranza, e qual sarà incostanza se questa non sarà? (parte) Atto secondo Lucio Silla Scena seconda Silla, indi Celia, e Guardie. SILLA Ah non mai non credea, ch'all'uom tra 'l fasto, e le grandezze immerso tanto costasse il divenir perverso. CELIA Tutto tentai finor. Preghi, promesse, e minacce, e spaventi al cor di Giunia, sono inutili assalti. Ah mio germano immaginar non puoi come per te... SILLA So quel, che dir mi vuoi. Silla non è men grato a chi per lui anche inutil s'adopra. In man del caso se pende ogni successo, il proprio merto, all'opere non scema contrario evento. In questo dì mia sposa Giunia sarà. CELIA Giunia tua sposa? SILLA Il come non ricercar. Ti basti, che pago io sia. CELIA Perché l'arcan mi celi, e perché non rischiari un favellar sì oscuro? SILLA (Perché in donna un arcano è mal sicuro.) Il mio silenzio or non ti spiaccia, e m'odi. Te pur sposa di Cinna in questo giorno io bramo. CELIA (Oh me felice!) Lascia, ah lascia, ch' a Cinna, il tuo fido amico io rechi così lieta novella. Il labbro mio gli sveli alfin, ch'ei solo è il mio tesoro, e che ognor l'adorai come l'adoro. (parte) SILLA Ad affrettar si vada in Campidoglio la meditata impresa, e la più ascosa arte s'adopri, onde la mia nemica al talamo mi segua. Ah sì conosco, ch'ad ogni prezzo io deggio il possesso acquistar della sua mano. Rimorsi miei vi ridestate invano. (parte con le guardie) Atto secondo Scena terza Cecilio senz'elmo, senza mento, e con spada nuda, che vuole inseguir Silla, e Cinna, che lo trattiene. CINNA Qual furor ti trasporta? CECILIO Il braccio mio non ritener. Su' passi del tiranno si voli. Il nudo acciaro gli squarci il sen... (in atto di partire) CINNA T'arresta. Ma donde nasce questa improvvisa ira tua? CECILIO Saper ti basti, che prolungar non deggio un sol momento il colpo... CINNA E il tuo periglio? CECILIO Non lo temo, e disprezzo ogni consiglio. CINNA Ah per pietà m'ascolta... svelami... dimmi... oh ciel! Que' tronchi accenti... que' furiosi sguardi... le disperate smanie tue... gli sforzi d'involarti da me... l'esporti ardito a un cimento fatal... Mille sospetti mi fan nascere in sen. Parla. Rispondi... CECILIO Tutto saprai... CINNA No, non sarà giammai, ch' io ti lasci partir. CECILIO Perché ritardi la vendetta comun? CINNA Sol perché bramo che dubbiosa non sia. CECILIO Dubbiosa non sarà. CINNA Dunque tu vuoi per un ardire intempestivo, e vano troncare il fil di tutti i meditati disegni miei? Giunia rivedi, e quando amar per lei di più devi la vita incauto corri ad un'impresa ardita? Più non tacer. Mi svela chi furioso a segno tal ti rende? Atto secondo Lucio Silla CECILIO L'orrida rimembranza in cor m'accende novi stimoli all'ira. Odi, e stupisci. Poiché quest'alma oppressa della mia sposa al fianco trovò dolce conforto alla sua pena, dal luogo tenebroso allontanati appena aveva Giunia i suoi passi, un legger sonno m'avvolse i lumi. Oh cielo! D'orrore ancor ne gelo! Ecco mi sembra spalancata mirar la fredda tomba, in cui l'estinte membra giaccion di Mario. In me le cavernose luci raccoglie, e 'l teschio per tre volte crollando disdegnoso, e feroce sento, che sì mi grida in fioca voce: «Cecilio a che t'arresti presso la tomba mia? Vanne, ed affretta della comun vendetta il bramato momento. Ozioso al fianco più l'acciar non ti penda. Ah se ritardi l'opra a compir, che l'ombra invendicata di Mario oggi t'impone, e ti consiglia, tu perderai la sposa, ed io la figlia.» Recitativo accompagnato Allegro assai (re minore) / Presto Archi. CECILIO Al fiero suon de' minacciosi accenti l'alma si scosse. Il sonno da sbigottiti lumi s'allontanò. M'accese improvviso furor. Strinsi l'acciaro, né il rimorso piede io più ritenni, ma 'l reo tiranno a trucidar qua venni. Ah più non m'arrestar... CINNA Ferma. Per poco dell'ira tua raffrena i feroci trasporti. Ah sei perduto, se in te Silla s'avvien... 22 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto secondo CECILIO Paventar deggio d'un tiranno gli sguardi? Un'altra mano trucidarlo dovrà? Non mai. Mi veggio intorno ognor la bieca ombra di Mario a ricercar vendetta; e degl'accenti suoi ad ogn'istante or ch'al tuo fianco io sono mi rimbomba all'orecchie il fiero suono. Lasciami... CINNA Ah se disprezzi tanto i perigli tuoi, deh pensa almeno, che dalla vita tua pende la vita d'una sposa fedele. Oh stelle! E come per così cari giorni... CECILIO Oh Giunia!... oh nome!... Il sol pensiero, amico che perderla potrei, del mio furore ogn'impeto disarma. Ah corri, vola per me svena il tiranno... Oh numi, e intanto al mio nemico accanto resta la sposa?... ahimè!... chi la difende... ma s'ei qui giunge?... Oh dio! Qual fier contrasto, qual pena, eterni dèi! Timore, affanno, ira, speme, e furor sento in seno, né so di lor chi vincerà! che penso? E non risolvo ancora? Giunia si salvi, o al fianco suo si mora. [N. 9 ­ Aria] Allegro assai (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. CECILIO Quest'improvviso tremito che in sen di più s'avanza, non so se sia speranza, non so se sia furor. Ma fra suoi moti interni fra le mie smanie estreme, o sia furore, o speme, paventi il traditor. (parte) www.librettidopera.it 23 / 52 Atto secondo Lucio Silla Scena quarta Cinna, indi Celia. Recitativo CINNA Ah sì, s'affretti il colpo. Il ciel d'un empio se il castigo prolunga, attenderassi, che de' tarquini in lui gli scellerati eccessi sian rinnovati a nostri tempi istessi? CELIA Qual ti siede sul ciglio cura affannosa? CINNA Altrove Celia, passar degg'io. Non m'arrestare... CELIA E ognor mi fuggi? CINNA Addio. CELIA Per un istante solo m'ascolta, e partirai. CINNA Che brami? CELIA (Oh dèi! Parlar non posso, e favellar vorrei.) Sappi, che il mio german... CINNA Parla. CELIA Desìa... (Ah mi confondo, e temo, che non mi ami il crudel.) Sì, sappi... (Oh stelle! In faccia a lui che adoro perché mi perdo? Oggi sarà mio sposo, e svelargli non oso?...) CINNA Io non intendo i tronchi accenti tuoi. CELIA (Finge l'ingrato!) Or che dubbiosa io taccio non ti favella in seno il cor per me? Che dir poss'io? Pur troppo ne' languidi miei rai questo silenzio mio ti parla assai. Atto secondo [Aria] Tempo grazioso (sol maggiore) Archi, 2 flauti. CELIA Se il labbro timido scoprir non osa la fiamma ascosa per lui ti parlino queste pupille per lui ti svelino tutto il mio cor. (parte) Scena quinta Cinna, indi Giunia. Recitativo CINNA Di piegarsi capace a un'amorosa debolezza l'alma non fu di Cinna ancor. Ma se da folle s'avvilisse così, no, non avria la germana d'un empio usurpatore il tributo primier di questo core. Giunia s'appressa. Ah ch'ella può soltanto la grand'opra compir, che volgo in mente. Agitata, e dolente immersa sembra fra torbidi pensier. GIUNIA Silla m'impone che al popolo, e al senato io mi presenti; l'empio che può voler? Sai ciò, che tenti? CINNA Forse più, che non credi è la morte di Silla oggi vicina per vendicar la libertà latina. GIUNIA Tutto dal ciel pietoso dunque speriam. Ma intanto alla tua cura io lascio l'amato sposo mio. Deh se ti deggio il piacer di mirarlo, poiché lo piansi estinto, ah sì per lui veglia, t'adopra, e resti al tiranno nascoso. www.librettidopera.it 25 / 52 Atto secondo Lucio Silla CINNA A me t'affida, non paventar su' giorni suoi. M'ascolta, ai padri in faccia e al popolo romano Silla sai ciò, che vuol? Vuol la tua mano. Con il consenso lor la violenza giustificar pretende. Il suo disegno tutto, o Giunia, io prevedo. GIUNIA Io son la sola arbitra di me stessa. A un vil timore ceda il senato pur, non questo core. CINNA Da te, se vuoi, dipende Giunia un gran colpo. GIUNIA E che far posso? CINNA Al letto segui l'empio tiranno ove t'invita, ma in quello per tua man lasci la vita. GIUNIA Stelle! che dici mai? Giunia potria con tradimento vil?... CINNA Folle timore. Deh sovvienti, che ognora fu l'eccidio de' rei un spettacolo grato a' sommi dèi. GIUNIA S'è d'un plebeo pur sacra fra noi la vita, e come vuoi, che in sen non mi scenda un freddo orrore nel trafiggere io stessa un dittatore? Benché tiranno, e ingiusto, sempre al senato, e a Roma Silla presiede, e di sua morte invano farmi rea tu presumi. Vittima ei sia, ma della man dei numi. CINNA Se d'offender gli dèi avesse un dì temuto la libertà non dovria Roma a Bruto. GIUNIA Ma Bruto in campo armato, non con una viltade della latina libertade infranse la catena servil. No, non fia mai ch'a' dì futuri passi il nome mio macchiato d'un tradimento vil. Serbami, amico, serbami il caro ben. Deh sol tu pensa alla salvezza sua. Della vendetta al ciel lascia il pensier. Atto secondo Recitativo accompagnato Allegro (si bemolle maggiore) / Andante Archi. GIUNIA Vanne. T'affretta. Forse lungi da te potria lo sposo per un soverchio ardir... l'impetuosa alma sua ben conosci. Ah, per pietade, fa', che rimanga ad ogni sguardo ascoso. Digli, che se m'adora; digli che se m'è fido serbi i miei ne' suoi giorni. A te l'affido. [Aria] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. GIUNIA Ah se il crudel periglio del caro ben rammento tutto mi fa spavento tutto gelar mi fa. Se per sì cara vita non veglia l'amistà da chi sperare aita da chi sperar pietà? (parte) Scena sesta Cinna solo. Recitativo accompagnato Vivace (re maggiore) Archi. CINNA Ah sì, scuotasi omai l'indegno giogo. Assai si morse il fren di servitù tiranna. Se di svenar ricusa Giunia quell'empio, un braccio non mancherà, che timoroso meno il ferro micidial l'immerga in seno. Atto secondo Lucio Silla [N. 12 ­ Aria] Molto allegro (fa maggiore) Archi. CINNA Nel fortunato istante, ch'ei già co' voti affretta per la comun vendetta vuò, che mi spiri al piè. Già va una destra altera del colpo suo felice e questa destra ultrice lungi da lui non è. (parte) Scena settima Orti pensili. Silla, Aufidio, e Guardie. Recitativo AUFIDIO Signor, ai cenni tuoi il senato fia pronto. Egli fra poco t'ascolterà. D'elette squadre intorno numerosa corona ad arte io disporrò. SILLA L'amico Cinna non ignori l'arcano. Il suo soccorso è necessario all'opra. Ah che me stesso più non ritrovo in me! Dov'io mi volga della crudel l'immagine gradita mi dipinge il pensier. Mi suona ognora il caro nome suo fra i labbri miei, e tutto parla a questo cor di lei. AUFIDIO Io già ti vedo al colmo di tua felicità. Della possanza usa, che 'l ciel ti diè. Roma, il senato, e ogn'anima orgogliosa or che lo puoi fa', che pieghin la fronte a' piedi tuoi. (parte) Atto secondo SILLA Ah sì, di civil sangue inonderò le vie, se Roma altera alle brame di Silla, oggi s'oppone; ho nel braccio, ho nel cor la mia ragione. Giunia?... Qual vista! In sì bel volto io scuso la debolezza mia... ma tanti oltraggi? Ah che in vederla, oh dèi! il dittatore offeso io più non sono; de' suoi sprezzi mi scordo, e le perdono. Scena ottava Giunia, Silla, e Guardie. GIUNIA (Silla? L'odiato aspetto destami orror. Si fugga!) SILLA Arresta il passo. Sentimi per pietade. Il più infelice d'ogni mortal mi rendi, se nemica mi fuggi... GIUNIA E che pretendi? Scostati, traditor! (Tremo, m'affanno per l'idol mio!) SILLA Ah no, non son tiranno come tu credi. È l'anima di Silla capace di virtù. Quel tuo bel ciglio soffrir più non poss'io così severo... GIUNIA Tu di virtù capace? Ah, menzognero! (in atto di partire) SILLA Sentimi... GIUNIA Non t'ascolto. SILLA E vuoi... GIUNIA Sì voglio detestarti, e morir. SILLA Morir? GIUNIA La morte romano cor non teme. SILLA E puoi?... GIUNIA Sì posso pria d'amarti, morir. Vanne, t'invola... SILLA Superba, morirai, ma non già sola. Atto secondo Lucio Silla [N. 13 ­ Aria] Allegro assai (do maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe, timpani. SILLA D'ogni pietà mi spoglio perfida donna audace; se di morir ti piace quell'ostinato orgoglio presto tremar vedrò. (Ma il cor mi palpita... perder chi adoro?... svenare barbaro, il mio tesoro?...) Che dissi? Ho l'anima vile a tal segno? Smanio di sdegno; morir tu brami, crudel mi chiami, tremane, o perfida, crudel sarò. (parte con le guardie) Scena nona Giunia, indi Cecilio. Recitativo GIUNIA Che intesi, eterni dèi? Qual mai funesto e spaventoso arcan ne' detti suoi? Sola non morirò? Che dir mi vuoi barbaro... ahimè! Che vedo?... lo sposo mio?... che fu?... che avvenne?... Ah dove sconsigliato t'inoltri? In queste mura sai, che non è sicura la tua vita, e non temi di respirar quest'aure comuni a' tuoi nemici? In quest'istante il tiranno partì. Tremo... deh, fuggi... Ah se dell'empio il ciglio... CECILIO Giunia, il tuo rischio è 'l mio maggior periglio. GIUNIA Deh per pietà, se mi ami, torna, mio bene, ah torna nel tenebroso asilo. Il rimirarti qual martirio è per me! CECILIO Non amareggi il tuo spavento, o cara, il mio dolce piacer. 30 Atto secondo GIUNIA Piacer funesto, se a un gelido spavento abbandona il mio cor. Se de' tuoi giorni decider può. T'ascondi. Ah da che vivo no, che angustia simile... CECILIO Sola vuoi, ch'io ti lasci in preda a un vile? So, ch' al senato in faccia il reo tiranno con violenza ingiusta al talamo vuol trarti, ed io, che t'amo restar potrò senza morir d'affanno lungi dal fianco tuo? Se invano un braccio, un acciaro si cerca per svenare un crudel, ch'odio, e detesto, quell'acciaro, quel braccio eccolo è questo. GIUNIA Ahimè! Che pensi? esporti?... Correr tu solo a un periglio estremo?... CECILIO Tu paventi di tutto, io nulla temo. Frena il timor, mia speme, e ti rammenta, ch'una soverchia tema in cor romano esser puote viltà. GIUNIA Ma il troppo ardire temerità s'appella. Ah sì ti cela, né accrescere, idol mio, nel tuo periglio nuove cagion di pianto a questo ciglio. CECILIO Eterni dèi! Lasciarti, fuggire, abbandonarti all'empie insidie, all'ira d'un traditor, ch'alle tue nozze aspira? GIUNIA E che puoi temer, se meco resta la mia costanza, e l'amor mio? Deh corri, corri donde fuggisti. Al suo dolore, a' suoi spaventi invola il cor di chi t'adora; se ciò non basta, io tel comando ancora. CECILIO E in questo giorno correndo se al tiranno io mi celo, chi veglia, o sposa, in tua difesa? GIUNIA Il cielo! CECILIO Ah che talvolta i numi... GIUNIA A che ti guida cieco furor? Ad onta de' miei timori ancor mi resti a lato? Partir non vuoi? Corro a morire, ingrato. Atto secondo Lucio Silla CECILIO Fermati... senti... Oh dèi! Così mi lasci, e brami?... GIUNIA I passi miei guardati di seguir. CECILIO Saprò morire, ma non lasciarti. GIUNIA (Oh stelle! Io lo perdo. Che fo?) CECILIO Cara, tu piangi? Ah che il tuo pianto... GIUNIA Ah sì per questo pianto per questi lumi miei di speme privi. Parti, parti da me, celati, vivi! CECILIO A che mi sforzi! GIUNIA Alfine lusingarmi poss'io di questo segno del tuo tenero affetto? Che rispondi, idol mio? CECILIO Sì tel prometto. GIUNIA Fuggi dunque, mio bene. Invan paventi, se di me temi. Ah pensa, pensa, che 'l ciel difende i giusti, e ch'io d'altri mai non sarò. Di mie promesse dell'amor mio costante ch'aborre a morte un traditore indegno, sposo, nella mia mano eccoti un pegno. Recitativo accompagnato Allegro (mi bemolle maggiore) Archi. CECILIO Chi sa, che non sia questa l'estrema volta, oh dio? ch'al sen ti stringo destra dell'idol mio, destra adorata, prova di fé sincera... GIUNIA No, non temere. Amami. Fuggi e spera. Atto secondo [N. 14 ­ Aria] Adagio (mi bemolle maggiore) / Andante (do minore) / Adagio (mi bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CECILIO Ah se a morir mi chiama il fato mio crudele seguace ombra fedele sempre sarò con te. Vorrei mostrar costanza cara, nel dirti addio ma nel lasciarti, oh dio! Sento tremarmi il piè. (parte) Scena decima Giunia, indi Celia. Recitativo GIUNIA Perché mi balzi in seno affannoso cor mio? Perché sul volto or che lo sposo io non mi vedo accanto, cade da' rai più copioso il pianto? CELIA Oh ciel! sì lagrimosa sì dolente io t'incontro? Al suo destino quell'anima ostinata alfin deh ceda e sposa al dittator Roma ti veda. GIUNIA T'accheta per pietà. CELIA Se in duro esiglio cade estinto Cecilio, a lui che giova un'inutil costanza? GIUNIA (A questo nome s'agghiaccia il cor.) CELIA Tu non mi guardi, e il labbro fra i singhiozzi, e i sospir pallido tace. Segui i consigli miei. GIUNIA Lasciami in pace. CELIA Bramo lieta vederti. Il mio germano oggi me pur felice render saprà. La mano mi promise di Cinna. Ah tu ben sai, ch'io l'adoro fedel. Più non rammento i miei sofferti affanni se sì cangiano alfin gli astri tiranni. Atto secondo Lucio Silla [Aria] Allegro (la maggiore) Archi. CELIA Quando sugl'arsi campi scende la pioggia estiva, le foglie, i fior ravviva, e il bosco, il praticello tosto si fa più bello, ritorna a verdeggiar. Così quest'alma amante fra la sua dolce speme dopo le lunghe pene comincia a respirar. (parte) Scena undicesima Giunia sola. Recitativo accompagnato Andante (re minore) / Molto allegro Archi. GIUNIA In un istante oh come s'accrebbe il mio timor! Pur troppo è questo un presagio funesto delle sventure mie! L'incauto sposo più non è forse ascoso al reo tiranno. A morte ei già lo condannò. Fra i miei spaventi, nel mio dolore estremo che fo? Che penso mai? Misera io tremo. Ah no, più non si tardi. Il senato mi vegga. Al di lui piede grazia, e pietà s'implori per lo sposo fedel. S'ei me la nega si chieda al ciel. Se il ciel l'ultimo fine dell'adorato sposo oggi prescrisse, trafigga me chi l'idol mio trafisse. 34 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto secondo [N. 16 ­ Aria] Allegro assai (do maggiore) Archi. GIUNIA Parto, m'affretto, ma nel partire il cor si spezza. Mi manca l'anima, morir mi sento né so morire. E smanio, e gelo, e piango, e peno. Ah se potessi, potessi almeno fra tanti spasimi, morir così. Ma per maggior mio duolo verso un'amante oppressa divien la morte istessa pietosa in questo dì. (parte) Scena dodicesima Campidoglio. S'avanza Silla, ed Aufidio seguìto dai Senatori e dalle Squadre. [N. 17 ­ Coro] Allegro (fa maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni. CORO Se gloria il crin ti cinse di mille squadre a fronte or la temuta fronte qui ti coroni Amor. Stringa quel braccio invitto lei, che da te s'adora. Se con i mirti ancora cresce il guerriero allor. Atto secondo Lucio Silla (compar Giunia fra i senatori) Recitativo SILLA Padri coscritti, io che pugnai per Roma, io, che vinsi per lei, io che la face della civil discordia col mio valore estinsi. Io che la pace per opra mia regnar sul Tebro or vedo d'ogni trionfo mio premio vi chiedo. GIUNIA (Soccorso, eterni dèi!) SILLA Non ignorate l'antico odio funesto e di Mario e di Silla. Il giorno è questo in cui tutto mi scordo. Alla sua figlia sacro laccio m'unisca, e il dolce nodo plachi l'ombra del padre. Un dittatore, un cittadin fra i gloriosi allori altro premio non cerca a' suoi sudori. GIUNIA (Tace il senato, e col silenzio approva d'un insano il voler?) SILLA Padri già miro ne' volti vostri espresso il consenso comun. Quei, che s'udiro festosi gridi risuonar d'intorno son del pubblico voto un certo segno. Seguimi all'ara omai... GIUNIA Scostati indegno! A tal viltà discende Roma, e 'l senato? Un ingiurioso, un folle timor l'astringe a secondar d'un empio le violenze infami? Ah che fra voi no, che non v'è chi in petto racchiuda un cor romano... SILLA Taci, e più saggia a me porgi la mano. AUFIDIO Così per bocca mia tutto il popol t'impon. SILLA Dunque mi segui... GIUNIA Non appressarti, o in seno questo ferro m'immergo. (in atto di ferirsi) SILLA Alla superba l'acciar si tolga, e segua il voler mio. Atto secondo Scena tredicesima Cecilio, con spada nuda, e detti. CECILIO Sposa, ah no, non temer. SILLA (Chi vedo?) GIUNIA (Oh dio!) AUFIDIO (Cecilio?) SILLA In questa guisa son tradito da voi? Del mio divieto e delle leggi ad onta tornò Cecilio, e seco Giunia unita di toglier osa al dittator la vita? Quell'audace s'arresti! GIUNIA Incauto sposo! Signor... SILLA Taci, indegna, ch'omai solo ascolto il furore. (a Cecilio) Al novo sole per mia vendetta, o traditor, morrai. Scena quattordicesima Cinna, con spada nuda, e detti. SILLA Come? D'un ferro armato, confuso, irresoluto Cinna tu pur?... CINNA (Oh ciel, tutto è perduto; qualche scampo ah si cerchi nel cimento fatal!) Con mio stupore col nudo acciaro io vidi Cecilio infra le schiere aprirsi un varco. La sua rabbia, i fieri minacciosi occhi suoi d'un tradimento mi fecero temer. Onde salvarti da quella destra al parricidio intesa corsi, e 'l brando impugnai per tua difesa. SILLA Ah vanne, amico, e scopri se altri perfidi mai... Atto secondo Lucio Silla CINNA Sulla mia fede signor riposa, e paventar non déi. (Quasi nel fiero incontro io mi perdei!) (parte) SILLA Olà quel traditore, Aufidio si disarmi. GIUNIA Oh dio! Fermate! CECILIO Finché l'acciar mi resta saprò farlo tremar. SILLA E giunge a tanto la tua baldanza? GIUNIA (Oh dèi!) SILLA Cedi l'acciaro, o ch'io... CECILIO Lo speri invan. GIUNIA Cecilio, o caro. CECILIO Ad esser vil m'insegna la sposa mia? GIUNIA Deh, non opporti! CECILIO E vuoi?... GIUNIA Della tua tenerezza una prova vogl'io. CECILIO Dovrò? GIUNIA Dovrai nella mia fede, e nel favor del cielo affidarti, e sperar. Se ancor mio bene dubbioso ti mostri, i giusti numi, e la tua sposa offendi. CECILIO (Fremo.) T'appagherò. Barbaro, prendi! (getta la spada) SILLA Nella prigion più nera traggasi il reo. Per poco quest'aure a te vietate respirar ti vedrò. Fra le ritorte del tradimento audace tu pur ti pentirai, donna mendace. Atto secondo [N. 18 ­ Terzetto] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. SILLA Quell'orgoglioso sdegno oggi umiliar saprò. CECILIO Non lo sperare, indegno, l'istesso ognor sarò. GIUNIA Eccoti, o sposo, un pegno, ch'al fianco tuo morrò. SILLA Empi la vostra mano merita sol catene. Insieme GIUNIA Se mi ama il caro bene lieta a morir me n' vo. CECILIO Se mi ama il caro bene lieto a morir me n' vo. Insieme SILLA Questa costanza intrepida questo sì fido amore tutto mi strazia il core tutto avvampar mi fa. GIUNIA E CECILIO La mia costanza intrepida il mio fedele amore dolce consola il core né paventar mi fa. www.librettidopera.it 39 / 52 Atto terzo Lucio Silla ATTO  TERZO Scena prima Atrio, che introduce alle carceri. Cecilio incatenato, Cinna, Guardie a vista, indi Celia. Recitativo CINNA Ah sì tu solo, amico ritenesti il gran colpo. Eran non lungi al Campidoglio ascosi gli amici tuoi, gli amici miei. Seguito volea da questi infra le schiere aprirmi sanguinoso sentier. Ma la prudenza il furor moderò. Di tanti a fronte che far potea cinto da pochi? Il cielo novo ardir m'ispirò. Gli amici io lascio, tacito il ferro io stringo, e in Campidoglio m'avanzo. Allorché voglio vibrare il colpo, in te m'affiso. Il ferro nella man mi tremò. Nel tuo periglio gelossi il cor. M'arresto, mi confondo non so che dir. Quasi il segreto arcano, il tiranno svelò. Ma il suo comando, che di partir m'impose, la confusione e il mio dolore ascose. CECILIO Giacché morir degg'io morasi alfin. Sol mi spaventa, oh dèi! la sposa mia... CINNA Non paventar di lei. Entrambi io salverò. CELIA D'ascoltar Giunia men sdegnoso, e men fiero mi promise il german. CECILIO Giunia al suo piede? E perché mai? CELIA Desìa di placarne lo sdegno. CECILIO Invan lo brama. CINNA Odimi, Celia. È questo forse il momento, ond'illustrar tu puoi con opra sublime i giorni tuoi. CELIA Che far degg'io? 40 / 52 www.librettidopera.it Gamerra / Mozart, 1772 Atto terzo CINNA M'è noto a prova già tutto il poter, che vanti sul cor di Silla. A lui t'affretta, e digli che aborrito dal cielo, in odio a Roma, se in sé stesso non torna, e se non scorda un cieco amore insano l'eccidio suo fatal non è lontano. CELIA Dunque il german... CINNA Incontrerà la morte se non s'arrende a un tal consiglio. CECILIO Ah tutto, tutto inutil sarà. CELIA Tentare io voglio la difficile impresa, e se aver ponno le mie preghiere il lor bramato effetto? CINNA La destra in guiderdone io ti prometto. CELIA Un così dolce premio più animosa mi fa. Me fortunata, se fra un orror sì periglioso, e tristo salvo il germano, e 'l caro amante acquisto. [N. 19 ­ Aria] Allegro (si bemolle maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CELIA Strider sento la procella né risplende amica stella pure avvolta in tanto orrore la speranza coll'amore mi sta sempre in mezzo al cor. (parte) Scena seconda Cecilio, e Cinna. Recitativo CECILIO Forse tu credi, amico che Celia giunga a raddolcir un core uso alle stragi, e che talor di sdegno ingiustamente furibondo, ed ebro fe' rosseggiar di civil sangue il Tebro? www.librettidopera.it 41 / 52 Atto terzo Lucio Silla CINNA So quanto Celia puote su quell'alma incostante, e Giunia ancora forse placar potria co' le lagrime sue... CECILIO La sposa mia a qualche insulto amaro invan s'espone. Un empio, un inumano non si cangia sì presto. Onde abbandoni il sentier del delitto ch'ei suol calcar per lungo suo costume, ci volle ognor tutto il poter d'un nume. Ah no più non mi resta né speme, né pietà. L'afflitta sposa ti raccomando, amico. In pro di lei vegli la tua amistà. Del mio nemico vittima, ah no, non sia. Nel di lui sangue vendica la mia morte, e 'l mio spirito sdegnoso nel regno degl'estinti avrà riposo. CINNA Ogni pensier di morte si allontani da te. Se il cor di Silla contro al dovere, e alla ragion s'ostina, sulla propria rovina, ne' suoi perigli estremi quell'empio solo impallidisca, e tremi. [N. 20 ­ Aria] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CINNA De' più superbi il core se Giove irato fulmina, freddo spavento ingombra, ma d'un alloro all'ombra non palpita il pastor. Paventino i tiranni le stragi, e le ritorte, sol rida in faccia a morte chi ha senza colpe il cor. (parte) 42 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto terzo Scena terza Cecilio, indi Giunia. Recitativo CECILIO Ah no, che il fato estremo terror per me non ha. Sol piango, e gemo fra l'ingiuste catene non per la morte mia, per il mio bene. GIUNIA Ah dolce sposo... CECILIO Oh stelle! Come tu qui? GIUNIA M'aperse la via fra quest'orrore la mia fede, il mio pianto, il nostro amore. CECILIO Ma Silla... Ah parla. E Silla. GIUNIA L'empio mi lascia... Oh dio! Mi lascia, ch'io ti dia... l'ultimo addio. CECILIO Dunque non v'è per noi né pietà, né speranza? GIUNIA Al fianco tuo sol di morir m'avanza. Che non tentai finor? Querele, e pianti, sospiri, affanni, e prieghi sono inutili omai per quel core inumano che chiede o la tua morte, o la mia mano. CECILIO Della mia vita il prezzo esser può la tua man? Giunia frattanto che mai risolverà? GIUNIA Morirti accanto. CECILIO E tu per me vorrai troncar di sì be' giorni... GIUNIA E deggio, e voglio teco morir. A questo passo, o caro, m'obbliga, mi consiglia l'amor di sposa, ed il dover di figlia. Atto terzo Lucio Silla Scena quarta Aufidio con Guardie, e detti. AUFIDIO Tosto seguir tu déi Cecilio i passi miei. CECILIO Forse alla morte... parla... dimmi... AUFIDIO Non so. CECILIO Prendi, mia speme, prendi l'estremo abbraccio... GIUNIA (ad Aufidio) Rispondi... oh ciel! AUFIDIO Sempre obbedisco, e taccio. CECILIO Ah non perdiam, mia vita, un passeggero istante, che ne porge il destin. Parto, ti lascio, e in sì tenero amplesso ricevi, anima mia, tutto me stesso. GIUNIA Ah caro sposo... oh dèi! Se uccider può il martoro, perché vicina a te, perché non moro? CECILIO Quel pianto, oh dio! Ah sì quel pianto non sai come nel seno... Ahimè! ti basti, o cara sì ti basti il saper, che in questo istante più d'un morir tiranno quelle lagrime tue mi son d'affanno. [N. 21 ­ Aria] Tempo di minuetto (la maggiore) Archi. CECILIO Pupille amate non lagrimate morir mi fate pria di morir. Quest'alma fida a voi d'intorno farà ritorno sciolta in sospir. (parte con Aufidio, e guardie) Atto terzo Scena quinta Giunia sola. Recitativo accompagnato Allegro (do maggiore) / Andante / Allegro / Adagio / Presto Archi, 2 flauti, 2 trombe. GIUNIA Sposo... mia vita... Ah dove, dove vai? Non ti seguo? E chi ritiene i passi miei? Chi mi sa dir?... ma intorno altro, ahi lassa non vedo che silenzio, ed orror! L'istesso cielo più non m'ascolta, e m'abbandona. Ah forse, forse l'amato bene già dalle rotte vene versa l'anima, e 'l sangue... Ah pria ch'ei mora su quella spoglia esangue spirar vogl'io... che tardo? Disperata a che resto? Odo, o mi sembra udir di fioca voce languido suon, ch' a sé mi chiama? Ah sposo se i tronchi sensi estremi de' labbri tuoi son questi corro, volo a cader dove cadesti. [N. 22 ­ Aria] Andante (do minore) / Allegro Archi, 2 flauti, 2 oboe, 2 fagotti. GIUNIA Fra i pensier più funesti di morte veder parmi l'esangue consorte che con gelida mano m'addita la fumante sanguigna ferita e mi dice: che tardi a morir? Già vacillo, già manco, già moro e l'estinto mio sposo, ch'adoro ombra fida m'affretto a seguir. (parte) www.librettidopera.it 45 / 52 Atto terzo Lucio Silla Scena sesta Salone. Silla, Cinna, Celia e Senatori. Recitativo SILLA Celia, Cinna, non più. Roma, e 'l senato di mia giustizia, e del delitto altrui il giudice sarà. CINNA Più che non credi di Cecilio la vita necessaria esser puote. CELIA I giorni tuoi... la disperata Giunia... il suo consorte creduto estinto, e alle sue braccia or reso. SILLA So ch'ognor più l'odio comun m'han reso. Ma un dittator tradito vuol vendetta, e l'avrà. Stanco son io di temer sempre, e palpitar. La vita agitata, ed incerta fra un barbaro spavento è un viver per morire ogni momento. CELIA Ah speri invan, se speri fra un eccidio funesto, e sanguinoso trovar la sicurezza, ed il riposo. CINNA La furiosa Giunia correre tu vedrai ad assodar le vie di querele, e di lai. Destare in petto può de' nemici tuoi quel lagrimoso ciglio... SILLA Vedo più che non pensi il mio periglio. Amor, gloria, vendetta, sdegno, timore, io sento affollarmisi al cor. Ognun pretende d'acquistare l'impero. Amor lusinga. Mi rampogna la gloria. Ira m'accende. Freddo timor m'agghiaccia. M'anima la vendetta, e mi minaccia. De' fieri assalti in preda, alla difesa accinto, di Silla il cor fia vincitore, o vinto? Continua nella pagina seguente. Atto terzo SILLA Ma l'atto illustre alfine decider dée, s'io merto quel glorioso alloro, che mi adombra la chioma, e giudice ne voglio il mondo, e Roma. Scena settima Giunia con Guardie, e detti. GIUNIA Anima vil, da Giunia che pretendi? Che vuoi? Roma, e 'l senato nel tollerare un traditore ingegno è stupido, e insensato a questo segno? Padri coscritti innanzi a voi qui chiedo e vendetta, e pietà. Pietade implora una sposa infelice, e vuol vendetta d'un cittadino, e d'un consorte esangue l'ombra, che nuota ancora in mezzo al sangue. SILLA Calma gli sdegni tuoi, tergi il bel ciglio. Inutile è quel pianto. È vano il tuo furor. De' miei delitti della mia crudeltade a Roma in faccia spettatrice ti voglio, e in questo loco di Silla il cor conoscerai fra poco. Scena ottava Cecilio, Aufidio, Guardie, e detti. GIUNIA (Lo sposo mio?) CINNA (Che miro?) CELIA (E quale arcan?) CECILIO (Che fia?) SILLA Roma, il senato e 'l popolo m'ascolti. A voi presento un cittadin proscritto, che di sprezzar le leggi osò furtivo. Ei, che d'un ferro armato in Campidoglio alle mie squadre appresso tentò svenare il dittatore istesso. Continua nella pagina seguente. Atto terzo Lucio Silla SILLA Grazia ei non cerca. Anzi di me non teme e m'oltraggia, e detesta. Ecco il momento che decide di lui. Silla qui adopri l'autorità, che Roma al suo braccio affidò. Giunia mi senta e m'insulti, se può. Quell'empio Silla quel superbo tiranno a tutti odioso vuol che viva Cecilio, e sia tuo sposo. GIUNIA E sarà ver?... Mia vita... CECILIO Fida sposa, qual gioia... qual cangiamento è questo? AUFIDIO (Che fu?) CELIA (Lodi agli dèi.) CINNA (Stupito io resto.) SILLA Padri coscritti, or da voi cerco, e voglio quanto vergò la mano in questo foglio. De' cittadin proscritti ei tutti i nomi accoglie; ciascun ritorni alle paterne soglie. CECILIO Oh, come degno or sei del supremo splendor fra cui tu siedi! GIUNIA Costretta ad ammirarti alfin mi vedi. AUFIDIO (Ah che la mia rovina certa prevedo!) SILLA In mezzo al pubblico piacer, fra tante lodi, ch'ogni labbro sincer prodiga a Silla, e perché Cinna è il solo, che infra occulti pensier confuso giace, e diviso da me sospira, e tace? Fedele amico... (vuol abbracciarlo) CINNA Ah lascia di chiamarmi così. Per opra mia tornò Cecilio a Roma. In Campidoglio per trucidarti io corsi, e armai non lungi di cento anime audaci e la mano, e l'ardir. Io sol le faci a danni tuoi della discordia accesi... SILLA Tu abbastanza dicesti, io tutto intesi. CELIA (Dolci speranze addio!...) 48 / 52 www.librettidopera.it G. De Gamerra / W. A. Mozart, 1772 Atto terzo SILLA La pena or senti d'ogni trama ascosa. Celia germana mia sarà tua sposa. GIUNIA (Bella virtù!) CECILIO (Che generoso core!) CINNA E quale, oh giusto cielo, mi s'accende sul volto vergognoso rossor? Come poss'io... SILLA Quel rimorso mi basta, e tutto oblio. CELIA (Me lieta!) (a Cinna) Ah premia alfine il mio costante amor. Della clemenza mostrati degno, e di quel core umano la virtù, la pietade... CINNA Ecco la mano. SILLA Qual de' trionfi miei eguagliar potrà questo, eterni dèi? AUFIDIO Lascia, ch'a piedi tuoi grazia implori da te. De' miei consigli, delle mie lodi adulatrici or sono pentito... SILLA Aufidio, sorgi. Io ti perdono. Così lodevol opra coronisi da me. Romani, dal capo mio si tolga il rispettato alloro, e trionfale; più dittator non son, son vostro uguale. (depone l'alloro) Ecco alla patria resa la libertade. Ecco asciugato alfine il civil pianto. Ah no, che 'l maggior bene la grandezza non è. Madre soltanto è di timor, di affanni, di frodi, e tradimenti. Anzi per lei cieco mortal dalla calcata via di giustizia, e pietà spesso travìa. Ah sì conosco a prova che assai più grata all'alma d'un menzogner splendore è l'innocenza, e la virtù del core. Atto terzo Lucio Silla [N. 23 ­ Finale] Allegro (re maggiore) Archi, 2 oboe, 2 corni, 2 trombe. CORO Il gran Silla a Roma in seno che per lui respira, e gode d'ogni gloria, e d'ogni lode vincitore oggi si fa. GIUNIA E CECILIO Sol per lui l'acerba sorte è per me felicità! CINNA E SILLA E calpesta le ritorte la latina libertà. TUTTI Trionfò d'un basso amore la virtude, e la pietà. SILLA Il trofeo sul proprio core qual trionfo uguaglierà? CORO Se per Silla in Campidoglio lieta Roma esulta, gode d'ogni gloria, e d'ogni lode vincitore oggi si fa. librettidopera G. De Gamerra Mozart AttoriAltezze realiArgomento Atto [OuvertureScena AriaScena AriaScena AriaScena Scena Aria] Scena AriaScena Scena Coro e arioso Scena Duetto Atto Scena Aria Scena Scena AriaScena AriaScena AriaScena AriaScena Scena AriaScena AriaScena AriaScena AriaScena Coro Scena Scena TerzettoAtto Scena AriaScena AriaScena Scena Aria Scena AriaScena Scena Scena FinaleBrani significativi Lucio Silla BRANI   SIGNIFICATIVI D'Eliso in sen m'attendi (Giunia e Cecilio) Dalla sponda tenebrosa (Giunia) Fra i pensier più funesti di morte (Giunia) Fuor di queste urne dolenti (Coro e Giunia) Parto, m'affretto (Giunia) Pupille amate (Cecilio) Se lusinghiera speme (Celia). Grice: “At Oxford they put you down. “That IS an original interpretation of Silla’s behaviour – but of course you would need to challenge Mommsen’s objection,” my tutor said, righly assuming that I had no idea Mommsen had an objection!” -- Silla. Keywords: Mommsen. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Silla”. Silla.

 

Grice e Sillo: la ragione conversazionale e il voto al divino -- Roma – la scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean, cited by Giamblico. The sect being very reluctant to take an oath – invoking ‘il divino’ in vain – Sillo refused to take one, and just hand over money.

 

Grice e Simbolo: la ragione conversazionale della filosofia di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) – Filosofo italiano. Along with two other philosophers by the names of Ieroteo and Maxximiniano, he persuades Giuliano to pave the floor of Hagia Sophia with silver. However, the story is doubted, as is the existence of these three philosophers.  Grice: “It amuses me that the name of this Italian philosopher is identical with an artificial language invented by J. L. Austin, Symbolo!”

 

Grice e Simichia: la ragione conversazionale dell’élite di Crotona e la sua diaspora -- Roma – la scuola di Taranto -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean, cited by Giamblico. “This is the diaspora from Crotona – as if we would have an Oxonian diaspora, provided the mayor of Oxford deems us elitists!” – ‘or the gown elitist towards the town, but surely Boris Johnson never saw himself as gown!’ – Grice.

 

Grice e Simioni: la ragione conversazionale degl’amanti – filosofia veneziana – la scuola di Venezia – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Fiosofo veneziano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Tra i principali studiosi di PIRANDELLO (si veda), inizia la sua attività politica militando nelle file del socialismo. Venne espulso dal partito per indegnità morale. Collabora con l’United States Information Service. Si trasfere a Monaco di iera per approfondire gli studi per poi ritornare a Milano. Leader di un collettivo operai-studenti, mentre lavora alla Mondadori, fonda il collettivo politico metro-politano milanese. Teorizza lo scontro aperto, e si considera il progenitore delle brigate rosse. Insieme a circa settanta persone, tra cui componenti del collettivo ed elementi del dissenso, partecipa al convegno di Chiavari nella sala Marchesani, adiacente la pensione Stella Maris, nel quale un gruppo di partecipanti dichiara la propria adesione ad una visione politica. La data di questo convegno viene da taluni considerata come la data di nascita delle brigate rosse. Altri affermano che la formazionesia nata con il convegno di Pecorile (Reggio Emilia). L'ultima attività, prima di passare alla completa clandestinità, a compe come redattore di "Sinistra proletaria", l'ultimo dei quali riporta in copertina uno sfondo rosso con disegnato al centro un cerchio nero attorniante le sagome di XIV mitra. Fonda la scuola di lingue Hyperion, la quale secondo alcuni ha la funzione di una vera centrale internazionale. Si afferma che e anche il capo del Super-clan, organizzazione nata da una costola delle brigate rosse. Si insere nella vita cittadina, ricominciando a frequentare gl’ambienti progressisti e divenendo vicepresidente della fondazione Pierre. E proprio quale accompagnatore di Pierre, e ricevuto da  Giovanni Paolo II in udienza privata. Si avvicina al buddhismo tibetano. Si apparta nella campagna di Truinas, nella Drôme, dove geste un B & B. Craxi, alludendo alla esistenza di un grande delle brigate rosse (l'eminenza grigia ipotizzata da alcuni che dall'estero avrebbe guidato, come un burattinaio, molte delle azioni sul suolo italiano), dichiara che costui poteva essere cercato tra quei personaggi che avevano cominciato a fare politica con noi e poi sono scomparsi, magari sono a Parigi a lavorare per il partito armato, frase che venne da molti ritenuto indicasse come grande proprio lui. L'organizzazione di sinistra extra-parlamentare Lotta Continua lo accusa di essere un confidente della polizia e in contatto con i servizi segreti.. Durante la fase iniziale di Mani pulite, e accusato da LARINI di essere il grande, accuse respinte da lui che le ritenne parte di un'azione contro Craxi, vista la comune militanza nel socialismo. Hyperion e realmente una scuola di lingue o la stanza di compensazione di diversi servizi segreti?  Ferrari, In teleselezione dalla Francia gli ordini ai italiani? Corriere della Sera. Entrambi gli edifici sono proprietà della curia  Il convegno di Pecorile in Anni di Piombo. Il nucleo storico delle brigate rosse. E morto il misterioso grande, La Tribuna di Treviso, Fratini, Hyperion: scuola di lingue chiacchierata, ANSA, repubblica cronaca  news/caso moro_il_bierre_franceschini moretti una_spia riduttivo si sentiva_lenin. Dalla lotta al buddhismo, in Critica Sociale, Anni di piombo Superclan Hyperion (Parigi) Venezia Anni di piombo. Corrado Simioni. Simioni. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Simioni” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Simmaco: la ragione conversazionale del console filosofo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher of considerable wisdom, also a consul. Quinto Aurelio Simmaco.

 

Grice e Simoni – la scuola di Caprese -- filosofia italiana – Luigi Speranza Caprese). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Caprese, Toscana. Antenato: Simone de Buonarrota. Nome: S. Grice: “Some call him Michelangelo, but that’s rude!” --  See the study of Buonarroti’s Moses by Freud, “filosofia”  Michelangelo Buonarroti. CDisambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Michelangelo Buonarroti il Giovane, Michelangelo (disambigua) e Buonarroti (disambigua).  Pietro Freccia, statua di Michelangelo, piazzale degli Uffizi a Firenze. Michelangelo Buonarroti, noto semplicemente come Michelangelo (Caprese, 6 marzo 1475[1] – Roma), è stato un filosofo italiano -- pittore, scultore, architetto e poeta italiano.   Daniele da Volterra, Ritratto di Michelangelo  Autoritratto (?) come Nicodemo, Pietà Bandini  Michelangelo, disegno di Daniele da Volterra Soprannominato "Divin Artista" e definito "Artista universale", fu protagonista del Rinascimento italiano, e già in vita fu riconosciuto dai suoi contemporanei come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi[3]. Personalità tanto geniale quanto irrequieta, il suo nome è legato ad alcune delle più maestose opere dell'arte occidentale, fra cui si annoverano il David, il Mosè, la Pietà del Vaticano, la Cupola di San Pietro e il ciclo di affreschi nella Cappella Sistina, tutti considerati traguardi eccezionali dell'ingegno creativo.  Lo studio delle sue opere segnò le generazioni artistiche successive dando un forte impulso alla corrente del manierismo.  Nome Nelle fonti coeve, Michelangelo è chiamato in latino Michael.Angelus (la firma dell'autore sulla Pietà vaticana è MICHAEL.A[N]GELVS BONAROTVS FLORENT[INVS]) e in italiano Michelagnolo, come risulta dalla biografia del 1553 Vita di Michelagnolo Buonarroti scritta da Condivi, suo discepolo e collaboratore. Lo stesso Vasari lo chiamava Michelagnolo e il nome rimase tale fino alla metà dell’Ottocento. Il cambio in Michelangiolo prima e la successiva italianizzazione in Michelangelo poi, avvengono tra l’800 e il ‘900.  Benché tra le nuove generazioni si sia affermata la versione moderna, a Firenze resiste la variante ottocentesca di Michelangiolo nel parlato degli anziani e nella denominazione di luoghi simbolo della città (viale Michelangiolo, piazzale Michelangiolo, Liceo Classico Michelangiolo, ecc.).  Biografia Gioventù Origini  Il ricordo del padre sulla nascita di Michelangelo Michelangelo Buonarroti nasc a Caprese, in Valtiberina, vicino ad Arezzo, da Ludovico di Leonardo Buonarroti S., podestà al castello di Chiusi e di Caprese, e Francesca di Neri del Miniato del Sera. La famiglia è fiorentina, ma il padre si trova nella cittadina per ricoprire la carica politica di podestà. S. è il secondogenito, su un totale di cinque figli della coppia.  I S. di Firenze fanno parte del patriziato fiorentino. Nessuno in famiglia ha fino ad allora intrapreso la carriera artistica, né l'arte meccanica (cioè un mestiere che richiedeva sforzo fisico) poco consona al loro status, ricoprendo piuttosto incarichi nei pubblici uffici. Due secoli prima un antenato, Simone di Buonarrota S., è nel consiglio dei cento savi e ha ricoperto le maggiori cariche pubbliche. Possedeno uno scudo d'arme e patronano una cappella nella basilica di Santa Croce.  All'epoca della nascita di S., la famiglia attraversa però un momento di penuria economica. Il padre è talmente impoverito che sta addirittura per perdere i suoi privilegi di cittadino fiorentino. La podesteria di Caprese, uno dei meno significativi possedimenti fiorentini, è un incarico politico di scarsa importanza, da lui accettato per cercare di assicurare una sopravvivenza decorosa alla propria famiglia, arrotondando le magre rendite di alcuni poderi nei dintorni di Firenze. Il declino influenza pesantemente le scelte familiari, nonché il destino di S. e la sua personalità: la preoccupazione per il benessere economico, suo e dei suoi familiari, è una costante in tutta la sua vita. Già alla fine di marzo, terminata la carica semestrale di Ludovico Buonarroti, tornò presso Firenze, a Settignano, probabilmente alla poi detta Villa Michelangelo, dove il neonato venne affidato a una balia locale[6]. Settignano era un paese di scalpellini, poiché vi si estraeva la pietra serena, da secoli utilizzata a Firenze nell'edilizia di pregio. Anche la balia di Michelangelo era figlia e moglie di scalpellini. Diventato un artista famoso, Michelangelo, spiegando perché preferiva la scultura alle altre arti, ricordava proprio questo affidamento, sostenendo di provenire da un paese di "scultori e scalpellini", dove dalla balia aveva bevuto «latte impastato con la polvere di marmo»[9].  Nel 1481 la madre di Michelangelo morì; egli aveva soltanto sei anni. L'educazione scolastica del fanciullo venne affidata all'umanista Francesco Galatea da Urbino, che gli impartì lezioni di grammatica. In quegli anni conobbe l'amico Francesco Granacci, che lo incoraggiò nel disegno[6]. Ai figli cadetti di famiglie patrizie era di solito riservata la carriera ecclesiastica o militare, ma Michelangelo, secondo la tradizione, aveva manifestato fin da giovanissimo una forte inclinazione artistica, che nella biografia di Ascanio Condivi, redatta con la collaborazione dell'artista stesso, viene ricordata come ostacolata a tutti i costi dal padre, che non la spuntò però sull'eroica resistenza del figlio[10].  Formazione presso il Ghirlandaio (1487-1488)  Michelangelo, San Pietro da Masaccio, 1488-1490 circa. Penna e sanguigna su carta. Staatliche Graphische Sammlung, Monaco. Nel 1487 Michelangelo finalmente approdò alla bottega di Domenico Ghirlandaio, artista fiorentino tra i più quotati dell'epoca[10].  Ascanio Condivi, nella Vita di Michelagnolo Buonarroti[11], omettendo la notizia e sottolineando la resistenza paterna, sembra voler enfatizzare un motivo più che altro letterario e celebrativo, cioè il carattere innato e autodidatta dell'artista: dopotutto, l'avvio consenziente di Michelangelo a una carriera considerata "artigianale", era per il costume dell'epoca una ratifica di una retrocessione sociale della famiglia. Ecco perché, una volta divenuto famoso, egli cercò di nascondere gli inizi della sua attività in bottega, parlandone non come di un normale apprendistato professionale, ma come se si fosse trattato di una chiamata inarrestabile dello spirito, una vocazione, contro la quale il padre avrebbe inutilmente tentato di resistere[12].  In realtà sembra ormai quasi certo che Michelangelo fu mandato a bottega proprio dal padre a causa dell'indigenza familiare[13]: la famiglia aveva bisogno dei soldi dell'apprendistato del ragazzo, al quale così non poté essere data un'istruzione classica. La notizia è data da Vasari, che già nella prima edizione delle Vite (1550)[14], descrisse, appunto, come fu Ludovico stesso a condurre il figlio dodicenne nella bottega del Ghirlandaio, suo conoscente, mostrandogli alcuni fogli disegnati dal fanciullo, affinché lo tenesse con sé, alleviando le spese per i numerosi figli, e convenendo assieme al maestro un "giusto et onesto salario, che in quel tempo così si costumava". Lo stesso storico aretino ricorda le sue basi documentarie, nei ricordi di Ludovico e nelle ricevute di bottega conservate all'epoca da Ridolfo del Ghirlandaio, figlio del celebre pittore[10]. In particolare, in un "ricordo" del padre, datato 1º aprile 1488, Vasari lesse i termini dell'accordo con i fratelli Ghirlandaio, prevedendo una permanenza del figlio a bottega per tre anni, per un compenso di venticinque fiorini d'oro[10]. Inoltre in elenco di creditori della bottega artistica, al giugno 1487, è registrato anche Michelangelo dodicenne[10].  In quel periodo la bottega del Ghirlandaio era attiva al ciclo affrescato della Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, dove Michelangelo poté certamente apprendere una tecnica pittorica avanzata[15]. La giovane età del fanciullo (che al termine degli affreschi aveva quindici anni) lo relegherebbe a mestieri da garzone (preparazione dei colori, riempimento di partiture semplici e decorative), ma è altresì noto che egli era il migliore tra gli allievi e non è da escludere che gli fossero affidati alcuni compiti di maggior rilievo: Vasari riportò come Domenico avesse sorpreso il fanciullo a "ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell'arte, et alcuni di que' giovani che lavoravano", tanto che fece esclamare al maestro "Costui ne sa più di me". Alcuni storici hanno ipotizzato un suo intervento diretto in alcuni ignudi del Battesimo di Cristo e della Presentazione al Tempio oppure nello scultoreo San Giovannino nel deserto, ma in realtà la mancanza di termini di paragone e riscontri oggettivi ha sempre impossibilitato una definitiva conferma[16].  Sicuro è invece che il giovane manifestò un forte interesse per i maestri alla base della scuola fiorentina, soprattutto Giotto e Masaccio, copiando direttamente i loro affreschi nelle cappelle di Santa Croce e nella Brancacci in Santa Maria del Carmine[15]. Un esempio è il massiccio San Pietro da Masaccio, copia dal Pagamento del tributo. Condivi scrisse anche di una copia da una stampa tedesca di un Sant'Antonio tormentato da diavoli: l'opera è stata recentemente riconosciuta nel Tormento di sant'Antonio, copia da Martin Schongauer[6], acquistato dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas[17].  Al giardino neoplatonico (1488-1490)  Copia da Cesare Zocchi, Michelangelo giovane scolpisce la testa di fauno, Studio Romanelli, Firenze Molto probabilmente Michelangelo non terminò il triennio formativo in bottega, a giudicare dalle vaghe indicazioni della biografia del Condivi. Forse si burlò del proprio maestro, sostituendo un ritratto della mano di Domenico, che doveva rifare per esercizio, con la sua copia, senza che il Ghirlandaio si accorgesse della differenza, "con un suo compagno […] ridendosene"[18].  In ogni caso, pare che su suggerimento di un altro apprendista, Francesco Granacci, Michelangelo cominciò a frequentare il giardino di San Marco, una sorta di accademia artistica sostenuta economicamente da Lorenzo il Magnifico in una sua proprietà nel quartiere mediceo di Firenze. Qui si trovava una parte delle vaste collezioni di sculture antiche dei Medici, che i giovani talenti, ansiosi di migliorare nell'arte dello scolpire, potevano copiare, sorvegliati e aiutati dal vecchio scultore Bertoldo di Giovanni, allievo diretto di Donatello. I biografi dell'epoca descrivono il giardino come un vero e proprio centro di alta formazione, forse enfatizzando un po' la quotidiana realtà, ma è senza dubbio che l'esperienza ebbe un impatto fondamentale sul giovane Michelangelo[15].  Tra i vari aneddoti legati all'attività del giardino è celebre nella letteratura michelangiolesca quello della Testa di fauno, una perduta copia in marmo di un'opera antica. Veduta dal Magnifico in visita al giardino, venne criticata bonariamente per la perfezione della dentatura che si intravedeva dalla bocca dischiusa, inverosimile in una figura anziana. Ma prima che il signore finisse il giro del giardino, il Buonarroti si armò di trapano e martello per scalfire un dente e bucarne un altro, suscitando la sorpresa ammirazione di Lorenzo. Pare che in seguito all'episodio Lorenzo in persona chiese il permesso a Ludovico Buonarroti di ospitare il ragazzo nel palazzo di via Larga, residenza della sua famiglia[19]. Ancora le fonti parlano di una resistenza paterna, ma le gravose necessità economiche della famiglia dovettero giocare un ruolo determinante, infatti alla fine Ludovico cedette in cambio di un posto di lavoro alla dogana, retribuito otto scudi al mese[19].  Verso il 1490 il giovane artista venne quindi accolto come figlio adottivo nella più importante famiglia in città. Ebbe così modo di conoscere direttamente le personalità del suo tempo, come Poliziano, Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, che lo resero partecipe, in qualche misura, della dottrina neoplatonica e dell'amore per la rievocazione dell'antico. Conobbe inoltre i giovani rampolli di casa Medici, più o meno a lui coetanei, che diventarono negli anni successivi alcuni dei suoi principali committenti: Piero, Giovanni, poi papa Leone X, e Giulio, futuro Clemente VII[19].  Un altro fatto legato a quegli anni è la lite con Pietro Torrigiano, futuro scultore di buon livello, noto soprattutto per il suo viaggio in Spagna, da dove esportò modi rinascimentali. Pietro era noto per la sua avvenenza e per un'ambizione pari almeno a quella di Michelangelo. Tra i due non correva buon sangue e, una volta entrati in contrasto, durante un sopralluogo alla cappella Brancacci, finirono per azzuffarsi; ebbe la peggio Michelangelo, che incassò un pugno del rivale in pieno volto, rompendosi il naso e avendo deturpato per sempre il profilo[20]. In seguito alla rissa, Lorenzo De Medici esiliò Pietro Torrigiano da Firenze.  Prime opere (1490-1492)  Michelangelo, Madonna della Scala, marmo, 1491 circa. Casa Buonarroti, Firenze. Al periodo del giardino e del soggiorno in casa Medici risalgono essenzialmente due opere, la Madonna della Scala (1491 circa) e la Battaglia dei Centauri, entrambe conservate nel museo di Casa Buonarroti a Firenze. Si tratta di due opere molto diverse per tema (uno sacro e uno profano) e per tecnica (una in un sottile bassorilievo, l'altro in un prorompente altorilievo), che testimoniano alcune influenze fondamentali nel giovane scultore, rispettivamente Donatello e la statuaria classica[19].  Nella Madonna della Scala l'artista riprese la tecnica dello stiacciato, creando un'immagine di tale monumentalità da far pensare alle steli classiche; la figura della Madonna, che occupa tutta l'altezza del rilievo, si staglia vigorosa, tra notazioni di vivace naturalezza, come il Bambino è assopito di spalle e i putti, sulla scala da cui prende il nome il rilievo, occupati nell'insolita attività di tendere un drappo[21].   Michelangelo, Battaglia dei centauri, marmo, 1492 circa. Casa Buonarroti, Firenze Di poco posteriore è la Battaglia dei centauri, databile tra il 1491 e il 1492: secondo Condivi e Vasari fu eseguita per Lorenzo il Magnifico, su un soggetto proposto da Agnolo Poliziano, anche se i due biografi non concordano sull'esatta titolazione[22].  Per questo rilievo Michelangelo si rifece sia ai sarcofagi romani, sia alle formelle dei pulpiti di Giovanni Pisano, e guardò anche al contemporaneo rilievo bronzeo di Bertoldo di Giovanni con una battaglia di cavalieri, a sua volta ripreso da un sarcofago del Camposanto di Pisa. Nel rilievo michelangiolesco però viene esaltato soprattutto il dinamico groviglio dei corpi nudi in lotta e annullato ogni riferimento spaziale[22].  Michelangelo e Piero de' Medici (1492-1494)  Il Crocifisso di Santo Spirito (1493 circa) Nel 1492 morì Lorenzo il Magnifico. Non è chiaro se i suoi eredi, in particolare il primogenito Piero, mantennero l'ospitalità al giovane Buonarroti: indizi sembrano indicare che Michelangelo si ritrovò improvvisamente senza dimora, con un difficile ritorno alla casa paterna[19]. Piero di Lorenzo de' Medici, succeduto al padre anche nel governo della città, è ritratto dai biografi michelangioleschi come un tiranno "insolente e soverchievole", con un difficile rapporto con l'artista, che era di appena tre anni più giovane di lui. Nonostante ciò, i fatti documentati non lasciano alcun indizio di una rottura plateale tra i due, almeno fino alla crisi dell'autunno del 1494[23].  Nel 1493 infatti Piero, dopo essere stato nominato Operaio in Santo Spirito, dovette intercedere coi frati agostiniani in favore del giovane artista, affinché lo ospitassero e gli consentissero di studiare l'anatomia negli ambienti del convento, sezionando i cadaveri provenienti dall'ospedale del complesso, attività che giovò enormemente alla sua arte[19].  In questi anni Michelangelo scolpì il Crocifisso ligneo, realizzato come ringraziamento per il priore. Attribuito a questo periodo è anche il piccolo Crocifisso di legno di tiglio recentemente acquistato dallo Stato italiano. Inoltre, probabilmente per ringraziare o per accattivarsi Piero, dovette scolpire, subito dopo la morte di Lorenzo, un perduto Ercole[19].  Il 20 gennaio 1494 su Firenze si abbatté una violenta nevicata e Piero fece chiamare Michelangelo per fare una statua di neve nel cortile di palazzo Medici. L'artista fece di nuovo un Ercole, che durò almeno otto giorni, sufficienti per fare apprezzare l'opera a tutta la città[24]. All'opera si ispirò forse Antonio del Pollaiolo per un bronzetto oggi alla Frick Collection di New York.  Mentre cresceva lo scontento per il progressivo declino politico ed economico della città, in mano a un ragazzo poco più che ventenne, la situazione esplose in occasione della calata in Italia dell'esercito francese (1494) capeggiato da Carlo VIII, nei confronti del quale Piero adottò un'impudente politica di assecondamento, giudicato eccessivo. Appena partito il monarca, la situazione precipitò rapidamente, aizzata dal predicatore ferrarese Girolamo Savonarola, con la cacciata dei Medici e il saccheggio del palazzo e del giardino di San Marco[6].  Resosi conto dell'imminente crollo politico del suo mecenate, Michelangelo, al pari di molti artisti dell'epoca, abbracciò i nuovi valori spirituali e sociali di Savonarola[25]. Il frate, con le sue accalorate prediche e il suo rigorismo formale, accese in lui sia la convinzione che la Chiesa dovesse essere riformata, sia i primi dubbi sul valore etico da dare all'arte, orientandola su soggetti sacri[19].  Poco prima del precipitare della situazione, nell'ottobre 1494, Michelangelo, nella paura di rimanere coinvolto nei disordini, quale possibile bersaglio poiché protetto dai Medici, fuggì dalla città di nascosto, abbandonando Piero al suo destino: il 9 novembre venne infatti scacciato da Firenze, dove si instaurò un governo popolare[19].  Il primo viaggio a Bologna (1494-1495)  San Procolo (1494-1495) Per Michelangelo si trattava del primo viaggio fuori Firenze, con una prima tappa a Venezia, dove rimase poco, ma abbastanza per vedere probabilmente il monumento equestre a Bartolomeo Colleoni del Verrocchio, dal quale trasse forse ispirazione per i volti eroici e "terribili"[26].  Si diresse poi a Bologna, in cui venne accolto, trovando ospitalità e protezione, dal nobile Giovan Francesco Aldrovandi, molto vicino ai Bentivoglio che allora dominavano la città. Durante il soggiorno bolognese, durato circa un anno, l'artista si occupò, grazie all'intercessione del suo protettore, del completamento della prestigiosa Arca di san Domenico, a cui avevano già lavorato Nicola Pisano e Niccolò dell'Arca, che era morto da pochi mesi, in quel 1494. Scolpì così un San Procolo, un Angelo reggicandelabro e terminò il San Petronio iniziato da Niccolò[27]. Si tratta di figure che si allontanano dalla tradizione di primo Quattrocento delle altre statue di Niccolò dell'Arca, con una solidità e una compattezza innovative, nonché primo esempio di quella "terribilità" michelangiolesca nell'espressione fiera e eroica del San Procolo[28], nel quale pare abbozzata un'intuizione embrionale che si svilupperà nel famoso David.  A Bologna lo stile dell'artista era infatti velocemente maturato grazie alla scoperta di nuovi esempi, diversi dalla tradizione fiorentina, che lo influenzarono profondamente. Ammirò i rilievi della Porta Magna di San Petronio di Jacopo della Quercia. Da essi attinse gli effetti di "forza trattenuta", data dai contrasti tra parti lisce e stondate e parti dai contorni rigidi e fratturati, nonché la scelta di soggetti umani rustici e massicci, che esaltano le scene con gesti ampi, pose eloquenti e composizioni dinamiche[29]. Anche le stesse composizioni di figure che tendono a non rispettare i bordi quadrati dei riquadri e a debordare con le loro masse compatte e la loro energia interna furono motivo di suggestione per le future opere del fiorentino, che nelle scene della Volta Sistina citerà diverse volte queste scene vedute in gioventù, sia negli insiemi, sia nei particolari. Anche le sculture di Niccolò dell'Arca devono essere state sottoposte ad analisi da parte del fiorentino, come il gruppo in cotto del Compianto sul Cristo morto, dove il volto e il braccio di Gesù saranno richiamati di lì a breve nella Pietà vaticana.  Inoltre Michelangelo rimase colpito dall'incontro con la pittura ferrarese, in particolare con le opere di Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti, come il monumentale Polittico Griffoni, gli espressivi affreschi della cappella Garganelli o la Pietà del de' Roberti[27].  L'imbroglio del Cupido (1495-1496) Rientrato a Firenze nel dicembre 1495, quando la situazione appariva ormai calmata, Michelangelo trovò un clima molto diverso. Nella città dominata dal governo repubblicano di ispirazione savonaroliana erano nel frattempo rientrati alcuni Medici. Si trattava di alcuni esponenti del ramo cadetto che, per l'occasione, presero il nome di "Popolani" per accattivarsi le simpatie del popolo, presentandosi come protettori e garanti delle libertà comunali. Tra questi spiccava Lorenzo di Pierfrancesco, bis-cugino del Magnifico, che era da tempo una figura chiave della cultura cittadina, committente di Botticelli e di altri artisti. Fu lui a prendere sotto protezione Michelangelo, commissionandogli due sculture, entrambe perdute, un San Giovannino e un Cupido dormiente[27].  Il Cupido in particolare fu al centro di una vicenda che portò di lì a poco Michelangelo a Roma, in quello che può dirsi l'ultimo dei suoi fondamentali viaggi formativi. Su suggerimento forse dello stesso Lorenzo e probabilmente all'insaputa di Michelangelo, si decise di sotterrare il Cupido, per patinarlo come un reperto archeologico e rivenderlo sul fiorente mercato delle opere d'arte antiche a Roma. L'inganno riuscì, infatti di lì a poco, con l'intermediazione del mercante Baldassarre Del Milanese, il cardinale di San Giorgio Raffaele Riario, nipote di Sisto IV e uno dei più ricchi collezionisti del tempo, lo acquistò per la cospicua somma di duecento ducati: Michelangelo ne aveva incassati per la stessa opera appena trenta[27].  Poco dopo, tuttavia, le voci del fruttuoso inganno si sparsero fino ad arrivare alle orecchie del cardinale, che per avere conferma e richiedere indietro i soldi, spedì a Firenze un suo intermediario, Jacopo Galli, che risalì a Michelangelo e riuscì ad avere conferma della truffa. Il cardinale andò su tutte le furie, ma volle anche conoscere l'artefice capace di emulare gli antichi facendoselo spedire a Roma, nel luglio di quell'anno, dal Galli. Con quest'ultimo, in seguito, Michelangelo strinse un solido e proficuo rapporto[27].  Primo soggiorno romano (1496-1501) Arrivo a Roma e il Bacco (1496-1497) Michelangelo accettò senza indugio l'invito a Roma del cardinale, nonostante questi fosse nemico giurato dei Medici: di nuovo per convenienza voltava le spalle ai suoi protettori[30].  Arrivò a Roma il 25 giugno 1496. Il giorno stesso il cardinale mostrò a Michelangelo la sua manutenzione di sculture antiche, chiedendogli se se la sentiva di fare qualcosa di simile. Neppure dieci giorni dopo, l'artista iniziò a scolpire una statua a tutto tondo di un Bacco (oggi al Museo del Bargello), raffigurato come un adolescente in preda all'ebbrezza, in cui è già leggibile l'impatto con la statuaria classica: l'opera infatti presenta una resa naturalistica del corpo, con effetti illusivi e tattili simili a quelli della scultura ellenistica; inedita per l'epoca è l'espressività e l'elasticità delle forme, unite al tempo stesso con un'essenziale semplicità dei particolari. Ai piedi di Bacco scolpì un fauno che sta rubando qualche acino d'uva dalla mano del dio: questo gesto destò molta ammirazione in tutti gli scultori del tempo poiché il giovane sembra davvero mangiare dell'uva con grande realismo. Il Bacco è una delle poche opere perfettamente finite di Michelangelo e dal punto di vista tecnico segna il suo ingresso nella maturità artistica[31].  L'opera, forse rifiutata dal cardinale Riario, rimase in casa di Jacopo Galli, dove Michelangelo viveva. Il cardinale Riario mise a disposizione di Michelangelo la sua cultura e la sua collezione, contribuendo con ciò in maniera determinante al miglioramento del suo stile, ma soprattutto lo introdusse nell'ambiente cardinalizio dal quale sarebbero arrivate presto importantissime commissioni. Eppure, ancora una volta Michelangelo mostrò ingratitudine verso il mecenate di turno: a proposito del Riario fece scrivere dal suo biografo Condivi che era un ignorante e non gli aveva commissionato nulla[32].  Pietà (1497-1499)  Michelangelo, Pietà, 1497-1499, marmo. Basilica di San Pietro, Città del Vaticano. Grazie sempre all'intermediazione di Jacopo Galli, Michelangelo ricevette altre importanti commissioni in ambito ecclesiastico, tra cui forse la Madonna di Manchester, la tavola dipinta della Deposizione per Sant'Agostino, forse il perduto dipinto con le Stigmate di san Francesco per San Pietro in Montorio, e, soprattutto, una Pietà in marmo per la chiesa di Santa Petronilla, oggi nella Basilica di San Pietro[33].  Quest'ultima opera, che suggellò la definitiva consacrazione di Michelangelo nell'arte scultorea - ad appena ventidue anni - era stata commissionata dal cardinale francese Jean de Bilhères de La Groslaye, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, che desiderava forse adoperarla per la propria sepoltura. Il contatto tra i due dovette avvenire nel novembre 1497, in seguito al quale l'artista partì alla volta di Carrara per scegliere un blocco di marmo adeguato; la firma del contratto vero e proprio si ebbe poi solo nell'agosto del 1498. Il gruppo, fortemente innovativo rispetto alla tradizione scultorea delle Pietà tipicamente nordica, venne sviluppato con una composizione piramidale, con la Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale, mediate dal massiccio panneggio. La finitura dei particolari venne condotta alle estreme conseguenze, tanto da dare al marmo effetti di traslucido e di cerea morbidezza. Entrambi i protagonisti mostrano un'età giovane, tanto che sembra che lo scultore si sia ispirato al passo dantesco "Vergine Madre, Figlia di tuo Figlio"[34].  La Pietà fu importante nell'esperienza artistica di Michelangelo non solo perché fu il suo primo capolavoro ma anche perché fu la prima opera da lui fatta in marmo di Carrara, che da questo momento divenne la materia primaria per la sua creatività. A Carrara l'artista manifestò un altro aspetto della personalità: la consapevolezza del proprio talento. Lì infatti acquistò non solo il blocco di marmo per la Pietà, ma anche diversi altri blocchi, nella convinzione che - considerato il suo talento - le occasioni per utilizzarli non sarebbero mancate[35]. Cosa ancora più insolita per un artista di quei tempi, Michelangelo si convinse che per scolpire le proprie statue non aveva bisogno di committenti: avrebbe potuto scolpire di propria iniziativa opere da vendere una volta terminate. In pratica Michelangelo diventava un imprenditore di sé stesso e investiva sul proprio talento senza aspettare che altri lo facessero per lui[35].  Rientro a Firenze (1501-1504) Passaggio per Siena (1501) Nel 1501 Michelangelo decise di tornare a Firenze. Prima di partire Jacopo Galli gli ottenne una nuova commissione, questa volta per il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, futuro papa Pio III. Si trattava di realizzare quindici statue di Santi di grandezza leggermente inferiore al naturale, per l'altare Piccolomini nel Duomo di Siena, composto architettonicamente una ventina di anni prima da Andrea Bregno. Alla fine l'artista ne realizzò solo quattro (San Paolo, San Pietro, un San Pio e San Gregorio), spedendole da Firenze fino al 1504, per di più con un uso massiccio di aiuti. La commissione delle statue senesi, destinate a nicchie anguste, iniziava infatti a essere ormai troppo stretta per la sua fama, in luce soprattutto delle prestigiose opportunità che si stavano profilando a Firenze[36].  Rientro a Firenze: il David (1501)  Michelangelo, David, 1501-1504, marmo. Galleria dell'Accademia, Firenze. Nel 1501 Michelangelo era già rientrato a Firenze, spinto da necessità legate a "domestici negozi"[37]. Il suo ritorno coincise con l'avvio di una stagione di commissioni di grande prestigio, che testimoniano la grande reputazione che l'artista si era conquistato durante gli anni passati a Roma.  Il 16 agosto del 1501 l'Opera del Duomo di Firenze gli affidò ad esempio una colossale statua del David da collocare in uno dei contrafforti esterni posti nella zona absidale della cattedrale. Si trattava di un'impresa resa complicata dal fatto che il blocco di marmo assegnato era stato precedentemente sbozzato da Agostino di Duccio nel 1464 e da Antonio Rossellino nel 1476, col rischio che fossero state ormai asportate porzioni di marmo indispensabili alla buona conclusione del lavoro[38].  Nonostante la difficoltà, Michelangelo iniziò a lavorare su quello che veniva chiamato "il Gigante" nel settembre del 1501 e completò l'opera in tre anni. L'artista affrontò il tema dell'eroe in maniera insolita rispetto all'iconografia data dalla tradizione, rappresentandolo come un uomo giovane e nudo, dall'atteggiamento pacato ma pronto a una reazione, quasi a simboleggiare, secondo molti, il nascente ideale politico repubblicano, che vedeva nel cittadino-soldato - e non nel mercenario - l'unico in grado di difendere le libertà repubblicane. I fiorentini riconobbero immediatamente la statua come un capolavoro. Così, anche se il David era nato per l'Opera del Duomo e quindi per essere osservato da un punto di vista ribassato e non certo frontale, la Signoria decise di farne il simbolo della città e come tale venne collocata nel luogo col maggior valore simbolico: piazza della Signoria. A decidere di questa collocazione della statua fu una commissione appositamente nominata e composta dai migliori artisti della città, tra i quali Davide Ghirlandaio, Simone del Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli, Antonio e Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino, Leonardo da Vinci, Pietro Perugino[39].  Leonardo da Vinci, in particolare, votò per una posizione defilata del David, sotto una nicchia nella Loggia della Signoria, confermando le voci di rivalità e cattivi rapporti tra i due geni[40].   Confronto tra il profilo del Louvre e il profilo scultoreo di Palazzo Vecchio conosciuto come l'Importuno di Michelangelo[41] Contemporaneamente alla collocazione del David, Michelangelo potrebbe essere stato coinvolto nella realizzazione del profilo scultoreo inciso sulla facciata di Palazzo Vecchio conosciuto come L'Importuno di Michelangelo. L'ipotesi[41] su un possibile coinvolgimento di Michelangelo nella creazione del profilo si fonda sulla forte somiglianza di quest'ultimo con un profilo disegnato dall'artista, databile agli inizi del XVI secolo, oggi conservato al Louvre.[42] Inoltre il profilo fu probabilmente scolpito con il permesso delle autorità cittadine, infatti la facciata di Palazzo Vecchio era costantemente presieduta da guardie. Quindi il suo autore godeva di una certa considerazione e libertà d'azione. Lo stile fortemente caratterizzato del profilo scolpito è vicino a quello dei profili di teste maschili disegnati da Michelangelo nei primi anni del XVI secolo. Quindi anche il ritratto scultoreo di Palazzo Vecchio dovrebbe essere datato all'inizio del XVI secolo,[43] la sua esecuzione coinciderebbe con la collocazione del David[44] e potrebbe forse rappresentare uno dei membri della suddetta commissione.[45]  Leonardo e Michelangelo Leonardo dimostrò interesse per il David, copiandolo in un suo disegno (sebbene non potesse condividere la spiccata muscolarità dell'opera), ma anche Michelangelo fu influenzato dall'arte di Leonardo. Nel 1501 il maestro da Vinci espose nella Santissima Annunziata un cartone con la Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e l'agnellino (perduto), che "fece maravigliare tutti gl'artefici, ma finita ch'ella fu, nella stanza durarono due giorni d'andare a vederla gl'uomini e le donne, i giovani et i vecchi"[46]. Lo stesso Michelangelo vide il cartone, restando forse impressionato dalle nuove idee pittoriche di avvolgimento atmosferico e di indeterminatezza spaziale e psicologica, ed è quasi certo che l'abbia studiato, come dimostrano i disegni di quegli anni, dai tratti più dinamici, con una maggiore animazione dei contorni e con una maggiore attenzione al problema del legame tra le figure, risolto spesso in gruppi articolati in maniera dinamica. La questione dell'influenza leonardesca è un argomento controverso tra gli studiosi, ma una parte di essi ne legge le tracce nei due tondi scultorei da lui eseguiti negli anni immediatamente successivi[47]. Ampiamente riconosciute sono indubbiamente due delle innovazioni stilistiche di Leonardo assunte e fatte proprie nello stile di Michelangelo: la costruzione piramidale delle figure umane, ampie rispetto agli sfondi naturali, e il "contrapposto", portato al massimo grado dal Buonarroti, che rende dinamiche le persone i cui arti vediamo spingersi in opposte direzioni spaziali.  Nuove commissioni (1502-1504)  Tondo Taddei  Tondo Doni Il David tenne occupato Michelangelo fino al 1504, senza impedire però che si imbarcasse in altri progetti, spesso a carattere pubblico, come il perduto David bronzeo per un maresciallo del Re di Francia (1502), una Madonna col Bambino per il mercante di panni fiammingo Alexandre Mouscron per la sua cappella familiare a Bruges (1503) e una serie di tondi. Nel 1503-1505 circa scolpì il Tondo Pitti, realizzato in marmo su commissione di Bartolomeo Pitti e oggi al Museo del Bargello. In questa scultura spicca il diverso rilievo dato ai soggetti, dalla figura appena accennata di Giovanni Battista (precoce esempio di "non-finito"), alla finitezza della Vergine, la cui testa ad altorilievo arriva a uscire dal confine della cornice.  Tra il 1503 e il 1504 realizzò un tondo dipinto per Agnolo Doni, rappresentante la Sacra Famiglia con altre figure. In essa, i protagonisti sono grandiose proporzioni e dinamicamente articolati, sullo sfondo di un gruppo di ignudi. I colori sono audacemente vivaci, squillanti, e i corpi trattati in maniera scultorea ebbero un effetto folgorante sugli artisti contemporanei. Evidente è qui il distacco netto e totale dalla pittura leonardesca: per Michelangelo la migliore pittura è quella che maggiormente si avvicina alla scultura, cioè quella che possedeva il più elevato grado di plasticità possibile[48] e, dopo le prove a olio non terminate che possiamo vedere a Londra, realizzerà qui un esempio di pittura innovativa, pur con la tradizionale tecnica della tempera stesa con fitti tratteggi incrociati. Curiosa è la vicenda legata al pagamento dell'opera: dopo la consegna il Doni, mercante molto attento alle economie, stimò l'opera una cifra "scontata" rispetto al pattuito, facendo infuriare l'artista che si riprese la tavola, esigendo semmai il doppio del prezzo convenuto. Al mercante non restò che pagare senza esitazione pur di ottenere il dipinto. Al di là del valore aneddotico dell'episodio, lo si può annoverare fra i primissimi esempi (se non il primo in assoluto) di ribellione dell'artista nei confronti del committente, secondo il concetto allora assolutamente nuovo della superiorità dell'artista-creatore rispetto al pubblico (e quindi alla committenza)[49].  Del 1504-1506 circa è infine il marmoreo Tondo Taddei, commissionato da Taddeo Taddei e ora alla Royal Academy of Arts di Londra: si tratta di un'opera dall'attribuzione più incerta, dove comunque spicca l'effetto non-finito, presente nel trattamento irregolare del fondo dal quale le figure sembrano emergere, forse un omaggio all'indefinito spaziale e all'avvolgimento atmosferico di Leonardo[50].  Gli Apostoli per il Duomo (1503) Il 24 aprile 1503, Michelangelo ricevette anche un'impegnativa con i consoli dell'Arte della Lana fiorentina per la realizzazione di dodici statue marmoree a grandezza naturale degli Apostoli, destinate a decorare le nicchie nei pilastri che reggono la cupola della cattedrale fiorentina, da completarsi al ritmo di una all'anno[47].  Il contratto non poté essere onorato per varie vicissitudini e l'artista fece in tempo a sbozzare solo un San Matteo, uno dei primi, vistosi esempi di non-finito[47].  La Battaglia di Cascina (1504)  Copia del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo, eseguita da Aristotele da Sangallo nel 1542 e conservata presso la Holkham Hall di Norfolk Tra l'agosto e il settembre 1504, gli venne commissionato un monumentale affresco per la Sala Grande del Consiglio in Palazzo Vecchio che doveva decorare una delle pareti, alta più di sette metri. L'opera doveva celebrare le vittorie fiorentine, in particolare l'episodio della Battaglia di Cascina, vinta contro i pisani nel 1364, che doveva andare a fare pendant con la Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo sulla parete vicina[47].  Michelangelo fece in tempo a realizzare il solo cartone, sospeso nel 1505, quando partì per Roma, e ripreso l'anno dopo, nel 1506, prima di andare perduto; divenuto subito uno strumento di studio obbligatorio per i contemporanei, e la sua memoria è tramandata sia da studi autografi sia da copie di altri artisti. Più che sulla battaglia in sé, il dipinto si focalizzava sullo studio anatomico delle numerose figure di "ignudi", colte in pose di notevole sforzo fisico[47].  Il ponte sul Corno d'Oro (1504 circa) Come riporta Ascanio Condivi, tra il 1504 e il 1506 il sultano di Costantinopoli avrebbe proposto all'artista, la cui fama iniziava già a travalicare i confini nazionali, di occuparsi della progettazione di un ponte sul Corno d'Oro, tra Istanbul e Pera. Pare che l'artista avesse addirittura preparato un modello per la colossale impresa e alcune lettere confermano l'ipotesi di un viaggio nella capitale ottomana[51].  Si tratterebbe del primo cenno alla volontà di imbarcarsi in un grande progetto di architettura, molti anni prima dell'esordio ufficiale in quest'arte con la facciata per San Lorenzo a Firenze[52].  Il progetto per il tamburo di Santa Maria del Fiore (1507) Nell'estate 1507 Michelangelo fu incaricato dagli Operai di Santa Maria del Fiore di presentare, entro la fine del mese di agosto, un disegno o un modello per il concorso relativo al completamento del tamburo della cupola del Brunelleschi[53]. Secondo Giuseppe Marchini, Michelangelo avrebbe inviato alcuni disegni a un legnaiolo per la costruzione del modello, che lo stesso studioso ha riconosciuto in quello identificato con il numero 143 nella serie conservata presso il Museo dell'Opera del Duomo[54]. Questo presenta un'impostazione sostanzialmente filologica, tesa a mantenere una certa continuità con la preesistenza, mediante l'inserimento di una serie di specchiature rettangolari in marmo verde di Prato allineate ai capitelli delle paraste angolari; era prevista un'alta trabeazione, chiusa da un cornicione dalle forme analoghe a quello di Palazzo Strozzi. Tuttavia questo modello non fu accolto dalla commissione giudicatrice, che successivamente approvò il disegno di Baccio d'Agnolo; il progetto prevedeva l'inserimento di un massiccio ballatoio alla sommità, ma i lavori furono interrotti nel 1515, sia per lo scarso favore ottenuto, sia a causa dell'opposizione di Michelangelo, che, secondo il Vasari, definì l'opera di Baccio d'Agnolo una gabbia per grilli[55].  Intorno al 1516 Michelangelo eseguì alcuni disegni (conservati presso Casa Buonarroti) e fece costruire, probabilmente, un nuovo modello ligneo, identificato, seppur con ampie riserve, col numero 144 nell'inventario del Museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore[56]. Ancora una volta si registra l'abolizione del ballatoio, a favore di un maggiore risalto degli elementi portanti; in particolare un disegno mostra l'inserimento di alte colonne binate libere in corrispondenza degli angoli dell'ottagono, sormontate da una serie di cornici fortemente aggettanti (un'idea che sarà successivamente elaborata anche per la cupola della basilica di San Pietro in Vaticano). Le idee di Michelangelo non furono comunque concretizzate.  A Roma sotto Giulio II (1505-1513)  Ricostruzione ipotetica del primo progetto per la tomba di Giulio II (1505) La tomba di Giulio II, primo progetto (1505) Fu probabilmente Giuliano da Sangallo a raccontare a papa Giulio II Della Rovere, eletto nel 1503, gli strabilianti successi fiorentini di Michelangelo. Papa Giulio infatti si era dedicato a un ambizioso programma di governo che intrecciava saldamente politica e arte, circondandosi dei più grandi artisti viventi (tra cui Bramante e, in seguito, Raffaello) nell'obiettivo di restituire a Roma e alla sua autorità la grandezza del passato imperiale[47].  Chiamato a Roma nel marzo 1505, Michelangelo ottenne il compito di realizzare una sepoltura monumentale per il papa[57], da collocarsi nella tribuna (in via di completamento) della basilica di San Pietro. Artista e committente si accordarono in tempi relativamente brevi (appena due mesi) sul progetto e sul compenso, permettendo a Michelangelo, riscosso un consistente acconto, di dirigersi subito a Carrara per scegliere personalmente i blocchi di marmo da scolpire[58].  Il primo progetto, noto tramite le fonti, prevedeva una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, con una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale, su tutte e quattro le facciate dell'architettura[58].  Il lavoro di scelta ed estrazione dei blocchi richiese otto mesi, dal maggio al dicembre del 1505[58].   Particolare dell'ipotetico profilo della montagna da scolpire come un Colosso, Casa Buonarroti, 44 A[59]  Ricostruzione ipotetica del primo progetto per la tomba di Giulio II (1505)[57] Secondo il fedele biografo Ascanio Condivi, in quel periodo Michelangelo pensò a un grandioso progetto, di scolpire un colosso nella montagna stessa[59], che potesse guidare i naviganti: i sogni di tale irraggiungibile grandezza facevano parte dopotutto della personalità dell'artista e non sono ritenuti frutto della fantasia del biografo, anche per l'esistenza di un'edizione del manoscritto con note appuntate su dettature di Michelangelo stesso (in cui l'opera è definita "una pazzia", ma che l'artista avrebbe realizzato se avesse potuto vivere di più). Nella sua fantasia Michelangelo sognava di emulare gli antichi con progetti che avrebbero richiamato meraviglie come il colosso di Rodi o la statua gigantesca di Alessandro Magno che Dinocrates, citato in Vitruvio, avrebbe voluto modellare nel Monte Athos[51].  Rottura e riconciliazione con il papa (1505-1508) Durante la sua assenza si mise in moto a Roma una sorta di complotto ai danni di Michelangelo, mosso dalle invidie tra gli artisti della cerchia papale. La scia di popolarità che aveva anticipato l'arrivo a Roma dello scultore fiorentino doveva infatti averlo reso subito impopolare tra gli artisti al servizio di Giulio II, minacciando il favore del pontefice e la relativa disposizione dei fondi che, per quanto immensi, non erano infiniti. Pare che fu in particolare il Bramante, architetto di corte incaricato di avviare - pochi mesi dopo la stipula del contratto della tomba - il grandioso progetto di rinnovo della basilica costantiniana, a distogliere l'attenzione del papa dal progetto della sepoltura, giudicata di cattivo auspicio per una persona ancora in vita e nel pieno di ambiziosi progetti[60].   La targa che a Bologna ricorda il soggiorno di Michelangelo del 1506 e la fusione della perduta statua di Giulio II benedicente (1506-1508) Fu così che nella primavera del 1506 Michelangelo, mentre tornava a Roma carico di marmi e di aspettative dopo gli estenuanti mesi di lavoro nelle cave, fece l'amara scoperta che il suo progetto mastodontico non era più al centro degli interessi del papa, accantonato in favore dell'impresa della basilica e di nuovi piani bellici contro Perugia e Bologna[61].  Il Buonarroti chiese invano un'udienza chiarificatrice per avere la conferma della commissione ma, non riuscendo a farsi ricevere nonché sentendosi minacciato (scrisse «s'i' stava a Roma penso che fussi fatta prima la sepoltura mia, che quella del papa»[61]), fuggì da Roma sdegnato e in tutta fretta, il 18 aprile 1506. A niente servirono i cinque corrieri papali mandati per dissuaderlo e tornare indietro, che lo inseguirono raggiungendolo a Poggibonsi. Rintanato nell'amata e protettiva Firenze, riprese alcuni lavori interrotti, come il San Matteo e la Battaglia di Cascina. Ci vollero ben tre brevi del papa inviati alla Signoria di Firenze e le continue insistenze del gonfaloniere Pier Soderini («Noi non vogliamo per te far guerra col papa e metter lo Stato nostro a risico»), perché Michelangelo prendesse infine in considerazione l'ipotesi della riconciliazione[61]. L'occasione venne data dalla presenza del papa a Bologna, dove aveva sconfitto i Bentivoglio: qui l'artista raggiunse il pontefice il 21 novembre 1506 e, in un incontro all'interno del Palazzo D'Accursio, narrato con toni coloriti dal Condivi, ottenne l'incarico di fondere una scultura in bronzo che rappresentasse lo stesso pontefice a figura intera, seduto e in grande dimensione, da collocare al di sopra della Porta Magna di Jacopo della Quercia, nella facciata della basilica civica di San Petronio.[61]  L'artista si fermò quindi a Bologna per il tempo necessario all'impresa, circa due anni. A luglio 1507 avvenne la fusione e il 21 febbraio 1508 l'opera venne scoperta e installata, ma non ebbe vita lunga. Poco amata per l'espressione del papa-conquistatore, più minacciosa che benevolente, fu abbattuta in una notte del 1511, durante il rovesciamento dalla città e il rientro temporaneo dei Bentivoglio[61]. I rottami, quasi cinque tonnellate di metallo, vennero inviati al duca di Ferrara Alfonso d'Este, rivale del papa, che li fuse in una bombarda, battezzata per dileggio la Giulia, mentre la testa bronzea era conservata in un armadio[62]. Una parvenza di come doveva apparire questo bronzo michelangiolesco possiamo averla osservando la scultura di Gregorio XIII, ancora oggi conservata sul portale del vicino Palazzo Comunale, forgiata da Alessandro Menganti nel 1580.  La volta della Cappella Sistina (1508-1512)  Lo stesso argomento in dettaglio: Volta della Cappella Sistina.  La volta della Cappella Sistina (1508-1512) «Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un'idea completa di ciò che un uomo è capace di raggiungere.»  (Johann Wolfgang von Goethe)  I rapporti con Giulio II rimasero comunque sempre tempestosi, per il forte temperamento che li accomunava, irascibile e orgoglioso, ma anche estremamente ambizioso. A marzo del 1508 l'artista si sentiva sciolto dagli obblighi col pontefice, prendendo in affitto una casa a Firenze e dedicandosi ai progetti sospesi, in particolare quello degli Apostoli per la cattedrale. Nell'aprile Pier Soderini gli manifestò la volontà di affidargli una scultura di Ercole e Caco. Il 10 maggio però un breve papale lo raggiunge aggiungendogli di presentarsi alla corte papale[63].  Subito Giulio II decise di occupare l'artista con una nuova, prestigiosa impresa, la ridecorazione della volta della Cappella Sistina[64]. A causa del processo di assestamento dei muri, si era infatti aperta, nel maggio del 1504, una crepa nel soffitto della cappella rendendola inutilizzabile per molti mesi; rinforzata con catene poste nel locale sovrastante da Bramante, la volta aveva bisogno però di essere ridipinta. L'impresa si dimostrava di proporzioni colossali ed estremamente complessa, ma avrebbe dato a Michelangelo l'occasione di dimostrare la sua capacità di superare i limiti in un'arte quale la pittura, che tutto sommato non sentiva come sua e non gli era congeniale. L'8 maggio di quell'anno l'incarico venne dunque accettato e formalizzato[64].  Come nel progetto della tomba, anche l'impresa della Sistina fu caratterizzata da intrighi e invidie ai danni di Michelangelo, che sono documentati da una lettera del carpentiere e capomastro fiorentino Piero Rosselli spedita a Michelangelo il 10 maggio 1506. In essa il Rosselli racconta di una cena servita nelle stanze vaticane qualche giorno prima, a cui aveva assistito. Il papa in quell'occasione aveva confidato a Bramante l'intenzione di affidare a Michelangelo la ridipintura della volta, ma l'architetto urbinate aveva risposto sollevando dubbi sulle reali capacità del fiorentino, scarsamente esperto nell'affresco.  Nel contratto del primo progetto erano previsti dodici apostoli nei peducci, mentre nel campo centrale partimenti con decorazioni geometriche. Di questo progetto rimangono due disegni di Michelangelo, uno al British Museum e uno a Detroit.   Ignudo Insoddisfatto, l'artista ottenne di poter ampliare il programma iconografico, raccontando la storia dell'umanità "ante legem", cioè prima che Dio inviasse le Tavole della Legge: al posto degli Apostoli mise sette Profeti e cinque Sibille, assisi su troni fiancheggiati da pilastrini che sorreggono la cornice; quest'ultima delimita lo spazio centrale, diviso in nove scompartimenti attraverso la continuazione delle membrature architettoniche ai lati di troni; in questi scomparti sono raffigurati episodi tratti della Genesi, disposti in ordine cronologico partendo dalla parete dell'altare: Separazione della luce dalle tenebre, Creazione degli astri e delle piante, Separazione della terra dalle acque, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre, Sacrificio di Noè, Diluvio universale, Ebbrezza di Noè; nei cinque scomparti che sormontano i troni lo spazio si restringe lasciando posto a Ignudi che reggono ghirlande con foglie di quercia, allusione al casato del papa cioè Della Rovere, e medaglioni bronzei con scene tratte dall'Antico Testamento; nelle lunette e nelle vele vi sono le quaranta generazioni degli Antenati di Cristo, riprese dal Vangelo di Matteo; infine nei pennacchi angolari si trovano quattro scene bibliche, che si riferiscono ad altrettanti eventi miracolosi a favore del popolo eletto: Giuditta e Oloferne, Davide e Golia, Punizione di Aman e il Serpente di bronzo. L'insieme è organizzato in un partito decorativo complesso, che rivela le sue indubbie capacità anche in campo architettonico,[65][66] destinate a rivelarsi pienamente negli ultimi decenni della sua attività[67].  Il tema generale degli affreschi della volta è il mistero della Creazione di Dio, che raggiunge il culmine nella realizzazione dell'uomo a sua immagine e somiglianza. Con l'incarnazione di Cristo, oltre a riscattare l'umanità dal peccato originale, si raggiunge il perfetto e ultimo compimento della creazione divina, innalzando l'uomo ancora di più verso Dio. In questo senso appare più chiara la celebrazione che fa Michelangelo della bellezza del corpo umano nudo. Inoltre la volta celebra la concordanza fra Antico e Nuovo Testamento, dove il primo prefigura il secondo, e la previsione della venuta di Cristo in ambito ebraico (con i profeti) e pagano (con le sibille).   Creazione di Adamo[68] Montato il ponteggio Michelangelo iniziò a dipingere le tre storie di Noè gremite di personaggi. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato dall'insoddisfazione di sé tipica dell'artista, dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste di aiuto da parte dei familiari[6]. Nelle scene successive la rappresentazione divenne via via più essenziale e monumentale: il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre e la Creazione di Eva mostrano corpi più massicci e gesti semplici ma retorici; dopo un'interruzione dei lavori, e vista la volta dal basso nel suo complesso e senza i ponteggi, lo stile di Michelangelo cambiò, accentuando maggiormente la grandiosità e l'essenzialità delle immagini, fino a rendere la scena occupata da un'unica grandiosa figura annullando ogni riferimento al paesaggio circostante, come nella Separazione della luce dalle tenebre. Nel complesso della volta queste variazioni stilistiche non si notano, anzi vista dal basso gli affreschi hanno un aspetto perfettamente unitario, dato anche dall'uso di un'unica, violenta cromia, recentemente riportata alla luce dal restauro concluso nel 1994.  In definitiva, la difficile sfida su un'impresa di dimensioni colossali e con una tecnica a lui non congeniale, con il diretto confronto coi grandi maestri fiorentini presso i quali si era formato (a partire da Ghirlandaio), poté dirsi pienamente riuscita oltre ogni aspettativa[64]. Lo straordinario affresco venne inaugurato la vigilia di Ognissanti del 1512[67]. Qualche mese dopo Giulio II moriva.  Il secondo e terzo progetto per la tomba di Giulio II (1513-1516)  Lo stesso argomento in dettaglio: Tomba di Giulio II.  Mosè (1513-1515 circa) Nel febbraio 1513, con la morte del papa, gli eredi decisero di riprendere il progetto della tomba monumentale, con un nuovo disegno e un nuovo contratto nel maggio di quell'anno. Si può immaginare Michelangelo desideroso di riprendere lo scalpello, dopo quattro anni di estenuante lavoro in un'arte che non era la sua prediletta. La modifica più sostanziale del nuovo monumento era l'addossamento a una parete e l'eliminazione della camera mortuaria, caratteristiche che vennero mantenute fino al progetto finale. L'abbandono del monumento isolato, troppo grandioso e dispendioso per gli eredi, comportò un maggiore affollamento di statue sulle facce visibili. Ad esempio le quattro figure sedute, invece che disporsi sulle due facciate, erano adesso previste in prossimità dei due angoli sporgenti sulla fronte. La zona inferiore aveva una partitura analoga, ma senza il portale centrale, sostituito da una fascia liscia che evidenziava l'andamento ascensionale. Lo sviluppo laterale era ancora consistente, poiché era ancora previsto il catafalco in posizione perpendicolare alla parete, sul quale la statua del papa giacente era retta, da due figure alate. Nel registro inferiore invece, su ciascun lato, restava ancora spazio per due nicchie che riprendevano lo schema del prospetto anteriore. Più in alto, sotto una corta volta a tutto sesto retta da pilastri, si trovava una Madonna col Bambino entro una mandorla e altre cinque figure[61].  Tra le clausole contrattuali c'era anche quella che legava l'artista, almeno sulla carta, a lavorare esclusivamente alla sepoltura papale, con un termine massimo di sette anni per il completamento[69].  Lo scultore si mise al lavoro di buona lena e sebbene non rispettò la clausola esclusiva per non precludersi ulteriori guadagni extra (come scolpendo il primo Cristo della Minerva, nel 1514), realizzò i due Prigioni oggi al Louvre (Schiavo morente e Schiavo ribelle) e il Mosè, che poi venne riutilizzato nella versione definitiva della tomba[69]. I lavori vennero spesso interrotti per viaggi alle cave di Carrara.  Nel luglio 1516 si giunse a un nuovo contratto per un terzo progetto, che riduceva il numero delle statue. I lati vennero accorciati e il monumento andava assumendo così l'aspetto di una monumentale facciata, mossa da decorazioni scultoree. Al posto della partitura liscia al centro della facciata (dove si trovava la porta) viene forse previsto un rilievo bronzeo e, nel registro superiore, il catafalco viene sostituito da una figura del papa sorretto come in una Pietà da due figure sedute, coronate da una Madonna col Bambino sotto una nicchia[61]. I lavori alla sepoltura vengono bruscamente interrotti dalla commissione da parte di Leone X dei lavori alla basilica di San Lorenzo[52].  Michelangelo e Sebastiano del Piombo In quegli stessi anni, una competizione sempre più accesa con l'artista dominante della corte papale, Raffaello, lo portò a stringere un sodalizio con un altro talentuoso pittore, il veneziano Sebastiano del Piombo. Occupato da altri incarichi, Michelangelo spesso forniva disegni e cartoni al collega, che li trasformava in pittura. Tra questi ci fu ad esempio la Pietà di Viterbo[70].  Nel 1516 nacque una competizione tra Sebastiano e Raffaello, scatenata da una doppia commissione del cardinale Giulio de' Medici per due pale destinate alla sua sede di Narbona, in Francia. Michelangelo offrì un cospicuo aiuto a Sebastiano, disegnando la figura del Salvatore e del miracolato nella tela della Resurrezione di Lazzaro (oggi alla National Gallery di Londra). L'opera di Raffaello invece, la Trasfigurazione, venne completata solo dopo la scomparsa dell'artista nel 1520[71].  A Firenze per i papi medicei La facciata di San Lorenzo (1516-1519)  Il modello ligneo del progetto di Michelangelo per San Lorenzo Nel frattempo il figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni, era salito al soglio pontificio col nome di Leone X e la città di Firenze era tornata ai Medici nel 1511, comportando la fine del governo repubblicano con alcune apprensioni in particolare per i parenti di Michelangelo, che avevano perso incarichi d'ordine politico e i relativi compensi[72]. Michelangelo lavorò per il nuovo papa fin dal 1514, quando rifece la facciata della sua cappella a Castel Sant'Angelo (dal novembre, opera perduta); nel 1515 la famiglia Buonarroti ottenne dal papa il titolo di conti palatini[73].  In occasione di un viaggio del papa a Firenze nel 1516, la facciata della chiesa "di famiglia" dei Medici, San Lorenzo, era stata ricoperta di apparati effimeri realizzati da Jacopo Sansovino e Andrea del Sarto. Il pontefice decise allora di indire un concorso per realizzare una vera facciata, a cui parteciparono Giuliano da Sangallo, Raffaello, Andrea e Jacopo Sansovino, nonché Michelangelo stesso, su invito del papa. La vittoria andò a quest'ultimo, all'epoca impegnato a Carrara e Pietrasanta per scegliere i marmi per il sepolcro di Giulio II[72]. Il contratto è datato 19 gennaio 1518[73].  Il progetto di Michelangelo, per il quale vennero eseguiti numerosi disegni e ben due modelli lignei (uno è oggi a Casa Buonarroti) prevedeva una struttura a nartece con un prospetto rettangolare, forse ispirato a modelli di architettura classica, scandito da potenti membrature animate da statue in marmo, bronzo e da rilievi. Si sarebbe trattato di un passo fondamentale in architettura verso una concezione nuova di facciata, non più basata sulla mera aggregazione di elementi singoli, ma articolata in modo unitario, dinamico e fortemente plastico[74].  Il lavoro procedette però a rilento, a causa della scelta del papa di servirsi dei più economici marmi di Seravezza, la cui cava era mal collegata col mare, rendendo difficile il loro trasporto per via fluviale fino a Firenze. Nel settembre 1518 Michelangelo sfiorò anche la morte per una colonna di marmo che, durante il trasporto su un carro, si staccò colpendo micidialmente un operaio accanto a lui, un evento che lo sconvolse profondamente, come raccontò in una lettera a Berto da Filicaia datata 14 settembre 1518[75]. In Versilia Michelangelo creò la strada per il trasporto dei marmi, ancora oggi esistente (anche se ampliata nel 1567 da Cosimo I). I blocchi venivano calati dalla cava di Trambiserra ad Azzano, davanti al Monte Altissimo, fino al Forte dei Marmi (insediamento sorto proprio in quell'occasione) e da lì imbarcate in mare e spedite a Firenze tramite l'Arno.  Nel marzo 1520 il contratto fu rescisso, per la difficoltà dell'impresa e i costi elevati. In quel periodo Michelangelo lavorò ai Prigioni per la tomba di Giulio II, in particolare ai quattro incompiuti oggi alla Galleria dell'Accademia. Scolpì probabilmente anche la statua del Genio della Vittoria di Palazzo Vecchio e alla nuova versione del Cristo risorto per Metello Vari (opera portata a Roma nel 1521), rifinita da suoi assistenti e posta nella basilica di Santa Maria sopra Minerva[72]. Tra le commissioni ricevute e non portate a termine c'è una consulenza per Pier Soderini, per una cappella nella chiesa romana di San Silvestro in Capite (1518)[76].  La Sagrestia Nuova (1520-1534)  Lo stesso argomento in dettaglio: Sagrestia Nuova.  Sagrestia Nuova Il mutamento dei desideri papali venne causato dai tragici eventi familiari legati alla morte degli ultimi eredi diretti della dinastia medicea: Giuliano Duca di Nemours nel 1516 e, soprattutto, Lorenzo Duca d'Urbino nel 1519. Per ospitare degnamente i resti dei due cugini, nonché quelli dei fratelli Magnifici Lorenzo e Giuliano, rispettivamente padre e zio di Leone X, il papa maturò l'idea di creare una monumentale cappella funebre, la Sagrestia Nuova, da ospitare nel complesso di San Lorenzo. L'opera venne affidata a Michelangelo prima ancora del definitivo annullamento della commissione della facciata; dopotutto l'artista poco tempo prima, il 20 ottobre 1519, si era offerto al pontefice per realizzare una sepoltura monumentale per Dante in Santa Croce, manifestando quindi la sua disponibilità a nuovi incarichi[72]. La morte di Leone sospese il progetto solo per breve tempo, poiché già nel 1523 venne eletto suo cugino Giulio, che prese il nome di Clemente VII e confermò a Michelangelo tutti gli incarichi[72].  Il primo progetto michelangiolesco era quello di un monumento isolato al centro della sala ma, in seguito a discussioni con i committenti, lo cambiò prevedendo di collocare le tombe dei Capitani addossate al centro delle pareti laterali, mentre quelle dei Magnifici, addossate entrambe alla parete di fondo davanti all'altare.  L'opera venne iniziata nel 1525 circa: la struttura in pianta si rifaceva alla Sagrestia Vecchia, sempre nella chiesa di San Lorenzo, del Brunelleschi: a pianta quadrata e con piccolo sacello anch'esso quadrato. Grazie alle membrature, in pietra serena e a ordine gigante, l'ambiente acquista un ritmo più serrato e unitario; inserendo tra le pareti e le lunette un mezzanino e aprendo tra queste ultime delle finestre architravate, dà alla sala un potente senso ascensionale concluso nella volta a cassettoni di ispirazione antica.  Le tombe che sembrano far parte della parete, riprendono nella parte alta le edicole, che sono inserite sopra le otto porte dell'ambiente, quattro vere e quattro finte. Le tombe dei due capitani si compongono di un sarcofago curvilineo sormontato da due statue distese con le Allegorie del Tempo: in quella di Lorenzo il Crepuscolo e l'Aurora, mentre in quella di Giuliano la Notte e il Giorno. Si tratta di figure massicce e dalle membra poderose che sembrano gravare sui sarcofagi quasi a spezzarli e a liberare le anime dei defunti, ritratti nelle statue inserite sopra di essi. Inserite in una nicchia della parete, le statue non sono riprese dal vero ma idealizzate mentre contemplano: Lorenzo in una posa pensierosa e Giuliano con uno scatto repentino della testa. La statua posta sull'altare con la Madonna Medici è simbolo di vita eterna ed è fiancheggiata dalle statue dei Santi Cosma e Damiano (protettori dei Medici) eseguite su disegno del Buonarroti, rispettivamente da Giovanni Angelo Montorsoli e Raffaello da Montelupo.  All'opera, anche se non continuativamente, Michelangelo lavorò fino al 1534, lasciandola incompiuta: senza i monumenti funebri dei Magnifici, le sculture dei Fiumi alla base delle tombe dei Capitani e, forse, di affreschi nelle lunette. Si tratta comunque di uno straordinario esempio di simbiosi perfetta tra scultura e architettura[77].  Nel frattempo Michelangelo continuava a ricevere altre commissioni che solo in piccola parte eseguiva: nell'agosto 1521 inviò a Roma il Cristo della Minerva, nel 1522 un certo Frizzi gli commissionò una tomba a Bologna e il cardinale Fieschi gli chiese una Madonna scolpita, entrambi progetti mai eseguiti[76]; nel 1523 ricevette nuove sollecitazioni da parte degli eredi di Giulio II, in particolare Francesco Maria Della Rovere, e lo stesso anno gli venne commissionata, senza successo, una statua di Andrea Doria da parte del Senato genovese, mentre il cardinal Grimani, patriarca di Aquileia, gli chiese un dipinto o una scultura mai eseguiti[76]. Nel 1524 papa Clemente gli commissionò la biblioteca Medicea Laurenziana, i cui lavori avviarono a rilento, e un ciborio (1525) per l'altare maggiore di San Lorenzo, sostituito poi dalla Tribuna delle reliquie; nel 1526 si arrivò a una drammatica rottura coi Della Rovere per un nuovo progetto, più semplice, per la tomba di Giulio II, che venne rifiutato[72]. Altre richieste inevase di progetti di tombe gli pervengono dal duca di Suessa e da Barbazzi canonico di San Petronio a Bologna[72].  L'insurrezione e l'assedio (1527-1530)  Copia dalla Leda e il cigno di Michelangelo, alla National Gallery di Londra Un motivo comune nella vicenda biografica di Michelangelo è l'ambiguo rapporto con i propri committenti, che più volte ha fatto parlare di ingratitudine dell'artista verso i suoi patrocinatori. Anche con i Medici il suo rapporto fu estremamente ambiguo: nonostante siano stati loro a spingerlo verso la carriera artistica e a procurargli commissioni di altissimo rilievo, la sua convinta fede repubblicana lo portò a covare sentimenti di odio contro di essi, vedendoli come la principale minaccia contro la libertas fiorentina[77].  Fu così che nel 1527, arrivata in città la notizia del Sacco di Roma e del durissimo smacco inferto a papa Clemente, la città di Firenze insorse contro il suo delegato, l'odiato Alessandro de' Medici, cacciandolo e instaurando un nuovo governo repubblicano. Michelangelo aderì pienamente al nuovo regime, con un appoggio ben oltre il piano simbolico. Il 22 agosto 1528 si mise al servizio del governo repubblicano, riprendendo la vecchia commissione dell'Ercole e Caco (ferma dal 1508), che propose di mutare in un Sansone con due filistei[72]. Il 10 gennaio 1529 venne nominato membro dei "Nove di milizia", occupandosi di nuovi piani difensivi, specie per il colle di San Miniato al Monte[72]. Il 6 aprile di quell'anno riceve l'incarico di "Governatore generale sopra le fortificazioni", in previsione dell'assedio che le forze imperiali si apprestavano a cingere[77]. Visitò appositamente Pisa e Livorno nell'esercizio del proprio ufficio, e si recò anche a Ferrara per studiarne le fortificazioni (qui Alfonso I d'Este gli commissionò una Leda e il cigno, poi andata perduta[76]), rientrando a Firenze il 9 settembre[72]. Preoccupato per l'aggravarsi della situazione, il 21 settembre fuggì a Venezia, in previsione di trasferirsi in Francia alla corte di Francesco I, che però non gli aveva ancora fatto offerte concrete. Qui venne però raggiunto prima dal bando del governo fiorentino che lo dichiarò ribelle, il 30 settembre. Tornò allora nella sua città il 15 novembre, riprendendo la direzione delle fortezze[72].  Di questo periodo rimangono disegni di fortificazione, realizzate attraverso una complicata dialettica di forme concave e convesse che sembrano macchine dinamiche atte all'offesa e alla difesa. Con l'arrivo degli Imperiali a minacciare la città, a lui è attribuita l'idea di usare la platea di San Miniato al Monte come avamposto con cui cannoneggiare sul nemico, proteggendo il campanile dai pallettoni nemici con un'armatura fatta di materassi imbottiti.  Le forze in campo per gli assedianti erano però soverchianti e con la sua disperata difesa la città non poté altro che negoziare un trattato, in parte poi disatteso, che evitasse la distruzione e il saccheggio che pochi anni prima avevano colpito Roma. All'indomani del ritorno dei Medici in città (12 agosto 1530) Michelangelo, che sapeva di essersi fortemente compromesso e temendo quindi una vendetta, si nasconde rocambolescamente e riuscì a fuggire dalla città (settembre 1530), riparando a Venezia[77]. Qui restò brevemente, assalito da dubbi sul da farsi. In questo breve periodo soggiornò all'isola della Giudecca per mantenersi lontano dalla vita sfarzosa dell'ambiente cittadino e leggenda vuole che avesse presentato un modello per il ponte di Rialto al doge Andrea Gritti.   La sala di lettura della Biblioteca Medicea Laurenziana  Lo scalone nel vestibolo della Biblioteca Medicea Laurenziana La Biblioteca Medicea Laurenziana (1530-1534) Il perdono di Clemente VII non si fece però attendere, a patto che l'artista riprendesse immediatamente i lavori a San Lorenzo dove, oltre alla Sagrestia, si era aggiunto cinque anni prima il progetto di una monumentale libreria. È chiaro come il papa fosse mosso, più che dalla pietà verso l'uomo, dalla consapevolezza di non poter rinunciare all'unico artista capace di dare forma ai sogni di gloria della sua dinastia, nonostante la sua indole contrastata[77]. All'inizio degli anni trenta scolpì anche un Apollino per Baccio Valori, il feroce governatore di Firenze imposto dal papa[72].  La biblioteca pubblica, annessa alla chiesa di San Lorenzo, venne interamente progettata dal Buonarroti: nella sala di lettura si rifece al modello della biblioteca di Michelozzo in San Marco, eliminando la divisione in navate e realizzando un ambiente con le mura scandite da finestre sormontate da mezzanini tra pilastrini, tutti con modanature in pietra serena. Disegnò anche i banchi in legno e forse lo schema di soffitto intagliato e pavimento con decorazioni in cotto, organizzati in medesime partiture. Il capolavoro del progetto è il vestibolo, con un forte slancio verticale dato dalle colonne binate che cingono il portale timpanato e dalle edicole sulle pareti.  Solo nel 1558 Michelangelo fornì il modello in argilla per lo scalone, da lui progettato in legno, ma realizzato per volere di Cosimo I de' Medici, in pietra serena: le ardite forme rettilinee e ellittiche, concave e convesse, vengono indicate come una precoce anticipazione dello stile barocco.  Il 1531 fu un anno intenso: eseguì il cartone del Noli me tangere, proseguì i lavori alla Sagrestia e alla Liberia di San Lorenzo e per la stessa chiesa progettò la Tribuna delle reliquie; Inoltre gli vennero chiesti, senza esito, un progetto dal duca di Mantova, il disegno di una casa da Baccio Valori, e una tomba per il cardinale Cybo; le fatiche lo condussero anche a una grave malattia[72].  Nell'aprile 1532 si ebbe il quarto contratto per la tomba di Giulio II, con solo sei statue. In quello stesso anno Michelangelo conobbe a Roma l'intelligente e bellissimo Tommaso de' Cavalieri, con il quale si legò appassionatamente, dedicandogli disegni e composizioni poetiche[72]. Per lui approntò, tra l'altro, i disegni col Ratto di Ganimede e la Caduta di Fetonte, che sembrano precorrere, nella potente composizione e nel tema del compiersi fatale del destino, il Giudizio universale[78]. Rapporti molto tesi ebbe, invece, con il guardarobiere pontificio e Maestro di Camera Pietro Giovanni Aliotti, futuro vescovo di Forlì, che Michelangelo, considerandolo troppo impiccione, chiamava il Tantecose.  Il 22 settembre 1533 incontrò a San Miniato al Tedesco Clemente VII e, secondo la tradizione, in quell'occasione si parlò per la prima volta della pittura di un Giudizio universale nella Sistina[72]. Lo stesso anno morì il padre Ludovico[72].  Nel 1534 gli incarichi fiorentini procedevano ormai sempre più stancamente, con un ricorso sempre maggiore di aiuti[79].  L'epoca di Paolo III (1534-1545) Il Giudizio universale (1534-1541)  Giudizio universale  Cristo, dettaglio del Giudizio universale L'artista non approvava il regime politico tiranneggiante del duca Alessandro, per cui con l'occasione di nuovi incarichi a Roma, tra cui il lavoro per gli eredi di Giulio II, lasciò Firenze dove non mise mai più piede, nonostante gli accattivanti inviti di Cosimo I negli anni della vecchiaia[79].  Clemente VII gli aveva commissionato la decorazione della parete di fondo della Cappella Sistina con il Giudizio universale, ma non fece in tempo a vedere nemmeno l'inizio dei lavori, perché morì pochi giorni dopo l'arrivo dell'artista a Roma. Mentre l'artista riprendeva la Sepoltura di papa Giulio, venne eletto al soglio pontificio Paolo III, che non solo confermò l'incarico del Giudizio, ma nominò anche Michelangelo pittore, scultore e architetto del Palazzo Vaticano[72].  I lavori alla Sistina poterono essere avviati alla fine del 1536, per proseguire fino all'autunno del 1541. Per liberare l'artista dagli incarichi verso gli eredi Della Rovere Paolo III arrivò a emettere un motu proprio il 17 novembre 1536[72]. Se fino ad allora i vari interventi alla cappella papale erano stati coordinati e complementari, con il Giudizio si assistette al primo intervento distruttivo, che sacrificò la pala dell'Assunta di Perugino, le prime due storie quattrocentesche di Gesù e di Mosè e due lunette dipinte dallo stesso Michelangelo più di vent'anni prima[79].  Al centro dell'affresco vi è il Cristo giudice con vicino la Madonna che rivolge lo sguardo verso gli eletti; questi ultimi formano un'ellissi che segue i movimenti del Cristo in un turbine di santi, patriarchi e profeti. A differenza delle rappresentazioni tradizionale, tutto è caos e movimento, e nemmeno i santi sono esentati dal clima di inquietudine, attesa, se non paura e sgomento che coinvolge espressivamente i partecipanti.  Le licenze iconografiche, come i santi senza aureola, gli angeli apteri e il Cristo giovane e senza barba, possono essere allusioni al fatto che davanti al giudizio ogni singolo uomo è uguale. Questo fatto, che poteva essere letto come un generico richiamo ai circoli della Riforma Cattolica, unitamente alla nudità e alla posa sconveniente di alcune figure (santa Caterina d'Alessandria prona con alle spalle san Biagio), scatenarono contro l'affresco i severi giudizi di buona parte della curia. Dopo la morte dell'artista, e col mutato clima culturale dovuto anche al Concilio di Trento, si arrivò al punto di provvedere al rivestimento dei nudi e alla modifica delle parti più sconvenienti.  Una statua equestre Nel 1537, verso febbraio, il duca d'Urbino Francesco Maria I Della Rovere gli chiese un abbozzo per un cavallo destinato forse a un monumento equestre, che risulta completato il 12 ottobre. L'artista però si rifiutò di inviare il progetto al duca, poiché insoddisfatto. Dalla corrispondenza si apprende anche che entro i primi di luglio Michelangelo gli aveva progettato anche una saliera: la precedenza del duca rispetto a tante commissioni inevase di Michelangelo è sicuramente legata alla pendenza dei lavori alla tomba di Giulio II, di cui Francesco Maria era erede[76].  Quello stesso anno a Roma riceve la cittadinanza onoraria in Campidoglio[76].  Piazza del Campidoglio  Piazza del Campidoglio in una stampa di Étienne Dupérac (1568) Paolo III, al pari dei suoi predecessori, fu un entusiasta committente di Michelangelo[79].  Con il trasferimento sul Campidoglio della statua equestre di Marco Aurelio, simbolo dell'autorità imperiale e per estensione della continuità tra la Roma imperiale e quella papale, il papa incaricò Michelangelo, nel 1538, di studiare la ristrutturazione della piazza, centro dell'amministrazione civile romana fin dal Medioevo e in stato di degrado[76].  Tenendo conto delle preesistenze vennero mantenuti e trasformati i due edifici esistenti, già ristrutturati nel XV secolo da Rossellino, realizzando di conseguenza la piazza a pianta trapezoidale con sullo sfondo il palazzo dei Senatori, dotato di scala a doppia rampa, e delimitata ai lati da due palazzi: il Palazzo dei Conservatori e il cosiddetto Palazzo Nuovo costruito ex novo, entrambi convergenti verso la scalinata di accesso al Campidoglio. Gli edifici vennero caratterizzati da un ordine gigante a pilastri corinzi in facciata, con massicce cornici e architravi. Al piano terra degli edifici laterali i pilastri dell'ordine gigante sono affiancati da colonne che formano un insolito portico architravato, in un disegno complessivo molto innovativo che rifugge programmaticamente dall'uso dell'arco. Il lato interno del portico presenta invece colonne alveolate che in seguito ebbero una grande diffusione[80]. I lavori furono compiuti molto dopo la morte del maestro, mentre la pavimentazione della piazza fu realizzata solo ai primi del Novecento, utilizzando una stampa di Étienne Dupérac che riporta quello che doveva essere il progetto complessivo previsto da Michelangelo, secondo un reticolo curvilineo inscritto in un'ellisse con al centro il basamento ad angoli smussati per la statua del Marc'Aurelio, anch'esso disegnato da Michelangelo.  Verso il 1539 iniziò forse il Bruto per il cardinale Niccolò Ridolfi, opera dai significati politici legata ai fuorusciti fiorentini[72].  La Crocifissione per Vittoria Colonna (1541)  La copia della Crocifissione per Vittoria Colonna di Marcello Venusti Dal 1537 circa Michelangelo aveva iniziato la vivida amicizia con la marchesa di Pescara Vittoria Colonna: essa lo introdusse al circolo viterbese del cardinale Reginald Pole, frequentato, tra gli altri, da Vittore Soranzo, Apollonio Merenda, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua, Alvise Priuli e la contessa Giulia Gonzaga.  In quel circolo culturale si aspirava a una riforma della Chiesa cattolica, sia interna sia nei confronti del resto della Cristianità, alla quale avrebbe dovuto riconciliarsi. Queste teorie influenzarono Michelangelo e altri artisti. Risale a quel periodo la Crocifissione realizzata per Vittoria, databile al 1541 e forse dispersa, oppure mai dipinta. Di quest'opera ci restano solamente alcuni disegni preparatori di incerta attribuzione, il più famoso è senz'altro quello conservato al British Museum, mentre buone copie si trovano nella concattedrale di Santa Maria de La Redonda e alla Casa Buonarroti. Inoltre esiste una tavola dipinta, la Crocefissione di Viterbo, tradizionalmente attribuita a Michelangelo, sulla base di un testamento di un conte viterbese datato al 1725, esposta nel Museo del Colle del Duomo di Viterbo, più ragionevolmente attribuibile ad ambiente michelangiolesco[81].  Secondo i progetti raffigurava un giovane e sensuale Cristo, simboleggiante un'allusione alle teorie riformiste cattoliche che vedevano nel sacrificio del sangue di Cristo l'unica via di salvezza individuale, senza intermediazioni della Chiesa e dei suoi rappresentanti.  Uno schema analogo presentava anche la cosiddetta Pietà per Vittoria Colonna, dello stesso periodo, nota da un disegno a Boston e da alcune copie di allievi.  In quegli anni a Roma Michelangelo poteva quindi contare su una sua cerchia di amici ed estimatori, tra cui oltre alla Colonna, Tommaso de' Cavalieri e artisti quali Tiberio Calcagni e Daniele da Volterra[79].  Cappella Paolina (1542-1550)  La Conversione di Saulo, dettaglio Nel 1542 il papa gli commissionò quella che rappresenta la sua ultima opera pittorica, dove ormai anziano lavorò per quasi dieci anni, in contemporanea ad altri impegni[79]. Il papa Farnese, geloso e seccato del fatto che il luogo ove la celebrazione di Michelangelo pittore raggiungesse i suoi massimi livelli fosse dedicato ai papi Della Rovere, gli affidò la decorazione della sua cappella privata in Vaticano che prese il suo nome (Cappella Paolina). Michelangelo realizzò due affreschi, lavorando da solo con faticosa pazienza, procedendo con piccole "giornate", fitte di interruzioni e pentimenti.  Il primo a essere realizzato, la Conversione di Saulo (1542-1545), presenta una scena inserita in un paesaggio spoglio e irreale, con compatti grovigli di figure alternati a spazi vuoti e, al centro, la luce accecante che da Dio scende su Saulo a terra; il secondo, il Martirio di san Pietro (1545-1550), ha una croce disposta in diagonale in modo da costituire l'asse di un ipotetico spazio circolare con al centro il volto del martire.  L'opera nel suo complesso è caratterizzata da una drammatica tensione e improntata a un sentimento di mestizia, generalmente interpretata come espressione della religiosità tormentata di Michelangelo e del sentimento di profondo pessimismo che caratterizza l'ultimo periodo della sua vita.  La conclusione dei lavori alla tomba di Giulio II (1544-1545)  La Tomba di Giulio II Dopo gli ultimi accordi del 1542, la tomba di Giulio II venne posta in essere nella chiesa di San Pietro in Vincoli tra il 1544 e il 1545 con le statue del Mosè, di Lia (Vita attiva) e di Rachele (Vita contemplativa) nel primo ordine.  Nel secondo ordine, al fianco del pontefice disteso con sopra la Vergine col Bambino si trovano una Sibilla e un Profeta. Anche questo progetto risente dell'influsso del circolo di Viterbo; Mosè uomo illuminato e sconvolto dalla visione di Dio è affiancato da due modi di essere, ma anche da due modi di salvezza non necessariamente in conflitto tra di loro: la vita contemplativa viene rappresentata da Rachele che prega come se per salvarsi usasse unicamente la Fede, mentre la vita attiva, rappresentata da Lia, trova la sua salvezza nell'operare. L'interpretazione comune dell'opera d'arte è che si tratti di una specie di posizione di mediazione tra Riforma e Cattolicesimo dovuta sostanzialmente alla sua intensa frequentazione con Vittoria Colonna e il suo entourage.  Nel 1544 disegnò anche la tomba di Francesco Bracci, nipote di Luigi del Riccio nella cui casa aveva ricevuto assistenza durante una grave malattia che l'aveva colpito in giugno[72]. Per tale indisposizione, nel marzo aveva rifiutato a Cosimo I de' Medici l'esecuzione di un busto[76]. Lo stesso anno avviarono i lavori al Campidoglio, progettati nel 1538[76].  Vecchiaia (1546-1564) Gli ultimi decenni di vita di Michelangelo sono caratterizzati da un progressivo abbandono della pittura e anche della scultura, esercitata ormai solo in occasione di opere di carattere privato. Prendono consistenza invece numerosi progetti architettonici e urbanistici, che proseguono sulla strada della rottura del canone classico, anche se molti di essi vennero portati a termine in periodi seguenti da altri architetti, che non sempre rispettarono il suo disegno originale[79].  Palazzo Farnese (1546-1550)  La facciata di Palazzo Farnese A gennaio 1546 Michelangelo si ammalò, venendo curato in casa di Luigi del Riccio. Il 29 aprile, ripresosi, promise una statua in bronzo, una in marmo e un dipinto a Francesco I di Francia, che però non riuscì a fare[76].  Con la morte di Antonio da Sangallo il Giovane nell'ottobre 1546, a Michelangelo vennero affidate le fabbriche di Palazzo Farnese e della basilica di San Pietro, entrambe lasciate incompiute dal primo[72].  Tra il 1547 e il 1550 l'artista progettò dunque il completamento della facciata e del cortile di Palazzo Farnese: nella facciata variò, rispetto al progetto del Sangallo, alcuni elementi che danno all'insieme una forte connotazione plastica e monumentale ma al tempo stesso dinamica ed espressiva. Per ottenere questo risultato accrebbe in altezza il secondo piano, inserì un massiccio cornicione e sormontò il finestrone centrale con uno stemma colossale (i due ai lati sono successivi).  Basilica di San Pietro in Vaticano (1546-1564)  Progetto per la basilica vaticana nell'incisione di Étienne Dupérac Per quanto riguarda la basilica vaticana, la storia del progetto michelangiolesco è ricostruibile da una serie di documenti di cantiere, lettere, disegni, affreschi e testimonianze dei contemporanei, ma diverse informazioni sono in contrasto tra loro. Infatti, Michelangelo non redasse mai un progetto definitivo per la basilica, preferendo procedere per parti[82]. In ogni caso, subito dopo la morte dell'artista toscano furono pubblicate diverse stampe nel tentativo di restituire una visione complessiva del disegno originario; le incisioni di Étienne Dupérac si imposero subito come le più diffuse e accettate[83].  Michelangelo pare che aspirasse al ritorno alla pianta centrale del Bramante, con un quadrato inscritto nella croce greca, rifiutando sia la pianta a croce latina introdotta da Raffaello Sanzio, sia i disegni del Sangallo, che prevedevano la costruzione di un edificio a pianta centrale preceduto da un imponente avancorpo.  Demolì parti realizzate dai suoi predecessori e, rispetto alla perfetta simmetria del progetto bramantesco, introdusse un asse preferenziale nella costruzione, ipotizzando una facciata principale schermata da un portico composto da colonne d'ordine gigante (non realizzato). Per la massiccia struttura muraria, che doveva correre lungo tutto il perimetro della fabbrica, ideò un unico ordine gigante a paraste corinzie con attico, mentre al centro della costruzione costruì un tamburo, con colonne binate (sicuramente realizzato dall'artista), sul quale fu innalzata la cupola emisferica a costoloni conclusa da lanterna (la cupola fu completata, con alcune differenze rispetto al presunto modello originario, da Giacomo Della Porta).  Tuttavia, la concezione michelangiolesca fu in gran parte stravolta da Carlo Maderno, che all'inizio del XVII secolo completò la basilica con l'aggiunta di una navata longitudinale e di un'imponente facciata sulla base delle spinte della Controriforma.  Nel 1547 morì Vittoria Colonna, poco dopo la scomparsa dell'altro amico Luigi del Riccio: si tratta di perdite molto amare per l'artista[72]. L'anno successivo, il 9 gennaio 1548 muore suo fratello Giovansimone Buonarroti. Il 27 agosto il Consiglio municipale di Roma propose di affidare all'artista il restauro del ponte di Santa Maria. Nel 1549 Benedetto Varchi pubblicò a Firenze "Due lezzioni", tenute su un sonetto di Michelangelo[72]. Nel gennaio del 1551 alcuni documenti della cattedrale di Padova accennano a un modello di Michelangelo per il coro[76].  La serie delle Pietà (1550-1555 circa)  La Pietà Bandini  La Pietà Rondanini Dal 1550 circa iniziò a realizzare la cosiddetta Pietà dell'Opera del Duomo (dalla collocazione attuale nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze), opera destinata alla sua tomba e abbandonata dopo che l'artista frantumò, in un accesso d'ira due o tre anni più tardi, il braccio e la gamba sinistra del Cristo, spezzando anche la mano della Vergine. Fu in seguito Tiberio Calcagni a ricostruire il braccio e rifinire la Maddalena lasciata dal Buonarroti allo stato di non-finito: il gruppo costituito dal Cristo sorretto dalla Vergine, dalla Maddalena e da Nicodemo è disposto in modo piramidale con al vertice quest'ultimo; la scultura viene lasciata a diversi gradi di finitura con la figura del Cristo allo stadio più avanzato. Nicodemo sarebbe un autoritratto del Buonarroti, dal cui corpo sembra uscire la figura del Cristo: forse un riferimento alla sofferenza psicologica che lui, profondamente religioso, portava dentro di sé in quegli anni.  La Pietà Rondanini venne definita, nell'inventario di tutte le opere rinvenute nel suo studio dopo la morte, come: "Un'altra statua principiata per un Cristo et un'altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite".  Michelangelo nel 1561 donò la scultura al suo servitore Antonio del Francese continuando però ad apportarvi modifiche sino alla morte; il gruppo è costituito da parti condotte a termine, come il braccio destro di Cristo, e da parti non finite, come il torso del Salvatore schiacciato contro il corpo della Vergine quasi a formare un tutt'uno. Successivamente alla scomparsa di Michelangelo, in un periodo imprecisato, questa scultura fu trasferita nel palazzo Rondanini di Roma e da questi ha mutuato il nome. Attualmente si trova nel Castello Sforzesco, acquistata nel 1952 dalla città di Milano da una proprietà privata[84].  Le biografie Nel 1550 uscì la prima edizione delle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari che conteneva una biografia di Michelangelo, la prima scritta di un artista vivente, in posizione conclusiva dell'opera che celebrava l'artista come vertice di quella catena di grandi artefici che partiva da Cimabue e Giotto, raggiungendo nella sua persona la sintesi di perfetta padronanza delle arti (pittura, scultura e architettura) in grado non solo di rivaleggiare ma anche di superare i mitici maestri dell'antichità[85].  Nonostante le premesse celebrative ed encomiastiche, Michelangelo non gradì l'operazione, per le numerose scorrettezze e soprattutto per una versione a lui non congeniale della tormentata vicenda della tomba di Giulio II. L'artista allora in quegli anni lavorò con un suo fedele collaboratore, Ascanio Condivi, facendo pubblicare una nuova biografia che riportava la sua versione dei fatti (1553). A questa attinse Vasari, oltre che in seguito a una sua diretta frequentazione dell'artista negli ultimi anni di vita, per la seconda edizione delle Vite, pubblicata nel 1568[85].  Queste opere alimentarono la leggenda dell'artista, quale genio tormentato e incompreso, spinto oltre i propri limiti dalle condizioni avverse e dalle mutevoli richieste dei committenti, ma capace di creare opere titaniche e insuperabili[79]. Mai avvenuto fino ad allora era poi che questa leggenda si formasse quando ancora l'interessato era in vita[79]. Nonostante questa invidiabile posizione raggiunta dal Buonarroti in vecchiaia, gli ultimi anni della sua esistenza sono tutt'altro che tranquilli, animati da una grande tribolazione interiore e da riflessioni tormentate sulla fede, la morte e la salvezza, che si trovano anche nelle sue opere (come le Pietà) e nei suoi scritti[79].  Altri avvenimenti degli anni cinquanta Nel 1550 Michelangelo aveva terminato gli affreschi alla Cappella Paolina e nel 1552 era stato completato il Campidoglio. In quell'anno l'artista fornì anche il disegno per la scala nel cortile del Belvedere in Vaticano. In scultura lavorò alla Pietà e in letteratura si occupa delle proprie biografie[72].  Nel 1554 Ignazio di Loyola dichiarò che Michelangelo aveva accettato di progettare la nuova chiesa del Gesù a Roma, ma il proposito non ebbe seguito[76]. Nel 1555 l'elezione al soglio pontificio di Marcello II compromise la presenza dell'artista a capo del cantiere di San Pietro, ma subito dopo venne eletto Paolo IV, che lo confermò nell'incarico, indirizzandolo soprattutto ai lavori alla cupola. Sempre nel 1555 morirono suo fratello Gismondo e Francesco Amadori detto l'Urbino che lo aveva servito per ventisei anni[72]; una lettera a Vasari di quell'anno gli dà istruzioni per il compimento del ricetto della Libreria Laurenziana[76].  Nel settembre 1556 l'avvicinarsi dell'esercito spagnolo indusse l'artista ad abbandonare Roma per riparare a Loreto. Mentre faceva sosta a Spoleto venne raggiunto da un appello pontificio che lo obbligò a tornare indietro[72]. Al 1557 risale il modello ligneo per la cupola di San Pietro e nel 1559 fece disegni per la basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini, nonché per la cappella Sforza in Santa Maria Maggiore e per la scalinata della Biblioteca Medicea Laurenziana. Forse quell'anno avviò anche la Pietà Rondanini[72].  Porta Pia a Roma (1560)  Porta Pia Nel 1560 fece un disegno a Caterina de' Medici per la tomba di Enrico II. Inoltre lo stesso anno progetto la tomba di Giangiacomo de' Medici per il Duomo di Milano, eseguita poi da Leone Leoni[72].  Verso il 1560 progettò anche la monumentale Porta Pia, vera e propria scenografia urbana con la fronte principale verso l'interno della città. Il portale con frontone curvilineo interrotto e inserito in un altro triangolare è fiancheggiato da paraste scanalate, mentre sul setto murario ai lati si aprono due finestre timpanate, con al di sopra altrettanti mezzanini ciechi. Dal punto di vista del linguaggio architettonico, Michelangelo manifestò uno spirito sperimentale e anticonvenzionale tanto che si è parlato di "anticlassicismo"[86].  Santa Maria degli Angeli (1561)  Santa Maria degli Angeli; praticamente del progetto di Michelangelo sono visibili solo le volte Ormai vecchio, Michelangelo progettò nel 1561 una ristrutturazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli all'interno delle Terme di Diocleziano e dell'adiacente convento dei padri certosini, avviati a partire dal 1562. Lo spazio della chiesa fu ottenuto con un intervento che, dal punto di vista murario, oggi si potrebbe definire minimale[87], con pochi setti di muro nuovi entro il grande spazio voltato del tepidarium delle terme, aggiungendo solo un profondo presbiterio e dimostrando un atteggiamento moderno e non distruttivo nei confronti dei resti archeologici.  La chiesa ha un insolito sviluppo trasversale, sfruttando tre campate contigue coperte a crociera, a cui sono aggiunte due cappelle laterali quadrate.  Console dell'Accademia delle Arti del Disegno Il 31 gennaio 1563 Cosimo I de' Medici fondò, su consiglio dell'architetto aretino Giorgio Vasari, l'Accademia e Compagnia dell'Arte del Disegno di cui viene subito eletto console proprio il Buonarroti. Mentre la Compagnia era una sorta di corporazione cui dovevano aderire tutti gli artisti operanti in Toscana, l'Accademia, costituita solo dalle più eminenti personalità culturali della corte di Cosimo, aveva finalità di tutela e supervisione sull'intera produzione artistica del principato mediceo. Si trattava dell'ultimo, accattivante invito rivolto a Michelangelo da parte di Cosimo per farlo tornare a Firenze, ma ancora una volta l'artista declinò: la sua radicata fede repubblicana doveva probabilmente renderlo incompatibile col servizio al nuovo duca fiorentino[79].  La morte  La tomba di Michelangelo in Santa Croce A un solo anno dalla nomina, il 18 febbraio 1564, quasi ottantanovenne, Michelangelo morì a Roma, nella sua modesta residenza di piazza Macel de' Corvi (distrutta quando venne creato il monumento a Vittorio Emanuele II), assistito da Tommaso de' Cavalieri. Si dice che fino a tre giorni prima avesse lavorato alla Pietà Rondanini[79]. Pochi giorni prima, il 21 gennaio, la Congregazione del Concilio di Trento aveva deciso di far coprire le parti "oscene" del Giudizio universale.  Nell'inventario redatto qualche giorno dopo il decesso (19 febbraio) sono registrati pochi beni, tra cui la Pietà, due piccole sculture di cui si ignorano le sorti (un San Pietro e un piccolo Cristo portacroce), dieci cartoni, mentre i disegni e gli schizzi pare che fossero stati bruciati poco prima di morire dal maestro stesso. In una cassa viene poi ritrovato un cospicuo "tesoretto", degno di un principe, che nessuno si sarebbe immaginato in un'abitazione tanto povera[76].  Le solenni esequie a Firenze La morte del maestro venne particolarmente sentita a Firenze, poiché la città non era riuscita a onorare il suo più grande artista prima della morte, nonostante i tentativi di Cosimo. Il recupero dei suoi resti mortali e la celebrazione di esequie solenni divenne quindi un'assoluta priorità cittadina[88]. A pochi giorni dalla morte, suo nipote Lionardo Buonarroti arrivò a Roma col preciso compito di recuperare la salma e organizzarne il trasporto, un'impresa forse ingigantita dal resoconto del Vasari nella seconda edizione delle Vite: secondo lo storico aretino i romani si sarebbero opposti alle sue richieste, desiderando inumare l'artista nella basilica di San Pietro, al che Lionardo avrebbe trafugato il corpo di notte e in gran segreto prima di riprendere la strada per Firenze[89].  Appena arrivata nella città toscana (11 marzo 1564), la bara venne portata in Santa Croce e ispezionata secondo un complesso cerimoniale, stabilito dal luogotenente dell'Accademia delle Arti del Disegno, Vincenzo Borghini. Si trattò del primo atto funebre (12 marzo) che, per quanto solenne, venne presto superato da quello del 14 luglio 1564 in San Lorenzo, patrocinato dalla casata ducale e degno più di un principe che di un artista. L'intera basilica venne addobbata riccamente con drappi neri e di tavole dipinte con episodi della sua vita; al centro venne predisposto un catafalco monumentale, ornato di pitture e sculture effimere, dalla complessa iconografia. L'orazione funebre venne scritta e letta da Benedetto Varchi, che esaltò "le lodi, i meriti, la vita e l'opere del divino Michelangelo Buonarroti"[89].  L'inumazione avvenne infine in Santa Croce, in un sepolcro monumentale disegnato da Giorgio Vasari, composto da tre figure piangenti che rappresentano la pittura, la scultura e l'architettura[89].  I funerali di Stato suggellarono lo status raggiunto dall'artista e furono la consacrazione definitiva del suo mito, come artefice insuperabile, capace di raggiungere vertici creativi in qualunque campo artistico e, più di quelli di qualunque altro, capaci di emulare l'atto della creazione divina.  Arma Stemma Blasonatura Cimiero D'azzurro a due cotisse d'oro, e il capo d'Angiò cucito, abbassato sotto un altro capo d'oro, caricato di una palla d'azzurro marcata di un giglio d'oro in mezzo alle lettere L. X. per concessione di papa Leone X. Un cane uscente con un osso in bocca. Rime  Frontespizio delle Rime, edizione 1960  Un sonetto sulle fatiche alla volta della Sistina, copiato in bella e con uno schizzo autografo Da lui considerata come una "cosa sciocca", la sua attività poetica si viene caratterizzando, a differenza di quella usuale nel Cinquecento influenzata dal Petrarca, da toni energici, austeri e intensamente espressivi, ripresi dalle poesie di Dante.  I più antichi componimenti poetici datano agli anni 1504-1505, ma è probabile che ne abbia realizzati anche in precedenza, dato che sappiamo che molti suoi manoscritti giovanili andarono perduti.  La sua formazione poetica avvenne probabilmente sui testi di Petrarca e Dante, conosciuti nella cerchia umanistica della corte di Lorenzo de' Medici. I primi sonetti sono legati a vari temi collegati al suo lavoro artistico, a volte raggiungono il grottesco con immagini e metafore bizzarre. Successivi sono i sonetti realizzati per Vittoria Colonna e per Tommaso de' Cavalieri; in essi Michelangelo si concentra maggiormente sul tema neoplatonico dell'amore, sia divino sia umano, che viene tutto giocato intorno al contrasto tra amore e morte, risolvendolo con soluzioni ora drammatiche, ora ironicamente distaccate.  Negli ultimi anni le sue rime si focalizzano maggiormente sul tema del peccato e della salvezza individuale; qui il tono diventa amaro e a volte angoscioso, tanto da realizzare vere e proprie visioni mistiche del divino.  «Di giorno in giorno insin da' mie prim'anni, Signor, soccorso tu mi fusti e guida, onde l'anima mia ancor si fida di doppia aita ne' mie doppi affanni[90].»  Le rime di Michelangelo incontrarono una certa fortuna negli Stati Uniti, nell'Ottocento, dopo la loro traduzione da parte del grande filosofo Ralph Waldo Emerson.  La tecnica scultorea di Michelangelo  Schizzo esplicativo per cavatori con blocchi e misure, Casa Buonarroti Da un punto di vista tecnico, Michelangelo scultore, come d'altronde spesso accade negli artisti geniali, non seguiva un processo creativo legato a regole fisse; ma in linea di massima sono comunque tracciabili dei principi consueti o più frequenti[91].  Innanzitutto Michelangelo fu il primo scultore che, nella pietra, non tentò mai di colorire né di dorare alcune parti delle statue; al colore preferiva infatti l'esaltazione del "morbido fulgore"[92] della pietra, spesso con effetti di chiaroscuro evidenti nelle statue rimaste prive dell'ultima finitura, con i colpi di scalpello che esaltano la peculiarità della materia marmorea[91].  Gli unici bronzi da lui eseguiti sono distrutti o perduti (il David De Rohan e il Giulio II benedicente); l'esiguità del ricorso a tale materiale mostra con evidenza come egli non amasse gli effetti "atmosferici" derivati dal modellare l'argilla. Egli dopotutto si dichiarava artista "del levare", piuttosto che "del mettere", cioè per lui la figura finale nasceva da un processo di sottrazione della materia fino al nucleo del soggetto scultoreo, che era come già "imprigionato" nel blocco di marmo. In tale materiale finito egli trovava il brillio pacato delle superfici lisce e limpide, che erano le più idonee per valorizzare l'epidermide delle solide muscolature dei suoi personaggi[91].  Studi preparatori  Studio per un dio fluviale nel blocco di marmo, 1520-1525, British Museum Il procedimento tecnico con cui Michelangelo scolpiva ci è noto da alcune tracce in studi e disegni e da qualche testimonianza. Pare che inizialmente, secondo l'uso degli scultori cinquecenteschi, predisponesse studi generali e particolari in forma di schizzo e studio. Istruiva poi personalmente i cavatori con disegni (in parte ancora esistenti) che fornissero un'idea precisa del blocco da tagliare, con misure in cubiti fiorentini, talora arrivando a delineare la posizione della statua entro il blocco stesso. A volte oltre ai disegni preparatori eseguiva dei modellini in cera o argilla, cotti o no, oggetto di alcune testimonianze, seppure indirette, e alcuni dei quali si conservano ancora oggi, sebbene nessuno sia sicuramente documentato. Più raro è invece, pare, il ricorso a un modello nelle dimensioni definitive, di cui resta però l'isolata testimonianza del Dio fluviale[91].  Col passare degli anni però dovette assottigliare gli studi preparatori in favore di un attacco immediato alla pietra mosso da idee urgenti, suscettibili tuttavia di essere profondamente mutate nel corso del lavoro (come nella Pietà Rondanini)[91].  Preparazione del blocco  Il Giorno, dettaglio  Il Crepuscolo, dettaglio  Tondo Pitti, dettaglio Il primo intervento sul blocco uscito dalla cava avveniva con la "cagnaccia", che smussava le superfici lisce e geometriche a seconda dell'idea da realizzare. Pare che solo dopo questo primo appropriarsi del marmo Michelangelo tracciasse sulla superficie resa irregolare un rudimentale segno col carboncino che evidenziava la veduta principale (cioè frontale) dell'opera. La tecnica tradizionale prevedeva l'uso di quadrati o rettangoli proporzionali per riportare le misure dei modellini a quelle definitive, ma non è detto che Michelangelo facesse tale operazione a occhio. Un altro procedimento delle fasi iniziali dello scolpire era quello di trasformare la traccia a carboncino in una serie di forellini che guidassero l'affondo via via che il segno a matita scompariva[91].  Sbozzatura A questo punto aveva inizio la vera e propria scolpitura, che intaccava il marmo a partire dalla veduta principale, lasciando intatte le parti più sporgenti e addentrandosi man mano negli strati più profondi. Questa operazione avveniva con un mazzuolo e con un grosso scalpello a punta, la subbia. Esiste una preziosa testimonianza di B. de Vigenère[93], che vide il maestro, ormai ultrasessantenne, accostarsi a un blocco in tale fase: nonostante l'aspetto "non dei più robusti" di Michelangelo, egli è ricordato mentre butta giù «scaglie di un durissimo marmo in un quarto d'ora», meglio di quanto avrebbero potuto fare tre giovani scalpellini in un tempo tre o quattro volte maggiore, e si avventa «al marmo con tale impeto e furia, da farmi credere che tutta l'opera dovesse andare in pezzi. Con un solo colpo spiccava scaglie grosse tre o quattro dita, e con tanta esattezza al segno tracciato, che se avesse fatto saltar via un tantin più di marmo correva il rischio di rovinar tutto»[91].  Sul fatto che il marmo dovesse essere "attaccato" dalla veduta principale restano le testimonianze di Vasari e Cellini, due devoti a Michelangelo, che insistono con convinzione sul fatto che l'opera dovesse essere lavorata inizialmente come se fosse un rilievo, ironizzando sul procedimento di avviare tutti i lati del blocco, trovandosi poi a constatare come le vedute laterali e tergale non coincidano con quella frontale, richiedendo quindi "rattoppi" con pezzi di marmo, secondo un procedimento che «è arte da certi ciabattini, i quali la fanno assai malamente»[94]. Sicuramente Michelangelo non usò "rattoppamenti", ma non è da escludere che durante lo sviluppo della veduta frontale egli non trascurasse le vedute secondarie, che ne erano diretta conseguenza. Tale procedimento è evidente in alcune opere non finite, come i celebri Prigioni che sembrano liberarsi dalla pietra[91].  Scolpitura e livellatura Dopo che la subbia aveva eliminato molto materiale, si passava alla ricerca in profondità, che avveniva tramite scalpelli dentati: Vasari ne descrisse di due tipi, il calcagnuolo, tozzo e dotato di una tacca e due denti, e la gradina, più fine e dotata di due tacche e tre o più denti. A giudicare dalle tracce superstiti, Michelangelo doveva preferire la seconda, con la quale lo scolpire procede «per tutto con gentilezza, gradinando la figura con la proporzione de' muscoli e delle pieghe»[95]. Si tratta di quei tratteggi ben visibili in varie opere michelangiolesche (si pensi al viso del Bambino nel Tondo Pitti), che spesso convivono accanto a zone appena sbozzate con la subbia o alle più semplici personalizzazioni iniziali del blocco (come nel San Matteo)[91].  La fase successiva consisteva nella livellatura con uno scalpello piano, che eliminava le tracce della gradina (una fase a metà dell'opera si vede nel Giorno), a meno che tale operazione non venisse fatta con la gradina stessa[91].  Rifinitura Appare evidente che il maestro, nell'impazienza di vedere palpitare le forme ideate, passasse da un'operazione all'altra, attuando contemporaneamente le diverse fasi operative. Restando sempre evidente la logica superiore che coordinava le diverse parti, la qualità dell'opera appariva sempre altissima, pur nei diversi livelli di finitezza, spiegando così come il maestro potesse interrompere il lavoro quando l'opera era ancora "non-finita", prima ancora dell'ultima fase, spesso approntata dagli aiuti, in cui si levigava la statua con raschietti, lime, pietra pomice e, in ultimo, batuffoli di paglia. Questa levigatura finale, presente ad esempio nella Pietà vaticana garantiva comunque quella straordinaria lucentezza, che si distaccava dalla granulosità delle opere dei maestri toscani del Quattrocento[91].  Il non finito di Michelangelo  Non-finito nella Pietà Bandini Una delle questioni più difficili per la critica, nella pur complessa opera michelangiolesca, è il nodo del non finito. Il numero di statue lasciate incompiute dall'artista è infatti così elevato da rendere improbabile che le uniche cause siano fattori contingenti estranei al controllo dello scultore, rendendo alquanto probabile una sua volontà diretta e una certa compiacenza per l'incompletezza[96].  Le spiegazioni proposte dagli studiosi spaziano da fattori caratteriali (la continua perdita di interesse dell'artista per le commissioni avviate) a fattori artistici (l'incompiuto come ulteriore fattore espressivo): ecco che le opere incompiute paiono lottare contro il materiale inerte per venire alla luce, come nel celebre caso dei Prigioni, oppure hanno i contorni sfocati che differenziano i piani spaziali (come nel Tondo Pitti) o ancora diventano tipi universali, senza caratteristiche somatiche ben definite, come nel caso delle allegorie nelle tombe medicee[96].  Alcuni hanno collegato la maggior parte degli incompiuti a periodi di forte tormento interiore dell'artista, unito a una costante insoddisfazione, che avrebbe potuto causare l'interruzione prematura dei lavori. Altri si sono soffermati su motivi tecnici, legati alla particolare tecnica scultorea dell'artista basata sul "levare" e quasi sempre affidata all'ispirazione del momento, sempre soggetta a variazioni. Così una volta arrivati all'interno del blocco, a una forma ottenuta cancellando via la pietra di troppo, poteva capitare che un mutamento d'idea non fosse più possibile allo stadio raggiunto, facendo mancare i presupposti per poter portare avanti il lavoro (come nella Pietà Rondanini)[96].  La personalità  Lo stesso argomento in dettaglio: Aspetti psichici nell'opera di Michelangelo.  Una delle versioni del ritratto di Michelangelo di Daniele da Volterra La leggenda dell'artista geniale ha spesso messo in seconda luce l'uomo nella sua interezza, dotato anche di debolezze e lati oscuri. Queste caratteristiche sono state oggetto di studi in anni recenti, che, sfrondando l'aura divina della sua figura, hanno messo a nudo un ritratto più veritiero e accurato di quello che emerge dalle fonti antiche, meno accondiscendente ma sicuramente più umano[89].  Tra i difetti più evidenti della sua personalità c'erano l'irascibilità (alcuni sono arrivati a ipotizzare che avesse la sindrome di Asperger[97]), la permalosità, l'insoddisfazione continua. Numerose contraddizioni animano il suo comportamento, tra cui spiccano, per particolare forza, l'atteggiamento verso i soldi e i rapporti con la famiglia, che sono due aspetti comunque intimamente correlati[89].   Michelangelo si autoritrasse forse come pelle senza corpo nel Giudizio universale Sia il carteggio, sia i libri di Ricordi di Michelangelo fanno continue allusioni ai soldi e alla loro scarsità, tanto che sembrerebbe che l'artista vivesse e fosse morto in assoluta povertà. Gli studi di Rab Hatfield sui suoi depositi bancari e i suoi possedimenti hanno tuttavia delineato una situazione ben diversa, dimostrando come durante la sua esistenza egli riuscì ad accumulare una ricchezza immensa. Basta come esempio l'inventario redatto nella dimora di Macel de' Corvi all'indomani della sua morte: la parte iniziale del documento sembra confermare la sua povertà, registrando due letti, qualche capo di vestiario, alcuni oggetti di uso quotidiano, un cavallo; ma nella sua camera da letto viene poi rinvenuto un cofanetto chiuso a chiave che, una volta aperto, dimostra un tesoro in contanti degno di un principe. A titolo di esempio con quel contante l'artista avrebbe potuto benissimo comprarsi un palazzo, essendo una cifra superiore a quella sborsata in quegli anni (nel 1549) da Eleonora di Toledo per l'acquisto di Palazzo Pitti[89].  Ne emerge quindi una figura che, benché ricca, viveva nell'austerità spendendo con grande parsimonia e trascurandosi fino a limiti impensabili: Condivi ricorda ad esempio come fosse solito non togliersi gli stivali prima di andare a letto, come facevano gli indigenti[89].  Questa marcata avarizia e l'avidità, che continuamente gli fanno percepire in maniera distorta il proprio patrimonio, sono sicuramente dovute a ragioni caratteriali, ma anche a motivazioni più complesse, legate al difficile rapporto con la famiglia[96]. La penosa situazione economica dei Buonarroti doveva averlo intimamente segnato e forse aveva come desiderio quello di lasciar loro una cospicua eredità per risollevarne le sorti. Ma ciò è contraddetto apparentemente dai suoi rifiuti di aiutare il padre e i fratelli, giustificandosi con un'immaginaria mancanza di liquidi, mentre in altre occasioni arrivava a chiedere la restituzione di somme prestate in passato, accusandoli di vivere delle sue fatiche, se non di approfittarsi spudoratamente della sua generosità[96].  La presunta omosessualità  La tomba di Cecchino Bracci nella basilica di Santa Maria in Aracoeli a Roma, realizzata su disegno di Michelangelo Diversi storici[98] hanno affrontato il tema della presunta omosessualità di Michelangelo esaminando i versi dedicati ad alcuni uomini (Febo Dal Poggio, Gherardo Perini, Cecchino Bracci, Tommaso de' Cavalieri). Si veda, ad esempio, il sonetto dedicato a Tommaso de' Cavalieri - scritto nel 1534 - in cui Michelangelo denunciava l'abitudine del popolo di vociare sui suoi rapporti amorosi:  «E se 'l vulgo malvagio, isciocco e rio, di quel che sente, altrui segna e addita, non è l'intensa voglia men gradita, l'amor, la fede e l'onesto desìo.[99]»  Sul disegno della Caduta di Fetonte, al British Museum, Michelangelo scrisse una dedica a Tommaso de' Cavalieri.  Molti sonetti furono dedicati anche a Cecchino Bracci, di cui Michelangelo disegnò il sepolcro nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli. In occasione della morte prematura di Cecchino, Buonarroti scrisse un epitaffio (pubblicato la prima volta solo nel 1960) dalla forte ambiguità carnale[101]:  «La carne terra, e qui l'ossa mie, prive de' lor begli occhi, e del leggiadro aspetto fan fede a quel ch'i' fu' grazia nel lecto, che abbracciava e 'n che l'anima vive.[102]»  In realtà, l'epitaffio non dice nulla su tale presunta relazione tra i due. Del resto, gli epitaffi di Michelangelo furono commissionati da Luigi Riccio e da questi retribuiti mediante doni di natura gastronomica, mentre la conoscenza tra il Buonarroti e il Bracci fu solo marginale[103].  I numerosi epitaffi scritti da Michelangelo per Cecchino furono pubblicati postumi dal nipote, che però, spaventato dalle implicazioni omoerotiche del testo, avrebbe modificato in più punti il sesso del destinatario, facendone una donna[104]. Le edizioni successive avrebbero ripreso il testo censurato, e solo l'edizione Laterza delle Rime, nel 1960, avrebbe ristabilito la dizione originaria.  Il tema del nudo maschile in movimento è comunque centrale in tutta l'opera michelangiolesca, tanto che è celebre la sua attitudine a rappresentare anche le donne coi tratti spiccatamente mascolini (un esempio su tutti, le Sibille della volta della Cappella Sistina)[100]. Non è una prova inconfutabile di attitudini omosessuali, ma è innegabile che Michelangelo non ritrasse mai una sua "Fornarina" o una "Violante", anzi i protagonisti della sua arte sono sempre vigorosi individui maschili.  Nel 1536 o 1538 è da collocarsi il primo incontro con Vittoria Colonna. Nel 1539 la donna rientrò a Roma e lì crebbe l'amicizia con Michelangelo, che la amò (almeno dal punto di vista platonico) enormemente e su cui ebbe una grande influenza, verosimilmente anche religiosa. A lei l'artista dedicò alcuni tra i più profondi e potenti componimenti poetici della sua vita[100].  Il biografo Ascanio Condivi ricordò anche come l'artista dopo la morte della donna si rammaricava di non aver mai baciato il viso della vedova nello stesso modo in cui aveva stretto la sua mano.  Michelangelo non prese mai moglie e non sono documentate sue relazioni amorose né con donne né con uomini. In tarda età si dedicò a un'intensa e austera religiosità[100].  Le fonti su Michelangelo  Ritratto di Michelangelo nella seconda edizione delle Vite di Vasari Michelangelo è l'artista che, forse più di qualunque altro, incarna il mito di personalità geniale e versatile, capace di portare a termine imprese titaniche, nonostante le complesse vicende personali, le sofferenze e il tormento dovuto al difficile momento storico, fatto di sconvolgimenti politici, religiosi e culturali. Una fama che non si è affievolita coi secoli, restando più che mai viva anche ai giorni nostri[85].  Se il suo ingegno e il suo talento non sono mai stati messi in discussione, nemmeno dai più agguerriti detrattori, ciò da solo non basta a spiegarne l'aura leggendaria, né sono sufficienti la sua irrequietezza, o la sofferenza e la passione con cui partecipò alle vicende della sua epoca: sono tratti che, almeno in parte, sono riscontrabili anche in altri artisti vissuti più o meno nella sua epoca[85]. Sicuramente il suo mito si alimentò anche di sé stesso, nel senso che Michelangelo fu il primo e più efficace dei suoi promotori, come emerge dalle fonti fondamentali per ricostruire la sua biografia e la sua vicenda artistica e personale: il carteggio e le tre biografie che lo riguardarono al suo tempo[85].  Il carteggio Nella sua vita Michelangelo scrisse numerose lettere che in larga parte sono state conservate in archivi e raccolte private, tra cui spicca il nucleo collezionato dai suoi discendenti a casa Buonarroti. Il carteggio integrale di Michelangelo è stato pubblicato nel 1965[85] e dal 2014 è interamente consultabile online[106].  Nei suoi scritti l'artista descrive spesso i propri stati d'animo e si sfoga delle preoccupazioni e i tormenti che lo affliggono; inoltre nello scambio epistolare approfitta spesso per riportare la propria versione dei fatti, soprattutto quando si trova accusato o messo in cattiva luce, come nel caso dei numerosi progetti avviati e poi abbandonati prima del completamento. Spesso si lamenta dei committenti che gli volgono le spalle e lancia pesanti accuse contro chi lo ostacola o lo contraddice[85]. Quando si trova in difficoltà, come nei momenti più oscuri della lotta con gli eredi della Rovere per il monumento sepolcrale a Giulio II, il tono delle lettere si fa più acceso, trovando sempre una giustificazione della propria condotta, ritagliandosi la parte di vittima innocente e incompresa. Si può arrivare a parlare di un disegno ben preciso, attraverso le numerose lettere, teso a scagionarlo da tutte le colpe e a procurarsi un'aura eroica e di grande resistenza ai travagli della vita[107].  La prima edizione delle Vite di Vasari (1550) Nel marzo del 1550, Michelangelo, quasi settantacinquenne, si vide pubblicata una sua biografia nel volume delle Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori scritto dall'artista e storico aretino Giorgio Vasari e pubblicato dall'editore fiorentino Lorenzo Torrentino. I due si erano conosciuti brevemente a Roma nel 1543, ma non si era instaurato un rapporto sufficientemente consolidato da permettere all'aretino di interrogare Michelangelo. Si trattava della prima biografia di un artista composta quando era ancora in vita, che lo indicava come il punto di arrivo di una progressione dell'arte italiana che va da Cimabue, primo in grado di rompere con la tradizione "greca", fino a lui, insuperabile artefice in grado di rivaleggiare con i maestri antichi[85].  Nonostante le lodi l'artista non approvò alcuni errori, dovuti alla mancata conoscenza diretta tra i due, e soprattutto ad alcune ricostruzioni che, su temi caldi come quello della sepoltura del papa, contraddicevano la sua versione costruita nei carteggi[107]. Vasari dopotutto pare che non avesse cercato documenti scritti, affidandosi quasi esclusivamente ad amicizie più o meno vicine al Buonarroti, tra cui Francesco Granacci e Giuliano Bugiardini, già suoi collaboratori, che però esaurivano i loro contatti diretti con l'artista poco dopo dell'avvio dei lavori alla Cappella Sistina, fino quindi al 1508 circa[108]. Se la parte sulla giovinezza e sugli anni venti a Firenze appare quindi ben documentata, più vaghi sono gli anni romani, fermandosi comunque al 1547, anno in cui dovette essere completata la stesura[108].  Tra gli errori che più ferirono Michelangelo c'erano le disinformazioni sul soggiorno presso Giulio II, con la fuga da Roma che era stata attribuita all'epoca della volta della Cappella Sistina, dovuta a un litigio col papa per il rifiuto a svelargli in anticipo gli affreschi: Vasari conosceva i forti disappunti tra i due ma all'epoca ne ignorava completamente le cause, cioè la disputa sulla penosa vicenda della tomba[109].  La biografia di Ascanio Condivi (1553) Non è un caso che appena tre anni dopo, nel 1553, venne data alle stampe una nuova biografia di Michelangelo, opera del pittore marchigiano Ascanio Condivi, suo discepolo e collaboratore. Il Condivi è una figura di modesto rilievo nel panorama artistico e anche in campo letterario, a giudicare da scritti certamente autografi come le sue lettere, doveva essere poco portato. L'elegante prosa della Vita di Michelagnolo Buonarroti è infatti assegnata dalla critica ad Annibale Caro, intellettuale di spicco molto vicino ai Farnese, che ebbe almeno un ruolo di guida e revisore[107].  Per quanto riguarda i contenuti, il diretto responsabile dovette essere quasi certamente Michelangelo stesso, con un disegno di autodifesa e celebrazione personale pressoché identico a quello del carteggio. Lo scopo dell'impresa letteraria era quello espresso nella prefazione: oltre a fare d'esempio ai giovani artisti, doveva "sopplire al difetto di quelli, et prevenire l'ingiuria di questi altri", un chiaro riferimento agli errori di Vasari[107].  La biografia del Condivi non è quindi scevra da interventi selettivi e ricostruzioni di parte. Se si dilunga molto sugli anni giovanili, essa tace ad esempio sull'apprendistato alla bottega del Ghirlandaio, per sottolineare il carattere impellente e autodidatta del genio, avversato dal padre e dalle circostanze. Più rapida è la rassegna degli anni della vecchiaia, mentre il cardine del racconto riguarda la "tragedia della sepoltura" (l'interminabile iter per la tomba di Giulio II), ricostruita molto dettagliatamente e con una vivacità che ne fa uno dei passi più interessanti del volume. Gli anni immediatamente precedenti all'uscita della biografia furono infatti quelli dei rapporti più difficili con gli eredi Della Rovere, minati da duri scontri e minacce di denuncia alle pubbliche autorità e di richiesta degli anticipi versati, per cui è facile immaginare quanto premesse all'artista fornire una sua versione della vicenda[107].  Altra pecca della biografia del Condivi è che, a parte rare eccezioni come il San Matteo e le sculture per la Sagrestia Nuova, essa tace sui numerosi progetti non finiti, come se con il passare degli anni il Buonarroti fosse ormai turbato dal ricordo delle opere lasciate incompiute[108].  La seconda edizione delle Vite di Vasari (1568) A quattro anni dalla scomparsa dell'artista e a diciotto dal primo lavoro, Giorgio Vasari pubblicò una nuova edizione delle Vite per l'editore Giunti, riveduta, ampliata e aggiornata. Quella di Michelangelo in particolare era la biografia più rivisitata e la più attesa dal pubblico, tanto da venire pubblicata anche in un libretto a parte dallo stesso editore. Con la morte la leggenda dell'artista si era infatti ulteriormente accresciuta e Vasari, protagonista delle esequie a Michelangelo svoltesi solennemente a Firenze, non esita a riferirsi a lui come al "divino" artista. Rispetto all'edizione precedente appare chiaro come in quegli anni Vasari si sia maggiormente documentato e come abbia avuto modo di accedere a informazioni di prima mano, grazie a un forte legame diretto che si era stabilito tra i due[108].  Il nuovo racconto è quindi molto più completo e verificato anche da numerosi documenti scritti. Le lacune vennero colmate con la sua frequentazione dell'artista negli anni del lavoro presso Giulio III (1550-1554) e con l'appropriazione di interi brani della biografia del Condivi, un vero e proprio "saccheggio" letterario: identici sono alcuni paragrafi e la conclusione, senza alcuna menzione della fonte, anzi l'unica citazione del marchigiano si ha per rinfacciargli l'omissione dell'apprendistato presso la bottega del Ghirlandaio, fatto invece noto da documenti riportati dallo stesso Vasari[109].  La completezza della seconda edizione è motivo di vanto per l'aretino: "tutto quel [...] che si scriverrà al presente è la verità, né so che nessuno l'abbi più praticato di me e che gli sia stato più amico e servitore fedele, come n'è testimonio fino chi nol sa; né credo che ci sia nessuno che possa mostrare maggior numero di lettere scritte da lui proprio, né con più affetto che egli ha fatto a me".  I Dialoghi romani di Francisco de Hollanda L'opera che da alcuni storici è stata considerata testimonianza delle idee artistiche di Michelangelo sono i Dialoghi romani scritti da Francisco de Hollanda come completamento del suo trattato sulla natura dell'arte De Pintura Antiga, scritto verso il 1548[110] e rimasto inedito fino al XIX secolo.  Durante il suo lungo soggiorno italiano, prima di tornare in Portogallo, l'autore, allora giovanissimo, aveva frequentato, intorno al 1538, Michelangelo allora impegnato nell'esecuzione del Giudizio universale, all'interno del circolo di Vittoria Colonna. Nei Dialoghi fa intervenire Michelangelo come personaggio a esprimere le proprie idee estetiche confrontandosi con lo stesso de Hollanda.  Tutto il trattato, espressione dell'estetica neoplatonica, è comunque dominato dalla gigantesca figura di Michelangelo, come figura esemplare dell'artista genio, solitario e malinconico, investito di un dono "divino", che "crea"[112] secondo modelli metafisici, quasi a imitazione di Dio. Michelangelo diventò così, nell'opera di De Hollanda e in genere nella cultura occidentale, il primo degli artisti moderni.  Caratteristiche fisiche Nel 2021 il paleopatologo Francesco M. Galassi e l'antropologa forense Elena Varotto del FAPAB Research Center di Avola, in Sicilia, hanno esaminato le scarpe e una pantofola conservate a Casa Buonarroti, che la tradizione ritiene appartenute al genio rinascimentale, ipotizzando che l'artista fosse alto circa 1 metro e 60[113]: un dato concorde con quanto sostenuto dal Vasari, il quale nella sua biografia dell'artista sostiene che il maestro fosse "di statura mediocre, di spalle largo, ma ben proporzionato con tutto il resto del corpo"[114][115].  Opere  Lo stesso argomento in dettaglio: Opere di Michelangelo. Opere letterarie Rime di Michelangelo Buonarroti raccolte da Michelangelo suo Nipote, in Firenze, appresso i Giunti, 1623. Rime di Michelangelo Buonarroti il Vecchio, con il commento di G. Biagioli, Parigi, presso l'editore in via Rameau nº 8, 1821. Rime e lettere, precedute dalla vita dell'autore scritta da Ascanio Condivi, Firenze, Barbèra, Le rime di Michelangelo Buonarroti, a cura di Cesare Guasti, Le Monnier, Firenze, 1863. Le lettere di Michelangelo Buonarroti, a cura di Gaetano Milanesi, Le Monnier, Firenze, 1875. Die Dichtungen des Michelagniolo Buonarroti, a cura di C. Frey, Berlino, 1897 Edizioni moderne:  Rime, Prefazione di A. Castaldo, Roma, Oreste Garroni Editore, 1910. Le rime e le lettere, precedute dalla vita di Michelangelo per Luigi Venturi, Collana Classici Italiani, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 191[?]; Milano, Bietti, 1933. Poesie, Prefazione di Giovanni Amendola, Lanciano, Carabba, 1920. Le rime, Prefazione e note di Foratti, Milano, R. Caddeo, 1921. Lettere e rime, per cura di Guido Vitaletti, Torino, SEI, 1925. Le rime, Introduzione, note e cura di Valentino Piccoli, Collezione Classici Italiani, Torino, UTET, 1930. Rime, a cura di Gustavo Rodolfo Ceriello, Collana BUR n.747-749, Rizzoli, Milano, 1954. Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Laterza, Bari, 1960. Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di Giovanni Poggi, a cura di Paola Barocchi e Renzo Ristori, 5 voll., Firenze, S.P.E.S., 1965-83. Rime, premessa, note e cura di Ettore Barelli, Introduzione di Giovanni Testori, Milano, Rizzoli, 1975; Fabbri Editore, 1995-2001. Rime e lettere, a cura di Paola Mastrocola, UTET, Torino, 1992-2015; De Agostini, 2015. Rime, a cura di Matteo Residori, Introduzione di Mario Baratto, con un saggio di Thomas Mann, Collana Oscar Classici, Milano, Mondadori, 1998. Rime, a cura di Stella Fanelli, Prefazione di Cristina Montagnani, Garzanti, Milano, 2006. Le rime di Michelangelo (1623), a cura di Marzio Pieri e Luana Salvarani, La Finestra Editrice, Trento, 2006, ISBN 978-88-880-9771-8. [riproduce l'edizione delle Rime stampate a Firenze nel 1623] Rime, a cura di T. Gurrieri, Collana Classici, Firenze, Barbès, 2010, ISBN 978-88-629-4146-4. Rime, a cura di Paolo Zaja, Collana Classici, Milano, BUR-Rizzoli, Canzoniere, a cura di Maria Chiara Tarsi, Biblioteca di scrittori italiani, Milano, Guanda, 2015, ISBN 978-88-235-0936-8. Rime e lettere, A cura di Antonio Corsaro e Giorgio Masi, Collezione Classici della letteratura europea, Milano, Bompiani, 2016, ISBN 978-88-452-8291-1. Omaggi Michelangelo è stato raffigurato sulla banconota da 10.000 lire italiane dal 1962 al 1977.  Film e documentari cortometraggio - Rolla e Michelangelo di Romolo Bacchini (1909) documentario - Michelangelo di Kurt Oertel (1938) documentario - Il titano, storia di Michelangelo di Kurt Oertel (1950) film tv - Vita di Michelangelo di Silverio Blasi (1964) lungometraggio - Il tormento e l'estasi di Carol Reed (1965) documentario - Michelangelo: The Last Giant di Tom Priestley (1966) documentario - The Secret of Michelangelo di Milton Fruchtman (1968) film tv - La primavera di Michelangelo di Jerry London (1990) cortometraggio - Lo sguardo di Michelangelo di Michelangelo Antonioni (2004) documentario - The Divine Michelangelo di Tim Dunn e Stuart Elliott (2004) film tv - Michelangelo Superstar di Wolfgang Ebert e Martin Papirowski (2005) lungometraggio - Michelangelo - Infinito con Enrico Lo Verso (2018) film lungometraggio - "Il peccato - Il furore di Michelangelo" di A. Konchalovsky Opere teatrali e musicali Ferdinand Avenarius, Faust bei Michelangelo, in: Kunstwart Hugo Ball, Die Nase des Michelangelo, Leipzig, 1911 Anita Barbiani, Michelangelo, Sarzana, 1955 Domenico Bolognese, Michelangelo Buonarroti, Napoli, 1872 Georg Braun, Raphael Sanzio von Urbino, Mainz, Bussotti, Nottetempo, Milano, 1976 Salvatore Cammarano, Luigi Rolla, Trieste, 1872 Barry Cornwall, Michelangelo, in: Dramatic Scenes and other poems, London 1857 Pietro Cossa, I Borgia, in: Teatro in versi, Torino, Etienne Delrieu, Michel Ange, Paris, 1802 Wilhelm Dunker, Michelangelo, Stettin, Eberlein, Michelangelo, Roma 1942 Dietrich Eckart, Lorenzaccio, München, 1918 Konrad Falke, Michelangelo, in: Dramatische Werke, vol. V, Zurich, 1933 Arthur Fitger, Michelangelo, Bremen, 1874 Giorgio Giachetti, Rolla, Napoli, Paolo Giacometti, Michelangelo Buonarroti, in: Teatro, Milano, 1874 Joseph A. 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Note  Casa natale di Michelangelo, su casanatalemichelangelo Michelangelo, divino artista, testimone della storia, su vaticannews.va, 31 ottobre 2020. URL consultato il 6 settembre 2024. ^ Ne Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori lo storico Giorgio Vasari tracciò un ideale percorso di rinnovamento delle arti che partiva da Cimabue e arrivava a Michelangelo. ^ Gilberto Michelagnoli e Filippo Michelagnoli, Michelagnoli. Storia di una famiglia., Masso delle Fate, 2021, ISBN 978-88-6039-536-8. ^ La notizia è ricordata in una nota del padre. Nella nota è riportata la data 6 marzo 1474, la mattina «inanzi di 4 o 5 ore». Secondo il calendario fiorentino era l'anno 1474, mentre nella notazione comune è il 1475.  Camesasca, p. 83.  Alvarez Gonzáles, p. 10. ^ Forcellino, p. 6. ^ Forcellino, Gonzáles, p. 12. ^ Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, Capurro, Forcellino, Forcellino, p. 17. ^ Giorgio Vasari, Le vite de' piu eccellenti pittori scultori, e architettori, apresso i Giunti, Gonzáles, p. 13. ^ Francesco Razeto, La Cappella Tornabuoni a Santa Maria Novella, in AA.VV., Cappelle del Rinascimento a Firenze, Editrice Giusti, Firenze Farkas, La prima opera di Michelangelo finisce a un museo del Texas, in Corriere della Sera, Condivi, cit., p. 10.  Alvarez Gonzáles, p. 14. ^ Forcellino, pp. 32-33. ^ Alvarez Gonzáles, p. 32.  Alvarez Gonzáles, p. 34. ^ Alvarez Gonzáles, p. 15. ^ Forcellino, p. 43. ^ Forcellino, p. 44. ^ Baldini, p. 89.  Alvarez Gonzáles, p. 16. ^ Alvarez Gonzáles, p. 38. ^ De Vecchi-Cerchiari, pp. 48-49. ^ Forcellino, p. 55. ^ Alvarez Gonzáles, p. 40. ^ Forcellino, Camesasca, p. 86. ^ Baldini, p. 92.  Forcellino, p. 63. ^ Alvarez Gonzáles, p. 19. ^ Condivi ^ Forcellino, p. 77. ^ Forcellino, p. 83. ^ Milena Magnano, Leonardo, collana I Geni dell'arte, Mondadori Arte, Milano Marinazzo, Una nuova possible attribuzione a Michelangelo. 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Nella pieve della Cappella ad Azzano Michelangelo scolpì il rosone e forse anche un colonnato, opere perdute durante i bombardamenti del 1944.  Baldini, p. cit.  Alvarez Gonzáles, p. 27. ^ Heusinger, cit., pag. 305  Alvarez Gonzáles, p. 29. ^ Francesco Benelli, “Variò tanto della comune usanza degli altri”: the function of the encased column and what Michelangelo made of it in the Palazzo dei Conservatori at the Campidoglio in Rome, in Annali di architettura, Crocifissione di Viterbo Brodini, San Pietro in Vaticano, in Michelangelo architetto a Roma, Cinisello Balsamo, Zanchettin, Il tamburo della cupola di San Pietro, in Michelangelo architetto a Roma, Cinisello Balsamo, Tartuferi e Fabrizio Mancinelli, Michelangelo. 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Si tratta della prima occorrenza del termine "creare" in rapporto all'attività di un artista: Elisabetta Di Stefano, La libertà del Genio, Francisco de Hollanda e la teoria della creazione artistica, in "Il concetto di libertà nel Rinascimento" atti del convegno, Galassi ed Elena Varotto, THE ALLEGED SHOES OF MICHELANGELO BUONARROTI: ANTHROPOMETRICAL CONSIDERATIONS, in Anthropologie, Percivaldi, Le scarpe di Michelangelo rivelano la "statura" dell'artista, in BBC History Italia, Michelangelo era alto 1 metro e 60, prova dalle sue scarpe - Toscana, su Agenzia ANSA, Foglia, Michelangelo nel Teatro, collana La Ricerca Umanistica, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Apollino del Bargello Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Torrentini, 1550. 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Modifica su Wikidata Registrazioni audiovisive di Michelangelo Buonarroti, su Rai Teche, Rai. Modifica su Wikidata V · D · M Michelangelo Buonarroti Portale Architettura   Portale Biografie   Portale Letteratura   Portale Pittura   Portale Rinascimento Portale Scultura Categorie: Pittori italiani Pittori italiani Scultori italiani Scultori italiani  Architetti italiani Architetti italiani NNati a Caprese Michelangelo Morti a Roma Michelangelo Buonarroti Buonarroti Poeti italiani Sepolti nella basilica di Santa CrocePoeti italiani del XV secolo Architetti rinascimentaliArtisti di scuola fiorentinaPittori italiani del RinascimentoPoeti italiani trattanti tematiche LGBTPersonalità celebrate nel calendario liturgico luterano[altre]. Michelangelo Buonarroti Simoni. Keywords: the theory of everything. Refs.: “Grice e Simoni.” Simoni.

 

Grice e Simoni: la ragione conversazionale degl’ ‘eretici’ reazionari italiani – gl’acuti – i nobili – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucca). Filosofo italiano. Lucca, Toscana. Studia con BENDINELLI e PALEARIO, due umanisti in dore d’eresia. Il secondo fine sul rogo a Roma. Legge sostenuto dal padre e dal patrizio veneziano MOCENIGO e peregrina nei maggiori studi d'Italia: Bologna, Pavia, Ferrara, e Napoli. Si laurea a Padova. Diversi ma tutti autorevoli i suoi professori: da MAGGI a CARDANO, da BOLDONI a BRASAVOLA. La sua formazione e di stampo del LIZIO, come s'insegna nello studio padovano, con una forte esigenza razionalistica che ha riflessi nel campo religioso, tale da mettere in dubbio l'immortalità dell'anima e a creare sospetti di eresia tra i professori e gl’studenti di quella università. Con questa preparazione, S. fa ritorno a Lucca, dove scrive saggi di argomento filosofico. Lucca ha vissuto un periodo concitato d’aperti conflitti sociali e poi di tentativi di riforme politiche, portate avanti dal gonfaloniere BURLAMACCHI e dal circolo di filosofi riuniti intorno a VERMIGLI. Quando ritorna a Lucca, quella fervida attività è già stata spenta dalla reazione cattolica guidata da GUIDICCIONI, ma certo quelle idee di riforma circolano ancora sotterraneamente, e forse lui stesso le ha già raccolte durante i suoi trascorsi nelle diverse università da lui frequentate. Sta di fatto che è chiamato dall’autorità lucchesi a dare spiegazioni sulle proprie opinioni. Per tutta risposta non fidandosi troppo delle sue forze, cerca la salvezza con la fuga. Munito solo di un cavallo e dei propri risparmi, dopo aver preso commiato dalla famiglia, fugge, accompagnato da un servitore, alla volta di Ginevra. Negl’atti ufficiali della repubblica di Lucca, la sua condanna per eresia si formalizza. A Ginevra, patria del calvinismo, si forma una numerosa colonia di emigrati italiani e tra questi non pochi sono i lucchesi. La comunità italiana è inserita in una propria chiesa e S. vi ha l'incarico di catechista. Preso a benvolere dall'influente teologo BEZA, ottenne di insegnare filosofia: un incarico dapprima senza compenso, poi retribuito insieme con la nomina a professore. Anche il padre Giovanni si stabilì a Ginevra. In quello stesso periodo gli venne aumentato lo stipendio, ottenne un alloggio gratuito e, nell'accademia è istituita appositamente per lui la cattedra. Pubblica saggi. Presso Crespin apparve il suo “In librum Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum cadunt commentarius unus” è il commento al “De sensu et sensibilibus” di Aristotele. In esso define la verità filosofica -- una premessa tipica del lizio padovano ma poi cerca di dimostrare che la ragione, indagando la natura, può giungere al divino, rivelando le verità di fede. In tal modo, sostiene che anche ogni questione ha natura razionale e, qualora sorgano contrasti, la ragione è in grado di comporli, indicando la via da seguire per una corretta interpretazione. Una conseguenza, seppure non esplicita nel commento, della prevalenza della ragione sulla fede, è che il dogma espressione della tradizionale sub-ordinazione della ragione alla fede non ha motivo di esistere. Il suo LIZIO che poco concede alla teologia si conferma con i successivi commenti all'Etica Nicomachea e al De anima, mentre S. condusse una lunga e dura polemica contro il filosofo Schegk. Questi, proprio all'opposto del S. usa argomenti tratti dalla scolastica per dimostrare la realtà della teoria, allora caldeggiata in ambienti luterani, della ubiquità del corpo di Cristo. S. risponde con argomenti di carattere fisico dimostrando l'irrealtà di tale assunto. Un olo corpo fisico non può che occupare, nello stesso tempo, un unico spazio determinato. Anche Cristo, in vita, e soggetto alla legge naturale. Dopo la morte, Cristo mantenne soltanto una natura divina. Non è sostenibile l'idea che il divinopossa mutare una legge naturale in legge trans-naturale o sovra-naturale. Ente perfetto e primo motore immobile come lo delinea Aristotele il divino agisce sulla natura unicamente attraverso la sua perfezione che indirizza al bene gl’esseri naturali. Il suo carattere collerico e l'alta considerazione che ha di sé lo porta a una lite clamorosa con BALBANI, un altro lucchese. Durante il matrimonio della figlia di questi, S. lo copre d'insulti, con grave scandalo delle autorità di Ginevra, che fanno imprigionare S. e lo espulsero dall'accademia. A nulla valsero le suoi scuse presentate -- è del resto probabile che la severità del consiglio e del Concistoro ginevrino e motivata anche dalla freddezza e dallo suo spirito d'indipendenza dimostrato che pure si dichiara calvinista in materia di religione. Tuttavia BEZA gli mantenne ancora la sua amicizia e lo forne di una lettera di raccomandazione con la quale si dirige alla volta di Parigi.  A Parigi ottenne una buona accoglienza. I calvinisti qui chiamati ugonotti sono ancora tollerati e le lusinghiere referenze gli fanno ottenere una cattedra di filosofia al collège royal, dove le sue lezioni ottenneno subito un grande concorso di pubblico. Come scrisve a BEZA, alle sue lezioni assistevano sei o settecento uomini barbati, dottori, professori, et altri di robba lunga, preti, frati, giesuiti et altra simil razza d'uomini. Si ha congratulazioni di RAMO, che volle incontrarlo e lo chiama “felicissimum et praestantissimum ingenium italicum”, non però quelle del collega CHARPENTIER, che teme che fosse stato mandato da Ginevra per turbare questa scuola. Sa che la sua permanenza a Parigi è precaria. Il nome di Ginevra mi nuoce più che il nome di ugonotto -- né puo valere molto la protezione del cardinale COLIGNY, passato al calvinismo. Rifere di aver rifiutato offerte sostanziose da parte cattolica per insegnare in loro collegi, a prezzo di una sua conversione, e di attendersi un prossimo editto che affronta il problema della convivenza tra cattolici e ugonotti.  Un editto effettivamente ci e, emanato da Carlo IX, con il quale si proibe ai protestanti l'insegnamento pubblico. Così, perduti anche i suoi saggi che gli furono sequestrati, e costretto ad abbandonare la Francia. Si apre un nuovo periodo di difficoltà. Non potendo insegnare a Ginevra, cerca di ottenere un incarico a Zurigo e a Basilea, sollecitando in tal senso altr’emigrati italiani come l'editore PERNA e il filosofo umanista CURIONE, ma invano. I sospetti di anti-trinitarismo che gravano sul suo conto, da quando fa visita nel carcere di Berna all'eretico GENTILE  poco prima che questi venisse giustiziato, e il recente scandalo provocato a Ginevra non agevolavano il suo inserimento nelle élite filosofica delle città svizzere.  Ottenne bensì una raccomandazione da BULLINGER per un posto di insegnante a Heidelberg, ma anche qui rimane poco tempo. La sua amicizia con l'anti-trinitario ERASTO, il suo a LIZIO senza compromessi dal nulla, nulla si crea, sostenne in una pubblica lezione, cosicché anche Cristo era stato creato dal divino Padre e il suo carattere spigoloso gl’alienarono ogni simpatia e dove riprendere la via di Basilea. Ottenne una cattedra straordinaria di filosofia a Lipsia. Se puo fregiarsi della stima d’Augusto I, non eguale considerazione ottenne dai suoi colleghi, che fanno gruppo a sé e lo isolarono. Non si perde d'animo. Molto popolare tra gli studenti per la vivacità delle sue lezioni e lo spirito critico che infonde negl’allievi, fonda, all'interno dell'Università, un'accademia sul modello umanistico italiano, battezzandola degl’acuti. Degl’acuti, entra a far parte un gruppo di suoi studenti. Le discussioni dovevano vertere sulla interpretazione di passi del LIZIO i filosofi così raggruppati intorno a lui dettero ben presto dello spirito critico e dell'idea di esser superiori agl’altri, che il vivace professore finisce per insinuare nei loro animi. Pasquinate anonime contro un professore, e un litigio clamoroso tra questo e S., iniziano una serie di incidenti che ha termine con la soppressione degl’acuti. La soppressione degl’acuti, decisa dal senato universitario, testimonia i difficili rapporti intercorrenti tra l'università e lui, che per altro in città era reputato ospite illustre, professionista affermato e ricercato, uomo di mondo e di cultura dalla posizione prestigiosa, che gode della stima e del rispetto dei suoi concittadini, e la cui fama oltrepassa la frontiera del paese che gli dava ospitalità. Infatti, oltre a insegnare filosofia e ad avere allievi anche illustri, come il prìncipe RADZIWIŁL, esercita la professione medica, vantando clienti di riguardo. Pubblica il suo saggio filosofico più originale, la “De vera nobilitate”, dedicato ad Augusto I. La vera nobiltà è la virtù (ANDREIA) dell'anima umana, la quale è intesa alla maniera del LIZIO, come forma del corpo. La virtù dell'anima è perciò strettamente legata alla particolare costituzione del corpo, trasmessa nell'individuo di generazione in generazione dal seme del padre, che costituisce la causa efficiente del singolo essere. Non per nulla da ‘genere’ deriva ‘generoso’. Se pure non ogni nobile è generoso, chi è generoso è considerato nobile. Le differenze sociali tra gl’uomini e le conformazioni dei loro corpi sono egualmente corrispondenti per necessità naturale. La natura vuole infatti fare diversamente il corpo dei liberi da quelli dei servi. Questi robusti e con deformità necessarie al loro particolare utilizzo. Quelli diritti e belli, perché non desti tali fatiche, ma alla vita civile. L’educazione svolge una funzione per la formazione dell'uomo, ma resta inferiore a quella naturale. Di due uomini, di diversa estrazione sociale ma educati allo stesso modo, il nobile risulta meglio formato, in quanto la natura lo ha costituito di una materia superiore. L'educazione ha lo stesso effetto della medicina. Fa recuperare la propria condizione di salute, ma non può migliorarla oltre il limite fissato dalla natura. Viene da sé che le famiglie nobili d’Italia diano lustro alla nazione italiana, formando l'élite della società civile sotto l'aspetto culturale e politico. Questo avviene nella nazione italiana, di antica civiltà in sostanza. Presso i barbari non può esistere nobiltà. Il barbaro e giustamente detto servo per natura e in quanto servo non porta in lui nessuna virtù, essendo nato per servire sotto una tirannia e non in un regio e civile governo. La virtù dei nobili non possono consistere nell'accumulare ricchezze, ma essa e ugualmente attiva e pratica. E la virtù civili del politico, che si occupa del benessere dei cittadini, quelle del medico, che si occupa della salute degl’individui, del fisiologo, che studia la natura e infine del metafisico, che studia le cose divine. Queste ultime, insieme alla virtù della contemplazione, è però meglio riservarle nella vita che ci attende dopo la morte, quando quei problemi saranno facilmente risolti. Queste cose sono irrise dai politici, tra i quali, non tra gl’angeli, si discute di nobiltà. Nel frattempo, è opportuno dedicarsi alle cose di questo mondo ed essere utili alla società degl’uomini. Si loda Socrate il quale, trascurate le altre parti della filosofia, coltiva quella sola che era più adatta ai costumi degl’uomini e alle istituzioni civili. Che la vera nobiltà si debba esprimere nell'attività pratica e civile è ribadito più volte. La nobiltà spunta fuori dalla società civile, non dalla solitudine e la virtù spirituale, come quelle mostrate dai mistici e dai contemplativi, non e virtù nobile propria dell'essere umano. Questa virtù discende direttamente dal divino e perciò non derivano da generazione spermatica naturale del padre, non sono frutto della carne e del sangue il fondamento della vera nobiltà e non essendo ereditarie non puo essere considerata virtù nobile. Naturalmente, ai innobili non possono essere affidati incarichi di responsabilità nel governo della società, ma al più solo l'esercizio di magistrature minori. Derivando dal sangue la nobiltà, non si può diventare autenticamente nobili attraverso conferimenti onorifici, anche se concessi d’un sovrano mentre, al contrario, un autentico nobile non può essere privato della fama e dell'onore, perché in lui opera sempre quella forza e quell'efficacia naturale ricevuta dai suoi antenati. Dopo questa applicazione dei principi del LIZIO al vivere civile e al governo dello stato, che deve essere affidato a chi per natura fa parte degl’ottimati, si dedica a trattare temi propriamente medici. Appare a Lipsia il suo “De partibus animalium” ove descrive la conformazione del feto, la “De vera ac indubitata ratione continuationis, intermittentiae, periodorum febrium humoralium”; l'”Artificiosa curandae pestis methodus” ; la “Synopsis brevissima novae theoriae de humoralium febrium natura” -- temi di drammatica attualità, a Lipsia, investita da un'epidemia di peste. Ottene il permesso di esercitare la professione medica all'interno dell'università, pur senza ottenere, oltre quella straordinaria di filosofia, anche una cattedra di medicina. Presenta ad Augusto I una proposta di riforma universitaria. S'indica la necessità di una maggiore cura nell'assunzione dei professori, che dovevano dimostrare non solo di possedere la necessaria scienza, ma anche capacità didattiche. Dovevano anche essere obbligati a tenere un maggior numero di lezioni s'imponevano multe ai professori inadempienti mentre la durata dell'anno accademico venne prolungata.  Particolare cura dedica all'insegnamento. Dovevano tenere lezioni V professori, tra i quali un chirurgo che avrebbe tenuto esercitazioni di anatomia e fatto dimostrazioni pratiche di cura delle diverse affezioni. La qualità dell'insegnamento teorico anda migliorata. Ritene che corressero troppe affermazioni dogmatiche, che sarebbero dovute essere verificate dalla pratica e dal rigore della dimostrazione dialettica. A questo proposito opina che avrebbe giovato un'accurata conoscenza delle opere del LIZIO. Non mancano poi critiche severe sull'attuale andamento a Lipsia. I rettori sono scelti grazie alle loro aderenze, si promuovevano studenti immeritevoli, vi è scarsa pulizia, la farmacia universitaria è mal tenuta. Tali proposte e simili critiche non potevano che alimentare ancor più l'ostilità dei colleghi. Egli non sembra preoccuparsene. La stima dell'Elettore Augusto si mantene immutata, se lo fa nominare Professore di filosofia e lo promuove a suo primo medico personale. Avvenne tuttavia che, su sollecitazione della chiesa luterana, la quale prepara una confessione di fede che in particolare tutti funzionari e gl’impiegati, a vario titolo, dello stato avrebbero dovuto firmare, l'elettore pretese tale sottoscrizione anche dal professor S., ottenendone un netto rifiuto. Racconta lo stesso S. che, avendo rifiutato costantemente di sotto-scrivere quella che i teologi sassoni denominarono Formula di Concordia, il Principe Elettore rivolge il suo sdegno contro di me. Al che S. decide di andarsene e, nonostante l'Elettore cerca d'impedirlo, da l'ultimo saluto a quelle popolazioni. Si trasfere a Praga, dove venne assunto quale medico personale di Rodolfo II. Tale incarico e il carattere cattolico dell'Impero di cui era ora suddito rendeva necessario un chiarimento sulle sue posizioni religiose, poiché è nota la rottura avvenuta a Ginevra con i calvinisti e a Lipsia con i luterani. S. si adegua facilmente alla nuova situazione e abiura pubblicamente le passate convinzioni, ritratta quanto nei suoi scritti poteva esservi di eretico e abbraccia formalmente il cattolicesimo. Si tratta di una scelta di convenienza, seppure comprensibile nel clima torbido delle persecuzioni e dell'intolleranza. Lo scrive lui stesso all'amico Selnecker, un teologo luterano. Confesso di aver abiurato, anche se non avrei voluto farlo neppure a costo del mio sangue. Di tale mio atto altri comunque sono i responsabili. In nessun altro modo avrei potuto infatti salvare la mia vita, quella di mia moglie e dei miei figli che speravo di poter condurre con me. La moglie muore poco dopo e i tre figli rimasero affidati a Lipsia al nonno materno. Io, un italiano perseguitato a causa della religione luterana, dichiarato nemico della patria, esposto per decreto del senato all'agguato di sicari. E ricorda la sorte di chi non si è piegato a compromessi. I che vidi con questi occhi il Paleologo, esule per causa di religione, condotto su richiesta del legato pontificio dalla Moravia a Vienna, e di qui trascinato in catene a Roma (si sente dire che ormai è stato crudelmente arso sul rogo), io che sono circondato da ogni parte da infinite difficoltà e pericoli di ogni genere, che cosa avrei dovuto fare? Questa lettera non venne agl’occhi dei gesuiti, che vantarono il successo ottenuto con la presunta conversione del filosofo famoso, il quale avrebbe promessoa dir lorodi collaborare nella lotta agl’eretici. La loro soddisfazione non dovette però durare a lungo, o forse essi stessi credettero poco alla conversione del S., se lo storico gesuita SACCHINI puo qualificarlo di miserabile uomo che in disprezzo di ogni religione sprofonda nell'empietà, mentre tra i protestanti BEZA, alla notizia della sua conversione, commenta di essere sempre stato convinto che l'unico divino è in realtà Aristotele, del Lizio. Monau, dopo aver ricordato i suoi continui trascorsi da cattolico si è fatto calvinista, da calvinista anti-trinitario, da anti-trinitario luterano, e ora di nuovo papista. Lo stratteggia da uomo profano ed empio, come indicano sia i suoi costumi, sia i suoi discorsi, sia tutta la sua vita. Forse egli stesso sente di essere circondato da un clima di diffidenza se non di disprezzo, perché prende la risoluzione di lasciare le terre dell'impero per trasferirsi in Polonia.  Sembra che sia stato un altro italiano, BUCCELLA, medico personale del re Stefano Báthory, a raccomandarlo come medico della corte di Cracovia. BUCCELLA, di fede anabattista, gode di notevole considerazione, né la sua fama d’eretico gl’aveva pregiudicato l'esercizio della professione in quella Polonia che era ancora un paese tollerante. Il prestigioso incarico e la fama stessa di cui da tempo gode gl’apre le porte della migliore società. Riprese a pubblicare alcuni saggi: la “Disputatio de putredine” è una confutazione, sulla scorta di Aristotele del Lizio, delle teorie d’Erasto, mentre la “Historia aegritudinis ac mortis magnifici et generosi domini a Niemsta” è una relazione sulla morte di un borgomastro. Sulla malattia di quest'ultimo torna nel “Simonius supplex” insieme con una delle solite polemiche che lo videro ora opporsi al medico di SQUARCIALUPI. Una nuova svolta nella sua  si verifica con la malattia e la morte del re Stefano. Báthory si sente male nel suo castello di Grodno, e nel consulto tenuto da BUCCELLA e da S. emersero serie divergenze. BUCCELLA giudica molto grave le condizioni di Stefano. S. ritenne che non ci è nessun pericolo. Due giorni dopo le condizioni del re si aggravarono e i due medici si trovarono d'accordo nell'imporre un salasso al re ma in contrasto sulla dieta. S. e favorevole a fargli bere del vino, che BUCCELLA intende invece proibire. Nemmeno nella diagnosi si trovarono d'accordo. Per BUCCELLA, il re soffre di asma. Per S., d’epilessia. Sopravvenne una nuova grave crisi e il re perde conoscenza. Pur giudicando molto gravi le sue condizioni di salute, S. rassicura i circostanti, perché, a suo dire, non c'è ancora pericolo di morte. Appena pronunzia queste parole che il re spira. Lascia il castello e non volle assistere all'autopsia, sostenendo che è inutile, poiché l'epilessia “ab infernis partibus ducit originem” e non lascia tracce nel cadavere. Coordinata da BUCCELLA, l'autopsia è effettuata da Zigulitz, che accerta una grave alterazione dei due reni. La ri-cognizione dello scheletro di Báthory conferma che la morte avvenne per de-generazione renale, uremia e calcolosi. Cracovia: chiesa di San Francesco pubblica a sua difesa lo “Stephani primi sanitas, vita medica, aegritudo, mors” che e violentemente contestato dal “De morbo et obitu serenissimi magni Stephani” scritto da Chiakor su ispirazione di BUCCELLA. La polemica prosegue a lungo, coinvolgendo altr’amici di BUCCELLA, e degenerando in insulti e attacchi sulle convinzioni filosofiche dei due protagonisti. Contro S., tra gl’altri, e indirizzato l'opuscolo “Simonis Simoni lucensis, primum romani, tum calviniani, deinde lutherani, denuo romani, semper autem athei summa religio”. Alla fine, Sigismondo III ri-conferma BUCCELLA nella carica di medico curante, escludendo S. da ogni incarico di corte. Da allora, le notizie su lui si fanno scarse. Pur senza avere incarichi ufficiali, mantenne una ricca clientela e gode della considerazione di  Rodolfo, dei principi Radziwiłł, di Pavlowski e dei gesuiti, dai quali si fa ri-ilasciare un salva-condotto per rientrare in Italia e recarsi a Roma. Precauzione necessaria, con i suoi trascorsi: una precauzione maggiore e però quella di rinunciare al viaggio. La sua vita agitata ha così fine a Cracovia, come lo ricorda la lapide posta sulla sua tomba nella chiesa di S. Francesco. La data di nascita si deduce dalla lapide sepolcrale, poi andata distrutta in un incendio, posta nella chiesa di S. Francesco, a Cracovia, nella quale era scritto che il Simoni «ultimum diem clausit III.” Il testo della lapide è in S. Ciampi, Viaggio in Polonia, Queste notizie biografiche si apprendono da saggio di S., “Scopae, quibus verritur confutation”. Per secoli gli storici discuteno del luogo della sua nascita. Verdigi, “S. filosofo e medico”, Madonia, “S. da Lucca”; Lucchesini, Come scrive egli stesso: S., “Synopsis brevissima” Madonia, S. da Lucca,  Tommasi, “Sommario della storia di Lucca”;  Pascal, “Da Lucca a Ginevra. Studi sull'emigrazione religiosa lucchese”; Fabris, “La filosofia di S.” n Verdigi, S.,  S. S. a Teodoro di Beza, in Pascal, Da Lucca a Ginevra, e in Verdigi, S. S. a Beza, in Verdigi, S., Madonia, S. Pierro, La vita errabonda di uno spirito einquieto. S. S. S., “Simonius supplex”  in Madonia, S. da Lucca, Firpo, Alcuni documenti sulla conversione al cattolicesimo dell'eretico lucchese. Il paleo-logo e decapitato in carcere  e il cadavere arso pubblicamente a Roma, nel campo de' fiori. Firpo, Alcuni documenti sulla conversione al cattolicesimo di un eretico lucchese; Sacchini, Historia Societatis Jesu, in Verdigi, S., Beza, lettera a Gwalther, in Pascal, Da Lucca a Ginevra, Monau, lettera a Crato, in Caccamo, “Eretici italiani” Pierro, La vita errabonda di uno spirito inquieto. S., Madonia, S. da Lucca. Altre saggi: “In librum Aristotelis de sensuum instrumentis et de his quae sub sensum cadunt commentarius unus” (Geneva, Crispinum); “Commentariorum in Ethica Aristotelis ad Nicomachum, liber primus” (Geneva, apud Ioannem Crispinum); “Interpretatio eorum quae continentur in praefatione Simonis Simonij Lucensis, Doct. Med. et Philosophiae cuidam libello affixa, cuius inscriptio est: Declaratio eorum quae in libello D. D. Iacobi Schegkii, & c.” (Geneva, Crispinum); “Phisiologorum omnium principiis Aristotelis De anima libri III” (Lipsiae, Võgelin); Anti-schegkianorum liber I, in quo ad obiecta Schegkii respondetur, vetera etiam non nulla, dialectica et phisiologica praesertim, errata eiusdem, male defensa et excusata inculcantur, novaque quam plurima peiora prioribus deteguntur” (Basilea, Perna); “Responsum ad elegantissimam illam modestissimamque praephationem Schegkii, cui titulum fecit Prodromus antisimonii”; “Ad amicum quendam epistola, in qua vere ostenditur, quid causae fuerit, quod responsum illud, quo maledicus, et multis erroribus refertus Schegkij doctoris et professoris Tubingensis liber plene refellitur, nondum in lucem prodierit” (Pariggi, in vico Jacobaeo); “De vera nobilitate” (Lipsiae, Rhamba); “De partibus animalium, proprie vocatis Solidis, atque obiter de prima foetus conformatione” (Lipsiae, Rhamba); “De vera ac indubitata ratione continuationis, intermittentiae, periodorum febrium humoralium” (Lipsiae, Bervaldi); “Artificiosa curandae pestis methodus, libellis duobus comprehensa” (Lipsiae, Steinmann); “Synopsis brevissima novae theoriae de humoralium frebrium natura, periodis, SIGNIS, et curatione, cuius paulo post copiosissima et accuratissima consequentur hypomnemata; annexa eiusdem autoris brevi de humorum differentiis dissertatione. Accessit eiusdem Simonis examen sententiae a Brunone Seidelio latae de iis, quae Jubertus ad axplicandam in paradoxis suis disputavit” (Basilea, Perna); “Historia aegritudinis ac mortis magnifici et generosi domini a Niemsta” (Cracovia, Lazari); “Disputatio de putredine” (Cracovia, Lazari); “Commentariola medica et physica ad aliquot scripta cuiusdam Camillomarcelli SQUARCIALUPI nunc medicum agentis in Transilvania” (Vilna, Velicef); “Simonius supplex ad incomparabilem virum, praeclarisque suis facinoribus de universa republica literaria egregie meritum Marcellocamillum quendam Squarcilupum Thuscum Plumbinensem triumphantem”; “Pars  in qua de peripneumoniae nothae dignitione curationeque in domino a Niemista, de subiecto febris, de rabie canis, de starnutamento, de infecundis nuptiis agitur” (Cracovia, Rodecius); “D. Stephani primi Polonorum regis magnique Lithuaniae ducis vita medica, aegritudo, mors” (Nyssae, Reinheckelii); “Responsum ad epistolam cuiusdam G. Chiakor Ungari, de morte Stephani primi”; “Responsum ad Refutationem scripti de sanitate, victu medico, aegritudine, obitu, D. Stephani Polonorum regis, Olomutii, Scopae, quibus verritur confutatio, quam advocati Nicolai Buccellae Itali chirurgi anabaptistae innumeris mendaciorum, calumniarum, errorumque purgamentis infartam postremo emiserunt (Olomutii, Milichtaler); Appendix scoparum in N. BUCCELLAM, Sacchini, Historiae Societatis Iesu” (Antverpiae, Nutii); Ciampi, “Viaggio in Polonia” (Firenze, Gallett); Lucchesini” (Lucca, Giusti); Tommasi, Sttoria di Lucca” (Firenze, Vieusseaux); Pascal, “Da Lucca a Ginevra. Studi sull'emigrazione religiosa lucchese” -- Rivista storica italiana, Cantimori, “Un italiano a Lipsia” Studi Germanici -- Pierro, La vita errabonda di uno spirito inquieto, Minerva, Torino; Caccamo, “Eretici italiani” (Firenze, Sansoni); Firpo, “Alcuni documenti sulla conversione al cattolicesimo dell'eretico lucchese S.”, “Annali della Scuola normale superiore di Pisa,  Madonia, Rinascimento, Firenze, Sansoni, Madonia, Il soggiorno in Polonia, in «Studi e ricerche I», Verdigi, Lucca, Tiraboschi su S., in Biblioteca Modenese, Modena,  Ciampi, Viaggio in Polonia, Lucchesini, Della storia letteraria del Ducato lucchese,  Tommasi, Sommario della storia di Lucca,  su S. Antischegkianorum liber I. S., De vera nobilitate; S/ Artificiosa curandae pestis methodus. Simone Simoni. Simoni. Keywords: nobilitaà, eretici italiani. Luigi Speranza, “Grice e Simoni” – The Swimming-Pool Library. Simoni.

 

Grice e Simonide: la ragione conversazionale e la filosofia sotto il principato di Valente. la filiale dell’Accademia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Accademia, well known for living a principled and disciplined life. He is, unfortunately, accused of involvement in a plot against the prince VALENTE (si veda).  S.’s refusal to betray any secret lets to him being burnt alive.

 

Grice e Sini: la ragione conversazionale e la filosofia del segno – la scuola di Bologna -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo romagnuolo. Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Sini; especially his “I segni dell’anima,” since this is, in a nutshell, what my philosophy has been all about: the signs of the soul!” Studia a Milano sotto BARIÉ e PACI, con il quale si laurea. Insegna ad Aquila e Milano. Membro per del Collegium phaenomenologicum di Perugia, della Società filosofica italiana e socio dei Lincei, dell'Istituto lombardo di scienze e lettere. Insignito per una sua opera del premio della presidenza del consiglio dello stato italiano. Collabora al Corriere della Sera e la Rai. Dirige per Versorio la collana "Pragmata", membro del comitato scientifico del festival La Festa della Filosofia. Premiato da Milano con l'Ambrogino d'oro. Con Grice, tra i primi a segnalare all'attenzione l'importanza della teoria del segno di Peirce. Propone un filone di ricerca sulla convergenza dei percorsi di Peirce e Heidegger sul filo dell'ermeneutica benché la sua formazione didattica fosse di orientamento prevalentemente fenomenologico. La sua proposta teoretica si concentra sul tema della scrittura e sulla centralità dell' abecedario come forma logica della filosofia nella lingua del Lazio. In “Figure dell'enciclopedia filosofica” rende conto della radicalità del gesto istitutivo di LUCREZIO e della nascita della filosofia romana in modo da illuminare la genealogia della nostra civiltà e le figure del suo destino. Questo saggio si misura con nodi problematici e profondi della nostra cultura. Si mostra la verità del gesto filosofico di LUCREZIO nel tratto tecnologico dell’abecedario che trasforma la relazione al mondo in cosità – “de rerum natura”. La pratica del concetto, infatti, in-forma il paradigma dell'oggettività – “in rerum natura” -- e traduce la sterminate antichità dell'umano all'interno dell'ambito crono-topico della visione logica elaborata dalla scansione dell’abecedario del mondo con la conseguente nascita del tempo e del sapere storico. All'educazione mitologica dei corpi dei uomini si sostituisce l'educazione dei animi nella ri-mozione delle qualità sensibili della vita vissuta. Prima operazione di ingegneria genetica che comporta sia la nascita del soggetto morale nella paideia del bio-politico -- come Nietzsche intuisce -- sia il conseguente destino nichilista rivelato dal dis-incanto. Ma l'intreccio, che dalla pre-istoria conduce ai nostri giorni, rinvia al desiderio e all'iscrizione originaria che danza nelle figure del sesso e della morte. La soglia così dischiusa, annunciata dalla verità analogica dell'evento mimato nella generazione, permette il passaggio del movente desiderante nel desiderio di vita eternal. L’ACCADEMIA e la logica disgiuntiva hegeliana rappresentano i due poli più rilevanti di questa consapevolezza lancinante. Addirittura, tutta la filosofia dell’ACCADEMIA è probabilmente da pensare come la domanda più alta e profonda che sia mai stata posta alla sapienza di BACCO.  E così, dagli ominidi alla società dell'informazione, sul filo delle pratiche che ne circoscrivono le traiettorie, la trama del senso transita al SEGNO disegnando le co-ordinate del nostro tempo e il predominio della visione scientifica e delle sue figure che dileguano la consistenza dell'inter-soggetivito, profilando nel rituale pubblico del potere finanziario, e nella conseguente imposizione dell'universalità oggettiva, un paradosso costitutivo che nasconde nuove e positive opportunità ancora tutte da scoprire -- e attualmente mascherate dalla deleteria mercificazione imperante. Delineando nuove occasioni di senso, le figure dell'enciclopedia invitano a sognare più vero, vale a dire ad abitare la conoscenza filosofica nell'esercizio dell'evento del significato nella concretezza delle sue pratiche. Ethos di una nuova scrittura della soggezione del mortale al desiderio, nell'apertura al transito della vita. Approfondisce la questione del logos -- parola, ragione -- e della tecnica facendo del primo il fondamento ultimo, della seconda l'essenza. Una posizione di rilievo e in controtendenza all´interno del panorama di questa specifica area della filosofia. Altre saggi: “I greci” ((Accademia di Belle Arti, Milano), “La funzione della filosofia” (Marsilio, Padova); “La fenomenologia” (Nigri, Milano); “Storia della filosofia” (Morano, Napoli); “Il pragmatismo (Laterza, Roma); “Segno” (Mulino, Bologna); “Passare il segno” (Saggiatore, Milano); “Kinesis: saggio d'interpretazione (Spirali, Milano)”; “Il metodo” (Unicopli, Milano); “Parola e silenzo” (Marietti, Genova); “Segni dei animi” (Laterza, Bari); “Segno ed immagine” (Spirali, Milano); “Segni dei uomini” (Egea, Milano): “L'espressione e il profondo” (Lanfranchi, Milano)”, Etica della scrittura (Il Saggiatore, Milano, Mimesis, Milano); “Pensare il Progetto” (Tranchida, Milano); “Filosofia teoretica” (Jaca, Milano) Variazioni sul foglio-mondo. Peirce, Wittgenstein, la scrittura” (Hestia, Como), “L'incanto del ritmo” (Tranchida, Milano Filosofia e scrittura (Laterza, Roma); “Scrivere il silenzio: Wittgenstein e il problema del linguaggio” (Egea, Milano); “Teoria e pratica del foglio-mondo (Laterza, Roma-Bari) Gli abiti, le pratiche, i saperi (Jaca, Milano) Scrivere il fenomeno: fenomenologia e pratica del sapere (Morano, Napoli) Ragione (Clueb, Bologna) Idoli della conoscenza (Cortina, Milano La libertà, la finanza, la comunicazione (Spirali, Milano) La scrittura e il debito: conflitto tra culture e antropologia” (Jaca, Milano); “Il comico e la vita” (Jaca, Milano); “Figure dell'enciclopedia filosofica. Transito verità” (Jaca, Milano), “L'analogia della parola: filosofia e metafisica;  La mente e il corpo: filosofia e psicologia; Origine del significato: filosofia ed etologia; La virtù politica: filosofia e antropologia; Raccontare il mondo: filosofia e cosmologia; Le arti dinamiche: filosofia e pedagogia  La materia delle cose: filosofia e scienza dei materiali (Cuem, Milano); “La verità e la vita” (Ghibli, Milano) Del viver bene: filosofia ed economia (Cuem, Milano); “Distanza un segno: filosofia e semiotica” (Cuem, Milano); “Il gioco del silenzio (Mondadori, Milano); “Il segreto di Alicia” (AlboVersorio, Milano); “Eracle al bivio: semiotica e filosofia” (Bollati Boringhieri, Torino); “Da parte a parte. Apologia del relativo (ETS, Pisa) L'uomo, la macchina, l'automa: lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto (Boringhieri, Torino) L'Eros dionisiaco (Versorio, Milano); “Figure d'Occidente” (Versorio, Milano); “La nascita di Eros” (Versorio, Milano); “Spinoza” (Time, Milano ); Redaelli, Il nodo dei nodi. L'esercizio della filosofia” (Ets, Pisa); “Il filosofo e le pratiche. In dialogo con S. (E.Redaelli,  BrovelliCrippa, Valle,  Redaelli), Milano, CUEM. Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di S., Milano, Mimesis.  Cristiano, La filosofia di S.: semiotica ed ermeneutica  (Milano, Mimesis) Collana Pragmata, in AlboVersorio, Cfr. Copia archiviata, su unimi). Logos e techne, tecnologia e filosofia, S. Noema, Treccani Enciclopedie o Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Nòema la rivista di filosofia diretta da Fabbrichesi e S., su riviste. Archivio S. il luogo ove i materiali relativi ai corsi di S. ed altro ancora. Lectio Magistralis di S. su La Différance, Arcoiris TV, Riflessioni sul Senso della Vita. Intervista di Nardi,  Riflessioni Collana Pragmata, Versorio. Carlo Sini. Sini. Keywords: segno, da Lucrezio a Cicerone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Siracusa: all’isola – la ragione conversazionale del tutore di filosofia del principe ai bagni di Pozzuoli – la scuola di Siracusa -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Grice: “We know William is from Ockham but we call him Ockham, not William; similarly, Alcaldino is from Siracusa, and I call him Siracusa!” Vissuto vicino alla corte degl’Hohenstaufen. Studia a Salerno. Si cimenta negli studi di filosofia, raccogliendo attorno a sé una serie di seguaci. Quindi, in seguito alla conclusione del corso regolare degli studi, e scelto per fare da insegnante filosofia presso la stessa scuola salernitana.  Divenuto uno dei più stimati filosofi della scuola, e chiamato alla corte d’Enrico VI , che nel frattempo è entrato in possesso del regno di Sicilia, ed e assunto come filosofo del sovrano. Dopo la morte d’Enrico, divenne il filosofo  di lui figlio, Federico II, che lo rese degno di confidenza e apprezzamento. Fra gl’attività legate ai saggi filosofici, scrive e un saggio sui bagni minerali di Pozzuoli, il “De balneis puteolanis”. In questo poema filosofico rimato vengono descritti con precisione il luogo, le qualità e le virtù dei suddetti bagni. Scrive inoltre II opere nelle quali celebra le gesta d’Enrico VI e Federico II. “De triumphis Henrici imperatoris de his quae a Friderico II imperatore praeclare ac fortifer gesta sunt”. Panvini di S. Caterina Salvatore De Renzi, Panvini di S. Caterina, Biografia degl’uomini illustri della Sicilia, Ortolani, Napoli, S. De Renzi, “Storia documentata della scuola medica di Salerno” (Napoli). Alcaldino di Siracusa. Siracusa. Keywords: i bagni di Pozzuoli. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Siracusa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Sirenio: la ragione conversazionale del ‘libero’ arbitrio – la scuola di Brescia. filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Brescia, Lombardia. Insegna a Bologna. Altri saggi: De fato, Venezia, Ziletti. H. P. Grice, “Sugar-gree”, free fall and freedom, in Actions and events. Sirenio. Keywords: libero arbitrio, contingetia, possibilitas, necessitas, ‘secundum philosophorum opinionem” fatum, casum, il fato, il caso -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Sirenio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Siro: la ragione conversazionale dell’orto a Napoli – Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo italiano. Napoli, Campania. S. founds a fililale of L’ORTO at Napoli. VIRGILIO attends it, as does ORAZIO. L’ORTO enjoys a great success, as S. succeeds in attracting a number of influential followers. VIRGILIO lives in the casino of L’ORTO -- but the subsequent fate of The Garden is unknown.

 

Grice e Sisenna: la ragione conversazionale dell’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He achieves acclaim as a historian. Cicerone suggests that S. is a member of L’ORTO, ‘but not a very consistent one.’ Lucio Cornelio Sisenna.

 

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